Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
LA GIUSTIZIA
SETTIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le condanne.
Cucchi e gli altri.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Massimo Bossetti è innocente?
Il DNA.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Colpevoli per sempre.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Morire di TSO.
Parliamo di Bibbiano.
Nelle more di un divorzio.
La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
L’alienazione parentale.
La Pedofilia e la Pedopornografia.
Gli Stalker.
Scomparsi.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?
La Giustizia non è di questo Mondo.
Magistratura. L’anomalia italiana…
Il Diritto di Difesa vale meno…
Figli di Trojan: Le Intercettazioni.
A proposito della Prescrizione.
La giustizia lumaca e la Legge Pinto.
A Proposito di Assoluzioni.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Verità dei Ris
Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.
Le Mie Prigioni.
I responsabili dei suicidi in carcere.
I non imputabili. I Vizi della Volontà.
Gli scherzi della memoria.
Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.
La responsabilità professionale delle toghe.
Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Adolfo Meciani.
Alessandro Limaccio.
Daniela Poggiali.
Domenico Morrone.
Francesca Picilli.
Francesco Casillo.
Franco Bernardini.
Gennaro Oliviero.
Gianni Alemanno.
Giosi Ferrandino.
Giovanni Bazoli.
Giovanni Novi.
Giovanni Paolo Bernini.
Giuseppe Gulotta.
Jonella Ligresti.
Leandra D'Angelo.
Luciano Cantone.
Marcello Dell’Utri.
Mario Marino.
Mario Tirozzi.
Massimo Luca Guarischi.
Michael Giffoni.
Nunzia De Girolamo.
Pierdomenico Garrone.
Pietro Paolo Melis.
Raffaele Chiummariello.
Raffaele Fedocci.
Rocco Femia.
Sergio De Gregorio.
Simone Uggetti.
Ugo de Flaviis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’uso politico della giustizia.
Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.
Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Avvocati specializzati.
Le Toghe Candidate.
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Le Intimidazioni.
Palamaragate.
Figli di Trojan.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Magistratopoli.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giornalistopoli.
Le Toghe Comuniste.
Le Toghe Criminali.
I Colletti Bianchi.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della Moby Prince.
Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.
L’affaire Modigliani.
L’omicidio di Milena Sutter.
La Vicenda di Sabrina Beccalli.
Il Mistero della morte di Christa Wanninger.
Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.
Il Mistero di Marta Russo.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero delle Bestie di Satana.
Il Mistero di Charles Sobhraj.
Il Mistero di Manson.
Il Caso Morrone.
Il Caso Pipitone.
Il Caso di Marco Valerio Corini.
Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.
Il Caso Claps.
Il Caso Mattei.
Il Mistero di Roberto Calvi.
Il Mistero di Paola Landini.
Il Mistero di Pietro Beggi.
Il Mistero della Uno Bianca.
Il Mistero di Novi Ligure.
Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.
Il mistero del delitto del Morrone.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Mistero del Mostro di Milano.
Il Mistero del Mostro di Udine.
Il Mistero del Mostro di Bolzano.
Il Mistero della morte di Luigi Tenco.
Il Giallo di Attilio Manca.
Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.
Il Mistero dell’omicidio Varani.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il Mistero di Viviana Parisi.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il Mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Cranio Randagio.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.
Il Mistero di Saman Abbas.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.
Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.
Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.
Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.
Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.
Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.
Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.
Il Mistero di Roberto Straccia.
Il Mistero di Carlotta Benusiglio.
Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.
Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.
Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.
Il Giallo di Sebastiano Bianchi.
Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.
Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il Mistero della "Signora in rosso".
Il Mistero di Polina Kochelenko.
Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.
Il Mistero di Giulia Maccaroni.
Il Mistero di Tatiana Tulissi.
Il Mistero delle sorelle Viceconte.
Il Mistero di Marco Perini.
Il Mistero di Emanuele Scieri.
Il Mistero di Massimo Manni.
Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.
Il Mistero di Bruna Bovino.
Il Mistero di Serena Fasan.
Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.
Il Mistero della morte di Vittorio Carità.
Il Mistero della morte di Massimo Melluso.
Il Mistero di Francesco Pantaleo.
Il Mistero di Laura Ziliani.
Il Mistero di Roberta Martucci.
Il Mistero di Mauro Romano.
Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Il Mistero di Wilma Montesi.
Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.
Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.
Il Mistero di Maurizio Gucci.
Il Mistero di Maria Chindamo.
Il Mistero di Dora Lagreca.
Il Mistero di Martina Rossi.
Il Mistero di Emanuela Orlandi.
Il Mistero di Gloria Rosboch.
Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".
Il Mistero del delitto di Garlasco.
Il Mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.
Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.
Il giallo di Stefano Ansaldi.
Il Giallo di Mithun.
Il Mistero di Stefano Barilli.
Il Mistero di Biagio Carabellò.
Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.
Il Caso Imane.
Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Simonetta Cesaroni.
Il Mistero di Serena Mollicone.
Il Mistero di Teodosio Losito.
Il Caso di Antonio Natale.
Il Mistero di Barbara Corvi.
Il Mistero di Roberta Ragusa.
Il Mistero di Roberta Siragusa.
Il Caso di Niccolò Ciatti.
Il Caso del massacro del Circeo.
Il Caso Antonio De Marco.
Il Giallo Mattarelli.
Il Giallo di Bolzano.
Il Mistero di Luca Ventre.
Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.
Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.
Il Mistero di Federico Tedeschi.
Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.
Il Mistero di Gianmarco Pozzi.
Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della strage di Bologna.
LA GIUSTIZIA
SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Magistratopoli.
«Complici di Palamara». La conferma del Csm: il sistema esiste. Depositate le motivazioni della sospensione dei cinque ex consiglieri presenti alla famosa cena all’Hotel Champagne: per i sei giudici della sezione disciplinare tutti avrebbero agito nella piena consapevolezza del disegno guidato da Palamara. Simona Musco su Il Dubbio il 10 dicembre 2021. Con il loro comportamento, i cinque ex togati del Csm sospesi dalla funzione per aver partecipato alla famosa cena all’Hotel Champagne avrebbero non solo trasgredito le regole, ma anche «prodotto una grave lesione dell’affidamento che l’ordinamento e la collettività necessariamente devono riporre in coloro che sono chiamati a svolgere quella funzione costituzionalmente prevista, al fine di preservare al meglio la funzione giurisdizionale cui è preposto l’ordine giudiziario». A dirlo è la sezione disciplinare del Csm, che lunedì scorso ha depositato le motivazioni della decisione con la quale lo scorso 14 settembre ha disposto la sospensione di un anno e mezzo per Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Luigi Spina e di nove mesi per Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli. Una decisione arrivata dopo la conferma della radiazione dall’ordine giudiziario inflitta a colui che per tutti è il grande manovratore, quel Luca Palamara che per la Corte di Cassazione avrebbe agito da solo e per vendetta. La decisione del Csm, però, si muoverebbe in senso opposto: un sistema esiste, se è vero com’è vero che per i sei giudici della sezione disciplinare tutti avrebbero agito nella piena consapevolezza del disegno che vedeva come principale manovratore Palamara, con l’intenzione di «interferire in segreto sulla libera formazione del convincimento dei componenti del Consiglio superiore della magistratura rimasti estranei alla discussione, come pure dei candidati al posto di procuratore della Repubblica di Roma, in riferimento a loro eventuali revoche delle domande presentate».
Insomma: avrebbero arrecato «un sicuro pregiudizio alle funzioni proprie dell’organo di rilevanza costituzionale che (…) in prima persona, avevano essi stessi innanzitutto l’obbligo giuridico di preservare». Secondo l’accusa, Palamara pianificò attività per condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è, appunto, la cena del 9 maggio 2019, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip, e il parlamentare Cosimo Ferri. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, indicando il pg di Firenze Marcello Viola come il favorito.
Il collegio disciplinare pone in evidenza proprio la presenza di Lotti: le conversazioni intercettate dal trojan inoculato sul telefono di Palamara dimostrerebbero, infatti, come «il parlamentare partecipasse alla riunione non in veste istituzionale – si legge – ma allo scopo di influenzare, o almeno mostrarsi capace di influenzare i lavori del Consiglio mediante un utilizzo strumentale della propria carica e delle proprie conoscenze». Un’intenzione che emergerebbe con chiarezza dalle conversazioni e che «non poteva non risultare parimenti cristallina agli occhi degli interlocutori, ed anche di coloro che assumono aver avuto una conoscenza solo superficiale dell’onorevole Lotti».
I consiglieri presenti, dunque, «non solo mostrano di ricevere tranquillamente i suggerimenti e le offerte di intervento del parlamentare – senza manifestare in alcun momento, né la volontà di dissociarsene, né di respingere l’ingerenza nel funzionamento della vita consiliare da parte di un soggetto esterno, ma neppure meravigliandosene -, ma addirittura manifestano ringraziamento ed incitazione». Comportamenti che avrebbero effetti di «estrema gravità» anche «sulla stima del singolo magistrato e sulla fiducia nel suo operato di appartenente all’ordine giudiziario». Per la sezione disciplinare, i cinque consiglieri avevano un «notevole livello di consapevolezza (…) in ordine alla riprovevolezza che siffatti comportamenti potevano avere, trattandosi proprio di magistrati prescelti elettivamente nella loro funzione per attuare l’ordinamento giudiziario».
Sarebbe stato Spina il consigliere ad avere «maggiore intensità di rapporti con il dottor Palamara, con il quale manifesta una piena e consapevole comunione di intenti e del quale, nella vicenda, si pone come una sorta di longa manus ». Nessun dubbio, da parte del Csm, sulla sua «piena responsabilità», essendo del tutto evidente «una partecipazione consapevole e diretta alla perpetrazione di una illecita strategia che si andava delineando e che mirava deliberatamente ad incidere sulla libera formazione della volontà» del Csm, con lo scopo di «assecondare disegni estranei alle responsabilità consiliari, per di più anche evidentemente asserviti alle intenzioni di chi aveva un concreto interesse nella scelta dell’organo requirente presso il quale era stato indagato e imputato». Anche Morlini, secondo la sezione disciplinare, «condivideva pienamente l’occulto obiettivo strategico dei partecipanti alla riunione: quello di far nominare procuratore di Roma il dottor Viola». Così il suo sostegno a Giuseppe Creazzo sarebbe stato solo di facciata e destinato «a venir meno subito dopo il voto in Commissione, anche sulla base del lavoro di diplomazia di una parte della corrente di riferimento, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto adoperarsi per indurre il dottor Creazzo a revocare la domanda». Da parte sua, dunque, ci sarebbe stata «piena partecipazione ed effettiva e consapevole adesione agli illeciti propositi».
E pienamente partecipe sarebbe stato anche Lepre, «essendo anche in questo caso evidente non solo la consapevolezza e volontà di adottare un comportamento connotato da un notevole grado di scorrettezza, ma anche di agire, peraltro in violazione dell’obbligo di segreto e del dovere di riserbo, turbando deliberatamente la trasparente e libera formazione della volontà dell’organo al quale apparteneva». Partecipe silente sarebbe stato, nell’ottica della difesa, Criscuoli, ma tale circostanza, per la sezione disciplinare, non certificherebbe la sua estraneità alle manovre relative alla nomina del procuratore di Roma: «Posto che, quando gli altri procedono alla conta dei voti a favore del dottor Viola, quello del dottor Criscuoli viene sempre annoverato senza che quest’ultimo abbia qualcosa da ridire a riguardo, deve escludersi che sia rimasto silente per tutto il corso della riunione», dando per scontato che l’unica voce non identificata non potesse che essere la sua. Infine, per quanto riguarda Cartoni, «l’elevato livello di confidenzialità» con Lotti «emerge da una serie di scambi, da cui si desume che l’incolpato forniva al primo informazioni di vita consiliare, anche relative alla Sezione disciplinare, affinché il parlamentare le utilizzasse al fine di assoggettare il vicepresidente Ermini alla loro sfera di influenza (benché quest’ultimo non vi si prestasse). Si tratta dunque, anche in questo caso, di una consapevole partecipazione a quell’evento».
FAVORI IN PROCURA A TORINO. CHIESTI 3 ANNI DI CARCERE PER L’EX PM PADALINO: “HA DISONORATO LA TOGA”. Il Corriere del Giorno il 9 Novembre 2021. Al centro dell’indagine ci sono un giro di favori e prebende che erano emersi nel 2018 facendo finire nei guai il magistrato Padalino che si era contraddistinto per le indagini sui No Tav e ancor prima come gip di Milano nel periodo delle inchieste “Mani Pulite”. Secondo la procura di Milano, l’ex pm Andrea Padalino oggi giudice civile a Vercelli, ha “disonorato la toga” e commesso il reato di corruzione in atti giudiziari. Questa la motivazione della richiesta dei pm Laura Pedio ed Eugenio Fusco della procura di Milano al processo con rito abbreviato alla “cricca dei favori” che si sta celebrando nel capoluogo lombardo. Accuse che sono state sempre respinte con forza dalla difesa dell’ex magistrato e degli altri protagonisti. Al centro dell’indagine ci sono un giro di favori e prebende che erano emersi nel 2018 facendo finire nei guai il magistrato Padalino che si era contraddistinto per le indagini sui No Tav e ancor prima come gip di Milano nel periodo delle inchieste “Mani Pulite”. Cene, viaggi e trattamenti di favore, oltre a fascicoli trattati con corsie preferenziali a seconda delle situazioni che erano finiti nel calderone di una maxi inchiesta trasferita per competenza da Torino a Milano. Per questo oltre a loro, l’accusa ha chiesto la condanna a 2 anni e 10 mesi per l’oculista Raffaele Nuzzi e a 2 anni e 8 mesi per il carrozziere Angelo Morello. L’indagine è partita da Torino e rappresenta la parte più spinosa, dell’inchiesta che ha smascherato la cosiddetta “cricca dei favori”: un sistema basato su piccole e grandi prebende che coinvolgeva l’appuntato Dematteis e un noto penalista (ora deceduto). I magistrati hanno ricostruito il rapporto tra gli indagati e svelato un romanzo clientelare di piccoli e grandi favori. Alcuni dei quali coinvolgerebbero anche il pm Padalino, per il quale ora è stata chiesta la condanna. I pubblici ministeri milanesi accusano l’ex gip di “Mani Pulite” di abuso d’ufficio e di tre episodi di corruzione. Tra i casi più eclatanti ricordati in aula c’è la vicenda che mette in luce i rapporti tra Padalino (difeso dall’avvocato Massimo Di Noia) e Pettinicchio. I fatti risalgono all’autunno del 2017, quando l’ex finanziere deve affrontare il processo di appello dopo la condanna in primo grado. In quella circostanza, Padalino si sarebbe reso disponibile a dare una mano “fornendo informazioni con modalità riservate il suo supporto e il suo consiglio” come riportato nel capo d’imputazione, in incontri a Roma e Torino. Negli atti dell’indagine sono presenti delle fotografie che immortalano il magistrato in “gita” sul lago D’Orta e altre immagini che documentano una cena a Villa Crespi ospite dello chef stellato Antonino Cannavacciuolo: secondo l’accusa, le cene ed il weekend gratis sarebbero stati la ricompensa per i “suggerimenti” legali forniti al Pettinicchio. La pena più alta 4 anni di carcere è stata chiesta per l’ex finanziere Flavio Pettinicchio sospeso dal servizio per essere stato condannato per alcuni reati connessi a un giro di prostituzione, mentre 3 anni e sei mesi sono stati chiesti per Renato De Matteis, il carabiniere inserito nella squadra di polizia Giudiziaria del pm, insieme al maresciallo Cesare Amori, per i quali sono stati chiesti sei mesi. Il processo è stato rinviato al 18 novembre, quando a parlare saranno le difese.
Caro Davigo, ma non pensa che lo scandalo “toghe sporche” abbia minato la credibilità della magistratura? Il controllo sulla magistratura è inadeguato perché consente la segretazione delle archiviazioni disciplinari. Parla Rosario Russo, già sostituto procuratore presso la Corte di Cassazione. Il Dubbio il 7 novembre 2021. Spiace non potere condividere i dati e le considerazioni contenuti nel rassicurante articolo pubblicato il 29 ottobre 2021 sul giornale a firma del dottor Pier Camillo Davigo, per le seguenti ragioni.
1. In primo luogo, per contestare il generale compiacimento palesato dal dottor Davigo sull’attuale stato della Magistratura, basta rammentare che, secondo il rapporto 2020 della Commissione europea per l’efficacia della giustizia ( CepeJ) da lui citato, su ventisei Paesi europei la giustizia civile italiana è censita al penultimo posto quanto a procedimenti pendenti ed è stata la più lenta nel 2018.
2. Inoltre Davigo ha esaltato, con la laboriosità e la correttezza dei giudici italiani, anche l’efficacia del sistema disciplinare che li riguarda. Qui il dato statistico è importante. Con riferimento al periodo 2012- 2018 ( sette anni) mediamente il Procuratore Generale presso la Suprema Corte ha ogni anno archiviato n. 1264 notizie disciplinari ed esercitato n. 116 azioni disciplinari. Nel 2020 soltanto in 24 casi ( pari al 21,9% di tutte le 114 incolpazioni) l’azione disciplinare si è conclusa con la condanna dei magistrati inquisiti. L’effettiva portata di tali archiviazioni non si comprende se non si tiene conto di due circostanze, sfuggite al dottor Davigo.
In primo luogo, il Procuratore generale ha il dovere di agire disciplinarmente, ma le sue archiviazioni passano al vaglio ( non del Consiglio Superiore della Magistratura, ma) soltanto del ministro della Giustizia, il quale ha la facoltà, ma non il dovere, di opporsi ( art. 107, 2° Cost.). Consegue che, a differenza di quanto avviene nel processo penale, il Pg astrattamente ha il potere, giuridicamente insindacabile, di ‘ insabbiare’ qualunque notizia disciplinare con il tacito consenso del ministro: e, come si è osservato, si tratta mediamente di 1264 archiviazioni annue.
In secondo luogo, e come se non bastasse, con proprio editto n. 44 del 2019 il Pg ha stabilito autonomamente che, a differenza di quella penale (art. 116 c. p. p.), l’archiviazione disciplinare non può essere comunicata al cittadino (o all’avvocato) che ha segnalato l’abuso disciplinare del magistrato, riservandosi il potere di interdirne la conoscenza anche al magistrato indagato, all’Anm e perfino al Csm. Non è così in altri più trasparenti ordinamenti giuridici, ma anche in altri settori del nostro. Infatti, nel procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati e dei giudici amministrativi, al cittadino denunciante è sempre comunicato integralmente il provvedimento di archiviazione. Le 1264 archiviazioni annue emesse mediamente dal Pg nel settennio 2012- 2018 costituiscono dunque un absurdissimum «buco nero».
3. Ma stupisce ancor di più che il dottor Davigo opponga che talune proposte di riforma del sistema disciplinare insidiano l’indipendenza dei magistrati, senza proporne alcuna, come se lo scandalo delle Toghe Sporche non fosse sopravvenuto. Eppure, avendo inizialmente partecipato al giudizio disciplinare nei confronti del dottor Palamara, nessuno meglio di lui dovrebbe sapere che quella indipendenza molti tra i magistrati più impegnati in sede associativa hanno tradito, attuando da anni il sistema clientelare e spartitorio. Il dottor Luca Palamara ha rivendicato – e rivendica – di avere ‘ gestito’, anche quale membro togato del Csm, le ‘ raccomandazioni’ con cui tanti magistrati ordinari imploravano ( e assai spesso) ottenevano promozioni e trasferimenti. Pubblicamente – e in sede giudiziaria – egli ha proclamato di avere ‘ mediato’ tra le correnti dell’Anm, con i membri laici del Csm e con i partiti politici; che si è fatto sempre così e così è giusto che sia, anche se – come non teme di ammettere – il suo ‘ sistema’ pregiudicava i magistrati più meritevoli. Ebbene dopo due anni, radiato dalla magistratura e dall’Anm il «sommo sensale» ( ma soltanto per la cospirazione consumata nella «notte della magistratura» ), egli e i magistrati da lui ‘ raccomandati’, istigatori e utilizzatori finali dei gravi abusi d’ufficio perpetrati, non sono stati sanzionati né in sede disciplinare e associativa né penalmente!
È questa l’indipendenza che sta a cuore del dottor Davigo? Sembra esaustiva sul tema la delibera approvata dal Consiglio Superiore della Magistratura il 13 gennaio 2021 su una pratica avviata per incompatibilità ambientale o funzionale. Su di essa ha riferito il Consigliere Di Matteo, affermando testualmente che: «dall’analisi della messaggistica WhatsApp e di conversazioni intercorse fra il dottor Liguori [nr. Procuratore della Repubblica di Terni] e il dottor Palamara, emerge l’esistenza di un rapporto particolarmente confidenziale tra i due, tale da consentire al dottor Liguori di manifestare in un primo momento il proprio disappunto per la proposta di nomina del dottor Carpino quale Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza effettuata dalla Quinta Commissione» ; – «nel momento in cui si ebbe notizia della proposta della Quinta Commissione, il dottor Liguori si lamentava con il dottor Palamara dicendo ‘ così non va’ e sottolineando anche che quella scelta avrebbe comportato per il gruppo di riferimento una perdita di almeno 25 voti su 39 nel circondario di Cosenza»; sull’altra concorrente, la dottoressa Lucente, il dottor Palamara comunicava al dottor Liguori il raggiungimento di un accordo con la componente togata dei consiglieri in quota ad altro gruppo associativo, in base al quale la dottoressa Lucente sarebbe stata proposta su un altro posto vacante di Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza» ; – «le conversazioni sono state oggetto di pubblicazione sulla testata La Verità ».
Il Plenum del Csm ha disposto l’archiviazione della pratica perché «La propalazione di conversazioni provenienti da un magistrato che lavora in Umbria sulle proposte di nomina di un posto semidirettivo in Calabria non appare determinare, anche in astratto, un appannamento al corretto esercizio della funzione di Procuratore della Repubblica di Terni». Il dottor Davigo, e forse anche il lettore, potrà convenire sul fatto che: – l’indipendenza e l’imparzialità – al pari della correttezza disciplinare – sono attributi personali del magistrato e, al pari della sua reputazione, non hanno perciò confini territoriali; dovunque residenti, gli Utenti finali del servizio Giustizia non possono confidare nell’imparzialità e nella correttezza di un P. R., se apprendono dal giornale che egli abbia illegittimamente patrocinato la nomina dell’amicus, in danno di altro candidato non raccomandato ( il dottor Nessuno), ad un ufficio giudiziario messo a concorso, ovunque esso sia ubicato; – ai sensi della Circolare deliberata dal Csm il 26 luglio 2017, il Plenum avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Procuratore Generale, avendo ravvisato la violazione disciplinare di cui all’art. 2, 1° lett. d) del D. lgs. n. 109 del 2006; – nessuno dei ventitré pubblici ufficiali che hanno approvato la delibera ha rilevato che i fatti esaminati potevano integrare il reato di abuso aggravato d’ufficio ( artt. 110 e 323, 1° e 2° c. p.), sicché avevano l’obbligo di farne denuncia all’Autorità giudiziaria: non è dato comprendere perché soltanto gli illeciti accordi per l’assegnazione di talune cariche pubbliche ( tipicamente quelle universitarie) sono sanzionati penalmente… proprio dai magistrati!
4. In conclusione, il controllo sulla magistratura ordinaria è fortemente inadeguato se consente la segretazione delle archiviazioni disciplinari, pertanto rimesse alla incontrollabile discrezione del Pg, e se è capace di produrre una deliberazione liberatoria come quella adottata dal Csm il 13 gennaio 2021. A differenza dello scandalo di Mani Pulite, quello delle Toghe Sporche, invece di provocare l’epurazione, è stato fin qui sopito e assorbito. La colonna vertebrale dello Stato, cioè la Magistratura, è stata ritenuta troppo importante per soccombere alla propria domestica scelleratezza ( too big to fail: troppo grande per crollare). In questo senso quello proclamato da Palamara sarà destinato a perpetuarsi come vivente e vincente "Sistema", se quanto prima non venga radicalmente riformato, ovviamente nel pieno rispetto dell’indipendenza della Magistratura.
Congresso di Area: trovato il responsabile. Magistratura nel caos, per le toghe di Area il responsabile è l’ex ministro Castelli…Paolo Comi su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Roberto Castelli, ingegnere meccanico specializzato nel controllo del rumore nelle aziende, brianzolo doc di Lecco, ministro della Giustizia nel secondo e nel terzo governo Berlusconi, leghista di stretta osservanza fin dalla prima ora: è lui il principale “responsabile” della perdita di fiducia dei cittadini nella magistratura italiana e dei recenti scandali che hanno travolto il Consiglio superiore della magistratura. Ad iniziare, ovviamente, dal “Palamaragate” che ha avuto l’effetto di determinare le dimissioni di ben sei componenti togati a Palazzo dei Marescialli e di far espellere con ignominia dalla magistratura Luca Palamara, ex zar delle nomine e degli incarichi. Cosa aveva fatto di così terribile Castelli? Aveva messo la firma su due riforme “sciagurate” per le toghe: l’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi e la modifica del sistema elettorale del Csm, con la previsione del maggioritario uninominale. Fortemente voluto nel 2001 da Umberto Bossi a via Arenula, pur senza alcuna competenza giuridica, Castelli avrebbe allora portato nel pantano la magistratura. Erano quelli anni di scontri furiosi fra politica e toghe. I commentatori ricordano sempre le “leggi ad personam” approvate in quel periodo dal Parlamento perché il premier Silvio Berlusconi, sotto procedimento penale un giorno sì e l’altro pure, era alla disperata ricerca di scappatoie per uscire dal gorgo giudiziario in cui l’avevano precipitato. Non è dato sapere se anche alla base di queste due riforme ci fossero i guai giudiziari di Berlusconi. Fatto è che, come ricordato ieri a Cagliari dal pm romano Eugenio Albamonte, segretario generale di Area, nella relazione di apertura del terzo congresso nazionale della magistratura progressista, queste due riforme hanno stravolto la magistratura, favorendo le migliori condizioni per la cena dell’hotel Champagne dove si doveva scegliere il nuovo procuratore della Capitale. Albamonte ne ha ricostruito gli effetti micidiali. Fino al 2002, anno dell’introduzione della temporaneità degli incarichi direttivi, i magistrati venivano nominati a capo di una Procura o di un Tribunale per anzianità. Era sufficiente aspettare il proprio turno per essere nominati dal Csm. Non bisognava fare assolutamente nulla: il magistrato, infatti, doveva solo non avere “demeritato”. Con Castelli l’anzianità lasciò il campo al merito. Ma le conseguenze furono deleterie. La temporaneità degli incarichi mise in moto il “carrierismo sfrenato” dei magistrati che pur di prendere una nomina diventarono pronti a tutto. La dirigenza venne intesa come “privilegio”, con la creazione di carriere parallele di toghe che saltavano da un incarico all’altro, senza soluzione di continuità. Una casta nella casta. Le chat di Luca Palamara hanno messo plasticamente in luce le pressioni, le raccomandazioni, e le contro raccomandazioni per raggiungere l’agognato incarico. E qui si innesta l’altra riforma, varata nel 2006, del sistema elettorale del Csm. Tale riforma ha dato un potere senza precedenti alle correnti della magistratura che iniziarono dunque a scegliere i candidati per Palazzo dei Marescialli, supportando poi la loro elezione. Il collegio unico nazionale rese impossibile per un magistrato candidarsi senza l’aiuto del gruppo associativo. I togati eletti al Csm erano così in uno stato di sudditanza nei confronti dei capi delle correnti che avevano garantito la loro elezione. La forte concentrazione di potere determinò un rapporto strettissimo fra eletto ed il suo sponsor. Il Palamara di turno. Il clientelismo, con la logica di mutualità e scambio fu l’inevitabile punto di arrivo e riguardò tutti. Nessun gruppo associativo, ha ricordato Albamonte, può tirarsi fuori da questo sistema. Come uscirne? Albamonte non ha la soluzione in tasca. Ed ha rivolto un appello alla politica e al ministro della Giustizia Marta Cartabia. La nemesi: la magistratura che chiede aiuto alla tanta vituperata politica. «Il legislatore metta mano alle riforme prima delle elezioni per il rinnovo del Csm (previste per il prossimo anno, ndr): è in gioco la sua sorte. Un Csm eletto con l’attuale sistema sarebbe delegittimato fin dal primo giorno», ha puntualizzato Albamonte. È importante che il Csm «torni ad essere custode dell’autonomia e indipendenza» delle toghe, occupando il posto che la Costituzione gli ha assegnato. La Guardasigilli, nel suo indirizzo di saluto al congresso di Area, ha tranquillizzato Albamonte annunciando che nei prossimi mesi «sarà fatta la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario», ma “la fiducia” nei confronti delle toghe da parte del cittadino è stata logorata. Per questo, ha affermato la ministra «non confidiamo in un effetto taumaturgico delle riforme, che di certo servono, ma occorrerà un lavoro in cui ciascuno, goccia a goccia, porta il suo fardello». Se Albamonte ha chiesto aiuto alla politica, la ministra ha allora chiesto aiuto alle toghe: «Sarà decisivo anche il processo di autoriforma che è già in atto nella magistratura». I «fatti sconcertanti ci sono, ma – ha sottolineato ancora Cartabia – non devono distogliere lo sguardo dal lavoro di numerosi magistrati che operano nel loro quotidiano». Oggi il congresso prevede due appuntamenti importanti. Il primo dedicato proprio alle riforme alla rifondazione etica della magistratura con gli interventi di Giulia Bongiorno, del togato Giuseppe Cascini, del professore di diritto costituzionale dell’Università di Torino Enrico Grosso, della vice presidente del Senato Anna Rossomando, del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, e del sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Il secondo, invece, sulle ragioni del no delle toghe progressiste ai referendum sulla giustizia. Domani, infine, conclusione dei lavori. Paolo Comi
Giuseppe Legato per "La Stampa" il 16 settembre 2021. È un addio amaro. «Avevo più titoli io. Sono deluso da questo mondo e quindi vado via. A queste condizioni non ci sto». Da ieri Massimo Terzi, 65 anni, non è più il presidente del Tribunale di Torino, ma non è più neanche un togato. Si è dimesso da tutto, quindi anche dalla magistratura andando in pensione in anticipo di 5 anni rispetto alla reggenza che la sua età gli avrebbe consentito di ricoprire dentro il mondo della giustizia. Ha sbattuto la porta lasciandosi alle spalle un mondo per cui per decenni ha prestato servizio nei vari ruoli ricoperti, ultimo quello a capo dell'ufficio torinese. Il motivo è chiaro e noto anche se non se ne troverà traccia nella domanda inviata un mese fa - e ieri accolta - al plenum del Csm. Terzi si è sentito estraneo a un contesto che per decenni lo ha visto al lavoro. Tradito - a suo avviso - da meccanismi di merito e di riconoscimento di competenze che pure è convinto di aver dimostrato nel tempo di possedere. «Ho fatto 17 anni di ruoli direttivi e mi hanno preferito un altro che non aveva questi numeri. Cosa dovrei pensare?». La mancata nomina a presidente della Corte d'Appello di Milano è il punto finale di un disagio che in parte aveva confidato a pochissimi diventato ferma decisione dopo la bocciatura avvenuta a giugno. Per anzianità e per titoli appariva il candidato favorito per ottenere quell'incarico rimasto vacante dall'agosto 2020, ma il Consiglio superiore della magistratura gli aveva preferito Giuseppe Ondei. Pur senza attaccare mai il rivale, in privato, non aveva omesso di ricordare ad alcuni colleghi come «il tempo trascorso a dirigere uffici non potesse non essere tenuti in considerazione» nella scelta lasciando aperto più di un dubbio sul ruolo giocato dalle correnti togate. I tempi, i modi e le ragioni con cui è maturata questa scelta, propendono nettamente per rafforzare un personale interrogativo che riaprirà la ferita all'interno della magistratura dopo lo scandalo che ha travolto il Csm negli ultimi tempi. Ondei, 60 anni, già vicario della Corte d'appello di Milano, era il candidato "interno" a ricoprire quel ruolo dopo aver guidato una delle sezioni penali prima a Brescia (dove era stato anche presidente) e poi nella stessa Milano. Terzi invece era già alla guida del Tribunale di Torino dal 2015 e prima ancora aveva diretto l'ufficio giudiziario di Verbania distinguendosi per una riforma dei meccanismi del processo civile intrisi di lungaggini e di burocrazie. Fu pionieristica - rispetto ai tempi - la sua scelta di portare i processi del civile on line praticamente al 100% in tutte le sue fasi: dalla costituzione delle parti fino alla sentenza. L'idea fu estesa a Torino diventata presto un modello per molti altri uffici giudiziari. Nel capoluogo subalpino alla luce del rilevante arretrato che si ritrovò sulla scrivania fin dai tempi dell'insediamento, ha cercato di porre rimedio con una serie di misure tra le quali l'estensione delle udienze del penale anche al pomeriggio: il meccanismo non ha ancora raggiunto il suo massimo potenziale per via della crisi pandemica che ha rallentato tutti gli uffici italiani. Terzi credeva e sentiva di poter portare la sua esperienza negli uffici milanesi e di meritarlo per anzianità e titoli. Area e Unicost lo avevano votato (oltre a due laici), Magistratura Indipendente (a cui era stato vicino anni fa) e Autonomia e Indipendenza gli hanno preferito Ondei. "Sono stato tradito da un meccanismo che non premia esperienza e competenze» ha detto ai colleghi. A Torino, al momento, non ci sono commenti ufficiali alla vicenda, ma i dubbi di Terzi che hanno accompagnato la scelta di lasciare in anticipo la toga e l'incarico sono conosciuti e in larga parte rispettati. Si sa che dal prossimo primo ottobre, sarà Modestino Villani, stimato giudice, già presidente della sesta sezione penale, scelto da Terzi come vicario ad assumere la reggenza dell'ufficio anche sul settore civile. Ci vorrà poi un bando e i primi nomi si affacciano sulla corsa a uno scranno che nessuno pensava si liberasse cosi presto.
Dopo la sentenza ribollono le mailing list...Non solo Hotel Champagne, ecco tutti gli accordi tra le toghe. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Settembre 2021. Luca Palamara, dunque, era il male assoluto della magistratura italiana, una sorta Belzebù in toga. I cinque consiglieri del Csm che gli fecero compagnia all’hotel Champagne la sera del 9 maggio del 2019, invece, erano solo dei piccoli demoni. A cui, però, bisognava mandare necessariamente un segnale per evitare che un domani qualcuno di loro potesse prendere il posto del principe delle tenebre. «Provo delusione e turbamento per una sentenza manifestamente esemplare, priva di sufficiente capacità di discernimento, che parla esclusivamente la lingua dell’accusa, tacendo su quella della difesa», è stato il commento del professore Mario Serio, avvocato di Paolo Criscuoli, condannato a nove mesi di sospensione dalle funzioni. Serio ha anche fatto notare la perfetta proporzione fra le richieste della Procura generale e le pene comminate dalla disciplinare: 25 per cento in meno per tutti. «Il mio rammarico è che questa sentenza ha stravolto irrimediabilmente la vita di una persona e della sua famiglia», ha poi aggiunto Serio. Cacciato Palamara e bastonati i cinque commensali, per la magistratura italiana dovrebbe essere iniziato un nuovo corso. Ovviamente non è così. A non crederci sono gli stessi magistrati. «Ma hanno fatto tutto da soli? Oppure agirono in rappresentanza di altrettanti gruppi di interesse?», si domanda un giudice sulla mailing list. «La facile risposta – prosegue – si trova nei 140 capitoli testimoniali formulati dalla difesa di Palamara, dove, illustrando un vero pezzo di storia della magistratura italiana, si parlava di un centinaio di nomine frutto di altrettanti accordi ‘extra moenia’, preconfezionati e poi semplicemente ratificati dal Csm». «Accordi non dissimili da quello dell’Hotel Champagne. Insomma e in breve, il “Sistema” che non ha ammesso quelle istanze di prova e che, per assolvere gattopardescamente se stesso, punisce i soli cinque», continua il magistrato, auspicando che tutti consiglieri del Csm, togati e laici, mostrino il contenuto dei «telefonini utilizzati negli ultimi cinque anni». A conferma che gli accordi spartitori ci sono sempre stati, e che l’incontro dell’hotel Champagne, dove si discusse del futuro procuratore di Roma, non è stata una eccezione, ecco arrivare un nuovo annullamento da parte del Consiglio di Stato di una nomina. Questa volta si è trattato del presidente della sezione penale del Tribunale di Rimini, incarico andato a Sonia Pasini nel plenum del 6 giugno 2018. I giudici amministrativi hanno accolto nei giorni scorsi il ricorso presentato da Fiorella Casadei. La nomina di Pasini è una delle nomine di cui parlarono Palamara e l’ex togato Gianluigi Morlini, presidente della Commissione per gli incarichi direttivi. Morlini, uno dei partecipanti all’incontro all’hotel Champagne, aveva scritto a Palamara di Pasini dicendo che era uno dei nomi da tenere “sotto controllo”. I due si erano poi complimentati a vicenda per le nomine di Lucia Russo, Silvia Corinaldesi, Marco Mescolini e appunto Pasini, magistrati legati alla corrente di Unicost, a capo di uffici dell’Emilia-Romagna. Un successo senza precedenti per la corrente di centro che aveva occupato un numero di posti senza precedenti. Pasini, poi, chattando con Palamara gli aveva chiesto di integrare la relazione al Plenum, indicando anche un ulteriore requisito che fino a quel momento non era stato adeguatamente valorizzato. Dopo il ricorso, il giudizio comparativo tra le due candidate era stato svolto dalla dal Csm l’8 febbraio scorso, proponendo la nomina di Casadei. Il Tar aveva sottolineato come la valutazione comparativa avesse “appiattito” il profilo di Casadei, «per ricordarne solo quelle esperienze» sulle quali poteva essere fatto un «giudizio comparativo diretto» con Pasini, «in tal modo incorrendo in evidente travisamento e difetto di istruttoria, e comunque nel difetto di motivazione». Era poi “pacifico”, per il Tar, che Casadei «abbia circa 10 anni di attività in più» nel settore penale rispetto alla collega. Salvo i casi finiti sotto la lente del tar, tutti i magistrati nominati con il sistema “Palamara” sono ancora al proprio posto. E ci rimarranno. Mandarli via significherebbe terremotare la metà degli uffici giudiziari del Paese. È meglio, allora, che paghi solo Palamara e i suoi cinque compagni di sventura dell’hotel Champagne. Paolo Comi
Grasso, ex presidente Anm: «Ora noi toghe abbiamo 6 capri espiatori: troppo comodo…». Parla il magistrato, attualmente giudice del Tribunale di Genova, al vertice dell’Associazione all’epoca del dopocena all’Hotel Champagne per il quale il Csm ha sospeso i 5 ex togati che vi parteciparono. «Sulle nostre mailing list c’era da anni la consapevolezza che il sistema del Csm sulle nomine fosse quello emerso con la vicenda del 2019». Errico Novi su Il Dubbio il 16 settembre 2021. C’è un nodo da sciogliere che neppure la sentenza disciplinare del Csm rende meno intricato: come deve regolarsi, ora, la magistratura? Dopo la radiazione di Luca Palamara, e le “sospensioni differenziate” dei 5 ex togati riuniti con lui nel dopocena all’Hotel Champagne, di cosa si deve tener conto? Della verità processuale o di quella storica, che non dovrebbe ridursi a quel fatale happening? E se vale la prima delle due risposte, e cioè che i colpevoli di tutto sono Palamara più altri 5, quale accertamento va considerato? Il processo a carico dell’ex presidente Anm, giunto a sentenza definitiva dopo che la Cassazione ha respinto il ricorso e confermato la radiazione? Oppure la pronuncia arrivata ieri sera a Palazzo dei Marescialli, che ha punito Gianluigi Morlini, Antonio Lepre, Luigi Spina a 18 mesi di stop e Corrado Cartoni e Paolo Criscuoli a una sospensione di 9 mesi? Non sono decisioni del tutto compatibili fra loro, come ricordato dal Dubbio già ieri. Perché la Suprema Corte, a Sezioni unite, ritiene che «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira». Quindi per vendetta e essenzialmente al di fuori di un disegno strategico intercorrentizio. Piazza Indipendenza, con la decisione assunta due giorni fa, è convinta invece che i 5 ex componenti dell’organo di autogoverno cooperarono a vario titolo con le iniziative dell’ex leader della magistratura associata. C’è un contrasto evidente. Al momento, neppure è confermato che gli ex consiglieri Csm sospesi impugneranno la condanna: tutti e 5, a quanto risulta, aspetteranno di leggere la sentenza prima di sbilanciarsi. E in teoria, finché non ci sarà un giudicato disciplinare, potrebbe finire congelata pure la valutazione storica Ma è impensabile, per la magistratura italiana, che si resti sospesi a quell’interrogativo: si può davvero archiviare la stagione della “correntocrazia”, come la definisce Giovanni Maria Flick, come una prassi solo un po’ stonata, e Palamara invece come una gravissima e distinta patologia? O si dovrebbe invece riconoscere che le esuberanze del cosiddetto re delle nomine furono in effetti un po’ eccessive, ma rappresentavano solo la punta dell’iceberg? Si deve ammettere o no, insomma, che il sacrificio di Palamara è una scorciatoia fuorviante e pericolosa? E che forse radiare l’epitome di una prassi consolidata è un po’ troppo comodo? Il giorno dopo la magistratura non fa sentire voci ufficiali. Non si nota una folla di vertici delle correnti che tentano di offrire una chiave. E forse è anche comprensibile. D’altra parte uno dei gruppi associativi più importanti, Area, andrà a congresso fra una decina di giorni e avrà modo di discuterne. Ma interpellata dal Dubbio, c’è una voce autorevole che offre una prospettiva persino rovesciata, sull’effetto della sentenza di ieri: Pasquale Grasso, presidente dell’Anm all’epoca dell’incontro all’Hotel Champagne, uscito da Magistratura indipendente per la durezza con cui invitò alle dimissioni i consiglieri del suo gruppo coinvolti, in rotta anche con Area e Unicost al punto da lasciare poi il vertice dell’Associazione, fino alla ricucitura con la corrente moderata. «Con la sentenza della sezione disciplinare non credo affatto si favorisca un riconoscimento storico più approfondito», dice subito Grasso, attualmente giudice presso il Tribunale di Genova. Quindi spiega: «Si prosegue nella traiettoria segnata con le sentenze su Palamara, si puniscono con inedita durezza i protagonisti di quel pur esecrabile singolo evento. Ma si rimuove così ancora una volta un’inevitabile realtà non accettata, e che mai lo sarà: era quella emersa nelle vicende del 2019, la normalità dei rapporti che intercorrevano al Csm». Grasso è stato al vertice dell’Associazione magistrati ma ha solo sfiorato l’attuale consiliatura, e comunque non ha mai fatto parte dell’organo di autogoverno. «Ciononostante, secondo la vox dei, c’è sempre stata una chiara consapevolezza, nelle mailing list di noi magistrati: sulle nomine si tendeva in generale ad accordi e complicazioni analoghi a quelli venuti fuori per la Procura di Roma. Certo, all’Hotel Champagne», nota Grasso, «si è arrivati forse allo zenit, per la presenza di un soggetto indagato dall’ufficio sulla cui dirigenza si discuteva nell’incontro (Luca Lotti, deputato allora del Pd, che era al dopocena insieme con Cosimo Ferri, pure lui in quel momento parlamentare dem, ndr). Ma non è che quella specificità segni anche un’estraneità dell’episodio rispetto al contesto generale». Insomma, rischiamo semplicemente di avere non uno, cioè Palamara, ma 6 capri espiatori, con la condanna degli ex togati arrivata ieri sera? «È esattamente così. Eppure non vedo come si possa ridurre la questione delle nomine e dei rapporti fra le correnti a quell’episodio. Oltretutto», aggiunge Grasso, tuttora fra i leader della magistratura moderata, «a me sembra che non vi sia stata neppure un’efficace gradazione delle sanzioni rispetto alle condotte dei singoli: le condanne sono tutte fortissime, senza precedenti. Soddisfano le esigenze di sangue, non di conoscenza reale di quanto avvenuto nel Csm per anni». E rispetto all’impressione che si ricava dalla lettura della sentenza con cui la Cassazione ha confermato la radiazione di Palamara, quella di un uomo solo al comando dei misfatti, Grasso ha un’ultima chiosa: «Vorrei sia ripetuto tre volte: non ho letto, non ho voluto leggere la sentenza delle Sezioni unite, ma se davvero ne risultasse un artefice unico degli accordi sulle nomine, si tratterebbe di una prospettazione poco condivisibile. Palamara non può aver inventato e alimentato il sistema da solo. È una lettura molto consolatoria, quella della singola mela marcia. O delle 5 o 6 che, una volta condannate, dovrebbero soddisfare l’esigenza di verità e soprattutto di purezza del sistema».
Scandalo procure: sospesi 5 ex togati. Federico Garau il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Arriva la decisione della sezione disciplinare del Csm per le toghe coinvolte nel caso Palamara: un anno e sei mesi di sospensione per Lepre, Morlini e Spina, 9 mesi per Cartoni e Criscuoli. Dopo ben nove ore di camera di consiglio, la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Csm) ha deciso di sospendere dalle funzioni i cinque ex magistrati Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni, tutti rimasti coinvolti nel caso Palamara. È stata dunque accolta la sanzione richiesta dalla Procura generale, in particolare si parla di uno stop di un anno e sei mesi per Lepre, Morlini e Spina, mentre Cartoni e Criscuoli dovranno invece rispettare una sospensione di nove mesi. Si tratta di un provvedimento comunque inferiore rispetto a quanto effettivamente richiesto dalla Procura, che nella requisitoria di luglio aveva inizialmente proposto 2 anni per Lepre, Morlini e Spina, ed un anno per Cartoni e Criscuoli.
Le accuse. Le cinque toghe sono finite al centro di un'inchiesta dopo lo scoppio del caso che ha visto coinvolto l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, accusato di corruzione in atti giudiziari. Il caso ha provocato grande imbarazzo in tutta la magistratura.
Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni avevano preso parte ad una riunione notturna tenutasi tra l'8 e il 9 maggio del 2019 presso l'hotel Champagne di Roma. Un incontro al quale avevano naturalmente partecipato lo stesso Luca Palamara ed i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. In quella circostanza furono stretti accordi, e si parlò anche della successione di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma. Nella sua requisitoria la Procura aveva mosso nei confronti dei cinque ex togati le accuse di"comportamento gravemente scorretto, in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio" nei confronti degli altri colleghi magistrati e consiglieri del Csm, oltre che di violazione del dovere di riservatezza sull'iter delle nomine. Nel giugno del 2019, scoppiato lo scandalo relativo alle intercettazioni che hanno visto come protagonista Luca Palamara, i cinque magistrati si erano dimessi.
Il verdetto. Oggi la decisione della sezione disciplinare del Csm. Dopo nove ore di camera di consiglio, è arrivato il verdetto nei confronti dei cinque ex magistrati, che potranno in ogni caso presentare ricorso alle sezioni unite civili della Cassazione.
All'udienza di questa mattina hanno partecipato Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Corrado Cartoni. Assente, invece, Luigi Spina, mentre Paolo Criscuoli era collegato in videoconferenza.
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dov
La sentenza dopo 10 ore di Camera di Consiglio. Palamaragate, il Csm condanna 5 ex togati: sospesi per la cena all’Hotel Champagne. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Procure nel caos, magistratura nella bufera: e il Palamaragate non finisce mai. È arrivata nella serata di oggi la sentenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che, al termine di una lunga camera di consiglio, di circa 10 ore ha condannato alla sospensione dalle funzione cinque ex togati. Si tratta di Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Corrado Cartoni. Il procedimento riguardava la riunione del 9 maggio 2019 all’hotel Champagne a Roma, alla quale avevano partecipato Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e membro del Csm, lo “zar delle nomine”, radiato nel 2020 dal Consiglio a seguito di un indagine sul sistema nelle correnti della magistratura. Alla riunione anche i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. La Procura Generale della Cassazione aveva chiesto il massimo della sospensione, due anni e un anno a seconda. I legali il proscioglimento degli assistiti. Il “tribunale delle toghe” ha sanzionato Lepre, Morlini e Spina – all’epoca rispettivamente capogruppo di Unicost, presidente della Commissione sugli Incarichi direttivi e relatore della nomina sul procuratore di Roma – con la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio per un anno e 6 mesi. Per Cartoni e Criscuoli ha invece disposto la sospensione per nove mesi. Verrà corrisposto un assegno alimentare. Contro il verdetto emesso dalla disciplinare i 5 ex togati potranno presentare ricorso davanti alle sezioni unite civili della Cassazione. La sospensione, per gravità, è la seconda sanzione dopo la rimozione dall’ordine giudiziario, inflitta quasi un anno fa a Palamara, che quindi paga più di tutti. “Non ha partecipato ad accordi – ha riferito l’avvocato Mario Serio, difensore di Criscuoli – non ha tradito la propria funzione e nulla prova che facesse parte di una conventicola che trattava affari riservati. Si è trovato nel vortice delle ambizioni incontrollate di due potenti esponenti della magistratura associata, quelle di Palamara e Ferri”. Secondo il legale l’ex togato fu “accalappiato” da Ferri con un “invito strumentale” a cena e che la partecipazione di Criscuoli – che ha emesso la sentenza del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido nel 1996 da alcuni esponenti di Cosa Nostra come atto intimidatorio nei confronti del padre collaboratore di giustizia – all’incontro fu “silente e inattiva”. Spina ha invece negato di aver fatto il “doppio gioco” a sostegno del Procuratore Generale di Firenze Marcello Viola con i colleghi di Unicost, di cui era capogruppo, e con i quali aveva concordato l’appoggio al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. E ha negato qualsiasi “programma comune” con Palamara, definendosi piuttosto un “ostacolo” per la sua fermezza nel supportare Creazzo. I cinque ex togati secondo la sentenza avrebbero preso parte a quella riunione all’Hotel Champagne. All’epoca Palamara era già stato messo sotto controllo dal trojan. All’albergo in via Principe Amedeo, alle spalle della stazione Termini, usato spesso come appoggio dai magistrati non romani, l’incontro con Lotti e Ferri. Al centro di quel vertice da “risiko delle nomine” la Procura di Roma: la poltrona contesa era quella del Procuratore Capo Giuseppe Pignatone. Nonostante quel gruppo avrebbe sostenuto il Pg di Firenze Marcello Viola, quella poltrona sarebbe diventata di Michele Prestipino – il Consiglio di Stato ha respinto l’istanza cautelare con la quale proprio Prestipino aveva chiesto la sospensione della sentenza che ha sancito l’illegittimità della sua nomina a procuratore di Roma; il Consiglio ha anche accolto il ricorso di due dei candidati esclusi, il Pg di Firenze Viola (sul quale puntavano a sua insaputa in quella riunione Lotti e Palamara in nome della “discontinuità” con Giuseppe Pignatone) e il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. Del caos su Roma il Csm tornerà a occuparsi la prossima settimana. Tre settimane dopo quell’incontro la Procura di Perugia, competente per i magistrati in servizio a Roma, consegnava un avviso di garanzia per corruzione a Palamara. Era l’inizio del Palamaragate, Magistratopoli, il “Sistema” della magistratura, più grande di certo di Palamara (che lo scorso luglio è stato intanto rinviato a giudizio per corruzione).
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Il “Sistema” esiste: per il Csm Palamara non ha agito da solo. Sospesi gli ex togati che presero parte insieme all’ex capo dell’Anm alla cena all’Hotel Champagne, dove si discusse della nomina del procuratore di Roma alla presenza dei parlamentari Lotti e Ferri. Simona Musco su Il Dubbio il 15 settembre 2021. Il Sistema esiste. A stabilirlo, ieri sera, è stata la sezione disciplinare del Csm, che dopo una camera di consiglio durata 10 ore ha dichiarato responsabili degli addebiti mossi dalla procura generale gli ex togati che hanno preso parte alla cena all’hotel Champagne a Roma, assieme all’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, cena durante la quale si discusse di alcune nomine, tra le quali quella alla procura di Roma. Per Lepre, Morlini e Spina la sezione disciplinare ha disposto la sospensione dalle funzioni per un anno e mezzo, contro i due chiesti dall’accusa, mentre per Cartoni e Criscuoli l’arrivederci alla toga durerà soltanto nove mesi, a fronte dell’anno preteso dalla procura generale. Le incolpazioni mosse nei loro confronti riguardavano il «comportamento gravemente scorretto» tenuto, «in violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio», nei confronti degli altri consiglieri del Csm e dei magistrati che si erano candidati alla nomina di capo della procura della Capitale, nonché la violazione del «dovere di riservatezza» sull’iter della pratica relativa a tale nomina. Questo procedimento disciplinare si era aperto poco più di un anno fa: i cinque si erano dimessi dall’incarico a Palazzo dei Marescialli nel giugno 2019, dopo le intercettazioni, captate dal trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara ed emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia, delle conversazioni avvenute all’hotel Champagne. Una decisione importante, quella presa ieri, che arriva dopo la conferma della radiazione dall’ordine giudiziario inflitta a colui che per tutti è il grande manovratore, quel Palamara che per la Corte di Cassazione, però, avrebbe agito da solo e per vendetta. Una versione diversa da quella sostenuta dal sostituto procuratore generale Simone Perelli e dall’avvocato generale Pietro Gaeta, che hanno invece indicato presunti ruoli e responsabilità di ognuno in quello che è passato alla storia come il mercato delle nomine. Spina, aveva affermato nella sua requisitoria il pg Gaeta, sarebbe stato infatti «il fiduciario assoluto del consigliere Palamara all’interno dell’istituzione consiliare – ha affermato -, l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Sarebbe stato, dunque, «la “longa manus” di Palamara nell’istituzione consiliare», mentre Morlini e Lepre – all’epoca dei fatti presidente della Commissione direttivi il primo, e relatore della pratica sulla nomina alla procura di Roma il secondo – «ricoprivano ruoli che rendono ancora più drammaticamente grave – ha detto Gaeta – la gestione parallela delle nomine all’hotel Champagne». Come si concilia questa versione con quella data dal Palazzaccio? Per i giudici di piazza Cavour, «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira». Una sorta di vendetta personale, dunque, che escluderebbe l’esistenza di un metodo e di altri partecipanti e che renderebbe l’ex consigliere del Csm una mela marcia. Ma è stato lo stesso Palamara a spiegare che invece non avrebbe agito affatto a titolo personale: «Ipotizzare che io facessi tutto in solitudine è l’equivalente di dire che, anziché vivere giornate torride, in questo periodo usciamo con il cappotto», aveva dichiarato al Dubbio. Anche se le persone coinvolte, stando ai sottintesi e ai continui inviti dell’ex capo dell’Anm ai colleghi che hanno «beneficiato» di quelle cene a raccontare quanto sanno, sembrano essere molte di più di quelle finite sotto processo a Palazzo dei Marescialli. Secondo l’accusa, Palamara pianificò, assieme ai suoi “coimputati” davanti al Csm, attività per screditare alcuni magistrati e condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è, appunto, la famosa cena del 9 maggio 2019, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip, e il parlamentare Cosimo Ferri, all’epoca anche lui del Pd. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, indicando il pg di Firenze Marcello Viola come il favorito. Quella conversazione, per Palamara, avrebbe rappresentato una normale interlocuzione fra esponenti di gruppi associativi e politici su alcune nomine. E in quella sede a discutere di questi temi, secondo l’accusa, c’erano anche i magistrati finiti davanti al banco degli imputati di Palazzo dei Marescialli. Per questo la loro posizione non è affatto secondaria. Nel corso del procedimento i cinque hanno voluto fornire una versione diversa della vicenda: tra i primi a parlare proprio il presunto braccio destro di Palamara, Spina, che rilasciando dichiarazioni spontanee ha rivendicato la sua fedeltà a Unicost (di cui all’epoca era capogruppo), decisa a sostenere la candidatura di Giuseppe Creazzo. «Quello che si decideva era sacro e lo rispettavamo – ha dichiarato -. Conoscevo Palamara, ma non facevo parte del suo mondo, non avevo mai partecipato a incontri, non avevo un programma comune con lui e semmai io per quel programma sono stato un ostacolo», ha sottolineato Spina. «Ho sempre detto chiaramente che non avrei lasciato l’appoggio a Creazzo, non ho mai avuto nessuna volontà di danneggiarlo né di provare a fargli ritirare la candidatura. Avevo espresso fastidio per l’invadenza di Palamara – ha aggiunto -, doveva avere rispetto per le decisioni del gruppo, tanto che da altre intercettazioni emerge la sua volontà di cercare strade alternative, perché con Spina “non c’è stato verso”, aveva detto». Per il suo difensore, Donatello Cimadomo, l’accusa nei confronti di Spina sarebbe indeterminata e contraddittoria. «L’unica cosa che si può imputare a Spina è di essersi trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato – ha detto – se il problema è che non si è alzato e non è andato via al massimo si può applicare la sanzione della censura per comportamento inopportuno ma non certo una sanzione per avere tradito le sue funzioni istituzionali». Prima che i membri della sezione disciplinare si riunissero, a prendere la parola ieri è stato Lepre, che ha parlato di una «vicenda dolorosa che rappresenta un travaglio e una sofferenza devastanti» e ha ricordato di non essere stato a conoscenza della riunione, «di non conoscerne oggetto e partecipanti» ma di essere stato «colto alla sprovvista» rientrando dopo cena con la moglie in albergo, lo stesso dove si è tenuto l’incontro, e vedendo i colleghi in una saletta attigua alla hall «di non essere stato invitato, di essere rimasto il tempo necessario per non apparire scortese e di essere andato via per primo». Quanto ai candidati per la procura di Roma, riferendosi al sostegno a Viola di cui si era discusso quella sera, «personalmente, in virtù degli oggettivi e robusti titoli di Viola, confidavo in quell’ampia maggioranza che effettivamente si concretizzò poi in commissione», ha sottolineato. A difendere Criscuoli è stato il professor Mario Serio, secondo cui l’ex consigliere sarebbe stato «attratto in un vortice nel quale era completamente estraneo», quello delle «ambizioni incontrollate di Palamara e Ferri», e «del quale non poteva preventivamente controllare le modalità di svolgimento» e quindi «non poteva respingere il pericolo». Inoltre «il silenzio continuamente serbato» nel corso della riunione attesta che «capacità offensiva della sua condotta è del tutto insignificante e non meritevole di sanzione». Per Cartoni l’avvocato Carlo Arnulfo ha chiesto il proscioglimento: non avrebbe commesso «nessuna grave scorrettezza», l’unica pecca è «la presenza impropria all’hotel Champagne. Poteva andare via quando si iniziava a parlare di nomine», ha detto. «La riunione non l’aveva programmata, poteva solo interromperla. Ma poi nella pratica è difficile pensare che una persona si alzi e se ne vada. Ha ascoltato le conversazioni ma non era partecipe del piano» relativo alla nomina del capo della procura di Roma. Morlini, invece, ha rivendicato la sua autonomia: «Tutte le decisioni sulla nomina del procuratore di Roma, come sulle altre nomine, le ho prese io. Non c’è stata nessuna eterodirezione, né suggerimenti. E non c’è stato nessun doppio gioco o bluff», ha affermato. Per il suo difensore, Vittorio Manes, Morlini «non ha partecipato né come burattinaio né come burattino al risiko delle nomine». L’«insussistenza delle incolpazioni» è stata evidenziata anche da Domenico Airoma, difensore di Lepre, che, ha ricordato, «non ha partecipato ad alcuna attività preparatoria della riunione e alla stessa ha partecipato per una ventina di minuti. Per il suo comportamento scorretto Lepre ha già pagato con le dimissioni, ma la responsabilità disciplinare deve rispondere ad altri parametri, guai a trasferire sul piano disciplinare valutazioni di carattere etico. Questo sarebbe travolgere ogni garanzia». Ora per conoscere le ragioni della decisione bisognerà attendere 90 giorni.
Il procuratore Cantone: «Il magistrato corrotto è un traditore». Cantone, capo della procura di Perugia, ritiene che la magistratura abbia perso i valori etici ed esprime note critiche anche sulla riforma della giustizia. Il Dubbio il 24 agosto 2021. In un’intervista rilasciata a “Nazione Toscana”, il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, torna a parlare dei guai delle toghe italiane, dovendosi occupare nel suo distretto, tra le altre cose, del caso Palamara. «La corruzione in magistratura è un reato gravissimo: il magistrato che si fa corrompere dovrebbe essere giudicato per tradimento, perché il danno per l’istituzione giudiziaria è inestimabile. Noi dobbiamo chiedere con forza che nella categoria ci sia un livello molto alto di etica. Se vuoi fare il magistrato non puoi fare la stessa vita del cittadino comune e nei rapporti personali devi avere attenzione. E poi si, siamo ben pagati e abbiamo tantissimi privilegi che hanno senso se la nostra è una scelta di rigore» aggiunge il capo dei pm di Perugia.
Cantone e il sistema giudiziario. Cantone, quindi, si dice molto preoccupato sul rapporto incrinatosi tra la magistratura e il mondo sociale. «Ci sono segnali di grande sfiducia. lo sono molto preoccupato, a Perugia che è una procura di importanza strategica per la competenza su Roma, mai avrei immaginato un flusso tale di esposti quotidiani nei confronti dei magistrati romani». Poi critica il sistema giudiziario. «funziona malissimo. lo non augurerei al mio peggior nemico di essere parte civile in un processo: significherebbe non avere giustizia. Ma nemmeno a un indagato, se innocente. Il tempo del processo diventa così, esso stesso, una pena».
Le critiche alla riforma Cartabia. Sulla riforma Cartabia, invece, si esprime così. «lo credo che opporsi alle riforme in materia di giustizia sia sbagliato pensando di dire “va tutto bene”. Ma l’attuale previsione non risolve il problema e il paradosso è che potrebbe allungare i tempi delle sentenze di primo grado che sono già fuori controllo. Se la concussione può arrivare a prescriversi in 14 anni significa che per la sentenza di primo grado posso impiegarci il massimo visto che non c’è alcuna previsione sui tempi del primo grado. Solo dopo, scatta la questione dell’improcedibilità in Appello e Cassazione». «Questo disegno di legge potrebbe far sì che ci si preoccupi meno dei tempi del primo grado: se ci hai messo un giorno o 10 anni diventa uguale». E conclude: «lo credo che questa riforma sia stata pensata molto male». Infine, la parte che riguarda l’udienza preliminare. «Sono assolutamente favorevole, come a tutti i procedimenti speciali e all’introduzione della causa di esclusione per la particolare tenuità del fatto: la giustizia penale non può essere mobilitata per tutto. Dobbiamo avere il coraggio di andare a dibattimento per le questioni che meritano e che siamo sicuri si chiuderanno con una condanna».
"La magistratura è al punto più basso: il sistema Palamara non è stato toccato". Stefano Zurlo il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. Il pm candidato sindaco del centrodestra a Napoli: le correnti decidono ancora tutto e il Tar del Lazio ha appena annullato due nomine. Non gira intorno al tema: «Siamo al punto più basso nella storia della magistratura. Catello Maresca è il candidato sindaco del centrodestra a Napoli ma parla da magistrato: pm di lungo corso, è stato per più di dieci anni impegnato nella lotta alla camorra e ai casalesi. Ora osserva con preoccupazione l'interminabile sequenza di scandali che sconvolgono il potere giudiziario: «Spero che la magistratura superi al più presto questa crisi di credibilità senza precedenti».
Intanto i giornali sono pieni di titoli e storie non proprio edificanti. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Il caso Palamara?
«Ha fatto emergere un sistema noto da tempo. Le promozioni nei ruoli apicali sono decise dalle correnti: questi meccanismi opachi devono essere spazzati via. Non è possibile andare avanti così, con gli sconfitti che si rivolgono spesso al Tar, spingendo i giudici amministrativi ad annullare le scelte del Csm».
Qualcosa sta cambiando?
«Per ora direi di no. Il Tar del Lazio ha appena annullato la nomina di due procuratori aggiunti a Napoli e l'ha fatto con motivazioni dure».
Sono in arrivo le riforme della Cartabia.
«Ben vengano, ma non bastano: io ho firmato per i due referendum sul Csm e quello sulla separazione delle carriere».
Ma in questo modo non si affossa il lavoro del Parlamento?
«Al contrario. Io credo che la spinta dal basso sia utile per smuovere i parlamentari. Sono anni e anni che siamo impantanati sulle riforme della giustizia. E poi, per dirla tutta, i quesiti referendari toccano questioni che la Cartabia nemmeno sfiora».
Ora si litiga sulla prescrizione.
«Quando son stato sentito in Commissione giustizia alla Camera mi sono scagliato contro la riforma Bonafede».
Perché?
«Perché non si può tenere un imputato sotto processo a vita».
Adesso è soddisfatto dalla mediazione sull'improcedibilità dei procedimenti che sforano i tempi?
«Mi lasci dire che è una soluzione non proprio convincente e poco chiara. Per esempio che succede sul pianeta civilistico?».
Allora hanno ragione i 5 Stelle?
«Ha ragione il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho: i processi contro i mafiosi devono essere salvaguardati».
Il ministro della Giustizia ha replicato che non c'è alcun pericolo di non arrivare a sentenza.
«Una soluzione tecnica si può trovare: io sono per il doppio binario. Ci possono essere regole diverse a seconda del nemico che lo Stato si trova a combattere. Glielo dico da magistrato e da professore, visto che insegno Diritto e Legislazione antimafia alla Vanvitelli».
Altra questione: ha fatto bene il pm Paolo Storari a dare i verbali dell'avvocato Amara a Davigo?
«È un'altra pagina sconcertante: io non avrei fatto così e anche il comportamento di Davigo non mi pare, per quel che leggo sui giornali, in linea con le norme stabilite».
Lei come si sarebbe mosso?
«Io come chiunque altro: si deve procedere per via gerarchica e ufficiale. Prima scrivi al procuratore, poi se non hai risposta ti rivolgi al procuratore generale, infine bussi al consiglio di presidenza del Csm. Non è che alla spicciolata fai vedere verbali, che non possono essere divulgati, a un consigliere che a sua volta li mostra ad altri».
Lei intanto prova a diventare sindaco della sua città.
«A Napoli manca un progetto d'insieme da almeno trent'anni. È ora di cambiare».
Ma lei era stufo di fare il pm?
«La mia carriera andava benissimo. Pm, poi pm all'Aantimafia sulla prima linea della Terra dei fuochi, infine alla procura generale».
Adesso?
«Sono in aspettativa non retribuita. Mi mantiene mia moglie».
Un magistrato che apre le porte girevoli ed entra in politica. Non è un controsenso?
«Io ho messo in gioco la mia carriera e i miei affetti. Se mai dovessi tornare, andrò lontano dalla mia città. E poi per me questa è la prosecuzione di un impegno di lunga data: con l'associazione Arti e mestieri abbiamo aiutato tanti ragazzi in difficoltà; ho sempre avuto una grande passione civile e ora è arrivato il momento di metterla al servizio della città. Anche se la toga rimane la mia seconda pelle». Stefano Zurlo
Corruzione nei fallimenti: chiuse le indagini per il giudice Rana. Chiuse le indagini anche per altri dieci professionisti indagati. Da quotidianodellumbria.it il 13 Novembre 2020. La Procura di Firenze ha decretato la chiusura delle indagini per il Giudice Umberto Rana, ex presidente della sezione fallimentare del tribunale di Perugia, indagato per corruzione, falso e abuso di ufficio. Il magistrato, molto conosciuto a Perugia per aver salvato nel 2017 la vita ad una collega Francesca Altrui, aggredita in tribunale da un imprenditore destinatario di un'esecuzione immobiliare, è stato accusato di aver ricevuto, tra il 2018 e il 2019, diverse agevolazioni, come favori personali o buoni acquisto, in cambio di consulenze ad amici e conoscenti. La difesa del Giudice Rana, affidata all'avvocato fiorentino Francesco Maresca, ha definito le accuse “fumose” dal momento che le ipotesi appaiono come “vaghe e il falso si basa non su fatti ma su valutazioni”. Oltre al giudice sono state chiuse le indagini anche per altri 10 indagati di varie professionalità, ai quali sono stati contestati reati a vario titolo che vanno dalla corruzione, per alcuni, fino all’abuso e al falso per altri.
LA RICOSTRUZIONE DEI FATTI E IL CASO DUCHINI. L’inchiesta condotta dalla Procura di Firenze sui presunti illeciti da parte del Tribunale fallimentare di Perugia sarebbe partita da un'altra inchiesta, quella relativa al caso Duchini, secondo cui l'ex procuratore aggiunto avrebbe rivelato notizie sottoposte a segreto istruttorio durante le indagini sul procedimento penale riguardante Franco e Giuseppe Colaiacovo, nel periodo a cavallo tra il 2016 e il 2017. A carico del giudice Rana, è stato infatti ipotizzato il reato di abuso d’ufficio in merito alla vicenda del caso Colaiacovo, in cui sono coinvolti anche Pier Francesco Valdina e Patrizio Caponeri (professionisti incaricati da Giuseppe Colaiacovo di presentare il ricorso per l'ammissione al concordato), e Andrea Nasini: il giudice li avrebbe suggeriti infatti all'imprenditore al fine di garantire il buon esito del suo procedimento. Secondo la ricostruzione da parte della Procura di Firenze (procuratore Luca Turco e sostituto Leopoldo De Gregorio), il giudice Rana avrebbe fornito “un ingiusto vantaggio patrimoniale permettendo a Pier Francesco Valdina e Patrizio Caponeri di prospettare all'imprenditore l'accoglimento del ricorso solo nel caso egli avesse incaricato alcuni professionisti”, che avrebbero quindi indotto Colaiacovo “a rinunciare ai suoi abituali professionisti”.
Luca Fazzo per ilGiornale.it il 27 giugno 2021. È possibile che un pedone venga investito mentre cerca di salire sulla sua vettura, e l'investitore se la cavi senza conseguenze? Che a quest'ultimo non venga fatto l'alcol test, che ormai è la prassi anche negli investimenti senza vittime? Che un infortunio devastante, una gamba frantumata in più punti, venga definito «di lieve entità» nei rapporti della polizia locale, e che il pm incaricato del fascicolo chiuda a tempo di record l'indagine senza fare alcuna inchiesta e chiedendo il proscioglimento dell'automobilista? E, soprattutto, questo trattamento ha qualcosa a che fare con il fatto che anche l'investitore sia un pubblico ministero? Sono queste le domande che si fanno i difensori di Lorenc, un fattorino delle consegne, uno delle migliaia lavoratori della logistica. Lorenc è fuori servizio da quasi dieci mesi per l'incidente del 2 ottobre scorso a Busto Arsizio, vicino Varese. Per questi mesi di inattività non vedrà un euro, a meno che il ricorso dei suoi legali non venga accolto dal giudice sul cui tavolo è arrivata la richiesta di archiviazione firmata il 22 febbraio dalla Procura di Brescia, competente a indagare sui reati dei colleghi del distretto di Milano. Il 2 ottobre a Busto pioveva molto. Intorno alle 13 Lorenc arriva in via General Cantore, consegna una busta, fa per risalire sul furgone. Passa una piccola Toyota che anche se la strada è larga viaggia rasente al furgone: quando Lorenc sbuca per tornare a bordo viene centrato. Quello che i vigili verbalizzeranno come un «urto di lieve entità» gli manda in frantumi lo stinco, il referto parla di «frattura scomposta del piatto tibiale», le foto successive all'operazione sono pulp. Lui viene portato in ospedale, quando arrivano i vigili si trovano davanti la conducente della Toyota, una giovane donna che dirà di non avere neanche visto l'uomo: «All'altezza della parte anteriore del furgoncino sentivo un gran botto». Solo a quel punto si ferma e vede Lorenc barcollante per il dolore. La donna non è una cittadina qualunque: è un pubblico ministero in servizio presso la Procura di Busto. Non si sa se è lei a presentarsi come tale o se sono i vigili a riconoscerla, sta di fatto che già nel primo verbale viene identificata come «magistrato». Gli agenti raccolgono la sua versione dei fatti e lì si fermano. Non interrogano altri testimoni, che pure sono presenti. Non le chiedono perché, in una strada larga quasi sette metri, viaggiasse rasente alle auto in sosta. Le risparmiano l'onta dell'etilometro. E mandano in Procura il rapporto che dà la colpa di tutto al ferito: era lui, dicono, ad avere posteggiato in divieto di sosta. Così impara, potrebbero aggiungere. Il procuratore di Busto, quando arriva il fascicolo che riguarda la sua sostituta, lo trasmette per competenza alla Procura di Brescia. Qui la pm bustocca viene indagata per lesioni personali gravi e già il 22 febbraio viene proposta per l'archiviazione, «deve escludersi qualsivoglia profilo colposo nella condotta dell'indagata». E alla richiesta di trovare un accordo per un indennizzo, la pm risponde ai legali dell'investito: neanche per sogno.
Giustizia, il giudice Valea trasferito da Catanzaro a Milano: il suo nome in alcune inchieste giudiziarie. u Il Quotidiano del Sud il 23 giugno 2021. Il Consiglio superiore della Magistratura ha disposto il trasferimento a Milano di Giuseppe Valea, presidente del Tribunale del Riesame di Catanzaro. Il giudice Valea aveva chiesto il trasferimento in prevenzione per l’avvio di un procedimento per incompatibilità. Il suo nome, infatti, era finito in alcuni fascicoli giudiziari rispetto a ipotesi di procedimenti che sarebbero stati aggiustati. Sulle vicende, al momento, non ci sono però sviluppi concreti. Nel procedimento nato dopo la richiesta di trasferimento, la prima commissione aveva espresso parere favorevole al trasferimento del giudice Valea in una sede che garantisse “discontinuità netta dall’attività giudiziaria della sede di provenienza”, escludendo quindi l’ipotesi di Messina che era stata indicata dallo stesso giudice. Subito dopo la terza commissione ha rilevato che il punteggio del concorso virtuale avrebbe consentito l’attribuzione del punteggio utile per l’assegnazione al tribunale di Milano in una delle funzioni per le quali, pur avendo pubblicato l’avviso, non sono pervenute domande. Conferma che è arrivata oggi.
Da "il Giornale" il 22 giugno 2021. Non si sono mai amati, in realtà. Ma la guerra è scoppiata dopo la pubblicazione del libro «Il Sistema» di Palamara, scritto con Alessandro Sallusti. Le frasi contro Ielo sono state ritenute così offensive che il pm ha querelato Palamara. Non è stata l'unica s'intende. La notizia è, però, che Ielo ha ritirato la querela. Non è proprio pace ma almeno non si faranno la guerra davanti a un giudice. Il motivo? Palamara ha chiesto pubblicamente scusa a Ielo per alcune parole che dovevano rimanere riservate e invece sono finite su tutti i giornali. L' ex capo dell' Anm ha riconosciuto la correttezza professionale e il valore della nomina del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, parte civile nel procedimento. In una nota afferma: «Palamara come già dichiarato in sede di interrogatorio a Padova, non ha mai voluto mettere in discussione la professionalità di Ielo che da sempre stima come magistrato capace e di alta professionalità»
Tra Palamara e Ielo pace fatta: il pm romano ritira la querela. L’ex presidente dell’Anm “corregge” in aula alcuni passaggi del suo libro. Il procuratore aggiunto di Roma revoca la costituzione di parte civile nel processo contro Fava. Simona Musco su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Luca Palamara e Paolo Ielo fanno “pace”. La riconciliazione è avvenuta ieri, a Perugia, dove l’ex presidente dell’Anm ha “rettificato” il contenuto del suo libro, “Il Sistema”, ottenendo la revoca della costituzione di parte civile da parte del procuratore aggiunto di Roma. In aula, nel corso dell’udienza preliminare del processo che lo vede imputato assieme all’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava, Palamara ha depositato un documento, spiegando di non aver «mai voluto mettere in discussione la professionalità di Paolo Ielo» che, ha spiegato, n «da sempre stima come magistrato capace e di alta professionalità anche con riferimento alla vicenda Consip». Il riferimento è, dunque, a quanto contenuto nel suo libro, in relazione alla nomina di Ielo a procuratore aggiunto a Roma. «Riguardo all’incontro avvenuto a piazzale Clodio, nessuna richiesta è pervenuta da Ielo, al contrario Palamara in quella circostanza ha fatto riferimento alla possibilità che Ielo concorresse come procuratore aggiunto per la procura di Firenze, con un invito a meglio sviluppare la propria carriera al di fuori di Roma. Consiglio dettato dalla necessità per Palamara di tener presente le logiche di corrente cui Ielo era estraneo e non dalla messa in discussione dei titoli indiscutibilmente vantati da quest’ultimo tanto è vero che al Csm si è speso nel sul gruppo di appartenenza per la sua nomina», si legge ancora. «Anche per quanto riguarda la cena, che nei ricordi di Palamara, è avvenuta prima della nomina di Ielo si intende precisare che il racconto descritto nel libro è riferito al rapporto intercorrente tra Palamara e Pignatone, con il quale in plurime occasioni era stato affrontato il tema degli aggiunti a Roma e della migliore organizzazione dell’ufficio. In questi casi non era presente Ielo», precisa Palamara. Inoltre, per quanto riguarda il procedimento penale che vede imputato Palamara per rivelazione del segreto d’ufficio, «dopo attenta lettura degli atti del procedimento – si legge nel documento depositato dall’ex consigliere del Csm – precisa di essere stato male informato in relazione alla doverosa trasmissione degli atti da parte di Ielo nella sua qualità di procuratore aggiunto alla procura di Perugia nonché in merito alla gestione del fascicolo di indagine da parte del medesimo procuratore aggiunto e alla precedente astensione di Ielo e alla corretta cronologia degli incarichi ricevuti dall’avvocato Ielo». «Tali circostanze unitamente allo stress emozionale della sottoposizione a procedimento penale presso la procura di Perugia – prosegue il documento hanno portato Palamara ad esprimere sul conto di Ielo espressioni verbali profondamente sbagliate e che peraltro stridono con la correttezza dei rapporti che all’interno della procura di Roma ha da sempre caratterizzato le relazioni tra i due». Palamara si è anche impegnato a introdurre queste precisazioni nella prossima edizione del libro ’ Il Sistema”. Ielo ha anche manifestato l’intenzione di rimettere la querela presentata per diffamazione nei mesi scorsi a Padova in relazione ad alcuni passaggi riportati nel libro.
Il gip si pronuncerà il prossimo 23 giugno. La nomina di Ielo “l’ha voluta Pignatone”, la rivelazione di Palamara e la faida per bruciare le carriere. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Giugno 2021. La nomina di Paolo Ielo a procuratore aggiunto a Roma? Ha fatto tutto il procuratore Giuseppe Pignatone, Ielo non ha mai in alcun modo condizionato la decisione di Luca Palamara. Sarebbe questa una delle precisazioni alla base dell’accordo sottoscritto fra l’ex zar delle nomine e Ielo affinché quest’ultimo ritirasse la costituzione di parte civile a Perugia. Ielo si era costituito nei giorni scorsi nel processo a carico di Palamara e dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava in corso nel capoluogo umbro per rivelazione del segreto d’ufficio. I due magistrati, secondo l’accusa, avrebbero posto in essere una campagna denigratoria per screditare sia Ielo che Pignatone. In particolare, Palamara avrebbe istigato Fava a presentare un esposto al Consiglio superiore della magistratura dove si evidenziavano delle mancate astensioni del procuratore e dell’aggiunto in alcuni procedimenti penali. Lo scopo sarebbe stato quello di consumare una “vendetta” nei loro confronti: Ielo, poi, doveva essere colpito in quanto l’anno prima aveva trasmesso proprio a Perugia una nota in cui erano indicati i rapporti che Palamara aveva avuto con il faccendiere Fabrizio Centofanti. Da quella nota era scaturito il procedimento penale per corruzione che aveva stoppato la corsa di Palamara a procuratore aggiunto a Roma. Tolta la costituzione nei confronti di Palamara, rimane in piedi quella nei confronti di Fava. Alla scorsa udienza era stata respinta quella presentata da Piero Amara: 500mila euro era stata la cifra richiesta dall’ideatore del Sistema Siracusa per essere risarcito dell’ingente “danno morale che ha causato sofferenza interiore” provocato dal comportamento di Fava e Palamara. Durante l’udienza di ieri Fava si è sottoposto all’interrogatorio del pm di Perugia Mario Formisano, rilasciando anche delle spontanee dichiarazioni. Fava ha negato di aver dato, come affermato dall’accusa, materiale per due articoli pubblicati il 29 maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano e La Verità che rientravano nella “campagna mediatica” di diffamazione contro Ielo e Pignatone. L’ex pm, ora giudice a Latina, ha affermato di «essersi premurato di verificare le circostanze conosciute nell’esercizio delle sue funzioni, per potere presentare una denuncia e sottoporre alla valutazione degli organi competenti fatti veri e documentati, nel convincimento della loro possibile rilevanza penale e della doverosità di un loro approfondimento nelle giuste sedi». Respinta, quindi, l’accusa di essersi, per redigere l’esposto, «abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento». Un episodio che secondo i pm umbri sarebbe avvenuto «per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita». Fava ha insistito sul fatto di non essere stato istigato da Palamara e di aver voluto solo segnalare agli organi competenti, “nel rispetto della legge”, quanto era accaduto. Ad iniziare dalla revoca del procedimento contro Amara. I cronisti del Fatto Quotidiano e della Verità, ascoltati dai pm umbri, non avevano inteso avvalersi del segreto professionale, negando di aver ricevuto informazioni da Fava sull’esistenza dell’esposto. L’iniziativa per la pubblicazione degli articoli era stata autonoma, senza pressioni da parte di Fava e Palamara. I giornalisti avevano fatto mettere a verbale che le informazioni poste a base dei loro articoli, quindi i particolari sulle mancate astensioni di Ielo e Pignatone, non erano state fornite dai due magistrati. I giornalisti avevano dichiarato di avere dialogato con più persone (ed anzi magistrati), altri soggetti che erano a conoscenza di questi episodi. La Procura non ha prodotto elementi nuovi per smentire il contenuto di tali dichiarazioni e provare che siano stati Fava e Palamara a fornire il materiale per gli articoli. La deposizione di Fava è durata circa 9 ore. Il gip Angela Avila deciderà il prossimo 23 giugno se rinviare a giudizio o archiviare. Paolo Comi
Magistratopoli e i suoi scandali. Esposto di Fava contro Pignatone: il Csm lo ha seppellito da più di due anni. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Giugno 2021. Qualcuno sa che fine abbia fatto l’ormai celebre esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava al Consiglio superiore della magistratura oltre due anni fa? La circostanza è tornata d’attualità proprio in questi giorni. Nelle prossime settimane, infatti, il gup di Perugia dovrà decidere se rinviare o meno a giudizio Fava, ora giudice a Latina, per aver posto in essere una azione denigratoria nei confronti dell’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo. Alla base di questa azione il contenuto di quell’esposto, poi riportato anche da alcuni giornali, circa delle mancate astensioni di Pignatone e Ielo in alcuni procedimenti. Fava, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la pubblica amministrazione di piazzale Clodio, stava svolgendo delle indagini nei confronti dell’avvocato Piero Amara, noto alle cronache, dopo aver ideato il “Sistema Siracusa”, per aver svelato l’esistenza della loggia super segreta “Ungheria” e recentemente riarrestato dalla Procura di Potenza. Amara, arrestato la prima volta agli inizi di febbraio del 2018 in una operazione congiunta delle Procure di Messina e Roma, era tornato dopo poco in libertà e aveva iniziato a collaborare con i magistrati. Fava, però, non aveva creduto al pentimento di Amara e aveva chiesto che fosse nuovamente arrestato per una ipotesi di bancarotta. I vertici della Procura di Roma furono contrari e gli tolsero il fascicolo. Il pm, allora, decise di raccontare tutto al Csm. Per i pm di Perugia, invece, Fava sarebbe stato “istigato” da Luca Palamara a orchestrare una campagna mediatica contro Ielo e Pignatone. Da qui anche l’accusa di essersi, per redigere l’esposto, “abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento”. Un episodio che secondo i pm umbri sarebbe avvenuto “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”. Con Fava è indagato anche l’ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio accusato di avere riferito a Palamara “l’arrivo al Comitato di presidenza del Csm dell’esposto e di avergli comunicato le iniziative che il Comitato intendeva intraprendere per verificare la fondatezza dei fatti indicati nell’esposto”. Il Riformista ha cercato di riavvolgere il nastro degli eventi. L’esposto arrivò al Comitato di Presidenza del Csm il 2 aprile 2019 e venne così rubricato: “Pratica n. 139/RE/2019. Esposto del dott. Stefano Rocco Fava, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, concernente una missiva a lui indirizzata dal dott. Giuseppe PIGNATONE, Procuratore della Repubblica presso il medesimo Tribunale, circa la mancata astensione di quest’ultimo nei procedimenti riguardanti Piero AMARA e Ezio BIGOTTI”. Secondo quanto dichiarato a novembre del 2020 dal togato Sebastiano Ardita ai pm di Perugia che hanno svolto gli accertamenti, questo esposto sarebbe rimasto presso il Comitato di Presidenza “fino al 7 maggio”. Il Comitato di Presidenza è composto dal vice presidente del Csm, dal primo presidente e dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
La delibera di trasmissione alla prima Commissione, competente su “rapporti, esposti, ricorsi e doglianze concernenti magistrati”, è del successivo 17 aprile. Quindi ci sarebbero voluti circa 20 giorni per fargli raggiungere la Prima commissione dal Comitato di Presidenza, fra loro distanti un paio di rampe di scale. Sempre Ardita ha raccontato che l’esposto arrivò con attività istruttoria già fatta da parte del procuratore generale di Roma. L’istruttoria compiuta dal Comitato di Presidenza rappresentava “un unicum” per Ardita che è stato anche presidente della Prima commissione. Perché procrastinare l’invio dell’esposto alla Prima commissione? L’8 maggio era stato l’ultimo giorno di servizio di Pignatone. Comunque, arrivato in Prima commissione i componenti discussero su cosa fare. Molti erano concordi per ascoltare Fava. Il presidente Alessio Lanzi, laico in quota Forza Italia, non era contrario, di diverso avviso la togata di Area Alessandra Dal Moro. Ardita, sempre ai pm, disse che era una operazione trasparenza, necessaria, sentire Fava. Passano i mesi e non succede nulla. Alla vigilia di Natale dello scorso anno il Comitato di Presidenza dirama un comunicato per assicurare il corretto svolgimento delle pratiche a Palazzo dei Marescialli. Il comunicato riprendeva quasi alla lettera le dichiarazioni rilasciate dal segretario generale Paola Piraccini a Perugia sentita sulle procedure circa la corretta gestione dell’esposto. Da allora, più nulla. È cambiata la composizione del Comitato di Presidenza e quella della Prima commissione. L’esposto, però, è sempre “pendente” e Fava non è stato mai convocato. Come mai? Possibile che dopo due anni nessuno abbia la curiosità di sapere cosa sia successo alla Procura di Roma in quei giorni? Paolo Comi
Troppo marcio in magistratura, la Giustizia va commissariata. Dopo certi scandali qualunque ente pubblico sarebbe commissariato, mentre i palazzi di giustizia ne escono indenni. Dopo le rivelazioni di Amara e Palamara, attesa per le dichiarazioni di Montante, ex vice di Confindustria. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 12 giugno 2021. Se in una Asl, in un piccolo Comune, in una Regione, in una Provincia, in qualunque ente pubblico avvengono, accertate o sospettate, irregolarità, anche penali, che si fa? Vengono commissariati. Sono centinaia in Italia i Commissari di vari enti pubblici e privati, aziende piccole e grandi che vengono affidate ad amministratori giudiziari. Ma se tutte queste magagne, intrallazzi e anche reati penali accadono nei palazzi di giustizia, ma soprattutto al Consiglio superiore della magistratura, che succede? Niente o quasi. Qualche espulsione, qualche altro provvedimento disciplinare che quasi sempre viene aggirato con varie formule, molte con l’anticipata pensione dei magistrati coinvolti, nei confronti dei quali si interrompe la cosiddetta “azione disciplinare”.
L’INDICE DI CREDIBILITÀ. È vero che i “pannicelli sporchi” dovrebbero essere “puliti in famiglia”, ma quando è troppo e troppo. Ci sono interi palazzi di giustizia in Italia, con in testa il Consiglio superiore della magistratura, che sono stati sconvolti da scandali incredibili che, a memoria d’uomo, forse non hanno precedenti nella storia giudiziaria del nostro Paese, che dovrebbero essere “commissariati” come avviene per altri enti e istituzioni pubbliche e private. Ma il potere giudiziario, che costituzionalmente è indipendente dalla politica e spero che lo rimanga, non si deve toccare. Si fanno giustizia da soli, ma non vera giustizia. È una giustizia che fa acqua da tutte le parti e fino a quando non dimostreranno (il potere giudiziario) che possono fare pulizia da soli, l’indice di credibilità della magistratura, è purtroppo destinato a scendere ancora più in basso davanti a una opinione pubblica (soprattutto davanti alle persone oneste) a dir poco sconcertata e senza fiducia nei confronti di chi, invece, dovrebbe proteggerli. È chiaro che non si deve fare di tutta un’erba un fascio, perché ci sono molti magistrati che fanno coscienziosamente il proprio lavoro e il proprio dovere, spesso, come purtroppo è accaduto, anche a rischio della loro vita. E questa giustizia dovrebbe, proprio per onorare i propri caduti, impegnarsi a essere una giustizia giusta e vera. Qualche esempio? Per la verità sono molti e non c’è spazio in questa pagina per elencarli tutti, ma ci limitiamo agli ultimi avvenimenti provocati dal “duo” Luca Palamara, ex magistrato, componente del Csm (Consiglio superiore della magistratura) e dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) e dall’avvocato Pietro Amara, ex legale dell’Eni e di tanti altri enti: con le loro dichiarazioni e rivelazioni, hanno svelato il marcio che esiste all’interno della magistratura (soprattutto dentro il Csm) deputata a difendere i cittadini onesti del nostro Paese.
L’ATTACCO DI PALAMARA. Luca Palamara è andato giù duro sull’amministrazione della Giustizia (in casi rarissimi è stato querelato) rivelando tra l’altro che anche l’attuale procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, lo contattò in una terrazza di un albergo romano per chiedere un sostegno per le proprie aspirazioni. E lui, Salvi, che ha fatto appena diventato procuratore generale della Cassazione? Ha emanato una circolare chiedendo di fatto una “amnistia” per i magistrati finiti nelle chat per aver brigato con l’ex leader dell’Anm. Sostenendo che «l’autopromozione non è un illecito». Dove di fatto dice che chi ha chiesto una “raccomandazione” o “intervento” (come lui ndr) non ha commesso un reato e neanche un illecito disciplinare. Ma se lo fa il sottoscritto o qualunque altro cittadino normale, finisce quanto meno in carcere o ai domiciliari. La circolare ha fatto indispettire centinaia di magistrati che sarebbero al di fuori dei traffici di Palamara, che hanno chiesto a Salvi e ad altri magistrati coinvolti, di fare «chiarezza». Ma ancora aspettano. Ma torniamo ai giorni nostri, a ieri e all’altro ieri, con tre palazzi di Giustizia letteralmente “in confusione”. Partiamo da quello di Milano, dove l’attuale procuratore, Francesco Greco, è subissato da scandali che non riescono a fermarsi.
I PM INDAGATI A BRESCIA. L’ultimo è quello dell’iniziativa della Procura di Brescia (competente per eventuali reati commessi da magistrati milanesi) che ha indagato tre magistrati. Il pm Paolo Storari (che, se posso permettermi, è una persona per bene, ma forse si è fidato dei suoi ex capi e colleghi) è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver mostrato all’ex togato del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. Con lui sono stati indagati i suoi colleghi Fabio de Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio nell’ambito del processo Eni-Nigeria. Secondo l’ipotesi accusatoria, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro non avrebbero depositato un video che avrebbe potuto minare la credibilità di un testimone d’accusa e avrebbero depositato chat manomesse. In buona sostanza, i due magistrati avrebbero nascosto delle prove a favore degli imputati del processo Eni che sono stati tutti assolti, anche per questa ragione. Perché Pietro Amara aveva registrato di nascosto una conversazione con un testimone del processo Eni che confessava che le sue accuse non erano veritiere. Tutta questa storia è adesso nelle mani del procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che è, purtroppo o per fortuna, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei tre magistrati indagati da Brescia. Indagini, quelle di Brescia, che potrebbero influire sulla nomina del nuovo Procuratore di Milano dove sono in corsa il pm romano Paolo Ielo e il milanese Maurizio Romanelli. Ma in corsa c’è anche un altro magistrato, Nicola Gratteri, percepito, come ha detto qualcuno, come il “papa straniero” e indipendente dalle dinamiche correntizie, quindi al di fuori del “sistema” di Luca Palamara e dell’avvocato Pietro Amara. E, proprio per questa ragione, sarà difficile che Gratteri possa essere nominato, salvo cambi di fronte dell’ultimo momento, come spesso accade per rifarsi una verginità. L’altro caso spinoso per la magistratura e per il Csm è il “caso Verbania”, dove il Gip che aveva scarcerato alcuni degli indagati per la strage della funivia del Mottarone (una decina di morti) è stata scippata del fascicolo d’indagine affidato a un’altra collega. Una scelta molto discutibile, perché è stata interpretata come una scelta garantista che non è andata a genio ai pm che indagano sulla vicenda. E quindi si è aperto un grande scontro sul quale sono intervenuti, a ragione, due componenti del Csm, Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, provocando anche la protesta degli avvocati della difesa che hanno annunciato uno sciopero, con l’Unione delle Camere penali che torna a chiedere la separazione delle carriere in magistratura. Insomma, il fascicolo è stato tolto a un gip e assegnato a un altro che non se n’era potuto occupare perché oberato di lavoro e che, improvvisamente, adesso se ne può occupare perché con una bacchetta magica avrebbe smaltito il lavoro pregresso. Miracoli della giustizia, anzi della magistratura.
GLI ULTIMI SCANDALI. E, come detto, la lista è lunga, ma ricordiamo l’ultimo scandalo, quello del palazzo di giustizia di Taranto e anche quello di Trani che ha visto coinvolto l’ex procuratore Carlo Mario Capristo, sottoposto all’obbligo di dimora su decisione della Procura di Potenza. La stessa ha anche disposto misure cautelari nei confronti dell’avvocato siciliano Pietro Amara (carcere), dell’avvocato di Trani, Giacomo Ragno (arresti domiciliari), del poliziotto Filippo Paradiso (carcere), e dell’ex consulente di Ilva in amministrazione straordinaria, Nicola Nicoletti (domiciliari). L’inchiesta verte su un presunto scambio di favori nell’ambito di procedimenti per l’ex Ilva, con il procuratore Capristo che, secondo l’ accusa, «ha venduto la sua funzione giudiziaria». La Procura di Potenza, guidata da Francesco Curcio, dice che «Capristo stabilmente vendeva ad Amara e Nicoletti, la propria funzione giudiziaria, sia presso la Procura di Trani (a favore del solo Amara) che presso la Procura di Taranto (a favore di Amara e Nicoletti ) svolgendo, in tale contesto, Paradiso, funzione d’intermediario presso Capristo per conto e nell’interesse di Amara». Un Amara che aveva sponsorizzato e ottenuto la nomina di Capristo a Procuratore della Repubblica di Taranto. Ne volete ancora? Sì, forse un’ultima chicca. Ieri Antonello Montante, ex vicepresidente di Confindustria ed ex paladino dell’Antimafia, già condannato, ha parlato in aula a Caltanissetta. I giornalisti non sono stati ammessi. Ma credetemi, se Montante parlasse, Amara e Palamara, sarebbero dei dilettanti perché Montante potrebbe sconvolgere più di loro, gli apparati giudiziari e istituzionali. Staremo a vedere.
Da mani pulite a toghe macchiate. Altri due magistrati nei guai a Milano. Inquisiti per non aver esibito carte che avrebbero scagionato gli imputati (assolti) nel processo Eni-Shell Nigeria. Michelangelo Bonessa su Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2021. Altri due magistrati milanesi nel mirino della giustizia. Dopo Paolo Storari, questa volta tocca a Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I due pm milanesi sono indagati dalla Procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio in relazione al processo Eni/Shell-Nigeria di cui ieri il Tribunale ha depositato le motivazioni dell’assoluzione di tutti gli imputati. Cioè, secondo i loro colleghi, avrebbero volutamente evitato di considerare delle prove che scagionavano gli accusati. Un’ipotesi pesante perché mette in cattiva luce tutta la mega inchiesta sulle presunte tangenti di Eni in Nigeria, un processo su cui la Procura di Milano aveva puntato molto, ma che appunto si è risolto con una sfilza di assoluzioni. E mentre il tribunale sanciva la sconfitta dei pm milanesi, ecco arrivare anche la notizia dei due magistrati indagati dai colleghi di Brescia. L’iscrizione risalirebbe a una decina di giorni fa dopo l’interrogatorio del pm Paolo Storari, pure lui indagato a Brescia per il caso dei verbali dell’avvocato Amara e i contrasti con i vertici del suo ufficio. Un gran brutto momento per la giustizia milanese, già scossa di recente dalle rilevazioni su una presunta congrega segreta di magistrati chiamata “Loggia Ungheria”. E dallo scandalo del fascicolo che sarebbe passato dalle mani del pm Storari a quelle di Piercamillo Davigo che nelle scorse settimane ha provato l’imbarazzante ruolo di chi distingue tra un fascicolo ufficiale e un file word. Lo stesso atteggiamento che di solito hanno avuto molti imputati negli anni d’oro della magistratura e veniva stigmatizzato dalla stampa. Un’inversione dei ruoli che è sistemica: se negli ultimi vent’anni è stata la magistratura a evidenziare e combattere ogni stortura degli altri poteri dello Stato, ora si trova nello scomodo ruolo di protagonista della crisi. E, come dice un avvocato di lungo corso del Tribunale di Milano, “non è un bene per la democrazia che la reputazione della magistratura sia così svilita”. Ma le ultime inchieste e rivelazioni hanno dipinto anche il mondo dei magistrati come un insieme di correnti e fazioni politiche che si combattono senza esclusione di colpi per la spartizione del potere. Un quadro finora riservato solo ai politici. E secondo alcuni il caos in cui versa la Procura di Milano è dato proprio da una serie di cambiamenti in corso: diversi componenti della squadra del procuratore capo Francesco Greco sono in partenza per la Procura europea. E già a livello di organico sarebbe un problema perché si tratta della squadra più esperta in reati finanziari. Inoltre nello stesso tempo lo stesso Greco sta andando in pensione. E questo apre una corsa per una delle poltrone di potere più ambite d’Italia. E c’è un altro dato essenziale in questa complessa matematica del potere: questa volta il procuratore capo di Milano non sarà di sinistra. Dopo gli ultimi due in particolare, Bruti Liberati e Greco, sarebbe un vero cambio di musica. Secondo i maligni la vicinanza dell’attuale Procura agli ambienti di sinistra come l’Amministrazione Sala ha favorito i buoni rapporti tra potere politico e potere giudiziario. Al punto che il capo dei vigili di Milano sarebbe stato preso dagli uffici investigativi del Tribunale proprio su sollecitazione dei vertici della magistratura milanese. Una ricostruzione contestata dal Comune che ha annunciato cause legali, ma anche questo genere di procedimento potrebbe prendere tutta un’altra strada con un diverso capo della Procura. Per ora sembra che i nomi di cui si parla sono quelli di Nicola Grattieri, procuratore di Catanzaro, Giovanni Melillo, già procuratore aggiunto di Napoli, e il più giovane Giuseppe Amato, attuale procuratore di Trento. Improbabile la successione interna con Alberto Nobili al posto di Greco perché il clan Boccassini è in discesa. Né sembra molto papabile il nome di Grattieri perché non sembra gradito agli stessi magistrati in servizio. L’unica opzione che pare valida sarebbe Melillo, ma sulle nomine lo stesso Csm messo duramente in crisi negli ultimi mesi va cauto. Per Milano sarebbe una notizia perché a quel punto sia la Prefettura che la Procura di Milano sarebbero guidati da un uomo del Sud. E visto l’apprezzato lavoro di Renato Saccone come Prefetto, potrebbe essere l’inizio di una sinergia interessante per la terra amministrata dai leghisti. In fondo Milano è composta in gran parte di persone che ci si sono trasferite. Persino il presidente dello storico Asilo Mariuccia è pugliese.
La lenta agonia della Procura di Milano. L’agonia della procura di Milano: Davigo coinvolto nel caso Amara, De Pasquale e Spadaro indagati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Con due uomini di punta, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, indagati a Brescia come il loro collega Paolo Storari e Piercamillo Davigo che è lì lì per raggiungere il trio, sta andando in pezzi il mito della Procura della repubblica di Milano. Il fortino degli invincibili e intoccabili, quelli che ti procuravano la scossa elettrica prima ancora che tu li avessi sfiorati (bastava lo sguardo o una parola di troppo), ha decisamente perso non solo lo splendore, ma proprio la verginità. Prima vediamo un sostituto procuratore scontento del proprio capo perché secondo lui sta trascurando una certa inchiesta (in cui si parla di una loggia segreta fatta anche di magistrati e finalizzata tra l’altro ad aggiustare i processi), che si rivolge a un amico invece che alle vie istituzionali, consegnandogli materiale coperto da segreto. Poi questo amico, che casualmente è un ex uomo del pool e in seguito membro del Csm, a sua volta sceglie una sorta di passaparola per vie informali, fino ad arrivare, con queste carte che misteriosamente passano di mano in mano, al presidente della commissione Antimafia, che c’entra come i cavoli a merenda e che comunque va subito a spifferarlo in Procura. E intanto, mentre le carte “segrete” volano motu proprio fino a due redazioni di quotidiani, si scopre che colui che veniva chiamato Dottor Sottile forse tanto sottile non era. E forse il mitico Pool di cui ha fatto parte a sua volta non era proprio geniale. E magari ha avuto anche qualche “aiutino”. Poi subentra la famosa maledizione dell’Eni, quella che nel 1993 portò al suicidio di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Solo che questa volta i vertici del colosso petrolifero vengono assolti, pur se dopo tre anni di dibattimento e 74 udienze e dopo che i rappresentanti dell’accusa avevano tentato di far entrare nel processo una sorta di cavallo di troia che avrebbe potuto persino portare il presidente Tremolada all’astensione. E questo è già un brutto neo sulla reputazione della Procura di Milano, il primo fatto di cui dovrebbe forse occuparsi il Csm. Anche perché di questo verbale si sono preoccupati anche lo stesso procuratore Greco e la fedelissima aggiunta Laura Pedio, inviandolo a Brescia per competenza. Sicuramente a tutela del presidente Tarantola, pensiamo. A Brescia c’è stata una repentina archiviazione, ma il Csm è stato informato? Non si sa. Quello su cui è invece già stato allertato, insieme al procuratore generale della Cassazione, è un fatto di omissione. Perché aver ignorato la manipolazione di certe chat e aver tenuto fuori dal processo Eni un video che avrebbe giovato alla difesa, ha portato il procuratore aggiunto De Pasquale e il sostituto Spadaro sul banco degli indagati, se così si può dire. E anche sul banco degli sgridati, nella motivazione della sentenza, in cui il tribunale si dice sconcertato per i comportamenti dei rappresentanti dell’accusa. Sarebbe mai successo ai tempi splendidi di Borrelli e Di Pietro? Impensabile. A questo punto, mentre gli uomini di punta della Procura di Milano sembrano cadere come birilli, nella reputazione ma anche nelle carte processuali, il dottor Nicola Gratteri da Catanzaro può veramente cominciare a scaldare i muscoli e farsi la bocca sulla possibilità di succedere a Francesco Greco nell’autunno milanese. Poche sere fa, ospite di una dolcissima Lilli Gruber, sprizzava soddisfazione e infilava gli occhi diritti nella telecamera (un po’ come un tempo faceva Di Pietro), presentandosi come uno diverso dagli uomini del Sistema di Palamara. E quindi anche da quelli del fortino milanese. Non ho mai fatto parte di alcuna corrente, dice, e mai lo farò, per questo ho perso molte occasioni di andare a presiedere Procure prestigiose. Poi vi dico anche che ritengo che i membri del Csm debbano entrare per sorteggio e non per traffici o camarille politiche. Se la carica di Procuratore della repubblica di Milano dovesse essere assegnata tramite referendum popolare, Nicola Gratteri avrebbe già detto al suo collega “fatti più in là” e sarebbe già seduto al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano prima ancora che Greco abbia compiuto i 70 anni, età della pensione dei magistrati. Si spezzerebbe così non solo la tradizione almeno trentennale del fortino di Magistratura democratica, ma anche il permanere di quello stile ambrosiano, intriso di fair play istituzionale e garbo politico molto gradito al ceto dei partiti, quelli contigui fin dai tempi di Mani Pulite, naturalmente. Quel rito ambrosiano che indusse il premier Matteo Renzi a ringraziare il procuratore capo Bruti Liberati per aver consentito l’apertura per tempo dell’Expo. Uno sforzo che non ha però salvato il sindaco Sala dall’arrivare poi a una condanna per falso ideologico, infine tamponata dalla prescrizione. Ma il garbo ambrosiano c’era stato. Quello stile oggi è decisamente incrinato. Il procuratore Greco si era fino a poco tempo fa salvato da situazioni come quella di vera sparatoria all’o.k. Corral tra il suo predecessore Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Ed è uscito abbastanza indenne dal libro di Sallusti, anche se con qualche ombra polemica sui colleghi nominati come suoi aggiunti. Palamara è stato garbato nei suoi confronti, e gli ha consentito di continuare a governare la Procura più famosa d’Italia “con la diligenza del buon padre di famiglia”. Ma gli sono esplose tra le mani, in sequenza, prima la vicenda Storari-Pedio-Davigo e poi il processo Eni, la maledizione del tribunale di Milano fin dai giorni di Gabriele Cagliari e Raoul Gardini. Ma erano altri tempi, quelli, e Francesco Greco c’era, con il procuratore Borrelli e gli altri del pool. Erano gli anni Novanta. Quelli in cui a cadere nella polvere erano i ministri di giustizia. Claudio Martelli con un’informazione di garanzia, Giovanni Conso e Alfredo Biondi per due decreti che avrebbero cambiato in meglio le regole della custodia cautelare e dei reati contro la pubblica amministrazione. Erano tempi in cui bastava una telefonata del procuratore: signor ministro le sto inviando un’informazione di garanzia, e lui si dimetteva. Oppure si concordava la linea con i direttori dei tre principali quotidiani d’informazione e dell’Unità (che garantiva la complicità del principale partito della sinistra) e il decreto era affossato. O anche si andava in tv con gli occhi arrossati e la barba lunga a dire che senza manette non si poteva lavorare e l’altro decreto cadeva e in successione anche il governo. Bei tempi, quelli. E il capolavoro dell’abbattimento del ministro Filippo Mancuso? Quello fu un vero combinato disposto Procura-Pds. Il guardasigilli “tecnico” del governo Dini, voluto personalmente dal presidente Scalfaro, fu in realtà il più politico e il più coraggioso. L’unico che non si fece mai intimidire dalla potenza degli uomini della Procura milanese, quello che la inondò di ispezioni. La prima dopo il suicidio di Gabriele Cagliari, illuso e poi deluso dal sostituto procuratore Fabio De Pasquale e suicida dopo 134 giorni di carcere preventivo. Ma poi altre, per verificare se rispondesse a verità il fatto che gli indagati venissero tenuti in carcere fino a che non avessero confessato e fatto anche “i nomi”. I più gettonati erano quello di Craxi, e in seguito quello di Berlusconi. Un modo di procedere confermato dallo stesso procuratore Borrelli, che candidamente dichiarava: noi non li teniamo in carcere per costringerli alla confessione, ma li liberiamo solo se parlano. Il Sistema Lombardo che evidentemente non turbava i sonni dei componenti del Csm, ma anche che piaceva molto ai discendenti di Vishijnsky, il cui partito allora si chiamava Pds, Partito democratico della sinistra, fratello maggiore del Pd. Così fu inaugurata con la defenestrazione del ministro Mancuso la stagione della sfiducia individuale. Con il quarto ministro guardasigilli abbattuto dal potere della Procura di Milano, uno in fila all’altro. Giusto per rinfrescarci la memoria, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, qualcuno ricorda la fine miserrima delle Commissioni Bicamerali? Si potrebbe alzare il telefono e fare due chiamate a coloro che ne furono i presidenti, Ciriaco De Mita e Massimo D’Alema. Il primo fu apparentemente travolto dall’arresto di suo fratello, ma la verità è che, proprio mentre la Commissione stava timidamente (così lo ricorda anche Marco Boato, che era presente) affrontando il tema della separazione delle carriere, irruppe in aula e fu distribuito a tutti un Fax dell’Associazione nazionale magistrati con decine di firme di toghe, comprese quelle degli uomini del pool, che intimava di non affrontare nella Commissione il tema giustizia. E l’argomento sparì. La seconda Commissione subì i colpi di un’intervista del pm Gherardo Colombo al Corriere della sera, in cui veniva ricostruita la storia d’Italia come pura storia criminale. Una frase andò diritta al cuore del Presidente Massimo D’Alema: state attenti, che di Tangentopoli abbiamo appena sfiorato la crosta. Fu sufficiente, anche se la guerra-lampo durò tredici giorni, e alla fine chi ci rimise non fu, ovviamente l’uomo del pool ma l’incolpevole ministro di Giustizia Giovanni Maria Flick. Bei tempi davvero. Oggi con tre indagati e un ex in crollo di reputazione pare un po’ difficile che la Procura di Milano abbia la forza, non diciamo di far cadere la ministra della Giustizia, ma neanche di bloccare leggi e decreti. Ma il problema è: questa classe politica, che teoricamente dovrebbe essere più forte di quella che mostrò la propria fragilità abrogando l’immunità parlamentare, ha la capacità di cogliere l’attimo? Pare proprio di no. Ma ci saranno i referendum, e forse quella forza la troveranno direttamente i cittadini.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Magistratura, il giudice nomina il suo amico? Non c'è nessun reato: la sentenza è uno schiaffo. Paolo Ferrari Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Se un cittadino chiede un favore di qualsiasi tipo ad un politico, quest' ultimo risponde nella migliore delle ipotesi di abuso d'ufficio, altrimenti di corruzione. Se un favore, come una nomina o un incarico, lo chiede un magistrato ad un componente del Csm non succede nulla trattandosi di "autopromozione". È il "doppio binario" che assolve i signori in toga e punisce con l'arresto i comuni mortali. «La legge per i nemici si applica, per gli amici si interpreta», diceva Giovanni Giolitti che aveva già capito tutto un secolo prima di Luca Palamara. Un esempio di applicazione del diritto per coloro che non hanno il privilegio di indossare la toga viene dalla recente sentenza numero 21006 della Cassazione. In estrema sintesi, risponde di concorso in abuso d'ufficio chi "convince" il pubblico ufficiale a non compiere il proprio dovere, non trattandosi di una semplice segnalazione che lascia libertà di agire, bensì di una istigazione determinante per la decisione finale. I cultori del diritto potranno obiettare che nel caso affrontato dalla Cassazione, una multa non elevata dalla stradale, si configura un vantaggio patrimoniale. Per i magistrati, differenziandosi fra loro solo per funzioni, non ci sarebbe alcun incremento di stipendio fra chi, a parità di anzianità di servizio, viene nominato procuratore e chi resta pm. Però c'è il danno ingiusto: il meccanismo emerso dalle chat ha danneggiato chi non aveva santi in paradiso, quindi al Csm. Palamara, in segno di "pacificazione", dopo l'esplosione dello scandalo sulle nomine si è affrettato a chiedere scusa ai colleghi penalizzati dal mercato delle nomine. Ma oltre a non incorrere in reati, le toghe dedite al "self marketing" sono state esonerate dal fastidio di affrontare un disciplinare. Il pg della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell'azione disciplinare, con una circolare dell'anno scorso ha stabilito che il magistrato non commette illeciti caldeggiando il proprio nome per un incarico al Csm. «L'attività di autopromozione - secondo Salvi - effettuata direttamente dall'aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari». Per le Sezioni unite della Cassazione, invece, le condotte che danno vita al sistema clientelare, mediante qualunque interferenza nella valutazione del Csm, «sono in ogni caso disciplinarmente sanzionabili», diversamente da quanto previsto dalle linee di Salvi. A due anni dalla pubblicazione delle chat di Palamara, dunque, nessuna Procura ha aperto un fascicolo nei confronti dei magistrati che spingevano per una nomina, nessun procedimento disciplinare è stato avviato per sanzionare il self marketing togato, e nessuno è stato trasferito per incompatibilità ambientale. Insomma, tranne Palamara sono tutti al proprio posto. Nei mesi scorsi, senza successo, alcuni magistrati "dissidenti" del gruppo anticorrenti Articolo 101, hanno invitato Salvi a ritirare la direttiva, chiedendogli le dimissioni se non avesse fornito spiegazioni convincenti su un episodio di self marketing, quindi non punibile, che lo aveva visto coinvolto ed era stato raccontato nel libro Il Sistema. Per la precisione un aperitivo alla presenza dell'allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini durante il quale si sarebbe "sponsorizzato" proprio per il posto di pg della Cassazione.
Giulia Merlo per editorialedomani.it il 6 maggio 2021. Il libro “Il Sistema” firmato da Alessandro Sallusti e Luca Palamara, che racconta il meccanismo delle nomine dentro la magistratura, verrà modificato. Il caso è significativo non solo viste le polemiche sollevate dal libro-intervista, ma perchè si tratta di un caso probabilmente unico di casa editrice (in questo caso la Mondadori), che modifica le pagine di un libro già diffuso e venduto in oltre 100 mila copie. Le modifiche, che riguarderanno tutte le ristampe del libro cartaceo, l’ebook e l’audiolibro, riguardano i riferimenti sull’attività dell’ex procuratore della Repubblica di Torino, Armando Spataro. «Alcuni riferimenti inclusi nelle pagg. 53, 54 e 55 del libro “Il Sistema" alla attività del dottor Armando Spataro quale membro del Csm nel periodo 1998-2002 e quale dirigente della corrente dell’Anm, Movimento per la Giustizia, hanno generato equivoci che il dottor Palamara intende chiarire, avendo sempre nutrito alta stima personale e professionale per Spataro, da lui considerato un magistrato di elevato profilo», si legge nel comunicato che accompagna la notizia. Palamara, denunciando le criticità del sistema correntizio, «non ha mai inteso attribuire al dottor Spataro alcun comportamento eticamente scorretto, sia quale magistrato, sia quale membro del CSM, sia sul piano associativo». Per questo sono state modificate tre pagine, «modificando o eliminando» dal testo «i riferimenti che avrebbero potuto determinare» distorte interpretazioni. Spataro, preso atto delle modifiche, si è dichiarato «d’accordo e soddisfatto».
Anna Maria Greco per Il Giornale il 28 aprile 2021. Al Csm, invece di fare passi avanti sul caso Palamara, se ne fanno parecchi indietro. Le audizioni di questi due giorni ingarbugliano la ricostruzione principe del sistema delle correnti, quella dell'incontro del 2019 all' hotel Champagne, tra i togati e i renziani Cosimo Ferri e Luca Lotti, per l'accordo sul nuovo procuratore di Roma. E si fa più pesante la spada di Damocle dell'irregolarità delle intercettazioni dell'ex presidente dell'Anm, che potrebbe far saltare processi disciplinari e penali. Viene rinviata l'audizione di Duilio Bianchi, della società che inoculò il trojan nel cellulare di Palamara, che si è contraddetto sulla gestione delle intercettazioni da Roma a Napoli e ritorno prima di arrivare ai pm di Perugia. Ora a Firenze e Napoli si indaga sullo strano «giro» dei file e su «buchi» di ascolto, soprattutto quello della cena dell'ex procuratore di Roma Pignatone con Palamara e altri, la sera dopo l'incontro all' hotel Champagne. Ieri, al processo disciplinare contro i 5 ex togati del Csm (Morlini, Spina, Lepre, Cartoni e Criscuoli) che parteciparono a quella riunione notturna, al maresciallo della Gdf Roberto D' Acunto viene chiesto come fu gestito il trojan. «Non decidevo io - risponde -, seguivo indicazioni dei superiori. Della programmazione non viene redatto verbale, ma resta la traccia informatica. Non mi occupavo dei rapporti con la procura e l'ascolto avveniva da remoto, presso la sala della Gdf». Per la difesa del deputato di Iv Ferri, magistrato fuori ruolo e sotto accusa disciplinare, se le intercettazioni non sono state trasmesse direttamente alla sede dovuta, come vuole la legge e sono quindi a rischio manipolazione, sono inutilizzabili nei processi. Nelle audizioni del giorno prima, sia il procuratore generale di Firenze Viola, candidato di Palamara per Roma, che l'ex togato Forciniti, fanno un quadro ben diverso da quello dipinto finora sulle manovre per il dopo Pignatone. «Spina mi disse che i 5 consiglieri di Unicost avevano deciso di sostenere Creazzo e si lamentava dell'invadenza di Palamara, che invece insisteva su Viola, anche perché si trattava dell'ufficio dove era sostituto», racconta Forciniti, ex togato della corrente di centro. Con Spina, aggiunge, era presente Morlini (ambedue di Unicost). Ricorda bene la data dell'incontro a Reggio Calabria per un convegno: 17 maggio. La riunione dell'hotel Champagne è della notte tra l' 8 e il 9 maggio e, secondo le accuse, fu il momento in cui si strinse il patto scellerato tra Unicost e Magistratura indipendente, benedetto da una parte politica, per portare Viola a Roma. Forciniti ripete, invece, che i suoi colleghi al Csm puntavano su un altro candidato. Quasi 10 giorni dopo il confronto notturno, rimanevano divisioni, l'accordo non c'era. Si trattò solo di uno dei tanti incontri preliminari, per cercare un accordo tra correnti, rompendo l'asse che prima legava Unicost ai gruppi di sinistra? Per Palamara, poteva poggiare sulla scelta comune di Viola, in discontinuità con Pignatone. Dice Forciniti: «I rapporti tra Palamara e Pignatone prima erano ottimi, poi ci fu freddezza. E Palamara si avvicinò a Ferri, una volta su posizioni contrapposte». Molti incontri informali, sulla nomina nella capitale, avvennero anche dentro Palazzo de' Marescialli. Lo conferma lo stesso Viola all' udienza. «A maggio passai al Csm e ci vedemmo nella stanza del consigliere Criscuoli. Non contemporaneamente vennero Lepre, Spina, Cartoni, Davigo...». Anche Cascini (Magistratura democratica), aggiunge dopo una domanda. «Si parlò anche della nomina alla procura di Roma, ma non si entrò nel dettaglio. Mi dissero che erano passati anche altri candidati, Creazzo, Lo Voi...». D' altronde, l' autopromozione non è né illecito né reato, afferma il Pg della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell' azione disciplinare. «Nessuno mi disse: voterò per te», conclude Viola.
Palamaragate e le responsabilità della magistratura. Palamara chi? I magistrati fanno gli gnorri sul sistema e sorridono ai giornalisti…Valerio Spigarelli su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Capita spesso, nel corso dei convegni che da un anno a questa parte si fanno via web sui temi giuridici, i mitici webinar, di confrontarsi con magistrati di gran calibro che evitano accuratamente di prendere posizione su tutto quello di catastrofico che, pandemia a parte, è accaduto negli ultimi dodici mesi alla magistratura italiana. Quando qualcuno – e a me capita spesso – stravolgendo il birignao da conferenza, mette i piedi nel piatto e si permette di tirare in ballo la questione Palamara, il meglio che gli può capitare è una ostentata indifferenza da parte dei magistrati invitati. “Palamara chi?” sembra che dicano guardando all’insù o all’ingiù verso il video; e il pensiero corre alle schiere di reietti, da Trotsky in poi, trattati come incidenti della storia delle organizzazioni complesse fino ad essere cancellati dalle fotografie ufficiali. Il che, sia detto con simpatia, nel caso di specie non sarebbe neppure un dramma estetico ma sul versante della verità storica sì. A quel punto, per non urtare la suscettibilità dei conferenzieri, e nel dubbio che la reazione sia dovuta al fatto che la sterminata rubrica, e le relative chat, dell’ex presidente dell’Anm possano essere fonte di imbarazzo per qualche partecipante, succede che qualcuno – a me capita spesso – chieda conto ai depositari della cultura della giurisdizione degli attacchi che, da Catanzaro a Milano, proprio la giurisdizione ha subito dall’interno negli ultimi tempi. In genere la cosa viene vissuta come una provocatoria mancanza di garbo e dalle finestrelle telematiche dei webinar si vedono gli interlocutori alzare gli occhi al cielo come se si stesse parlando di fatti successi a Tongatapu. «Ancora con sta’storia» sembra che dicano a microfono spento «parliamo dei problemi veri, non degli episodi» celiano quando poi hanno la parola. A quel punto succede – a me capita sempre più spesso – di cominciare a perdere la pazienza, ma per non mettere a disagio l’organizzatore del webinar ci si trattiene e si cerca educatamente di dirottare il discorso su temi meno urticanti, magari sull’irrefrenabile voglia di intercettazioni che sembra possedere gli inquirenti italiani come il demonio abitava il povero corpo di Linda Blair ne L’Esorcista. Fenomeno testimoniato non solo dalla significativa quota di risorse che si destinano allo strumento, ma anche dal numero impressionante di ore di intercettazione contenute nei fascicoli processuali che per ascoltarle tutte ti ci vorrebbero due vite. Questo, cioè parlare di intercettazioni per sciogliere un po’ l’atmosfera, lo si fa negli ultimi tempi anche per assaporare la sottile perversione di essere, per una volta, dalla parte della gloriosa stampa giudiziaria nazionale che comincia a preoccuparsi, secondo me giustamente, della propria libertà di comunicazione perlomeno quanto se ne è infischiata di quella degli altri fin qui. Il che merita – in queste settimane mi è capitato spesso – il primo sorriso convegnistico, da trent’anni ad oggi, da parte del giornalista/moderatore che in genere tratta l’avvocato come lo zio matto che si invita per dovere sotto le feste ma ora che se lo ritrova da parte della libertà di stampa gli sorride dal web manco fosse Cronkite reincarnato con la toga addosso. Per la verità sull’argomento intercettazioni il muro di indifferenza magistratuale ogni tanto perde qualche mattone e succede di ascoltare – mi è capitato spesso da un anno in qua – qualche timido ripensamento da parte dei giudici conferenzieri che in questo si distinguono dai pm conferenzieri, che invece respingono ogni accusa di abuso dello strumento. Ogni volta che accade gli avvocati partecipanti pensano malignamente che forse qualcosa di buono il Trojan, sia pur mal funzionante, piazzato nel telefono di Palamara l’ha prodotta. Il fatto è che a sentir dire – mi è accaduto anche questo – dai giudici/convegnisti che questi problemucci, come il complessivo squilibrio del processo, dipendono dal “gigantismo del pm”, cui si deve educatamente rispondere con qualche ritocco al codice ma – Dio ce ne scampi – non certo con riforme costituzionali, in primis la separazione delle carriere, finisco per perdere le staffe. «Come sarebbe a dire?» comincio a urlare alla telecamerina, «il gigantismo dei pm lo avete creato voi, con la vostra giurisprudenza, i politici hanno copiato nelle leggi quello che le vostre sentenze, in qualche caso molto creative, avevano già affermato e i giornalisti lo hanno incensato perché il Terzo potere, quello vero, sta nelle Procure. È da sempre che va avanti così. È avvenuto per il giusto processo, nel ’92, per il doppio binario sempre più allargato, per le intercettazioni, per la custodia cautelare, per i processi a distanza. È successo perché siete voi ad avere una idea sbagliata del processo e del sistema giudiziario. Lo vivete come una scopa della storia destinata a raddrizzare torti sociali, se siete di sinistra, o come lo strumento per raddrizzare i molli costumi se state dall’altra parte. Tutto meno quello che dovrebbe essere. Anche per questo, coccolati da una stampa che fa il cane da guardia agli altri poteri ma col terzo si comporta come i corgi di casa Windsor, avete costruito a forza di voti un sistema interno di progressione in carriera di cui oggi vi vergognate ma che non volete discutere in piazza, perché pensate che la giustizia, i processi, le regole, il Csm, siano di vostra proprietà, come gli arredi di casa. Siete voi che di fronte alle schiere di innocenti conclamati, in precedenza sottoposti a custodia cautelare, avete inventato una giurisprudenza salvifica per lo Stato in tema di indennizzo. Siete voi che prorogate le intercettazioni per anni. Siete stati voi, in tutto questo maledettissimo anno di Covid, a scrivere decine e decine di ordinanze con le quali avete negato a gente malmessa di andarsene ai domiciliari, mettendo giù in giuridichese ciò che Travaglio aveva teorizzato, e cioè che in galera si sta più al sicuro che fuori. Sono trent’anni che invocate il sostegno del Popolo ogni volta che vi serve, ben sapendo che è dinamite quando si tratta di questioni giudiziarie, e ve ne accorgete solo quando assediano i Tribunali perché avete assolto qualcuno già condannato dalla ghigliottina dei processi mediatici paralleli. Sono anni che per sentirvi discutere di riforme strutturali bisogna aspettare che andiate in pensione…». Generalmente, però, non riesco a terminare l’invettiva perché qualcuno avverte che il tempo è tiranno e il webinar si deve concludere. E così, mentre i miei collaboratori escono dalle stanze vicine per entrare nella mia commentando «Avvocato, prima o poi questi webinar le saranno fatali…» chiudo il collegamento e rifletto su quanto erano meglio i convegni di una volta. Valerio Spigarelli
Magistratura e politica. Stavolta tocca alla politica indagare sulle magagne della magistratura. Matilde Siracusano su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Mi stupisce osservare che lo scandalo Palamara, esploso con l’uscita del libro-bomba di Alessandro Sallusti, stia giorno dopo giorno sfumando i suoi contorni. L’attenzione mediatica sembra adesso si stia concentrando sul problema relativo alle ingiustizie subìte dai magistrati in contrasto con le correnti e sugli effetti nefasti del disallineamento ai partiti del CSM, che ha compromesso la carriera di molti giudici che oggi si sentono legittimati alla ribellione collettiva contro il sistema malato del quale fanno parte. Si tratta di dinamiche e retroscena deprecabili, soprattutto perché il concetto di indipendenza della magistratura dovrebbe essere una precondizione assoluta, ma ciò che dovrebbe suscitare vero terrore è l’ingerenza politica nel CSM e soprattutto l’ingerenza della magistratura nella politica. Come si coniuga questa commistione di interessi con l’attività giurisdizionale, con le sentenze e con le inchieste eclatanti? Com’è possibile che non siano stati aperti fascicoli per indagare su questi fatti dettagliati nelle dichiarazioni rese da Palamara, che hanno tutte le sembianze delle confessioni di un pentito? Come si fa a non vedere chiaramente che in certi casi la legge non è uguale per tutti? Se le rivelazioni di Palamara avessero investito politici o imprenditori ci sarebbe stata una maxi inchiesta con titoloni da Colossal americano e con centinaia di interviste pop di Pm sullo sfondo di trailer editati con effetti cinematografici. Da giorni osservo trasmissioni televisive che ospitano Palamara ed altri magistrati i quali denunciano gli inciuci correntizi che hanno compromesso le loro carriere, ma che glissano totalmente sulla questione centrale: quanti innocenti sono stati coinvolti ingiustamente in procedimenti viziati da logiche ben lontane dalla ricerca della verità e della giustizia? Quanti leader politici sono stati perseguitati perché ritenuti nemici del sistema? Se è realistico che “un procuratore della Repubblica con un paio di aggiunti svegli ed un ufficiale di polizia giudiziaria bravo e ammanicato con i servizi segreti insieme ad un paio di giornalisti amici hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo”, allora l’indignazione collettiva non è affatto sufficiente. Serve un’operazione verità che rivoluzioni un sistema di potere smisurato che ha fatto e continua a fare a pezzi la nostra democrazia ed occorre urgentemente una commissione parlamentare d’inchiesta perché chi rappresenta le istituzioni democratiche ha il dovere di intervenire per preservarle. In fondo, non sarebbe peccato mortale se per una volta fosse la politica ad indagare sulla magistratura ma forse lo strumento idoneo all’assoluzione affinché la degenerazione del potere giudiziario non diventi il peccato originale. Matilde Siracusano
Giustizia, centrodestra e Iv in pressing per la commissione d'inchiesta sulla magistratura. Ma la maggioranza si spacca. Liana Milella su La Repubblica il 19 aprile 2021. Oltre al partito di Renzi e Salvini, anche Forza Italia e Azione vogliono aprire il "processo" alle toghe. Favorevole Fratelli d'Italia. Pd e M5S sono contrari. La politica vuole mettere "sotto processo" la magistratura. Senza confini, né di tempo né di spazio. Di una commissione d'inchiesta si parla da un anno. È stata messa sul tavolo a ridosso dell'uscita delle chat di Palamara. Era maggio 2020. Ma adesso, anche a costo di spaccare la maggioranza, il centrodestra di governo - Forza Italia, Lega, Azione - e il centrodestra d'opposizione - Fratelli d'Italia - pretendono di far partire subito la commissione d'inchiesta sulla magistratura.
La proposta. Commissione d’inchiesta sulla giustizia, Labocetta lancia la petizione: “Basta zone d’ombra”. Redazione su Il Riformista il 18 Aprile 2021. Una petizione popolare per chiedere l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla giustizia, o per meglio dire sulla malagiustizia, sulle storture emerse negli anni da parte del “partito dei pm” e rilanciate dal cosiddetto Palamaragate. A lanciare l’appello è Amedeo Laboccetta, presidente di Polo Sud e parlamentare di Forza Italia. “I fatti gravissimi contenuti nel mio libro, nel libro di Fabrizio Cicchitto “L’uso politico della giustizia e” in quello a dir poco esplosivo “Il Sistema”, di Palamara e Sallusti, rendono necessaria una presa di posizione forte da parte di tutti coloro che hanno a cuore l’agibilità democratica del nostro Paese”, spiega Laboccetta. Per questo, sottolineando “il muro di gomma che si è creato per ovattare la notizia e tenere il più lontano possibile la consapevolezza della necessità di una riforma della giustizia che ridia lustro e autorevolezza alla magistratura e assicuri ai cittadini italiani una giustizia equa e celere”, Labocetta lancia l’appello per una “petizione popolare per raccogliere firme per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni affinché il parlamento istituisca d’urgenza una commissione parlamentare d’inchiesta sulla giustizia. Affinché non rimangano zone d’ombra e per far luce fino in fondo su quanto è accaduto. Così da poter ripartire e dare linfa alla riforma della giustizia”.
"In ogni seduta in Aula chiederò al Parlamento l'inchiesta sul Sistema". Anna Maria Greco il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Maratona oratoria della deputata azzurra "Palamara deve poter parlare all'Antimafia". Giusi Bartolozzi Armao, deputata di Forza Italia e componente della commissione Antimafia, promette di intervenire in ogni seduta della Camera per ricordare l'urgenza di far luce sulle vicende rivelate dall'ex presidente dell'Anm Luca Palamara.
Lo scandalo Palamara ha confermato i sospetti su un sistema di intrecci pericolosi tra magistratura e politica, ma le richieste di una commissione d'inchiesta parlamentare si scontrano contro il muro della sinistra.
«Uno spaccato allarmante che il Paese aveva diritto di conoscere. Ma siamo ancora alle prime battute ed è necessaria la piena conoscenza dei fatti. La magistratura sta dimostrando di avere i necessari anticorpi, consiglieri del Csm dimissionari, procedimenti disciplinari e penali prontamente attivati. Mentre una parte del mondo politico pare dormiente. Nel luglio 2020 abbiamo presentato una proposta di legge per costituire una Commissione d'inchiesta ma, dopo quasi un anno e nonostante le tante molteplici in Ufficio di Presidenza, la proposta non è stata calendarizzata. Stesso ingiustificabile epilogo per la richiesta di audizione di Palamara in commissione nazionale antimafia».
Lei dice che la magistratura ha dimostrato di avere anticorpi, con processi penali e disciplinari, mentre la politica non vuole fare la sua parte. Perché?
«In parte è codardia, pur comprensibile forse. Un pubblico ministero può indagare chi vuole e come vuole, senza doverne rispondere. Una tale concentrazione di potere sulla vita delle persone nelle mani di un organo inquirente, svincolata da effettive responsabilità, non è più tollerabile. L'informazione di garanzia è poi divenuta, di fatto, una condanna anticipata, che autorizza qualche avversario, intriso da cultura del sospetto, a richiedere le dimissioni del politico indagato. Il caso Palamara ha svelato un intreccio di relazioni ed accordi tra parte della magistratura e parte del mondo politico. E nessuno probabilmente, da una parte e dall'altra, vuole andare sino in fondo».
Come sono percepite dai politici le rivelazioni di Palamara su come la magistratura si sia mobilitata in varie occasioni per influenzare la vita di governi e istituzioni?
«Il caso Palamara rivela qualcosa di molto più allarmante della semplice relazione, fatto ovvio, tra magistratura e politica. È la prima volta che conosciamo che cosa avviene direttamente, da trascrizioni di chat tra alcuni magistrati, su procedimenti giudiziari pendenti a carico di qualche politico e sulle pressioni esercitate per condizionarne negativamente l'esito. Matteo Salvini e Silvio Berlusconi ne sono solo gli ultimi esempi e tutto questo è inaccettabile».
Crede che sia possibile trovare una maggioranza trasversale ai partiti per approfondire questi temi scottanti?
«Mi auguro di sì ed è per questo che in aula, da martedì, ho iniziato una maratona di interventi di fine seduta per sensibilizzare tutti i parlamentari sulla necessità di costituire al più presto la commissione di inchiesta. Inutile trincerarsi dietro conflitti tra poteri dello Stato, perché la potestà delle Camere di disporre inchieste su materie di pubblico interesse è esercitabile solo attraverso commissioni ad hoc. Abbiamo già raccolto diverse disponibilità e contiamo che si trasformino in fatti concreti».
Quanto pesa il caso Palamara sulla prossima riforma della giustizia e in particolare su quella del Csm?
«Spero non sia l'ennesima occasione sprecata. Negli ultimi vent'anni il tema della giustizia è stato al centro del dibattito pubblico, scatenando i più aspri contrasti tra le forze politiche, con disagio tra gli operatori e sconforto tra i cittadini. Oggi occorre da un lato assicurare l'indipendenza della magistratura, specialmente quella giudicante ed evitare che essa si estranei completamente dalla vita del Paese, divenendo un corpo autoreferenziale. La separazione della carriere dei magistrati, la riforma del Csm, la rivisitazione dell'obbligatorietà dell'azione penale sono temi che non consentono un approccio emotivo o populistico. Ne va dell'essenza delle Istituzioni, dei fondamenti dello stato di diritto. In questo momento s'impone un serio confronto su questi grandi temi».
La proposta del centrodestra e Iv. Commissione d’inchiesta su Magistratopoli, chi la vuole e chi la teme: i nomi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Aprile 2021. “Il sistema” compie tre mesi e continua a suscitare sdegno, pagina dopo pagina. Ma alla grande indignazione segue il magnifico nulla e i sovrumani silenzi con cui la magistratura tenta di difendere se stessa, provando con la sperimentatissima mossa dello struzzo. A stanare gli struzzi ecco che a Montecitorio approda la proposta di istituzione di una Commissione d’inchiesta. Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia ma anche Italia Viva chiedono di indagare sul Sistema. Sulla lottizzazione, sugli accordi di potere, sulle trame che hanno troppe volte condotto i giudici ad assumere decisioni pregiudizievoli, preconcette. Alla Camera quattro gruppi chiedono di istituire la prima Commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della magistratura. Dettagliano gli azzurri in una nota: «Forza Italia e tutto il centrodestra hanno chiesto di calendarizzare nelle commissioni prima e seconda di Montecitorio la proposta di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia a prima firma Gelmini, Molinari e Lollobrigida. Pare surreale che a fronte degli scandali emersi il Parlamento continui a guardare da un’altra parte. Ci aspettiamo già dalla prossima settimana un preciso calendario dei lavori». La prima firmataria non è una deputata semplice ma l’attuale ministra per gli affari regionali e le autonomie nel governo Draghi. «La divisione dei poteri non è un optional – argomenta la deputata Matilde Siracusano, FI – e l’indagine parlamentare è necessaria proprio per far luce su vicende nelle quali appaiono evidenti ingerenze della magistratura nella politica». E la proposta istitutiva è caldeggiata anche dai renziani e da Azione, tramite Enrico Costa. Il Pd prova a buttarla in burletta: «È una boutade», spera la responsabile Giustizia Pd, Anna Rossomando. I Cinque Stelle provano a scardinare la proposta, sabotandola dall’interno. Mario Perantoni, M5S: «Durante l’ufficio di presidenza congiunto degli Affari costituzionali abbiamo discusso la richiesta, osservo che non rientrano nel perimetro delle commissioni d’inchiesta temi che possono provocare un conflitto tra poteri dello Stato». E rincara il dem Michele Bordo: «Non si è mai vista una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare su un altro potere dello stato. Il Parlamento non può fare un’indagine sul lavoro fatto dalla magistratura in questi anni, come invece stanno ora proponendo alcune forze politiche. A meno che Forza Italia, Lega e FdI non vogliano che deputati e senatori rifacciano i processi dell’ultimo ventennio». Il nuovo corso del Pd non si intravede, insomma. La vecchia subalternità, sì. E temendo i numeri in commissione, perché il centrodestra più Italia Viva, Azione e i transfughi del misto avrebbero la maggioranza, i dem provano a scoraggiare con la moral suasion: «Tutte le commissioni di inchiesta parlamentare hanno svolto approfondimenti su avvenimenti o fenomeni specifici – aggiunge – mai sull’attività svolta da un altro potere dello Stato. Sarebbe allora il caso che i partiti della destra abbandonassero questa iniziativa, che diversamente rischierebbe di diventare solo uno strumento per provare a condizionare la magistratura. Alle forze di centrodestra mi permetto di ricordare, sommessamente, che qua siamo in Italia non in Ungheria. Da noi la magistratura è indipendente dal potere politico». Il quale però, è facile chiosare, non è affatto indipendente dalla magistratura. Ci sono dunque parlamentari che non ipotizzano neanche di poter disturbare troppo certi poteri, ammettendo la subalternità della politica al Sistema, proprio come descritto da Palamara e Sallusti. Ma il tentativo di eludere il tema suona stridente, e lo fa notare Enrico Costa: «Chi non condivide la proposta di una commissione sulle criticità del sistema giustizia può legittimamente respingerla o emendarla: non può pretendere che l’atto parlamentare sia escluso “a forza” dall’ordine del giorno. Pd e M5S pretendono invece di costringere il Parlamento a non discutere le proposte sgradite, grazie ai Presidenti delle commissioni Giustizia ed Affari Costituzionali abilissimi a buttare la palla in tribuna», sottolinea il responsabile Giustizia di Azione. 67 magistrati scrissero al Presidente della Repubblica a fine gennaio: quelli elencati da Palamara nel libro sono «fatti troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati. Storie che imbarazzano varie articolazioni delle istituzioni giudiziarie come mai accaduto in precedenza», segnalavano, chiedendo una commissione d’inchiesta, appunto. Se la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso la democrazia parlamentare, non dovrebbe essere un tabù pretendere la verifica della verità dagli atti e dalle notizie da accertare.
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Gli scandali nella magistratura visti dalla Campania. Sì all’inchiesta sulle toghe: la chiedono 3mila persone. Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 4 Maggio 2021. Ieri è stata la giornata internazionale della libertà di stampa. La censura ha sempre risparmiato i corvi e tormentato le colombe. Quanti corvi e quante colombe ci siano tra i magistrati non spetta a me dirlo, ma di certo, alla luce del caso Palamara e delle ultime vicende, un cospicuo numero di entrambe le categorie deve pur esserci. In ogni dappertutto, peraltro, esistono i “buoni” e i “cattivi”. Questi ultimi, con la “scoperta” (o l’emersione, che dir si voglia) del “sistema Palamara”, pensavano (o avranno pensato) di mettere a posto la loro coscienza e – perché no – qualche magagna di “affiliazione” all’ex pm. Strani misteri, al punto che non c’è solo il tentativo di stoppare chi intende riportare correttamente la verità dei fatti – i giornalisti, per l’appunto – ma anche il “bavaglio” (anzi le “mani legate”) a chi cerca di istituire la Commissione parlamentare di inchiesta e di “raccontare” nitidamente cosa sia successo in questi anni e quanto accada tuttora nelle aule dei Tribunali. Come se fosse, per capirci, un vero e proprio triangolo “perverso”, con i lati costituiti da certa stampa e certa politica e una base, lo zoccolo duro, formato da determinati pm e giudici. L’alternativa alla Commissione? Probabilmente l’autoscioglimento del Csm, ma appaiono peregrini il pensiero e l’opzione di mandare a casa quei componenti del “governo autonomo della magistratura italiana ordinaria” che spesso “vedono”, sovente ignorano e talvolta si girano dall’altra parte. Il caso Amara docet. Senza questo scatto di orgoglio, ecco che la Commissione resta un faro e un baluardo della democrazia, lo strumento decisivo per comprendere la crisi della giustizia, in attesa di una riforma vera. Palamara non sarà certo un santo, ma nemmeno il demonio come si è sbrigativamente voluto far credere. Non a caso le carte che stanno venendo fuori dimostrano che c’è dell’altro e che il “mostro” ha più teste e testine. Luigi Labruna, su Repubblica di ieri, ha cercato di bacchettarmi sostenendo che la Commissione di inchiesta non serve a nulla. È inutile. Labruna sbaglia e pesantemente. La Commissione contribuirebbe a “studiare” e debellare quello che lui stesso definisce «lercio groviglio Csm-corvi-politica» (e, aggiungerei, avvocati pentiti). È questo il punto: mancano atti e documenti, a eccezione di quelli che spesso marciscono proprio nei bagni dei tribunali o giacciono inevasi nelle scrivanie dei magistrati, per capire gli errori e coprire altri insabbiamenti (il caso Davigo docet due volte) e storture. Dicevo che ieri si è celebrata la giornata della libertà di stampa: i professionisti dell’informazione sono sempre più vittime di pressioni finanziarie e politiche. E di certo non “brillano” i rapporti con settori della magistratura. E se si istituisse la giornata della giustizia? I giornalisti sono chiamati a un’informazione costruttiva: scrivere notizie senza sensazionalismo, polemiche, “bufale” che aiutino le persone a comprendere gli atti e i fatti. La giustizia giusta non avrà mai nulla da temere. È evidente che, ormai da molto tempo, l’intero sistema giudiziario italiano è gravemente malato. Il corpo dell’ordine giudiziario è invaso da pericolose metastasi. L’unico che può curarlo è il detentore della sovranità popolare (e questo non lo dico io, ma lo afferma a chiare lettere la Costituzione italiana), cioè il Parlamento. Lasciamolo lavorare dando vita a una Commissione di inchiesta che sia effettivamente bipartisan e non, come sembra, appannaggio esclusivo del Partito democratico e di Liberi e Uguali (Stefano Ceccanti e Federico Conte sarebbero i relatori). Concludo dicendo che è altamente significativo che la forte e convinta richiesta di una Commissione di inchiesta parlamentare sia partita da Napoli, attraverso Polo Sud: le adesioni hanno superato quota 3mila e 500 in soli sette giorni). Nella nostra città, infatti, il numero di errori giudiziari è altissimo, come il Riformista ha puntualmente segnalato nei giorni scorsi, e la magistratura non ha sempre offerto una buona prova di sé. Ma questo è un altro capitolo che presto affronteremo. Amedeo Laboccetta
Flick: «Commissione sulle toghe? Macché, è inutile: pensino a riformare il Csm». Intervista al presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, che diffida della possibilità di risolvere i problemi della magistratura grazie a «clamorose quanto improbabili rivelazioni nascoste nei verbali». Errico Novi su Il Dubbio il 5 maggio 2021. «Sono passati due anni dalla vicenda rivelata dai trojan nel 2019, anche se già allora a molti nota. Qualcuno vede per caso maturare una autoriforma, tra i magistrati? Non credo ci si possa ancora illudere in una rigenerazione endogena, né del Csm né dell’ordine giudiziario nel suo complesso. Lo conferma l’ultima, deprimente questione dei “verbali avvelenati”. È chiaro che la magistratura ha bisogno di un intervento normativo capace di riformarne l’autogoverno, e l’intervento non può che provenire dall’esterno, dunque dal Parlamento. L’importante è che non si risolva in una commissione d’inchiesta, che invece ridurrebbe tutto a un inutile e forse pericoloso regolamento di conti politico». Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, oltre a sollecitare un’accelerazione sull’ormai leggendaria riforma del Csm, si rifiuta di «fare il pur minimo sforzo per comprendere come siano andate le cose in quest’ultimo conflitto fra il Consiglio e un suo ex componente, o cosa ci sia di attendibile nei verbali. Non mi interessa e non vale la pena di inoltrarsi nell’intrigo, di capire se è una vendetta, o una calunnia, o un maldestro tentativo di intorbidire le acque per difendersi. Di sicuro la gran parte delle persone resta smarrita e confusa come il sottoscritto. Credo basti. Aggiungo solo che insistere nella curiosità febbrile per l’investigazione dei presunti segreti, per l’attesa di una clamorosa rivelazione nascosta nei verbali, tutto questo, al di là delle strumentalizzazioni, di cui anche i media fanno un uso disinvolto, mi pare riproponga l’errore di guardare al dito anziché alla luna. L’unica cosa sicuramente vera è che due anni dopo la vicenda del 2019 qualcuno infligge un ulteriore, grave colpo alla credibilità e autorevolezza della magistratura. Compromette ancora di più la fiducia dei cittadini nella giustizia. Ce n’è abbastanza per smettere di soffermarsi sui dettagli e guardare alla luna anziché al dito».
Perché è un errore dare importanza al caso dei verbali?
Intanto perché la cosiddetta verità su quei verbali potrebbe rivelarsi assai deludente. Non so se vi sia granché, ma non mi aspetto rivelazioni sconvolgenti. È uno scontro di potere, ed è proprio questo il problema. Il Csm rischia di non riflettere più il modello disegnato dai costituenti. Che avevano immaginato un organismo di alta amministrazione dell’ordine giudiziario, dotato di un proprio spazio di discrezionalità e di un potere anche politico definito da limiti rigorosi, ma reso poi indeterminato dalla mancanza di una legge rinnovata sull’ordinamento giudiziario. Da quel modello siamo passati a una crescita abnorme. Siamo passati a un gigante malato?In un certo senso sì. Intanto è il caso di sottolineare la crescita della disinvoltura rispetto all’inosservanza delle regole. Negli ultimi due anni trascorsi dal noto caso del trojan non si è percepito un cambiamento. Mentre per quasi un terzo la componente togata del Consiglio è stata sostituita. Parlo di un potere che nella sostanza è politico e in quanto tale rischia di diventare anomalo. Una distorsione che cresce di pari passo perché strettamente connessa alla crisi di legalità e alla crisi del ruolo del giudice. Assistiamo al continuo ingigantirsi dell’autoreferenzialità della categoria e dei singoli magistrati. Nel segno della correntocrazia, mi pare il termine più congruo. Ma il fenomeno non è comprensibile se non si aggiunge un tassello decisivo.
Quale sarebbe?
Oggi il Csm è un luogo di potere che ha mutuato alcuni aspetti assai negativi dalle prassi della politica. Si pensi alle nomine per gli uffici doppie o triple per accontentare tutti: uno a me, uno a te e il terzo a lui. La scarsa chiarezza nei rapporti fra centro e periferia, la gestione personalistica che prevale sul mandato istituzionale, quando non il vero e proprio abuso. Aspetti che sembrano emergere anche con l’ultima vicenda dei verbali. Certo che un pm è tutelato dalle norme, anche nel senso di potersi rivolgere al Consiglio superiore, ma certo le modalità per ottenere quella tutela non coincidono con quando sembra essere avvenuto.
Però lei dice che il vizio è importato dalla politica.
La patologia si alimenta anche nel rapporto altrettanto anomalo con la politica. E uno dei fattori dell’anomalia è proprio nella scelta dei consiglieri non togati. Secondo la Costituzione devono essere individuati in base all’alto profilo, alle competenze e invece spesso sono scelti fra chi è sì avvocato o professore, ma è innanzitutto organico alla politica tout court. Al di là della composizione dell’attuale Consiglio, a cui non intendo riferirmi in modo specifico, sta di fatto che la parziale elusione del dettato costituzionale ha finito negli anni per trasmettere appunto alcune cattive prassi dalla politica alla gestione della magistratura.
Il mancato rispetto delle regole non si può spiegare solo col cattivo esempio.
Trae origine infatti anche dalla scarsa applicazione della giustizia interna, anche se parzialmente e lentamente migliorata negli ultimi tempi. Già il rispetto dei princìpi deontologici, che attengono alla legalità sostanziale dei comportamenti, potrebbe cambiare le cose. Accanto alla giustizia disciplinare e a quella penale, alcuni comportamenti andrebbero prima ancora sanzionati sul piano deontologico, della cultura della vergogna e della reputazione. Aiuterebbe. Si riferisce all’ultimo caso dei verbali? Assolutamente non mi riferisco ad alcunché di specifico tra le vicende che emergono con preoccupante frequenza. Non mi interessa e non spetta a me indicare colpevoli o distribuire torti e ragioni su casi che oltretutto non conosco. Mi interessa l’impressione di un potere eccessivo e di una sua gestione anomala e autoreferenziale che se ne può trarre da parte dell’opinione pubblica. Mi interessa anche far notare come l’ultima vicenda segnala la difficoltà che la correntocrazia guarisca da sé. La magistratura da sola non ce la può fare.
Ma la politica non è messa meglio: come ci si può attendere che il risanamento arrivi da lì?
Deve arrivare per forza da una riforma approvata in Parlamento, semplicemente non ci sono alternative. A due anni dalla vicenda della primavera 2019 non mi pare che possa ancora esserci chi abbia il coraggio di scommettere sull’autoriforma del Csm.
E se invece lo sdegno suscitasse una risposta dalla base della magistratura?
Certamente la maggior parte dei magistrati italiani lavora con dedizione ed è disgustata dai fenomeni di cui parliamo. D’altra parte non mi pare saggio sperare che l’ordine giudiziario nel suo complesso riesca a rinunciare al grande potere che ha raggiunto.
Serve il sorteggio dei togati?
Serve probabilmente un meccanismo elettorale che riduca il più possibile l’estensione delle circoscrizioni in modo da favorire chi gode della personale fiducia dei colleghi piuttosto che della sponsorizzazione delle correnti. Intendiamoci, non tutte le attività del Csm sono compromesse dalla patologia dell’eccesso di potere, ma quella distorsione, nell’immagine pubblica, appare prevalente sulle tante attività svolte nel rispetto delle regole.
È utile una commissione d’inchiesta parlamentare sulla magistratura?
No. Sa solo di regolamento di conti, alimenta la confusione e nient’altro. Accresce, se possibile, l’anomalia politica in cui versa la magistratura. Crea conflitto fra i gruppi in Parlamento, che ovviamente hanno fra loro idee diverse sul passato dei rapporti fra politica e giustizia. Insomma, complica il quadro. Dal Parlamento dovrebbe invece venire semplicemente una riforma seria dell’ordinamento giudiziario.
Qual è la ricetta?
Guardare al futuro della giustizia anziché al passato dei conflitti. Diffondere un’idea di giustizia basata sulla ricerca paziente della verità, attraverso il dubbio, la consapevolezza dei propri limiti e il bilanciamento degli interessi. Ricordarsi della favola dei porcospini, trovare cioè la giusta misura che consenta di confrontarsi senza farsi male. Di scaldarsi un po’ senza pungersi troppo. Infine, guardarsi dalle suggestioni tecnologiche.
A cosa si riferisce?
Alla cosiddetta giustizia predittiva, all’intelligenza artificiale. Strumenti essenziali ma non valori fini a se stessi. In molti di fronte alla crisi del giudice pensano ci si possa rifugiare negli algoritmi. Ma la funzione giurisdizionale deve sempre tener conto di variabili innanzitutto umane non ripetibili. Proprio perché non ci sono alternative robotiche alla crisi del giudice, essa va risolta in altro modo.
Il Parlamento sarà all’altezza?
Credo si possa intanto riporre fiducia nell’attuale ministra. Non conosco gli esiti della commissione Luciani, non è un compito facile ed è chiaro che il lavoro del Parlamento sarà decisivo. Ma se una cosa buona si può fare subito, è la rinuncia alla commissione d’inchiesta. Confonderebbe solo le idee. E di confusione, sul ruolo e sul potere del Csm ce n’è già così tanta che aggiungerne ancora sarebbe controproducente.
La commissione su toghe e politica? Che bella, inutile, idea…La maggioranza si divide sulla commissione d'inchiesta che deve indagare su magistratura e politica. Ma le commissioni parlamentari non hanno mai, mai, mai risolto nulla. di Aldo Varano su Il Dubbio il 4 maggio 2021. Prosegue, anche se comincia a prendere colpi come fosse già stanco, il dibattito sulla richiesta d’istituire di una Commissione parlamentare d’indagine sulla magistratura per uscire dal caos crescente in cui s’è ficcata. Caos esaltato dal doppio pugno in faccia dei casi Palamara e Amara, ma già evidente da molto tempo con tendenza al peggioramento. A sostegno della Commissione sono intervenuti giuristi prestigiosissimi come Cassese (sul Corsera) e politici con lunga esperienza parlamentare come l’avvocato Giuseppe Gargani (sul Dubbio). Ma non sfugge a nessuno che la proposta, apparsa ormai su molti giornali, sia mescolata a una stanchezza che nasconde male la convinzione che anche questa volta, pur di fronte a una crisi verticale e inquietante, potrebbe non farsene nulla. Sia chiaro, una Commissione parlamentare è sempre legittima. Ma, purtroppo è altrettanto noto e storicamente verificato che quasi sempre è inutile. Sulle circa novanta Commissioni, di Camera, Senato e/o Bicamerali, che abbiamo conosciuto dalla nascita della Repubblica pochissime hanno lasciato tracce decisive sui temi affrontati se si escludono montagne di documenti, spesso preziosi per storici e studiosi ma mai utilizzati per risolvere i problemi in discussione. Ogni Commissione si è conclusa (quando si è conclusa: il fine legislatura, talvolta improvviso, ne decreta comunque la fine e l’automatico scioglimento) con un documento di maggioranza e uno di minoranza dove gli estensori consegnano ai posteri (che difficilmente andranno a leggerle), le proprie posizioni politiche e culturali sull’argomento trattato. E se è vero che ci sono stati casi di Commissioni utilissime che hanno inciso sulla storia del paese facilitando soluzioni e strategie politiche di ampio respiro, come le Commissioni “Sulla disoccupazione”, “Sulla miseria”, “Sulle condizioni dei lavoratori” (rispettivamente di Camera, Senato e Bicamerale) tutte tra il 51 e il 52 del secolo scorso) non si ricordano molti altri analoghi casi positivi. Le Commissioni su P2, disastro del Vajont, terrorismo e stragi, delitto Moro e altre decine ancora hanno lasciato tracce interessanti, ma non hanno mai offerto soluzioni. Un caso a parte è poi quello della Commissione parlamentare antimafia che viene ininterrottamente rieletta a ogni inizio di legislatura diventata appannaggio di politici sul viale del tramonto. Giuseppe Pisanu non può far più il ministro dell’Interno di Fi? Diventerà Presidente della Commissione dell’Antimafia sostituendo Francesco Forgione, Bertinottiano doc eletto per uno strapuntino a Rifondazione comunista. Dopo, avendole giurato guerra Matteo Renzi che pose un veto a qualsiasi suo ingresso al governo, l’Antimafia verrà rifilata a Rosy Bindi. Avrà come successore l’on. Morra del M5s, lì spedito per bloccargli l’aspirazione a ministro dell’istruzione. Diego Gambetta, uno dei più autorevoli studiosi di mafia del Novecento, firmando da Oxford la prefazione a una sua ristampa della Mafia Siciliana (Einaudi) già nel ’93, dopo aver salvato la presidenza di Violante, avvertiva: “Si ha l’impressione che questo istituto, di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia, sia servito come una palestra in cui le forze al governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto”. Insomma, pare sbagliato pensare che una commissione d’inchiesta sulla magistratura, possa risolvere il problema. O interviene direttamente il legittimo potere della politica o la questione continuerà ad aggrovigliarsi sempre più.
Commissione d’inchiesta sui magistrati, Zanettin: «Tentativo di sabotaggio». I relatori saranno Ceccanti (Pd) e Conte (LeU). Un tentativo di «far abortire» l'iniziativa, secondo il forzista. Ma lo stesso sta accadendo con la legge Zan, il cui relatore è Ostellari (Lega). Il Dubbio il 4 maggio 2021. «I presidenti delle Commissioni riunite prima e seconda di Montecitorio hanno nominato relatori della proposta di legge per la istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sull’uso politico della Giustizia gli onorevoli Ceccanti e Conte. Entrambi i parlamentari, appartenenti al gruppo del Partito Democratico e di Liberi ed Uguali, si sono già espressi nelle scorse settimane contro tale commissione di inchiesta. Pare evidente l’intento di far abortite la nostra iniziativa. Di fronte ai gravissimi scandali che coinvolgono la magistratura italiana, c’è chi continua a fare lo struzzo e guarda altrove. Con queste premesse il cammino verso riforme condivise sulla Giustizia appare sempre più arduo e complicato». È quanto afferma in una nota Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione giustizia a Montecitorio. La sua paura, dunque, è che sia in atto un tentativo di ammorbidire, se non di cancellare completamente, l’iniziativa di Maria Stella Gelmini, prima firmataria della proposta forzista per indagare sull’uso politico della Giustizia, con particolare riferimento ai processi che hanno riguardato l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma le accuse rivolte ora da Zanettin a Pd e LeU sono le stesse che, nei giorni scorsi, M5S, Pd e LeU hanno rivolto alla Lega, a causa della scelta del presidente della Commissione Giustizia al Senato, il leghista Andrea Ostellari, di autonominarsi relatore del ddl Zan, la legge contro l’omotransfobia che tanto sta facendo discutere e che il centrodestra ha tentato di ostacolare, ritardando la sua calendarizzazione al Senato a colpi di polemiche. La Commissione sulla magistratura, nel fine settimana, è tornata a far discutere dopo la notizia del dossieraggio interno al Csm. Si tratta dei verbali delle testimonianze rese dall’avvocato Piero Amara, il principale accusatore a Perugia dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, consegnati dal pm milanese Paolo Storari all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e poi, dalla sua segretaria, Marcella Contrafatto, a Repubblica e Fatto quotidiano, che hanno consegnato i plichi anonimi ricevuti in Procura. Amara, ascoltato alla fine del 2019 dall’aggiunto milanese Laura Pedio e da Storari nell’indagine sui depistaggi nel procedimento Eni- Nigeria, aveva descritto l’esistenza di una superloggia segreta – la loggia Ungheria – composta da magistrati, alti esponenti delle Forze di polizia e dell’imprenditoria, finalizzata a pilotare le nomine al Csm e a gestire gli incarichi pubblici. Storari, però, non vedendo riscontri concreti alle testimonianze di Amara, a marzo del 2020 aveva deciso di consegnare a Davigo questi verbali, non firmati, in formato word, cercando così una tutela. La legge istitutiva della Commissione d’inchiesta verrà calendarizzata la prossima settimana in Commissione giustizia alla Camera. Ma M5S e Pd saranno disponibili a trattare soltanto a patto che non si tratti di una revisione degli ultimi 25 anni di storia politica, riletti con la lente delle vicende giudiziarie che hanno scandito ascesa e crollo dei vari governi. «Abbiamo espresso la nostra preoccupazione soprattutto alla luce della proposta Gelmini – ha spiegato al Dubbio Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia -. È un testo che si presta a molti rischi, perché più che una Commissione d’inchiesta sembra una Commissione di natura inquisitoria nei confronti della magistratura, destinata ad una verifica dei rapporti tra politica e magistratura degli ultimi 20- 30 anni, con la malcelata volontà di rimettere in discussione anche alcune vicende giudiziarie che hanno colpito alcuni esponenti politici». Una cosa pericolosa, secondo il Pd, sia per la necessità di rispettare in maniera rigorosa il principio di separazione dei poteri, ma anche per il rischio di innescare un «conflitto» tra politica e magistratura, anziché disinnescarlo. «In questo momento, tornare indietro alle lacerazioni che ha conosciuto il nostro Paese sotto questo profilo non ci pare una cosa utilissima», aggiunge Bazoli. A preoccupare è soprattutto la relazione introduttiva della proposta Gelmini, di natura «provocatoria», in quanto rappresenta quasi «un atto d’accusa nei confronti della magistratura che avrebbe fatto fuori i leader di centrodestra. Quella relazione rappresenta in modo molto evidente l’uso politico della giustizia».
Scontro sulla commissione. I relatori tutti di sinistra. Lodovica Bulian il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Inchiesta parlamentare sulle toghe: nominati solo esponenti giallorossi. Il centrodestra insorge. L'ultimo terremoto sulla magistratura scuote anche la politica con la richiesta di una commissione di inchiesta fortemente voluta dal centrodestra. Lo scontro all'interno della maggioranza si innesca sulla nomina dei due relatori espressione della sinistra al governo: l'incarico è stato affidato a Stefano Ceccanti (Pd) per la commissione Affari costituzionali e a Federico Conte (Leu) per la commissione Giustizia. Forza Italia, Lega e Fdi insorgono. Così come Enrico Costa di Azione: «Il presidente 5 stelle della Commissione Giustizia ha nominato i seguenti relatori: al ddl penale un deputato Pd ed uno M5s, al ddl riforma del Csm un Pd ed un M5s, per la commissione d'inchiesta sui magistrati un Pd ed un Leu - dice - Non vogliono che altri ci mettano le mani. O non si rendono conto della gravità del momento o hanno qualcosa da nascondere». Ora il rischio è che lo scontro si sposti anche sul terreno già incandescente della riforma della giustizia: «Due relatori su due di sinistra rappresentano un precedente pericoloso. La scelta assurda di nominare uno del Pd e uno di Leu per le proposte di legge di Lega, Fi e Fdi sull'avvio di una Commissione d'inchiesta sull'uso politico della magistratura è una follia - attaccano il capogruppo della Lega in Commissione Giustizia Roberto Turri e Igor Iezzi, capogruppo in commissione Affari costituzionali - Peraltro il duo Conte-Ceccanti aveva già espresso parere contrario all'istituzione di questa commissione. Il presidente Fico non ha nulla da dire? Una infrazione dei rapporti parlamentari all'interno della maggioranza che sostiene un governo di unità nazionale di cui terremo sicuramente conto». A esprimere i due relatori sono stati il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia (M5s) e della commissione Giustizia Mario Perantoni (M5s). Che replicano a stretto giro: «I relatori svolgeranno il loro lavoro per le commissioni e non per parti di esse, è scorretto un giudizio preventivo di alcuni colleghi su quanto andranno a fare - dicono in una nota congiunta -. Noi confermiamo la nostra fiducia in Federico Conte e Stefano Ceccanti e siamo certi che faranno un ottimo lavoro». Non basta, perché ormai il fuoco è divampato. Il capogruppo azzurro a Montecitorio Roberto Occhiuto ricorda che «noi sostentiamo convintamente un governo di unità nazionale, ma non siamo azionisti di minoranza all'interno della maggioranza: pretendiamo rispetto e pari dignità». E Maurizio Gasparri (Fi) chiede chiarezza sul ruolo dell'ex magistrato Piercamillo Davigo: «Una faida che coinvolge protagonisti di primo piano della storia giudiziaria italiana. I nomi sono sui giornali da giorni e giorni. La vicenda che ha visto protagonista Greco, Davigo ed altri, giunge a lambire il Quirinale. Davigo dice di avere informato chi di dovere. Vogliamo sapere con chi ha parlato e cosa ha detto». E ancora: «Salvi (procuratore generale della Cassazione, ndr) ha fatto un comunicato, ma deve spiegare di più, anche dei suoi rapporti precedenti con Palamara. Il Quirinale è stato informato? Ha agito?».
L'Anm contro la commissione d'inchiesta sulla giustizia. Sabrina Cottone il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Il presidente Santalucia: "Chat di Palamara? Mai insabbiato". La commissione parlamentare d'inchiesta sulla magistratura trova una forte resistenza tra i giudici rappresentati dall'Associazione nazionale magistrati. A parlare è il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, che lancia un vero e proprio attacco alla nascita dell'organismo che divide il Parlamento: «Si pretende di ridiscutere i fatti accertati da sentenze passate in giudicato, nutrendo l'opinione pubblica del malizioso sospetto, ad arte enfatizzato, che la magistratura in tutti questi anni sia stata al servizio di una parte politica per avversarne, con metodi eversivi, un'altra». È lui stesso a ricordare come una parte delle forze politiche presenti in Parlamento (ovvero Lega, Fi, Fdi e Iv, ndr) si favorevole mentre «opinion leader di peso ne legittimano l'opera e le finalità». Santalucia teme un isolamento e una delegittimazione dell'operato dei giudici e parla di «una farlocca ricostruzione dei rapporti con la politica, alimentata da quanti da troppo tempo insidiano l'autonomia e l'indipendenza della magistratura», in nome della quale «si vuole un'inchiesta parlamentare che dovrebbe sostanzialmente mettere sotto accusa i magistrati che si sono impegnati in difficili processi». Secondo il presidente dell'Anm, che ha aperto la riunione del comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe, è il contrario: proprio questi processi hanno costretto i magistrati a «ingiuste e pesanti sovraesposizioni personali, che infine si sono conclusi con accertamenti irrevocabili nel rispetto delle regole e dei diritti». Santalucia ha poi respinto le accuse di «insabbiamento» relative ai documenti ricevuti dall'Anm sulle chat di Palamara e sul modo in cui lui ha deciso di gestirne i contenuti, ovvero evitando di consegnarne una copia integrale. «Trovo inaccettabile, e segno del deprecabile degrado del linguaggio e dei comportamenti, che per questa vicenda io sia stato pubblicamente accusato di insabbiamento» ha detto, ricordando che nei giorni scorsi è stato «investito da una polemica» che non gli ha risparmiato «offese e contumelie personali», «con toni diffamatori e con una progressione violenta che dovrebbe restare estranea alla vita associativa dei magistrati». Il gruppo Articolo 101 aveva infatti richiesto una copia della documentazione ricevuta dall'Anm sulle chat di Palamara nell'inchiesta di Perugia. Santalucia ha invece invitato a frenare le polemiche sulla riforma del Csm e della giustizia, così da avere un ruolo costruttivo in cambiamenti ritenuti necessari. «Trovo avvilente - le sue parole - che la polemica violenta di alcuni sappia monopolizzare la scena, facendo sì che il dibattito rischi di essere rinchiuso in una bolla di accuse infondate e di ripicche personali, mentre fuori fervono i lavori ai tavoli di riforma del giudizio civile, del giudizio penale, del Consiglio superiore della magistratura».
Le toghe contro la commissione d’inchiesta: «A rischio la nostra indipendenza». Il Dubbio il 24 aprile 2021. Anm e Area contro l'iniziativa assunta a Montecitorio di una commissione parlamentare d’inchiesta sull'uso politico della giustizia. «In nome di una farlocca ricostruzione dei rapporti con la politica, alimentata da quanti da troppo tempo insidiano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, si vuole una inchiesta parlamentare che dovrebbe sostanzialmente mettere sotto accusa i magistrati che si sono impegnati in difficili processi, processi che li hanno costretti a ingiuste e pesanti sovraesposizioni personali, che infine si sono conclusi con accertamenti irrevocabili nel rispetto delle regole e dei diritti». A dirlo è il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, aprendo la riunione del comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe. «C’è chi tra noi plaude a questa iniziativa, che mostra di non comprendere la palese strumentalizzazione del momento di oggettiva difficoltà in cui versa la magistratura da parte di chi pensa che possa realizzarsi l’obiettivo storico di ridimensionarne il ruolo e lo statuto costituzionale di garanzie», avverte Santalucia ricordando che «una parte delle forze politiche presenti in Parlamento vuole istituire una commissione di inchiesta sulla magistratura, e opinion leader di peso indiscusso ne legittimano l’opera e le finalità». Secondo il presidente del sindacato delle toghe, «si pretende di ridiscutere i fatti accertati da sentenze passate in giudicato nutrendo l’opinione pubblica del malizioso sospetto, ad arte enfatizzato, che la magistratura in tutti questi anni sia stata al servizio di una parte politica per avversarne, con metodi eversivi, un’altra». «Io scorgo in queste posizioni associative una forma, consapevole o meno non importa, di pericoloso collateralismo con la politica», conclude Santalucia. «L’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia confligge con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (voluti dal legislatore costituente a beneficio non dei magistrati ma della collettività), soprattutto se volta a riscrivere o, peggio, a piegare la verità storica di venti anni di attività giudiziaria alle mistificazioni di un instant book», scrive in un documento il Coordinamento di Area democratica per la Giustizia, il gruppo delle toghe progressiste, secondo le quali «si tratta di un’operazione di pura strategia mediatica che vorrebbe accreditare, con affermazioni apodittiche e indimostrate, che nei processi riguardanti leader nazionali e partiti del centro destra, l’azione giudiziaria sia stata condizionata dal presidente delle Repubblica Giorgio Napolitano e, addirittura, orientata verso la persecuzione di parti politiche avverse, paralizzando, così, qualsiasi iniziativa ai danni dei partiti di sinistra». I magistrati di Area, dunque, si dicono «fermamente convinti» che «una simile ricostruzione non abbia alcuna credibilità pubblica, nè possa fondare la ragion d’essere di un organo istituzionale come una commissione d’inchiesta che voglia essere autorevole e consapevole della storia. Ovvie – aggiungono – sono le finalità di tale iniziativa: riscrivere l’esito di vicende giudiziarie suggellate da sentenze definitive, utilizzando qualsiasi argomento, ancorché lontano dalla verità storica e giudiziaria, per mettere in discussione l’indipendenza di pensiero di quei tanti magistrati se ne sono occupati, mai omologabili in quelle tesi precostituite che la manipolazione mediatica vorrebbero accreditare». In tale quadro, proseguono le toghe progressiste, «è inaccettabile che tale iniziativa sia apertamente sostenuta da rappresentanti della lista 101 che siedono nel cdc dell’Anm, e che questo gruppo, aderendo apertamente, a simili mistificazioni, tradisca il ruolo nel quale ha sempre affermato di riconoscersi, ossia di contribuire alla tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura. Tale contraddittoria scelta dimostra, semmai – conclude il documento di Area – un inaccettabile collateralismo con le forze politiche che sostengono un simile progetto di mistificazione della storia giudiziaria del Paese e che AreaDg respinge con determinazione».
Articolo 101: «Non abbiamo chiesto noi una commissione, ma necessario indagare sul correntismo». Il J'accuse della corrente ribelle delle toghe: «Solo chi versa in spudorata malafede può assimilare un’inchiesta sulla degenerazione correntizia alla volontà di rifare i processi e riscrivere le sentenze». Il Dubbio il 25 aprile 2021. «La lista ArticoloCentouno non ha nulla a che fare con nessuna proposta di commissione d’inchiesta. E vero invece che, nell’ambito di considerazioni di portata molto più vasta, una commissione di inchiesta sulla materia del correntismo e sulla degenerazione correntocratica dell’autogoverno della magistratura è stata considerata auspicabile nella lettera aperta al Presidente della Repubblica che qualche mese fa è stata sottoscritta da oltre cento magistrati». E quanto precisa una nota a firma dei quattro componenti eletti nella lista Articolo Centouno al comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, Maria Angioni, Giuliano Castiglia, Ida Moretti e Andrea Reale, replicando a quanto sottolineato in un documento di Area democratica per la giustizia che «mistifica slealmente la realtà». «Istituire commissioni di inchiesta su materie di interesse pubblico è una prerogativa costituzionale del Parlamento» ricorda la nota, ed «è evidente» che «una commissione d’inchiesta giammai potrà servire a rifare in altra sede processi o a ribaltare sentenze definitive». «Solo chi versa in spudorata malafede può assimilare un’inchiesta sulla degenerazione correntizia alla volontà di rifare i processi e riscrivere le sentenze – denuncia Articolo Centouno- Rifuggiamo il collateralismo politico nei fatti e respingiamo il ricatto morale secondo cui non si devono denunciare e affrontare i gravissimi problemi che affliggono l’autogoverno perché vi è il rischio che tali denunce possano essere strumentalizzate». «La degenerazione correntocratica ha raggiunto livelli gravissimi e rende detto ricatto, sempre deleterio, ancor più intollerabile. E semplicemente risibile, poi – incalzano i componenti di Articolo Centouno- che l’accusa di collateralismo politico provenga da chi, all’interno della magistratura, ha storicamente rappresentato l’alter ego di partiti politici e, definendosi espressamente “soggetto politico” e così tradendo platealmente il dovere di indipendenza esterna e di imparzialità della giurisdizione, ha sempre sostenuto, in palese contrasto con la Costituzione, il ruolo “politico” del Consiglio superiore della magistratura». «Comprendiamo che recenti eventi che hanno visto negativamente coinvolta AreaDG, come la sconfitta elettorale nelle ultime elezioni suppletive del Csm e la pubblica emersione di condotte censurabili nei confronti dei componenti del Comitato direttivo centrale compiute dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia (appartenente ad AreaDG), possano aver generato un certo nervosismo e la scomposta aggressività che contrassegna gli ultimi interventi di quel gruppo e dei suoi appartenenti. L’invito, a tutti – conclude il gruppo di Articolo Centouno – è a recuperare un minimo di controllo della realtà, constatando che se le istituzioni giudiziarie sono giunte al minimo storico della loro credibilità non è certo per colpa delle dita di quattro componenti del Cdc che indicano la luna; l’invito a tutti è a rimboccarsi le maniche e a decidere, finalmente, che è il momento di intraprendere la strada che possa effettivamente porre rimedio a quei mali che ormai non possono più essere nascosti sotto i tappeti dell’ipocrisia».
«Commissione d’inchiesta? Quella su noi toghe è destinata alla paralisi». Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore di Milano, stronca la commissione parlamentare d’inchiesta che sta per essere istituita a Montecitorio, con l’accordo di tutti i partiti di maggioranza: «È legittimo che il primo potere, il Parlamento, indaghi su noi magistrati, che siamo il terzo, ma la legge istitutiva non indica i casi concreti su cui fare luce, richiesti dalla Costituzione». Errico Novi su Il Dubbio il 24 aprile 2021. Legittima? «Certo». Utile? «Dipende: se ci si sofferma sugli obiettivi dichiarati nella proposta di legge per istituirla, quella sull’uso politico della giustizia sembra tutto fuorché una commissione d’inchiesta». Edmondo Bruti Liberati è stato procuratore della Repubblica a Milano proprio negli anni delle grandi tensioni sulle inchieste che hanno riguardato la politica, e Berlusconi innanzitutto. Rappresenta insomma una “controparte naturale” dell’iniziativa appena assunta a Montecitorio sotto la spinta del centrodestra. Ma non nasconde le proprie perplessità.
Vede vizi di legittimità, in questa commissione?
La giustizia è senz’altro una “materia di interesse pubblico” su cui, come previsto dall’articolo 82 della Costituzione, il Parlamento può istituire una Commissione di inchiesta. Ciò è accaduto, con esiti diversi, in molte occasioni. Hanno riguardato grandi tematiche come la mafia o le stragi, o un oggetto più specifico come quella sul “rapimento e sulla morte di Aldo Moro”. Queste commissioni d’inchiesta hanno indagato su fenomeni e accadimenti oggetto anche di indagini e processi.
E si sono rivelate utili per l’attività giudiziaria?
In non pochi casi hanno fornito spunti e impulsi all’azione della magistratura e anche argomentate critiche su indagini e processi. E infine, cosa non marginale, hanno sollecitato al legislatore stesso opportune riforme. Nessuna preclusione quindi che il “primo potere”, il Parlamento, indaghi sul “terzo potere”, la magistratura.
E quindi qual è il suo giudizio sulla commissione che partirà a breve?
Si tratta di vedere qual è il compito di una Commissione che, come ancora detta l’articolo 82 Costituzione, per il fatto di procedere “alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria” deve avere oggetto ben definito. È stato detto che “il Parlamento può fare tutto, tranne che trasformare una donna in uomo e un uomo in una donna”. Ma una Commissione d’inchiesta è, appunto, una commissione di “inchiesta”. Non è un dibattito parlamentare, non è una analisi sociologica o politologica, non è un seminario di studi.
È questo il rischio che vede?
Quella proposta con atto Camera numero 2565, prima firmataria onorevole Gelmini, è tutto tranne che una “commissione d’inchiesta”: lo tradisce già il titolo che ne fissa l’oggetto “sull’uso politico della giustizia”. E se non bastasse, basta leggere i compiti attribuiti all’articolo 1: “Lo stato dei rapporti tra le forze politiche e la magistratura” ( lettera a) nonché “lo stato dei rapporti fra la magistratura e i media” ( lettera b). Temi oggetto in Italia, in Europa e nel mondo di una letteratura sterminata, e bene potrebbero essere oggetto di tesi di dottorato, ove brillanti ricercatori apportino nuovi approfondimenti su temi mai sufficientemente arati. Ma una commissione d’inchiesta è altra cosa.
Teme insomma che la genericità degli obiettivi vanifichi l’iniziativa?
L’articolo 1 della proposta, con l’apparenza di prefigurare indagini su “casi concreti” sembrerebbe voler rientrare nei limiti della commissione d’inchiesta. Ma i “casi concreti” la cui esistenza si dovrebbe accertare riguardano di tutto e di più. “Esercizio mirato dell’azione penale o di direzione od organizzazione dei dibattimenti o dei procedimenti penali in modo selettivo, discriminatorio e inusuale”. Quali procedimenti? Scelti a campione? In quali sedi? Sorteggiati?
Dice che non si può lavorare su presupposti simili?
“Mancato o ritardato esercizio dell’azione penale a fini extragiudiziari, in violazione del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale” ( lettera g). Ancora più ampio il campo: esercizio ritardato in quali procedimenti? E soprattutto “mancato esercizio”: qui si indaga non su ciò che comunque è stato, ma su ciò che non è stato. Sollecitare tutti i cittadini insoddisfatti a riproporre le loro denunzie? Non è finita qui.
Cos’altro ha notato?
“Influenza esterna nella determinazione di quello che dovrebbe essere il giudice naturale, nella composizione degli organi giudiziari e nella definizione dei calendari, con particolare riguardo ai procedimenti penali nei quali siano coinvolti capi politici e esponenti politici di partiti” ( lettera h). Anzitutto selezioni dei procedimenti: “Capi politici”, ma perché non anche i peones, e perché non anche gli amministratori locali? E all’esito di questa difficile selezione inizierebbe il compito immane di ridiscutere la competenza territoriale, magari già oggetto di decisione in primo grado, in appello e in cassazione e poi addirittura di riesaminare i calendari di udienza e quindi il presupposto, la complicata materia delle tabelle di composizione degli uffici giudiziari.
Lei stronca senza appello.
Non sono mancate nella storia repubblicana anche recente, commissioni d’inchiesta che non hanno approdato a nulla o che, pur istituite, non hanno di fatto operato. Se questa commissione volesse davvero investigare sui “casi concreti” come sopra in- definiti sarà destinata alla paralisi.
Però è indiscutibile l’urgenza di guardarsi negli occhi e superare la crisi, che dura da trent’anni, nei rapporti fra politica e ordine giudiziario. O no?
Nessuno vuole eludere problemi della giustizia e cadute nella magistratura. Ma vi sono proposte di legge pendenti in Parlamento, e la ministra Cartabia ha istituito una commissione di studio proprio sul tema dell’ordinamento giudiziario e della riforma del Csm. Questi sono temi “concreti” sui quali il Parlamento sarà chiamato a pronunziarsi, e sui quali si aprirà un dibattito e un confronto tra le diverse posizioni. E infine, non credo sia parlar d’altro, il ricordare che sulla nostra affannata macchina della giustizia si sono abbattuti gli ulteriori ritardi e problemi dovuti alla pandemia. Riorganizzare la ripresa che speriamo prossima, portare a regime le esperienze utili di semplificazione indotte dalla pandemia, abbandonare quelle meramente emergenziali. Proporre quali investimenti nel quadro del Recovery si debbano fare per la giustizia. Ecco terreni di impegno ineludibili e urgenti. Molte sono le proposte in campo tra le quali segnalo quella, molto “concreta”, elaborata da magistrati, avvocati, professori ed esperti di organizzazione, tradotta nel “Libro Bianco Giustizia 2030”, visitabile su www. giustizia2030. it, presentato in questi giorni.-
«Altro che commissioni d’inchiesta: bisogna togliere al Csm la funzione disciplinare». Uso politico della giustizia, intervista all'avvocato Gaetano Pecorella, ex presidente della Commissione giustizia alla Camera. Simona Musco su Il Dubbio il 24 aprile 2021. «L’uso politico della Giustizia è una fenomeno che ha attraversato il mondo da Cicerone ad oggi. Le Commissioni d’inchiesta possono servire, ma che il Parlamento si metta a indagare sui giudici rispetto a sentenze politiche mi pare una di quelle iniziative che sfociano in niente. Perché non ha il coraggio di sottrarre al Csm la funzione disciplinare, invece di inventarsi queste commissioni?». A parlare è Gaetano Pecorella, avvocato – difensore, tra gli altri, dell’ex premier Silvio Berlusconi – ed ex presidente della Commissione Giustizia della Camera dal 2001 al 2006. Convinto che indagare sull’uso politico della Giustizia, così come proposto da Mariastella Gelmini, prima firmataria del progetto di legge per l’istituzione di una Commissione d’inchiesta, non porti a nulla. Piuttosto, spiega al Dubbio, sarebbe necessario intervenire sul Csm, con la creazione di una Corte Suprema in grado di giudicare in maniera davvero imparziale l’operato dei magistrati. «Palamara ha scoperto l’acqua calda – sottolinea -. Ma fare i processi sui processi non è mai una buona cosa. È compito degli storici e dei giornalisti indagare su come sono andate le cose».
Professore, cosa ne pensa della proposta di una Commissione d’inchiesta sull’uso politico della magistratura?
Credo sia una di quelle iniziative destinate a sfociare nel nulla. Può essere utile, ma alla fine il risultato sarebbe una bella relazione che nessuno leggerebbe e diventerebbe occasione di scontro politico. Come andrebbe, si chiamerebbero a testimoniare i magistrati che hanno emesso sentenze politiche? Il Parlamento ha cose più serie di cui occuparsi in questo momento e non vicende come quella di Grillo o processi del passato. Un conto è Mani Pulite, che ha tagliato alle radici un intero sistema politico, un altro un singolo processo.
La proposta a prima firma Gelmini parte dal caso Palamara e dalle rivelazioni emerse con riferimento alle vicende che, nel 2013, hanno portato alla condanna di Silvio Berlusconi e alla sua decadenza da senatore per frode fiscale.
Secondo me fare i processi sui processi non è mai una buona cosa. Il processo c’è stato, andrebbe lasciato allo storico, al giornalismo, il compito di fare queste cose. Io ero difensore di Berlusconi, potrei essere ben contento che si dimostrasse che è stata studiata a tavolino la condanna a tutti i costi, però francamente, fare un processo politico sul processo politico mi sembra una classica invenzione italica. Se si vuole fare un’inchiesta la si faccia sul cattivo o buon funzionamento della Giustizia. Anche questa mi sembra una di quelle iniziative che fanno rumore al momento e poi scompaiono. Poi chi bisognerebbe sentire, oltre Palamara? Tutti quelli che hanno messo sotto processo Berlusconi? Mi pare un’iniziativa inutile, soprattutto in questo momento, in cui ci vorrebbe una grande unità delle forze politiche per tirarci fuori da questa situazione drammatica. Andare a creare momenti di frizione politica non mi pare proprio una buona idea, in generale.
Ma dato quanto emerso con il caso Palamara non sarebbe il caso di fare un approfondimento?
Palamara ha scoperto l’acqua calda. Le cose che scrive in alcuni casi sono elementi specifici, ma il sistema noi avvocati lo abbiamo denunciato da tempo. Gli intrighi tra magistratura e politica sono cose note. Quando mai si può pensare che le correnti non siano collegate ai partiti se addirittura hanno una collocazione politica? Ora, in un libro, ci sono cose che abbiamo conosciuto o immaginato o in qualche modo già saputo. Per un avvocato, che la scelta della dirigenza di uffici importanti è in mano alla politica è una cosa pacifica. La magistratura non vuole essere separata tra inquirenti e giudicanti mica per un fatto tecnico, ma perché vuole essere un corpo politico, una forza che va dalla Cassazione fino all’ultimo giudice singolo. Scoprire oggi, grazie a Palamara, l’uso politico della Giustizia mi pare una sciocchezza. Ogni processo che tocca l’area politica diventa un processo politico o viene creato apposta per colpire quell’area politica. I politici se ne sono accorti oggi e vorrebbero interrogare chi, i magistrati? Si può pensare che vengano ad ammettere responsabilità simili? Palamara lo ha fatto perché è stato buttato fuori. È la sua vendetta, ma certamente tutti quelli che sono in magistratura non diranno mai nulla, tranne casi sporadici. Ma se uno che ha fatto Mani Pulite diventa senatore del Pd, se un magistrato diventa presidente del Senato o presidente di una casa editrice, questo non ci dice niente?
Per fare luce su questo uso politico della Giustizia quale dovrebbe essere il metodo?
Ha funzionato bene il metodo Palamara, ovvero il lavoro di un bravo giornalista d’inchiesta. Ma non credo che i politici che sono stati l’oggetto di questa politicizzazione della magistratura possano indagare. Mi pare che siamo un po’ al grottesco. Probabilmente ci sono altri sistemi. Se si vuole fare un po’ di polverone questa commissione d’inchiesta si può anche fare, ma che la politica messa sotto processo dai giudici metta sotto processo i giudici mi sembra una cosa da commedia all’italiana.
Pd e M5S hanno contestato il fatto che esiste già il Csm per “indagare” sul comportamento della magistratura. Hanno ragione?
È un’obiezione senza alcun fondamento. E lo sappiamo prima di tutto dal fatto che anche i componenti del Csm sono stati coinvolti nella vicenda Palamara, in secondo luogo perché sappiamo che la grandissima parte degli esposti contro i magistrati vengono tendenzialmente archiviati. Ma soprattutto sappiamo che la giustizia domestica è fatta in modo da proteggere e non da punire. C’era una mia proposta di legge costituzionale, che era anche l’idea di Violante, di fare la Corte Suprema di Giustizia, composta per un terzo da magistrati, un terzo da professori universitari, un terzo da avvocati, con una funzione disciplinare distinta dal Csm. Il Csm non può essere un organo disciplinare: finché ci sarà la commistione tra chi deve punire e chi fa le nomine non potrà giudicare, perché una cosa condizionerà l’altra. E poi chi mai emetterebbe una sentenza che domani potrebbe essere applicata a se stesso? Ci sarà sempre una mano molto leggera.
Durante questo dibattito, era stata proposta anche una commissione “mista”. Potrebbe essere una soluzione?
Tutte le commissioni d’inchiesta hanno al loro interno consulenti esterni. Si può fare, ma alla fine chi decide che cosa mettere nelle relazioni è sempre il Parlamento. Non può essere la componente esterna. Il Parlamento lo sa benissimo che il Csm funziona a modo suo e che deve fare un organo con una maggioranza esterna alla magistratura e basterebbe questo. Quello sì che potrebbe fare le inchieste. Un organo costituzionale, con tutte le garanzie. Ma non un organo nominato dal Parlamento.
Quindi ciò che serve è la riforma del Csm.
La riforma da fare è togliere al Csm la sezione disciplinare, da affidare ad un altro organo. Modificare le forme elettorali, perché finché le correnti domineranno il Csm lo stesso sarà un organo politico. Sono contrario all’estrazione a sorte, perché non si estrae a sorte l’intelligenza o la preparazione, ma oggi il Csm non è espressione della magistratura, ma delle sue correnti politiche e quindi è un organo politico. E come tutti gli organi politici non è imparziale, ma segue le esigenze politiche. Perché il Parlamento non ha il coraggio di sottrarre al Csm la funzione disciplinare, invece di inventarsi queste commissioni? Faccia una riforma costituzionale, istituendo una Corte Suprema, con il compito di giudicare magistrati e avvocati.
Secondo il giurista Cassese una commissione d'inchiesta che indaghi sulla magistratura è legittima: "In questi anni ha sta dando uno spettacolo penoso per frantumazione correntizia, protagonismo e autoreferenzialità". Il Dubbio il 24 aprile 2021. “Non è solo in Italia che si discute dei rapporti tra la politica e le toghe e non è solo in Italia che si conta su una commissione per studiarli”. Inizia così il lungo articolo che Sabino Cassese ha dedicato alla “commissione d’inchiesta sull’uso politico della magistratura” che in queste settimane ha diviso la maggioranza. “È quindi utile fare qualche riflessione sia sulla legittimità, sia sull’opportunità di un’inchiesta parlamentare sulla giustizia”, spiega Cassese. Il quale tira immediatamente in ballo l’articolo 82 della Costituzione che “prevede che ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse”. E non c’è dubbio che quella dei rapporti tra politica e giustizia sia tale. “L’argomento che il Parlamento non possa indagare sulla giustizia – spiega Cassese – perché questa appartiene ad un altro potere, dimostra troppo. Se fosse corretto, i giudici, a loro volta, non potrebbero indagare né parlamentari, né amministratori pubblici, che sono parte, rispettivamente, del potere legislativo e di quello esecutivo”. Ma poi Cassese si spiega: “Se è legittimo che il Parlamento avvii una inchiesta sui rapporti tra politica e giustizia, è anche opportuno farlo? La situazione della giustizia, oggi, in Italia è peculiare. Da un lato, si assiste a una dilatazione del ruolo dei giudici, dall’altro ad una crescente inefficacia della giustizia.Molti osservatori concordano sul fatto che la magistratura sia diventata parte della «governance» nazionale; che vi sia una indebita invasione della magistratura nel campo della politica e dell’economia; che in qualche caso la magistratura cerchi persino di prendere il posto della politica, controllando anche i costumi, oltre ai reati, proponendosi finalità palingenetiche delle strutture sociali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione, con una presenza continua nello spazio pubblico.Nella situazione ora descritta, un posto particolare hanno acquisito le procure, tanto che molti esperti parlano di una «Repubblica dei pm», divenuti un potere a parte, con mezzi propri, che si indirizzano direttamente all’opinione pubblica, rubando la scena mediatica, avvalendosi della «favola» dell’obbligatorietà dell’azione penale, utilizzando la cronaca giudiziaria come mezzo di lotta politica e trasformando l’Italia in una «Repubblica giudiziaria»” “Dall’altra parte, mentre la magistratura continua la politica malthusiana di reclutamento e sta dando uno spettacolo penoso per frantumazione correntizia, protagonismo e autoreferenzialità, il processo è in crisi per la sua lentezza. La Commissione sull’efficacia della giustizia, del Consiglio d’Europa, ha valutato che per concludere un processo civile nei tre gradi sono necessari più di 7 anni e per un processo penale più di 3.” “Il sistema politico, a sua volta, non è privo di colpe, perché legifera continuamente sulla giustizia, moltiplica i reati, non riesce a introdurre sanzioni diverse dal carcere, tollera mezzi di prova invasivi della vita privata delle persone, dilata l’uso del diritto penale e lascia il campo aperto alle procure; a corto di idee e programmi, ha delegato alla magistratura il controllo della virtù, sottoponendosi anch’esso a tale controllo e rinunciando alle immunità che i costituenti avevano introdotto. Conclusione: è consigliabile avviare una inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia”, conclude Cassese.
La stoccata ai pasdaran delle toghe. La sciabolata di Cassese: “Serve commissione d’inchiesta sulla magistratura”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Aprile 2021. Se negli Stati Uniti, dove esiste una reale solida inossidabile separazione tra i poteri dello Stato, il presidente Biden ha potuto istituire una commissione di inchiesta sulla Corte suprema, potrà ben il Parlamento italiano votare un istituto analogo sui rapporti tra la magistratura e la politica, o no? Il quesito è posto, come domanda retorica, dal giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese, che fa propria, arricchendola di argomenti che discendono direttamente dalla sua competenza “professionale”, la proposta di legge dell’intero centrodestra di un anno fa, cui si sono ora associati i deputati di Italia Viva e Azione. Dopo un vero braccio di ferro con quelli che si possono ormai definire gli ambienti più conservatori del Parlamento in tema di giustizia, cioè Pd, Movimento cinque stelle e Leu, i capigruppo dei partiti sostenitori della necessità di creare una commissione speciale su politica-giustizia, hanno ottenuto che per lo meno si metta in calendario la proposta. Se ne parlerà nelle commissioni giustizia e affari costituzionali ai primi di maggio. Sabino Cassese ha dato intanto una sciabolata di quelle che non consentono replica agli argomenti più banali e superficiali dei partiti di sinistra. Tralasciamo le proteste degli indignati Cinque Stelle, che con Travaglio e l’ex magistrato Giancarlo Caselli parlano di un torbido tentativo di “regolamento dei conti”, una sorta di vendetta di una classe politica, che si suppone sempre impura e corrotta, che cercherebbe di mettere la mordacchia alle toghe. E diamo per scontato anche l’argomento un po’ trito e ritrito di un altro magistrato, Nino di Matteo il quale, pur dicendosi in linea generale sempre favorevole a “inchieste e approfondimenti in sede parlamentare”, non solo ritiene la sede naturale per questo tipo di indagini il Csm (e in teoria avrebbe ragione) ma paventa sempre l’attacco all’autonomia e indipendenza della magistratura. Mai che si parli di imparzialità. Il discorso è sempre lo stesso: giù le mani dalle toghe. Ma quel che preoccupa è che la sinistra intera, cioè il Pd e Leu, faccia proprie queste tesi così difensive, così fuori dal tempo e dallo spazio, come se nel settore giustizia non fosse successo proprio niente in questi anni, da mostrare come in questa parte intera della politica non ci siano neppure più le contraddizioni che un tempo erano terreno di confronto tra garantisti e giustizialisti. Quando si sente un deputato del Pd come Michele Bordo, una carriera tutta nel partito fin dal Pci in cui entrò sedicenne, dire che non si è mai visto un potere dello Stato che indaga su un altro, e che c’è il sospetto che Forza Italia, Lega e FdI vogliano rifare i processi dell’ultimo ventennio, vien voglia di rispondergli “magari!”, pur sapendo che non è quello il compito della commissione d’inchiesta. Ma la cosa migliore è fargli rispondere da Sabino Cassese. E anche dal Presidente degli Stati Uniti, uno come Biden che dovrebbe piacergli, si suppone. Che sia legittimo da parte di ciascuna Camera poter disporre inchieste su temi di pubblico interesse lo dice a chiare lettere l’articolo 82 della Costituzione. E qualcuno potrebbe negare che il rapporto tra la giustizia e la politica rientri tra gli argomenti di pubblico interesse? E per quale motivo un potere dello Stato come il Parlamento non dovrebbe poter svolgere indagini su un altro, visto che la Magistratura lo fa continuamente nei confronti di deputati e senatori? Viviamo momenti in cui pure se la classe politica non è alle stelle nel gradimento dei cittadini italiani, lo sconcerto suscitato dalle notizie uscite dall’affaire Palamara, con le toghe che appaiono ogni giorno interessate più a tessere trame e complotti e a occuparsi più della propria carriera che non di garantire una giustizia giusta ai cittadini, fa sì che giudici e pubblici ministeri non godano più di grande stima. Siamo tornati ai tempi di Enzo Tortora e di un referendum sulla responsabilità civile il cui risultato fu poi svilito da una inutile legge che non ha mai fatto tremare nessun magistrato. Certo, dovrebbe essere il Csm a disporre una bella inchiesta sull’uso politico della giustizia. Ma non solo non ha nessuna intenzione di farla, ma si arrocca nella protezione della specie, dopo aver espulso l’unico corpo estraneo, il reprobo Palamara che ha osato rompere la solidarietà di casta. Grazie a questa serrata autodifesa corporativa e a un’enfatizzazione smisurata del potere dei pubblici ministeri, ci troviamo in una situazione paradossale, per cui mentre l’amministrazione della giustizia è a livelli infimi nell’opinione pubblica, il potere delle toghe, giudicanti o requirenti che siano, appare sempre più smisurato. Un potere ormai disabituato a misurarsi con la competenza e con i risultati. Fa parte della conoscenza ormai di tutti il fatto che la lunghezza dei processi, civili e penali, scoraggia gli imprenditori di altri Paesi dal venire a investire in Italia. E anche –le statistiche sono da film dell’orrore- che quasi nessun magistrato paga per i propri errori o le proprie negligenze. Se un pubblico ministero americano uscisse sconfitto in tutte o quasi le cause, dopo aver fatto perdere tempo e denaro allo Stato, sarebbe immediatamente cacciato. Già ma lì i pm sono in gran parte eletti. Qui sono autonomi e indipendenti. Non devono rendere conto a nessuno e fanno carriera comunque si siano comportati. E il fatto che i vertici della magistratura vengano nominati dal Csm in base alle appartenenze politiche o di corrente sindacale, non fa parte dell’uso politico della giustizia? E siamo sicuri che certe trascuratezze, certe dimenticanze, certe moratorie concesse a qualche amministratore o parente di leader di partito, oppure al contrario certe accelerazioni quando l’indagato è un politico non gradito, siano così innocenti? Stiamo parlando di un potere che forse non sarebbe cresciuto in modo così smisurato senza il sostegno benevole ed entusiastico del grande circo barnum dell’informazione. Lo abbiamo visto anche nei giorni scorsi. Una commissione d’inchiesta sull’uso politico della giustizia dovrebbe suscitare l’entusiasmo di tutti quei giornalisti che continuamente definiscono se stessi come persone “con la schiena diritta”, che non prendono ordini da nessuno e che si trasformano in cani da tartufo ogni volta che c’è da annusare il marcio. Dovrebbero essere tutti schierati in prima fila a gridare che a loro non la si può fare sotto il naso, che se quel che ha denunciato Palamara fosse vero anche solo in piccola parte, loro vorrebbero vederci chiaro, e vorrebbero subito una commissione d’inchiesta. Invece: il cinghialone, il cavaliere nero, il truce da una parte, le Sante Toghe dall’altra. In una commistione da Stato etico che sempre più, nelle ordinanze e nelle sentenze così come negli editoriali di direttori virtuosi, confonde il reato con il peccato, mentre i pubblici ministeri d’assalto vanno in cerca di reati da attribuire a soggetti già individuati (il famoso “tipo d’autore”), in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, naturalmente. E in questo quadro desolante, che cosa concludere, che cosa fare? «È consigliabile avviare un’inchiesta parlamentare sul rapporto tra politica e giustizia», suggerisce Sabino Cassese. E noi con lui, non da oggi.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il rapporto tra magistratura e politica. Giancarlo Caselli deve capire che indagare sulle toghe non è un attentato ma è doveroso. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 18 Aprile 2021. Chissà cosa penserebbero Palmiro Togliatti, Giovanni Leone, Gaspare Ambrosini, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini, Giorgio La Pira, Aldo Bozzi, Luigi Einaudi, Tomaso Perassi, Aldo Moro, Ferdinando Targetti, Oscar Luigi Scalfaro, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Grassi, Giuseppe Bettiol, Orazio Condorelli, Egidio Tosato, Francesco Dominedò e gli altri costituenti che dibatterono della disciplina della magistratura nella Costituzione italiana se leggessero le preoccupazioni di chi ritiene che il legislatore non possa occuparsi dello stato della giustizia con una commissione d’inchiesta parlamentare. L’argomento autorevolmente sostenuto da ultimo da Gian Carlo Caselli si fonda sull’assunto che un’indagine parlamentare, di per sé solo, costituirebbe un attentato all’indipendenza della magistratura. Una motivazione piuttosto sorprendente, alla quale si sarebbe tentati di rispondere come spesso ci è accaduto di sentire da parte di esimi esponenti del giustizialismo nostrano per giustificare iniziative giudiziarie clamorose: “Male non fare, paura non avere”. In realtà il tema merita un approfondimento, anche per l’indiscussa autorevolezza del suo sostenitore. Il rapporto tra politica e magistratura è naturalmente un rapporto complesso. Una complessità di cui i costituenti, che ho sopra citato, erano assolutamente consapevoli. Le loro scelte, alcune delle quali volutamente provvisorie (come quella relativa alla mancata separazione delle carriere in attesa della trasformazione in senso accusatorio del processo penale), mossero, infatti, dalla constatazione dell’esistenza di una irriducibile tensione tra due obiettivi egualmente fondamentali: da un lato assicurare che la magistratura, in particolare quella giudicante, non fosse condizionata e influenzata da interferenze dell’esecutivo e, più in generale, degli altri poteri; dall’altro, però, evitare che essa divenisse un corpo separato, chiusa in se stessa e autoreferenziale. Tutti i costituenti, dunque, anche se ciascuno a proprio modo, consideravano centrale l’esigenza di assicurare l’indipendenza della giurisdizione, prevedendo allo stesso tempo dei meccanismi di raccordo con gli altri poteri, per evitare che l’ordine giudiziario si estraniasse completamente dalla vita della nazione. Come ebbe a rilevare Giovanni Leone, che fu anche uno dei relatori nella Commissione dei 75 e rappresentante della Commissione stessa nel dibattito in Assemblea costituente, «lo scopo da raggiungere è quello di sganciare il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, per evitare qualsiasi ingerenza, ma nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della Magistratura». In presenza di tale duplice rischio il dibattito costituente non fu affatto ideologico, ma ispirato a una consapevolezza laica della complessità e all’approccio pragmatico, fatto di approssimazioni progressive. Ad esempio, per la composizione del Csm il progetto di Costituzione prevedeva una composizione paritaria di membri laici e togati (proposta, tra gli altri da Calamandrei e Dossetti) sulla base della motivazione “di sottrarre la carriera dei magistrati all’influenza del Governo, e, poiché non si può farne una casta chiusa, di ammettere un controllo popolare”. Fu solo in Assemblea, in forza di un emendamento di Scalfaro e Nobile, che si introdusse la soluzione attuale, per altro, con una votazione molto risicata. Peraltro, come si sa, a fronte della garanzia di indipendenza della magistratura quegli stessi costituenti previdero un sistema di equilibrio fondato sulla previsione dell’immunità parlamentare. In poche parole, così come si temeva che la politica influenzasse la magistratura, si temeva che la magistratura potesse condizionare la politica. Quest’ultima soluzione, notoriamente, è stata superata con la riforma costituzionale del 1993. Sarebbe auspicabile che anche oggi si recuperasse quell’approccio laico e non ideologico, consapevole che l’equilibrio tra i poteri è un obiettivo sempre precario, che può e deve richiedere anche degli aggiustamenti progressivi. A questo servono innanzitutto le commissioni di inchiesta di cui all’articolo 82 della Costituzione (non a caso inserito nella sezione: “La formazione delle leggi”). Offrire elementi conoscitivi al Parlamento, supremo organo legislativo, per valutare lo stato dell’arte in un certo settore dell’ordinamento ed eventualmente adottare riforme e correttivi. Confondere una simile attività, per il solo fatto di essere posta in essere (al di là del come essa verrà realizzata), come un attentato alla magistratura costituisce un’interpretazione che contrasta sia con la lettera della Costituzione, che con lo spirito dei costituenti. La cui laicità ed equilibrio, in questo settore, è forse la cosa di cui si sente di più la mancanza. Giovanni Guzzetta
Anm, il presidente Santalucia: "La magistratura italiana non merita la commissione d’inchiesta”. Liana Milella su La Repubblica il 14 aprile 2021. Il leader dell'associazione nazionale delle toghe contro il pressing di centrodestra e Iv. Per evitare il giudizio dei probiviri alcuni magistrati starebbero lasciando il sindacato. Presidente Santalucia buon pomeriggio. Alla Camera si discute di una commissione d’inchiesta sulla magistratura. Con un testo dai toni durissimi. E Giusi Bartolozzi di Forza Italia, giudice nella vita, ha iniziato alla Camera anche una maratona in aula per sostenerla. Nelle stesse ore Giuliano Castiglia, gip a Palermo, del gruppo Articolo Centouno, all’opposizione della sua giunta, la accusa di “insabbiare” le chat di Palamara.
L’anm sulle accuse a Santalucia: «Nessun insabbiamento». Il Dubbio il 18 aprile 2021. La Giunta esecutiva esprime «dissenso» rispetto alle accuse mosse da Articolo 101 a Santalucia, presidente del sindacato delle toghe, in merito al caso procure. La Giunta esecutiva centrale dell’Anm esprime il proprio «dissenso» rispetto all’accusa rivolta dal gruppo di Articolo 101 al presidente Giuseppe Santalucia «di aver mirato ad “insabbiare”, “eludere”, “rallentare” l’attività di disvelamento che sta svolgendo in totale autonomia il collegio dei probiviri» sulle chat estrapolate dal telefono di Luca Palamara nell’ambito delle intercettazioni dell’inchiesta di Perugia sul caso procure. La Giunta, dunque, «prende atto» che il presidente Santalucia «si è assunto l’esclusiva paternità delle decisioni in ordine al rilascio di copie di atti e all’oscuramento di parti di essi, ritenendole afferenti alle sue prerogative di titolare del trattamento dei dati» ed evidenzia che «l’insorta questione in ordine all’applicazione della disciplina sulla privacy, rivestendo carattere di novità nella vita dell’associazione, richiederà un dibattito nel comitato direttivo centrale esteso anche alle modalità del raccordo informativo tra Collegio dei probiviri e organi interni all’associazione». La Giunta quindi, confermando la «fiducia» al presidente Giuseppe Santalucia, intende «proseguire l’azione associativa secondo le linee programmatiche approvate, nella rinnovata consapevolezza dell’importanza del metodo della collegialità e del confronto tra tutti i componenti».
"Almeno 35 toghe in fuga per evitare la disciplinare. Adesso il capo Anm lasci". Stefano Zurlo il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. La corrente Articolo 101 contro Santalucia: "Insabbiati i nomi dei coinvolti nelle chat". Accuse sempre più pesanti e alla fine una sola parola: dimissioni. Articolo 101, la lista che sta scombinando la geografia delle correnti, insiste: il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia deve lasciare l'incarico. I quattro componenti del comitato direttivo centrale - terminologia un po' vintage, ma quella è dell'Anm - hanno firmato nei giorni scorsi un documento durissimo. Una pagina senza sconti per denunciare il tentativo dei vertici dell'Anm di «insabbiare» le questioni drammatiche poste dal caso Palamara. Ora Maria Angioni, oggi giudice del lavoro ma a suo tempo il pm che cercò di far luce sulla scomparsa della piccola Denise, e Andrea Reale, gip a Ragusa, escono allo scoperto, rispondendo alle domande dell'Adnkronos. «Basta con l'ipocrisia - attacca Reale - due anni fa il presidente della repubblica ci ha invitato a voltare pagina, ma qui si torna indietro. Ci sono magistrati che rivestono ancora ruoli apicali pur essendo direttamente coinvolti nei gravi fatti resi pubblici». I fatti, naturalmente, sono quelli raccontati da Luca Palamara e Alessandro Sallusti nel libro Il sistema. La lottizzazione che arriva fin dentro il Csm e poi gli accordi e gli scambi di favori e poltrone fra le diverse correnti che penalizzano la competenza e premiano l'appartenenza alla cordata giusta. Da mesi i quattro giudici di Articolo 101, che ci tiene a definirsi solo una lista in contrapposizione alle altre sigle storiche, chiedevano a Santalucia di bussare al gip di Perugia per recuperare le carte dell'intrigo. Ma l'Anm, questa è la critica acuminata, avrebbe temporeggiato inspiegabilmente a lungo e ha infine recuperato quei faldoni solo dopo molte insistenze. Anzi, come ha svelato al Giornale Giuliano Castiglia, membro del quartetto e gip a Palermo, qualcosa è arrivato ai magistrati di Articolo 101 coperto da omissis. Tagli decisi da Santalucia e non dal gip di Perugia che ha rimandato tutto senza sbianchettare nemmeno una sillaba. «Il presidente Santalucia - rincara la dose Angioni - omissando quegli atti ha sbagliato. E quegli omissis riguardavano un fatto politicamente grave, cioè il fatto che molti magistrati coinvolti nelle chat di Palamara si stanno dimettendo per sottrarsi in questo modo al procedimento disciplinare interno. Questo tema non è mai stato portato al cdc, il nostro parlamentino. E il nostro parlamentino può bloccare le dimissioni». Invece, sarebbe in corso un vero e proprio esodo. «Sono almeno 35 - chiarisce Angioni che nei giorni scorsi ha ripercorso l'inchiesta su Denise al programma Ore14 di Rai2 - i colleghi che hanno lasciato l'Anm». A quanto pare, alla chetichella. Insomma, per i quattro - oltre a Castiglia, Angioni e Reale, Ida Moretti - ci sarebbe la volontà di insabbiare una storia che sta provocando sconcerto e sporca l'immagine dell'Anm. «Santalucia - riprende Reale - ha tradito la nostra fiducia. Per noi è difficile continuare in questo modo. Ma lo ha voluto lui». La strada di una possibile ricomposizione pare sbarrata. E Articolo 101 va avanti per la sua strada. In particolare, come Castiglia ha spiegato al Giornale, il grimaldello per far saltare il correntismo dovrebbe essere l'introduzione del sorteggio per l'accesso al Csm. Un'eresia per gran parte dei leader storici dell'Anm. Ma i tempi cambiano. E oggi una minoranza agguerrita conduce una battaglia che solo qualche anno fa sarebbe stata impensabile, anzi lunare, nel mondo delle toghe.
Palamaragate e i suoi scandali. Magistrati in fuga dall’Anm per sfuggire alle sanzioni, Articolo 101 chiede dimissioni di Santalucia. Paolo Comi su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia deve dimettersi quanto prima. La richiesta, senza precedenti, viene dalle toghe di Articolo 101, il gruppo “antisistema” favorevole al sorteggio dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura e alla rotazione degli incarichi direttivi. Il motivo? Le famigerate chat dell’ex zar delle nomine Luca Palamara. A distanza di quasi due anni dai fatti, l’Anm non ha ancora un quadro completo sui magistrati che chiedevano favori e nomine a Palamara. Sembra incredibile, ma è così. Pur essendo state pubblicate su diversi giornali, fra cui Il Riformista, i vertici dell’Anm non hanno “ufficialmente” portato a conoscenza del loro contenuto tutti i componenti del Comitato direttivo centrale dell’Anm. «Traspare chiaramente – scrivono i rappresentanti di Articolo 101 all’interno dell’Anm – una volontà di insabbiamento e di elusione delle questioni generali poste dal disvelamento delle chat di Palamara e di fatto si agevolano gli interessati a sottrarsi alle specifiche responsabilità conseguenti ai fatti emergenti dalle chat». Parole durissime che aprono ad una resa dei conti all’interno del sindacato unico togato dagli esiti incertissimi. Le toghe di Articolo 101 ripercorrono le tappe “dell’insabbiamento”. «Santalucia – scrivono – ha ostinatamente negato che le chat fossero state poste a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Palamara e perciò trasmesse, insieme alla predetta richiesta, al gup del Tribunale di Perugia, con conseguente possibilità del titolare dei diritti della persona offesa, quale è stata qualificata l’Anm dalla stessa Procura della Repubblica di Perugia, di visionarle ed estrarne copia senza limitazione alcuna». Quindi ha «sottoposto a una certosina operazione chirurgica di espunzione di alcuni assai rilevanti passaggi, invocando del tutto inopinatamente e infondatamente un’esigenza di tutela di dati personali e un ruolo decisionale in tal senso autonomo». Alla fine, «per ottenere quanto ingiustamente negatoci dal nostro presidente, ci siamo visti costretti a rivolgerci direttamente all’Autorità giudiziaria perugina». La quale, il 6 aprile scorso, su autorizzazione del giudice, ha trasmesso gli atti richiesti. Senza omissis. «L’Anm non può permettersi di continuare a essere guidata da chi ha tenuto una condotta lesiva di regole basilari della democrazia interna all’Associazione e, al contempo, oggettivamente accondiscendente verso chi intende sottrarsi alle proprie responsabilità», concludono le toghe di Articolo 101. L’insabbiamento togato si accompagna in questi giorni anche alla grande fuga dall’Anm da parte di alcune toghe finite nelle chat. L’esodo è per evitare l’ignominia del procedimento disciplinare davanti ai probiviri per violazione del codice deontologico. Per il magistrato iscritto all’Anm non è possibile intercedere o far intercedere alcuno con il consigliere del Consiglio superiore della magistratura che decide sulle nomine. Ed è anche vietato chiedere informazioni per velocizzare l’iter della pratica. Un concetto che ha ripetuto spesso, evidentemente inascoltato, lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche presidente del Csm. Appena arriva l’avviso della contestazione, è sufficiente stracciare la tessera ed il gioco è fatto: non risultando più essere l’iscrizione all’Anm viene meno l’oggetto del contendere. Alcune toghe hanno deciso di anticipare le mosse dei probiviri, con una cancellazione preventiva dall’Anm. Vedasi Donatella Ferranti, ex potentissima presidente della Commissione giustizia della Camera eletta nel Pd, esponente della sinistra giudiziaria, ed ora giudice della Cassazione. Ferranti aveva chiesto a Palamara lumi sulla nomina di Francesco Salzano ad avvocato generale in Cassazione. Riassumendo. Santalucia rallenta l’attività dei probiviri. Nessun procedimento penale risulta essere stato aperto sul contenuto delle chat. Quelli disciplinari sono poco più di una decina, grazie alla circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, che ha sdoganato l’auto promozione togata. Nessuna nomina, poi, è stata annullata pur essendo evidenti i vizi di legittimità degli atti con i pareri taroccati da Palamara, Lo scenario finale, quindi, è che pagherà solo Palamara per tutti. Bella roba.
Caos Palamara, Santalucia (Anm): «Contro di me accuse infondate». Il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia «esprime forte indignazione» dopo la lettera della lista Articolo 101 che ne chiedeva le dimissioni. Il Dubbio il 13 aprile 2021. «Esprimo forte indignazione per le gratuite e infondate accuse, gravemente offensive anche della mia professionalità e credibilità personale, che mi vengono mosse da quattro componenti del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati di cui sono presidente». Lo dichiara il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, dopo il comunicato diffuso ieri dalla lista Articolo 101 che ne chiedeva le dimissioni. «Il mio comportamento – aggiunge Santalucia – è stato sempre ispirato al massimo rispetto dello Statuto dell’Associazione, delle leggi, degli atti normativi sovranazionali, delle indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali, oltre che della piena autonomia del collegio dei probiviri e del suo lavoro. Grazie al mio impegno, in linea con quello della Giunta esecutiva precedente, il collegio dei probiviri è stato posto nelle migliori condizioni per operare». Nessun altro commento, conclude Santalucia, «intendo riservare alle scomposte accuse dei quattro componenti del Comitato direttivo centrale, le cui richieste ho già motivatamente riscontrato». Con il documento diffuso ieri, i rappresentanti della lista Articolo 101 che fanno parte del direttivo del sindacato delle toghe – Giuliano Castiglia, Maria Angioni, Andrea Reale e Ida Moretti – hanno firmato la richiesta di dimissioni prendendo «atto con profonda amarezza del comportamento tenuto dal Presidente dell’Anm Santalucia». Al centro della questione le chat estrapolate dal telefono di Luca Palamara nell’ambito dell’inchiesta della procura di Perugia. «Con una scelta senza precedenti – scrivono nel loro documento le toghe di Articolo 101 – il presidente dell’Anm Santalucia ha deciso di comprimere il nostro diritto di componenti del cdc, e con esso quello di tutti gli altri, alla piena conoscenza di atti di pertinenza dell’Associazione e nella disponibilità della stessa, realizzando una palese violazione delle regole di funzionamento dell’Anm e un gravissimo vulnus alla democrazia interna alla stessa». «Prima, senza ragione alcuna, si è respinta l’idea naturale che l’Anm potesse servirsi del contenuto delle chat del telefono di Luca Palamara pubblicate su fonti aperte, sia per valutazioni e determinazioni di carattere generale sia per eventuali procedimenti disciplinari endo-associativi, come pure era sempre accaduto in passato, anche all’indomani della divulgazione dei fatti dell’Hotel Champagne», scrivono i magistrati. «Poi – contro la logica, contro le conoscenze basilari di ogni magistrato con esperienza del procedimento penale e contro gli elementi di conoscenza disponibile, sia di fonte aperta che di fonte ufficiale – si è ostinatamente negato che le chat fossero state poste a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Luca Palamara e perciò trasmesse, insieme alla predetta richiesta, al G.u.p. del Tribunale di Perugia, con conseguente possibilità del titolare dei diritti della persona offesa, quale è stata qualificata l’Anm dalla stessa Procura della Repubblica di Perugia, di visionarle ed estrarne copia senza limitazione alcuna». «Nel percorso di recupero rispetto all’enorme discredito che “Magistropoli” ha comportato, tra l’altro, per la magistratura associata, l’Anm non può permettersi di continuare a essere guidata da chi ha tenuto la condotta sin qui riferita, tra l’altro lesiva di regole basilari della democrazia interna all’Associazione e, al contempo, oggettivamente accondiscendente verso chi intende sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti della stessa Anm», conclude la nota.
Magistratopoli e i suoi scandali. Palamaragate, il Gip chiede ai Pm di Firenze di non insabbiare la fuga di notizie. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Aprile 2021. “Sussiste senza dubbio” il reato di rivelazione del segreto, gli autori sono stati dei “pubblici ufficiali” e la Procura deve compiere gli “opportuni approfondimenti investigativi” per individuare “i responsabili della indebita propalazione”. È quanto scrive Sara Farini, gip del Tribunale di Firenze, a proposito della fuga di notizie relativa all’indagine di Perugia, rispondendo a una nota dei pm della locale Procura. A distanza di quasi due anni dai fatti, dunque, siamo ancora a questo punto: da Erode a Pilato. I fatti sono stranoti. Il 29 maggio 2019, Repubblica, Corriere e Messaggero pubblicarono la notizia dell’indagine della Procura umbra, gestione Luigi De Ficchy, a carico dell’ex zar delle nomine. “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, scrisse Repubblica; “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, il Corriere; “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”, il Messaggero. Gli articoli erano tutti molto dettagliati. Il pezzo di Repubblica, in particolare, riportava alcuni elementi che erano emersi grazie alle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. Ad esempio, i colloqui fra quest’ultimo e Cosimo Ferri, deputato allora del Pd ed esponente di spicco della corrente di destra delle toghe, Magistratura indipendente, relativi alla nomina del successore di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. Il Corriere, invece, non era bene informato come Repubblica, limitandosi a scrivere che la Procura di Perugia aveva notiziato il Consiglio superiore delle magistratura dell’indagine nei confronti di Palamara, ricordando poi che l’ex presidente dell’Anm aveva fatto domanda per diventare aggiunto a Roma. Il giorno dopo, il 30 maggio, Palamara venne perquisito all’alba dal Gico della guardia di finanza. Insieme a lui erano indagati anche l’allora togato del Csm Luigi Spina e il pm romano Stefano Rocco Fava. Il Corriere in edicola quella mattina, recuperando il parziale buco del giorno prima, dava la notizia dei motivi della perquisizione, informando i lettori anche che Palamara negli ultimi mesi era stato costantemente “monitorato” duranti i suoi incontri notturni. Da allora Corriere e Repubblica iniziarono una campagna pancia a terra pubblicando per giorni stralci di intercettazioni ambientali che riguardano anche la sfera privata di Palamara, non trascurando i consiglieri del Csm che avevano partecipato al dopo cena all’hotel Champagne e che poi furono costretti alle dimissioni. Un romanzo a puntate. Il risultato fu che la nomina del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, a procuratore di Roma, votata in Commissione per gli incarichi direttivi del Csm il precedente 23 marzo e pronta per andare in plenum in quei giorni, saltò, per poi essere definitivamente annullata nelle settimane successive. Vale la pena di ricordare che al Csm vennero, fino alla chiusura delle indagini di Perugia avvenuta il 20 aprile 2020, trasmessi pochissimi atti. Nonostante ciò, il 5 luglio 2019 il Corriere riportò alcuni passi degli interrogatori di Palamara avvenuti il 30 e il 31 maggio davanti ai pm di Perugia. E lo stesso fece Repubblica. Un filone investigativo, poi, finì in tempo reale sui giornali, con le dichiarazioni di alcuni imprenditori che avevano effettuati dei lavori edili, frutto di una presunta corruzione, per un’amica di Palamara. Gli imprenditori erano stati interrogati a giugno del 2019 mentre erano sottoposti ad intercettazione telefonica. Uno di loro verrà risentito a luglio, modificando la testimonianza in modo da renderla più aderente a quanto riportato dai giornali. La Procura di Perugia ha sempre sottolineato che gli atti d’indagine non fossero “ostensibili” per il segreto istruttorio. Il 26 luglio 2019 il pm di Perugia Mario Formisano, titolare del fascicolo insieme alla collega Gemma Miliani, come riportato dalla Verità, affermerà che le fughe di notizie avevano “rovinato l’inchiesta”. Palamara, pur essendo la rivelazione del segreto procedibile d’ufficio, ha presentato lo scorso novembre un esposto alla Procura di Firenze, competente per i reati commessi dai magistrati umbri, chiedendo di svolgere accertamenti. Fra le richieste, il sequestro dei telefoni e l’acquisizione dei tabulati telefonici nei confronti dei “soggetti interessati” alla fuga di notizie: “giornalisti, operatori di polizia, ecc”. Il gip Farini, con una nota del 27 gennaio scorso, ha respinto, come richiesto dalla Procura, le istanze di Palamara, evidenziando però che non risultano essere mai stati compiuti atti d’indagine per i soggetti “che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete”. Da qui, dunque, l’invito alla Procura a “circoscrivere” la platea di questi soggetti e ad effettuare gli “opportuni approfondimenti investigativi”. La tempistica gioca, ovviamente, a favore degli autori della fuga di notizie: dopo due anni i tabulati vengono cancellati per legge dai gestori telefonici. Il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, come si ricorderà, è attualmente sotto disciplinare al Csm per presunte molestie nei confronti della pm antimafia Alessia Sinatra.
Il "caso Roma" fa scuola. Procuratori zar e la deriva della magistratura: dal disastro della legge Castelli agli aggiunti imposti al Csm. Paolo Comi su Il Riformista il 2 Aprile 2021. «Quando si discute delle nomine dei procuratori ci sono sempre ‘fibrillazioni’ in Plenum», disse qualche tempo fa Alessio Lanzi, consigliere laico del Consiglio superiore della magistratura in quota Forza Italia. Concetto ribadito anche nel libro di Luca Palamara, Il Sistema, dove i capitoli relativi alle nomine dei numeri uno delle Procure sono quelli più "effervescenti". Il procuratore della Repubblica è da sempre uno dei ruoli più prestigiosi e importanti in magistratura. La sua influenza è aumentata notevolmente grazie al codice di procedura penale del 1989 con cui gli è stato dato il “controllo” assoluto della polizia giudiziaria. La riforma Castelli del 2006, con la ‘gerarchizzazione’ delle Procure, è stata poi la classica ciliegina sulla torta, concentrando in una persona un potere senza precedenti in qualsiasi Paese occidentale. Silvio Berlusconi, come sempre mal consigliato in queste cose, pensava che sarebbe stato più facile controllare 10 procuratori che 100 sostituti. Il “lavoro sporco”, tenere a bada i pm irruenti che potevano fare qualche colpo di mano, sarebbe stato affidato ai capi. Questa riforma ricordava molto una teoria di Napoleone Bonaparte: “La truppa si lamenta, aumentate la paga ai generali”. Ovviamente Berlusconi aveva fatto i conti senza l’oste. Perché le Procure sono sempre rimaste, per la maggior parte, nelle fidate mani delle “odiatissime” toghe di sinistra. Ad iniziare da quella di Milano. Nel 2018 nacque addirittura il gruppo dei super procuratori. I “big Five”: Francesco Greco a Milano, Francesco Lo Voi a Palermo, Giovanni Melillo a Napoli, Giuseppe Pignatone a Roma e Armando Spataro a Torino. I fantastici cinque si erano proposti come un soggetto “politico” alternativo all’Anm per riforme e proposte sui temi della giustizia. Dopo lo scontro, abbastanza scontato, con l’Anm, non se ne fece però più nulla. Ma un altro scatto verso il potere pressoché assoluto del procuratore lo si ebbe proprio a Milano dopo lo scontro, nel 2014, fra l’allora numero uno della Procura Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Oggetto del contendere la conduzione delle mitiche indagini nei confronti dei colletti bianchi. Le uniche che contano veramente in questo Paese e danno visibilità e gloria. Stiamo parlando, nel caso in questione, delle indagini su Expo, sui derivati del Comune di Milano, e su quelle – immancabili – che coinvolgevano la Regione Lombardia. Un evergreen. Lo scontro fu ferocissimo. Bruti Liberati fece domanda per andare in pensione in anticipo ed evitò il disciplinare. Robledo, invece, venne trasferito dal Csm a Torino come giudice e “degradato” delle funzioni semidirettive. Nella questione milanese era intervenuto il capo dello Stato Giorgio Napolitano ricordando proprio la riforma dei poteri dei “capi degli uffici” che ne aveva fatto una sorta di monarchi assoluti. Come evitare, quindi il ripetersi di situazione simili? Semplice: “appaltando” le scelte degli aggiunti direttamente al Procuratore. Sarà lui ad indicare al Csm i fedelissimi che non creeranno intralci. Milano ha fatto scuola. Con un accordo, come ha sottolineato Palamara, che non ha scontentato nessuno: procuratore e correnti. E poi Roma con Giuseppe Pignatone e le sue preferenze per gli attuali aggiunti. A dire il vero a Roma c’è un aggiunto “fuori sacco”: si chiama Antonello Racanelli ed è di Magistratura indipendente, corrente di Cosimo Ferri, toga prestata alla politica non gradita per statuto a molti suoi colleghi. Ed infatti Ferri parlando di Racanelli con Palamara e Luca Lotti disse che lo volevano “inc….”. Racanelli ha una pratica di trasferimento aperta per incompatibilità ambientale a causa di alcune interlocuzioni avute proprio con Palamara. Che le Procure siano diventate delle grandi famiglie lo dimostrano, poi, i rapporti in chiaro, come quello fra Stefano Pesci e Nunzia D’Elia, marito e moglie, entrambi nominati aggiunti a Roma, o non in chiaro ma accettati da tutti nel trionfo dell’ipocrisia nostrana. Anche sui coniugi Pesci e D’Elia era intervenuto Palamara sottolineando la particolarità di queste due nomine nello stesso ufficio. Ora una riforma in discussione in Parlamento dell’Ordinamento giudiziario vorrebbe diminuire il potere dei procuratori. Siamo certi che non andrà in porto e tutto rimarrà come adesso.
Csm, laici contro il "sistema". Oggi interviene Palamara. L'ex capo dell'Anm convocato dalla commissione che esamina le chat. I radicali: udienza pubblica. Lodovica Bulian - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. L'ex presiedente dell'Anm Luca Palamara stamattina alle nove varcherà l'ingresso del Csm. L'ha convocato a sorpresa in audizione la prima commissione, quella che sta esaminando le chat che coinvolgono un centinaio di magistrati e che sono agli atti della procura di Perugia. Una ventina le toghe che sono sotto procedimento disciplinare e a rischio trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale o funzionale per i rapporti emersi con l'ex pm. Protestano i radicali che chiedono l'audizione sia pubblica: «Oggi per domani Palamara è stato convocato dalla prima commissione del Csm per essere audito. Non si conosce il motivo, né l'oggetto dell'audizione. Come da regolamento del Csm l'audizione sarà riservata, niente mezzi di informazione, niente pubblico, niente registrazione. Chiediamo ai membri della prima commissione del Csm di superare la clausura dei loro lavori. Per il futuro ci attiveremo per rendere pubblico, con legge, ogni anfratto della giustizia che viene amministrata in nome del popolo italiano». Ieri il Consiglio superiore della magistratura che ha nominato all'unanimità Alfredo Pompeo Viola nuovo segretario generale si è diviso invece sulle nomine dei fuori ruolo e su quelle dei magistrati segretari. Questi ultimi oggetto anche delle rivelazioni di Palamara nel libro di Alessandro Sallusti: «Prendiamo i magistrati segretari del Csm - dice l'ex pm - colleghi tra i cui compiti c'è anche quello di dover motivare le nomine, cioè scrivere perché Tizio è più bravo di Caio e quindi ha diritto a quel posto. Chi li nomina? I capicorrente, ovviamente». E sulle tre nomine dei magistrati segretari all'ordine del giorno di ieri il laico Stefano Cavanna si è astenuto ricordando che il meccanismo di selezione non è regolato da concorso, come era stato richiesto invece proprio dai consiglieri laici all'ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all'indomani dello scandalo Palamara. Le chat dell'ex numero uno dell'Anm hanno svelato come anche quei ruoli fossero appannaggio delle logiche spartitorie delle nomine. Tanto che la modifica è stata inserita nel testo di riforma del Csm. Finora i candidati al ruolo svolgono una semplice audizione. «Non posso votare a favore di un sistema che è ancora discrezionale», ha detto Cavanna. Durissimo è stato invece Nino Di Matteo sulla nomina a fuori ruolo di Giuseppe Corasaniti, magistrato in servizio al Massimario, e chiamato dal sottosegretario alla Giustizia Sisto a capo della sua segreteria. Di Matteo ha puntato il dito sul semaforo verde concesso dal plenum a ogni fuori ruolo che venga richiesto, e ha parlato di «servile accondiscendenza a ogni richiesta» dell'esecutivo. Il nodo irrisolto è ancora nei rapporti tra magistratura e politica: «Parliamo sempre della necessità di distinguere l'attività dei magistrati da quella politica, di porre dei paletti per il rientro in ruolo dei magistrati che si candidano. Da una parte siamo feroci censori, dall'altra parte però troviamo sempre l'eccezione alle regole per consentire che questi rapporti attraverso il sistema delle nomine e degli incarichi continuino». L'eccezione è data dal fatto che l'ufficio di provenienza del magistrato Corasaniti ha una scoperta di organico superiore al 20%, soglia che non permetterebbe il fuori ruolo. Ma nelle stesse condizioni di scopertura è stato concesso un mese fa il fuori ruolo anche a Elisabetta Cesqui, sostituto procuratore della Cassazione chiamata dal ministro del lavoro Orlando, Pd, a fare il capo di gabinetto. Non concedere il via libera, è stato detto in plenum, sarebbe stata una scortesia istituzionale. «Tutto questo interesse che ha la magistratura a spedire magistrati nei ministeri è da valutare bene», la protesta del laico Cavanna.
(ANSA il 25 marzo 2021) - Vicende specifiche legate alle chat con i colleghi magistrati estrapolate dal suo telefonino, sequestrato nell'ambito dell'inchiesta di Perugia a suo carico. Di questo ha parlato per un'ora e mezza l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, davanti alla Prima Commissione del Csm, che ieri lo ha convocato a sorpresa per stamattina. L'audizione è stata segretata. "Al Csm ho parlato di fatti specifici e in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano" . Lo ha dichiarato all'Ansa Luca Palamara, a proposito della sua audizione davanti alla Prima Commissione del Csm. "Al Csm ho parlato di quanto emergeva dalle chat, ma il discorso si è poi allargato anche al trojan". Lo ha detto l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara a proposito dell'audizione di stamattina al Csm, riferendosi al trojan che era stato inserito nel suo cellulare su ordine della procura di Perugia. "Mi metto a disposizione di chiunque voglia sentirmi, è mio dovere ricostruire la verità su come sono andate le cose". Lo ha detto l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, dopo la sua audizione davanti alla Prima Commissione del Csm.
Caos Procure, Palamara: «Sentito su chat e non solo». L'ex capo dell'Anm audito in Prima Commissione al Csm. Ma ha l'obbligo di mantenere il segreto sui contenuti. Il Dubbio il 25 marzo 2021. L’ordine è di rimanere in silenzio e non rivelare i contenuti dell’audizione di oggi, la prima dell’ex presidente dell’Anm dopo la radiazione inflitta lo scorso 9 ottobre dall’organo di autogoverno delle toghe. Luca Palamara, ex consigliere del Csm, è entrato questa mattina alle 9 a Palazzo dei Marescialli, uscendone circa due ore dopo. Davanti alla Prima Commissione, competente per i procedimenti di incompatibilità delle toghe e presieduta da Elisabetta Chinaglia, l’ex pm romano ha riferito sui contenuto delle centinaia di chat intrattenute con i colleghi, ma anche di altro, ha spiegato uscendo dalla sede del Csm, «fatti da me documentabili», ha sottolineato. Il Partito Radicale aveva chiesto che l’audizione fosse pubblica, ma senza successo. «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia, come accade in udienza preliminare nel processo penale, debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più – ammonisce il Partito radicale -. Anche la magistratura se ne deve rendere conto per non essere sempre più lontana dal mondo reale e chiusa nelle proprie torri di avorio». Il contenuto di quelle chat – oltre 60mila pagine – da circa un anno, è sotto la lente di ingrandimento della Commissione. Conversazioni acquisite agli atti dell’inchiesta che vede Palamara indagato a Perugia e che ora rischia di creare un ulteriore terremoto all’interno della magistratura. Sono circa un centinaio i colleghi con i quali Palamara ha intrattenuto conversazioni, ma sono circa una ventina quelli attualmente sotto procedimento disciplinare e, dunque, a rischio trasferimento. La procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex consigliere del Csm, accusato di diversi episodi di corruzione. La procura ha avanzato la stessa richiesta per l’imprenditore Fabrizio Centofanti, l’amica del magistrato Adele Attisani e Giancarlo Manfredonia, titolare di un’agenzia di viaggi. A firmare la richiesta il procuratore Raffaele Cantone e i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano.
Il testimone Palamara torchiato sulle nomine a Roma e a Milano. L’ex capo dell’Anm in audizione davanti al Csm, che secreta tutto. Intanto Michele Prestipino ha presentato ricorso contro la sentenza del Tar Lazio che ha annullato la sua nomina a procuratore della capitale. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 marzo 2021. Sotto torchio per novanta minuti, Luca Palamara si è tolto più di un sassolino dalle scarpe ieri mattina davanti alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulle “incompatibilità” delle toghe. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati era stato convocato il giorno prima per essere sentito dai suoi ex colleghi. Pur non essendo specificato il motivo, era evidente che l’oggetto dell’audizione avrebbe riguardato il sistema delle nomine in magistratura, come emerso dai messaggi che Palamara scambiava a ritmo frenetico con le centinaia di magistrati che aspiravano ad un incarico di vertice. L’audizione è stata secretata. «È una audizione riservata per la quale ho ricevuto la consegna del silenzio», ha detto all’uscita dal Csm Palamara, accompagnato dai suoi legali, precisando comunque che «è stato tutto registrato». «Mi sono impegnato a chiarire ogni vicenda», ha poi aggiunto il magistrato. La decisione di secretare l’audizione era stata fortemente criticata il giorno prima dai Radicali, i quali per stigmatizzare l’assenza di trasparenza avevano diramato un duro comunicato: «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più». Da indiscrezioni, comunque, pare che siano stati accesi i riflettori su Roma e Milano, in particolare sulle nomine dei locali procuratori aggiunti che sarebbero state effettuate su indicazioni dei rispettivi capi: Francesco Greco e Giuseppe Pignatone. Con i due magistrati Palamara aveva sempre avuto ottimi rapporti. Nel libro intervista “Il Sistema”, il magistrato racconta a tal proposito che Pignatone non avrebbe voluto Racanelli (Antonello, ndr) «ma insisteva pesantemente per Ielo (Paolo, ndr) e Sabelli (Rodolfo, ndr)». L’audizione è stata diretta dalla presidente della prima commissione Elisabetta Chinaglia. Attentissimo sembra sia stato l’ex pm antimafia Nino Di Matteo che ha formulato più di una domanda. All’audizione erano presenti anche consiglieri non componenti della commissione. Altro argomento incandescente è stato l’esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava, a distanza di due anni ancora pendente al Csm. Fava aveva depositato alla fine di marzo del 2019 un esposto a Palazzo dei Marescialli in cui evidenziava delle anomalie nella gestione di diversi fascicoli da parte del suo procuratore Pignatone. La circostanza era stata raccontata, qualche settimana prima, anche ai togati del Csm Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Fava parlò dell’accaduto durante due pranzi al ristorante Baccanale di Roma dove, oltre a Davigo e Ardita, era presente anche il collega Erminio Amelio. Fra i vari temi, pare si fosse discusso anche di una candidatura di Fava all’Anm nelle liste Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Davigo. L’esposto in questione era stato poi causa di procedimenti disciplinari e penali. Secondo l’accusa, sarebbe stata una mossa escogitata da Palamara per screditare sia Pignatone che Ielo. Ricostruzione sempre negata da Fava che aveva prodotto anche una telefonata fra l’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini e lo stesso Palamara, in cui emergeva come si fosse trattato di una sua autonoma iniziativa. L’audizione di Palamara segue quella di Raffaele Cantone di lunedì scorso, durante la quale il procuratore di Perugia aveva cercato di chiarito la conduzione dell’indagine nei confronti dell’ex togato. E sul fronte della Procura di Roma, si segnala ieri la presentazione del ricorso di Michele Prestipino nei confronti della sentenza del Tar Lazio che aveva annullato nelle scorse settimane la sua nomina a procuratore della Capitale. Anche il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, che aveva presentato l’iniziale ricorso contro la decisione del Csm di preferirli Prestipino, si è costituito innanzi al Consiglio di Stato chiedendo il rigetto dell’appello. Nei prossimi giorni verrà fissata l’udienza per la trattazione della domanda di sospensione, anche a fronte della decisione del Csm di impugnare la sentenza. Il Tar del Lazio, come si ricorderà, aveva rilevato che Viola era stato escluso dalla commissione per gli incarichi direttivi del Csm pur essendo totalmente estraneo alle “macchinazioni o aspirazioni di altri”. In particolare a quanto emerso durante l’ormai famoso dopo cena all’hotel Champagne la sera dell’8 maggio del 2019 fra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, e cinque consiglieri del Csm.
A processo in Prima Commissione. Interrogatorio di Palamara a porte chiuse, il Csm impone la censura: le toghe tremano. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Il grande giorno è arrivato: questa mattina la prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulle inchieste riguardanti i magistrati, sentirà Luca Palamara, zar senza eredi delle nomine e degli incarichi a Palazzo dei Marescialli. Era stato lo stesso Palamara nei giorni scorsi a chiedere di essere sentito sulle vicende che, nate dall’indagine della Procura di Perugia nei suoi confronti, avevano terremotato la magistratura costringendo anche alle dimissioni ben sei consiglieri superiori. Un record senza precedenti. La decisione di ascoltare l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati è stata molto sofferta. Da quanto ha potuto apprendere Il Riformista diversi consiglieri di piazza Indipendenza non erano particolarmente favorevoli all’audizione di Palamara, ritenendo che potesse trasformarsi in un “j’accuse” collettivo nei confronti della magistratura. Fra i più contrari, pare, i togati della sinistra giudiziaria rappresentata da Area e da Magistratura democratica. Non essendo noto il motivo dell’audizione, si possono al momento formulare solo delle ipotesi. Palamara, ormai personaggio televisivo e autore del bestseller Il Sistema, cercherà verosimilmente di affrontare il tema delle chat dei suoi ex colleghi della scorsa consiliatura. Se esisteva una “sistema” per spartire gli incarichi, la responsabilità, è la tesi di Palamara, non può essere solo di un singolo. Le chat valutate ai fini disciplinari e per le incompatibilità ambientali sono, infatti, solo quelle di Palamara. Una visione parziale che non rende giustizia a quanto effettivamente accaduto. Il magistrato, forse, cercherà di affrontare anche il modo relativo alla conduzione dell’indagine di Perugia che ogni giorno riserva una sorpresa. Questa settimana, sempre davanti alla prima commissione, era stato ascoltato il procuratore di Perugia Raffaele Cantone. L’ex presidente dell’Anac ha cercato di fugare i dubbi avanzati al riguardo da più parti in questi mesi. Oltre agli ascolti “discrezionali” del trojan, un aspetto molto controverso era che fosse stato intercettato solo Palamara e non i suoi coimputati, a iniziare dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, ritenuto il suo corruttore. Centofanti «non era facilmente intercettabile perché parlava in codice», aveva dichiarato Cantone. Difficile, però, intercettare una persona non indagata. Centofanti, infatti, venne iscritto nel registro degli indagati solo il 27 maggio del 2019. Praticamente poco più di 24 ore prima della fuga di notizie che fece saltare l’inchiesta di Perugia. Purtroppo l’audizione avverrà a porte chiuse, senza neppure la possibilità di una diretta radio. E questo ha già fatto sobbalzare i Radicali che hanno subito diramato un duro comunicato. «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più», scrivono i Radicali. «Anche la magistratura – proseguono – se ne deve rendere conto per non essere sempre più lontana dal mondo reale e chiusa nelle proprie torri di avorio». Concludono, quindi, con «l’invito ai membri della prima commissione di superare la clausura dei loro lavori. Per il futuro ci attiveremo per rendere pubblico, con legge, ogni anfratto della giustizia che viene amministrata in nome del popolo italiano».
Nuova manovra per sabotare Palamara. Corriere e Repubblica dopo Viola vogliono la testa di Lanzi: killer per conto dei Pm. Paolo Comi su il Riformista il 27 Marzo 2021. Alessio Lanzi è finito nel mirino, “under fire” come direbbero i marines. I giornali che a maggio del 2019 fecero saltare con una provvidenziale fuga di notizie relativa all’indagine di Perugia la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma, hanno puntato questa settimana il professore milanese di diritto penale e attuale consigliere del Consiglio superiore della magistratura in quota Forza Italia. L’obiettivo finale sembrerebbe essere quello di costringerlo alle dimissioni. Un déjà-vu di quanto è successo all’inizio dell’estate di due anni fa quando una micidiale campagna stampa riuscì a imporre le dimissioni di tutti i togati che avevano partecipato, insieme a Luca Palamara, all’incontro all’hotel Champagne con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti dove si discusse del successore di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma. Ma cosa ha fatto di talmente grave Lanzi da meritare ieri due articoli – fotocopia – su Corriere e Repubblica? Si è recato lo scorso mercoledì nello studio romano del collega Roberto Rampioni per una visita di cortesia. “Un clamoroso passo falso”, esordisce Repubblica, “sospetti su una fuga di notizie”, rincara la dose il Corriere, il giornale che fu l’autore, come detto, della fuga di notizie sul Palamaragate. Rampioni, oltre a essere ordinario di diritto penale a Tor Vergata, è il difensore di Luca Palamara nel procedimento a Perugia. La circostanza dell’incontro fra accademici finisce in tempo reale al Csm e viene “discussa”, secondo quanto riportato dai due giornali, al Comitato di presidenza, composto dal vice presidente David Ermini e dai due capi di Corte: il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi, entrambi di Magistratura democratica. Ci sarebbero allora stati, sempre secondo il racconto dei due giornali, “malumori” dal momento che il giorno dopo, giovedì, Palamara doveva essere ascoltato a proposito delle chat dalla Prima commissione, di cui fa parte Lanzi, accompagnato da Rampioni. Subito è scattata la caccia alla talpa che aveva rivelato la notizia di un incontro privato. Nello stesso palazzo del quartiere Prati, dove ha lo studio Rampioni, abita il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, uno dei tre componenti del comitato di presidenza del Csm. E gli incontri sul pianerottolo o in ascensore fra i due, come dichiarato dallo stesso Rampioni, sono “frequenti”. Nella giornata di ieri il professore romano ha diramato un duro comunicato: «Corriere della Sera e Repubblica parlano della vicenda Palamara. Ma come lo fanno? Deviando il lettore su una notizia che notizia non è, attribuendole valore di scoop!”. “Oscurano, tuttavia, i temi oggetto dell’audizione di Palamara, chi sa come e da chi loro rivelato, con il gossip», aggiunge Rampioni. «Piuttosto che tentare di “imbrattare” professionisti – si passi l’immodestia – veri, sarebbe bello pensare che giornali autorevoli si dedicassero ad approfondire, sicuramente destando maggior interesse nel lettore, l’esame dell’operato, della pratica di quei tanti “giocolieri, mezzani, trafficanti” di cui il Sistema pullula», conclude, quindi, il professor Rampioni. Salvi, secondo la ricostruzione contenuta nel libro Il Sistema, per caldeggiare la propria nomina a procuratore generale della Cassazione, nel 2016 avrebbe alla presenza dell’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini invitato Palamara, zar delle nomine a Palazzo dei Marescialli, “su una splendida terrazza di un lussuoso albergo nei pressi di Corso Vittorio Emanuele”. La nomina non andò in porto in quanto Palamara decise di puntare su “baffetto”, alias Riccardo Fuzio. Tornando invece a Lanzi, la domanda è perché sia finito nel mirino. Diverse le ipotesi. Lanzi è fra i consiglieri che in questi mesi sta cercando con fatica di definire la posizione di Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma, finito nel procedimento Palamara a proposito dell’esposto presentato dall’ex pm Stefano Rocco Fava contro Pignatone e Ielo. A differenza di Lanzi sono in molti quelli che vorrebbero cacciarlo quanto prima da piazzale Clodio. Racanelli, ex segretario nazionale di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, è molto legato a Cosimo Ferri. In passato era stato osteggiato proprio da Pignatone che come aggiunti voleva, sempre secondo il racconto di Palamara, Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli.
Da “La Verità” il 27 marzo 2021. Roberto Rampioni, legale di Luca Palamara, attacca Corriere e Repubblica dopo gli articoli sul suo incontro con Alessio Lanzi, consigliere laico del Csm, prima dell'audizione dell'ex pm: «Finalmente anche Corriere e Repubblica parlano della vicenda Palamara. Ma come lo fanno? Deviando il lettore su una notizia che notizia non è, attribuendole valore di scoop! Oscurano, tuttavia, il contenuto informativo reale, i temi oggetto della audizione di Luca Palamara, chi sa come e da chi loro rivelato, con il gossip. L'incontro non è "singolare", avviene alla luce del sole, tra professori amici per ragioni accademiche ed editoriali; e in un momento antecedente di circa 13 ore all'individuazione da parte della commissione disciplinare, tenutasi nel pomeriggio, dei temi "segreti" da affrontare il mattino successivo».
Dagospia il 26 marzo 2021. A CIASCUNO IL SUO - SE PER “LA VERITÀ” E “IL GIORNALE” LA NOTIZIA E’ PALAMARA CHE DICHIARA DAVANTI AL CSM CHE IL PROCURATORE DI MILANO FRANCESCO GRECO GLI CHIESE IL FAVORE DI AIUTARLO A FAR NOMINARE GLI “AGGIUNTI” DI SUO GRADIMENTO, PER IL “CORRIERE” E “REPUBBLICA” LA NOTIZIA È L’INCONTRO TRA L’AVVOCATO DI PALAMARA E UNO DEI COMPONENTI DEL CSM, ALESSIO LANZI, ALLA VIGILIA DELL'INTERROGATORIO...
Giacomo Amadori per “la Verità” il 26 marzo 2021. Luca Palamara show ieri ha fatto tappa al Consiglio superiore della magistratura. Con un certo coraggio i membri della prima commissione, quella che si occupa di incompatibilità ambientale, lo hanno convocato come testimone su alcune delicate questioni, che non erano mai state trattate nel procedimento disciplinare che ha portato alla sua espulsione dalla magistratura. Al centro dell' audizione, quindi, non sono stati i mai dimostrati casi di corruzione, ma il suk degli incarichi, nella sua accezione correntizia e spartitoria. E su questi temi, Palamara, già ingranaggio di un sistema perfettamente oliato, non si risparmia. E così, in un' ora e mezza di serrato botta e risposta, ha svelato le logiche che determinano le nomine degli aggiunti nelle due più importanti procure d' Italia, quelle di Roma e Milano, e ha risposto a domande su alcuni riferimenti, contenuti nelle intercettazioni del procedimento penale a suo carico, a Stefano Erbani, consigliere per gli Affari dell' amministrazione della giustizia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Infine, Nino Di Matteo, con un suo quesito, ha consentito a Palamara di rispolverare un tema tabù, l' esposto del pm Stefano Fava contro l' ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Una segnalazione che verteva sul presunto conflitto d' interesse dell' ex capo degli inquirenti capitolini, il cui fratello Roberto è stato consulente di diversi indagati della Procura di Roma. Ma partiamo dal Colle. Palamara lo aveva tirato in ballo lo scorso 13 gennaio, nel suo ultimo interrogatorio perugino, davanti al procuratore Raffaele Cantone e ai pm Gemma Miliani e Mario Formisano. «Come emerge dalle intercettazioni nella cena del 28 maggio 2019 viene detto che uno di noi aveva il trojan []» aveva detto. «In quel contesto Ferri (Cosimo, ex consigliere del Csm, ndr) mi aveva riferito [] che Antonio Lepre (all' epoca consigliere del Csm, ndr) gli aveva detto che Stefano Erbani aveva confidato a Gianluigi Morlini (pure lui ex membro del parlamentino dei giudici) che sul mio apparecchio era installato un trojan». Ieri i consiglieri hanno mostrato interesse a capire meglio come abbia funzionato questo presunto telefono senza fili. Anche se Erbani ha già decisamente smentito di aver riferito una simile notizia a chicchessia, versione confermata con noi da Morlini. Certo il trojan ha registrato altri passaggi in cui viene citato il consigliere. Per esempio in un' intercettazione Palamara sostiene che «Erbani terrorizza Morlini» e si lamenta che «siccome è molto amico di Cascini (Giuseppe, consigliere del Csm e aggiunto della Procura di Roma, ndr) gli raccontano le cose mie». Altra questione spinosa è quella che riguarda le nomine alla Procura di Milano. I consiglieri si sono concentrati su una chat tra il giudice Nicola Clivio, all' epoca consigliere del Csm in quota Area (il cartello delle toghe progressiste), e Palamara. La mattina del 21 settembre a poche ore dal voto in commissione Clivio è preoccupato perché vede in pericolo la nomina di Tiziana Siciliano e la cosa non gli sembra giusta. Spiega, infatti, che ha la sensazione che la stessa possa essere fatta fuori non perché meno qualificata, ma solo perché meno inserita nel sistema delle correnti. «È la meno schierata e quindi la più vulnerabile» dice. Nello scambio che ne segue, Palamara prova a sondare il terreno per verificare se ci sia la possibilità di inserire un suo candidato. Sia all' inizio che alla fine della conversazione Clivio sollecita Palamara a farsi due chiacchiere con il procuratore meneghino Francesco Greco per «chiarirsi il quadro» della situazione e Palamara a un certo punto sembra convincersi a farlo («Ora ci parlo»). Clivio e Palamara discutono anche di una candidata considerata vicina a Greco, Laura Pedio. L' ex pm annuncia di volere «rompere le palle su quel nome». Clivio lo sconsiglia: una tale mossa «fa incazzare Greco e tutto il mondo». Che Palamara e il procuratore si siano sentiti nel breve lasso di tempo intercorso tra questo scambio di messaggi e il voto in commissione non è provato e probabilmente su questo punto Palamara è stato chiamato a rendere chiarimenti, anche se l' 1 ottobre 2017 l' ex pm e Greco si danno appuntamento a Roma. «Al solito posto» specifica il procuratore. Forse l' hotel Montemartini di Roma. Alla fine i nominati saranno esattamente quelli sostenuti dal gruppo di Area (quello di Greco), compresa la Pedio, mentre Palamara riuscirà a far entrare nella cinquina dei promossi una sua candidata, Letizia Mannella, dando la sensazione che un accordo possa esserci stato. Colpisce che il Csm si interessi a questa vicenda a distanza di tre anni mezzo dai fatti e un anno dopo la pubblicazione delle chat da parte di questo giornale. Non si può non notare come la posizione di Greco sia più debole rispetto al passato: è sulla via del pensionamento e in questi giorni con i suoi pm è finito al centro delle polemiche, anche interne al suo ufficio, per la sconfitta della Procura nel processo Eni, i cui vertici sono stati assolti dall' accusa di aver pagato tangenti in Nigeria. Palamara, sollecitato su Greco, ha preso i commissari in contropiede e ha spostato l' attenzione sulle nomine degli aggiunti di Roma. Ha spiegato che il sistema di lottizzazione delle nomine che emerge dal dialogo con Clivio è stato applicata, con le stesse identiche logiche e modalità, anche per la Procura di Roma. Palamara ha ricordato alcune specifiche nomine trattate al tavolo con lui, in particolare quelle di Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Stefano Pesci. In particolare, l'ex pm ci ha tenuto a sottolineare come Pesci non fosse candidabile, dal momento che la moglie, Nunzia D' Elia, era aggiunto dello stesso ufficio. Eppure Pesci, nonostante questa presunta incompatibilità, è stato promosso dall' attuale Csm depalamarizzato. Palamara si è detto disponibile a un confronto su questi tempi con il consigliere Cascini. Un annuncio che ha certamente fatto tremare più di una sedia. Il consigliere Di Matteo si è mostrato, invece, incuriosito da una conversazione di Palamara con il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli in cui si faceva riferimento all' esposto di Fava. Un' interlocuzione probabilmente inedita. Ricordiamo che in un' intercettazione del 16 maggio 2019 Racanelli criticava il comportamento del segretario generale del Csm Paola Piraccini che, a suo giudizio, stava facendo ostruzionismo sulla segnalazione di Fava: «Sta facendo un casino per la prima non vuole dare gli atti». Cioè gli allegati dell' esposto. Palamara ipotizzava: «Questa è omissione di atti d' ufficio». L' esposto giunse in prima commissione il 7 maggio 2019, alla vigilia del pensionamento del procuratore Pignatone, dopo un percorso travagliato e un' anomala attività istruttoria da parte del comitato di presidenza. Ieri il consigliere Mario Suriano ha chiesto a Palamara il motivo per cui Fava avesse aspettato la fine della carriera del procuratore per accusarlo. Ma l' ex presidente non è la persona più adatta a rispondere. Forse prima o poi al Csm qualcuno troverà il coraggio di convocare Fava e di chiedere a lui delucidazioni sulla sua denuncia, ormai una specie di lettera scarlatta.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 26 marzo 2021. Una delle Procure più importanti d' Italia viene investita in pieno dalle ondate del caso Palamara alle nove e mezza di ieri mattina, quando l' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati va a sedersi in un' aula del Consiglio superiore della magistratura. È l' istituzione su cui Palamara ha regnato a lungo, prima, durante e dopo il periodo di cui ne faceva formalmente parte. E che lo ha radiato dopo lo scandalo che lo ha investito. Ieri mattina, Palamara compare, convocato con poche ore di preavviso dalla prima commissione del Csm senza indicazione dell' argomento. E lì scopre che il tema dell' interrogatorio è quanto avvenne quasi quattro anni fa, quando il Consiglio di cui faceva parte nominò i cinque procuratori aggiunti di Milano. Una informata di nomine senza precedenti, che doveva ridisegnare il volto della Procura di Mani Pulite dopo la faida che l' aveva attraversata negli anni precedenti. Nel telefono sequestrato a Palamara, le chat raccontano per filo e per segno come vennero scelti i cinque «vice» del capo Francesco Greco. Ieri mattina, al Csm, a Palamara viene chiesto di spiegare quelle chat e quelle nomine. Lui va giù piatto: «È stata una lottizzazione tra le correnti». Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire. Ma il problema è un altro. Perchè la commissione che interroga Palamara è quella che si occupa delle «incompatibilità ambientali» dei magistrati. È lo strumento che permette di cacciare dalla loro carica magistrati che, anche senza illeciti disciplinari, non possano più stare lì. L' ultimo è stato Marco Mescolini, rimosso dalla Procura di Reggio Emilia proprio per il caso Palamara. Chi c' è ieri, nel mirino del Csm? La risposta, racconta chi ha partecipato alla riunione segreta e a porte chiuse, è netta: Francesco Greco, il capo della Procura milanese. A Greco non è stato finora notificato nulla di ufficiale, d' altronde tecnicamente i lavori della commissione contro di lui sono nella fase «preistruttoria». Ma l' insistenza con cui ieri la commissione ha insistito sulle nomine dei cinque aggiunti ha un significato difficilmente equivocabile. E non può essere casuale che l' apertura del fronte milanese del «caso Palamara» avvenga in un momento drammatico per la giustizia nel capoluogo lombardo, dove le spaccature e i veleni seguiti ai processi sull' Eni hanno investito anche la gestione dell' ufficio da parte di Greco. Oggi Greco è un capo indebolito, anche perché prossimo alla pensione. E gli attacchi influiranno inevitabilmente sulla scelta, che si annuncia lunga e cruenta, del suo successore. Greco non compare direttamente nelle chat. A parlare delle nomine milanesi con Palamara è Nicola Clivio, all' epoca consigliere del Csm per la corrente di Area. Si discute di un pacchetto di cinque nomi già pronto, che Palamara cerca invano di mettere in discussione. Su alcuni dei candidati fioccano giudizi impietosi. Ma alla fine passa il pacchetto precotto. E il ruolo del procuratore aleggia su tutta la conversazione. Quando Palamara cerca di escludere un nome, Clivio risponde: «Fa incazzare Greco e tutto il mondo. È sua». Ieri a Palamara viene fatta la domanda cruciale: parlò con Francesco Greco della nomine? «Sì», risponde lui. Anche se colloca il discorso in un confronto col procuratore di Milano su problematiche più vaste. Qualcuno, in Csm, non voleva che a Palamara venisse dato modo di dare la sua versione sull' infornata di nomine. Alla fine, però, ci si è arresi all' inevitabile. E ieri, in aula, Palamara conferma tutto e riassume: è stata una lottizzazione, con un occhio fisso sulla tessera di corrente dei candidati. Questa era la regola, d' altronde, prima e dopo che arrivassi io: è il mantra di Palamara, la sua linea di difesa. Milano, dice, non ha costituito eccezione. Ma se si parla di Milano, dice, bisogna parlare anche del resto. Di Roma, per esempio. Non solo della tormentata vicenda della nomina del procuratore capo Michele Prestipino, al cuore dell' indagine di Perugia. Come per Milano, dice l' ex presidente dell' Associazione nazionale magistrati, bisogna scavare anche su come le gerarchie della Procura vennero decise con la nomina degli aggiunti: e fa i nomi di Paolo Ielo, Stefano Pesci, Giuseppe Cascini e Rodolfo Sabelli, tutti nominati dal Csm attualmente in carica. Dopo di me, dice Palamara, non è cambiato niente.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2021. L'audizione di Luca Palamara torna a scuotere il Consiglio superiore della magistratura. Non tanto per ciò che ha detto ieri l' ex consigliere davanti alla prima commissione del Csm, quanto per il singolare incontro, alla vigilia dell' interrogatorio, tra il suo avvocato e uno dei componenti di quella stessa commissione. Si tratta di Alessio Lanzi, avvocato anche lui e consigliere «laico» in rappresentanza di Forza Italia, che dà una spiegazione del tutto banale e lecita della visita effettuata nello studio di Roberto Rampioni, uno dei legali che assiste Palamara imputato di corruzione a Perugia. Tuttavia quando al Consiglio s' è venuto a sapere, in maniera casuale, di questa curiosa coincidenza, i malumori sono arrivati fino al Comitato di presidenza, che ha incontrato la commissione prima dell' audizione di Palamara. La convocazione dell' ex presidente dell' Associazione magistrati espulso dall' ordine giudiziario (nel quale spera di essere riammesso, dopo aver presentato ricorso in Cassazione contro la radiazione) era stata decisa e comunicata all' interessato mercoledì, senza svelare gli argomenti sui quali gli sarebbero state fatte domande. Poi, all' ora di pranzo, Lanzi è andato a trovare il collega che difende Palamara, e nel pomeriggio la commissione che si occupa degli eventuali trasferimenti d' ufficio per presunte incompatibilità ambientali, s' è riunita nuovamente deliberando a maggioranza (con il voto favorevole pure di Lanzi) di allargare l' oggetto dell' audizione: non solo la posizione del procuratore di Milano Francesco Greco, come inizialmente previsto, ma anche quella del procuratore aggiunto di Roma Angelo Racanelli. Due pratiche aperte da tempo e apparentemente destinate all' archiviazione (per Racanelli c' era già una proposta che il plenum ha rimandato in commissione), che però potevano fornire a Palamara lo spunto per tornare su argomenti affrontati spesso nelle interviste televisive seguite alla pubblicazione del suo libro intitolato Il sistema . A decisione presa, al Csm s' è venuto a sapere dell' incontro tra Lanzi e Rampioni, e nel palazzo c' è chi l' ha messa in relazione all' audizione di ieri, nonché all' Operazione politico-editoriale innescata dal libro di Palamara. Una fuga di notizie anticipata, insomma, che Lanzi invece ha negato con decisione. E anche dopo l' interrogatorio dell' ex magistrato ribadisce: «Con il collega Rampioni c' è un' antica amicizia e frequentazione, abbiamo parlato di problemi legati all' università dopo che lui è andato in pensione. Palamara non c' entra niente, e nell' audizione io ho avuto un ruolo del tutto passivo, tant' è che non ho fatto alcuna domanda». Il comitato di presidenza e la prima commissione hanno preso atto della versione di Lanzi, ma il disappunto della presidente della commissione Elisabetta Chinaglia (che fa parte di Area, il gruppo della «sinistra giudiziaria») e di altri consiglieri resta ed è «agli atti». Se ci saranno strascichi e conseguenze si vedrà nelle prossime settimane. Sul contenuto dell' audizione, svoltasi a porte chiuse come avviene normalmente, Palamara - giunto a palazzo dei Marescialli con Rampioni - si limita a dire: «Ho parlato di fatti specifici, e in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano; ho parlato di quanto emergeva dalle chat, ma il discorso si è poi allargato al trojan». Durante la deposizione l' ex consigliere si sarebbe soffermato più sulle vicende romane che su quelle milanesi, e il riferimento al trojan (che trasformò il suo telefonino in una microspia) riguarderebbe soprattutto un' intercettazione tra lui e Racanelli alla vigilia del voto del Csm per la successione all' ex procuratore Giuseppe Pignatone.
Csm, pressing su Lanzi perché lasci la prima commissione dopo l’incontro con l’avvocato di Palamara. di Liana Milella, Conchita Sannino su La Repubblica il 27 marzo 2021. Sarà il comitato di presidenza a decidere sul destino del laico di Forza Italia. È stato il Pg Salvi, che abita nel palazzo dove ha lo studio l'avvocato Rampioni, a scoprire casualmente l'incontro. In cui non c'era Palamara. Un ampio fronte di consiglieri togati e laici vuole lo spostamento. Cresce, al Csm, il caso Lanzi. Perché un ampio fronte - Area, Unicost, Autonomia e indipendenza, ma anche molti laici - chiede adesso che l'avvocato milanese lasci subito la Prima commissione, che decide quali magistrati devono essere trasferiti per incompatibilità ambientale. No, a questa ipotesi, dall'ex pm Di Matteo. Il comitato di presidenza - composto dal vice presidente David Ermini, dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, dal procuratore generale Giovanni Salvi - si sarebbe riunito già oggi se non fosse stato assente, per suoi impegni, Curzio. Il vertice del Csm avrebbe dovuto affrontare il comportamento di Alessio Lanzi, il laico indicato da Forza Italia che mercoledì, un'ora dopo la convocazione di Luca Palamara in prima commissione, si è recato nello studio di Roberto Rampioni, nel quartiere Prati. Non era presente Palamara, sotto inchiesta a Perugia, ex, nell'ordine, dell'Anm, del Csm, della procura di Roma dov'è stato pm e dove correva per procuratore aggiunto. Ma quell'incontro tra l'interrogante e il difensore dell'interrogato, tra il componente del Csm e l'avvocato del protagonista del "Sistema" delle correnti, alla vigilia della prima e probabilmente unica audizione di Palamara al Consiglio per entrare nel merito delle sue chat, è apparso subito del tutto inopportuno. Un clamoroso passo falso. Una sgrammaticatura istituzionale scoperta per caso, ma che ha turbato fortemente un Consiglio che porta tuttora le ferite dello stesso caso Palamara e degli incontri impropri tra componenti del Csm e figure estranee, come quelle dei politici Luca Lotti (renziano rimasto nel Pd e a processo per il caso Consip) e Cosimo Maria Ferri (magistrato fuori ruolo, ex sottosegretario alla Giustizia con tre governi, deputato prima Pd e poi di Renzi). Un incontro peraltro ricostruito per una pura coincidenza, perché in quel palazzo dove Rampioni ha lo studio, vive invece il Pg Giovanni Salvi. Un suo parente che era andato da lui gli ha chiesto se per caso avesse visite, avendo incrociato Lanzi. E così l'incontro è venuto alla luce. La notizia, al Csm, ha creato sin da subito - era mercoledì pomeriggio - sconcerto e preoccupazione. Ma non ha influito sulla seduta della commissione di giovedì, che si è tenuta ugualmente e nella quale Lanzi (per effetto del turbamento provocato tra i colleghi membri) si è astenuto dal porre domande. Furibonda invece la reazione di Rampioni che, in agenzia, parla di "un incontro alla luce del sole, tra professori amici per ragioni accademiche ed editoriali". Incontro che lo stesso Lanzi, durante la commissione, ha minimizzato. Ma il giorno dopo, gli umori al Consiglio sono pessimi nei suoi confronti. La sinistra di Area, Unicost, una parte di Autonomia e indipendenza, molti consiglieri laici, sono convinti che - almeno - Lanzi debba lasciare il suo posto in prima commissione, avendo tenuto un comportamento improprio per un membro del Csm, soprattutto nei confronti dei suoi colleghi. Perché comunque, a poche ore dall'audizione dell'ex leader Anm, oggi imputato a Perugia, è quantomeno ipotizzabile il sospetto che tra Rampioni e Lanzi si sia affrontato l'argomento Palamara, tra temi e domande giuste da fare. Per questo il caso finisce all'attenzione dell'Ufficio di presidenza del Csm. Che dovrà decidere la linea da seguire. Anche senza fretta, tenendo conto che la prossima settimana, a Palazzo dei Marescialli, è "bianca": cioè non vi sono lavori, tranne quelli della commissione disciplinare. Dove, proprio da lunedì, vengono giudicati i cinque consiglieri, poi dimessisi, che erano all'hotel Champagne, la sera dell'8 maggio, con Palamara, Lotti e Ferri. Una coincidenza negativa per Lanzi, perché chi oggi lo critica e ne chiede la testa, ragiona sul fatto che questo Csm, proprio per il suo coinvolgimento nel caso Palamara, dovrebbe avere un surplus di attenzione e di cautela nei contatti con l'esterno. Saranno Ermini, Curzio e lo stesso Salvi in prima battuta a dover verificare se il comportamento dell'avvocato in quota Fi deve essere censurato, e quindi stabilire in che modo farlo, e in quale misura. Nell'immediatezza del fatto c'è chi ha parlato anche di sue dimissioni dal Csm. Alcuni ritengono sia necessario discuterne. E già l'idea che il caso Lanzi finisca in plenum, di fronte al medesimo consigliere laico, sarebbe davvero imbarazzante.
L'avvocato di Palamara smonta i veleni sul laico Lanzi. "L'incontro? Vedo anche Salvi tutti i giorni, stiamo nello stesso stabile". Anna Maria Greco - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. Luca Palamara va al Csm e la prima commissione, in particolare la presidente Elisabetta Chinaglia (di Area) gli fa domande molto delicate su presunte trattative con il procuratore di Milano, Francesco Greco, per la nomina degli aggiunti e, questa volta Nino Di Matteo (di Autonomia e indipendenza), su come capì del trojan nel cellulare, tirando in ballo il Quirinale. Ci sarebbe molto da capire sui due capitoli affrontati a porte chiuse ma, a testimoniare il clima incandescente al Csm, l'attenzione se la prende la notizia di un incontro, alla vigilia dell'audizione, tra il laico di Fi Alessio Lanzi e uno dei legali di Palamara, l'avvocato Roberto Rampioni. Sospetti di fughe di notizie, fibrillazioni al vertice di Palazzo de' Marescialli, riferiscono Corriere della Sera e Repubblica. Il legale interessato parla di «falso scoop», di «gossip», per «deviare il lettore su una notizia che notizia non è» e «oscurare il contenuto informativo reale, i temi oggetto della audizione di Palamara, chi sa come e da chi loro rivelato». Rampioni precisa che non c'è alcuna «curiosa coincidenza» e «casuale conoscenza» tra lui e Lanzi. «L'incontro - dice- non è singolare, avviene alla luce del sole, tra professori amici per ragioni accademiche ed editoriali; e in un momento antecedente di circa 13 ore all'individuazione da parte della commissione, tenutasi nel pomeriggio, dei temi segreti da affrontare il mattino successivo». Poi rilancia: «Cosa mai si potrebbe pensare dei frequenti, direi giornalieri, incontri tra il Procuratore generale, Giovanni Salvi, e il sottoscritto, difensore del dottor Palamara, coinquilini dello stesso stabile?». In effetti, al di là dell'obiettiva inopportunità dell'incontro, se Rampioni e Lanzi volevano parlare di segreti perché farlo nel palazzo dove potevano essere visti da uno dei membri della presidenza del Csm? «Piuttosto che tentare di imbrattare professionisti veri - attacca l'avvocato -, sarebbe bello pensare che giornali autorevoli si dedicassero ad approfondire l'esame dell'operato, della pratica di quei tanti giocolieri, mezzani, trafficanti di cui il Sistema pullula». Lanzi tace, conferma solo la correttezza del suo comportamento e il fatto che l'incontro col collega universitario non avesse nulla a che fare con l'audizione al Csm. Quanto al nocciolo, sembra che Palamara non abbia coinvolto Greco nei traffici sulle nomine e abbia spiegato che non fu il renziano Cosimo Ferri a rivelargli del trojan ma lui a capirlo quando seppe che il consigliere di Sergio Mattarella, Stefano Erbani (che smentisce), raccomandò a Gianluigi Morlini di procedere al Csm con audizioni in piena regola per il nuovo procuratore Roma, perché non girava solo l'informativa di Perugia sulla sua presunta corruzione ma voci di incontri fuori da Palazzo de' Marescialli. Si chiude così una settimana iniziata con l'audizione del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone e anche quella lascia aperte molte domande su com'è nata l'inchiesta. Soprattutto sul perché non fu intercettato Fabrizio Centofanti, presunto corruttore di Palamara (spiato dal trojan dal 3 maggio 2019). Per Cantone era difficile perché l'imprenditore stava molto attento a non farsi spiare, ma le carte dimostrano che venne iscritto nel registro degli indagati solo il 27 maggio, ben dopo l'ex presidente dell''Anm e gli altri incriminati, Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Quale fu, dunque, il primo input per i pm?
Anna Maria Greco per "il Giornale" il 31 marzo 2021. A tempo di record il Csm rimuove dalla prima commissione il laico di Forza Italia Alessio Lanzi, «reo» di aver incontrato il legale di Luca Palamara prima della sua audizione. Non sono valse spiegazioni e assicurazioni che il colloquio nulla avesse a che fare con il caso che ha terremotato la magistratura italiana. Il vertice dell'organo di autogoverno delle toghe, a pochi giorni dall'accaduto e dopo che il caso è stato sparato con risalto su Corriere della sera e Repubblica, decide il trasferimento di Lanzi alla quinta commissione. A sostituirlo in quella che si occupa delle incompatibilità e valuta trasferimenti dei coinvolti nelle chat di Palamara, arriva Michele Cerabona, avvocato sempre di area Forza Italia.Il decreto è dell'ufficio di presidenza, guidato dal numero due del Csm, David Ermini, dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e dal primo presidente Pietro Curzio. Dei primi due si parla più volte nelle famose chat sequestrate a Palamara, ma i giudici inflessibili di oggi non hanno ritenuto «inopportuno» rimanere ai loro posti a Palazzo de' Marescialli, proprio mentre si giudicava il Sistema degenerato emerso dalle intercettazioni dei pm di Perugia. Eppure, la nomina del democratico Ermini, una volta renziano, a vicepresidente è una di quelle che sarebbe stata frutto dei traffici dell'ex presidente dell'Anm. Con i suoi accordi correntizi Palamara avrebbe danneggiato proprio Lanzi, che ambiva allo stesso posto. Quanto a Salvi, il Pg ha denunciato l'incontro avvenuto nello studio del legale Roberto Rampioni, che si trova nello stesso palazzo di casa sua, ma nelle chat si racconta di un colloquio che lui stesso chiese a Palamara 4 anni fa su una terrazza romana, per averne il sostegno nella nomina al vertice della procura generale del Palazzaccio. Ora che il «dominus» del Sistema, descritto nel libro con Alessandro Sallusti, è stato radiato dalla magistratura ed è sotto processo a Perugia per corruzione giudiziaria, la domanda è se questo Csm abbia le carte in regola per fare davvero pulizia. O se tutto continuerà come prima. Lo scomodo garantista Lanzi, fautore della separazione delle carriere e da avvocato contrario al corporativismo delle toghe, viene «punito» per essere inciampato in un incidente di percorso, ma il caso si ricompone in fretta per evitare troppo clamore, non si porta al plenum come altre volte. E al suo posto va un laico anche lui azzurro, per rispettare gli equilibri politico-giudiziari. Intanto Rampioni, indignato, scrive a Sergio Mattarella che presiede il Csm, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e ai vertici dell'avvocatura, per denunciare la «strumentale e squallida aggressione mediatica» dei due quotidiani, basata su una «notizia spudoratamente falsa» e sottolinea che Lanzi «non era in possesso di alcuna informazione riservata «sull'audizione che potesse interessare la difesa di Palamara». Si ribella, Rampioni, alla «logica del sospetto» e a chi l'ha alimentata facendo uscire dal Csm la notizia, per deformarla.
Il laico del Csm trasferito ad un'altra commissione dopo l'incontro con l'avvocato dell'ex pm poco prima della sua audizione. su Il Dubbio il 31 marzo 2021. Il consigliere del Csm Alessio Lanzi, laico in quota Forza Italia, lascia la prima commissione, quella che si occupa dei trasferimenti d’ufficio dei magistrati e che ha al vaglio il materiale delle chat di Luca Palamara. La decisione di trasferirlo, a quanto si apprende, è stata assunta dal vicepresidente del Csm, David Ermini, su proposta del comitato di presidenza, a seguito delle notizie di stampa che hanno riferito di un incontro di Lanzi con il difensore di Palamara, Roberto Rampioni, la sera prima dell’audizione dell’ex pm davanti alla prima commissione, di cui Lanzi era vicepresidente. Ermini oggi ha modificato la composizione delle commissioni spostando Lanzi dalla prima alla quinta commissione e mettendo al suo posto Michele Cerabona, altro laico di Fi. Una decisione, si sottolinea da Palazzo dei Marescialli, per rasserenare il clima e garantire tranquillità nei lavori. Lanzi aveva spiegato che si era trattato di un incontro banale con un collega a cui è legato da un’antica amicizia e frequentazione e aveva assicurato che non si era affatto parlato dell’audizione di Palamara. «Ciò che emerge, e con assoluta chiarezza, è che non è mai esistito un interesse della difesa Palamara ad informazioni relative ad un procedimento disciplinare che riguarda altri – ha scritto Rampioni sulle colonne de Il Giornale, puntando il dito contro Repubblica e Corriere, che hanno diffuso la notizia dell’incontro -, ma che vi è – come è dato evincere da quanto sostenuto dagli articolisti – il diverso interesse, almeno di parte della Commissione, di silenziare il più possibile il teste, di “non offrirgli lo spunto per tornare sugli argomenti” trattati nel noto libro e inibire le iniziative, lecite e doverose, di quei membri (si apprende Lanzi, Di Matteo, Basile) tese ad “ampliare il più possibile il perimetro dell’audizione”, come del resto richiesto dai numerosi magistrati che non si riconoscono nelle correnti. Ovvero, ottenere che Lanzi lasci la Commissione, così da scongiurare preoccupanti voti di parità».
Il Csm: «Lanzi parlò del caso Palamara». Ma il suo avvocato nega: «Non mi disse nulla». Il Comitato di presidenza del Csm: «inopportuna» la presenza del consigliere laico in Prima Commissione. Ma Rampioni, legale dell’ex pm, nega di aver parlato dei contenuti dell’audizione. Simona Musco su Il Dubbio il 2 aprile 2021. «Inopportuna». Viene definita così dal Comitato di Presidenza del Consiglio superiore della magistratura la permanenza del consigliere laico Alessio Lanzi in Prima Commissione, competente in procedimenti di incompatibilità dei magistrati. Un’inappropriatezza determinata dall’incontro intercorso tra l’avvocato forzista e Roberto Rampioni, difensore dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara proprio il giorno prima dell’audizione dell’ex pm come testimone sui contenuti delle centinaia di chat intrattenute con altri magistrati. La polemica generata da quell’incontro – di cui Repubblica e Corriere della Sera hanno dato notizia raccontandolo come off limits – ha quindi spinto Lanzi a lasciare la Prima Commissione alla volta della Quinta, quella per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. «Sono stato io a chiedere di cambiare Commissione – ha chiarito mercoledì con una nota -, poiché avevo perso ogni senso di fiducia nei confronti di due consigliere; due su cinque, che però hanno trovato la sponda del pronto avvicendamento da parte del Comitato». E circa il contenuto dell’incontro, Lanzi ha spiegato che si è trattato di un appuntamento «professionale», su temi accademici e editoriali «che ci uniscono. Ma la nota lapidaria diffusa oggi dal vicepresidente David Ermini, dal primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi propone un punto di vista diverso: «Lo stesso consigliere Lanzi – affermano – ha riferito che nel colloquio intercorso con l’avvocato Roberto Rampioni, sia pure marginalmente, è stato affrontato il tema dell’audizione del dottor Luca Palamara, fissata per il giorno seguente». Un’affermazione che confligge con quanto dichiarato, invece, dagli stessi protagonisti della vicenda. E ciò per un semplice motivo: l’incontro tra i due, durato 30 minuti, è avvenuto prima della riunione della Sezione disciplinare nel corso della quale sono stati individuati i temi da trattare durante l’audizione, avvenuta poi la mattina successiva. «In tale riunione, la proposta di ampliare il tema dell’audizione non fu mia ma di altro consigliere; non venne poi approvata e l’audizione si limitò solo a taluni aspetti», ha aggiunto Lanzi. Che sulla nota del Comitato di Presidenza preferisce non commentare: «Con la dichiarazione di ieri (mercoledì, ndr) ritengo chiusa la questione». Ma a ribadire che nulla di sconveniente sia accaduto è ancora una volta Rampioni: «Ribadisco al riguardo che nel corso del colloquio non sarebbe stato possibile parlare di alcun tema “oggetto” dell’audizione – spiega il legale al Dubbio -, in quanto, come a tutti ormai noto, i temi in discorso sono stati individuati in un momento successivo al “colloquio”». D’altronde, Palamara si trovava davanti alla Prima Commissione non in veste di accusato, ma di testimone, senza alcun bisogno, dunque, di conoscere in anticipo i contenuti dell’audizione, alla quale non ha partecipato il suo legale. Anzi, è stato lo stesso pm ad affermare più volte pubblicamente di voler «raccontare tutto», andando oltre il contenuto del suo libro, dal titolo “Il Sistema”. «Non vi era alcun interesse da parte del mio assistito a ricevere “informazioni preventive”, dal momento che in qualità di semplice “audito” avrebbe potuto essere sentito soltanto sul contenuto delle proprie chat – aggiunge Rampioni -. E perché la sua presenza (quella di Lanzi, ndr) non è stata ritenuta “inopportuna” al momento dell’audizione? Non amando (meglio, rifiutando) le ambiguità linguistiche e gli artifici verbali, cosa si intende affermare con l’espressione “sia pure marginalmente, è stato affrontato il tema dell’audizione”? – conclude – Alla luce del “dato” che il tema non può essere dislessicamente individuato nella convocazione per l’audizione, ma solo nel possibile (e, purtuttavia, ignoto) oggetto dell’audizione».
Lanzi sbatte la porta «Ho lasciato io, avevo perso fiducia in alcuni consiglieri». Il professore di diritto penale, componente laico del Csm replica alle accuse di poca trasparenza per aver incontrato il legale di Palamara. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'1 aprile 2021. «Ho perso ogni senso di fiducia nei confronti di due consigliere che hanno trovato sponda per il mio avvicendamento presso il Comitato di presidenza». Alessio Lanzi, componente laico del Consiglio superiore della magistratura in quota Forza Italia, si toglie qualche sassolino dalle scarpe e smonta le polemiche che in questi giorni lo hanno travolto. Il professore milanese di diritto penale, nel 2018 fra i candidati a diventare vice presidente del Csm, incarico che poi andrà al dem David Ermini, era stato “accusato” di aver tenuto un comportamento poco trasparente: il giorno prima dell’audizione di Luca Palamara davanti alla Prima Commissione del Csm di cui faceva parte, Lanzi si era recato nello studio romano del collega Roberto Rampioni, difensore dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati nel procedimento aperto a suo carico dalla Procura di Perugia per corruzione. La visita di Lanzi non sarebbe passata inosservata. Secondo ricostruzioni giornalistiche, la moglie del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, che vive con il marito nello stesso stabile dove ha lo studio Rampioni, dopo aver notato la presenza di Lanzi, avrebbe subito notiziato il consorte. Salvi, sempre ricostruzioni giornalistiche, a sua volta avrebbe informato dell’accaduto il Comitato di presidenza del Csm, di cui fa parte insieme ad Ermini e al primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio. «L’incontro con Rampioni ha riguardato temi accademici ed editoriali», puntualizza Lanzi, smentendo quindi ogni possibile collegamento con l’audizione di Palamara a Palazzo dei Marescialli. Su tale aspetto, in particolare, Lanzi precisa che Palamara è stato “audito” dalla Prima Commissione del Csm e non “interrogato”. La differenza è importante perché il testimone non necessita dell’assistenza di un difensore. E quindi della presenza di Rampioni. I problemi per il laico forzista sono, dunque, solo con Elisabetta Chinaglia, presidente della Prima Commissione ed esponente delle toghe progressiste di Area, e con Ilaria Pepe, davighiana di Autonomia& indipendenza, che avrebbero immediatamente insistito per allontanarlo dalla Commissione. «Non si comprende chi sarebbero gli altri consiglieri che avrebbero chiesto il mio allontanamento», puntualizza il professore milanese. Gli altri componenti della Commissione, appresa la notizia, poi amplificata da Repubblica e Corriere, non hanno avuto nulla da obiettare, ritenendola ‘ irrilevante’ dice ancora Lanzi riferendosi al pm antimafia Nino Di Matteo, al laico della Lega Emanuele Basile e alla togata di Magistratura indipendente, la corrente moderata, Paola Maria Braggion. Lanzi ricorda anche che la proposta di ampliare l’audizione di Palamara non venne approvata. «Ho fatto io domanda – ripete – per essere spostato dalla Prima Commissione poiché avevo perso ogni senso di fiducia nelle due consigliere che hanno trovato sponda da parte del Comitato di presidenza. La vicenda mi ha insegnato a conoscere compiutamente e fino in fondo le persone con cui lavoro», aggiunge Lanzi, ricordando «la necessità di un profondo impegno a tutela degli irrinunciabili principi in cui credo per assicurare alla comunità civile una giustizia nel rispetto dei principi costituzionali». Lanzi andrà ora alla Quinta commissione, competente per le nomine, ed il suo posto sarà preso dall’avvocato napoletano Michele Cerabona, anch’egli laico in quota Forza Italia. «Resta l’amarezza – aggiunge infine – di non aver potuto completare le pratiche rilevanti in via di definizione». E ieri è arrivato anche il commento del professore Roberto Rampioni, secondo cui si vuole “silenziare” Palamara. Nell’ora e mezza di audizione a piazza indipendenza lo scorso lunedì, l’ex numero uno dell’Anm aveva affrontato il tema delle nomine degli aggiunti a Roma e Milano, concentrandosi anche sull’esposto del collega Stefano Rocco Fava nei confronti di Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo.
Il complotto contro Lanzi: troppo garantista per le truppe forcaiole che occupano il Csm. Chi ha ordinato il pedinamento del consigliere del Cms Alessio Lanzi? E per quale motivo? Di certo, per le sue idee, non si era fatto molti amici tra le truppe giustizialiste. Davide Varì su Il Dubbio il 26 marzo 2021. Lasciateci fare i complottisti, almeno per una volta. E come in ogni complotto che si rispetti dobbiamo provare a rispondere alla domanda delle domande: a chi giova? E per mantenere un certo mistero – ché gli articoli complottisti, è noto, vivono nella penombra, fioriscono nel non detto o nel detto tra le righe – potremmo prima chiederci il contrario, ovvero: a chi non giova, chi vuol colpire e chi mira a delegittimare questo complotto? Ecco, di certo il dossieraggio contro il consigliere laico Alessio Lanzi, perché è di quello che stiamo parlando, colpisce l’ala più garantista del Csm. E questo è un fatto. Ora, una volta seminati un po’ di interrogativi, passiamo ad elencare gli eventi. La Repubblica di ieri pubblica un lungo articolo nel quale parla di un incontro tra il consigliere Lanzi e Roberto Rampioni. Il Rampioni in questione, veniamo a sapere, è un avvocato, ma non un avvocato qualsiasi: è il legale difensore di Luca Palamara. E qui si spalanca un universo. È sufficiente citare quel nome, Palamara, per evocare in chi legge il grumo mediatico giudiziario che ha paralizzato la nostra Giustizia, la tossina che ha avvelenato la magistratura italiana, il groviglio correntizio che in questi anni ha giocato al risiko delle procure nei salotti dei più esclusivi hotel romani. Ora, sembra che l’incontro tra i due sia avvenuto poche ore prima che Palamara venisse ascoltato – “torchiato”, abbiamo titolato noi – dal Csm. E dunque la domanda è legittima: perché mai un membro del Csm decide di incontrare il legale difensore di Palamara alla vigilia “dell’interrogatorio” del suo assistito? E qui ognuno può trovare la risposta che più lo soddisfa anche perché difficilmente sapremo con certezza di cosa abbiano parlato i due. E allora passiamo a porci la seconda interessantissima domanda: chi ha ordinato il pedinamento dell’avvocato di Palamara e Lanzi? E a quale scopo è stato deciso? E chi ha passato l’informazione a Repubblica? E infine: è normale che un membro del Csm, organo di rilevanza Costituzionale sacro quasi quanto il nostro Parlamento, subisca questo genere di pedinamenti? E qui occorre fare un passo indietro e tracciare un breve profilo del professor Alessio Lanzi. Avvocato e giurista di altissimo livello, Lanzi era il nome più accreditato per diventare vicepresidente del Csm. Poi è intervenuto qualcuno o qualcosa che ne ha frenato la corsa e quando venne proposto il nome di Ermini – questo lo scrive Palamara nel suo libro – i “poteri forti” della magistratura (vedete come siamo complottisti?) reagirono stupiti: “Ermini chi?”. Ma alla fine “l’anonimo Ermini” vinse sul profilo decisamente troppo garantista dell’avvocato Lanzi. Il quale, però, ha portato la sua formazione, la sua sensibilità di giurista e le sue battaglie a palazzo dei Marescialli. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati e così via. Lanzi finì poi nel mirino delle toghe milanesi e del Fatto di Travaglio quando osò criticare le perquisizioni mediatiche ordinate dalla procura di milano nelle Rsa Lombarde. Una lesa maestà intollerabile che spinse Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area a Palazzo dei Marescialli, a tuonare indignato: «Il compito del Csm è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente». Poi la “minaccia”: se Lanzi non smentisce le «dichiarazioni chiederemo l’apertura di una pratica a tutela dell’autorità giudiziaria di Milano». Insomma, a questo punto del racconto complottista dovrebbe essere chiaro a tutti che Lanzi è stato scelto come bersaglio per delegittimare e zittire una delle poche voci di dissenso e non arruolate nel variegato esercito guidato dalle procure di cui Palamara parla nel suo libro. Ma ripetiamo, questo è solo becero complottismo. La realtà è senza dubbio più semplice: qualcuno passando casualmente dalle parti dello studio romano di Lanzi deve aver riconosciuto il legale di Palamara decidendo di avvisare Repubblica. La quale ha deciso di darne conto non perché sia un giornale arruolato ma per puro amore della verità giornalistica. In ogni caso è facile prevedere che il risultato del complotto sarà esattamente opposto: chi intendeva delegittimare Lanzi ben presto si renderà conto che avrà contribuito a gettare una nuova manciata di fango contro la magistratura italiana. Si chiama eterogenesi dei fini.
«Contro Lanzi le logiche di quel “Sistema” descritto da Palamara». Parla l'avvocato Roberto Rampioni, legale dell'ex presidente dell'Anm. Che scrive a Mattarella per denunciare «l'aggressione mediatica» che ha travolto il laico del Csm. Simona Musco su Il Dubbio l'1 aprile 2021. Una rappresentazione plastica del «sistema». Si potrebbe sintetizzare così il pensiero di Roberto Rampioni, avvocato di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm e al centro dello scandalo che ha terremotato la magistratura. Lo si evince dalla lettera inviata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, quattro pagine dense di significato, che delineano un quadro a tinte fosche su quanto accaduto ad Alessio Lanzi, consigliere laico del Csm, che da due giorni ha lasciato la prima Commissione – quella per le incompatibilità – per passare alla quinta – quella per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. Una decisione presa dopo l’incontro del forzista con Rampioni, avvenuto 24 ore prima dell’audizione dell’ex pm proprio davanti alla prima Commissione, di cui Repubblica e Corriere della Sera hanno dato notizia raccontandolo come off limits. Ed è questo, per Rampioni, l’elemento cruciale della vicenda. Si tratterebbe di «una strumentale e squallida aggressione mediatica», afferma nella lettera. La tesi dei due quotidiani è chiara: l’incontro avrebbe avuto come scopo quello di conoscere in anticipo le richieste che il Csm avrebbe fatto a Palamara. La notizia, precisa con enfasi Rampioni, è però «spudoratamente falsa». «È stato montato qualcosa che non esiste – racconta al Dubbio -. Palamara è stato sentito come teste su argomenti che non conoscevamo, ma che erano in ogni caso risaputi dall’ex presidente dell’Anm, perché riguardavano le sue chat. Che cosa mai avrebbe dovuto dirmi Lanzi? È una mascalzonata per tirarlo fuori dalla prima Commissione. Il timore di chi ha orchestrato tutto è chiaro: che Di Matteo e Lanzi, i più vivaci della Commissione, potessero chiedere troppe cose e che quindi il Csm diventasse una specie di cassa di risonanza». La tesi di Rampioni è, dunque, che Palamara sia stato “silenziato”. «Hanno l’interesse di ascoltarlo il meno possibile sul minor numero possibile di casi. Ma le pare normale che hanno aperto un numero minimo di procedimenti disciplinari rispetto a quella montagna di chat? – spiega ancora – Questo era l’interesse e infatti ci sono riusciti». Ciò che al legale, cresciuto professionalmente con i giganti del foro, pesa di più è l’obliquità: «Passano da me per arrivare a Lanzi», sottolinea. Ma allora chi sono i “mandanti” di quello che definisce un «pizzino»? «Non lo so – replica -, io sono abituato a ragionare sui fatti». E i fatti sono quelli che racconta nella lettera. L’incontro, spiega, è tra due amici, nessun argomento sensibile viene trattato. Si tratterebbe, dunque, di una notizia «costruita, “almeno” da parte del suo artefice, veicolata alle due testate, già rivelatesi compiacenti al cosiddetto “Sistema”, ed offerta ai media per raggiungere uno scopo “ulteriore”». L’appuntamento era stato programmato per il 24 marzo, molto prima della convocazione di Palamara, dopo diversi rinvii causati dalla pandemia. E proprio per evitare rischi, i due decidono di incontrarsi nello studio dell’avvocato, alla luce del sole, nello stesso stabile in cui vive il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Nessuna riunione carbonara, che sicuramente sarebbe stato sciocco tenere in un posto così “pericoloso” per qualsiasi affare losco, nessun atteggiamento sospetto, al più un problema di opportunità. L’incontro dura 30 minuti, dalle 13 alle 13.30. I due parlano di questioni accademiche e nulla più, spiega Rampioni. Anche perché la riunione della Sezione disciplinare nel corso della quale vengono individuati i temi da trattare durante l’audizione avviene nel pomeriggio. Nessuna soffiata, dunque, sarebbe potuta arrivare dal laico del Csm. L’avvocato si concentra sui termini usati da Repubblica e Corriere: Palamara, scrivono le due testate, sarebbe stato «interrogato», termine che, associato alla presunta «fuga di notizie», avvalora la tesi di ulteriori trame all’ombra di Palazzo dei Marescialli. Ma anche in questo caso si tratta di un termine che storpia la questione: l’ex pm è stato audito per chiarire circa le ormai famose chat in relazione alla posizione di altri magistrati. «Il suo procedimento innanzi al Csm – spiega infatti Rampioni – è da tempo chiuso, i temi attualmente in discussione innanzi alla Prima commissione, per giunta, non attengono minimamente alla vicenda penale ancora pendente presso il Tribunale di Perugia». La notizia dell’incontro arriva al Csm la sera prima dell’audizione. A portarla al comitato di presidenza è proprio Salvi, che il giorno dopo la riferisce alla Commissione. Ma si decide comunque di svolgere l’audizione. Prova questa, secondo Rampioni, del fatto che nulla di disdicevole fosse accaduto. E si tiene con la partecipazione del professor Lanzi «che, tuttavia, per scongiurare polemiche, non rivolge domande». «Ciò che emerge, e con assoluta chiarezza, è che non è mai esistito un interesse della difesa Palamara ad informazioni relative ad un procedimento disciplinare che riguarda “altri” – continua Rampioni -, ma che vi è – come è dato evincere da quanto sostenuto dagli articolisti – il diverso interesse di almeno parte della Commissione di “silenziare” il più possibile il “teste”, di “non offrirgli lo spunto per tornare sugli argomenti” trattati nel noto libro». Nessuno, dunque, si pone il problema di opportunità che quell’audizione si tenesse comunque. Dunque quell’incontro nessun problema ha creato al Csm. Ma la notizia viene comunque veicolata all’esterno. Ed è questo, secondo Rampioni, che avvalora il sospetto di «quell’interesse “ulteriore”, quella strumentalizzazione dell’incontro, che porta ad aggredire la onorabilità e la reputazione professionale di posizioni terze pur di inibire le iniziative, lecite e doverose, di quei membri (si apprende, Lanzi, Di Matteo, Basile) tese ad “ampliare il più possibile il perimetro dell’audizione”, come del resto richiesto da quei numerosi magistrati che non si riconoscono nel “Sistema” delle correnti; o, meglio, l’interesse ad ottenere che il prof. Lanzi lasci la Commissione, così da scongiurare “preoccupanti” voti di parità». Obiettivo, appunto, raggiunto. Un’operazione tipica del “Sistema”, conclude Rampioni, che per funzionare necessita «di una sponda mediatica, di qualcuno che si presti – anche contro il dato storico – ad offrirla in modo ingannevole al lettore». Chi ha veicolato all’esterno la notizia? «Non lo so – dice ancora al Dubbio -, il fatto è che la notizia che sarebbe stato prudente non far uscire è uscita. Se avessero avuto qualche sospetto avrebbero potuto fermare l’audizione. Ma non l’hanno fatto. Ma a questi giochi io non ci sto. Non ho certe idee in testa, non mi sarei mai permesso di incontrare Lanzi, se ci fosse stato un interesse. Questo io non lo accetto. Questo è il sistema»
Csm, le tensioni su Lanzi legate alle verifiche sui pm di Milano. Luca Palamara verrà audito presto in Commissione Antimafia. E l’Ucpi si schiera con Lanzi e il collega Rampioni, difensore dell’ex pm. Simona Musco su Il Dubbio il 4 aprile 2021. Non è chiaro chi, a Piazza dell’Indipendenza, abbia messo sul tavolo della discussione le nomine alla Procura di Milano. Quel che è certo è che la questione ha suscitato non poche tensioni. E il caos che si è scatenato attorno al consigliere laico Alessio Lanzi, passato dalla prima alla quinta commissione dopo il suo «inopportuno» – così è stato definito dal Comitato di presidenza del Csm – incontro con l’avvocato di Luca Palamara, Roberto Rampioni, secondo alcuni, potrebbe nascere proprio dalle differenti posizioni attorno a questo delicatissimo argomento. Che ora si arricchisce di un’ulteriore ipotesi, lanciata ieri dal quotidiano Domani: la possibilità che sul procuratore Francesco Greco sia stato aperto un fascicolo per incompatibilità ambientale.
LE NOMINE A MILANO. Il nodo centrale riguarda la nomina dei procuratori aggiunti a Milano. Nel corso dell’audizione dello scorso 25 marzo, la presidente della prima commissione, Elisabetta Chinaglia, ha chiesto all’ex presidente dell’Anm Palamara se fosse stato il procuratore Greco a suggerirgli i nomi delle persone da nominare. Domanda alla quale l’ex pm ha risposto negativamente: le nomine, ha ribadito, sono avvenute sulla base degli accordi con le correnti, a Milano come altrove. L’interlocuzione con Greco, dunque, avrebbe riguardato altro. Ma l’insistenza, nel corso dell’audizione, sulla procura di Milano c’è stata ed è stata evidente a tutti. La tensione, nei dintorni del Palazzo di Giustizia meneghino, è alta. E gli strascichi della sentenza Eni, con il botta e risposta tra Procura e Tribunale, poi sedato da una nota congiunta, sono la prova che qualcosa, negli uffici di via Freguglia, non va. E a pochi mesi dal pensionamento di Greco – che lascerà il 12 novembre prossimo e per la cui poltrona sono già in fila, tra gli altri, Nicola Gratteri e Paolo Ielo – la prospettiva di un procedimento per incompatibilità ambientale appare, ai più, inutile.
NESSUNA COMUNICAZIONE DALLA PROCURA GENERALE. Quel che è certo, allo stato attuale, è che al plenum del Csm non è arrivata alcuna comunicazione da parte della procura generale della Cassazione: improbabile, dunque, che si possa parlare di un procedimento disciplinare a carico del procuratore. Ma in prima commissione, quella deputata alle procedure di incompatibilità, è in corso una fase di pre- istruttoria su tutte le chat di Palamara, ovvero un faldone contenente 60mila conversazioni che riguardano circa cento magistrati. Alcuni orientamenti sono già chiari: per alcuni magistrati si va verso l’archiviazione de plano, per altre pratiche più complesse potrebbe arrivare la richiesta d’archiviazione da sottoporre comunque al plenum, ma senza troppe difficoltà. Altri casi, invece, risultano ben più complicati. I tempi, dunque, sono lunghi. E un possibile fascicolo su Greco – alcune fonti parlano già di «fase istruttoria» – richiederebbe, comunque, una lunga analisi, che potrebbe arrivare a ridosso del pensionamento. Ma dall’audizione del 25 marzo, stando alle informazioni trapelate, nessun elemento fornito da Palamara porterebbe sostegno a tale tesi.
PALAMARA IN ANTIMAFIA. L’ex pm, nei prossimi giorni, sarà audito anche dalla commissione parlamentare Antimafia in una data «che verrà stabilita quanto prima», ha annunciato il presidente della commissione Nicola Morra. Dal canto suo, Palamara ha già annunciato di essere «a disposizione di tutte le istituzioni». Ma trattandosi di «argomenti delicati», l’ex capo dell’Anm ha suggerito l’opportunità di avere di fronte «il legittimo contraddittore, per vedere in che modo avere un confronto, per vedere se il racconto che io faccio, ad esempio, su come si sono svolte determinate nomine, sia vero o no».
PENALISTI SOLIDALI CON LANZI E RAMPIONI. La vicenda Lanzi ha intanto suscitato la reazione dell’Unione delle Camere penali. Che «censura» l’iniziativa che ha determinato il suo addio alla prima commissione: «Il componente laico del Csm Alessio Lanzi è stato messo all’indice, sulla stampa», per l’incontro con Rampioni. Un incontro «tutt’altro che inconsueto tra due amici che si frequentano, si stimano e collaborano, professionalmente ed accademicamente, da decenni», fissato «ben prima che venisse disposta l’improvvisa convocazione». Pur non entrando nelle dinamiche del Csm, la Giunta dell’Ucpi ha sottolineato come, ancora una volta, «abbia avuto il sopravvento quella odiosa cultura del sospetto che sempre accompagna l’operato dell’avvocato difensore. La gratuità della illazione e la tetragona indifferenza ad ogni spiegazione alternativa offerta dai due illustri e stimati Colleghi confermano come alberghi anche in Piazza dei Marescialli l’idea malsana che l’avvocato difensore sia sempre complice del proprio assistito, e perciò univocamente sospettabile di operare, in ogni occasione ed in ogni luogo, a tutela di oscuri interessi, indifferente ad ogni regola di correttezza e di legalità».
Il testimone Palamara torchiato sulle nomine a Roma e a Milano. L’ex capo dell’Anm in audizione davanti al Csm, che secreta tutto. Intanto Michele Prestipino ha presentato ricorso contro la sentenza del Tar Lazio che ha annullato la sua nomina a procuratore della capitale. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 marzo 2021. Sotto torchio per novanta minuti, Luca Palamara si è tolto più di un sassolino dalle scarpe ieri mattina davanti alla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulle “incompatibilità” delle toghe. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati era stato convocato il giorno prima per essere sentito dai suoi ex colleghi. Pur non essendo specificato il motivo, era evidente che l’oggetto dell’audizione avrebbe riguardato il sistema delle nomine in magistratura, come emerso dai messaggi che Palamara scambiava a ritmo frenetico con le centinaia di magistrati che aspiravano ad un incarico di vertice. L’audizione è stata secretata. «È una audizione riservata per la quale ho ricevuto la consegna del silenzio», ha detto all’uscita dal Csm Palamara, accompagnato dai suoi legali, precisando comunque che «è stato tutto registrato». «Mi sono impegnato a chiarire ogni vicenda», ha poi aggiunto il magistrato. La decisione di secretare l’audizione era stata fortemente criticata il giorno prima dai Radicali, i quali per stigmatizzare l’assenza di trasparenza avevano diramato un duro comunicato: «Siamo nell’anno domini 2021, quest’idea che alcuni pezzi di giustizia debbano essere sottratti alla conoscenza, alla pubblicità, alla trasparenza e rimanere nelle segrete stanze abitate da chierici e mandarini deve essere superata, appartiene a mondi che non esistono più». Da indiscrezioni, comunque, pare che siano stati accesi i riflettori su Roma e Milano, in particolare sulle nomine dei locali procuratori aggiunti che sarebbero state effettuate su indicazioni dei rispettivi capi: Francesco Greco e Giuseppe Pignatone. Con i due magistrati Palamara aveva sempre avuto ottimi rapporti. Nel libro intervista “Il Sistema”, il magistrato racconta a tal proposito che Pignatone non avrebbe voluto Racanelli (Antonello, ndr) «ma insisteva pesantemente per Ielo (Paolo, ndr) e Sabelli (Rodolfo, ndr)». L’audizione è stata diretta dalla presidente della prima commissione Elisabetta Chinaglia. Attentissimo sembra sia stato l’ex pm antimafia Nino Di Matteo che ha formulato più di una domanda. All’audizione erano presenti anche consiglieri non componenti della commissione. Altro argomento incandescente è stato l’esposto presentato dall’ex pm romano Stefano Rocco Fava, a distanza di due anni ancora pendente al Csm. Fava aveva depositato alla fine di marzo del 2019 un esposto a Palazzo dei Marescialli in cui evidenziava delle anomalie nella gestione di diversi fascicoli da parte del suo procuratore Pignatone. La circostanza era stata raccontata, qualche settimana prima, anche ai togati del Csm Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Fava parlò dell’accaduto durante due pranzi al ristorante Baccanale di Roma dove, oltre a Davigo e Ardita, era presente anche il collega Erminio Amelio. Fra i vari temi, pare si fosse discusso anche di una candidatura di Fava all’Anm nelle liste Autonomia&indipendenza, la corrente fondata da Davigo. L’esposto in questione era stato poi causa di procedimenti disciplinari e penali. Secondo l’accusa, sarebbe stata una mossa escogitata da Palamara per screditare sia Pignatone che Ielo. Ricostruzione sempre negata da Fava che aveva prodotto anche una telefonata fra l’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini e lo stesso Palamara, in cui emergeva come si fosse trattato di una sua autonoma iniziativa. L’audizione di Palamara segue quella di Raffaele Cantone di lunedì scorso, durante la quale il procuratore di Perugia aveva cercato di chiarito la conduzione dell’indagine nei confronti dell’ex togato. E sul fronte della Procura di Roma, si segnala ieri la presentazione del ricorso di Michele Prestipino nei confronti della sentenza del Tar Lazio che aveva annullato nelle scorse settimane la sua nomina a procuratore della Capitale. Anche il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, che aveva presentato l’iniziale ricorso contro la decisione del Csm di preferirli Prestipino, si è costituito innanzi al Consiglio di Stato chiedendo il rigetto dell’appello. Nei prossimi giorni verrà fissata l’udienza per la trattazione della domanda di sospensione, anche a fronte della decisione del Csm di impugnare la sentenza. Il Tar del Lazio, come si ricorderà, aveva rilevato che Viola era stato escluso dalla commissione per gli incarichi direttivi del Csm pur essendo totalmente estraneo alle “macchinazioni o aspirazioni di altri”. In particolare a quanto emerso durante l’ormai famoso dopo cena all’hotel Champagne la sera dell’8 maggio del 2019 fra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, e cinque consiglieri del Csm.
Le trattative per Milano e Roma. La rivelazione di Palamara: “Pignatone e Greco chiesero favori e nomine gradite”. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Marzo 2021. “Luca Palamara show” ieri mattina davanti alla prima Commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente per le investigazioni nei confronti delle toghe. L’ex zar delle nomine era stato convocato, il giorno prima, per essere sentito dai suoi ex colleghi. Nell’atto di convocazione non era, però, indicato il motivo. Al termine dell’audizione, durata circa novanta minuti, è trapelato poco o nulla. A Palamara è stata imposta la consegna del silenzio e tutto è stato “secretato”, nelle migliori tradizioni italiche e alla faccia della tanto invocata “casa di vetro”, come dicono i vari vice presidenti del Csm per descrivere l’asserita trasparenza che dovrebbe contraddistinguere l’operato dell’Organo di autogoverno delle toghe. Tuttavia qualcosa il Riformista è riuscito a sapere delle domande, non molte per la verità, rivolte a Palamara e che sembra riguardassero soprattutto il sistema nomine, ampiamente descritto nel libro Il Sistema che il magistrato ha scritto con Alessandro Sallusti, e l’esposto dell’ex pm romano Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina, contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Il presidente della Commissione, la togata progressista Elisabetta Chinaglia, pare abbia cercato di contingentare sia gli argomenti che le domande. Di diverso avviso, invece, i laici Alessio Lanzi (FI) ed Emanuele Basile (Lega) che hanno insistito per affrontare più tematiche. Molto interessato alle vicende della Procura di Roma pare sia stato il pm antimafia Nino Di Matteo, con domande precise e puntuali. Prendendo spunto dalle celeberrime chat di Palamara, la discussione si è inizialmente indirizzata sulle vicende degli uffici giudiziari milanesi e sulla persona del procuratore del capoluogo lombardo Francesco Greco, ormai prossimo alla pensione e al centro di molte polemiche recenti per via dell’assoluzione nel processo Eni–Nigeria di tutti gli imputati. Processo che ha lasciato uno strascico con il presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi. Oggetto del contendere, in questo caso, l’utilizzo delle dichiarazioni del solito Pietro Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, l’associazione di magistrati e professionisti finalizzata a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani, contro il presidente del collegio Marco Tremolada. Davanti ai pm milanesi Amara aveva raccontato di aver saputo dal capo dell’ufficio legale di Eni che i difensori dei vertici del colosso petrolifero, come la professoressa Paola Severino che assisteva l’amministratore delegato Claudio Descalzi, “avevano accesso” al presidente Tremolada. A fine gennaio 2020 il procuratore Greco con l’altro aggiunto Laura Pedio, in pieno dibattimento Eni-Nigeria, aveva trasmesso alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dalle toghe milanesi, il verbale di Amara con la testimonianza nei confronti di Tremolada. A Brescia venne subito aperto un fascicolo, a carico di ignoti, per traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio. Fabio De Pasquale, l’aggiunto che aveva condotto le indagini contro Eni, omissando parte del verbale di Amara, tentò anche di produrlo all’udienza del 15 febbraio senza riuscirci. Gli avvocati dell’Eni, ascoltati poi a Brescia, negheranno di aver mai detto nulla di ciò ad Amara. Un tentativo maldestro di condizionare il processo che ha mandato questa settimana su tutte le furie Bichi. Palamara, essendo il tema molto scivoloso, ha dirottato la discussione sulle ben più gravi vicende romane. Come le nomine degli attuali procuratori aggiunti della Capitale e l’esposto di Fava. Riguardo alla nomine degli aggiunti avrebbe ribadito quanto risultante dalle intercettazioni e dalle chat sugli interventi sistematici di Pignatone, e comunque anche di Greco a Milano, per ottenere nomine a lui gradite – poi effettivamente ottenute – quali quelle di Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini. Nei confronti di quest’ultimo, che aveva già negato questa ricostruzione, Palamara si è anche dichiarato pronto ad un pubblico confronto. Circa l’esposto, il magistrato ha chiarito ai consiglieri che lui sollecitava soltanto i doverosi approfondimenti di una situazione oggettivamente grave poiché era risultato che Pignatone avesse coassegnato il fascicolo di Fava su Amara ad altri tre magistrati – per pura coincidenza Ielo, Cascini e Sabelli – ed Amara aveva conferito incarichi al fratello dello stesso Pignatone. I documenti avrebbero dimostrato che Pignatone aveva anche scritto a Giovanni Salvi, allora procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, molto tempo dopo aver adottato gli atti e neppure comunicando tutte la situazioni di incompatibilità. In particolare non risulterebbe nessuna indicazione del rapporto di Pignatone con il giudice del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, poi arrestato con l’accusa di aver pilotato delle sentenze a Palazzo Spada, e dell’incarico ricevuto dal fratello da Pietro Balistreri, altro indagato del procedimento e socio di alcuni imputati per mafia in Sicilia. Salvi, pur essendo a conoscenza che Pignatone aveva comunicato con ritardo e parzialmente, avrebbe invece scritto al Csm e a via Arenula che il procuratore di Roma aveva fatto la dichiarazione di astensione tempestivamente e segnalando tutte le situazioni pregiudicanti. L’esposto, presentato a marzo del 2019, è ancora pendente a Palazzo dei Marescialli. Un altro caso segnalato da Palamara, infine, riguarderebbe moglie e marito che svolgono entrambi il ruolo di procuratore aggiunto a Roma: Stefano Pesci e Nunzia D’Elia. Pesci aveva preso il posto che era stato lasciato libero da Cascini in quanto eletto al Csm.
Risposta alle tesi del professor Ainis. Il processo a Palamara sarà un bagno di sangue, mette in discussione tutto il sistema. Alberto Cisterna su Il Riformista il 16 Marzo 2021. Un importante articolo del professor Ainis (Le correnti senza ideali su Repubblica del 12 marzo) solleva questioni di grande rilievo sulla crisi della magistratura italiana o, meglio, di quella sua specifica rappresentanza professionale che sono le cosiddette correnti. La trama fitta delle osservazioni che l’illustre studioso svolge a proposito dell’identità delle fibrillazioni che toccano, insieme, la magistratura associata e un importante formazione politica del Paese (il PD) trova un punto di convergenza nell’azione, a suo dire nefasta, che le correnti hanno svolto e svolgerebbero in seno a formazioni – la magistratura e i partiti – di primario rango costituzionale. Il punto di caduta del ragionamento è, in buona sostanza, che proprio attraverso la degenerazione correntizia si siano tralignati gli scopi e le ragioni che avevano previsto l’inserimento nella Carta fondamentale di un Csm su base elettiva (articolo 104) e che avevano legittimato l’organizzazione spontanea della politica attraverso lo strumento dei partiti (articolo 49). L’analisi del professore Ainis non si sottrae certo a valutazioni estremamente severe circa l’associazionismo correntizio definito come un insieme di «lobby, cricche, camarille. Al servizio dei propri affiliati, non di un ideale. Anche se contraffatte con nomi suadenti: la democrazia, le riforme, l’indipendenza, la giustizia. Ma in realtà impegnate in una guerra per bande, fra eserciti nemici che però indossano la medesima divisa. II bottino? La prossima nomina in un ufficio giudiziario, se sei un magistrato». Se così fosse, par chiaro che se ne imporrebbe l’immediato scioglimento d’autorità poiché organizzazioni tendenzialmente eversive dell’ordine costituzionale e capaci di minacciare il regolare svolgimento delle attività di organi di primario rilievo per la Repubblica. Nessuno, e neppure l’illustre costituzionalista, giunge ovviamente a questa conclusione, ben consapevole del fatto che non si possono criminalizzare correnti giudiziarie e correnti partitiche sulla base di deviazioni, pur massicce e significative, dalle ragioni ideali che ne giustificano l’esistenza. Però l’analisi pone in esergo un profilo importante, e totalmente sottostimato nel dibattito che si sta sviluppando sul sistema di potere venuto a galla dopo l’affaire Procura di Roma: ovvero se per porre rimedio a quanto successo sia sufficiente un’azione di mera autorigenerazione morale dei gruppi associativi o se sia bastevole una riforma del sistema elettorale del Csm oppure se occorra metter mano alla Costituzione attraverso una più radicale riforma dell’ordinamento giudiziario e delle carriere. Non è necessario star qui a ricordare quali componenti del dibattito in corso si schierino sull’uno o sull’altro versante delle varie opzioni. Certo ai sostenitori della rivoluzione morale e ai fautori dei codici deontologici non si può fare a meno di ricordare che non è bastato il codice penale per infrenare comportamenti deviati e prassi devianti, per cui non guasterebbe un certo realismo al riguardo. La tesi del professore Ainis è che la palude correntizia sia una «malattia che non è figlia della Costituzione» e che «per rompere questo circolo vizioso, non serve una Costituzione tutta nuova, bensì nuove norme d’attuazione dei principi costituzionali. Quanto alle correnti giudiziarie, attraverso un sorteggio pilotato fra i magistrati più laboriosi, per designare i 16 togati del Csm». Certamente l’idea del sorteggio, da sempre avversata dalla maggioranza delle correnti dell’Anm e per ragioni ideologiche non trascurabili, si pone come una soluzione d’emergenza resa, per giunta, impellente dalla scadenza del Csm in carica nel 2022. In mancanza di altre soluzioni che non siano origami elettorali tanto incomprensibili quanto discutibili (mini collegi, sminuzzamenti della base elettorale e via seguitando), il pre-sorteggio dei candidati al Csm da sottoporre, poi, al voto delle toghe offre una via d’uscita rapida e, tutto sommato, non particolarmente penalizzante per la corporazione. In fondo siamo in presenza di meno di 10.000 aventi diritto al voto e non si deve certo metter mano alle Tavole della legge come una sorta di ego ipertrofico della corporazione pretende che sia, ma solo di indicare la maggioranza dei componenti di un Organo prevalentemente dedito alla amministrazione dei magistrati italiani e che non rappresenta in alcun modo il vertice della giurisdizione. Resta il dubbio che questa soluzione possa rappresentare una reale svolta nell’assetto della magistratura italiana e possa, d’un colpo, sopire le acque agitate dai carrierismi e dai cacicchi elettorali. Le toghe italiane sono in ebollizione da molto tempo e un nuovo coperchio elettorale non impedirà al malessere e alle critiche di prendere forma in altro modo e attraverso altre vie. Occorre essere lungimiranti in proposito. È sempre più evidente, anche agli occhi dei meno intranei al sistema tratteggiato sommariamente dal dottor Palamara, che il processo a suo carico che andrà a svolgersi a Perugia sarà un gigantesco bagno di sangue per la magistratura italiana. Vedremo se le telecamere saranno ammesse in aula e se gli epigoni del giornalismo giudiziario si stracceranno le vesti come ora sta accadendo per altre vicende giudiziarie che si assumono oscurate mediaticamente da divieti di ripresa. Una scelta, questa, non da poco perché terrebbe i riflettori permanentemente accesi su un susseguirsi di testimonianze e di racconti che minacciano di intaccare non la credibilità dei singoli (che poco importa invero se non sono stati probi), quanto l’autorevolezza dell’intera magistratura italiana agli occhi dei cittadini i quali vedrebbero crollare l’indispensabile fiducia verso la caratura morale dei propri giudici e senza che si possano fare troppe distinzioni o praticare curiali sottigliezze. Un lungo ed estenuante “Giorno in pretura” in cui gli imputati sarebbero, per la prima volta, i pretori; anzi i pretoriani di una casta, incistati in qualche caso nei vertici più alti della magistratura. Da questo punto di vista il processo, se come pare probabile ci sarà, andrà per forza documentato e studiato come si esamina un cadavere su un tavolo settorio. Una lunga, crudele autopsia per scoprire le cause del decesso e le tracce degli autori del delitto. Che questo accada dipende, comunque, da scelte insindacabili di quel tribunale e staremo a vedere. In questo probabile scenario una riforma costituzionale ad ampio compasso potrebbe rappresentare l’unico strumento adeguato per rassicurare la collettività e le istituzioni circa la reale tenuta democratica della giurisdizione che svolge un compito difficile per il quale il consenso e l’adesione dei consociati sono indispensabili. Una vera e propria rifondazione costituzionale del processo e della magistratura per immunizzarla per sempre da rischi del genere. Purtroppo le degenerazioni correntizie rischiano di portare a fondo tutte le toghe, anche le tantissime che spalano fascicoli e sudano ogni giorno per rendere giustizia e a cui sembra consegnato, se non si cambia radicalmente strada, un cupo monito: «lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Matteo 8, 18-22).
Perché la Costituzione Italiana ha fallito, e ha fatto nascere uno Stato privo di autorevolezza. Alberto Cisterna su Il Riformista il 20 Marzo 2021. L’affermazione del professor Ainis (La Repubblica, 12 marzo) secondo cui la degenerazione correntizia della magistratura, al pari di quella che affligge i partiti, «non è figlia della Costituzione» appare così importante, nella discussione in corso in questi tempi così travagliati, da suggerire qualche ulteriore riflessione (v. Il Riformista 16 marzo). Se la tesi fosse corretta se ne dovrebbe ricavare la convinzione, che l’autorevole commentatore ha esplicitato, per cui basterebbe qualche aggiustamento alla legge elettorale che regola la composizione della parte togata del Csm (i 2/3 del tutto) per porre rimedio ai tanti mali della corporazione che, a occhio e croce, sono sopravvissuti ad almeno tre decenni di leggi, profluvi di circolari e, persino, modifiche costituzionali (l’articolo 111) volte a tentare un riequilibrio dei rapporti di forza processuali e ordinamentali dentro e fuori della magistratura. Discorso complesso ovviamente e che purtroppo impone un certo schematismo e qualche inevitabile approssimazione. Che la Costituzione del 1948, secondo la retorica rinfocolata dal referendum costituzionale del 2016, sia la «più bella del mondo» è in verità largamente opinabile. A occhio e croce: 67 Governi in circa 70 anni, gli ultimi 3 in meno di 3 anni; un presidente della Repubblica che, ben oltre le funzioni previste, ha dovuto in almeno 3 occasioni (Ciampi, Monti, Draghi), costruire una maggioranza parlamentare e indicare il premier da votare con il relativo programma di governo; una Corte costituzionale che, ben oltre le funzioni previste, ha espanso il proprio intervento sino a imporre al Parlamento tempi e modi della legislazione e a esautorarlo su questioni cruciali per la società (eutanasia, fecondazione assistita, carceri e molto altro); una società malata di una denatalità cronica, malgrado la famiglia sia stata innalzata a «società naturale» che lo Stato «riconosce»; una «eguaglianza morale e giuridica dei coniugi» strangolata senza rimedi da una legislazione che penalizza il lavoro femminile e lo priva di assistenza pubblica; una scuola «aperta a tutti» e in cui ai «capaci e meritevoli» è riconosciuto «il diritto di accedere ai gradi più alti degli studi», sbeffeggiata dalla fuga all’estero dei migliori alla ricerca di opportunità di studio e di lavoro; l’autonomia universitaria tante volte trasformata in escamotage per assunzioni familistiche e per la moltiplicazione di cattedre in cui allocare congregati e affiliati; un sistema tributario, giustamente, «informato a criteri di progressività» che tuttavia – proprio a causa di questo suo connotato ideale – è divenuto la ragione prima dell’evasione e dell’elusione fiscale dei redditi più alti inevitabilmente inclini alla flat tax; un assetto regionalista che ha trasformato l’Italia in un caleidoscopio di inefficienze e sprechi; una pubblica amministrazione esautorata da commissari e generali persino per svolgere la più elementare delle funzioni in tempi di pandemia; un parlamento surrogato dai Dpcm per mancanza di una minima regola costituzionale sui poteri d’emergenza. E si potrebbe proseguire a lungo, quasi articolo per articolo, per dimostrare che la Costituzione più bella del mondo ha finito per agevolare lo sviluppo di un modello di società consociativa, ipergarantita, corporativa, insofferente allo Stato, vocazionalmente anomica, esosa per le finanze pubbliche, riottosa ai propri doveri, rancorosa per i diritti negati. Sarà stata anche bella la Carta, ma appare oggi un compendio di troppe inefficienze che proprio il suo scudo rende quasi insormontabili e praticamente ineliminabili. Poi, per carità, la parte dei diritti fondamentali e delle libertà è un inno alla gioia, ne possiamo andare fieri come una Venere di Milo, splendida, ma senza braccia per agire. Se le regole sugli apparati pubblici e sulle sue articolazioni sociali ne impediscono o ne ostacolano la piena attuazione, allora la beffa consumata dai costituenti appare ancora più grande. Temevano, giustamente, uno Stato autoritario e hanno posto le radici per la nascita di uno Stato privo di autorevolezza, sfiduciato alla fine dai suoi stessi cittadini, tante volte indotti a costruire circuiti alternativi – vere e proprie corporazioni, spesso, se non lobby e cosche – attraverso cui esercitare le proprie pretese, tutelare i propri diritti, soddisfare le proprie aspettative; tutte cresciute e prosperate al riparo della tutela accordata alle «formazioni sociali» che costituiscono l’ossatura politica della Nazione (articolo 2) e ne sono divenute, una volta di troppo, la pietra d’inciampo. Lunga, quanto sommaria, premessa per tornare al tema se la degenerazione correntizia della magistratura sia o meno «figlia della Costituzione», se si possa davvero ritenere che la sua bellezza sia stata sfigurata da figli degeneri e irriguardosi. Oppure se sia lecito dubitare che l’architettura costituzionale della giurisdizione, anche dopo la riforma del 1999, portasse con sé e in sé i germi di una inevitabile corrosione interna. Si faccia il caso: affiancare al principio di obbligatorietà dell’azione penale il precetto della ragionevole durata del processo (1999-2001) è equivalso a innescare una miccia esplosiva che ha fatto definitivamente deragliare un treno già reso ondivago e traballante dalla previsione di un rito processuale di stampo accusatorio (1988). È chiaro che la prescrizione sia uno scempio morale e costituzionale, ma è resa inevitabile dall’enormità del carico penale che è generato proprio dal principio di obbligatorietà dell’azione penale per giunta da attuare in un processo accusatorio. Una miscela talmente instabile da aver consentito a taluno di affermare che, purtroppo, le prove granitiche acquisite durante le indagini evaporano in dibattimento; quasi che, se non ci si mettessero di mezzo i difensori, avremmo il processo perfetto. La Prima Repubblica mitigava il tutto grazie a un rito di stampo inquisitorio (1930) e, soprattutto, dispensando diffusamente amnistie e indulti. Poi il parlamento, sotto il cielo giustizialista (1992), si è privato anche di questo strumento di regolazione politica delle pendenze processuali e di depurazione delle aule di giustizia – prevedendo un’irraggiungibile maggioranza dei due terzi per approvarle – e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. L’ultimo provvedimento deflattivo è del 2006, mentre dal 1948 al 1992 erano stati adottati oltre 40 leggi clemenziali. Donde l’ergersi di un pm che, senza prescrizione, può condannare l’imputato alla pena del processo eterno e senza che nessuno possa porvi rimedio. È chiaro, ancora, che prevedere un Csm elettivo esaltava l’autogoverno della magistratura (non la sua autonomia), svincolandola dal ministro della Giustizia, ma si doveva immaginare che – nella pressoché totale inerzia del legislatore, incapace di mettere mano in modo radicale a un ordinamento giudiziario del 1941 – Palazzo dei Marescialli avrebbe finito per svolgere un ruolo decisivo e attrattivo verso le toghe, totalmente soggette al potere dell’organo di autogoverno e sotto ogni profilo della loro carriera. Tanto da costringere la Corte costituzionale a dover ricordare che «nel patrimonio di beni compresi» nello status professionale dei magistrati «vi è anche quello dell’indipendenza, la quale, se appartiene alla magistratura nel suo complesso, si puntualizza pure nel singolo magistrato, qualificandone la posizione sia all’interno che all’esterno: nei confronti degli altri magistrati, di ogni altro potere dello Stato e dello stesso Consiglio superiore della magistratura» (sentenza 497/2000); un argine alle stesse funzioni consiliari previste dalla Costituzione e da rendere ancor più insuperabile nella crisi clientelare con un’adeguata «rivoluzione costituzionale».
La giustizia lumaca del sindacato dei pm: acquisite le (già note) chat di Palamara. I probiviri potranno valutare le eventuali violazioni dei giudici coinvolti. Luca Fazzo - Dom, 14/03/2021 - su Il Giornale. Ci siamo quasi, fa sapere il segretario dell'Associazione nazionale magistrati Salvatore Casciaro: le chat succhiate dal telefono di Luca Palamara sono state consegnate quasi per intero all'Anm, e ora i probiviri del sindacato potranno iniziare a valutare se gli iscritti che bussavano alla porta di Palamara abbiano violato i principi deontologici. L'aspetto singolare della comunicazione di Casciaro non è solo che si tratta dell'ennesimo annuncio in cui l'Anm si dichiarava pronta a tirare le fila dell'inchiesta interna. Il problema è che le chat sono di pubblico dominio da quasi due anni, tanto che alcuni dei magistrati coinvolti hanno già lasciato spontaneamente l'associazione e alcuni non sono più nemmeno magistrati. La giustizia interna dell'Anm rischia insomma di arrivare fuori tempo massimo, e soprattutto di muoversi in un contesto di norme - cosa può o non può fare un magistrato - quanto mai aleatorio. I probiviri dell'Anm sono in una situazione complicata: basti pensare che uno di loro si è dovuto rapidamente defilare perché coinvolto in una nomina bocciata dal Consiglio di Stato. D'altronde se si dovesse usare il pugno di ferro, si salverebbero in pochi: gli 84 capi di tribunali e di procure che (secondo una analisi del Giornale mai smentita) devono il loro posto all'intervento decisivo di Palamara sono ancora tutti al loro posto e hanno in tasca la tessera dell'Anm, nonostante non pochi di loro compaiano con nome e cognome nelle chat. Per salvare i reprobi, l'Anm ha a disposizione un parere autorevole come quello di Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione (a sua volta autorevole dirigente di Magistratura democratica) che ha ritenuto non perseguibili disciplinarmente gli atti ci «autopromozione», ovvero i comportamenti di chi implorava da Palamara un posto per se stesso. In questo modo a venire colpiti potrebbero essere solo i membri dell'Anm che partecipavano attivamente alla spartizione delle poltrone: ma come distinguere questi comportamenti dal legittimo esercitare l'attività di corrente, che l'Anm ha sempre difeso come lecita e anzi meritoria? Partenza in salita, insomma. Resa ancora più complessa da un tema solo in apparenza procedurale: le chat possono essere utilizzate senza il consenso degli interessati? La domanda può sembrare oziosa, essendo tutto ormai arcinote. Ma formalmente il problema esiste, soprattutto da quando il principale indagato, Luca Palamara, ha formalmente diffidato il Csm a acquisire e rendere note le chat, promettendo una richiesta di risarcimento di danni A maggior ragione, anche l'Anm (che è un organismo di diritto privato) potrebbe subire la stessa diffida. Nella sua denuncia, Palamara aveva rilevato come «chiunque può accedere sul Csm e tranquillamente leggere il contenuto delle chat senza che le stesse siano in qualche modo secretate o omissate anche quando riportano per intero messaggi privati tratti dal mio cellulare che nulla hanno a che fare con i reati che mi vengono contestati». Lo stesso tipo di obiezione potrebbero rivolgerla gli iscritti all'Anm ai probiviri. Ma il confine tra privacy e comportamenti poco deontologici è impervio. Basti pensare alla vicenda che vede coinvolti il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e il pm palermitano Alessia Sinatra, la seconda accusa il primo di averla aggredita sessualmente e chattando con Palamara lo riempie di insulti. Sia Creazzo che la Sinatra sono iscritti all'Anm, ma come faranno i probiviri ad occuparsi di loro senza entrare nella loro vita privata? Nella sua dichiarazione di ieri il segretario Casciaro assicura che «l'attività di verifica delle condotte di rilievo disciplinare endo-associativo saranno svolte nel rispetto del regolamento dell'Unione europea che impone di ispirare il trattamento dei dati ai principi di proporzionalità e di necessitá, e quindi di limitare la disamina ai soli dati indispensabili per l'accertamento degli illeciti deontologici». Più facile a dirsi che a farsi.
Antonio D’Orrico per La Lettura – Corriere della Sera l'8 marzo 2021. Mettete tutto al condizionale (e con la condizionale). L' inizio è da John le Carré de noantri. Una notte all' hotel Champagne politici e magistrati brindano, come nella canzone di Peppino di Capri, al nuovo organigramma del potere giudiziario. Il Sistema (che è anche il titolo del libro) si regge sulla legge quadro di ogni sistema: io do una cosa a te, tu dai una cosa me. Nel Sistema vige la regola del tre: una Procura indaga, un giornale amico pubblica, un partito politico gode. Funziona sempre, da Berlusconi a Renzi. Nei tribunali gira la battuta: «La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti». Luca Palamara, figlio d' arte, presidente più giovane nella storia dell' Associazione nazionale magistrati, supertrafficante giudiziario e politico, accusato da Francesco Cossiga in diretta tv di avere una faccia da tonno («tonno Palamara»), fondatore del Metodo che porta il suo nome (il manuale Cencelli dei giudici), ora declassato a Moggi del Consiglio superiore della magistratura e radiato, si confessa ad Alessandro Sallusti. Anche Palamara, come tutti ormai, ha la sua narrazione. Gli avrebbero fatto pagare il tentativo di far alleare i magistrati di centro e di destra contro quelli di sinistra, alfieri del massimalismo giustizialista. Quanto ai suoi maneggi, Palamara parla in terza persona: «Solo uno stupido può pensare che Palamara abbia fatto tutto da solo». Muoia Sansone con tutti i Filistei: «Perché io non solo ero in prima fila. Avevo il potere, insieme ad altri, di decidere chi doveva stare in prima fila». Come Jep Gambardella della Grande bellezza , Palamara non voleva solo partecipare alle feste, voleva avere il potere di farle fallire. La storia di un crac, quello di un sistema politico-giudiziario, è al primissimo posto dei bestseller con distacco abissale. Merita tanto successo? Sì, è una ottima spy story con un protagonista all' Alberto Sordi. E fa paura.
Luca Fazzo per “il Giornale” l'8 marzo 2021. A ottomila chilometri di distanza dall' Italia. A cinque anni dalla fine di un incubo. Oggi Ilaria Capua, la virologa che il mondo ci invidia, lavora in Florida. Di come nel 2014 pm e giornali la fecero a pezzi dipingendola come una spietata trafficante di virus vorrebbe dimenticarsi. Ma poi accade che le capiti in mano Il Sistema, il libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara sul lato oscuro della giustizia italiana. Ed è come una cicatrice che si riapre. Perché in un passaggio cruciale del libro si parla di un magistrato che la Capua conosce bene. Si chiama Giancarlo Capaldo, ed è il procuratore aggiunto della Repubblica che la incriminò per delitti terribili: «associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, all' abuso di ufficio e per il traffico illecito di virus». Scoprì di essere indagata da una copertina dell' Espresso. Non era vero niente. Per venire prosciolta, dovette aspettare due anni. Il giorno dell' assoluzione disse: «Mi sento sfregiata come se mi avessero buttato addosso l' acido. E certe ferite non se ne vanno». Adesso la Capua dirige One Health, centro di eccellenza dell' Università della Florida. Ma quel nome, Capaldo, la riporta brusco di qua dall' Oceano. Cosa dice, Il Sistema, del magistrato romano? Semplicemente, di come nel 2011 fosse a un passo a diventare capo della Procura, e come la sua candidatura fosse stata azzerata da una soffiata alla stampa. Saltò fuori una sua cena con l' allora ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il suo braccio destro Marco Milanese, coinvolto nell' inchiesta su Finmeccanica che Capaldo stava conducendo in quei giorni. Secondo Palamara, la soffiata fu opera di uno dei «cecchini», che spesso entrano in scena quando il Csm deve affrontare nomine importanti. Ma la scena surreale di Capaldo che nel bel mezzo di una inchiesta delicata si attovaglia con Tremonti e Milanese resta impressa. Capaldo ammette, il Csm apre un fascicolo, lui deve abbandonare l' inchiesta. Una decisione amara, anche se il Csm lo grazia e lo lascia al suo posto. La passione per le indagini clamorose, però, fa parte del suo Dna. Un anno prima, nel 2010, sulle prime pagine è finita un' altra indagine di Capaldo: 56 arresti, nell' ordinanza di cattura viene definita «una delle frodi più colossali mai poste in essere nella storia nazionale». Nel mirino ci sono Sparkle, controllata da Telecom Italia, e Fastweb, stella della new economy. Il fondatore, Silvio Scaglia, si trova all' estero al momento della retata, torna in Italia spontaneamente per spiegare, invece Capaldo lo mette in galera. È imputato di riciclaggio, lo tengono per tre mesi a Rebibbia, un altro anno ai domiciliari. Però poi, nel 2013, arriva il processo. E Scaglia insieme a quattro manager di Sparkle e Fastweb viene assolto con formula piena. Per Capaldo è un uppercut al mento. Ma la riscossa è dietro l' angolo. Sul tavolo del procuratore aggiunto di Roma arriva un fascicolo dall' America, si parla dell' epidemia di aviaria del 2005 e delle dosi che il governo di allora (ovviamente a guida Berlusconi) comprò per fronteggiare il virus. Il boccone più ghiotto è fin dall' inizio Ilaria Capua: non è solo una scienziata di fama internazionale, ha fatto anche lo sbaglio di mettersi in politica, candidandosi con Mario Monti, è stata eletta e nominata sottosegretario alla Cultura. Tra i tanti nomi finiti nel registro degli indagati, è il suo - inevitabilmente - a finire sulle prime pagine. Anche lì, come per il povero Scaglia, non c' è mezza prova. Ma anche lì prima che la giustizia ammetta i suoi errori ci vorranno due anni. Tanto non cambia mai niente, le fughe di notizie continuano, la vita delle persone continua a venire fatta a fette. E quando la Capua prova a querelare il settimanale che l' aveva chiamata trafficante di virus si sente rispondere dal giudice che il «testo dell' articolo è una fedele ricostruzione delle risultanze investigative acquisite dalla procura della Repubblica di Roma». Tutte sbagliate, ma che importa?
Magistratopoli e i suoi scandali. “Dopo Palamara solo parole e nessuna riforma”, parla Michele Vietti. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 9 Marzo 2021. Michele Vietti, avvocato e giurista, in politica prima nel Ccd e poi nell’Udc, ha assunto la carica di vicepresidente del Csm dall’agosto 2010 al 2014, dopo esserne stato componente laico sin dal mandato 1998-2001. Il suo nome ricorre in diverse pagine del libro Il Sistema, in cui Alessandro Sallusti raccoglie le confessioni di Luca Palamara.
Il sistema Palamara che cos’era?
«Una degenerazione delle correnti della magistratura che, messa in secondo piano la loro vocazione ad essere luoghi di elaborazione e confronto di idee e proposte di politica giudiziaria, si sono concentrate sulla spartizione di incarichi».
Sì, ma possiamo parlarne al passato?
«Credo che la tentazione dell’autoreferenzialità sia forte, nella magistratura come in tutte le corporazioni e che non ci si possa affidare solo a predicozzi moralistici per invertire una tendenza che si è rivelata molto radicata e dagli effetti dirompenti. Solo una riforma che sia frutto finalmente dell’assunzione di responsabilità da parte della politica, può porre rimedio alle distorsioni che il “caso Palamara” ha portato alla luce e che non ci si può illudere di superare, come è successo in passato, affidandosi a patetiche “autoriforme” del CSM».
E questo in concreto come si traduce?
«Certo se ci si continua a scandalizzare per quello che è successo senza fare assolutamente nulla, tra qualche tempo non dovrà stupire lo scoppio di una nuova puntata. Sono quasi due anni che si parla di Palamara ma non ho visto un solo intervento riformatore messo in campo da chi ne aveva la titolarità».
Nel libro di Palamara lei viene citato più volte. Quali furono i rapporti tra voi?
«Non esito a dire che gli sono stato amico e l’ho frequentato a lungo nei vari ruoli istituzionali che ho ricoperto. Ne ho apprezzato la passione per il suo lavoro associativo e la capacità di rappresentare le istanze dei suoi colleghi. Avevamo sensibilità e stili diversi, ma questo non ci ha impedito di collaborare. Comunque il giudizio di onestà che mi rivolge in quella sede lo considero un complimento».
Anche lei fu parte di un sistema, era possibile andarvi contro?
«Continuo a pensare che le correnti possano essere governate e non necessariamente subite: certo ci vuole autorevolezza, senso istituzionale e dignità del ruolo. E ci vogliono riforme incisive».
Una cosa che lei avrebbe dovuto fare e invece non ha fatto, all’epoca?
«Avrei voluto convincere i miei consiglieri ad essere più rigorosi nelle valutazioni periodiche, nelle progressioni in carriera e nel giudizio disciplinare: la legittimazione dei magistrati non viene dal consenso, come per gli esponenti degli altri due poteri, ma dalla selezione, dalla professionalità, dall’equilibrio, in una parola dalla credibilità, che l’organo di governo autonomo deve preservare come il bene più prezioso».
Una riforma complessiva del Csm è possibile? Quale?
«Riforma della legge elettorale, incompatibilità tra ruolo amministrativo e disciplinare del consigliere, snellimento dei pareri, norma primaria sintetica per la nomina degli uffici direttivi che consenta di scegliere i migliori in forza di un atto politico e non di uno slalom tra requisiti contraddittori che giustificano forzature in nome di un ossequio formale, attribuendo al giudice amministrativo il ruolo di ultima istanza rispetto alle decisioni di chi la magistratura ordinaria dovrebbe governare. Queste e tante altre proposte sono sul tavolo. Non vedo però la volontà politica di attuarle».
Questo suo impegno di oggi in Finlombarda segna un taglio col passato?
«Per la verità di diritto dell’economia mi sono occupato all’epoca della riforma del diritto societario e di quello fallimentare. Essere alla guida della prima finanziaria regionale italiana nonché dell’Associazione di tutte le finanziarie regionali mi onora e mi stimola per il grande ruolo che questi istituti potranno avere per la ripresa economica del Paese, anche veicolando le ingenti risorse del Recovery fund».
La Lombardia rappresenta ancora un esempio di innovazione?
«La Lombardia è una tra le prime regioni d’Europa per produttività, innovazione, movimentazioni finanziarie, investimenti, ricerca e sviluppo».
Storia di un magistrato troppo bravo ma ignorato dal Csm perché non appartenente a correnti. Sabrina Pignedoli su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Questa è una storia di magistrati e di nomine, brutta e bella allo stesso tempo. Che fa indignare, ma è capace anche di far pensare che non è tutto perduto, che finché esistono persone di questo tipo c’è una speranza. Non farò il nome del giudice coinvolto e nemmeno del luogo di cui si parla. Lui, fedele ai tre principi tramandatigli dal suo maestro – pensiero libero, azione muta, obbedienza cieca – non lo vorrebbe. Chi lo conosce capirà; per gli altri rappresenterà una storia emblematica, una vicenda di umana miseria, da una parte, e di libertà, dall’altra. Il giudice in questione non fa parte di nessuna corrente. È presidente della sezione penale di un tribunale dove, in mancanza del presidente, ne ha anche assunto le funzioni. Poteva fare semplicemente il suo mestiere di giudice e sarebbe stato apprezzato. Ma lui ha fatto di più. Durante la sua reggenza ha riorganizzato l’attività del tribunale, che è passato da uno degli ultimi posti in regione per tempi e pendenze a uno dei primi, con tempi per i processi penali paragonabili agli standard europei. Già questo sarebbe di per sé un successo. Ma lui ha fatto anche di più: ha portato avanti un progetto, facendo lavorare i detenuti e pagando il materiale di tasca sua, per ristrutturare gli uffici giudiziari, un’opera che il Consiglio superiore della magistratura ha indicato come esempio di buone pratiche. Al momento di scegliere il nuovo presidente del tribunale, il magistrato ha deciso di presentare la sua candidatura. Non pensava di poter vincere, ci mancherebbe. Sapeva che altri colleghi molto qualificati avevano avanzato la stessa domanda. Ma di certo non si aspettava di non ricevere nemmeno un voto dai membri del Csm. Ignorato completamente, come se i buoni risultati ottenuti non gli potessero valere nemmeno un minimo riconoscimento anche da uno solo dei membri dell’organo di governo autonomo. Troppo libero? Non supportato da alcuna corrente? Non abbastanza titolato? Eppure se è stato reputato tanto incapace da non ottenere nemmeno una preferenza, come ha fatto a portare tanti oggettivi miglioramenti al tribunale che ha retto fino ad ora? Lo dice Palamara nel suo libro: se promuovi un magistrato al di fuori del sistema, il sistema smette di alimentarsi, se ne promuovi uno al suo interno arriva il momento di ricambiare il favore. Con questo non voglio dire che chi è stato proposto all’unanimità per il posto come presidente del tribunale sia parte del sistema o sia meno titolato. Il giudice "ignorato" certamente non fa parte del sistema, non ha amicizie politiche e non ricerca visibilità. E qui comincia la parte positiva della vicenda, perché se quotidianamente leggiamo storie di nomine, di favori, di influenze politiche sulla magistratura (e viceversa), non bisogna perdere fiducia nella magistratura perché esistono ancora Magistrati (con la M maiuscola) degni di questo nome, lontani dai riflettori, ma ben presenti nella realtà della giustizia che amministrano.
Il Csm regala il fuori ruolo a Cesqui: è amica di Salvi, può fare il capo di gabinetto di Orlando in violazione delle regole. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Febbraio 2021. Premessa. La dottoressa Elisabetta Cesqui è un magistrato di altissima esperienza e professionalità. Durante la sua lunga carriera ha condotto tante inchieste importanti, come quella sulla loggia massonica di Licio Gelli. Sostituto presso la Procura generale della Cassazione, a marzo del prossimo anno lascerà la magistratura per sopraggiunti limiti di età. La scorsa settimana la magistrata è stata scelta da Andrea Orlando (Pd) come suo nuovo capo di gabinetto al Ministero del Lavoro. La dottoressa Cesqui aveva già svolto l’incarico di capo di gabinetto di Orlando quando quest’ultimo era ministro della Giustizia nella precedente legislatura. Le scelte dei ministri sono, giustamente, insindacabili: ogni ministro è libero di affidare l’incarico di capo di gabinetto, essendo un ruolo di strettissima fiducia, a chi vuole. Fra Cesqui e Orlando, poi, c’è anche la condivisione di comuni esperienze valoriali, essendo la magistrata una storica esponente di Magistratura democratica, la corrente “rossa” delle toghe, e il ministro un rappresentate di primo piano della sinistra dem. Il Csm in casi come questo provvede ad autorizzare il “fuori ruolo” di default. L’unico paletto, dice la norma, è la scopertura dell’organico nell’ufficio dove il magistrato presta servizio. Scopertura che non deve superare il venti per cento. Nel caso della Procura generale della Cassazione la scopertura è adesso superiore al venti per cento. Quindi la dottoressa Cesqui non poteva essere collocata fuori ruolo. Il Csm questa settimana è stato di diverso avviso e ha dato il via libera al neo capo di gabinetto. Il dibattito è stato molto acceso. Contrarissimo Nino Di Matteo che ha invitato tutti a “rispettare le norme”. All’ex pm antimafia va dato atto di essere fra i pochi consiglieri del Csm a cui non si addice la storica frase di Giovanni Giolitti: «Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». La delibera è passata con dodici voti a favore, sette contrari, tre astensioni. A favore i cinque togati della sinistra giudiziaria di Area, i tre di Unicost, i laici Filippo Donati (M5s) e Michele Cerabona (FI), e i capi della Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio e il pg Giovanni Salvi, entrambi della stessa corrente della dottoressa Cesqui. Contrari i tre togati ex davighiani, l’indipendente Di Matteo, i due laici della Lega, il togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato. Si sono astenute le due togate di Mi e l’altro laico pentastellato Fulvio Gigliotti. Se invece di astenersi questi tre consiglieri avessero votato come i loro colleghi di schieramento, il voto di Salvi, il capo ufficio della dottoressa Cesqui, sarebbe stato determinante. La dottoressa Cesqui ieri, ultimo giorno di servizio, ha salutato tutti colleghi con una mail e in particolare “Giovanni Salvi, amico di una vita, che mi ha incoraggiato generosamente ad accettare la proposta, pure in un momento non facile per l’Ufficio”. Un “consolidato rapporto di stretta amicizia” è stata, settimane addietro, causa di una delle tante incolpazioni disciplinari da parte della Procura generale della Cassazione nei confronti dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Il motivo è non essersi “astenuto” in un procedimento disciplinare al Csm a carico della collega Mara Mattioli nel 2018. Nel procedimento, per la cronaca, la magistrata era stata condannata. Come prova del “risalente rapporto comunicativo e di frequentazione”, la Procura generale della Cassazione aveva prodotto la chat fra i due magistrati. Una chat molto scarna se confrontata con altre. Ma tant’è. «Buongiorno Luca, sono Mara Mattioli. Come va? Rientrato dalle ferie? Volevo passare alla ripresa del lavoro. Quando posso venire?», esordisce la magistrata. «Cara tutto bene. Ci vediamo domani alle 11 da me?», risponde subito Palamara. Mattioli: «Ok, grazie. All’entrata devo chiedere di te?». Palamara: «Appena arrivi mi squilli». Il tenore della conversazione non pare caratterizzare un rapporto di “stretta amicizia”. È un caso più unico che raro, infatti, che fra amici ci si scambi messaggi presentandosi all’inizio con nome e cognome. Alla Procura generale della Cassazione sono stati, però, di diverso avviso. Seguendo tale impostazione, quella dell’intensità dei rapporti, cosa potrà allora succedere a Salvi che ha caldeggiato e votato la nomina di una sua amica di vecchia data? O l’affidamento degli incarichi agli amici, se non riguarda Palamara, non fa testo?
La rivolta della magistratura. Salvi, Gaeta e Salvato hanno stabilito i criteri di valutazione delle chat di Palamara: ma i loro nomi sono ricorrenti. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi non può rimanere al proprio posto. È quanto si legge – tra le righe – in un appello, firmato da un settantina di magistrati “indipendenti” e a cui ha subito aderito il Partito Radicale, indirizzato ieri al capo dello Stato Sergio Mattarella. Alla base della richiesta delle toghe “non correntizzate” le rivelazioni, al momento non smentite, contenute nel libro-intervista “Il Sistema” di Luca Palamara. Rivelazioni che hanno appannato l’immagine del procuratore generale della Cassazione, il “primo pm” d’Italia. Salvi, mai nominato in maniera esplicita nell’appello, secondo quanto riportato nel libro, per caldeggiare la propria nomina a procuratore generale della Cassazione, nel 2016 avrebbe, presente l’allora vice presidente del Csm Giovanni Legnini, invitato Palamara, in quel periodo signore indiscusso delle nomine a Palazzo dei Marescialli, “su una splendida terrazza di un lussuoso albergo nei pressi di Corso Vittorio Emanuele” a Roma. La vicenda di Salvi, così come raccontata, rappresenta il classico caso di “autopromozione” togato. Il problema, però, è che Salvi, titolare dell’azione disciplinare, ha emanato la scorsa estate una circolare con la quale sono stati indicati i “criteri di valutazione” delle famigerate chat di Palamara, escludendo l’illecito per i magistrati che si erano “autosponsorizzati”. “Questi criteri sono stati elaborati dal gruppo di lavoro che è composto dal procuratore aggiunto Luigi Salvato e dall’avvocato generale Piero Gaeta”, disse Salvi in una conferenza stampa. Il “piccolo” problema è che i nomi di Gaeta e di Salvato ricorrono spessissimo nelle chat di Palamara. Gaeta, in particolare, esponente di Magistratura democratica, come Salvi, aveva poi rappresentato l’accusa nel processo al Csm nei confronti di Palamara. Un classico “corto circuito”: i titolari dell’azione disciplinare, Salvi, Gaeta e Salvato, indagano colui al quale avrebbero chiesto di essere nominati. Tornando, invece, al Palamaragate, la Procura di Perugia ieri ha modificato il capo di imputazione, come suggerito dal gip, nei confronti dell’ex presidente dell’Anm. Il nuovo reato è “corruzione in atti giudiziari” in relazione a un’inchiesta che vedeva coinvolto l’imprenditore Fabrizio Centofanti a Messina e a Roma. Il procuratore Raffaele Cantone ha depositato durante l’udienza preliminare una informativa del Gico della guardia di finanza dopo aver interrogato per l’ennesima volta gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Un tormentone a puntate quello delle testimonianze di Amara, noto al grande pubblico per essere l’ideatore del Sistema Siracusa, l’associazione creata per aggiustare i processi e pilotare le sentenze al Consiglio di Stato grazie a giudici compiacenti.
Magistratopoli e i suoi scandali. “Mai favori a Palamara, anzi sì”, dopo due anni Calafiore ritrova la memoria…Paolo Comi su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. «Perché non avete riferito prima che Centofanti vi aveva detto delle informazioni sulle indagini?», chiedono i pm di Perugia all’avvocato siciliano Giuseppe Calafiore. «Nessuno ce lo aveva chiesto in questi termini», risponde secco Calafiore. Il mistero è chiarito: è stato tutto un problema di “formulazione” delle domande. Può succedere. Il 30 luglio del 2019, esploso il Palamaragate, Calafiore viene interrogato a Perugia dai pm Gemma Miliani e Mario Formisano, con l’ausilio del maggiore Fabio Di Bella e del maresciallo Maurizio Gianfrate del Gico della guardia di finanza. Palamara è indagato nel capoluogo umbro per corruzione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, assieme a Calafiore e all’avvocato Piero Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani. In particolare, Palamara, nel periodo in cui era lo zar indiscusso delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, avrebbe ricevuto “varie e reiterate utilità consistenti in viaggi e vacanze a suo beneficio e a beneficio di familiari e conoscenti”. L’attività corruttiva sarebbe stata portata avanti «per fare in modo che Palamara mettesse a disposizione, a fronte delle utilità, la sua funzione di membro del Csm, favorendo nomine di capi degli uffici cui erano interessati Amara e Calafiore». La domanda dei pm è secca e non si presterebbe a dubbi interpretativi: «Sa se qualcuno abbia dato delle utilità a Palamara?». «Io posso sapere di Amara che era mio collega di studio. E non sono a conoscenza di utilità a lui elargite da Amara», risponde senza tentennamenti Calafiore, aggiungendo: «perché quest’ultimo non me lo ha mai detto». «Centofanti ha rapporti di amicizia con Palamara, si frequentano con le compagne», prosegue Calafiore. E poi: «Io non ho mai avuto una esigenza diretta di chiedergli di intercedere presso Palamara». «Quindi io non so nulla del loro rapporto al di fuori dell’amicizia che era circostanza nota. Se a me mi fosse servito con Palamara o con altri sarei andato da Centofanti e gli avrei chiesto di procurarmi un appuntamento. Non essendomi mai servito nulla, non ho mai fatto una richiesta del genere», conclude l’avvocato siciliano. Passa un anno e mezzo, le indagini a Perugia vengono chiuse e inizia l’udienza preliminare. All’udienza dell’8 febbraio 2021 il gip Piercarlo Frabotta chiede ai pm di “precisare” meglio le accuse nei confronti di Palamara. I pm di Perugia decidono, allora, di effettuare un nuovo giro di interrogatori. Ad iniziare proprio da Calafiore. Il nuovo interrogatorio dell’avvocato siciliano avviene il successivo 19 febbraio, sempre davanti ai pm Gemma Miliani e Mario Formisano, insieme al solito maggiore Fabio Di Bella. Ed è in quell’occasione che a Calafiore torna la memoria e diventa loquacissimo, fornendo altri scenari. «Amara si era rivolto a Centofanti affinché lo stesso raccogliesse delle informazioni tramite Palamara. Fu proprio Centofanti a riferire ad Amara che c’era un’indagine presso la Procura di Roma che lo riguardava. Centofanti affermò di aver ricevuto tale informazione da Palamara che, a sua volta, aveva appreso tale circostanza da Fava (Stefano Rocco, pm a Roma, autore nel 2019 dell’esposto al Csm contro il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, ndr)», esordisce subito Calafiore. «Un’altra volta Centofanti rivelò di aver appreso tramite Palamara che si trattava di una indagine coordinata tra tre Procure», continua Calafiore, precisando che «anche questa informazione proveniva da Fava. I due Palamara e Fava, secondo Centofanti erano amici per la pelle e spesso giocavano insieme a tennis. Proprio nel corso di tali incontri Palamara riceva delle informazioni». «Tali confidenze furono fatte nel corso del tempo nell’anno 2017», precisa Calafiore, un circostanza che, un anno e mezzo prima, aveva ignorato. «Centofanti le ha mai fatto confidenze sulle utilità date a Palamara?», chiedono allora i pm. «Erano amici. Erano sempre insieme. Il loro era un rapporto simbiotico ed ostentato. Palamara era uno degli uomini più importanti d’Italia e Centofanti aveva anche un interesse a frequentarlo», sottolinea l’ex “smemorato” Calafiore. Cosa avrà fatto tornare la memoria all’avvocato siciliano? La lettura del libro di Palamara pubblicato il mese scorso?
Il giudice anti Berlusconi a Mattarella: "Il vice presidente del Csm è illegittimo?" Esposito: ispezione sulle toghe coinvolte nelle rivelazioni dell'ex capo dell'Anm. Luca Fazzo - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Mentre in Parlamento si discute della istituzione di una commissione d'inchiesta sul caso Palamara, ecco un appello al capo dello Stato e al neoministro della Giustizia Marta Cartabia perché sia quest'ultima a prendere l'iniziativa: facendo scattare una ispezione interna nei confronti di due pesi massimi della magistratura, il membro del Csm Giuseppe Cascini e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, entrambi pesantemente chiamati in causa dal libro Il Sistema, scritto da Palamara insieme a Alessandro Sallusti. A lanciare l'appello alla Cartabia, dalle colonne del Fatto Quotidiano, è un altro (ex) nome di spicco del mondo giudiziario. Si tratta di Antonio Esposito, il magistrato che quando presiedeva la sezione feriale della Cassazione condannò Silvio Berlusconi per la vicenda dei diritti tv. E che una volta lasciata la toga fa il commentatore per il Fatto. Dalle colonne del quotidiano di Marco Travaglio, ieri Esposito ricorda che Mattarella - cui 67 magistrati hanno chiesto un intervento risolutivo - «può sollecitare il ministro della Giustizia, anch'egli titolare del potere di iniziativa disciplinare, a disporre una inchiesta, all'esito della quale formulare le sue proposte anche di ordine disciplinare». A Salvi secondo Esposito gli ispettori ministeriali dovrebbero chiedere di spiegare l'incontro con Palamara «su una splendida terrazza di un lussuoso albergo romano» per sponsorizzare la propria candidatura. A Salvi, secondo Esposito, il capo dello Stato dovrebbe contestare, facendone oggetto di una riunione del Csm, la direttiva con cui ha garantito l'incolumità disciplinare ai magistrati che si rivolgevano a Palamara per «autopromozione» Mentre Cascini, leader della corrente di sinistra Area, dovrebbe spiegare se davvero riferì a Palamara l'esistenza di una intercettazione dell'allora vicepresidente del Csm Giovanni Legnini relativa al pm napoletano Henry John Woodcock. Non è tutto. Esposito se la prende anche con il vicepresidente del Csm David Ermini, invitando il presidente Mattarella a far sapere se intenda ancora farsi rappresentare da lui in seno al Csm, dopo avere scoperto che la sua designazione alla carica «ha trovato la sua genesi in un accordo improprio, fuori dal Csm e tra persone non legittimate (Palamara, Ferri, Lotti)». Esposito ricorda anche che Ermini fu eletto vicepresidente grazie al voto di sette componenti del Csm poi costretti a dimettersi proprio in seguito al caso Palamara. Per questo chiede a Mattarella se considera Ermini ancora legittimato a coprire la carica. (Esposito non dice se a suo avviso il ministro o il capo dello Stato dovrebbero svolgere accertamenti anche sugli episodi che riguardano lui medesimo e suo figlio, anch'essi ampiamente citati nel libro di Palamara e Sallusti).
Altro che rinnovamento delle toghe: la galassia Palamara è ancora lì…Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 24 Feb 2021. E se per ridare credibilità alla magistratura dopo lo scandalo emerso con l’affaire “Palamara”, all’indomani della pubblicazione delle sue chat con i colleghi che aspiravano ad un incarico e con le successive rivelazione contenute nel libro- intervista “Il Sistema”, fosse necessario effettuare un gigantesco “reset” dei vertici degli uffici giudiziari? Il tema è stato affrontato questa settimana nell’appello al capo dello Stato Sergio Mattarella, anche nella sua qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, firmato da una settantina di toghe “dissidenti” che non si riconoscono nelle tradizioni correnti delle toghe. Toghe bollate, dai detrattori, come i “grillini” della magistratura. «Siamo da tempo e restiamo fermamente convinti – si legge in uno dei passaggi dell’appello che la via per il ripristino della credibilità della giurisdizione, oltre che per un’inequivoca e pubblica risposta agli appelli alla trasparenza ( troppo spesso elusi, strumentalizzati o del tutto inevasi), passi ineludibilmente per una radicale riforma dell’Ordinamento giudiziario». «Tra coloro che sono stati investiti dalle rivelazioni dei mezzi di informazione, infatti, solo una parte, pur significativa ma certamente non completa, ha liberato l’Istituzione che rappresentava dal peso di una situazione divenuta oggettivamente insostenibile, facendo un passo indietro, con le dimissioni da taluni incarichi ricoperti o con l’anticipato abbandono dell’Ordine giudiziario», prosegue l’appello delle toghe. La maggior parte dei vertici degli uffici giudiziari coinvolta nelle chat o nelle rivelazione di Palamara è, infatti, sempre al proprio posto. Se si vuole dar retta all’esistenza di un “Sistema”, come indicato dal titolo del libro di Palamara, l’attuale dirigenza degli uffici giudiziari sarebbe allora il frutto di accordi spartitori fra le correnti. Se poi si considera che la maggior parte delle nomine è stata effettuata proprio durante la gestione Palamara al Csm, il cerchio si chiude. Il motivo è noto. Nel 2014, governo Matteo Renzi, l’età pensionabile dei magistrati venne portata da 75 a 70 anni. Fu un passaggio repentino, senza che fossero previsti periodi transitori, tranne una proroga per i vertici della Corte di Cassazione. La conseguenza fu che durante lo scorso Csm, quadriennio 2014- 2018, venne effettuato il numero più elevato di nomine della storia dell’organo di autogoverno delle toghe per coprire le scoperture che si erano venute a creare. Furono oltre mille gli incarichi assegnati dal Csm durante la “gestione” Palamara. Una quota rilevantissima di nomine venne fatta all’unanimità in Plenum. Che, sempre seguendo il ragionamento dell’ex presidente dell’Anm, sarebbe la prova della lottizzazione degli incarichi fra le correnti. Le cd nomine ‘ a pacchetto’. L’attuale Csm, invece, al termine del mandato avrà effettuato, salvo imprevisti, solo duecento nomine. Ad impedire una seria riflessione su quanto accaduto, poi, la tanto discussa circolare del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, che non ha ritenuto di sanzionare i tanti magistrati che si erano ‘ auto sponsorizzati’ con Palamara. Nel mirino da tempo delle toghe “dissidenti”, il tema della circolare verrà riaffrontato quasi certamente alla prossima riunione del Comitato direttivo centrale dell’Anm. Ad oggi, comunque, l’unico ad aver "pagato" è stato solo Palamara.
Luca Palamara, 67 magistrati scrivono a Sergio Mattarella: "Commissione d'inchiesta sulle sue rivelazioni". Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Fatti «troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati». Storie che «imbarazzano varie articolazioni delle istituzioni giudiziarie come mai accaduto in precedenza». Alla cui pubblicazione è seguita «una diffusa inerzia». È passato un mese dall'uscita de "Il Sistema", il libro-intervista di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, e «lo scandalo continua a imperversare». La grande indignazione seguita dal nulla. Come se la giustizia italiana fosse fatta di due mondi paralleli, l'etica e la realtà, l'uno indifferente all'altro. Così, ieri, 67 magistrati hanno inviato una lettera aperta al capo dello Stato, «anche nella sua qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura». La rivolta di chi non si rassegna.
La richiesta. Chiedono a Sergio Mattarella di intervenire affinché l'autogoverno dei magistrati non sia più la vergogna che è adesso, l'ordinamento giudiziario recuperi legittimità, siano cacciati «coloro che non sono risultati all'altezza del compito». Mario Draghi e il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, non sono chiamati in causa per nome, ma la questione riguarda pure loro. Si può «garantire un funzionamento più efficiente dei tribunali», come ha promesso il premier in parlamento, se nomine e promozioni sono distribuite secondo la logica delle correnti e della connivenza politica anziché sulla base del merito? Il governo intende davvero lasciare la pratica nelle mani dei partiti, incapaci sinora di affrontare la questione? (Due volte, nel 2019 e nel 2020, Mattarella ha chiesto al parlamento una riforma del Csm. Inascoltato). Ci sono nomi noti, tra quei 67. Alcuni sono vittime del "sistema Palamara". Clementina Forleo, ad esempio. Ora è giudice per le indagini preliminari a Roma, ma nel 2007 svolgeva lo stesso ruolo a Milano, dove si occupò della scalata alla Bnl da parte di Unipol, la "cassaforte" del Pds (la famosa intercettazione di Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte: «Ma abbiamo una banca?»). Chiese di mettere agli atti certe telefonate di Fassino e Massimo D'Alema, voleva che fossero indagati. Risultato: ritenuta «un pericolo» e trasferita «di peso» al tribunale di Cremona, come ricorda Palamara. C'è Desirée Di Geronimo, oggi pm nella capitale: condusse l'indagine sul governatore pugliese Nichi Vendola (poi assolto), si trovò isolata nella procura di Bari e chiese il trasferimento.
C'è del marcio. Adesso Palamara ha scoperchiato il verminaio. Non tutto ciò che dice è oro, ovviamente: alcune storie - raccontano i magistrati che facevano parte del suo giro - sono state un po' imbellettate, per vanità del personaggio o altri motivi. Ma il marcio è enorme e fingere che non esista non è possibile. O forse sì? Comunque ci stanno provando e sinora ci sono riusciti. I 67 denunciano che «non solo difettano le doverose iniziative delle autorità competenti ma, sotto il profilo disciplinare, si è anche registrata l'adozione di una generale direttiva assolutoria», col rischio che comportamenti del genere, «anziché essere sanzionati, siano avallati e ulteriormente incentivati». Chiedono persino «l'intervento di una commissione parlamentare di inchiesta, volta a fare definitiva chiarezza». I magistrati che si rivolgono ai politici affinché compiano quelle indagini sul "sistema Palamara" che il Csm non intende fare è un inedito nella storia italiana, a conferma che il degrado delle toghe non è secondo a quello dei partiti. Se ne esce solo tramite «una radicale riforma dell'ordinamento giudiziario», avvertono i firmatari. Da fare, spiegano, attraverso «due punti imprescindibili». Il primo è la selezione dei componenti del Csm tramite elezione di un numero predeterminato di candidati estratti a sorte. Il secondo è la rotazione delle cariche direttive e semi-direttive, «l'antidoto più efficace contro la degenerazione correntizia, che nella distribuzione degli incarichi secondo criteri di appartenenza trova la sua più intensa e frequente espressione». Al capo dello Stato chiedono quindi di provarci ancora, intervenendo per avviare «l'azione di recupero della fiducia di cui l'ordine giudiziario e la gran parte dei magistrati meritano di godere, e della credibilità della giurisdizione». Come dire che oggi non c'è fiducia nelle toghe e che certe loro sentenze non sono credibili. Tutto vero e arcinoto, per carità: ma vederlo scritto lì, controfirmato da 67 giudici e pm, fa una certa impressione.
Procure nel caos, 67 magistrati scrivono a Mattarella: «Al Csm ci vuole il sorteggio». Il Dubbio 22 Feb 2021. Dopo il caso Palamara. Tra i firmatari il gip di Palermo Giuliano Castiglia, Clementina Forleo del Tribunale di Roma, Lorenzo Matassa di Palermo, Gabriella Nuzzi di Napoli. Sessantasette magistrati che scrivono una lettera accorata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e gli chiedono un «intervento immediato nel suo ruolo di garante della Costituzione, «affinché sia finalmente intrapreso il cammino per l’eliminazione dei fattori distorsivi dell’imparzialità e buon andamento della funzione di autogoverno ripristinando la legalità delle sue dinamiche». Per uscire dal caos e recuperare trasparenza i magistrati firmatari della lettera ritengono che serva «il sorteggio perla selezione dei componenti del Csm». I togati si rivolgono dunque direttamente al Capo dello Stato per chiedere «che siano rimosse le cause che hanno condotto alla grave delegittimazione di articolazioni essenziali dell’Ordinamento Giudiziario e del Sistema di autogoverno della Magistratura e che sia assicurato l’allontanamento da tali ruoli di coloro che non sono risultati all’altezza del compito». In una lettera resa pubblica dall’Adnkronos, i 67 giudici scrivono a Mattarella, anche in qualità di Presidente del Csm. Tra i firmatari ci sono il gip di Palermo Giuliano Castiglia, Clementina Forleo del Tribunale di Roma, Lorenzo Matassa di Palermo, Gabriella Nuzzi di Napoli. «Le chiediamo, signor Presidente, di tornare a intervenire con la Sua autorevolezza, per avviare finalmente l’ormai non più differibile azione di recupero della fiducia di cui l’Ordine Giudiziario e la gran parte dei Magistrati meritano di godere, e della credibilità della Giurisdizione, baluardo prezioso ed essenziale dello Stato di diritto delineato dai nostri Costituenti», scrivono i magistrati. I magistrati fanno poi riferimento all’intervento di Mattarella, il 19giugno del 2019 al Csm, quando « esprimeva, con fermezza, il grave sconcerto e la riprovazione per la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati, evidenziando come tali fenomeni avessero pesantemente compromesso il prestigio e l’autorevolezza dell’Ordine Giudiziario». E al nuovo intervento, un anno dopo, il 29 maggio 2020, quando, «imperversando e intensificandosi ulteriormente lo scandalo che sta abbattendo completamente la credibilità delle istituzioni giudiziarie, attraverso una nota del Suo Ufficio stampa, nell’evidenziare come in quel momento non potesse farsi luogo allo scioglimento del CSM, Ella ha ribadito come sia compito del Parlamento quello di predisporre e approvare una legge che preveda un Consiglio Superiore della Magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi». E proseguono poi nella lettera: «Oggi, un altro anno è passato ma, con grande rammarico, dobbiamo prendere atto che il Suo accorato auspicio è rimasto inevaso e che le iniziative legislative, pur annunciate come imminenti, sono ben lungi dal tradursi in realtà. Nel frattempo, lo scandalo continua a imperversare e, lungi dal placarsi, è costantemente alimentato dall’uscita di nuove e allarmanti notizie che rendono il quadro complessivo sempre più inquietante e inaccettabile». E ancora: «Al netto di ogni tentativo di strumentalizzazione, di cui siamo pienamente consapevoli, riteniamo che i fatti, come pubblicamente esposti dagli organi di informazione, siano troppo gravi per rimanere inesplorati e non verificati». «Si avverte, inoltre, una profonda contraddizione rispetto all’esigenza di trasparenza e completa conoscenza di quanto risultante dagli atti. Ufficialmente, essi sono confinati nelle mani di poche Autorità; di fatto, però, sono nella disponibilità di tantissimi, a cominciare dai media. Così, in questo contesto delicatissimo, il rischio di un loro uso strumentale e distorto, condizionato da convenienze e scopi particolari, è straordinariamente grave», denunciano i 67 magistrati. «Il vano trascorrere del tempo, inoltre, anche in ragione dei termini normativamente previsti per l’accertamento delle condotte dei singoli, pone a rischio ogni possibilità di futura verifica, tanto da farci ritenere auspicabile l’intervento di una Commissione Parlamentare di inchiesta volta a fare definitiva chiarezza – chiedono poi i magistrati- E tuttavia, pensiamo di non potere rassegnarci alla inerzia». «Siamo da tempo e restiamo fermamente convinti che la via per il ripristino della credibilità della Giurisdizione, oltre che per un’inequivoca e pubblica risposta agli appelli alla trasparenza(troppo spesso elusi, strumentalizzati o del tutto inevasi), passi ineludibilmente per una radicale riforma dell’Ordinamento giudiziario- concludono – Avvertiamo, in questo, perfetta sintonia con quanto Ella, purtroppo finora inascoltata, ha così autorevolmente e ripetutamente sollecitato. Due dovrebbero essere, a nostro giudizio, i punti essenziali e imprescindibili di tale iniziativa l’inserimento del sorteggio nella procedura di selezione dei componenti del CSM e la rotazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Lungi dall’essere in contrasto con la Carta costituzionale, specie ove seguito da una elezione successiva tra un numero predeterminato di candidati estratti a sorte (e non il contrario, come, forse non a caso, alcuni esponenti delle c.d. correnti hanno in passato proposto),il sorteggio rappresenta l’unico sistema idoneo a garantire l’imparzialità della funzione di autogoverno e l’effettività dei principi di distinzione dei magistrati soltanto per diversità disfunzioni, di indipendenza dei magistrati e di soggezione dei giudici soltanto alla legge». «La rotazione, a sua volta, è in grado di eliminare in radice il carrierismo e la concentrazione di potere in mano a pochi, fenomeno preoccupante e dei cui effetti distorsivi e dannosi le recenti cronache ci hanno resi tutti ancor più consapevoli».
Il caso riletto dopo il Palamaragate. Sequestro Shalabayeva, perché hanno condannato i poliziotti e salvato Pignatone e il Pm Albamonte? Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. Questa è una storia che ha più domande che risposte. Che ne intreccia altre, tra cui il libro dell’ex magistrato Luca Palamara “Il Sistema”, e lascia sensazioni scomode, che inquietano. Ad esempio, che le indagini talvolta dimenticano pezzi importanti per strada. Per errore, per volontà o per sciatteria, al netto dell’umana fallibilità? È una storia che potrebbe cambiare copione grazie a due variabili non previste. La prima è il virus che ha fatto slittare la sentenza di un processo di primo grado da aprile a ottobre 2020 e le motivazioni a gennaio 2021 (ne parliamo poco più avanti). La seconda è appunto il libro di Palamara, uscito a ridosso di quelle motivazioni. A pagina 87 si legge: “A gennaio del 2015 mi attivo fortemente (è Palamara a parlare, ndr) per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone (procuratore a Roma, ndr) infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino (l’aggiunto che Pignatone ha scelto come suo braccio destro a Roma, protagonista al suo fianco delle più importanti indagini contro la mafia condotte in Calabria e in Sicilia, ndr). Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore (…). La pace siglata tra i due durerà però molto poco: di lì a breve (nel 2016, ndr) la Procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della stessa Questura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy”. Occorre adesso fissare nella mente queste due variabili impreviste e tornare alla cronologia dei fatti. C’è un tribunale, quello di Perugia, che è convinto di aver raggiunto la verità circa la “frettolosa espulsione dall’Italia della moglie del dissidente kazako”: l’ottobre scorso ha condannato due investigatori di razza nell’antimafia e nell’antiterrorismo, i questori Cortese e Improta appunto, altri quattro funzionari di polizia e un giudice di pace per sequestro di persona e falso documentale. Accuse gravi che macchiano per sempre l’onore di chi invece ha scelto di servire lo Stato, da poliziotto o da giudice. I fatti risalgono al maggio 2013 (dopo otto anni siamo alla sentenza di primo grado…) e riguardano un caso all’epoca clamoroso, l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Aula, 6 anni, moglie e figlia del politico dissidente e imprenditore kazako Muktar Ablyazov, ricercato all’epoca da tre paesi (Russia, Kazakstan, Ucraina) per vari reati fiscali e aver sottratto decine di milioni dalla Banca centrale di Astana di cui era stato presidente. Nelle motivazioni depositate il mese scorso si parla di “rapimento di Stato” e si afferma che “per tre giorni è stata compressa la sovranità nazionale”. Fermiamoci brevemente su quei fatti. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, in una villetta di Casal Palocco, zona residenziale a sud di Roma, irrompono 50 agenti della Digos e della squadra mobile allertati da un’informativa dell’ambasciata del Kazakistan sulla possibile presenza di Ablyazov sul quale pende il mandato di arresto internazionale. Nella villetta non c’è l’ex oligarca ma solo Alma e Aula, ospiti di Venera, sorella di Alma, e del marito. Gli agenti trasferiscono la donna nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria contestando l’autenticità del documento esibito, un passaporto emesso dalla Repubblica centroafricana intestato ad Alma Ayan. La sera del 31 maggio, alle 22.30, la donna e la figlia vengono imbarcate su un volo con destinazione Astana. Il provvedimento di espulsione è possibile grazie al nulla osta della Procura di Roma. In calce ci sono le firme del procuratore Pignatone e del pm di turno, Albamonte. Le indagini sulla vicenda restano alla Procura di Roma fino al 2016, poi vengono trasferite a Perugia perché tra gli indagati c’è un giudice di pace della Capitale che ha “attratto” la competenza in Umbria. Sempre a Perugia vive Madina Shalabayeva, sorella maggiore di Alma nonchè moglie di un altro oligarca riparato in Svizzera, Ilias Krupanov, che nel 2014 aveva già presentato una denuncia per sequestro di persona. Il pm che riceve la denuncia di Madina Shalabayeva, e che poi nel 2016 attrae da Roma l’indagine sui poliziotti, si chiama Antonella Duchini, successivamente indagata a Firenze e trasferita dal Csm. I dettagli sono sostanza in questa storia complicata. Eccone altri, utili a fissare il contesto. La Procura di Perugia all’epoca è guidata da Luigi De Ficchy, “rivale” di Pignatone che non lo sceglie come aggiunto nella Capitale. De Ficchy è anche il procuratore che nel 2017 (quindi dopo l’incontro al bar Vanni) indaga il magistrato Luca Palamara per corruzione (il gup proprio nei giorni scorsi ha chiesto all’accusa di specificare meglio le accuse nell’udienza preliminare) e che autorizza l’uso del trojan per intercettarlo. Le chat e le conversazioni captate dal trojan (fiore all’occhiello del ministro Bonafede) saranno poi all’origine dello tsunami che ha travolto il Csm, Palamara e tutta la magistratura, mettendo allo scoperto gli scontri tra le correnti della magistratura e gli accordi spartitori per le nomine apicali di procure e tribunali. De Ficchy ha lasciato la Procura di Perugia due giorni prima che, a fine maggio 2019, i giornali comincino a pubblicare le intercettazioni del trojan di Palamara. Infine, qualche riferimento politico, anche questo utile. A maggio 2013, il governo Letta ha da poco nominato a capo della polizia il prefetto Alessandro Pansa, dopo un periodo di vacatio dovuto alla prematura scomparsa del prefetto Manganelli. Il governo Letta ha in maggioranza il nuovo partito di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, creato dopo la traumatica scissione da Forza Italia. Torniamo all’indagine sulla “frettolosa espulsione” di Alma Shalabayeva e della figlia. Il passaporto trovato nella villetta di Casal Palocco risulta, come si è detto, falso. Motivo per cui viene avviata la procedura di espulsione. I notam dell’Interpol parlano di un ricercato per reati finanziari (il marito Ablyazov) che non gode e neppure ha mai richiesto lo status di rifugiato politico. Motivo per cui neppure la moglie può essere compresa sotto questa protezione. Il 31 maggio 2013, quindi, il procuratore Pignatone e il pm Albamonte, dopo vari scambi di carteggi con il capo della Mobile Cortese e il responsabile dell’Ufficio Immigrazione Improta, completano il fascicolo per l’espulsione con tanto di firma del giudice per i minori. Sempre il 31 maggio, nel primo pomeriggio, quando Alma e la figlia sono ancora a Ponte Galeria, si presentano in Procura a Roma i loro legali Riccardo e Federico Olivo, che comunicano che la donna ha la protezione diplomatica come risulta dal passaporto della Repubblica centroafricana. Passaporto che però è palesemente falso. Alle 17.30 Pignatone e Albamonte firmano il nulla osta e alle 22.30 mamma e figlia sono in volo per Astana. Dopo due giorni scoppia il caso: Shalabayeva diventa la cittadina più monitorata a livello internazionale. Emma Bonino, ministro degli Esteri, accende i riflettori e si mette al lavoro per proteggere madre e figlia che infatti torneranno in Italia pochi mesi dopo con un visto turistico, ottenendo poi l’asilo politico. Placate le acque mediatiche, la Procura di Roma, tra qualche imbarazzo visto che aveva autorizzato la partenza della donna, prosegue le indagini e nel maggio 2014 il pm Albamonte indaga per abuso e omissione il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta, insieme a suoi quattro collaboratori. Poiché tra gli indagati c’è il giudice di pace romano che seguì la pratica di esplulsione, il fascicolo emigra direttamente a Perugia per competenza. Dove lo aspettano, e a quanto pare già da un pezzo, De Ficchy e l’aggiunta Duchini. Tra i primi atti istruttori c’è il verbale del pm Albamonte. Che mette nero su bianco che la Procura autorizzò la partenza di Shalabayeva e della figlia perché i documenti centrafricani della donna erano falsi e da nessuna parte risultava che godesse dello status di rifugiato politico. La domanda è: se così stanno le cose, perché Perugia cinque anni dopo arriva a condannare con accuse pesanti i due poliziotti e non coinvolge l’ufficio della Procura romana che firmò il nulla osta? Perché, soprattutto, il Tribunale non ha mai ammesso le testimonianze del sostituto Albamonte? Se errore ci fu, fu commesso da tutti, e non solo da una parte. Diversamente, non ci fu errore. E allora le condanne di oggi sono da rivalutare. A questo punto merita leggere alcuni passaggi del verbale che Albamonte rese all’aggiunto di Perugia Antonella Duchini. È il 2 marzo 2016, il fascicolo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia (maggio 2013) è da poco stato trasferito a Perugia. Il dottor Albamonte ripercorre le ore del 31 maggio 2013. A metà mattina – racconta – “arrivò la telefonata del dottor Cortese (Mobile e Ufficio Immigrazione della questura di Roma erano responsabili della pratiche per l’espulsione per cui era necessario il nulla osta della Procura, ndr) che chiese se c’erano motivi ostativi a negare il nulla osta. Domanda alla quale risposi non ravvisando tali motivi”. Si tratta a tutti gli effetti di un nulla osta verbale. È una giornata intensa, quella, segno che il caso della signora Alma Ayan (questo il nome noto in Procura) assume subito un certo peso. Dopo la telefonata infatti si presenta in ufficio l’avvocato Federico Olivo, vecchia conoscenza del dottor Albamonte: “Mi disse che c’era un problema perché era stato sequestrato un passaporto che risultava contraffatto mentre invece era originale ed era anche un passaporto diplomatico”. A favore di queste tesi, l’avvocato mostra documenti consolari della Repubblica centroafricana che attestano l’autenticità del documento. Nella stessa conversazione l’avvocato “riferì anche che non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako, circostanza che risultava anche da fonti aperte”. Non un segreto di Stato, quindi. A quel punto Albamonte va dal procuratore aggiunto titolare del fascicolo (il dottor Rossi che poi però esce di scena per impegni personali) dove trova il padre di Federico Olivo, Riccardo. Insomma, il nulla osta verbale viene momentaneamente sospeso in attesa di verifiche sull’autenticità del passaporto diplomatico sequestrato dalla squadra mobile. La verifica però non fa cambiare idea: “Ci convincemmo – racconta Albamonte – che gli atti prodotti dalla difesa non erano sufficienti a escludere la falsità del passaporto diplomatico a nome Alman Ayan”. Dopo qualche minuto telefona il dottor Improta che sostiene di avere altro materiale utile al caso. “Il dottor Improta mi disse anche che l’Ufficio Immigrazione aveva bisogno di tempi celeri perché avevano la disponibilità da lì a poche ore di un volo per Astana”. Non potendo assicurare tempi celeri, il magistrato suggerisce – poi dirà di non aver mai saputo della presenza di una minore – di riportare la donna al Cie di Ponte Galeria. Albamonte sottopone il caso al procuratore Pignatone. Nel frattempo si fa pomeriggio. La documentazione aggiuntiva inviata da Improta consiste nella nota di Polaria di Fiumicino; della nota kazaka datata 30.5.2013 da cui risulta che “il vero nome di Alma Ayan è Shalabayeva, titolare di due validi passaporti kazaki e di un falso passaporto a nome Ayan”; la nota del cerimoniale del Ministero degli Esteri da cui risulta che “il nominativo di Ayan Alma era stato oggetto di una richiesta di accreditamento diplomatico per il Burundi ma che la pratica risultava poi essere stata revocata”. Raccolta e analizzata tutta la documentazione, Albamonte e Pignatone valutano che “il passaporto era falso come stabiliva la nota dell’autorità kazaka”. Inoltre, “il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako non fu centrale nelle nostre valutazioni. Avevamo la pro-va della falsità del documento. La presenza dell’indagata sul territorio italiano (richiesta dagli avvocati Olivo, ndr) non era dirimente. Tutto questo rese possibile il rilascio del nulla osta”. Nello stesso verbale Albamonte sottolinea che “nessuno gli aveva mai detto le vere generalità della donna erano Alma Shalabayeva” e che “non mi era mai stato rappresentato che l’espulsione potesse comportare rischi per l’incolumità della donna”. Il magistrato, proprio in chiusura di verbale, sottolinea di “non aver saputo che era coinvolta una bambina” e che nessuno gli disse che nella villa di Casal Palocco erano state rinvenute “mail da cui risultava che il nome di Alma Ayan era in realtà il nome usato da Alma Shalabayeva per ragioni di sicurezza”. Due circostanze che sembrano essere contraddette dalla lettura degli atti inviati in Procura il 31 maggio dal dottor Improta. L’oggetto scritto in testa al documento è infatti “Shalabayeva Alma alias Ayan Alma”. Nello stesso documento si legge: “Pertanto la Shalabayeva è nella condizione di essere rimpatriata unitamente alla figlia minore attualmente affidata a persona nominata dal Tribunale dei minori”. Conviene qui subito dire che la bambina partì regolarmente con la mamma, come prevede la legge, e che la procedura fu seguita dal giudice dei minori, che non risultano forzature o costrizioni e che anche all’arrivo ad Astana la donna e la figlia condussero una vita protetta fino a dicembre quando il governo italiano, a mo’ di scuse, le fece tornare in Italia con un regolare permesso. Nel frattempo il marito era in carcere a Nizza arrestato per fini estradizionali. Non ultima, va riportata la nota Interpol firmata dall’allora segretario generale Ronald Noble. La data è del 23 luglio 2013. “In sintesi – si legge – per quanto riguarda l’Interpol e qualsiasi paese membro il signor Ablyazov era un soggetto ricercato da tre paesi membri Interpol per gravi reati. Nessun paese membro Interpol sarebbe stato (il 31 maggio, ndr) in grado di sapere attraverso il segretariato generale che il Regno Unito aveva concesso ad Ablyazov lo status di rifugiato politico”. Come potevano quindi Procura e Mobile sapere che la moglie sarebbe stata a sua volta in pericolo tornando ad Astana? Leggendo le motivazioni della sentenza che ha condannato Improta, Cortese e gli altri poliziotti i giudici sembrano invece essere partiti dall’assunto che quello fu un “sequestro di persona”, quasi una “deportazione” e non di una regolare espulsione. Quella di Alma Shalabayeva è stata certamente una vicenda strana e per fortuna senza conseguenze su mamma e figlia. E questo è quanto più conta. Restano però aperte molte domande. La prima: come funzionò davvero la catena di comando che innescò l’irruzione a Casal Palocco? La seconda: dalla relazione del capo della polizia prefetto Pansa si desume che il capo della Squadra Mobile deliberò l’operazione sulla base dell’input ricevuto dall’ambasciatore kazako. È tuttavia evidente che né Cortese né Improta avrebbero potuto decidere autonomamente quella espulsione. Perché, poi, la Procura di Perugia non sentì tra i testimoni anche il procuratore Pignatone e il pm Albamonte? La lista delle domande sarebbe ancora lunga. E chissà che una chiave per trovare le riposte non possa trovarsi anche in quell’incontro al bar Vanni tra i due Procuratori di Roma e Perugia di cui parla Palamara nel suo libro. Tutto questo merita un approfondimento.
SE DILAGA L’ABUSO DI POTERE. Luciano Violante su Il Corriere del Giorno l'8 Febbraio 2021. Il potere ha un volto diabolico perché se esercitato senza etica può portare allo schiacciamento dell’uomo da parte di un altro uomo. L’etica del potere è costituita dal suo esercizio in modo conforme alle ragioni per le quali quel potere è stato concesso.
UN FILO NERO. unisce i fatti di Piacenza, i pestaggi nelle carceri di Torino, le vicende nelle quali è coinvolto il dottor Palamara. Si tratta dell’abuso di potere. Funzionari ai quali la Repubblica ha consegnato poteri rilevanti sulla vita, l’integrità fisica, la reputazione, il patrimonio dei cittadini, al fine di garantire il rispetto delle regole, le hanno violate ripetutamente per trarne vantaggi personali o economici o di prestigio o di altro genere. Il potere ha un volto diabolico perché se esercitato senza etica può portare allo schiacciamento dell’uomo da parte di un altro uomo. L’etica del potere è costituita dal suo esercizio in modo conforme alle ragioni per le quali quel potere è stato concesso. Nei casi indicati il potere è stato esercitato in modo difforme dalle finalità per le quali è stato concesso. Di qui l’abuso. Poco conta dire che si tratta di mele marce. Se non fossero eccezioni non saremmo in democrazia. Il problema centrale è diverso. La nostra società sta assumendo caratteri che consentono e tollerano comportamenti abusivi. Una cultura egocentrica ha posto l’esercizio del potere e la sua ostentazione al centro delle aspirazioni delle persone. Ha conseguentemente indotto ad ignorare la funzione del limite nella organizzazione delle società democratiche e ha animato una cultura del consumo per l’affermazione individuale. Basta seguire alcune raffinate pubblicità per cogliere l’ invito frequente a superare i limiti per essere veramente sé stessi. In sostanza quella pubblicità ci dice che non puoi essere te stesso se resti nelle regole della comunità; per essere te stesso devi superare quelle regole e io ti offro il prodotto per farlo. Una seconda caratteristica è la cultura del successo. Conta quello che si ottiene, indipendentemente da come lo si ottiene. Se si ottengono risultati soddisfacenti si possono chiudere gli occhi sui metodi usati per ottenerli. Il successo è di per sé motivo di soddisfazione e lo si dimostra con il possesso. Le vacanze in alberghi di lusso che sarebbero state offerte al dottor Palamara e ai suoi cari da ricchi questuanti o l’esibizione di champagne di marca da parte dei Carabinieri di Piacenza stanno a segnalare il raggiungimento di uno status sociale superiore. Nei tre casi citati gli abusi non sono avvenuti in segreto; ma non sono stati fermati. A Piacenza perché consentivano di alimentare le statistiche, a Torino perché mantenevano nelle carceri un ordine seppure dettato dal terrore, a Roma perché permettevano ai magistrati consenzienti di accedere a benefici di carriera che altrimenti sarebbero stati preclusi. Il principio che sembra prevalere è: se posso farlo, lo faccio. Sembra un principio liberale. È in realtà la tomba del liberalismo e può diventare l’agonia dei regimi democratici. Perché il liberalismo senza regole accresce le iniquità. Si è visto con l’esperienza del Covid. I leader che più caratterizzano sé stessi per la predicazione liberale, Trump, Bolsonaro, Johnson, non sembra abbiano adottato efficaci politiche di contenimento del virus perché ispirati ad una radicale diffidenza per le regole. Si sono rivelate più efficaci le risposte italiana e tedesca perché frutto di un buon equilibrio tra la cultura dei diritti, propria del liberalismo e il senso del dovere, proprio invece della cultura repubblicana. Una severa e rapida punizione nei casi citati, qualora le responsabilità fossero accertate, sarà necessaria. Ma è altrettanto necessario un impegno da parte delle classi dirigenti per introdurre nella nostra società il senso del limite e il senso del dovere.
Il Sistema, le toghe secondo Palamara. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. Il libro dell’ex presidente dell’Anm è pieno di rivelazioni scomode che gettano luci sinistre sulla vita associativa dei magistrati. Molto rumore per nulla? A scorrere la pagine de Il Sistema si direbbe proprio di no…Il gatto e la volpe, potrebbe malignare (anzi: ha già malignato) qualcuno. O peggio, visto che le malignità si autoalimentano: il lupo e lo sciacallo. La strana coppia, più semplicemente diciamo noi: Luca Palamara e Alessandro Sallusti, autori de Il Sistema che, uscito a gennaio per i tipi di Rizzoli, vanta l’indubbio primato di essere il libro più sfogliato, citato ma forse non del tutto letto di questo primo scorcio del 2021. Luca Palamara (il gatto). Ma tant’è: Il Sistema è un libro facile, un’intervista-fiume di poco meno di trecento pagine (nel formato cartaceo), concepito e scritto con estrema fluidità e a tempo di record (in pochi giorni del novembre 2020, stando alla dichiarazione di Sallusti riportata a pag. 12 del libro). Ancora: Il Sistema è un libro ready made, fatto per essere letto a colpo d’occhio e bombardare il lettore di fatti, sensazioni e immagini sparate con velocità e confusione voluta, che ripete su carta lo stile delle docufiction televisive. Tuttavia, Il Sistema è un libro che funziona: centra il bersaglio sin dalle prime pagine e fa arrivare il suo messaggio in maniera netta. Senza fronzoli, direbbe qualche cronista vintage. Soprattutto, è un libro a modo suo sincero: la confessione di un ex magistrato che non ha più nulla da perdere nell’immediato futuro e spera di ottenere la propria rivalsa dal ricorso contro la radiazione dall’Ordine giudiziario. Ma è anche la rivincita di un giornalista da sempre molto critico verso lo strapotere (presunto…) delle toghe. Un cocktail forte, che però tra i suoi pregi non ha l’originalità né la novità. Infatti, passate le sbornie del post-Tangentopoli, gli italiani hanno iniziato a capire da almeno vent’anni le distorsioni del mondo della magistratura. Su queste aveva già messo un punto fermo il compianto Stefano Livadiotti col suo Magistrati. L’ultracasta (Bompiani, Milano 2009), che conteneva già una denuncia forte e approfondita dei meccanismi correntizi che regolano da oltre cinquant’anni la giustizia italiana. Il reale motivo d’interesse de Il Sistema sta nel ruolo di Palamara: testimone eccellente, verrebbe quasi da dire pentito (absit iniuria verbis…) di un apparato di potere da cui ha avuto tanto, a cui ha restituito molto ma dal quale è stato scaricato senza troppi complimenti alle prime, importanti difficoltà. Insomma non conta quel che si dice, specie se altri l’hanno detto con più coraggio (quello richiesto ai non magistrati quando si occupano delle toghe, magari con le spalle non sufficientemente coperte) e più efficacia – è il caso dell’ex toga eccellente Piero Tony autore del notevole Io non posso tacere (Einaudi, Milano 2015 -, ma chi lo dice. In cosa consiste la denuncia di Palamara? Il magistrato caduto in disgrazia dopo l’ennesimo azzardo politico, è tutto tranne che un fesso: non casca nella trappola del rancore e fornisce a Sallusti un quadro lucido e realistico come può fornirlo solo una persona che ha sviluppato un bel popò di pelo sullo stomaco a furia di vederne e combinarne. Il Sistema raccontato nel libro è l’incastro perenne delle cordate, storicamente tre e oggi diventate quattro, che fanno e disfanno: carriere, inchieste e processi. Questo Sistema, per fortuna, non ingloba tutta la magistratura: lo stesso autore ammette che molti magistrati «vivono del loro e non partecipano al grande gioco del potere». E ammette che questi magistrati, a differenza dei colleghi più politicizzati si meravigliano ancora di alcuni sconfinamenti nella politica. Ad esempio, quello dell’estate 2019, operato a dire dell’ex magistrato da Luigi Patronaggio, Procuratore di Agrigento in quota Magistratura democratica, con l’inchiesta a carico dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Per tacere di altre inchieste, poi crollate al vaglio del dibattimento o della Cassazione, come l’affaire Ruby, che diede una mazzata micidiale al già traballante Berlusconi, o, per restare nel perimetro azzurro, la vicenda del Lodo Mondadori, in cui il capo di Mediaset fu condannato a pagare un risarcimento che lo stesso Palamara definisce abnorme.
Al riguardo, è doveroso ribadire una cosa: l’ex magistrato non entra mai nel merito delle inchieste né si sbilancia in dichiarazioni colpevoliste o innocentiste: di sicuro non dice che Berlusconi sia innocente, ma dichiara che è stato bersagliato oltre le sue colpe da un congegno (non del tutto) giudiziario in cui non molti potevano fargli la morale su alcunché. Più sfumato il discorso sulla vicenda De Magistris. In questo caso, Palamara ammette senz’altro, assieme a un Sallusti più sogghignante che mai, che chi tocca la sinistra muore. E il suo riferimento al fatto che l’ex pm di Catanzaro abbia pagato oltremisura l’aver toccato con l’inchiesta Why Not il centrosinistra targato Prodi non potrebbe essere più chiaro. Certo, l’ex big dell’Anm non si rimangia alcuna delle critiche espresse all’epoca nei confronti del collega che operava in Calabria: l’inchiestona era pasticciata e il decreto di perquisizione (1.700 pagine, di cui si sono nutriti per mesi tutti i giornalisti d’Italia) eccessivo. Ma la morale di quest’altra favolaccia resta inequivocabile: De Magistris ha pagato oltremisura il dato politico più che gli errori giudiziari. Se le cose stanno così, non è difficile capire ciò che il Sistema di cui parla Palamara non è solo giudiziario: è il risultato di due equilibri, quello tra le attuali quattro correnti dell’Anm (Area più Magistratura democratica a sinistra, la centrista Unicost, Magistratura indipendente a destra e Autonomia e indipendenza, gli outsider di Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo) e quello tra l’Anm e la parte più ideologizzata del Pd (per capirci, quella ancora postcomunista). Il tutto con la benedizione del Quirinale, entrato più volte a gamba tesa e l’avallo di una fetta consistente della stampa che conta. Questa macchina da guerra, tutt’altro che gioiosa ma parecchio efficiente, avrebbe tritato secondo l’ex re delle correnti chiunque si mettesse di traverso. Non solo De Magistris, Berlusconi e Salvini. Ma anche Renzi. E, alla fine, lo stesso Palamara, che avrebbe pagato salato il tentativo di sovvertire, durante la famosa cena dell’Hotel Champagne, l’egemonia dell’ala progressista proprio facendo leva sulla componente renziana, all’epoca non ancora distaccatasi dal partito di Zingaretti. Ma l’ex magistrato ammette di più: il meccanismo di potere su cui si regge il Sistema è autofago, come esemplifica alla grande il capitolo dedicato alla guerra milanese tra Robledo e Bruti Liberati: divora prima i corpi estranei, poi le parti impazzite e infine sé stesso. Ma, soprattutto, il Sistema si alimenta a ciclo continuo, seguendo (e spesso condizionando) sempre i magistrati, dalla culla, a volte pilotando il temutissimo concorso, fino alla fine della carriera. Già: senza le correnti non si fa carriera e si rischia troppo, con le correnti si sale, a volte ci si ferma ma si arriva comunque. E la morale, in tutto questo? Non tocca a Palamara né a Sallusti farla, specie quando i fatti parlano da sé. E poco importa se le domande del direttore de Il Giornale a volte sono troppo mirate (e decisamente capziose) e se il racconto dell’ex leader di Unicost risulta, come ha notato anche Giovanni Bianconi del Corriere della Sera, non poco selettivo e chirurgico. Mica si può pretendere da Palamara che dica tutta la verità: ci si accontenti della sua verità, che non è poca né leggera. Né si può pretendere da Sallusti che faccia l’avvocato di tutti i diavoli, quando il diavolo (sempre absit iniuria verbis…) con cui ha a che fare, cioè lo stesso Palamara, non è sicuramente piccolo. È davvero uguale per tutti? Quella dell’ex pm di Roma non è un’ammissione di colpevolezza e quindi non può essere una chiamata di correo nei confronti dei suoi colleghi. È la critica lucida, spietata e a modo suo imparziale di un meccanismo di potere che mette a repentaglio la giustizia e la sua credibilità. A chi si rivolge realmente Palamara? Di sicuro non agli avvocati (o non solo), perché l’ipergarantismo delle Camere penali c’entra poco con il j’accuse dell’ex consigliere del Csm. Né si rivolge (solo) agli ex colleghi, ai quali non lesina siluri, stoccate, frecciate, doppisensi o semplici allusioni. «L’ho fatto per tutti i cittadini», ha dichiarato Palamara di recente a Libero. E c’è da credergli perché risulta più sincero lui, con la sua verità parziale e senz’altro di parte, di tanti sermoni sull’autonomia della magistratura.
By: Saverio Paletta. Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest.
Il Sistema, le raccomandazioni secondo Palamara. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. Pubblichiamo integralmente uno stralcio impressionante del libro in cui l’ex presidente dell’Anm racconta la “sua” verità sui retroscena dell’associazionismo dei magistrati. In questo caso, si parla del concorso in magistratura…Luca Palamara racconta ne Il Sistema (Rizzoli, Milano 2021) uno dei possibili meccanismi attraverso cui le correnti dell’Anm “piloterebbero” in parte il temutissimo concorso in magistratura. Queste dichiarazioni, rese al direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti gettano una luce ulteriore (e sinistra) sui sospetti coltivati da tanti ma esplicitati quasi da nessuno emersi in seguito ad alcuni scandali “recenti”, che riguardano proprio il concorso…
[Palamara] Per esempio, come il «Sistema occupa il potere. Non ci crederà, ma le correnti sono come una squadra di calcio: serve un buon vivaio, senza il quale non si va da nessuna parte. Non per nulla c’è la corsa, e non solo per il gettone economico, a fare il commissario nei concorsi per magistrati. A decidere è la terza commissione del Csm, cioè un organo lottizzato dalle correnti che a sua volta lottizza i commissari, e di questo sulla mia chat c’è ambia documentazione. Ciò serve, non solo ma anche, a garantire le raccomandazioni: basti pensare che con questo meccanismo nella mia consiliatura due figli di componenti del Csm sono diventati magistrati».
[Sallusti] Raccomandazioni?
[Palamara] Io ho soddisfatto tante richieste in tal senso e soprattutto sono stato contattato più volte da magistrati, anche autorevoli, che chiedevano raccomandazioni per gli esami orali dei figli.
[Sallusti] Bella partenza per un neomagistrato.
[Palamara]Appunto, tutto il mondo è paese e la magistratura non sfugge alla regola. Ma il bello viene dopo.
[Sallusti] Dopo quando?
[Palamara]L’obiettivo del «Sistema» è accaparrarsi il neomagistrato. Come? Facendolo iscrivere il prima possibile alla propria corrente. Funziona così: quando entri in servizio vieni affiancato per un certo periodo a un magistrato anziano e «chi va con chi» lo decide una commissione apposita in base ai rapporti di forza delle correnti. Se entrano in sessanta, trenta andranno a fare tirocinio da un anziano di Unicost, venti da uno di Magistratura democratica, dieci da uno di magistratura indipendente. È ovvio che, nel calcolo delle probabilità, questi ragazzi si iscriveranno alla corrente del loro tutor, soprattutto se questo spingerà in tal senso. È la linfa per alimentare il «Sistema» delle correnti, che anche per questo si battono per mettere uomini propri nelle procure più importanti e popolose, come Milano, Roma, Napoli, Palermo e Catania. E così sarà a ogni passaggio della vita professionale, sempre che tu voglia fare carriera.
[Sallusti] Mi faccia degli esempi.
[Palamara] Quanti ne vuole. Prendiamo i «magistrati segretari» del Csm, colleghi tra i cui compiti c’è anche quello di dover motivare le nomine, cioè scrivere perché Tizio è più bravo di Caio e quindi ha diritto a quel posto. Secondo lei chi li nomina?
Non lo so, me lo dica lei.
[Palamara] I capicorrente, ovviamente. Così avviene per i membri dell’Ufficio studi, dove vengono elaborati i pareri che danno la linea politica alle decisioni del Csm, ma soprattutto questo vale per gli «assistenti di studio» dei giudici della Corte Costituzionale.
[da Il Sistema, cap. Il vivaio, pp 59-61]
Il “livello superiore”: incontri giornalisti-giudici, raccomandazioni per i figli e le inchieste politiche. Palamara racconta. Da zonedombratv.it il 27 gennaio 2021. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e ex membro del Csm, Luca Palamara, torna a raccontare quel mondo giudiziario di cui ha fatto parte fino a poco tempo fa. Il “livello superiore”. Fino a quando non è stato radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura. Palamara torna sulla vicenda e racconta ad Alessandro Sallusti, nel libro “Il Sistema – Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” cosa sia il ‘Sistema’ che ha pesantemente influenzato la politica italiana.
“Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all’inferno”. Una carriera brillante avviata con la presidenza dell’Associazione nazionale magistrati a trentanove anni. Palamara a quarantacinque viene eletto nel Consiglio superiore della magistratura e, alla guida della corrente di centro, Unità per la Costituzione, contribuisce a determinare le decisioni dell’organo di autogoverno dei giudici. A fine maggio 2019, accusato di rapporti indebiti con imprenditori e politici e di aver lavorato illecitamente per orientare incarichi e nomine, diventa l’emblema del malcostume giudiziario. “La sinistra orienta i giudici e la stampa non è libera”: parola di Luca Palamara. “Tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo”, sostiene Palamara. Il “Sistema” di cui si parla nel libro “è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato. È quello che succede anche a Palamara: nel momento del suo massimo trionfo (l’elezione dei suoi candidati alle due più alte cariche della Corte di Cassazione), comincia la sua caduta”. “Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”, dice l’ex presidente dell’Anm. E i segreti sono tutti in questo libro.
Il modello Firenze. “In questa corsa senza freni provo il colpo della vita: applicare il modello Firenze per conquistare il vertice della magistratura italiana”, racconta Palamara. “Siamo nel 2017, ci sono da eleggere i nuovi procuratore generale e primo presidente della Cassazione, fondamentali non solo per il destino delle vicende processuali ma anche perché siedono di diritto nel plenum del Csm, dove si decide tutto, dalle nomine alle sanzioni”. Era “un azzardo – riconosce Palamara -, perché nel frattempo è iniziata la parabola discendente di Renzi”.
Complicità di pm e giudici. Tra pm e giornalisti c’è “complicità professionale”, “si usano a vicenda”, sostiene Palamara. “Prendiamo l’informazione, che nella vicenda Berlusconi di quegli anni ha avuto un ruolo fondamentale. Tra di noi girava la battuta: ‘La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti’. Magistrati e giornalisti – lo dico anche per esperienza personale – si usano a vicenda, all’interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni. Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall’editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica. È inevitabile che una frequentazione assidua porti a una complicità professionale, a volte anche a un’intimità personale più o meno clandestina che crea qualche imbarazzo tra i colleghi”. E, aggiunge Palamara, “c’è anche un livello superiore: io stesso ho avuto modo di partecipare a incontri riservati tra importanti direttori e procuratori impegnati su inchieste molto delicate…”.
“Non rinnego il passato”. “Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni, molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo. Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano”, racconta l’ex pm.
Le chat. “Il contenuto di quelle trascrizioni, come pure le chat e i messaggi estratti dal cellulare, è ormai noto, i giornali ne hanno pubblicati centinaia. C’è di tutto, ma non c’è tutto” e Luca Palamara fa un elenco di nomi.
Il patto tra i pm e Fini. “Quando nel dicembre del 2010 si parla di un possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità”, racconta ancora nel libro intervista. “Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un’inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui lui è il numero due dopo Silvio Berlusconi – spiega l’ex pm – Abbiamo più di un incontro, ci rassicura che con lui a dirigere la Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati. Tra noi certamente c’è un buon feeling che diventa collaborazione attiva nel fornirgli pareri e spunti per emendare leggi che, direttamente o indirettamente, riguardano il nostro mondo”.
Nomine e patteggiamenti. “La verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e, direttamente o indirettamente, i loro referenti politici, e ciò è ampiamente documentabile”, racconta Palamara. “Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”, aggiunge l’ex pm.
Legnini e l’umiliazione. “Dopo la votazione al Csm che incorona Fuzio raggiungo il vicepresidente Legnini a Chieti per partecipare a un convegno. Mi insulta, si sfoga: ‘Tu mi hai umiliato agli occhi del Quirinale, penseranno che io non conto nulla, non finirà qui'”, racconta ancora nel libro.
Le raccomandazioni. “Io ho soddisfatto tante richieste in tal senso e soprattutto sono stato contattato più volte da magistrati, anche autorevoli, che chiedevano raccomandazioni per gli esami orali dei figli”, afferma l’ex pm.
Il caso De Magistris. Quando il Csm apre un fascicolo che di lì a pochi mesi porterà al trasferimento di Luigi de Magistris, spiega ancora Palamara, “io mi consulto sia con i miei sia con il Quirinale. E succede che, per la prima volta nella sua storia, almeno recente, l’Anm prende le distanze dall’operato di un pubblico ministero. Il comunicato lo feci io insieme a Giuseppe Cascini, fu un atto sofferto ma di coraggio, rompeva il dogma secondo cui un pm va difeso sempre e comunque. E su questo ebbi la spinta di Cascini, cioè dell’ala sinistra della magistratura, una spinta che mi lasciò molto stupito”.
Le cene con Ferri e Lotti. Il 25 settembre “c’è una cena a casa di Giuseppe Fanfani, membro del Csm in quota renziana. Siamo invitati io, Ferri ed Ermini per chiudere il cerchio. Io e Ferri chiediamo all’ultimo al padrone di casa se può venire anche Lotti, lui non obietta né tantomeno obietta il vicepresidente in pectore Ermini”, racconta Palamara. E sottolinea, “il futuro, oggi in carica, vicepresidente del Csm è a tavola con un politico indagato, Luca Lotti, con un magistrato del Csm, il sottoscritto – che lui ben sapeva essere indagato, perché, anche se la notizia non era ancora stata pubblicata dai giornali, nel nostro mondo era stranota –, e con un fresco onorevole del Pd, Cosimo Ferri”.
Il potere di Magistratura democratica. “Magistratura democratica è l’embrione del sistema”, precisa ancora Palamara nel libro. L’ex pm spiega anche il suo ingresso in Md: “Noto una cosa: la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”. A un certo punto “capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel ‘Sistema’”. Poi, compreso che Md è una “corrente ideologica e non scalabile con la mia storia”, matura la scelta di passare a Unicost.
Il j'accuse del libro di Palamara. La magistratura è inquinata ma nessuno fa nulla e il sistema affonda. Alberto Cisterna su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. È forse giunto il tempo di distogliere lo sguardo dalle miserie umane e istituzionali compendiate nel noto libro di Palamara e tornare a una discussione meno intralciata da singoli destini e minute controversie al limite, qualche volte, del pettegolezzo. La virata non è né facile, né si può negare che si presti a qualche sospetto da parte dei girondini di turno ora a caccia di scalpi. Tra l’altro, l’azione di bonifica è appena iniziata sia in sede disciplinare (Csm) che deontologica (Anm) e ci vuole pazienza, ma è innegabile che già se ne intuiscono gli inevitabili limiti. Per carità, non è poca roba. Ma non si può fare a meno di constatare che – salvo un paio di casi, uno dei quali connesso a una scabrosa, quanto controversa vicenda personale – a rotolare nel canestro sembrano destinate poche teste coronate e molte terze e quarte file della magistratura italiana. I clientes, per intendersi, quelli più adusi alle lusinghe dei potenti e, ora, più esposti alla minuziosa rilettura di grappoli di chat. Mentre i boss stanno in disparte, si godono posti di prestigio lucrati, spesso, senza passare dall’infido Whatsapp del reprobo e attendono furbescamente, come giunchi sulle rive del fiume agitato, che passi la piena. Certo sovviene alla mente il fatto che già da tempo i più avveduti complottisti prediligessero Telegram e non si può escludere che risalenti origini e oblique propensioni abbiano indotto altri persino ad adoperare i più tradizionali pizzini. Quale che siano state le mille forme delle interlocuzioni clientelari è del tutto evidente che solo una parte del fondale fangoso è stata smossa e che troppi “scampati” attendono che l’acqua torni limpida e meno perigliosa per riprendere a dipanare le proprie trame. Un’operazione di risanamento, quella in corso su vari fronti, inevitabilmente destinata a un drenaggio incompleto delle scorie venute a galla e che pone l’urgenza di comprendere se quanto accaduto sia il frutto di un’occasionale inquinamento delle pure e limpide acque dell’associazionismo togato, ovvero se a essere contaminate siano state le falde più profonde dell’ordine, le sorgenti stesse della vita associativa e, con esse, purtroppo, le fonti della giurisdizione. Perché, a ben guardare, resta un cifra oscura in tutta questa vicenda: sinora chat e conversazioni sono state prese in esame volgendo lo sguardo in modo pressoché esclusivo alle carriere e alle connesse faide. Il J’accuse di Palamara, nello stesso titolo del libro (Il Sistema), è uno squarcio nel drappo pesante che celava la costruzione e la gestione di queste carriere. Ma non è ancora chiaro quale riflesso tutta questa convulsa azione clientelare abbia potuto avere nella gestione di indagini e processi. In fondo, ma non troppo, ai cittadini potrebbe anche non interessar nulla di come Caio sia divenuto procuratore o Tizio presidente, purché siano resi sicuri che i protocolli delle nomine non abbiano avuto e non avranno alcuna incidenza sui loro processi e sulle loro vicende. Non sarà certo la magistratura l’unico ramo di quel lago opaco che è la pubblica amministrazione italiana in cui troppi dirigenti e capibastone hanno provenienze improbabili di origine politica, massonica o legate a consorterie varie. Di questo profilo ovvero dell’inquinamento della giurisdizione, in queste settimane, si discute poco o nulla. Certo si è scoperto che esistono cordate di pubblici ministeri, appartenenti alla polizia giudiziaria e giornalisti che prendono in carico i propri nemici, interni ed esterni, per abbatterli. Fatto inquietante – noto a tutti da anni con tanto di nomi e cognomi – rispetto al quale però nessun provvedimento legislativo o organizzativo è stato mai seriamente messo in campo, perché il Cerbero ha tre teste tutte capaci di azzannare e far male a chiunque. Ma non basta. A sprazzi, e con molta cautela, emergono nel racconto del ripudiato Palamara anche le interferenze di certi magistrati su certi processi, la costruzione artefatta delle fonti di prova, le manipolazioni investigative, le complicità poliziesche. Il tutto pare giustificato da una sorta di stato di belligeranza della corporazione con settori della politica che, ahimè, costringeva quelle toghe a una certa disinvoltura. Ma come stare tranquilli che i solerti regicidi e tirannicidi non fossero disposti anche a tagliar gole a qualsiasi altro malcapitato non è ben chiaro. Messo da parte l’intento nobile che ispirava i novelli Bruto, resta forte l’impressione di un uso improprio della giurisdizione, di una confidenza disinvolta con l’obliquità, della giustificazione postuma di un atto non consentito. Dopo l’assassinio Bruto tessé un discorso di grande rilievo: «Preferireste voi Cesare vivo e noi tutti morire come schiavi, oppur Cesare morto, e tutti liberi? … Ma fu troppo ambizioso, ed io l’ho ucciso. Lacrime pel suo amore, compiacimento per la sua fortuna, onore al suo valore, ma morte alla sua sete di potere!» (W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II). Sappiamo com’è andata a finire dopo il discorso di Antonio e quanto lieve peccato sia stata considerata l’ambizione di Cesare. Parimenti nessuna abiezione politica o morale può giustificare l’esercizio improprio della giurisdizione. Ci saranno pur altre storie, altre vite, altre vittime che hanno pagato la stessa colpa di Cesare. Ma non è lecito attendersi che il racconto del magistrato vada oltre. Ha già troppi impicci perché sia lecito pretendere che ammetta fatti di reato ancora nascosti di cui potrebbe essere stato parte o che potrebbe aver subito e non denunciato. Troppo poco perché possa trovare una risposta tranquillizzante la domanda «ma se hanno liquidato Mevio o Sempronio perché non dovrebbero averlo fatto altre volte?». La questione resta lì sul tappeto, in tutta la propria inquietante dimensione etica e giuridica, ma inesplorata. Eppure questo interessa, eccome, i consociati i quali avrebbero il diritto di sapere se – sia pure occasionalmente e sia pure a macchia di leopardo – quella separazione tra coniugi, quella causa di risarcimento, quella lite condominiale, quella denuncia o quel fallimento abbiano visto agire la consorteria clientelare venuta a galla in queste settimane o altre omologhe. La linea di galleggiamento del sistema giudiziario è alle soglie dell’affondamento, a dispetto delle centinaia di toghe oneste, capaci e laboriose che, comprensibilmente, vorrebbero che tutto questo passasse in fretta per tornare a lavorare e rendersi utili al paese. Ma il corpo morale della magistratura è inscindibile dal suo corpo istituzionale perché interamente costruito sulla fiducia dei cittadini e sul credibile esercizio di una enorme autonomia e dell’indipendenza. Se il corpo morale imputridisce per una cancrena circoscritta, ma non sanata, anche il corpo istituzionale rischia di soccombere. Ma di questo discuteremo un’altra volta abusando della pazienza di queste pagine.
Magistratura a rischio crac. Palamara come Craxi, con lui la magistratura può essere travolta così come la politica lo fu da tangentopoli. Alberto Cisterna su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. Una citazione in esordio non è proprio rispettosa del bon ton giornalistico, però a certe condizioni può agevolare la riflessione. Il libro è un capolavoro del misticismo politico (E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi, 1989, trad.it.) e a noi bastano poche righe dell’introduzione di Alain Boureau: «Agli inizi del XVI secolo un giurista elisabettiano, Plowden, afferma che il sovrano dispone di due corpi distinti: il suo corpo naturale, soggetto all’azione del tempo e della fragilità umana, può perire, mentre il suo corpo politico, perpetuo, passa da un individuo all’altro sfuggendo alla comune miseria e mortalità». La monarchia (inglese e francese) fonda così la ragione della sua perpetuità immanente». Il delicato rapporto tra le istituzioni e gli uomini che le rappresentano è tutto racchiuso in questa chiara enunciazione risalente ad alcuni secoli or sono. La corruttibilità umana non scalfisce l’imperturbabile grandezza del corpo politico che l’accoglie. Un parlamento, un capo dello Stato, un governo, una corte vive di questa immutabile forza che trascende le miserie, per fortuna transitorie, dei singoli e gli sopravvive. Per la magistratura le cose, a occhio e croce, dovrebbero stare allo stesso modo. La percezione di una crepa, più o meno vistosa, nelle condotte di singoli non dovrebbe essere capace di mettere in discussione la legittimazione politica e sociale dell’intera giurisdizione. Le cose hanno funzionato, bene o male, sempre in questo modo e per molto tempo; tra alti e bassi, tra eroi e traditori, tra fini giuristi e cialtroni semianalfabeti l’istituzione è comunque sempre sopravvissuta ai singoli peccatori. Ora però è forte la sensazione che le cose si siano messe in altro modo. Se si passa dalla denuncia della singola trasgressione alla condanna di comportamenti collettivi, il problema assume una dimensione diversa che non è solo quantitativa, ovviamente. Condotte diffuse, prassi condivise, connivenze generalizzate possono ledere il corpo politico dell’istituzione e privarlo in modo irrimediabile della propria regalità costituzionale. È già successo altre volte: a esempio le istituzioni politiche non sono più riuscite a mantenere quella centralità e quell’autorevolezza che pur la Costituzione assegnava loro, travolte, come sono state, da Tangentopoli, finanche abbattute da un solo libro (La casta) e ancora oggi sono fumanti le macerie di quel crollo. Settori importanti e accorti della magistratura – che un ruolo decisivo ha avuto, non solo nel perseguire i singoli reati (come giusto), quanto nel denudare il corpo esangue e infetto della politica e nell’elaborare una propria visione della legalità e del relativo controllo a prescindere dall’involucro formale delle leggi – percepiscono con lucidità quale pericolo si profili all’orizzonte in questi mesi di tempesta. In fondo la battaglia di queste settimane si incentra tutta intorno alla svestizione del corpo politico della giurisdizione. Lo scontro, a occhio e croce, è tra quanti ritengono di poter denudare il corpo umano del Re per colpire così la regalità dell’istituzione e quanti vogliono preservare la perpetuità solenne del suo corpo politico. Certamente il conflitto si immiserisce in espressioni anche volgari e in contumelie ai limiti del dileggio, ma la sostanza del problema resta tutta lì. Con l’ineguagliabile singolarità, tuttavia, che a privare il corpo politico delle sue stimmate regali sia stato lo stesso Re o, meglio, quello che sino a poco tempo or sono era considerato uno dei monarchi assoluti della corporazione. Chi grida alla “delegittimazione” compie un’operazione, tutto sommato, di scarsa lungimiranza politica e istituzionale, perché non coglie la dimensione più profonda della lesione “morale” inferta alla corporazione. Lesione che non proviene – come altre volte – dall’esterno delle mura ed era perciò destinata a fallire, ma dal suo interno con un gesto di abdicazione che (come la Storia italiana insegna) non è detto che lasci intatta la monarchia. Perché se è vero che il dottor Palamara è stato formalmente destituito dalla magistratura è anche vero che la sua appare piuttosto come una deposizione, l’esilio inflitto al Re ritenuto indegno e compromesso. Ma il corpo politico del Re sopravvive alla decomposizione del suo corpo umano alla sola condizione che non sia lo stesso Re a mettere a nudo la propria fragilità e, con essa, a denunciare la corruzione dell’istituzione che incarna. Quando ciò è accaduto gli effetti sono stati enormi: «questa crisi non è una semplice crisi politica di forze e di rapporti e relazioni tra le forze. Essa è in realtà la profonda crisi di un intero sistema. Del sistema istituzionale, della sua organizzazione, della sua funzionalità, della sua credibilità, della sua capacità di rappresentare, di interpretare e di guidare una società profondamente cambiata che deve poter vivere in simbiosi con le sue istituzioni e non costretta ad un distacco sempre più marcato». Era il 3 luglio 1992, a parlare era un altro Re, Bettino Craxi. Con lui cadeva senza più rialzarsi un intero sistema e il corpo umano trascinava con sé il corpo politico anche in ragione di quell’ammissione di colpe collettive e condivise che nessuno voleva udire e a cui però nessuno si poteva sottrarre: «Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». A volte la Storia consuma le proprie vendette in modo singolarmente audace ed imprevisto.
Magistratopoli e i suoi scandali. La luna di miele della maggioranza durerà finché la questione giustizia non chiederà di schierarsi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. Tutti a prendersela con la burocrazia, sempre pletorica e lenta, ma si tratta in realtà di un inganno, un trompe-l’oeil come i panorami dipinti sui muri settecenteschi. La burocrazia in Italia è quel che è perché nasce dalla paura. Paura di mettersi prima di tutto al riparo dai capricci e dalle assenze e vuoti della magistratura. La magistratura italiana è prima di tutto lenta in modo sconosciuto in qualsiasi altro Paese civile. E poi agisce ideologicamente. Naturalmente, ci riferiamo sempre a quel minoritario ma potente settore della magistratura, eccetera, come è sempre doveroso ripetere per non offendere tutti i magistrati bravi e buoni, che sarebbero forse anche maggioranza. Parliamo sempre di quel settore, di quei pochi “few, happy few, band of brothers” che però rendono poco felice la vita e il funzionamento della società. Dopo le confessioni di Palamara a Sallusti e i successivi dibattiti e interviste, si è aperto un filone ricchissimo di pepite, misteriosamente negletto da quella stampa e televisione che avevano fino a poche settimane fa retto la coda al governo più bello del mondo, il governo dell’avvocato venuto dal nulla. Palamara ha detto cose gravissime e terribili, ma poi sembra che si siano tutti distratti per la crisi di governo, senza aver afferrato il punto principale: Palamara ha detto – fra l’altro – che i processi contro il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi avvenivano in un “contesto” – parola illuminata da Leonardo Sciascia – in cui gli inquirenti traevano ispirazione per le loro azioni da un presidente della Repubblica che dirigeva il ballo. Palamara ha anche sottolineato che ciò è tutto sommato normale, cioè rientra nella norma, perché nella nostra Costituzione più bella del mondo il Capo dello Stato è anche Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dunque – sostiene Palamara – quando il Quirinale si impiccia, fa solo il suo mestiere e i magistrati eseguono, sempre secondo Palamara, senza parole, per allusioni, ci siamo capiti. Questa spiegazione-confessione ha acceso i riflettori su un mostro: quello di un conflitto extracostituzionale e non dichiarato e attivo, fra due poteri: quello del Presidente della Repubblica e quello del Presidente del Consiglio, quando il primo, nella sua autorità esente da controllo, sospetta o teme che il capo del governo minacci (dice Palamara) l’autonomia della magistratura. Facciamola corta: esiste alcun Paese moderno e occidentale, ma anche orientale purché democratico, in cui sia possibile un tale conflitto fra un eletto dagli eletti (il Capo dello Stato che gode di una legittimazione democratica di secondo grado rispetto a chi viene eletto direttamente come qualsiasi sindaco) e il capo del governo che dovrebbe essere l’espressione degli eletti? Domanda retorica. No, non esiste da nessuna parte. Ma da noi sì. Ma questo in fondo, pur non essendo affatto un dettaglio, è comunque un tassello di un puzzle che va guardato nella sua interezza. E che cosa mostra il puzzle? Che l’intero Paese è fermo perché terrorizzato sia dall’inazione che dall’azione della magistratura. Processi lentissimi che ammazzano fisicamente i contendenti secondo l’antico principio della Sacra Rota degli annullamenti matrimoniali che dovevano durare almeno vent’anni perché così, nel frattempo, uno dei tre protagonisti di un matrimonio in crisi, muore. La lentezza ammazza e questo lo sappiamo. Poi, oltre la lentezza c’è l’ideologia che appartiene a quella fetta di magistrati che non sono l’intero corpo, ma quanto basta per causare danni irreparabili. L’ideologia è punitiva, presume la colpa e nelle cause civili tutto dipende dalla voglia e tempo che il singolo magistrato ha da dedicare al dossier. L’ideologia prevalentemente sinistrese tende istintivamente a castigare il merito, equiparando gli ultimi ai primi specialmente là dove il merito costituisce la fonte energetica del progresso industriale. Quando gli stranieri valutano i rischi che correrebbero investendo in Italia, si fanno fare un rapporto sul funzionamento e i tempi della giustizia, poi dicono no, grazie, e se ne vanno, oppure restano infilandosi in una giungla di cavilli e spese supplementari che fanno passare la voglia. Lo stesso fanno le imprese italiane che, pur di non affrontare la pianta carnivora della giustizia, preferiscono produrre in Croazia o in Asia. Oltre a non favorire lo sviluppo dei virtuosi, questi atteggiamenti ideologici di una parte della magistratura lasciano prosperare tutto ciò che è sciatto, inadempiente, menefreghista, perché non esistono sanzioni a breve in un mondo il cui motto è: “e tu, fammi causa”. Tutto ciò il professor Mario Draghi lo sa benissimo e durante i due giri di consultazioni ha scelto di restare impassibile di fronte entrambe le parti: quella populista manettara e quella liberista. Quanto potrà durare l’atteggiamento che risponde alla fase della Sfinge? La formula di governo basata sulla maggioranza d’emergenza con dentro tutti, difficilmente permetterà a Draghi di dare immediati segnali di urgenza per una riforma della giustizia che finora, con la linea del DJ Guardasigilli Bonafede, è andata nel senso inverso rispetto a quello necessario per far ripartire l’economia. L’idea è che l’economia italiana fosse soltanto a corto di contanti, ma che appena arrivato il tesoro dei pirati, tutta la baracca riparta, alla festosa maniera degli anni Sessanta. Non è così non soltanto per l’economia, ma anche per la cultura, la scuola in mano agli incompetenti, l’università infestata dalle cosche accademiche e la ricerca che quando vuole davvero raggiungere risultati preferisce emigrare, così come fanno tutti i giovani talenti dopo aver annusato l’aria di casa e aver visto che non c’è giustizia, non c’è premio per chi è bravo, ma soltanto oscurantismo, lentezza, incertezza, castigo per i bravi e premi con cotillon per la massa dei mediocri dell’uno vale uno e anche mezzo. Il tema della ripresa è nel calendario delle urgenze ed è inevitabile che la questione del funzionamento della giustizia alla maniera dei Paesi normali balzi automaticamente ai primi posti facendo emergere un conflitto aperto fra le forze politiche dei volenterosi costruttori che si sono messi a disposizione di un premier che nasce con la camicia di un consenso a prima vista miracoloso. Non resta che stare a vedere, sperare e segnalare, nel nostro piccolo. Ma onestamente ci spaventa questa smargiassata mediatica dei pentastellati sul super-ministero fantasma scopiazzato da quello francese che ha prodotto più guai e tumulti di gilet gialli che occupazione e buona ecologia. Siamo pronti a scommettere che la luna di miele della maggioranza durerà fino a quando la questione economica della giustizia – prima ancora di quella etica e costituzionale – richiederà a tutti di decidere da che parte stare e a quale punto qualcuno dovrà perdere e qualcun altro dovrà vincere, come nelle vere partite e l’Italia dovrebbe finalmente essere autorizzata a giocare la propria senza trucchi, che poi sarebbe se non abbiamo capito male lo scopo del governo di Mario Draghi.
La testimonianza di un pm napoletano. I magistrati dimostrino coraggio: è ora di ribellarsi al sistema Palamara. Paolo Itri su Il Riformista il 13 Febbraio 2021. Nel mio recente romanzo Il Monolite (edizioni Piemme, ottobre 2019) ho descritto il mastodontico Palazzo di giustizia come la spettrale parodia del semidesertico territorio lunare dove gli ominidi di 2001 Odissea nello Spazio si scontrano tra di loro per il controllo di una fonte d’acqua. Il misterioso oggetto kubrickiano che dà il titolo al libro, così granitico e immutabile, non è altro, in effetti, che una metafora del potere, così come esso ci appare, fuori e dentro quel Palazzo e particolarmente dentro la Magistratura, dove il Monolite rappresenta l’incontrastato dominio delle correnti interne alla potentissima Associazione nazionale magistrati. Quelle stesse correnti che – secondo l’ormai famoso best seller a firma del direttore Alessandro Sallusti – hanno esercitato per decenni una subdola forma di prevaricazione nei confronti dei magistrati “disallineati” dal Potere o che si collocavano comunque fuori dal “Sistema”. Quando, nell’estate del 2019, completai il mio romanzo – all’epoca del mio autoesilio alla Procura di Vallo della Lucania -, ero ben consapevole che a causa di quel libro mi sarei fatto degli altri nemici (cosa che si è puntualmente verificata), eppure mai mi sarei immaginato il cataclisma che di lì a poco si sarebbe invece scatenato sull’onda del libro-intervista di Luca Palamara. In effetti il mio romanzo può per certi versi essere considerato l’antesignano dell’opera di Sallusti, laddove l’enigmatico Monolite rappresentava nient’altro che la materializzazione in termini metaforici dello stesso identico “Sistema” palamariano. E ne ho potuto parlare proprio in quanto ho provato sulla mia pelle cosa voglia dire essere emarginati da un tale “Sistema” di potere al quale non ho mai inteso sottomettermi né piegare le mie funzioni e la mia indipendenza, anche a costo di passare – nella migliore delle ipotesi – per un soggetto “originale” o un “cane sciolto”. Il prezzo che ho pagato è stato alto e non poche sono state le umiliazioni che mi è toccato subire sul piano professionale, per colpa di un Csm servo del potere delle correnti (questo lo dice Palamara, non io) e nonostante avessi un curriculum più alto della stessa statura fisica di alcuni dei colleghi che sedevano intorno a quel tavolo. Eppure io dico che ne è valsa la pena. Pare che oggi qualcosa si stia finalmente muovendo. E non mi riferisco di certo né alla politica e né alle varie istituzioni o articolazioni dello Stato che pure avrebbero il dovere di intervenire a fronte a uno sfascio del genere di quello descritto da Palamara, giacché la loro inerzia – peraltro del tutto prevedibile – costituisce forse il maggior riscontro alla esistenza del “Sistema”. E nemmeno all’imbarazzante silenzio della maggior parte degli organi di informazione – tranne alcune encomiabili eccezioni come Il Riformista -, poiché anche quello si spiega secondo la stessa identica logica omertosa. Ma bensì al fermento che sta in questi giorni montando in alcuni ambienti esterni all’Anm, quegli ambienti frequentati dalle anime più pure e genuine della magistratura italiana come Gabriella Nuzzi, Clementina Forleo e altri, dove è tutto un fiorire di iniziative, di progetti e di rinnovato entusiasmo e ai quali la soffocante e ottusa mano del potere non si è mai avvicinata perché sapeva di non trovare terreno fertile. Alcune di tali proposte sono già ben note, come quelle del sorteggio temperato per la elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura e della rotazione degli incarichi direttivi, proposte entrambe dirette a scardinare la malapianta del consociativismo associativo, che proprio sul mercato delle nomine fondava e fonda il suo immenso potere. Altre iniziative sono ancora allo studio, come la istituzione di una nuova associazione di magistrati destinata, dopo quasi 80 anni, a soppiantare l’Anm, il sindacato dei magistrati, che da istituzione nata anche con lo scopo di favorire il dibattito culturale e dialettico tra le diverse anime della magistratura è diventata, nel corso degli anni, sempre di più un vecchio arnese nelle mani di alcune ben individuate cricche di potere. Questo per quanto riguarda il futuro (auspicabile) della magistratura italiana. Ma per quanto riguarda invece le responsabilità, morali (o di altro genere) ascrivibili a coloro che hanno trasformato per anni una delle istituzioni fondamentali della Repubblica nel luogo di foschi ricatti, doppiogiochismi e minacce dipinto da Palamara? Allo stato, non sembra che la magistratura sia in grado di fare pulizia al proprio interno. Anzi. Appare perciò ineludibile che a occuparsi della faccenda – anche per consegnare alla storia nomi e cognomi di coloro che portano la responsabilità di un simile sfacelo – non possa essere che una Commissione parlamentare d’inchiesta di cui, affidandoci anche alla saggezza del presidente Sergio Mattarella, auspichiamo al più presto l’istituzione. Spetta infatti a noi, che abbiamo conosciuto e sperimentato il “Sistema” sulla nostra pelle, il compito di consegnare ai cittadini e alle future generazioni di magistrati una istituzione finalmente libera, indipendente e depurata dalle vecchie scorie della degenerazione correntizia.
Magistratopoli e i suoi scandali. Caso Palamara, punirne uno per salvarne tanti. Bartolomeo Romano su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. La metafora ciclistica dell’uomo solo al comando: questa sembra essere stata la semplice linea difensiva del sistema. Un uomo, solo, a guidare la potente Anm; un uomo, solo, nei corridoi, nelle stanze e nel Plenum del Csm. A volte, in effetti, la linea difensiva più semplice è anche la migliore. A volte. Non mi iscrivo nelle liste di innocentisti o di colpevolisti: noto, però, che Palamara è stato segretario e presidente dell’Associazione nazionale magistrati (2007-2012), e poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura (2014-2019). Difficile pensare che, da solo, percorresse corridoi e prendesse decisioni. Ho l’impressione che vi sia stata una certa voglia di “pena esemplare” (al di là e oltre le eventuali responsabilità individuali). Ma non per punire uno al fine di educare tanti; piuttosto, per punire uno e salvare tanti. Palamara è stato fulmineamente espulso dalla Anm e, con un procedimento disciplinare non consueto, è stato radiato dalla magistratura, credo di poter dire senza troppi approfondimenti e senza ascoltare i molti testimoni che avrebbe voluto citare. E nel collegio giudicante ha tenuto a rimanere Davigo, nonostante stesse per andare in pensione, probabilmente nel quadro del puro che emenda il più puro (o quello che una volta si riteneva tale: qualcuno ricorderà lo scontro Cossiga-Palamara…). Può accadere, però, che l’esemplare risposta del sistema si inceppi, anche a dispetto di un certo efficientismo punitivo. È quello che mi sembra sia accaduto in quello che è stato generalmente etichettato come “il caso Palamara” e che invece tende a nascondere, dietro il semplicistico capro espiatorio, un problema di sistema, come il libro-intervista di Sallusti a Palamara crudelmente rivela. Certo, occorrerà verificare se le verità di Palamara sono tutte verità effettive; ma l’impressione è che non si potrà più fare finta di niente. Mi viene alla mente la rivoluzione francese: certo, nata con nobili ideali, ci ha lasciato tracce indelebili, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la separazione dei poteri. Ma che – in chiave di superamento dell’ancien régime e della affermazione del nuovo – ha visto una corsa del puro superato dal più puro, con molte teste cadute sulla gigliottina, Comitati di salute pubblica, Terrore, legge dei sospetti. Sino a giungere, nel 1794, all’arresto di Robespierre e dei suoi collaboratori, il giorno successivo ghigliottinati senza processo. Di qui il Termidoro, la ricerca di nemici esterni e le guerre napoleoniche: ma la storia è nota. Tuttavia, a ripercorrere quella storia, mi vengono ancor oggi i brividi perché non mi sembra così lontana. Dopo la radiazione di Palamara, il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha preso atto della intervenuta pensione da magistrato di Davigo e ha concluso, secondo me a ragione, che egli non potesse continuare a rimanere al Csm quale Consigliere “togato”. Anche il puro più puro è stato dichiarato decaduto dal Csm… Invece, in un Paese serio, da quanto accaduto sarebbero derivate conseguenze serie. Sarebbe dovuta intervenire una riforma della legge elettorale del Csm che impedisse alle correnti di regnare (io ho sempre pensato a un sistema misto, con un ampio sorteggio e poi una votazione tra i sorteggiati). Certo, neppure questa sarebbe una riforma radicale, poiché toccherebbe il solo sistema elettorale; ma qualcosa è meglio di niente. Per essere chiari, a mio modo di vedere, una seria riforma dovrebbe attuare l’art. 111 della Costituzione, con l’ovvia e naturale separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici (ma evitando che i p.m. possano dipendere dall’esecutivo). Di qui, ovviamente, la presenza di due diversi Consigli Superiori della Magistratura: uno per i pubblici ministeri e uno per i giudici. Analogamente, occorrerebbe affrontare anche le diverse, ma connesse, questioni delle cosiddette porte girevoli (magistrati che entrano in politica e poi tornano a fare i magistrati) e del numero troppo elevato di “fuori ruolo” (magistrati autorizzati dal Csm, su richiesta della politica o di vari organi, e di loro stessi, a occuparsi di altro, rispetto alle questioni di giustizia). Se non saremo capaci di comprendere cosa è accaduto, e perché è accaduto, ci limiteremo – al massimo – a colpire la punta dell’iceberg. E la nave della giustizia tenderà sempre a galleggiare, riuscendoci solo a volte. E tutto sembrerà mutare, ma non cambierà nulla. Forse non è un caso, come ricordai ai miei Colleghi durante una seduta del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, che a Roma, a pochi metri dal Palazzo dei Marescialli, sia morto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mio illustre concittadino.
Palamara, la lepre. Liana Milella su La Repubblica il 7 febbraio 2021. Lui, il reprobo della magistratura, corre avanti. Loro, gli immacolati della giurisdizione, tentano di inseguirlo. Ma lui conosce i nomi di chi non ha rigato dritto (perché hanno parlato con lui), mentre loro non sanno (anche se tra di loro c’è chi sa). Quindi sono destinati alla sconfitta. Lui è Luca Palamara. Loro sono quelli dell’Anm e del Csm. Volete un esempio? L’Anm trascorre un sabato e una domenica dividendosi e contorcendosi su come reagire al libro di Palamara. Un fatto è certo, il libro l’hanno comprato e l’hanno letto. Lui, nello stesso weekend, distribuisce altre pillole di fatti, va dai Radicali, parla con La verità, e chiude la domenica con la seconda performance da Giletti a Non è l’arena. Forse pensa già a un secondo libro, “Il sistema” numero due. E loro? I poveri, quasi ex, colleghi (perché la rimozione dalla magistratura di Palamara decisa dal Csm non è definitiva, attende il verdetto delle Sezioni unite della Cassazione), litigano su come punire chi ha sbagliato. Ma la lepre, prima di cucinarla (purtroppo, perché io non mangio chi ha un cuore), bisogna prenderla. Prima di verificare quali violazioni sono state inflitte al codice etico bisogna conoscere nomi e fatti. Soprattutto analizzare i fatti. Bisogna avere le carte. E come sappiamo, l’Anm ancora non ce le ha. E qui, prim’ancora di cominciare, già ci si divide. Perché il sindacato dei giudici non è una cosa sola, c’è una maggioranza che lo governa, composta da quattro correnti - la sinistra di Area, la destra di Magistratura indipendente, il centro di Unicost, i davighiani di Autonomia e indipendenza - che contano ben 32 seggi su 36. Ma poi c’è Articolo Centouno, quattro colleghi (Andrea Reale, Giuliano Castiglia, Maria Angioni, Ida Moretti) che rifiutano le logiche di corrente, ma sono essi stessi una corrente. All’opposizione però. Sono quelli del sorteggio per il Csm. Adesso sono per andare fino in fondo, ma il prima possibile, sui colleghi che hanno sbagliato. Acquisendo subito le chat seguendo ogni strada. Puntano anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per via di quella circolare del 22 giugno in cui, fissando i criteri per valutare le chat, ha escluso che l’autopromozione fosse perseguibile. In realtà, a leggere bene il testo, la decisione deriva dalle norme sul disciplinare stesso. Lui, Salvi, scrive: “L’attività di autopromozione effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari, non essendo “gravemente scorretta” nei confronti di altri e in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari”. Ovviamente Articolo Centouno non è d’accordo, anche perché Palamara, in una pagina del suo libro, accenna a un incontro con Salvi alla vigilia di una sua promozione. Palamara corre avanti. Di certo non animato da buoni sentimenti verso chi gli ha strappato la toga di dosso. Ma c’è modo e modo di corrergli dietro. E soprattutto bisognerebbe correre...
Luca Palamara, i dubbi di Francesco Storace: "Perché parlava con Marco Minniti sulla nomina di Cafiero De Raho?" Libero Quotidiano il 27 febbraio 2021. Luca Palamara arriva fino in commissione Antimafia. Attorno all'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati ruota un altro mistero per cui il grillino Nicola Morra vuole andare fino in fondo. A svelarlo é il Tempo che definisce una vera e propria "rissa" quanto starebbe accadendo tra ex e tutt'ora alleati. Morra infatti vuole Palamara in commissione per sentirlo su alcune intercettazioni riguardanti quelli che Francesco Storace definisce "inquietanti dialoghi con l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti, esponente del Pd, che al telefono appariva come il grande protettore di Federico Cafiero de Raho, asceso poi a capo della procura antimafia". E ancora, rincara la dose "conversazioni imbarazzanti ma altro deve essere - sostiene più di un membro della commissione - il boccone ghiotto cui punta Morra". Cerca di starsene ben alla larga invece il Partito democratico, che teme le Intercettazioni da discutere visto e considerato che coinvolgono un suo esponente di spicco. Il quotidiano romano parla di fatti "discutibili scoperti solo dopo l'emersione del caso Palamara", che ha portato il magistrato fuori dal Csm. Ma quando tutto ciò non sembrava minimamente possibile, nel lontano 2017, Palamara vantava numerosi colloqui. Soprattutto in occasione delle nomine importanti della magistratura. Come quella di Cafiero De Raho, procuratore a Reggio, che aspirava alla procura di Napoli. Di lui Palamara parla con Minniti. "Situazione su Cafiero ancora in evoluzione ma faticosissima spero trovare ultima mediazione a dopo". "Perfetto. Grazie" risponde a sua volta Minniti. Ma niente Cafiero de Raho non riesce a diventare procuratore di Napoli. Palamara scrive a Minniti i voti: "9 voti Cafiero, 14 Melillo, 2 astensioni, Votato ora". "Perfetto" risponde Minniti, "Cerchiamo adesso di salvare il soldato de Raho. Il risultato in qualche modo lo consente". E ancora Palamara conferma: "Si il mio intervento in plenum è stato in questo senso". "Perfetto. Lavoriamoci" rimane d'accordo Minniti. Le conversazioni tornano assidue il 5 ottobre quando la commissione incarichi direttivi del Csm propone Cafiero de Raho procuratore nazionale antimafia. Palamara torna a fornire i voti a Minniti. Questa volta l'obiettivo è raggiunto. "Eccellente. Grazie", risponde Minniti. C'è qualcosa però che Storace non si spiega, perché il dem chiamava De Raho "soldato"? In che rapporti erano? Domande a cui Morra vuole dare risposte, ma il Pd storce il naso.
Palamara: “Mi impediscono di parlare in Antimafia. Avrei molto da dire su Borsellino”. Nuova bordata dell'ex presidente dell'Anm: "Politici e magistrati vogliono impedire la mia audizione. Sul caso Borsellino ancora molto da chiarire". Il Dubbio lunedì l'1 marzo 2021. ”Io mi sono messo a disposizione, anche io ho letto i giornali e ho letto che ci sono state addirittura richieste da parte alcuni esponenti politici, anche ex magistrati, di fare la conta per evitare di farmi andare”. Lo ha affermato l’ex capo dell’Anm Luca Palamara, intervenendo a ‘Non è l’Arena’, a proposito dell’audizione saltata in Commissione Antimafia. ”Quello che dovevo raccontare del mio libro – ha aggiunto – non ho nessuna difficoltà a raccontarlo in sede di audizione antimafia. Anzi, potrebbe essere anche quella l’occasione per affrontare dei temi che nell’ambito dell’esperienza consiliare abbiamo trattato sui rapporti Stato-mafia, sui mandanti delle stragi, su importanti esposti fatti dalla famiglia Borsellino”.
Borsellino e il “ricatto alla palermitana”: perché non ascoltare Palamara? L'ex presidente dell'Anm Palamara : "Politici e magistrati vogliono impedire la mia audizione. Sul caso Borsellino ancora molto da chiarire". Damiano Aliprandi su Il Dubbio martedì 2 marzo 2021. «Io mi sono messo a disposizione della commissione Antimafia, potrebbe essere una occasione per affrontare dei temi che, nell’ambito della mia esperienza consiliare, abbiamo esaminato come i rapporti tra Stato e mafia, i mandanti delle stragi e gli importanti esposti dalla famiglia Borsellino. Penso che sia l’occasione giusta per potermi consentire di parlare». Così ha dichiarato Luca Palamara durante la trasmissione Non è L’Arena, condotta da Massimo Giletti, a proposito dell’audizione saltata in commissione Antimafia per la mancanza del numero legale. La verifica delle presenze è stata chiesta da Pietro Grasso di Leu, accanto al quale si è schierato non solo il Pd ma anche Forza Italia. Gli unici a muoversi compattamente per l’audizione immediata di Palamara sono stati i componenti leghisti della commissione. Il problema è che se dovesse essere convocato nuovamente, c’è il rischio che venga ascoltato solo per la vecchia storia sulla mancata nomina al Dap del magistrato Nino Di Matteo. Roba già fin troppo sviscerata, ma nulla sulla vicenda delle deviazioni emerse all’interno delle correnti della magistratura e del Csm. Non solo.
Il rischio è che non venga sentito sugli esposti di Fiammetta Borsellino. Il rischio è che non venga nemmeno sentito per i temi che ha annunciato da Giletti. Parliamo soprattutto degli esposti presentati da Fiammetta Borsellino sui depistaggi nelle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. In particolare la figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio aveva chiesto di far luce sulle “disattenzioni” da parte dei magistrati che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ricordiamo che il gip ha archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, rilevando che «ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino», ma non è stata «individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati». Quindi per il gip, gli allora pm di Caltanissetta non hanno avuto alcuna responsabilità penale nel depistaggio accertato. Ma resta sullo sfondo, come ha scritto recentemente l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di alcune di quelle persone condannate innocentemente per la strage, che i pm sono stati «scarsamente aderenti ai criteri di valutazione della prova» e che purtroppo non tennero conto neppure dell’instabilità psicologica di Scarantino.
Non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni di Scarantino. Fatti che il Csm non ha voluto esaminare per una eventuale azione disciplinare, nemmeno simbolica tipo come la “censura” che equivale a un buffetto sulla guancia. C’è Luca Palamara che, prima di essere radiato, è stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Anche quando in seno alla prima commissione Csm si stava discutendo dell’opportunità di svolgere accertamenti nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio nel primo processo Borsellino. Forse potrebbe fare chiarezza, capire esattamente quale sia stato il vero motivo per cui si è deciso di non dare seguito all’esposto presentato dalla figlia di Borsellino. La verità ufficiale è che ciò sarebbe stato determinato dal troppo tempo trascorso che toglierebbe ogni efficacia all’intervento disciplinare del Csm. Tutto quindi si è fermato e non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni del falso pentito: ovvero Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano, Roberto Saieva e Ilda Boccassini, come aveva deciso invece il precedente Csm, il cui unico atto istruttorio era stata l’audizione del magistrato e ora membro del Csm Nino Di Matteo, oltre che l’acquisizione delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater. Se Palamara ha annunciato che ha qualcosa da dire, forse dietro la verità ufficiale si nascondono ben altre motivazioni? Un motivo in più per essere audito in commissione Antimafia, ma forse non basta. Per i temi annunciati ci vorrebbe una commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc, altrimenti c’è il rischio che si riveli del tutto inutile. A questo si aggiunge un altro aspetto che dovrebbe essere chiarito sempre per il rispetto dei familiari di Borsellino che chiedono con forza la verità.
L’interessamento di Borsellino a mafia-appalti. Uno di quelli è il discorso del procedimento mafia-appalti archiviato dopo la strage di Via D’Amelio. Oramai sono agli atti, per ultimo la sentenza di secondo grado del Borsellino quater, che la causa dell’accelerazione della strage è da ricercarsi nell’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti, lo scopo è di «cautela preventiva». Un fatto richiamato in diverse sentenze, ma mai approfondito fino in fondo. Ebbene nelle intercettazioni tra Palamara e il pm Stefano Fava si parla di un «ricatto alla palermitana». Si tratta dell’informativa della Guardia di finanza relativa ad attività tecniche rit. n 120/19 e 175/ 19. Riportiamo i passaggi in causa.
Le intercettazione dei colloqui tra Palamara e Stefano Fava. Palamara: «Però dopo lo sai che facciamo, facciamo un libro, io faccio un libro, no non sto scherzando…», Fava: (ride), Palamara: «’na specie di ricatto tu me dai le co…eh…e tutto… e diciamo quello che cazzo è successo…», Fava: «Il titolo è Ricatto alla Palermitana…», Palamara: «Questa adesso è una cosa che va oltre, no? Totalmente», Fava: «Ma se tu leggi quel libro là di… Gli intoccabili inc. le… cioè tu vedi come tutta la carriera di Pignatone è una fuga di notizie…», Palamara: «È così!», Fava: «Dall’ indagine mafia-appalti del ’91 in tutti i procedimenti dove c’era lui, gli indagati, lì era Felice Lima (all’epoca pm di Catania che raccolse la collaborazione di Li Pera e dove rivelò con precisione tutto il sistema appalti ndr), poi c’era Siino (fonetico), c’era Li Pera (fonetico) sempre avevano le informative, cioè sempre in tutti i procedimenti, poi arriva Cuffaro e Cuffaro nella vicenda Guttadauro, nella vicenda Aiello è andato a dire perché è stato condannato Cuffaro, perché Cuffaro dà un incarico a suo fratello Roberto Pignatone, il mio stesso Roberto Pignatone…perché Cuffaro ha dato la notizia a Guttadauro che era un medico e ad Aiello che era un altro medico che avevano le ambientali», Palamara: «Eh!», Fava: «Perciò è stato condannato, giusto?», Palamara: «Esatto», Fava: «e questi procedimenti chi c’era, Pignatone, perché all’epoca era braccio destro…», Palamara: «Secondo me pure per loro se lo mandano in Prima è un boomerang che se io le vado a fa ste dichiarazioni, no ipoteticamente mi chiamano, cioè saltano in area sia Cascini che Manci…cioè quelli che poi si devono dimette…».Precisiamo che sono solo intercettazioni, scambi privati tra due magistrati. Da sottolineare che Pignatone, in realtà, non è l’unico che si occupò del procedimento mafia-appalti: fu coassegnatario del procedimento soltanto sino alla data del 5 novembre del ’91. Non partecipò nemmeno alla stesura della richiesta di archiviazione inerente gli esponenti della politica e della imprenditoria, oggetto di attenzione da parte del Ros. L’aspetto che più colpisce è il “ricatto alla palermitana”, come se esistessero soggetti ricattabili a causa del loro passato. Sarebbe importante fare chiarezza su tutti questi aspetti, in particolar modo i primi anni 90 e ciò che sarebbe accaduto all’interno dell’allora procura di Palermo. Ricordiamo che la sentenza del Borsellino quater di secondo grado suggerisce di indagare anche su quel versante. La Corte ricorda che «non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dottor Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo». A tal proposito, richiamando la sentenza di primo grado, la Corte le attribuisce il merito di aver ricostruito «le ragioni del contrasto fra il dottore Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, Giammanco, ricordando come tale delega, più volte sollecitata dal dottore Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita».
I 5S: «Palamara in Antimafia? No alle influenze dei media, ci interessano le “scarcerazioni”» Per i componenti grillini della commissione Antimafia la priorità è proseguire le audizioni sul caso “scarcerazioni”: il caso mediatico per eccellenza. Damiano Aliprandi su Il Dubbio mercoledì 3 marzo 2021. «Riteniamo che non ci si debba far trascinare nel vortice mediatico portando in audizione qualcuno soltanto perché va di moda o qualche giornale lo richiede». Il riferimento è al caso Palamara e lo dicono i commissari del Movimento5 stelle della commissione Antimafia. Parole sagge quelle dei grillini, conosciuti per non seguire gli umori e sondaggi del momento, che non assecondano le indignazioni popolari scaturite dalla propaganda mediatica che insinua complotti e retropensieri. Sì, certo. Infatti nel loro comunicato, subito dopo dicono con toni autorevoli che hanno ben altro da seguire. L’audizione di Luca Palamara non è una priorità per loro, perché, dichiarano «abbiamo in sospeso tante altre audizioni urgenti che non richiamano l’attenzione dei media». Quali? Per caso l’esposto al Csm di Fiammetta Borsellino in merito all’indagine irrituale svolta dai magistrati di allora che si sono fatti passare sotto il naso il depistaggio sulle indagini di Via D’Amelio? Oppure i rapporti tra Stato e mafia, l’interessamento di Paolo Borsellino su mafia-appalti, tanto che alla sua ultima riunione alla procura di Palermo del 14 luglio 1992 ne chiese conto e ragione? Tutte questioni che i mass media non riportano con la giusta enfasi e per questo sconosciute all’opinione pubblica. No, nulla di tutto questo. Per i grillini della commissione Antimafia, la loro priorità è proseguire le audizioni sul caso “scarcerazioni”.Parliamo esattamente del caso mediatico per eccellenza. Chi non è a digiuno di diritto penitenziario sa che il tema del differimento pena per gravi problemi di salute, soprattutto durante il periodo pandemico, non è qualcosa di oscuro o indicibile, ma la messa in pratica della Costituzione italiana. La commissione Antimafia ha svolto numerose audizioni, molte incentrate sul discorso della famosa nota circolare che tanto ha destato scandalo grazie ai tanti giornalisti che sono a digiuno delle regole penitenziarie. Forse non è bastata nemmeno la voce autorevole del Procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, che ha ritenuto utile e doverosa la “famigerata” nota del 21 marzo 2020 del Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ha sottolineato che il contenuto della circolare è coerente con le disposizioni di legge e regolamentari in materia e peraltro anticipato dalle indicazioni di alcuni presidenti dei tribunali di sorveglianza, inoltre «risulta finalizzato a far prontamente conoscere ai giudici le situazioni di vulnerabilità, suscettibili delle loro indipendenti determinazioni». Ma i media non ne hanno parlato, quindi per i commissari grillini – i quali dicono però di essere immuni dalle propagande mediatiche – non è degno di nota. Ribadiscono che convocare Palamara non è una priorità: «L’Antimafia deve essere improntata ad un lavoro meticoloso, pianificato, finalizzato al raggiungimento degli obiettivi che ci si è prefissati e non dettata da improvvisazione». La commissione è stata così meticolosa che ancora non si è accorta che i tre reclusi al 41 bis “scarcerati” e poi rientrati dopo il decreto ad hoc dell’allora ministro Bonafede, in realtà erano e sono davvero gravemente malati. Due di loro, tra l’altro, sono prossimi alla fine della pena. Uno invece, come rilevato da Il Dubbio, ha gravi patologie psicofisiche. Eppure, al contrario di ciò che dicono, i grillini preferiscono seguire l’agenda dettata dai mass media.
"Il sistema ha la regola del 3": ecco l'ultima verità di Palamara. Luca Palamara è tornato da Massimo Giletti, dove ha svelato altre verità sul caos procure e sulla mancata audizione in Commissione antimafia. Francesca Galici - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Luca Palamara è tornato a parlare in diretta a Non è l'Arena dopo la pubblicazione del libro Il sistema, scritto da Alessandro Sallusti, in cui il direttore de Il Giornale ha raccolto le verità del magistrato sui retroscena della magistratura italiana. Luca Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha generato il coas nelle procure del Paese. Dopo aver raccontato le sue verità, il magistrato si è detto disponibile a mettersi completamente al servizio della magistratura per ridare dignità e credibilità all'organizzazione e fare finalmente luce su tutte le zone d'ombra. "Io mi sono messo a disposizione, anche io ho letto i giornali e ho letto che ci sono state addirittura richieste da parte alcuni esponenti politici, anche ex magistrati, di fare la conta per evitare di farmi andare", ha dichiarato Luca Palamara da Massimo Giletti a proposito dell'audizione saltata in Commissione antimafia. "Quello che dovevo raccontare del mio libro non ho nessuna difficoltà a raccontarlo in sede di audizione antimafia. Anzi, potrebbe essere anche quella l'occasione per affrontare dei temi che nell'ambito dell'esperienza consiliare abbiamo trattato sui rapporti Stato-mafia, sui mandanti delle stragi, su importanti esposti fatti dalla famiglia Borsellino", ha proseguto il magistrato a Non è l'Arena. Luca Palamara ha anche confermato il cambio di capo di imputazione a suo carico da parte della Procura che sta conducendo l'indagine: "Sì, la procura di Perugia ha modificato il capo d'imputazione nei miei riguardi, ora è corruzione in atti giudiziari. Ma non ne voglio parlare". L'indagine è stata possibile grazie all'utilizzo di un trojan installato nel telefono di Luca Palamara, che però nutre qualche dubbio in merito al suo corretto funzionamento: "È uno strumento che rischia di funzionare a intermittenza, alcune volte la voce si sente chiara e altre volte no, alcune cene le riprende e altre no. Io ho il massimo rispetto di chi indaga e di chi ha svolto indagine. La guardia di finanza è fatta da persone perbene, può capitare di sentire male le persone". Il funzionamento delle nomine nelle procure del Paese è stato spiegato da Luca Palamara nel libro scritto con Alessandro Sallusti e anche da Massimo Giletti è stato molto chiaro: "In una pagina del libro che abbiamo fatto con il direttore Sallusti diciamo che il meccanismo è spiegato molto bene. Si parlava della regola del 3: uno a me, uno a te, uno a lui. Quindi io non ci troverei nulla di male se il sistema continuasse in questo modo".
Lo sfogo del magistrato anticamorra. Così il sistema Palamara ha provato a negarmi la nomina in DDA. Paolo Itri su Il Riformista il 28 Febbraio 2021. La lettura del libro-intervista di Alessandro Sallusti e Luca Palamara sconvolge le nostre coscienze. Sembrerà strano ma, da magistrato, quel che più mi inquieta del racconto di Palamara non sono tanto le pure e semplici malefatte delle “correnti”. Il suk delle nomine, gli indegni accordi spartitori, il baratto delle prebende e i collegamenti con la politica sono fatti che, per quanto deprecabili, erano comunque più o meno noti. Che questo fosse l’andazzo era il segreto di Pulcinella (anche se il racconto dell’ex presidente dell’Anm ha il pregio di aprire squarci di verità su fatti e vicende specifici finora ignoti all’opinione pubblica e alla gran parte dei magistrati). Ma quello che più allarma è il clima di violenza che si respira, dalla prima all’ultima pagina del libro. Finora avevamo creduto che i contrasti tra le diverse correnti della magistratura associata si risolvessero pur sempre in una “semplice” lotta per il potere, per quanto aspra e condotta con metodi ampiamente illegali. Adesso, invece, con un senso di angoscia, apprendiamo di episodi di vero e proprio killeraggio e di strategie mirate alla delegittimazione dei magistrati più incontrollabili o invisi al Sistema. A sentire Palamara, puntualmente, in questi casi, la macchina del fango si metteva in moto per neutralizzare il malcapitato di turno, ovvero per impedirgli di concorrere a questo o quel posto di procuratore. E questo solo perché lo sventurato aveva avuto la sfortuna di essere inviso al brutale Sistema di potere delle correnti. È inutile girarci attorno: questa si chiama violenza. Una violenza odiosa, ignobile e ingiusta. Accanto alle spartizioni e alle miserevoli raccomandazioni, dal racconto di Palamara emergono poi diversi episodi di vera e propria bullizzazione in danno di non pochi magistrati. Chi non si piegava al Sistema, chi si dimostrava troppo indipendente o troppo poco sensibile alle lusinghe del potere veniva immediatamente emarginato o allontanato e delegittimato. È evidente che ci troviamo di fronte solo alla punta dell’iceberg. C’è un episodio di cui fui protagonista quasi venti anni fa e che, alla luce delle recenti rivelazioni, mi sembra emblematico. Ne faccio parola adesso per la prima volta. La vicenda (a cui faccio soltanto un breve accenno nel mio libro Il Monolite – Storie di camorra di un giudice antimafia) risale all’aprile del 2002, quando l’allora procuratore di Napoli Agostino Cordova decretò il mio ingresso nella Direzione distrettuale antimafia. La mia nomina fece particolarmente scalpore, non certo per una questione di mancanza di esperienza (nonostante la mia giovane età, infatti, potevo già vantare un notevole curriculum, avendo nell’aprile del 2001 ottenuto la prima condanna, a circa 500 anni di reclusione, di 41 tra capi e gregari del potentissimo clan Sarno di Ponticelli), quanto piuttosto per il fatto che non ero legato ad alcuna corrente e non avevo nessun santo in Paradiso a cui appellarmi, a fronte di altri candidati, ben più anziani di me, che aspiravano allo stesso posto e che erano molto più ammanigliati al Sistema delle correnti. Pare che la decisione di Cordova non venne presa molto bene, in particolare negli ambienti di una delle correnti, tanto che – per come mi fu successivamente riferito – uno dei concorrenti, deluso per il mancato incarico, si rivolse per interposta persona addirittura all’allora procuratore nazionale antimafia per cercare di bloccare la mia nomina che, proprio a causa di tale indebito “intervento”, subì un rallentamento di diversi giorni. All’epoca la cosa mi lasciò piuttosto indifferente, ma oggi, alla luce delle rivelazioni di Palamara, mi viene il dubbio che in quei giorni qualche “cecchino” abbia passato al setaccio la mia storia personale e professionale (senza però, a quanto pare, trovare nulla di interessante). Laddove l’episodio ricevesse conferma, sarebbe l’ulteriore riscontro al fatto che le capacità e il merito individuali non vanno d’accordo col potere, così nella società civile come in magistratura: il Sistema preferisce i servi sciocchi. La fedeltà al sodalizio della corrente è evidentemente un “valore” di fronte al quale il talento e l’indipendenza dei singoli magistrati cedono il passo, con conseguente irreparabile danno per l’istituzione e i cittadini. Nel frattempo, aumentano sempre di più le adesioni al recente appello trasmesso al Capo dello Stato affinché, con la sua autorevolezza, intervenga per avviare l’ormai non più differibile azione di recupero della fiducia di cui l’ordine giudiziario e la gran parte dei magistrati meritano di godere. A oggi sono 120 i colleghi che hanno sottoscritto il documento, nella speranza che qualcosa possa finalmente cambiare.
Parla l'ex magistrato anticamorra. “Meno indagini show e più trasparenza sulla crisi della magistratura”, la giustizia secondo Raffaello Magi. Viviana Lanza su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. L’ago della bilancia è sempre più spostato dalla parte delle indagini, come se quello fosse il momento in cui la giustizia dà la sua risposta certa, infallibile e imparziale. E così accade che le inchieste vengano spettacolarizzate o finiscano per incidere sul corso della vita politica di una città, di una regione, del Paese, o ancora che le nomine dei capi delle Procure diventino il centro d’interesse di logiche di potere come emerso dal cosiddetto caso Palamara.
Perché?
«Purtroppo è anche il frutto di una particolare velocità delle informazioni e della identificazione dell’indagine come luogo in cui già si stabilisce la verità dei fatti. È un fenomeno ormai antico ma devastante», spiega Raffaello Magi consigliere della prima sezione penale della Corte di Cassazione e già giudice presso il Tribunale di Santa Maria Maria Vetere dove ha firmato, tra le tante, la famosa sentenza del processo Spartacus, verdetto che definì il primo maxi processo al clan dei Casalesi.
Quanto influisce il protagonismo del singolo magistrato e quanto il sistema per come è strutturato?
«C’è sempre una componente umana e, se si smarrisce il senso del limite e della funzione, il protagonismo, quello del singolo ma anche quello mediatico che ci ha afflitto nell’ultimo ventennio, porta ad amplificare il ruolo della Procura e dell’indagine come luogo in cui si dà già una soluzione, cosa che ovviamente non è: quella che si forma in sede di indagini è un’ipotesi che ha un suo fondamento, altrimenti neanche sarebbe formulata, ma non la possiamo ritenere ancora una verità. A ciò si aggiunga un dato essenzialmente culturale, per cui occorrerebbe affidarsi a una migliore gestione del rapporto tra indagine e mezzi di informazione e a una sorta di opportuno senso del limite da parte di chi gestisce questa fase».
Il tema si collega alla crisi di immagine e di fiducia che la magistratura sta attraversando dopo il caso Palamara.
«L’idea che sta passando, e su cui bisognerebbe riflettere, è che certi incarichi di vertice in alcuni uffici, soprattutto in alcune Procure, siano il frutto di mediazioni dove al di là della competenza e della professionalità prevalgono altre logiche. Il che sta creando un effetto preoccupante di attacco alla credibilità generale della istituzione e degli uomini che in qualche modo la impersonano. È un aspetto serio sul quale bisogna intervenire innanzitutto al nostro interno per fare in modo che il desiderio di carrierismo e la volontà di emersione, che non appartengono a tutti – sono in magistratura da trent’anni e posso dire che moltissimi colleghi lavorano in condizioni di difficoltà e di anonimato avendo come unica stella polare l’affermazione dei diritti -, vengano contrastati da noi stessi magistrati, recuperando ciò che c’è già e cioè il piacere di risolvere i piccoli casi che tanto contano nella vita delle persone. Questa è la grande sfida da raccogliere. Parallelamente è necessaria una riorganizzazione degli uffici con la possibilità di figure intermedie che aiutino il giudice a svolgere una serie di attività e rendano più produttivi gli uffici in termini quantitativi. Siamo un Paese estremamente complesso e litigioso e questa tendenza sarà amplificata dalla crisi. Cerchiamo di fare in modo che non sia importante chi fa il procuratore capo di Roma o Milano e rimbocchiamoci tutti le maniche affinché le opportunità economiche che arriveranno servano a ridurre i tempi di trattazione dei processi e organizzare meglio gli uffici».
Sullo sfondo resta però il grande tema delle nomine, delle logiche di potere delle correnti in seno al Csm. Come evitare un nuovo caso Palamara per il futuro?
«Il nodo centrale resta quello delle Procure, infatti non mi risulta che ci siano state grandi questioni sulle nomine degli uffici giudiziari di tipo giudicante che invece hanno un’importanza strategica enorme perché sono quelli che offrono il servizio diffuso ai cittadini. Sulle nomine dei procuratori influisce un’idea sbagliata anche della componente laica della politica di poter in questo modo influenzare la linea futura di chi farà il procuratore capo indirizzando secondo certe strategie di priorità le attività di indagine. Serve innanzitutto un’operazione trasparenza con la pubblicazione, in maniera accessibile a tutti, delle pratiche di maggior interesse come quelle che riguardano le nomine degli uffici più grandi di Italia. Inoltre, strategie di decentramento delle funzioni, innalzamento dei requisiti di partecipazione al Csm da parte dei laici, autoriforma della magistratura associata che deve passare, e lo sta già facendo, per delle grosse forme di autocritica. Siamo in una fase di transizione estremamente delicata per la tenuta degli equilibri sociali, economici e della democrazia, quindi bisogna utilizzare le risorse in arrivo per mettere in campo delle riforme strutturali che riguardano i tempi della giustizia. Poniamoci soprattutto il problema di un recupero di credibilità che passi attraverso una risposta più rapida della giustizia, soprattutto di quella civile».
Magistratopoli e i suoi scandali. Commissione di inchiesta, perché è un istituto inutile e non va utilizzata per il Palamaragate. Frank Cimini su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Se il vero problema è la debolezza della politica, dubito che una commissione parlamentare di indagine su quanto avvenuto in magistratura di recente e anche prima possa restituire alla politica quella forza che aveva perso soprattutto per sua responsabilità. Dell’istituto della commissione di inchiesta è stato fatto un uso che ha finito per svuotarlo e renderlo poco credibile. A mio parere la sua utilità ed efficacia si ferma storicamente alla prima volta, quando nel Paese intero e non solo al Sud si negava l’esistenza stessa della mafia e quindi la commissione parlamentare di indagine fu lo strumento per sensibilizzare l’opinione pubblica. Tutto il resto della storia non convince. Porto l’esempio della commissione sulla loggia P2, quando strumentalmente si scelse di criminalizzare oltre ogni limite una lobby di potere al fine di autoassolversi per dimostrare di essere diversi dai “cattivi”. Con la commissione di indagine sul terrorismo e sul caso Moro è stato toccato il fondo. Le varie stagioni della commissione nelle sue diverse composizioni sono sfociate in mera propaganda, soprattutto per merito degli eredi di un partito che non c’è più, al fine di depistare dalla verità. L’obiettivo è stato unicamente quello di dimostrare che dietro c’era chissà chi, servizi segreti di mezzo mondo, per non fare i conti con la storia del Paese e con un fenomeno politico che ci si ostina ancora oggi a fare di tutto per non ricostruire nei suoi tratti fondamentali. C’è stato, in tempi di spending review, uno spreco enorme di denaro pubblico. Sono andati, anche per volontà della Procura generale di Roma, in via Fani con il laser quarant’anni dopo per scoprire che a sparare erano state solo le Brigate rosse e non tiratori scelti arrivati da un’altra galassia. Nel cosiddetto caso Palamara, che poi è il caso magistratura, la politica ha già avuto modo di brillare per la sua assenza, a cominciare da quei partiti che in anni recenti pure erano stati protagonisti di polemiche e di scontri con le toghe. Chi era arrivato a occupare con i parlamentari i corridoi del Palazzo di giustizia di Milano in occasione del processo per un pelo di quella lana poi – nel momento dell’emergere, alla luce del sole di un trojan, di traffici e inguacchi che di solito portano i comuni mortali in galera – è stato in pratica zitto. I politici avrebbero potuto saltare al collo quantomeno della magistratura associata intimando di tacere “perché siete come noi, anzi peggio”. L’istituzione di una commissione parlamentare di indagine non sembra in grado di portare risultati. Soprattutto in tempi di pandemia, con il prevalere della preoccupazione di non contagiarsi e per moltissimi di sopravvivere, le vicende della commissione sarebbero seguite dai più con distrazione. La politica, se ne ha volontà, può benissimo recuperare la sua forza senza ricorrere a uno strumento ormai sputtanato. Ma ne ha voglia?
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 26 febbraio 2021. Terzo tempo dell' operazione Palamara. Dopo la ribalta editorial-mediatica (il libro stravenduto come un romanzo d' appendice e pompato da Mediaset e Giletti) e la mobilitazione dei magistrati anti-corrente (che lo paragonano a Buscetta e si appellano a Mattarella per un repulisti nella categoria), chat e connesse «rivelazioni» aleggiano sulle massime istituzioni. Il presidente della commissione parlamentare antimafia Morra e il membro del Csm Di Matteo vogliono convocarlo. Ma non la spuntano. La commissione parlamentare si riunisce dopo sei mesi, ma Morra non ha più la maggioranza. Il M5S non lo difende più, il centrodestra lo detesta, il Pd vuole sostituirlo con Grasso. Al Csm la proposta Di Matteo ottiene solo tre voti su sei. Stallo. Dunque, come in un reality, per ora le audizioni di Palamara proseguono in tv.
Luca Fazzo per "il Giornale" il 10 febbraio 2021. Una convocazione a sorpresa, che toglie il caso Palamara dai talk show televisivi e dalle mailing list della magistratura e lo trasforma in caso istituzionale. Il prossimo 23 febbraio Luca Palamara verrà sentito davanti alla commissione parlamentare antimafia per decisione del suo presidente, il grillino Nicola Morra. Lì Palamara dovrà rispondere come sotto giuramento. E gli aspetti rilevanti ai fini della Commissione si annunciano più d' uno. È una svolta che arriva a poche ore dal segnale giunto da Catania dove ieri i magistrati i magistrati votano per eleggere i dirigenti locali dell' Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe di cui Luca Palamara è stato per anni il leader, prima di trasformarsi nel suo grande accusatore. Nel capoluogo etneo la corrente egemone è da sempre Unicost, il segretario generale Mariano Sciacca ha qui il suo feudo personale. Ebbene, ieri Unicost a Catania prende gli stessi voti della lista civica «Partecipazione e rappresentanza»: dietro c' è Articolo 101, il movimento che tutte le correnti storiche odiano perché lo considerano un gruppo di scriteriati antisistema, e che a Catania si presenta con proposte rivoluzionarie, come il sorteggio degli eleggibili al Csm e la rotazione dei capi delle procure e dei tribunali. Sono proposte che azzererebbero o quasi il potere delle correnti, e che per questo vengono fieramente osteggiate. Ma proprio per questo fanno il pieno: 103 voti, appena cinque in meno dei 108 di Unicost. La sinistra, Area, quasi non pervenuta: 30 voti. È il segnale che le accuse di Palamara sulla degenerazione del sistema, che Articolo 101 ha in larga parte fatte proprie, ormai hanno fatto breccia. A dare fiato al dissenso verso i vertici ci sono le testimonianze che in questi giorni arrivano dai magistrati che nel libro di Palamara e Alessandro Sallusti, Il Sistema, vedono ricostruite e spiegate le loro vicissitudini per non avere fatto parte delle cordate correntizie: da Clementina Forleo a Luigi de Magistris, fino a Alfredo Robledo, già procuratore aggiunto a Milano. Robledo va ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica e racconta per filo e per segno come sarebbe stato estromesso dalle indagini su Expo da parte di Edmondo Bruti Liberati, leader di Magistratura democratica e procuratore a Milano: «Siccome non sono mai stato controllabile doveva eliminarmi (...) mi vedeva bene lontano dalle indagini sulla pubblica amministrazione perché sono stato sempre indipendente e non ho mai abbassato la testa». Sono vicende di cui prima o poi dovranno occuparsi le inchieste giudiziarie: se non altro nei processi scaturiti dalle querele che alcune toghe hanno preannunciato in questi giorni contro Palamara: ieri è arrivata quella di Davigo nei confronti dell' ex pm e di Sallusti. Palamara per ora continua a mostrarsi sicuro del fatto suo, e incamera nel frattempo un risultato importante. A Perugia, dove l' ex presidente dell' Anm è imputato di corruzione e altri reati, il giudice preliminare Piercarlo Frabotta, chiamato a vagliare la richiesta di rinvio a giudizio spiccata dal procuratore Raffaele Cantone, invece di accoglierla - come spesso accade - senza andare per il sottile, la blocca spiegando in sostanza che non si capisce di cosa sia accusato Palamara per il periodo in cui non faceva ancora parte del Csm, ed era in sostanza solo il leader della sua corrente. Frabotta chiede a Cantone di «precisare il capo di imputazione» in relazione a questo periodo. Cantone avrà tempo ora fino al 22 febbraio per spiegarsi meglio. «Rispettiamo il lavoro della procura - commenta il legale di Palamara, Benedetto Buratti - ma da tempo sosteniamo l' indeterminatezza dell' accusa». D' altronde strada facendo l' indagine di Perugia aveva già perso per strada un pezzo rilevante, quando era caduta l' accusa di avere incassato 40mila euro per orientare la nomina del procuratore di Gela.
Morra indagato per le frasi dopo la morte di Jole Santelli: «Notizia dopo annuncio dell'audizione di Palamara». Il Quotidiano del Sud l'11 febbraio 2021. Il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, è indagato in un’inchiesta della Procura di Cosenza per diffamazione. Morra è stato querelato dalle sorelle di Jole Santelli, Paola e Roberta, dopo la frase pronunciata dal senatore del Movimento 5 Stelle subito dopo la morte della governatrice. Morra, infatti, aveva detto: «Sarò politicamente scorretto, era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c’era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso». Espressioni che avevano indotto Paola e Roberta Santelli, sorelle della governatrice, a sporgere querela. Dopo avere appreso di essere indagato, Morra ha affermato: «Dopo due giorni dall’aver divulgato la notizia della prossima l’audizione del Dott. Palamara in Commissione Antimafia, apprendo da un’agenzia di essere indagato per diffamazione». Attraverso i social, Morra ha aggiunto: «Ho il dovere-diritto della trasparenza, sarà un caso, certamente, due giorni fa ho dato la notizia della prossima audizione del dottor Luca Palamara in Commissione Antimafia, sarà forse qualche altra cosa, però, tutto potrebbe essere. Io adesso provvederò a segnalare la notizia, per come sono le regole del Movimento, a chi di dovere, ai Probiviri, al garante, e procederò tranquillamente, perché se ho sbagliato dovrò rispondere dei miei errori, se non ho sbagliato, come penso, tutto dovrà essere archiviato». Il presidente della Commissione Antimafia ha sostenuto: «Mi sembra francamente irrituale che quelle parole, che sono state oggetto di polemiche formidabili all’epoca, possono produrre un’inchiesta con l’ipotesi di diffamazione aggravata e continuata, però sarà la magistratura a dover decidere. Io intanto continuo e cercherò certamente di audire il dottor Palamara». L?avvocato Sabrina Rondinelli, legale delle sorelle Santelli, ha confermato all’Adnkronos: «Confermo che Morra è stato querelato, una volta a novembre e una a dicembre, e che c’è un’indagine della procura di Cosenza».
Gli insulti alla governatrice scomparsa. Nicola Morra indagato per le frasi diffamatorie su Santelli: ma il grillino evoca complotti e Palamara. Fabio Calcagni su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Parole che costano caro. Il presidente della della commissione parlamentare antimafia, il grillino Nicola Morra, è indagato dalla Procura di Cosenza per il reato di diffamazione aggravata e continuata. Il fascicolo su Morra si riferisce alle frasi espresse dal parlamentare dopo la morte della presidente della Regione Calabria Jole Santelli (“scelta e votata malgrado fosse risaputa la sua malattia oncologica” disse Morra a novembre). Frasi che innescarono la querela da parte delle sorelle della governatrice, Paola e Roberta, tramite l’avvocato Sabrina Rondinelli. Morra, nel prendere atto di essere indagato, evoca complotti. Per il presidente dell’antimafia non sarebbe un caso che la notizia della sua indagine esca due dopo quella sulla imminente audizione in commissione antimafia dell’ex giudice Palamara. “Un caso? Forse, chi lo sa – ha detto Morra in un intervento su Facebook – ne risponderò se ho sbagliato, altrimenti tutto verrà archiviato”. Quanto alle parole spese su Jole Santelli, Morra non fa marcia indietro: “Era noto a tutti che la presidente della Calabria Regione Santelli fosse una grave malata oncologica. Se però ai calabresi questo è piaciuto è la democrazia, ognuno deve essere responsabile delle proprie scelte”, queste le frasi dopo le quali le sorelle Santelli, Paola e Roberta, parti offese, presentarono querela. Morra ha ribadito che “provvederà a segnalare la notizia, secondo le regole del Movimento a chi di dovere, ai probiviri, al garante, e procederò tranquillamente perché, se ho sbagliato dovrò rispondere dei miei errori, se non ho sbagliato, come penso, tutto dovrà essere archiviato”.
Caos Csm, Morra: “L’origine di tutti i mali? La presenza dei laici in Consiglio”. Il Dubbio il 14 maggio 2021. Il presidente della commissione antimafia dopo lo scontro con l'ex consigliere del Csm sul caso verbali: «Ho sempre avuto stima di Davigo, stima che rimane immutata. Sono convinto che tutto si chiarirà positivamente per le parti coinvolte». «Sono convinto che la magistratura debba essere un potere indipendente: l’origine di tutti i mali è che un terzo dei componenti del Csm sia di nomina parlamentare, permettendo l’inquinamento tra potere legislativo e giudiziario». Parole e musica di Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, che interrogato sulla proposta di una Commissione di inchiesta sulla magistratura sferra un attacco non troppo velato alla componente laica del Csm, e quindi anche anche agli avvocati. Le parole di Morra non suonano nuove. Si tratta infatti dello stesso presidente della commissione antimafia che voleva introdurre un “bollino blu” per gli avvocati che certificasse la loro moralità e tenuta etica. E lo stesso Morra che in un impeto erdoganiano, aveva deciso che gli avvocati italiani erano troppi e andavano un po’ sfoltiti per risollevare le sorti della giustizia. Una passione, quella per gli avvocati, che Morra ha sempre condiviso con Piercamillo Davigo. Prima che le strade dei due si separassero a seguito dell’ultimo scandalo che ha travolto la magistratura. Parliamo del noto “caso verbali” di Piero Amara, quei verbali che Morra racconta di aver ricevuto da Davigo, secondo una versione dei fatti poi smentita dall’ex consigliere del Csm. Lo psicodramma è andato in scena in diretta Tv negli ultimi giorni. «Non gli ho mostrato nessun verbale», ha tuonato Davigo in studio da Giovanni Floris, a Di Martedì, smentendo dichiarazioni rilasciate da Morra solo poche ore prima, dallo studio di Massimo Giletti. Ma proprio oggi, a margine della conferenza stampa di presentazione della proposta di legge sull’apologia di mafia depositata dalla deputata M5s Stefania Ascari, Morra ha dichiarato: «Ho sempre avuto stima di Davigo, stima che rimane immutata. Sono convinto che tutto si chiarirà positivamente per le parti coinvolte».
«Morra dice che il guaio siamo noi laici? Sappia che il Csm non è l’Anm». Parla Alessio Lanzi, componente laico del Consiglio superiore della magistratura, dopo l’anatema scagliato dal vertice dell’Antimafia Nicola Morra. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 14 maggio 2021. «Mi sembra una dichiarazione dal contenuto semplicemente incredibile», afferma Alessio Lanzi, professore di Diritto penale all’università di Milano Bicocca e attualmente laico, indicato da Forza Italia, al Consiglio superiore della magistratura, a proposito delle dichiarazioni rilasciate dal presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra secondo il quale «l’origine di tutti i mali è che un terzo dei componenti del Csm sia di nomina parlamentare». Un curioso tentativo, in effetti, di additare la politica persino in una cornice in cui emergono piuttosto le degenerazioni del correntismo all’interno della magistratura, dunque casomai della componente togata all’interno dell’organo di autogoverno. Le considerazioni di Morra vedono conteso il “titolo” di notizia del giorno, nel campo della magistratura, dalla richiesta di pensionamento anticipato che sarebbe in arrivo da parte di Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze che era fra i candidati alla nomina di capo dei pm di Roma, e che ora è sotto procedimento disciplinare a palazzo dei Marescialli per via di presunte molestie nei confronti di una collega, emerse dall’uso proceduralmente irrituale delle solite chat di Palamara. In ogni caso colpisce che un esponente del Movimento 5 Stelle come Morra riesca a vedere il “male assoluto” nella politica persino adesso che emerge in modo chiaro una grave crisi tutta interna all’ordine giudiziario. Dell’anatema scagliato dal vertice dell’Antimafia contro i laici del Csm chiediamo appunto a uno di quelli attualmente in carica, il professor Lanzi.
Professore, cosa si sente di aggiungere alle affermazioni di Morra?
Guardi, dico solo che la presenza dei laici, e quindi di professori e avvocati, al Csm consente il corretto esercizio dell’autogoverno della magistratura.
Se non ci fossero i laici che tipo di Consiglio superiore avremmo?
Il Csm sarebbe la fotocopia dell’Associazione nazionale magistrati. Con in più i poteri di gestione delle toghe in tema di nomine e sotto il profilo disciplinare. Il tutto, però, senza alcuna legittimazione costituzionale. Veda un po’ lei.
Qual è il valore aggiunto dei laici?
I laici sono i rappresentanti della società civile eletti dal Parlamento. Vorrei ricordare che l’autogoverno della magistratura è finalizzato all’interesse del corretto esercizio della giurisdizione. Quando si discute di autonomia e indipendenza della magistratura è questo il senso.
Pensa che Morra non abbia ben presente questo carattere di garanzia che il Csm detiene?
Il suo è un discorso molto semplicistico di chi evidentemente non conosce la Costituzione. Il presidente dell’Antimafia potrebbe risentire di un pregiudizio nei confronti degli avvocati? L’avvocato al Csm, ripeto, è un professionista di area culturale designato dal Parlamento, è un rappresentate della società civile. Il Csm gestisce la magistratura nell’interesse della cittadinanza, non dei magistrati.
Bisognerebbe pensare sempre che l’interesse da tutelare è quello dei cittadini, insomma.
Esatto. Il Csm, tutelando l’interesse dell’amministrazione della giustizia, consente che la cittadinanza abbia una giustizia come si deve. Non mi stancherò mai di ripetere che il Csm non deve essere autoreferenziale, non è una corporazione.
D’altronde i laici sembrano essere rimasti fuori, in questi mesi, dalle polemiche sulle nomine e sugli incarichi.
Certo: nelle ormai celebri chat del dottor Luca Palamara non c’è un laico. Ci sono sempre e soltanto magistrati. Se non ci fossero i laici il correntismo dilagherebbe. Morra avrebbe incontrato l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo vicino alla tromba delle scale di Palazzo dei Marescialli…L’episodio si commenta da sé.
Il Pd vuole zittire Palamara: "Non parli con l'Antimafia". Il capogruppo dem in Commissione Mirabelli si oppone all'audizione dell'ex numero uno. Csm: "È inopportuno". Luca Fazzo, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Cosa importa all'Antimafia se il pm antimafia più famoso d'Italia fu osteggiato dalle istituzioni? Se poteri forti si mossero per impedire che Nino Di Matteo scavasse sul «livello occulto», vero o presunto, delle stragi? Luca Palamara nel libro-intervista di Alessandro Sallusti lancia flash inquietanti sui retroscena di quelle vicende. Eppure il Partito democratico si oppone alla sua audizione da parte della Commissione parlamentare antimafia, decisa l'altro ieri dal presidente grillino Nicola Morra. Quelli sollevati da Palamara per il Pd sono «temi che sulla lotta alla mafia c'entrano relativamente. Anzi, non c'entrano per nulla». A parlare è Franco Mirabelli, vicepresidente del Senato e capogruppo dem in commissione Antimafia. L'audizione dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati secondo Mirabelli è «inopportuna», e pertanto il Pd chiederà di ripensarci nel corso della prossima riunione del Comitato di presidenza. Ma Morra fa già sapere che andrà avanti per la sua strada. Convocare Palamara è doveroso, dice, perché i fatti che racconta «rappresentano un quadro desolante nell'azione di contrasto alle mafie da parte della magistratura italiana». Nel libro Il Sistema, Palamara racconta di come avvenne la revoca di tutti gli incarichi a Di Matteo da parte del procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho, dopo una intervista televisiva del sostituto. Palamara (che pure non nasconde di non amare Di Matteo) spiega che de Raho, «che di suo non è un cuor di leone», non fu il vero autore di quella estromissione. Lo stesso vale per il ripensamento successivo, quando de Raho rimette in sella Di Matteo: «Escludo che si tratti di farina del suo sacco». Palamara non indica il mandante, anche se ricorda l'irritazione di Napolitano per le indagini del pool di Di Matteo. In ogni caso è chiaro che se davvero scelte così delicate sono state eterodirette la cosa è clamorosa. Non secondo il Pd, però. E il senatore Mirabelli spiega bene quale sarebbe il rischio della convocazione di Palamara all'Antimafia: «Non capisco bene perché dobbiamo offrire una sede istituzionale a una persona che comunque ha subito provvedimenti disciplinari», dice l'esponente dem. Il problema, si intuisce, è evitare di fare da cassa di risonanza alle accuse di un reprobo. Ma anche su questo Morra ha una risposta: il rischio che Palamara strumentalizzi la commissione parlamentare c'è, «ma noi questo rischio lo dobbiamo correre». Perché la necessità primaria è capire se quello che racconta il libro è vero. La palla adesso passa ai componenti di centrodestra dell'Antimafia, che però da mesi non partecipano più ai lavori della commissione: è la protesta contro il presidente Morra e le sue battute disdicevoli sul defunto governatore della Calabria, Jole Santelli. Un Aventino che potrebbe rientrare una volta risolta la crisi di governo, e a quel punto è facile ipotizzare che la convocazione di Palamara sia condivisa dall'attuale blocco di opposizione. Che il fosco quadro dipinto dall'ex pm non sia frutto di fantasia, lo ammette ieri d'altronde anche Area, la corrente di sinistra della magistratura. Al termine di un comunicato assai duro verso Palamara, che viene tacciato di «gravissima disinvoltura», di omissioni faziose e di voler «lucrare un ricollocamento in politica», Area poi ammette che «la caduta etica del Csm, piagato dalle correnti e dai potentati personali», non l'ha inventato Palamara. Era ora.
Luca Palamara, il Pd si oppone all'audizione in Antimafia: "Non opportuna". Il sospetto: c'entrano le rivelazioni su Napolitano? Libero Quotidiano l'11 febbraio 2021. Il Partito democratico si oppone alla audizione di Luca Palamara da parte della Commissione parlamentare antimafia: decisione presa dal presidente grillino Nicola Morra. Per il Pd quelli di Palamara sono "temi che sulla lotta alla mafia c'entrano relativamente. Anzi, non c'entrano per nulla, spiega Franco Mirabelli, vicepresidente del Senato e capogruppo dem in commissione Antimafia. L'audizione, secondo Mirabelli, "è inopportuna". Il presidente Morra però ha già fatto sapere che non cambierà idea. "Convocare Palamara è doveroso, perché i fatti che racconta rappresentano un quadro desolante nell'azione di contrasto alle mafie da parte della magistratura italiana". Palamara, racconta nel libro di Alessandro Sallusti, come non fu il procuratore antimafia de Raho a revocare tutti gli incarichi del pm Di Matteo. Lo stesso vale per il ripensamento successivo, quando de Raho rimette in sella Di Matteo: "Escludo che si tratti di farina del suo sacco", scrive il Giornale. Palamara inoltre ricorda l'irritazione di Giorgio Napolitano per le indagini del pool di Di Matteo. Ma Mirabelli spiega il rischio della convocazione di Palamara all'Antimafia: "Non capisco bene perché dobbiamo offrire una sede istituzionale a una persona che comunque ha subito provvedimenti disciplinari". Arriva ancora la replica di Morra: "Il rischio che Palamara strumentalizzi la commissione parlamentare c'è, ma noi questo rischio lo dobbiamo correre", precisa. Anche Area, la corrente di sinistra della magistratura, al termine di un comunicato duro verso Palamara tacciato di "gravissima disinvoltura, di omissioni faziose e di voler lucrare un ricollocamento in politica", ammette che "la caduta etica del Csm, piagato dalle correnti e dai potentati personali, non l'ha inventato Palamara". Adesso la decisione dell'audizione di Palamara è nelle mani degli esponenti di centrodestra dell’Antimafia, i quali da mesi non partecipano perché in protesta contro il presidente Morra e le sue battute su Jole Santelli. Finita la crisi di governo è molto probabile che la convocazione di Palamara sia chiesta anche dai componenti di centrodestra dell'Antimafia.
Anche il "Corriere" scopre il caso Palamara. E il giudice che condannò il Cav attacca il Csm. Esposito querela l'ex magistrato ma chiede la testa del vice presidente Ermini. Massimiliano Malpica, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Palamara boom. Pian piano anche i più distratti e i più insospettabili si accorgono della portata devastante delle rivelazioni dell'ex numero uno dell'Anm, tornate alla ribalta con nuovi episodi e particolari con il libro-intervista all'ex magistrato Il Sistema, firmato dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti. Si è accorto del pasticcio pure il Corriere della Sera che ieri, con un editoriale di Ernesto Galli della Loggia, ha messo la riforma della giustizia in cima alle priorità dell'agenda del nuovo governo. Ricordando che dalla soluzione della «questione giustizia» dipendono molte cose, la più importante delle quali è «la fiducia dei cittadini nella legge e nello Stato di diritto». Una fiducia, insiste Galli della Loggia, che è «da anni ridotta ai minimi termini» sia per le distorsioni nella giustizia penale che per il «contrasto permanente tra magistratura e politica con il reciproco effetto di reciproca delegittimazione». Con un rapporto di forza sbilanciato, perché i magistrati «hanno in ogni momento il potere di mettere sotto accusa questo o quel politico». Insomma, lo squilibrio a favore dei magistrati è evidente. E porta diritto al problema-Csm che, insiste Galli della Loggia, voluto dai costituenti come «organo a presidio dell'indipendenza dei magistrati» è divenuto «il presidio degli interessi dei magistrati stessi () della loro virtuale intoccabilità. Cioè del loro potere in generale». Proprio il caso Palamara ha mostrato «la realtà del Csm: feroci lotte interne tra le correnti, spartizione spregiudicata degli uffici in base alle simpatie politiche dei candidati, predeterminazione perlomeno tentata dell'esito di alcuni procedimenti giudiziari (...) collusioni abituali con tutti i poteri della Repubblica». Insomma, urge «una radicale riforma del Csm», e sta a Mattarella dare la «spinta decisiva» per quella riforma, magari approfittando della fase di «buona volontà» che si è aperta, con il governo Draghi, tra le forze politiche. Ma pure Antonio Esposito, il magistrato che condannò Berlusconi, e che ha annunciato di voler querelare Palamara per le sue rivelazioni su quella sentenza e sul successivo procedimento disciplinare contro lo stesso Esposito, in un articolo sul Fatto Quotidiano sembra invece credere all'ex numero uno dell'Anm quanto alle rivelazioni sulla nomina di David Ermini a vice del Csm, decisa a tavola a casa di Fanfani alla presenza di Luca Lotti. Tanto che l'ex giudice ora si chiede «quale legittimazione abbia un vicepresidente eletto» con quelle modalità così poco ortodosse, domandandosi anche come Ermini «la cui elezione ha trovato la genesi in un accordo improprio, fuori del Csm, tra persone non legittimate di cui, in quel momento, due di esse (Lotti, deputato Pd, e Palamara) indagate» possa «sostituire e rappresentare al vertice del Csm il capo dello Stato». Intanto, Fdi ha presentato un suo disegno di legge per istituire una commissione parlamentare d'inchiesta per far luce sulle rivelazioni di Palamara, primo firmatario il senatore Alberto Balboni, vicepresidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama.
Parla l’ex pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. “Palamara è un ciclone, ma stampa e politica fanno finta di nulla”, parla Luigi Bobbio. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. «La questione non può restare isolata nella sua dirompente evidenza, anche se la stragrande maggioranza degli organi di informazione sembra aver steso un sudario su questa storia. Questa questione non può essere lasciata a qualcosa di estraneo e di esterno al tema generale di un’indifferibile e ormai urgentissima riforma non solo della magistratura, ma del sistema giustizia in generale». Luigi Bobbio è magistrato, ex senatore ed ex sindaco. Dopo la lunga esperienza come pm nel pool della Direzione distrettuale antimafia di Napoli è entrato in politica. «Dalla parte “sbagliata” – sottolinea tra virgolette -, cioè con la destra». Una scelta di campo per la quale ritiene di essere stato vittima «non dico di una volontà di colpirmi, ma della pesante suggestione negativa che la mia appartenenza politica poteva aver ispirato su alcuni magistrati», afferma ricordando i processi per corruzione e abuso d’ufficio dai quali è stato assolto con formula piena in Appello. «Non mi posso sottrarre a questa suggestione, a questa preoccupazione», aggiunge ripensando alla sua storia. E la preoccupazione di possibili finalità politiche sottese a una qualsivoglia indagine, un processo o sentenza torna a farsi strada adesso alla luce delle rivelazioni sul sistema di strapotere denunciato da Luca Palamara e descritto nel libro Il Sistema che l’ex esponente della magistratura ha scritto con il giornalista Alessandro Sallusti. «È un sospetto legittimo, un aspetto ulteriore della questione e certo non secondario», ribadisce Bobbio intervenendo al dibattito sollevato dal Riformista sul silenzio calato attorno ai retroscena rivelati da Palamara. Gran parte della stampa tace, la politica non interviene. «Mi sarei aspettato che tutti i vertici degli uffici giudiziari nominati da questo Csm e da quello precedente rassegnassero le dimissioni per consentire di sgomberare il campo da qualsivoglia dubbio o sospetto circa la legittimità delle loro nomine, invece non è accaduto. Solo qualcuno ha fatto ricorso e sarà interessante sapere come sono andati a finire questi ricorsi», dice Bobbio. Palamara ha scoperchiato il vaso di Pandora facendo rivelazioni su nomine e retroscena che hanno riguardato le Procure di tutta Italia – Roma, Milano e Napoli comprese – e spingendo la magistratura in una crisi di credibilità dinanzi all’opinione pubblica. «Ora ci vuole una commissione d’inchiesta, sono stato tra i primi a dirlo – spiega Bobbio – Una commissione modellata sul tipo di quella bicamerale Antimafia, quindi con poteri inquirenti pieni, totali, assoluti, che possa acquisire gli atti, le intercettazioni e tutto il materiale che non è stato valutato. Ma chissà se c’è intenzione di valutarlo», aggiunge riflettendo sull’urgenza di una riforma. «Va attuato pienamente l’articolo 107 della Costituzione – osserva il giudice – Bisogna arrivare non solo alla separazione delle carriere ma andare oltre, fare in modo che dell’ordine giudiziario facciano parte solo i giudici mentre il pm deve diventare un organo amministrativo». Confinare la pubblica accusa in un ambito non più giurisdizionale comporterebbe una responsabilità automatica dei pm. Inoltre, secondo Bobbio, sono maturi i tempi anche per ragionare su una responsabilità diretta dei magistrati e su sanzioni per limitare il potere di interpretazione delle norme. «Ci vorrebbero un Parlamento e un Governo non legati alla difesa dell’establishment giudiziario, che non ne siano vittime o sudditi – ragiona Bobbio – E bisogna spezzare i legami con l’informazione che vive di Procure e con le Procure. Quella della normalizzazione del sistema giustizia è la madre di tutte le battaglie: nessun governo, anche con una maggioranza che ha ottenuto il cento per cento dei voti, potrà fare leggi senza che prima o poi una di queste passi per l’imbuto giudiziario rischiando di essere cancellata se non gradita a un certo tipo di magistratura». E sulla questione morale delle toghe? «Il magistrato deve uscire da questa dimensione corale e collettiva, deve tornare a essere solo con il fascicolo e applicare la legge al fatto concreto. Basta con questa visione organicistica della magistratura. Per difendere ruolo e potere si finisce per perdere considerazione e credibilità».
La provocazione del decano degli avvocati. Basta magistrati narcisi, serve un po’ di sana autocritica. Salvatore Prisco su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Seguo sempre con interesse il dibattito che su questo giornale, fin dalla nascita e tanto nell’edizione nazionale quanto nelle pagine napoletane, si svolge sui problemi della giustizia e che è stato rinfocolato in questi giorni dalla pubblicazione dell’intervista del libro-intervista di Luca Palamara, già pm della Procura di Roma, presidente dell’Anm e membro del Csm, quindi radiato dall’ordine. La sua colpa, ossia l’avere assecondato la deriva correntizia e clientelare nella corsa agli incarichi al vertice degli uffici giudiziari, sarebbe – è la tesi autodifensiva – se non inesistente, certo condivisa da molti colleghi tuttavia non espulsi (insomma, “mal comune, mezzo gaudio e invece ho pagato per tutti”) perché era questo “il sistema”, che poi è anche il titolo del libro. Alcuni episodi toccano anche vicende che coinvolgerebbero magistrati partenopei, inquirenti e giudicanti. Vorrei sparigliare, non parlando di casi singoli, e riassumere invece le linee di una nota premessa a un numero speciale a mia cura e fra poco in uscita della Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione, dedicato appunto alla riforma del Csm. La Costituzione, onde garantire il governo autonomo dell’ordine giudiziario, costituì questo collegio del tutto particolare, formato anche da membri nominati dal Parlamento ma in maggioranza da magistrati ancora attivi ed eletti dai loro stessi colleghi, per vegliare sul corretto andamento delle carriere e giudicare gli illeciti disciplinari degli appartenenti alla corporazione: un consiglio di amministrazione delle vicende professionali di un corpo speciale di impiegati pubblici, insomma, né più né meno. Complice, peraltro, il progressivo indebolimento della politica rispetto ai poteri a essa esterni e di profilo tecnico e con una crescente delega alla magistratura dell’accusa a fare autoreferenzialmente pulizia nei campi prima del terrorismo, poi della criminalità organizzata, quindi della corruzione in tutti i settori della vita collettiva da essa inquinabili, l’organo è diventato invece nel tempo l’espressione para-parlamentare della degenerazione correntizia, alimentata dall’immagine di “militanti della pubblica virtù” dei loro aderenti, spesso solleticati in ambizioni personali dalla medesima politica che, attenta alla popolarità dei personaggi, li ha cercati per volgerla a suo vantaggio: anche in questo caso, se si parla di narcisismo e si guarda anche a certi uffici giudiziari napoletani di oggi, non si sbaglia. Non so se il prossimo Governo – dovendo gestire l’emergenza vaccinale e il Recovery Fund – se ne occuperà, ma una disarticolazione del potere delle correnti, riformando la Costituzione con la previsione del sorteggio per comporre l’organo e col portare fuori di esso la giustizia disciplinare, mentre si dovrebbe anche separare le carriere di magistrati dell’accusa e giudicanti, sarebbe il presupposto per avviare una sana spoliticizzazione dell’ordine, che beninteso non riguarda chi è intento alla quotidiana amministrazione della giustizia, ma i vertici delle sue correnti. I partiti sono stati oggi commissariati dall’azione combinata del capo dello Stato e di un “papa straniero”, per essersi delegittimati da soli; i magistrati hanno bisogno di una seria e profonda autocritica, per ritrovare la fiducia del popolo, il che è l’opposto che continuare a sollecitarne un’acclamazione giustizialista.
L'appello al Presidente della Repubblica. Il Palamaragate ha scoperchiato una magistratura fuori dalla Costituzione. Armando Mannino su Il Riformista il 4 Febbraio 2021.
Al Presidente della Repubblica Prof. Sergio Mattarella
Alla Presidente del Senato
Sen. Maria Elisabetta Alberti Casellati
Al Presidente della Camera, On. Roberto Fico
Con i Suoi ampi e motivati interventi del 21 giugno 2019 all’Assemblea plenaria straordinaria del Consiglio Superiore della Magistratura sul “caso Palamara” e del 18 giugno 2020 in occasione del quarantesimo anniversario dell’uccisione dei magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e Gaetano Costa e del trentennale dell’omicidio di Rosario Livatino, Lei ha ribadito i principi costituzionali di autonomia e indipendenza dell’Ordine Giudiziario, essenziali in un ordinamento democratico per perseguire il primato della legge; ma ha al contempo deplorato con il primo intervento la convinzione di alcuni magistrati di “poter manovrare il Csm” e la conseguente “pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi” (cioè di precostituire decisioni giudiziali non conformi alle prescrizioni legislative e quindi contrarie alla Costituzione); con il secondo le disfunzioni dell’Ordine Giudiziario, che hanno minato “la credibilità e la capacità di riscuotere fiducia” da parte dei cittadini, i quali hanno il diritto di “poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione”. La Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati nella sua intervista pubblicata dal Corriere della sera il 30 maggio 2020, ha affermato con estrema sintesi ed efficacia che «non esiste solo il problema Palamara…, ma esiste il problema della giustizia italiana… È in gioco il nostro Stato di diritto»! Secondo le due più alte cariche dello Stato è quindi incerta nel nostro ordinamento l’effettività dei valori che stanno a fondamento della convivenza civile: il principio di legalità, la certezza del diritto, la tutela dei diritti dei cittadini, il principio di uguaglianza: valori che dovrebbero essere perseguiti da un corpo di magistrati autonomi e indipendenti, subordinati alla legge, cioè incaricati di interpretarla e applicarla ai casi concreti non arbitrariamente, ma con razionalità e coerenza nel rispetto dei consolidati canoni ermeneutici. Se si ritiene che una conquista di civiltà come lo Stato di diritto sia quanto meno a rischio nel nostro ordinamento, vuol dire che almeno una parte della Magistratura, che ha il compito di applicare la legge nei rapporti sociali, non lo adempie, ma sostituisce ad essa la propria volontà. La pretesa dei magistrati di “essere la legge”, è purtroppo diffusa. Franco Coppi, decano dei penalisti, professore emerito, ha amaramente rilevato che «accade sempre più spesso, purtroppo, che certi pronunciamenti risultino incomprensibili all’uomo della strada e pure a noi avvocati… Certi episodi sono talmente inverosimili che temo di non essere creduto» (intervista a Il Foglio del’1 agosto 2019), mentre addirittura agghiacciante è la sua risposta alla domanda se avesse paura di farsi giudicare da questa giustizia: «Sì, avrei paura di farmi giudicare dalla giustizia italiana. Faccio mie le parole di un vecchio criminalista: “Se mi accusassero di aver rubato la Torre di Pisa scapperei immediatamente”. Lo diceva Francesco Carrara. Mi ritrovo» (intervista a Il Giornale del 19.06.2020). La tecnica con la quale i magistrati si sottraggono alla legge, negando giustizia, è ben nota, diffusa e collaudata. Fra i numerosi espedienti utilizzati ricordo, a solo titolo esemplificativo, quelli di non valutare prove rilevanti depositate in giudizio; di interpretare i contratti omettendo le clausole “non gradite” perché contrarie alla decisione che si intende prendere; di desumere da una disposizione lo stesso contenuto normativo di quella appena abrogata; di fondare la decisione su un presupposto di fatto la cui esistenza è smentita dalla documentazione depositata in giudizio; di non applicare senza alcuna motivazione la giurisprudenza consolidata della Cassazione, pur avendola richiamata; di non tener conto dei fatti incontroversi tra le parti, ecc.Questi esempi sono solo alcuni di quelli desumibili da 16(!) decisioni adottate da giudici diversi del Tribunale e della Corte d’Appello di Firenze, relative alle stesse parti e allo stesso rapporto: decisioni che tra l’altro non hanno tenuto conto, benché documentati, in un caso dell’omissione in un rendiconto di entrate per l’importo di circa € 48.000,00 (Tribunale di Firenze, Sez. 2, sentenza n. 1007/2017) e in un secondo del ripetuto inserimento con artifici contabili di medesime spese in esercizi diversi per l’importo di circa € 69.000,00 (Tribunale di Firenze, Sez. 2, decreto n. 9179/2018 del 28.05.2018, privo di una pagina di motivazioni (!), confermato dalla Corte d’Appello, Sez. 1, decreto depositato il 14.05.2019, numero illeggibile, in entrambi i casi senza valutare le irregolarità contabili di carattere generale e specifico rigorosamente documentate). Queste decisioni, incomprensibili alla luce del riconosciuto “alto livello di qualificazione professionale” dei magistrati, sono emblematiche delle disfunzioni dell’Ordine Giudiziario, che alcuni magistrati fanno risalire alle correnti interne dell’Associazione Nazionale Magistrati. È stato rilevato a questo proposito che «le correnti sono diventate cordate di potere non solo interne, ma anche esterne alla magistratura e condizionano la carriera e talvolta il lavoro quotidiano del magistrato» (A. Di Matteo, Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2019); che «la magistratura è governata da una oligarchia che non ha il minimo interesse per l’efficienza e l’indipendenza, ma persegue a qualsiasi prezzo solo i propri interessi. Primi tra tutti il controllo degli uffici con le nomine dei dirigenti e l’uso deviato del disciplinare…» (F. Lima, 4 giugno 2019); che «le correnti con la loro forza e la loro riconosciuta degenerazione hanno ostacolato l’effettiva indipendenza del singolo magistrato, creando centri di potere interni sinergici con settori della politica. Il tutto con comprensibile pericolo non solo per l’equilibrio tra i poteri costituzionali dello Stato ma addirittura per l’imparzialità stessa dell’azione giudiziaria» (Appello al Ministro di Grazia e Giustizia di 30 Magistrati, Italia Oggi, 31 luglio 2017). Anche Lei ha riconosciuto che «questo è il momento di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile. È indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati». Accolgo l’invito e metto le mie riflessioni e la mia esperienza a disposizione Sua, delle Camere, del Governo in via di formazione, delle forze politiche e specialmente di tutti quei cittadini che ogni giorno subiscono l’ingiustizia della nostra “Giustizia”, affinché ne conoscano le cause e possano pretendere l’adozione di misure urgenti per un radicale cambiamento. Interrogarsi sul ruolo e sull’utilità delle correnti (e quindi della stessa Anm di cui le prime sono componenti interne), ritenute causa dell’inefficienza e della mancanza di credibilità del sistema giudiziario, significa interrogarsi sulla libertà di associazione, che ne costituirebbe il fondamento. Per quanto diffusa, o addirittura unanime, non si possono tuttavia nascondere, specialmente alla luce delle disfunzioni sopra richiamate, le perplessità sulla conformità alla Costituzione di questa interpretazione. Ciascun magistrato, singolarmente considerato, è infatti un “Potere dello Stato”, abilitato a sollevare conflitto di attribuzioni presso la Corte Costituzionale. Non mi sembra, specialmente in mancanza di una norma costituzionale esplicita che lo consenta, che i Poteri dello Stato possano associarsi tra loro. Non a caso la Costituzione riconosce e garantisce la libertà di associazione ai “cittadini” (art. 18 cost. ). A ciò si aggiunge che le associazioni possono perseguire qualsiasi fine, anche di natura politica, che non sia vietato ai singoli dalla legge penale. Non vi è chi non veda il pericolo di un’associazione costituita da magistrati, in quanto tali dotati di poteri coercitivi della libertà personale dei cittadini, che potrebbero essere sviati dalla loro funzione per motivi politici. La Costituzione definisce ancora la magistratura come un “Ordine”, sottolineando così la sua natura “diffusa” e priva di un “vertice”. Ogni associazione, invece, ha una struttura organizzativa che esercita il potere al suo interno e che trasforma la pluralità di iscritti in un’entità che agisce unitariamente. Costituendosi in associazione i magistrati si sono pertanto trasformati da “Ordine” diffuso in un vero e proprio “Potere”, di fatto oligarchico, costituito dalle sfere dirigenti dell’ Anm e delle sue correnti interne. I magistrati costituiti in associazione, e per essi le loro correnti interne, facendo eleggere i propri candidati nel Csm – cioè nell’organo di rilevanza costituzionale rappresentativo di tutto l’Ordine Giudiziario in quanto eletto dalla totalità dei suoi componenti-, si sono appropriati di fatto, com’è noto, dei suoi poteri. Poiché dal Csm dipende tutta la carriera dei magistrati (dalle assegnazioni ai trasferimenti, dalle promozioni ai procedimenti disciplinari), le correnti sono in condizione, come lamentato da alcuni di loro, di incidere sulla loro autonomia e indipendenza, influenzando l’esercizio delle loro funzioni in violazione dei principi di autonomia, di imparzialità e di subordinazione alla legge. Mentre infine un “Ordine diffuso” per la sua parcellizzazione può essere difficilmente controllato da singoli individui, gruppi, centri di potere di qualsiasi genere, ecc., l’influenza sui vertici associativi da parte di soggetti esterni può essere molto più facile, rapida ed efficace. È stata giustamente ricordata a questo proposito (G.C.Caselli, Il Fatto Quotidiano, 21 luglio 2020) la radiazione dall’ordine giudiziario da parte del Csm dell’allora segretario della corrente “Magistratura Indipendente”, con il quale la P2 aveva stretto un “accordo programmatico” sorretto da “concreti aiuti”. Questo fenomeno eversivo, innestatosi sulla struttura associativa dei magistrati, è ormai lontano nel tempo. L’attenzione deve però rimanere vigile, perché sempre latente, se non addirittura effettiva, è la possibilità che si verifichi l’infiltrazione in essa degli interessi più diversi, la cui soddisfazione potrebbe essere facilitata e attuata con il controllo capillare sui singoli magistrati mediante le designazioni agli uffici direttivi disposte dal Csm su indicazione di soggetti privati: le sfere dirigenti dell’Anm e delle sue correnti interne. L’ulteriore controllo degli stessi soggetti sul procedimento disciplinare, privo tra l’altro di trasparenza, consente di non sanzionare le responsabilità che dovessero emergere. L’Ordine Giudiziario si è quindi radicalmente trasformato rispetto alle previsioni costituzionali in una struttura unitaria e oligarchica, vero e proprio Potere di fatto, privo di legittimazione democratica e di controlli. Questa trasformazione, da tempo divenuta di pubblico dominio, oggetto di preoccupati richiami da parte di Organi costituzionali, di interventi critici quotidiani sulla stampa e di proposte di riforma, fa seriamente dubitare dell’esistenza nel nostro Ordinamento dei requisiti di indipendenza e imparzialità del giudice previsti dall’art.47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, dall’art. 6 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 14 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici. Non sorprende pertanto che la fiducia dei cittadini nella credibilità dell’Ordine Giudiziario sia oggi profondamente attenuata, benché, come da Lei giustamente ammonito, sia “indispensabile al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica”. Occorre ricordare a questo proposito che la Corte Costituzionale, pronunciandosi sull’autonomia costituzionale delle Camere, ha affermato che «nello Stato costituzionale nel quale viviamo la congruità delle procedure di controllo, l’adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare si impongono al Parlamento come problema, se non di legalità, certamente di conservazione della legittimazione degli istituti di autonomia che presidiano la sua libertà» (Corte costituzionale, sentenze n. 379 del 1996 e n. 375 del 1997). È noto inoltre che il protrarsi della violazione dei diritti della persona, derivante da un uso arbitrario da parte delle Camere dell’istituto dell’insindacabilità, ha spinto la Corte Costituzionale a restringerne drasticamente l’interpretazione, in applicazione dei suddetti principi, rispetto a quella storicamente consolidata. Queste decisioni si estendono anche all’autonomia e indipendenza dell’Ordine Giudiziario, il cui abuso non solo incide sulle libertà e sui diritti dei cittadini in modo più intenso di quanto in passato avrebbero potuto mai fare le Camere, ma addirittura sullo stesso principio democratico. Non si deve dimenticare da un lato che la giustizia è amministrata in nome del popolo, la cui volontà si esprime nella legge, alla quale il magistrato è formalmente soggetto, ma da cui si può svincolare a sua discrezione e senza alcun timore; e dall’altro che numerose e note sono le carriere politiche stroncate da indagini penali prive di fondamento. Per riportare l’Ordine Giudiziario nell’alveo della Costituzione, superando le disfunzioni esistenti, sarebbe a mio avviso opportuno valorizzare la funzione rappresentativa dell’Ordine Giudiziario che la Costituzione, attraverso l’elezione, affida al Csm; spezzare di conseguenza il cordone ombelicale che lega il Csm all’Anm e alle sue correnti interne (le modifiche del sistema elettorale da sole non mi sembrano sufficienti); rendere effettive le garanzie di indipendenza dei magistrati da influenze interne e, specialmente per quelli titolari di uffici direttivi, anche esterne; sottoporre i magistrati a controlli di professionalità effettivi e diffusi, coinvolgendo pienamente anche l’Ordine professionale; valorizzare a questo scopo le decisioni di annullamento dei giudici di secondo grado e di legittimità, qualora fossero indice di una professionalità carente; affidare ai giudici di secondo grado e di legittimità l’attivazione della responsabilità disciplinare, qualora in sede di annullamento ne accertassero i presupposti, prevedendo adeguate forme di responsabilità in caso di omissione; rendere pienamente trasparenti tutte le fasi del procedimento disciplinare, mettendo quindi le Camere in condizione di verificarne periodicamente la funzionalità e se del caso di adottare i provvedimenti correttivi; valutare fin d’ora, alla luce della gravità delle disfunzioni esistenti, l’opportunità di intervenire sul procedimento disciplinare anche ricorrendo al la modifica della Costituzione. Sono sicuro che nella Sua qualità di rappresentante dell’Unità nazionale, e quindi dei valori supremi nei quali si riconoscono tutti i cittadini, saprà recepire la loro ansia di un rinnovamento radicale dell’Ordinamento giudiziario e, nell’ambito dei Suoi poteri, trovare le forme più adatte per la sua soddisfazione. Resto a disposizione Sua e delle Autorità competenti per fornire ogni informazione e documentazione attinente alle disfunzioni sopra rilevate nel Tribunale e nella Corte d’Appello di Firenze, le quali costituiscono il fondamento delle riflessioni sopra esposte. Ho infatti consapevolezza che dall’analisi delle 16 decisioni, che per ora si sono succedute nell’arco degli scorsi 15 anni, si potranno accertare le responsabilità di diversa natura eventualmente esistenti e desumere al contempo elementi significativi sia per la comprensione del funzionamento effettivo dell’Ordinamento giudiziario italiano e dell’intensità della sua deviazione dalla Costituzione e dalle norme comunitarie e internazionali sia per l’adozione delle conseguenti misure legislative.
Le porgo i miei deferenti saluti.
Nessuno li ferma. I magistrati non sono troppo corrotti, ma troppo potenti. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. La magistratura non è più corrotta rispetto a quanto mediamente si registrerebbe, semmai vi si indagasse, presso il restante della pubblica amministrazione. C’è però una differenza a rendere incomparabile il pericolo rappresentato da un ordinamento, quello giudiziario, che è venuto giustapponendosi in questa centrale di malversazione. Con l’ovvia ma dovuta avvertenza che in essa non milita un buon numero di magistrati rigorosi e specchiati – i quali semmai subiscono a loro volta il degrado di quel sistema – la differenza è questa: che il malandrino ministeriale, il consigliere regionale trafficone, il largitore di pensioni ai finti invalidi, l’esattore del pizzo di Stato e insomma i responsabili dell’illegalità pubblica fanno pur male alla società, ma ancora non hanno il potere di giudicare le persone e di imprigionarle. Quel che rende intollerabile l’aberrazione corruttiva del potere giudiziario non sta dunque nel livello dopotutto ordinario e ricorrente di quel malcostume spesso sconfinante nell’illegalità vera e propria, ma nel fatto che a rendersene colpevole è un pezzo di Stato che prende la libertà, la reputazione, il patrimonio, la vita delle persone e ne fa ciò che vuole al coperto di una irresponsabilità assoluta. E dirò anche meglio. Proprio sulla titolarità di quel potere e proprio sulla libertà di esercitarlo irresponsabilmente la magistratura deviata organizza la propria azione nei traffici per le nomine, nella manutenzione dei privilegi castali, nelle cospirazioni correntizie, negli aggiustamenti dei collegi giudicanti, nell’interlocuzione ricattatoria e sostanzialmente mafiosa con il potere politico. È sull’immagine delle manette e delle sbarre di galera, sulla facilità del tratto di penna che decreta il sequestro di un’azienda, sul rumore degli elicotteri e sugli urli delle sirene nei rastrellamenti giudiziari che si fonda il potere di fatto della magistratura, un dominio arbitrario che ha messo nel nulla lo Stato di diritto e l’ha trasformato nel possedimento di questo mandarinato che non si arresta davanti a nulla perché può arrestare tutti, che si assolve da tutto perché può condannare chiunque. Magistratopoli non è il legno storto della giurisdizione: è l’impunità dei più uguali degli altri, garantita dall’armamento di terrore che essi oppongono a qualsiasi critica, qualsiasi dissenso, qualsiasi istanza di riforma. È l’ingiustizia protetta dalla giustizia.
La “fiducia nella magistratura” che mortifica il diritto. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Premessa (un po’ stracca ma ancora necessaria): quando diciamo “magistratura” non ci riferiamo all’insieme dei magistrati, ma alla struttura corporativa e all’irresponsabilità castale che ne protegge il potere. E fatta questa precisazione diciamo che non se ne può più di ascoltare il politico di turno che, lambito da un’indagine, dichiara di avere “fiducia nella magistratura”. Non nella magistratura, infatti, ma nel diritto bisognerebbe avere fiducia: perché avere fiducia nel diritto è l’unico strumento per tentare di difendersi dalla prepotenza giudiziaria; mentre proprio l’immotivata fiducia nella magistratura, con l’arroganza di cui essa si carica grazie a quel tributo fideistico, è causa della mortificazione del diritto cui quotidianamente si assiste. Alla luce di questa verità, evidente agli occhi di chiunque li tenga aperti sullo stato della nostra amministrazione della giustizia, non si capisce per quale motivo il politico ghermito dal tentacolo giudiziario senta la necessità di reiterare quella manifestazione fiduciaria: come se questo certificasse sensibilità istituzionale ed equilibrio civile anziché risolversi – perché di quest’altro si tratta – in una specie di goffo inchino adulatorio. Giusto l’altro giorno l’ha fatto il senatore Matteo Renzi (ma è solo uno dei tanti), appunto ripetendo che lui “ha fiducia nella magistratura” che pure ha sottoposto lui e il suo partito a qualche attenzione forse un po’ orientata. Bisognerebbe smetterla con questa cantilena idolatrica non solo perché lo svelato immondezzaio della magistratura corporata la rende inascoltabile: è proprio in linea di principio che non va bene, perché a nessuno verrebbe in mente di professare fiducia nell’editoria, nel notariato, nell’agricoltura o nella ristorazione slow food, tutte cose buone se chi le fa è bravo, non perché c’è qualcuno incaricato di farle e pace se le fa male. E il guaio è che la dichiarazione di fiducia nella magistratura cui si lasciano andare questi politici non rinvia all’ovvia necessità di riconoscere che c’è un sistema costituzionale posto a disciplinare i poteri di chi accusa e giudica (ci mancherebbe che fosse diversamente): rinvia al presunto obbligo di omaggiare “questa” magistratura e i suoi capibastone, “questa” magistratura e la pompa dei suoi modi, “questa” magistratura e la sua impassibilità reazionaria, “questa” magistratura e il suo giustapporsi eversivo. Una conseguenza inevitabile se si scambia il rispetto della legge con la devozione sacrale per chi ha il potere di applicarla. Dal politico – ma da chiunque – sottoposto alle cure di giustizia sarebbe bene che venisse un atteggiamento diverso, e cioè una manifestazione di fiducia nei confronti del diritto e dello Stato di diritto: con la speranza, con la richiesta, con la pretesa che essi si affermino esattamente contro un certo modo di intendere la giustizia e di amministrarla. Che poi anche la fiducia in quest’altra faccenda – il diritto – sia messa a durissima prova è un altro discorso: ma è la sola cosa che rimane. E si dimostra fedeltà alla Repubblica, e al poco di democrazia che ancora la innerva, quando si rimane in piedi nell’appello al diritto: non quando ci si abbassa per baciare la pantofola del potere togato.
Crolla la fiducia nella magistratura. Palamara o Gratteri, la giustizia non conosce una terza via. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Abbiamo scritto più volte, e tante volte anche su questo giornale, di quanto sia stupido, irresponsabile, pigro dichiarare “fiducia nella magistratura”. Decenni di malversazione del potere giudiziario obbligano infatti a non avere proprio nessuna fiducia nell’amministrazione della giustizia e in quelli incaricati di gestirla, e semmai bisogna – per quel che ancora si può – avere fiducia nel diritto, nella possibilità che esso si affermi non ostante e anzi contro il sacerdozio togato che ne fa carne di porco. E tuttavia non ci rallegriamo del crollo di credibilità della magistratura raccontato dai sondaggi circolanti in questi giorni: e quando vediamo che quel monito (“abbiamo fiducia nella magistratura”) magari esce ancora meccanicamente di bocca al politico di turno, ma davvero non è più accreditato presso la maggioranza dei cittadini, sentiamo che un altro bene importante è andato perduto. Ed è un’altra responsabilità – gravissima anche questa – dell’eversione giudiziaria: aver privato il cittadino che sia vittima di un sopruso del potere pubblico o privato, dell’arbitrio di chi ha più mezzi e agganci, della slealtà di chi si mette sotto i tacchi ogni regola per imporre la propria, averlo privato della speranza che almeno ci sarà un giudice cui fare appello per veder riparata quell’ingiustizia. Quella speranza, semmai c’è stata, non c’è più, ed è sostituita dalla richiesta di un po’ di manette e un po’ di galera, una pretesa abbondantemente ripagata dalle assicurazioni della magistratura televisiva che volentieri offre la propria disponibilità per la realizzazione di quel bel programma. Ma proprio mentre si incattivisce questo cortocircuito civile, con la fiducia nella magistratura pervertita nell’istanza forcaiola, si registra appunto il decadimento della credibilità pubblica di quella corporazione: con il risultato che la giustizia è percepita e desiderata, alternativamente, come cosa esclusivamente corrotta o puramente violenta. Per capirsi: o Palamara o Gratteri. La speranza nella terza possibilità – e cioè nello Stato di diritto – ci è sottratta. E a sottrarcela è la combinazione di quelle due degenerazioni, il doppio tratto distintivo della giustizia italiana: traffici nelle nomine e rastrellamenti giudiziari.
Il Palamaragate fa crollare la fiducia nei magistrati, per il 70% “Agiscono per fini politici”. Massimiliano Cassano su Il Riformista l'1 Febbraio 2021. La maggior parte degli italiani dichiara di avere “poca” fiducia nella magistratura. Secondo un sondaggio commissionato dal quotidiano Libero e realizzato da AnalisiPolitica, il 39% degli intervistati ha ammesso di non sentirsi abbastanza protetto dalla giustizia. Il 19% rivela di non esserlo “per nulla”, mentre solo il 7% ha risposto di avere “molta” fiducia nella magistratura. “Abbastanza” è la risposta del 30% del campione. Pesa probabilmente il Palamara-gate, sollevato dal libro scritto dall’ex membro del Consiglio superiore della magistratura, che ha rivelato dal suo punto di vista i lati oscuri e gli intrighi politici dietro la gestione delle nomine delle toghe. A specifica domanda se si percepisca l’azione penale dei magistrati come “guidata da fini politici”, il 33% degli intervistati si è detto “molto d’accordo”, e il 37% “abbastanza”. Da una chat intercettata tra Palamara e un suo collega erano emersi anche messaggi in cui l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati dichiarava che Salvini andasse “attaccato” sulla gestione dei migranti. La maggioranza assoluta del campione pensa che “un magistrato che sbaglia debba essere responsabile della propria azione”, con il 54% “molto d’accordo” e il 33 “abbastanza d’accordo”. La giustizia è in generale ritenuta di parte e incapace di restare imparziale. Solo il 24% degli intervistati pensa che i giudici agiscano da persone totalmente “terze” rispetto alle parti. Processi troppo lunghi, tasso troppo alto di impunità per i reati minori, e soprattutto quella che il procuratore generale di Napoli Luigi Riello ha chiamato “l’altra pandemia” (il caso Palamara) sono le cause di tanta sfiducia, individuate nella giornata di inaugurazione dell’anno giudiziario per il 2021. “Questa aula vuota mi sembra la metafora di una giustizia che rischia di diventare autoreferenziale e isolata dal Paese reale”, ha dichiarato Riello intervenendo nella grande sala Arengario del tribunale di Napoli. “Noi che ci scagliamo contro i politici corrotti – ha aggiunto – non possiamo nascondere fatti che sono avvenuti all’interno del nostro organo di autogoverno”.
Luca Palamara, l'ex pm a Libero: "Ho fatto parte di un meccanismo. Ora voglio riformare la magistratura". Emilia Urso Anfuso su Libero Quotidiano il 05 novembre 2020. È al centro di una vicenda complessa scoppiata in seno alla magistratura, e che ha trovato - almeno apparentemente - un solo protagonista, un unico colpevole: Luca Palamara. Eppure, basta scavare un poco tra le pieghe di questa storia per capire che non ha senso urlare allo scandalo. In queste ore circola la storia della "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali per far saltare le trattative sul nuovo vertice dei pm di Roma. Pare una spy story «Non sta a me stabilire se esista o meno una "manina" che avrebbe passato le carte ai giornali con riferimento a fatti e notizie che riguardavano l'indagine nei miei confronti. Ciò che è certo è che anch' io sono interessato a comprendere come e perché determinate informazioni siano state divulgate e diffuse in maniera illecita».
Perché ciò che è considerato normale in politica non lo è all'interno della magistratura?
«In questo momento, e sottolineo in questo momento, è stato più facile identificare nella mia persona l'unico autore degli accordi all'interno delle correnti. Ma ciò è accaduto perché non è mai stato spiegato il meccanismo attraverso il quale le correnti operano all'interno della magistratura stessa. Questo ha creato una sorta di diversità tra ciò che avviene in politica e ciò che avviene in magistratura. Intendo dire che, poiché mai stato reso pubblico il sistema delle nomine all'interno del Csm, quando si è iniziato a parlarne si è gridato allo scandalo. I cittadini conoscono il sistema delle nomine in politica e perciò non lo ritengono scandaloso».
Il Csm sembra non trovare pace anche sulla nomina in sostituzione del dimissionario Mancinetti.
«Non ritengo di essere la persona più indicata a rispondere alla domanda. Posso dire ciò che penso: non si è raggiunto un accordo tra le correnti».
Di recente è entrato a far parte della Commissione sulla riforma della giustizia del Partito Radicale. Una giustizia giusta è possibile?
«Per circa 25 anni ho operato all'interno della magistratura, e ho sempre seguito la linea dell'applicazione imparziale della legge. Avrò modo e occasione, spero, di dimostrare che mi sono sempre battuto per i principi di una giustizia giusta. Per questo motivo, ho ritenuto di voler mettere a disposizione l'esperienza della mia attività per chi si è sempre battuto per questi principi, anche se ho espresso nel corso degli anni diversità d'opinione e d'idee su determinate questioni. Però, poiché ritengo che il tema della giustizia molto importante per la vita dello Stato e dei cittadini, voglio mettere il mio bagaglio personale e professionale a disposizione di tutti».
È stato denominato "Il caso Palamara" ma sarebbe stato più corretto denominarlo "Il caso magistratura". A un certo punto sembrava addirittura che la magistratura fosse composta di un solo elemento: lei. Mi sono fatta l'idea che tutto nasca dalla frattura tra Unicost e Magistratura democratica e la nuova alleanza con Magistratura indipendente. È così?
«La mia storia politica e associativa è caratterizzata da un'alleanza tra la corrente di Unicost e le correnti della sinistra giudiziaria. Quando quest' alleanza si è affievolita, in special modo nell'ultimo periodo, in occasione della nomina del vice presidente Ermini, si è verificato uno scostamento maggiore verso l'area moderata, e sono iniziati a nascere problemi che a un certo punto hanno riguardato direttamente la mia persona».
Mi dica la verità: lei è più potente di quanto voglia far apparire? Perché tutto quest' accanimento contro di lei? Cosa può aver mai ordito che gli altri non potessero?
«L'idea dell'uomo solo al comando non mi è mai piaciuta e non mi sono mai sentito tale. Sono stato semplicemente un magistrato che in una fase della sua vita ha fatto parte di un meccanismo, quello delle correnti, all'interno del quale, interfacciandomi con le altre, ho operato».
La cosa particolare è che lo scandalo non è scoppiato tanto all'interno della magistratura quanto a livello socio-politico. Ha scandalizzato gli italiani.
«Ogni giorno ci sono giudici impegnati nei casi più svariati. Dall'ambito civile, come i divorzi, oppure che decidono di uno sfratto, o sono chiamati a giudicare un ladro o un truffatore. Ai cittadini va spiegato che il fatto che mi ha riguardato è interno alla magistratura, si riferisce alla gestione interna del potere, ma non intacca l'applicazione imparziale della legge. Questa situazione, quindi, non deve incrinare la fiducia che i cittadini ripongono nel sistema giudiziario».
Di recente si sono tenute le elezioni del comitato direttivo centrale: tonfo per Autonomia&Indipendenza, la corrente di Davigo, costretto però dai colleghi a lasciare la carica per decadenza a poche ore dal voto. Fatto fuori pure lui?
«Davigo è stato tra i giudici che mi ha giudicato, e per tale motivo non mi esprimo su questo punto. Posso però dire che nemmeno io mi aspettavo che a distanza di pochi giorni dalla decisione che mi ha riguardato, egli sarebbe decaduto dal Csm. È però certo che la scorsa estate c'erano avvisaglie su quanto sarebbe accaduto».
Il giorno successivo all'esplosione dello scandalo sulle nomine, 5 consiglieri togati su 16 si sono dimessi e il Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio in pensionamento forzato: un fuggi fuggi generale che potrebbe apparire come un'ammissione di colpe.
«Ognuno risponde dei propri atteggiamenti e comportamenti, io rispondo per me stesso. Non voglio giudicare il comportamento degli altri».
Lei potrebbe tornare a breve a indossare la toga se le Sezioni Unite della Cassazione dovessero ammettere il suo ricorso.
«Non demordo, utilizzerò tutti gli strumenti processuali che l'ordinamento mi mette a disposizione, facendo ricorso all'organo di ultima istanza, perché ho pieno interesse a far emergere tutta la verità su come sono andate le cose. Voglio anche far comprendere perché in quel periodo storico la corrente di sinistra della magistratura era fortemente ostica nei confronti del Procuratore Viola. Per tale motivo il ricorso sarà funzionale in attesa della decisione della sezione disciplinare, per continuare a far valere i miei diritti fino a che mi sarà possibile, passando per le Sezioni Unite e la Corte Europea per i Diritti dell'Uomo, per ristabilire la verità dei fatti".
Da liberoquotidiano.it l'8 febbraio 2021. C'è anche Piercamillo Davigo tra i "misteri" delle toghe al centro delle denunce di Luca Palamara, ex presidente dell'Anm finito in disgrazia e travolto dallo scandalo intercettazioni che ha rivelato come funzionano le nomine di giudici e magistrati. In studio da Massimo Giletti a Non è l'Arena su La7, Palamara sottolinea: "I fatti dell'hotel Champagne vengono identificati come una sorta di patto occulto per la nomina del dottor Viola, magistrato integerrimo per chi l'ha conosciuto, procuratore generale di Firenze", "grandissimo magistrato e persona perbene", conferma Giletti. "Tanto lo era che il dottor Davigo, simbolo della legalità e della moralità, votò il dottor Viola". Poi però ha cambiato idea: "Qualcosa sarà successo e lo deve spiegare". Palamara fa altri nomi: "Nino Di Matteo non era una persona allineata, all'interno della magistratura c'erano resistenze, stesso discorso lo potrei fare per il dottor Alfonso Sabella, penalizzato nella carriera per una archiviazione. E anche il processo sulla trattativa Stato-Mafia fu uno dei criteri di scelta". E sullo sfondo delle guerre tra Procure si risale fino al 2008, quando "per la prima volta l'Associazione nazionale magistrati (il sindacato delle toghe, ndr) decide di fare una critica pubblica a un pm". Salerno contro Catanzaro, uno scontro clamoroso al sapore di politica: in mezzo, il magistrato in questione: Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli e prossimo candidato governatore della Calabria. De Magistris, ricorda Giletti, "era addosso a Prodi e Mastella e il Quirinale, con Giorgio Napolitano, decise di intervenire, qualcosa di incredibile".
PALAMARA RACCONTA “IL SISTEMA”. C’È UNA PROCURA CHE INDAGA? Francesco Capo su byoblu.com il 28 gennaio 2021. “La giustizia è amministrata in nome del popolo”, recita l’articolo 101 della Costituzione. In nome di chi, invece, è stata amministrata la giustizia nelle vicende denunciate da Luca Palamara, l’ex membro del Consiglio superiore della magistratura (CSM), già presidente dell’associazione nazionale magistrati (ANM)?
La cupola di potere. Una domanda lecita perché le rivelazioni del dottor Palamara, contenute nel libro intervista “Il Sistema” scritto con Alessandro Sallusti, sembrano quelle di un collaboratore di giustizia che svela appunto l’esistenza di un sistema e di inquietanti inquinamenti della politica (e forse anche di mondi occulti) nell’amministrazione della giustizia italiana. L’ex giudice, attualmente indagato a Perugia per corruzione, definisce come una “cupola” la magistratura che gestisce il potere tramite le correnti con il beneplacito dei politici ai massimi vertici delle istituzioni.
I rapporti con Giorgio Napolitano. Palamara racconta che nel 2011, quando il governo Berlusconi cadde sotto la minaccia costante dell’aumento dello spread da parte delle agenzie internazionali di rating, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano approvò la linea dello scontro frontale tra l’esecutivo e la magistratura. Palamara, nel libro, rivela che ogni sua attività in qualità di presidente dell’ANM era condivisa e decisa con il Capo dello Stato, che – è giusto ricordarlo – presiede anche il Consiglio superiore della magistratura. “È impensabile sostenere che negli anni di cui stiamo parlando l’ANM si sia mossa al di fuori della copertura del Quirinale”, racconta l’ex giudice.
Due pesi e due misure. Secondo Palamara, la “cupola”, nella gestione di importanti inchieste, avrebbe usato due pesi e due misure: mano pesante con il centrodestra guidato da Berlusconi e mano leggera con il centrosinistra. I riferimenti più gravi sono alle vicende che hanno riguardato Luigi de Magistris e Clementina Forleo.
Il caso de Magistris. Il primo, quando svolgeva la funzione di pubblico ministero a Catanzaro, era titolare di tre inchieste: Poseidone, Why not e Toghe Lucane, che crearono forti imbarazzi, per la gravità dei possibili reati, al governo Prodi nel 2006. Tutte le indagini furono tolte a de Magistris, che venne punito disciplinarmente dal CSM. La stessa sorte accade anche ai pubblici ministeri di Salerno, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, e al procuratore capo Luigi Apicella che indagarono sulle vicende riguardanti de Magistris, ricostruendo che le inchieste furono a quest’ultimo sottratte con atti contrari ai doveri di ufficio, frutto di accordi corruttivi.
Il Sistema, Palamara racconta Why Not. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. L’ex capo di Unicost racconta ad Alessandro Sallusti i retroscena dell’inchiesta-scandalo che costò la carriera a Luigi De Magistris, all’epoca pm a Catanzaro…Pubblichiamo gli stralci del libro intervista di Luca Palamara e Alessandro Sallusti relativi ai “condizionamenti” che l’Anm avrebbe causato all’inchiesta Why Not, condotta nel 2007 a Catanzaro da Luigi De Magistris. Quest’inchiesta, con cui l’ex pm era arrivato a lambire Romano Prodi, ebbe un percorso travagliato e finì in nulla. Ma ha lasciato molte questioni irrisolte. Non entriamo nel merito della vicenda ma ci limitiamo a riportare i passaggi inquietanti del libro. Il lettore giudichi da sé.
[Sallusti] Chi tocca la sinistra è fuori. Lei ha parlato di sistema, di condizionamento ambientale, di magistrati che sanno «naturalmente» come comportarsi per non perdere l’«allineamento». Ma qualcuno avrà provato a sfidare il sistema…
[Palamara] Certo, storie e persone diverse tra loro, ma i casi di Luigi De Magistris, di Clementina Forleo, di Antonio Ingroia, di Alfonso Sabella e Antonio Sangermano, per citare i più noti, dimostrano che se sfidi il «Sistema» sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto. E io lo so bene perché c’ero: il quel momento il Sistema ero io.
[Sallusti] Può raccontarci queste storie?
Adesso sì. Sia chiaro, non rinnego ciò che ho fatto, se sono durato così a lungo è proprio per le posizioni che ho assunto, senza le quali non sarei stato dove sono stato neppure un giorno in più. Mi hanno accusato di essere uno schierato a sinistra. Non è così. Io non ero il protettore di questo o di quello, di una parte politica o dell’altra. Io ero il protettore del sistema correntizio che a maggioranza era ed è su posizioni ideologiche di sinistra, in conflitto con la destra di Silvio Berlusconi. Il mio compito non era di cambiare quella posizione, ma semplicemente di difendere il sistema. L’ho fatto per convenienza? Perché ci credevo? Per calcolo? L’ho fatto e l’ho fatto per successo. Punto. […]
[Da Il Sistema, cap. L’imprevisto, pp. 67-68]
[…] [Palamara] La brace covava sotto la cenere e di lì a poco scoppierà l’inferno.
[Sallusti] Immagino si riferisca all’inchiesta Why Not, dal nome dell’azienda informatica di Lamezia Terme su cui partono le indagini, aperta a metà di quell’anno dal pubblico ministero di Catanzaro, Luigi De Magistris, poi sindaco di Napoli.
[Palamara] Proprio quella. È un’inchiesta che all’inizio coinvolge, tra i tanti, il presidente del Consiglio Romano Prodi, due suoi collaboratori, Angelo Rovati e Sandro Gozi, oltre al ministro della Giustizia Clemente Mastella. De Magistris era all’epoca sconosciuto, non apparteneva a nessuna corrente in modo organico, un cane sciolto che diventa il «cigno nero», l’imprevisto che fa andare in tilt il sistema.
[Sallusti] In effetti che la magistratura mettesse in crisi il governo che aveva da poco sconfitto Berlusconi alle urne fu un’anomalia sorprendente. De Magistris andava fermato?
[Palamara]Diciamo che la decisione è di provare ad arginarlo. Il «Sistema» non può permettersi una cosa del genere. Mastella chiede al Csm di trasferirlo con provvedimento d’urgenza; il suo procuratore capo, Dolcino Favi, avoca a sé l’inchiesta e nottetempo fa scassinare la sua cassaforte per venire in possesso del fascicolo. Si muove anche la procura di Salerno, competente su Catanzaro, e tra le due finisce in rissa. Insomma, scoppia il finimondo.
[Sallusti] E voi che fate?
[Palamara]Il Csm apre un fascicolo che di lì a pochi mesi porterà al trasferimento di De Magistris, io mi consulto sia con i miei sia con il Quirinale. E succede che, per la prima volta nella sua storia, almeno recente, l’Anm prende le distanze dall’operato di un pubblico ministero. Il comunicato lo feci io insieme a Giuseppe Cascini, fu un atto sofferto ma di coraggio, rompeva il dogma secondo cui un pm va difeso sempre e comunque. E su questo ebbi la spinta di Cascini, cioè dell’ala sinistra della magistratura, una spinta che mi lasciò molto stupito.
[Sallusti] Detto più chiaramente, voi lo scaricate e il presidente Napolitano approva?
[Palamara]In effetti lo scarichiamo e condividiamo questa scelta con il Quirinale tramite il compianto Loris D’Ambrosio, il mio riferimento al Colle. Formalmente, perché nella sua inchiesta c’era una cosa assurda e inaccettabile: un decreto di perquisizione di ben 1700 pagine fatto apposta per poter rendere pubbliche tutte le intercettazioni, comprese quelle che riguardavano il ministro Mastella. Fu una forzatura delle regole e una violazione della privacy intollerabile, una provocazione.
[Sallusti] Formalmente è così. Sostanzialmente?
[Palamara] Si ritorna al solito discorso del sistema. De Magistris non era allineato, quel governo già debole di suo e argine contro le destre non poteva essere attaccato in quel modo, con un’inchiesta dove oggettivamente si erano verificati degli eccessi. Anche se poi quello che posso dire – e qui lo dico per la prima volta – che De Magistris ha ragione quando dice che un’azione punitiva di quel genere nei confronti di un magistrato non c’era mai stata. E che non ha costituito un precedente per le tante inchieste e i tanti processi che hanno fatto poi discutere per la loro abnormità, tra i quali possiamo tranquillamente mettere – ne parleremo – alcuni di quelli a Silvio Berlusconi, dai settecento e passa milioni di risarcimento per il lodo Mondadori al caso Ruby. Il caso De Magistris è stata una parentesi, un’anomalia anche se lui non ha mai fatto – ma è ancora in tempo a farla – autocritica per alcune incongruenze di quella vicenda. Non dico che oggi io debba giustificarmi, ma a lui delle risposte vanno date.
[Sallusti] A quali domande?
[Palamara] Ci furono pressioni politiche per scaricare De Magistris, perché quell’inchiesta andava a colpire un governo di sinistra? Il governo era di sinistra, il mio sistema di riferimento anche, lascio a voi le conclusioni. In quelle ore ero in contatto diretto con il Quirinale? Sì, lo ero, in particolare con il consigliere Loris D’Ambrosio. L’Anm ha mai detto una parola sui colleghi che si sono occupati di Berlusconi? No, anzi; in quel caso, nei momenti di tensione, a prescindere da tutto io dovevo prendere l’aereo per Milano e mostrarmi accanto a quei magistrati, difenderli senza la minima incertezza.
[Sallusti] Lei andò oltre. Quando De Magistris fu poi trasferito, disse: «Il sistema ha vinto, ha dimostrato di avere gli anticorpi».
[Palamara] E De Magistris mi replicò: «Tu sei lì per difendere i magistrati, non la politica». Oggi la parola «anticorpi» non la ridirei, ma non intendevo offendere lui, ero preoccupato della tenuta del sistema che mi era stato affidato e in cuor mio ero pure speranzoso che da quel momento in poi la regola che nessun pm potesse mettere alla gogna chicchessia sarebbe stata fatta rispettare. È poi successo così? No, sicuramente no, e questa è una mia sconfitta. De Magistris è stato sacrificato anche perché non apparteneva né era funzionale ad alcuna corrente? Sì, è così. Quando il Sistema ti blocca ti blocca, quando l’input parte dall’alto e le correnti sono d’accordo non c’è verso che tu possa salvarti. Io oggi ne so qualcosa.
[da Il Sistema, cap. L’imprevisto pp. 71-74]
Un faro europeo deve accendersi sul «sistema» confessato da Palamara. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Se il Consiglio Superiore della Magistratura ed il prossimo Ministro della Giustizia volessero dare un forte segnale di discontinuità con il passato, ma anche della volontà di contribuire al dovere irrinunciabile della politica di ripulire il paese dal letamaio scoperchiato da Palamara, dovrebbero cominciare da un atto molto semplice. Fare adottare come libro di testo dalla Scuola Superiore della Magistratura il libro intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara: «Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana». Renderebbero un servizio al Paese, ma anche ai tanti magistrati per bene che hanno accolto nei fatti, e non solo nelle chiacchiere dei proclami ipocriti e auto-celebrativi di tanti attori della cloaca scoperchiata da Palamara, l’eredità di giganti come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Magistrati eroi e martiri che, assieme a tanti altri meno auto-celebrati o celebrati dal travaglismo nazionale, hanno svolto la loro azione come servizio al Paese. Per la realizzazione di quella Giustizia giusta cui ogni società civile, liberale e democratica dovrebbe ambire. Tutto l’opposto del «sistema» svelato da Palamara, del quale è stato per anni il braccio armato e persino la testa. Senza dare l’impressione di voler sfuggire alle sue confessate responsabilità. Quanto meno morali. Ma con il legittimo interesse a non diventarne l’unico capro espiatorio. Perché il problema dei problemi dell’Italia contemporanea, che è la governance della magistratura, non è certo Luca Palamara, ma il «sistema» che lui stesso ha di fatto governato per un decennio. Che è preesistente alla sua stessa entrata in magistratura e che, senza una fortissima ed urgentissima reazione delle parti ancora sane di questo povero Paese, se non di una vera e propria rivolta popolare, ha grandissime probabilità di sopravvivergli. Attraverso i metodi, ben descritti da palamara, che accomunano il « sistema » solo ad altri tipi di organizzazioni, tristemente note nel nostro paese, che pure si poggiano su quell’omertà e quella pressione intimidatoria ben descritte dall’ex Presidente dell’ANM ed ex membro del CSM. I giovani e meno giovani magistrati per bene, che sono la maggioranza, ma anche vittime (seconde, nell’ordine, solo dopo i milioni di cittadini presunti colpevoli, o parti civili senza giustizia) del « sistema », hanno il diritto dovere di sapere e ribellarsi, aiutando il paese a liberarsi da questa malapianta che ha menomato da decenni le nostre libertà, la nostra crescita economica e degli investimenti sani nell’economia nazionale, e intossicato le nostre istituzioni e la stessa vita diplomatica del paese. Da notare poi che le famiglie delle vittime delle mafie hanno da anni il meritato pubblico riconoscimento del Paese, della collettività, dell’opinione pubblica, e i loro cari sono ricordati e celebrati come eroi. Le famiglie delle vittime innocenti del «sistema» conoscono invece, oltre alla privazione, a volte della stessa vita, dei propri cari, solo l’onta e la vergogna della gogna mediatica del più peloso giustizialismo forcaiolo che ha impregnato l’Italia da tre decenni. Ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non ho mai stimato, per le ragioni appena spiegate, Luca Palamara. Che oltre un decennio fa fu oggetto di un durissimo attacco pubblico, messo subito sotto il tappeto, da parte di Francesco Cossiga. Che non era proprio un Travaglio qualunque, ma addirittura un presidente emerito della Repubblica, e quindi anche del CSM. E l’attacco non era personale, nonostante l’apparenza, ma solo relativo al fatto che Palamara rappresentava in quel momento, e difendeva anche nell’indifendibile, l’ANM. L’Associazione Nazionale Magistrati che Cossiga senza timore di querele (che invitò provocatoriamente a presentare ma non ricevette) definí «associazione sovversiva e di stampo mafioso». Ma devo riconoscere a Palamara che con questa intervista confessione ha reso un servizio meritorio al Paese e alla Giustizia. Oltre che all’onore di tutti i magistrati per bene, molti dei quali, secondo lui, lo hanno incoraggiato a raccontare tutta la verità. Quindi, se è stato dato credito, riconoscimento e protezione al Tommaso Buscetta che ha permesso a Giovanni Falcone di scoperchiare segreti sinora inviolati di Cosa Nostra, e a tanti altri pentiti anche meno credibili di lui, non vedo perché, mutatis mutandis, non bisogna dare credito, riconoscimento e anche pubblica tutela a Luca Palamara – che fino a sentenza passata in giudicato resta un magistrato della Repubblica – nella sua opera e funzione di sistemista pentito. Guardando cioè non solo ai benefici difensivi che hanno tutti i « pentiti », e che alcuni maliziosamente già addebitano alle sue intenzioni, ma anche agli innegabili rischi che corre dal momento che ha deciso di confessare e svelare pubblicamente i segreti sinora indicibili del «sistema». Sento poi di dover ringraziare, da cittadino prima di tutto, ma anche da vecchio addetto ai lavori e anche da giornalista, Alessandro Sallusti, autore di questo libro intervista. Rammaricato che solo pochi giornali italiani, e tra questi Il Riformista, abbiano sinora dato rilievo al libro e, soprattutto, a quanto raccontato. Lo ha fatto però ieri Antonio Tajani, assieme al circolo culturale europeista Esperia, chiedendo a Sallusti, durante un’affollata conferenza zoom, il «sistema» di Palamara. Tajani, forte della sua funzione di Vicepresidente del PPE, ma anche della sua esperienza di Presidente emerito del Parlamento europeo, si è impegnato a fare accendere un faro europeo sul « sistema » che, come spiegato anche da Guido Berardis, ex giudice del Tribunale dell’Unione Europea, porta un sicuro pregiudizio al mercato unico ma anche, almeno indirettamente, allo stato di diritto che è uno dei pilastri su cui si fonda l’Unione Europea. Avendo avuto professionalmente a che fare con la magistratura italiana per tre decenni, fino al 2011, anche dall’osservatorio europeo dell’OLAF, quanto raccontato nel libro di Sallusti, al di là di qualche dettaglio, non ha rappresentato per chi scrive alcuna sorpresa né per l’esistenza né per i metodi di azione del «sistema». Quando ero portavoce e capo unità indagini dell’OLAF, l’Ufficio Europeo per la Lotta alla Frode, assieme al procuratore della repubblica francese Thierry Cretin, che ha dato una sua idea della giustizia, molto apprezzata e condivisa da tutti i partecipanti all’evento di Esperia, sono stato testimone diretto della metamorfosi di giudizio verso alcuni magistrati italiani, attori del “sistema”, da parte dell’allora nostro direttore generale, dal 2000 al 2010, il Procuratore bavarese Franz-Herman Bruener. Bruener, arrivato a Bruxelles nel 2000 come grande ammiratore della magistratura italiana, sull’onda della narrativa mediatica internazionale di “Mani pulite”, quando ha toccato per esperienza diretta alcune delle cose raccontate oggi nel libro di Sallusti, cominciò a manifestarmi il suo assoluto disgusto. Disgusto seguito all’incredulità iniziale. Confidandomi che certe cose superavano addirittura i metodi utilizzati dalla Stasi, che lui aveva ben conosciuto, come Pubblico Ministero del processo al leader della DDR, Herich Honecker. Avendo vissuto la creazione e i primi decenni di vita dei servizi antifrode dell’Unione Europea, dal 1990 al 2011, ho avuto la fortuna di collaborare con alcuni magistrati di grandissimo livello nazionale e internazionali. Tra i tanti, il Procuratore Nazionale Anti-Mafia Piero Vigna, il sostituto procuratore generale della Repubblica di Milano Antonio Lamanna, l’ex PM veneziano Carlo Nordio, e lo stesso Antonio Laudati, una delle vittime del “sistema” raccontato nel libro di Sallusti. Assieme a tanti magistrati che hanno dato onore al nostro Paese, rimpiangendo molto le mie chiacchierate con Giovanni Falcone a Fiumicino, durante i caffè bevuti assieme in occasione delle sue frequenti partenze per gli Stati Uniti, sono stato però anche direttamente testimone del tentativo del “sistema” – che disponeva di suoi uomini, oltre che presso l’OLAF, presso altri posti sensibili delle istituzioni europee – di mantenere a Bruxelles proprie basi di lancio di missili sempre pronti a essere scagliati contro i governi italiani. In modo particolare, ovviamente, quelli di Berlusconi e dei suoi ministri della Giustizia. Devo dare merito al Giornale, oggi di Sallusti, di essere stato tra i pochi che, ogni tanto, prestavano una qualche attenzione all’opera del “sistema” a Bruxelles. Ho ritrovato sul web, ad esempio, un articolo del 13 marzo 2006, dal titolo “Talpe alla Ue, indagine su Bruti Liberati”. Quello stesso Bruti Liberati cui Sallusti dedica un intero capitolo e diverse citazioni di Palamara, e che, quando era Presidente dell’ANM era anche, guarda caso, Presidente del Comitato di Vigilanza dell’OLAF. Altrimenti il silenzio assoluto. E Sallusti, grazie a Palamara, ha il merito di aver raccontato anche a chi non è stato come me addetto ai lavori – e che come me non ha quindi il diritto di fare finta di cadere dal pero di fronte al questa confessione-denuncia – il perché di questo silenzio omertoso, anche mediatico, di fronte al potere intimidatorio, per chiunque, da parte del “sistema”.
Grazie al libro di Sallusti e alla pubblica confessione di Palamara, tutti gli italiani che vogliono davvero sapere, e smetterla di credere alle favole, a cominciare dai giovani ed aspiranti magistrati, ora non hanno più l’alibi di dirsi increduli e sorpresi. Hanno invece il diritto ed il dovere di chiedere e sostenere con forza una urgente e radicale riforma della giustizia in Italia. Ma all’estero, non dimentichiamolo, la narrativa è sempre stata e continuerà ad essere diversa. Basti pensare agli anni in cui si leggevano ancora soprattutto i giornali stampati. A Bruxelles, e nel resto dell’Europa, a cominciare dagli aeroporti e sugli aerei, l’unico giornale italiano che si trovava era La Repubblica. Ed il verbo era quello. All’estero, chi non ha toccato con mano “il sistema” descritto da Palamara, o non ha letto il suo libro o gli articoli de Il Riformista, non può credere che quanto svelato da Palamara sia possibile che accada in un paese democratico ed europeo. Perché si tratta di una situazione talmente unica in Europa, e nel mondo liberale e democratico – anche se in Italia sembrano ormai tutti assuefatti – che all’estero è impossibile crederci. Chiedo allora a Alessandro Sallusti ed alla Rizzoli editore: quando verrà tradotto «Il sistema», almeno in inglese e in francese, e se possibile anche in tedesco? Convinto che quando verrà fatto sarà reso un servizio al Paese. Perché resto certo, come ripetuto in altre occasioni, che l’Italia non riuscirà da sola a riformare questo Frankenstein che è “il sistema”, senza l’aiuto europeo. Anche se questo aiuto dovesse limitarsi alla sola astensione dal rispondere alle inevitabili chiamate di aiuto esterno del “sistema”. Attraverso la solita narrativa a senso unico che, ne sono certo, continueremo ad ascoltare. E che descriverà qualunque intenzione di seria e radicale riforma della giustizia, come il tentativo del Berlusconi del momento di difendersi dalla giustizia dei cavalieri senza macchia e senza paura di quello stesso momento. Si chiamino essi Di Pietro, de Magistris, Ingroia, Davigo, o altro, a seconda della stagione. E indipendentemente dal fatto che alcuni di loro siano anche abilissimi nel sostituire rapidamente la maglietta indossata quali giocatori del sistema, con quella di vittime di quello stesso sistema che li ha resi personaggi pubblici, sindaci e altro. Quindi, spero davvero che Rizzoli traduca al più presto. O permetta magari a think thank come il circolo Esperia di tradurlo e contribuire all’accensione di un faro europeo dopo averlo fatto leggere anche alla Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, al suo gabinetto, ed ai funzionari europei, non solo italiani, abituati da sempre a sentire solo la campana del “sistema”. Che spesso in buona fede hanno persino sostenuto. E so di cosa parlo. Come lo sa il magistrato anticorruzione e anti-frode francese Thierry Cretin e molti altri.
Il caso Forleo. Palamara racconta anche come il CSM rimosse da Milano il giudice per le indagini preliminari Clementina Forleo trasferendola d’ufficio a Cremona. Il giudice Forleo ne uscì pienamente pulita e, anni dopo, il Consiglio di Stato annullò il suo illegittimo trasferimento. La Forleo svolse inchieste sui furbetti del quartierino, un manipolo di finanzieri che avevano tentato l’acquisto di gruppi bancari e sulla scalata di Unipol, la cassaforte del Pds, alla Bnl. La Forleo, contraddicendo i suoi colleghi pm della procura di Milano, chiese l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni che coinvolgevano alcuni parlamentari, come Piero Fassino, Massimo D’Alema,e Nicola Latorre. Il gip chiese di poter inquisire alcuni degli stessi parlamentari che apparivano, nella sua ricostruzione dei fatti, “consapevoli complici di un disegno criminoso”. Tutte le vicende riguardanti de Magistris e Forleo sono ben raccontate in libri come “Il Caso Genchi” di Edoardo Montolli oppure “Il caso de Magistris” e “Clementina Forleo – un giudice contro” di Antonio Massari. Adesso Luca Palamara racconta a Sallusti che “la procura di Milano e il Pds non presero bene” queste azioni della Forleo e da lì fu presa la decisione dal CSM di rimuoverla dall’incarico. Le denunce contenute nel libro “Il Sistema” costituiscono materiale molto ampio per una procura disposta a indagare. Una giustizia davvero amministrata in nome del popolo italiano non può sottrarsi dal fare chiarezza su queste vicende. È infatti il popolo italiano che lo richiede per aver ancora fiducia nella magistratura.
Palamara, il gip romano Forleo: la magistratura non ha voluto cacciare i mercanti dal tempio. Roberto Frulli lunedì 1 Marzo 19:55 2021 su Il Secolo d'Italia. La magistratura “si è come specchiata quando il 30 maggio viene sequestrato il telefono a Palamara e rinvenuta la mole infinita di messaggi”. Ma “questo specchio la magistratura non l’ha voluto vedere, come se l’immagine che rifletteva non fosse la propria. Non ha voluto cacciare i mercanti dal tempio, ma ha cacciato solo Palamara, come se non ci fossero altri mercanti“. Intervenuta in diretta dalla pagina Facebook del Fatto Quotidiano con i giornalisti Peter Gomez e Antonio Massari, la Forleo, che è attualmente gip del Tribunale di Roma, non fa sconti a nessuno. “Il libro di Palamara è lo specchio di quello che è successo. Il fatto che uscisse fuori la sua chat, rinvenuta casualmente dopo aver installato un trojan, è stato voluto da qualcuno. Qualcuno che aveva intenzione nel far uscire certe notizie”, si dice sicura la Forleo. “Poi il sequestro del cellulare – ricostruisce il gip. – E nessuno poteva pensare che potesse avere un archivio così colossale, messaggi rimasti nero su bianco. Con lui i vertici si spartivano nomine e incarichi, anche come silurare i colleghi scomodi“. “Come ha reagito la magistratura dopo lo scandalo? Si è come specchiata – ha spiegato spietata la gip – Quando il 30 maggio viene sequestrato il telefono a Palamara e rinvenuta la mole infinita di messaggi, la magistratura si è trovata di fronte ad una prova documentale”. “Si intuiva che le cose andassero cosi – ammette la Forleo. – Ma non potevamo immaginare fino a questo punto, al punto di chiedere condanne per chi andava assolto. E questo specchio la magistratura non l’ha voluto vedere, come se l’immagine che rifletteva non fosse la propria. Non ha voluto cacciare i mercanti dal tempio, ma ha cacciato solo Palamara, come se non ci fossero altri mercanti“.
Felice Manti per “Il Giornale” il 24 febbraio 2021. «Con altri colleghi abbiamo pensato di fare un appello al capo dello Stato, in qualità di garante della Costituzione, coinvolgendo anche la società civile». Clementina Forleo è gip al Tribunale di Roma ed è tra le firmatarie dell'appello a Sergio Mattarella perché intervenga sulla riforma del Csm dopo le storture denunciate dall' ex leader Anm Luca Palamara nel libro-intervista Il Sistema scritto da Alessandro Sallusti. Tra i magistrati c'è chi vuole riformare la giustizia e chi fa spallucce. «Altri vertici della magistratura associata tentano di occultare maldestramente gli stretti rapporti per anni intessuti con lo stesso Palamara e grazie ai quali il sistema si è alimentato con la spartizione clientelare di ogni incarico, con la punizione esemplare di magistrati ritenuti scomodi», dice la Forleo, cacciata da Milano nel 2007 mentre da gip voleva indagare sul Pd nell' inchiesta sulle scalate bancarie Unipol-Bnl, come ebbe a dire pochi giorni fa davanti alle telecamere di Quarta Repubblica, con «un' operazione che, qualora dovesse essere corroborata da altre prove, non esiterei a definire criminale, dovuta a una sorta di compromesso tra un certo potere politico toccato da delicate indagini e certi vertici del potere giudiziario». Ecco perché la Forleo, insieme ad altri colleghi, da tempo auspica una riforma «che preveda l' estromissione dall' organo di autogoverno delle toghe, ossia dal Csm, delle cosiddette correnti» perché così «si eliminerebbe ogni consorteria interna al Potere giudiziario con maggiore garanzia di indipendenza del singolo magistrato e, a cascata, con maggiore tutela dei diritti del cittadino che ha l' esigenza primaria di avere non solo giudici indipendenti ma anche giudici che appaiano indipendenti».
Brutto leggere negli sms di Palamara di colleghi che tramano alle spalle di altri... Quando parla di chi vuole insabbiare tutto a chi pensa?
«Penso, tra tutti, a un contatto con cui un noto Procuratore della Repubblica, di sinistra, chiedeva al dottor Palamara di vedersi al solito posto: da paralleli contatti del dottor Palamara con altri esponenti della magistratura associata anche intranei al Csm, si comprendeva a chiare lettere come l' incontro fosse stato voluto per caldeggiare la nomina, poi effettivamente avvenuta, di un Procuratore Aggiunto particolarmente gradito a quel Procuratore. Ancora penso a quel contatto con cui un ex esponente del Csm interloquiva con il dottor Palamara dicendogli: Ricordati che ti ho sistemato P. a patto che mi sistemassi O.!. Infine, e con tanta amarezza, penso a un colloquio intercorso tra il dottor Palamara ed altro esponente del Csm, con il quale si concordava di emettere un provvedimento disciplinare nei confronti di un collega come segnale da mandargli, come scelta politica in quel momento ritenuta necessaria al sistema. Trattasi di comunicazioni già pubblicate da organi di stampa e dunque a conoscenza del comune cittadino, con conseguente immane discredito dell' intera categoria e dei tantissimi magistrati che ogni giorno indossano la toga con onore».
C' è fermento tra i suoi colleghi dopo la vostra iniziativa. Secondo lei può scoppiare un nuovo caso Palamara o è stato un caso isolato?
«Non credo, anzi è solo la punta di un iceberg rimasta per lungo tempo sommersa e casualmente, grazie ad un trojan e al successivo sequestro di un telefono cellulare, venuta alla luce».
Da quel che emerge c' è un sottobosco pericoloso di relazioni tra pm inquirenti e magistratura giudicante. È favorevole alla separazione delle carriere?
«Sulla separazione delle carriere mi espressi favorevolmente nel gennaio del 2007 nel corso di un convegno organizzato a Milano dalle Camere Penali. Ci fu una standing ovation della classe forense presente, come da titolo apparso sul Corriere della Sera, ma molti miei colleghi non la presero bene. Ritengo anche oggi, senza timori, che solo attraverso un' effettiva parità tra accusa e difesa il nostro sistema giudiziario potrebbe essere all' altezza di un vero e proprio Stato di diritto».
Che ne pensa di De Magistris e di quel che gli è successo? Nel libro Il caso Genchi di Edoardo Montolli si legge: «Le due inchieste, quella sulle scalate bancarie e quella su Why Not, avevano individuato un medesimo bacino di persone su cui cercare di far luce». Lo ha letto? È così?
«Sul parallelismo della mia vicenda con quella di Luigi De Magistris, ritengo che l' elemento chiave sia da riconnettersi ad una strana coincidenza: nello stesso giorno e nella stessa fascia oraria giunsero nei nostri rispettivi uffici di Milano e di Catanzaro, due lettere minatorie vergate da una stessa mano e con allegato un proiettile, e ciò parallelamente ad attacchi di certa stampa e all' assoluto isolamento anche interno alla categoria. Il resto è Storia».
Caso Palamara, Forleo: «La mia cacciata da Milano un’operazione criminale». su Il Dubbio l'8 febbraio 2021. Forleo nel 2007 era gip dell’inchiesta sulle scalate bancarie Unipol-Bnl e aveva chiesto alle Camere l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni riguardanti alcuni parlamentari, tra i quali anche Piero Fassino e Massimo D’Alema. «Ho sempre sospettato che la mia cacciata da Milano fosse stata dovuta a una sorta di compromesso tra un certo potere politico toccato da delicate indagini e certi vertici del potere giudiziario. Le dichiarazioni di Palamara costituiscono prova di un’operazione che, qualora dovesse essere corroborata da altre prove, non esiterei a definire criminale». È quanto sostiene Clementina Forleo, attualmente gip del tribunale di Roma, nell’intervista concessa al programma “Quarta Repubblica”, in onda questa sera su Rete4, in merito alle rivelazioni sulla sua persona contenute nel libro-intervista di Alessandro Sallusti con Luca Palamara, “Il Sistema”. Clementina Forleo nel 2007 era gip dell’inchiesta sulle scalate bancarie Unipol-Bnl e aveva chiesto alle Camere l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni riguardanti alcuni parlamentari, tra i quali anche Piero Fassino e Massimo D’Alema. A tal proposito, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha dichiarato nel libro: «La procura di Milano non è quella di Catanzaro, è un monolite, un fortino delle correnti di sinistra, non espugnabile, neppure dall’Anm o dal Csm. Qualcuno sostiene sia un tempio, e nei templi non è ammessa l’eresia». Prosegue Palamara: «L’eretica in questione è appunto Clementina Forleo, che da gip osa sfidare la procura sia la sinistra, nella primavera 2007 al governo. L’inchiesta è quella dei “Furbetti del quartierino”. La procura di Milano non la prende bene, il Pds neppure. Io capisco che non abbiamo scelta, al di là del merito tecnico-giuridico delle sue decisioni Clementina Forleo va rimossa, è un pericolo, e mi esprimo anche pubblicamente in tal senso, sia come Anm sia come capocorrente, dando indicazioni in tal senso ai miei uomini dentro il Csm, che infatti la trasferisce di peso al tribunale di Cremona». Clementina Forleo commenta così: «Quando ho letto queste parole, ho provato una grande amarezza e un indescrivibile senso di solitudine. In realtà ho sempre sospettato che la mia cacciata da Milano fosse stata dovuta a una sorta di compromesso, chiamiamolo così, tra un certo potere politico toccato da delicate indagini e certi vertici del potere giudiziario». Poi aggiunge: «Le dichiarazioni del dottor Palamara costituiscono prova di un’operazione che qualora dovesse essere corroborata da altre prove non esiterei a definire criminale. Ci tengo a dire che io sono stata sempre un giudice libero, un cane sciolto, io non sono né di sinistra né di destra, non penso di poter essere tacciata di essere di parte nel mio operare». Sul fatto che «il sistema così come viene descritto» esista ancora, l’ex gip di Milano sostiene: «Il rischio c’è… Non vedo molti atti di dolore in giro, non vedo molte… diciamo redenzioni da parte degli interlocutori del dottor Palamara. Il sistema è stato descritto a caratteri cubitali nelle numerosissime chat, nei numerosissimi messaggi che dimostrano come il dottor Palamara non parlasse sicuramente da solo ma interloquisse con numerosissimi colleghi, alcuni con ruoli apicali nel potere giudiziario e ciò per spartirsi nomine, incarichi di ogni tipo ma anche per mandare segnali ai magistrati ritenuti scomodi, oltre che per mettere in difficoltà il potere politico in quel momento ritenuto ostile alla categoria». Clementina Forleo esprime poi una speranza per il futuro: «Nell’interesse di tutti mi auguro che il dottor Palamara non resti il solo a pagare per questo scempio, lo voglio chiamare così. Per riacquistare credibilità chiediamo che i componenti del Csm siano eletti in base a candidature non controllate dalle correnti ma anche nell’interesse delle stesse parti politiche, qualunque sia il loro colore, onde evitare che le stesse, come si è visto in noti messaggi sempre estratti dal telefono del dottor Palamara, possano essere danneggiate dalla vicinanza di taluni vertici del potere giudiziario a forze politiche di segno opposto». In merito al fatto che questo meccanismo possa distruggere la carriera di un magistrato, Clementina Forleo commenta: «Penso di sì, se non si ha la forza, la tenacia. Io devo dire grazie a chi mi ha difeso ma soprattutto ai miei genitori che non ci sono più e che mi hanno dato una forza di carattere che ha i suoi svantaggi ma ha anche avuto il vantaggio di farmi andare avanti a testa alta». Infine, sulla sofferenza causata da questa vicenda, ammette: «Sì, brucia molto. Forse brucia di più, non lo so».
La replica della moglie dell'ex conduttore. Cara Forleo, non dimentico la tua sentenza e le tue parole su Enzo Tortora. Francesca Scopelliti su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Nel novembre del 1992 – dopo quattro anni dalla morte e sei dalla piena assoluzione di Enzo Tortora dalle gravi e infamanti accuse di appartenenza alla Nco e di spaccio di droga – Gianni Melluso, uno dei farabutti di questa triste vicenda, in vacanza con la moglie per un permesso speciale, viene raggiunto dal settimanale Gente, per un’intervista. E parla, parla, come suo costume, raccontando la “sua” verità. Il detenuto ribadisce le sue accuse rivolte nove anni prima a Enzo Tortora, le solite menzogne arricchite da quell’arroganza e quella sicumera che solo la protezione della procura napoletana poteva assicurargli. E come un divo capriccioso e viziato, racconta: «Tortora fu rinviato a giudizio perché contro di lui c’erano prove schiaccianti. In appello fu assolto perché i “pentiti” che lo avevano accusato, sentendosi abbandonati dai giudici, ritrattarono le loro testimonianze. E come non capirli? Senza protezione rischiavano la pelle e fecero retromarcia per salvarsi. Tutti tranne me, perché sono un uomo che quando ha preso una decisione va avanti per la sua strada a qualsiasi costo.» Naturalmente la famiglia querela per diffamazione aggravata sia Melluso, sia Sandro Mayer e Matilde Amorosi, direttore e redattrice del settimanale: dopo dieci anni di sofferenze, dopo la sentenza di assoluzione con formula piena della Corte di Appello confermata in Cassazione, e una vita distrutta, un giornale consente a un calunniatore professionista di ribadire accuse risibili quanto infamanti. La Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora chiede un risarcimento di 5 miliardi di lire, Spadaccia e Pannella intervengono nelle sedi istituzionali riguardo alla scarcerazione di Melluso. Ma nessuno ottiene risposte e soddisfazione. Inaccettabile. Ma c’è di più e di peggio. Il 19 dicembre 1994 Clementina Forleo, Gip del Tribunale di Milano, assolve Gianni Melluso dall’accusa di calunnia aggravata perché l’assoluzione di Enzo Tortora rappresenta, in realtà, «soltanto la verità processuale e non anche la verità reale del fatto storicamente accaduto”. Sentenza confermata poi dal Pg Elena Paciotti la quale ribadisce che quell’assoluzione non era “conseguenza della ritenuta falsità delle dichiarazioni di Melluso, ma della ritenuta inidoneità delle stesse a costruire valida prova di accusa”. Un principio, questo, che offende il diritto e che più recentemente è stato rappresentato con un linguaggio più esplicito e teatrale da Piercamillo Davigo: “non ci sono innocenti condannati ma solo colpevoli che la fanno franca!” Nell’intervista di ieri, Clementina Forleo, che nel frattempo lamenta di essere “stata cacciata da Milano” per un intreccio tra potere politico e vertici del potere giudiziario, condanna il sistema di corruzione denunciato da Palamara e auspica una commissione parlamentare di inchiesta e una riforma del Csm. Non è mai troppo tardi. P. s. Nel luglio 1995 Melluso, in carcere, riprende a parlare, fornendo stavolta una nuova versione dei fatti e al procuratore di Arezzo Vincenzo Scolastico e al sostituto procuratore di Salerno Ennio Bonadies, in un interrogatorio di dodici ore confessa: «Non potevo più vivere in compagnia di questo incubo. Ho fatto male a un uomo innocente e sento il dovere di restituire dignità alla sua memoria. Quando mi trovavo davanti Tortora nei confronti, quando lo vedevo invecchiato e malato, ne avevo pena. Ma cosa potevo fare? Ero inchiodato a un maledetto copione che dovevo recitare». Un copione che porta la firma di tanti troppi… magistrati in carriera.
Galati: «Stanco dei suoi continui attacchi, querelo De Magistris». Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. «Ormai stanco dei continui attacchi mediatici perpetrati dal dott. Luigi de Magistris in mio danno, ho provveduto, per il tramite del mio difensore, l’avv. Salvatore Cerra, a sporgere formale querela nei confronti dell’ex sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro». Lo afferma in una nota l’ex deputato ed ex sottosegretario di Stato Giuseppe Galati. «Quest’ultimo – prosegue Galati – invero, si è più volte reso protagonista di farneticanti enunciazioni ai danni della mia reputazione, alle quali, per lo sconfinato rispetto nutrito nei confronti della libertà di manifestazione del pensiero, ho deciso di soprassedere, sino alle inqualificabili dichiarazioni rilasciate dal candidato alla presidenza della giunta regionale della Calabria nelle quali lo stesso parla di “golpe istituzionale” di “sottrazione illecita accertata dall’autorità giudiziaria di indagini” di “azioni punitive” e di “abuso della legalità formale” trincerandosi dietro le dichiarazioni di Luca Palamara in relazione alla ricostruzione dei fatti che avrebbero portato al suo trasferimento dalla Procura di Catanzaro mentre lo stesso era titolare delle indagini Poseidone e WhyNot. È evidente come quanto affermato da de Magistris sia incontrovertibilmente tendenzioso, così come i fatti da egli riportati risultino correlati e combinati tra loro in maniera tale da evocare in maniera suggestiva un quadro generale fondato su fatti già accertati dall’autorità giudiziaria. De Magistris, infatti, omette tendenziosamente di riferire che in relazione all’inchiesta “Poseidone”, la Procura di Catanzaro all’epoca dei fatti avanzò richiesta di archiviazione, accolta dal Gip, mentre in merito all’inchiesta “WhyNot”, in seguito all’acquisizione dei fascicoli dell’attività investigativa precedentemente svolta da parte del dott. de Magistris, da parte della Procura di Salerno, conseguì un procedimento penale conclusosi con sentenza assolutoria, perché il fatto non sussiste, nei miei confronti». «E’ quindi evidente – conclude Galati – come il dott. de Magistris, con palese intento diffamatorio, abbia omesso di riferire, nella sua nota, tanto la circostanza afferente la suddetta avocazione dei fascicoli della Procura salernitana, contenenti l’attività investigativa svolta dallo stesso, dalla quale scaturiva un procedimento penale, quanto, soprattutto, l’esito del procedimento medesimo, fuorviando la collettività, ed attribuendo al sottoscritto condotte poco cristalline e responsabilità inesistenti».
Mastella-de Magistris, scontro in tv da Giletti. L’ex ministro: «Sei un farabutto». E il sindaco: «Bugiardo». F.N. per corriere.it l'8 febbraio 2021. Botta e risposta a suon di insulti tra Clemente Mastella e Luigi de Magistris che si sono affrontati sui risvolti giudiziari dell’inchiesta «Why Not» - inchiesta che vide l’ex pm indagare sull’allora Guardasigilli - durante il programma “Non è l’Arena”, condotto da Massimo Giletti e con ospite Luca Palamara, in onda su La7. Dalle prime schermaglie si è passati allo scontro quando il sindaco di Benevento è intervenuto in collegamento telefonico per rispondere al suo collega di Napoli. «Ho ascoltato le farneticanti enunciazioni di de Magistris - ha esordito Mastella - voglio ricordare che il 99% delle sue inchieste sono finite in vacca, sono abortite in maniera incredibile. E hanno dimostrato la sua incapacità di investigare in maniera corretta. Io sono stato perseguito dal “de Magistris fan club”».
«Sono stato fermato dalla politica». Incalzato dall’ex Guardasigilli, mentre Giletti tenta di ricondurre tutto a un confronto quantomeno corretto, de Magistris rincara la dose sull’antagonista televisivo: «Lei è il peggior ministro della storia della Repubblica - afferma l’ex pm - ha commesso insieme ad altri attentato alla Costituzione. Ero considerato uno dei migliori magistrati italiani per i risultati delle indagini che seguivo e poi mi sono imbattuto in Mastella e altri politicanti italiani. E tutti sono sanno perché sono stato fermato».
Accuse interminabili. Ma mentre de Magistris è nel pieno del suo intervento, irrompe di nuovo Mastella. E da qui è solo un continuo scambio di accuse: «Farabutto, lei ha fatto il politicante ed esce in maniera ignobile da Napoli», dice l’ex ministro. E il sindaco di Napoli: «Bugiardo, lei è un bugiardo storico. Ed è in malafede». La lite prosegue fino a quando Giletti non decide, giustamente, che sia il caso di finirla. Rimandando il tutto a un confronto in una prossima trasmissione di «Non è l’Arena».
Mastella in risposta alle affermazioni di De Magistris. Dagospia l'8 febbraio 2021. Comunicato stampa. “Nella trasmissione “Non è l’Arena”, andata in onda ieri, Luigi De Magistris, oltre ad essersi cimentato nelle consuete farneticazioni, che lo vedrebbero al centro di un complotto dei poteri forti, ha raccontato, come al solito, il falso, circa l’esito del processo penale, in cui è stato coinvolto, con l’accusa di abuso d’ufficio in mio danno, per aver violato la norma della legge Boato. Egli ha sottolineato che la Corte d’Appello penale di Roma lo ha prosciolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Peccato che abbia omesso di ricordare il seguito della sua vicenda giudiziaria. La Cassazione ha travolto e annullato quella sentenza di proscioglimento, affinché si celebrasse un nuovo giudizio a carico del De Magistris, ritenendo completamente errata la sentenza di assoluzione pronunciata a suo favore. Poiché, tuttavia, altro particolare che De Magistris omette costantemente di dire, egli non ha rinunciato alla prescrizione, beneficiandone in pieno, la Cassazione ha dovuto prendere atto della estinzione del reato, dato il trascorrere del tempo. Pertanto, ha rinviato alla Corte d’Appello civile il procedimento, affinché si celebri un nuovo giudizio ai soli effetti risarcitori. In sostanza, ha fatto rivivere la sentenza di condanna di primo grado. Quindi, la Corte di Appello civile, per il suo giudizio, partirà dalla sentenza di condanna di primo grado. Quanto al resto, sarei curioso di conoscere dal reticente Dott. Palamara i componenti del ‘De Magistris Fan Club‘, di cui parla nel suo libro, che esercitarono, nei miei confronti, una indegna azione investigativa, con esiti umani e politici devastanti”. Lo dichiara il sindaco di Benevento, Clemente Mastella.
Palamara smaschera le toghe in tv. E si scatena la rissa Mastella-De Magistris. A "Non è L’Arena" l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara ha spiegato i retroscena dell'inchiesta Why Not, ma ha anche lanciato l'allarme sulle nomine che si fanno adesso in magistratura. Gabriele Laganà, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Lo scandalo della magistratura emerso dopo le intercettazioni dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara che ha scoperchiato un sistema fatto di stretti legami tra giustizia e politica è stato di nuovo al centro della puntata di "Non è L’Arena" su La7. Ospite di Massimo Giletti, e non potrebbe essere altrimenti, proprio Palamara, protagonista del libro "Il sistema", scritto da Alessandro Sallusti in cui il direttore de "il Giornale" racconta, grazie alle parole dell’ex presidente dell’Anm, il dietro le quinte, gli intrecci ed i retroscena delle toghe. L’attenzione, in particolare, si è focalizzata sul "caso De Magistris": l’inchiesta Why Not è stata fermata dal “sistema”?. A tal proposito è andato in scena in studio il confronto con l’ex sostituto procuratore di Catanzaro all’epoca titolare dell’inchiesta, ed attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Palamara, così come avvenuto nella scorsa puntata, è sembrato un fiume in piena. L’ex magistrato ha esordito spiegando che il suo libro è per i tanti magistrati "che si alzano e fanno i processi ogni giorni. Noi vogliamo capire se il sistema delle correnti è ancora attuale e quanto ha penalizzato chi non ne ha fatto parte. Io sto rispondendo alle istanze dei magistrati". Lo stesso ex magistrato ha spiegato che nel libro ha raccontato come avveniva la gestione del potere all'interno della magistratura: "Se un componente del Csm dice che le correnti hanno qualcosa di mafioso, vogliamo fermarci a riflettere? Se ho fatto quello che ho fatto, al netto delle cose che mi coinvolgono, è per creare un equilibrio e far funzionare meglio la macchina giustizia. Facevo parte del sistema, ma lavoravo per la giustizia". "Dobbiamo capire- ha aggiunto- se il sistema delle correnti è ancora attuato e se ha escluso i magistrati meritevoli". “Qualcuno voleva far fuori Di Matteo? Le scelte organizzative competono al Procuratore generale antimafia, bisogna chiedere a lui e ognuno deve prendesi le sue responsabilità. All'interno della magistratura esisteva un procedimento ostativo perché non era allineato al sistema descritto. Lo stesso discorso potrei farlo per Alfonso Sabella", ha spiegato ancora Palamara. Quest’ultimo ha ammesso di aver pensato che essere buttato fuori è “un modo per risolvere tutto”. “Sì, siamo ancora impantanati a discutere delle mie chat- ha evidenziato- quindi qualcosa non va. C'è bisogno di una riforma della giustizia, ce lo chiede l'Europa con il Recovery Plan e invece stiamo parlando delle mie chat". Poi lo stesso Palamara ha lasciato intendere che attualmente la magistratura agisce allo stesso modo raccontato ne "Il Sistema": "Per le nomine ancora vengono controllati i candidati e si verifica se i loro nomi sono tra le mie chat". Insomma ancora una volta Palamara smaschera il sistema delle toghe che da troppi anni mischia politica e magistratura ignorando i principi fondanti del potere giudiziario. Palamara ha spiegato che la settimana scorsa ha invitato il dottor d'Amelio della procura di Roma "a raccontare i fatti e i pranzi tra il dottor D'Amelio, il dottor Fava, il dottor Davigo, il dottor Ardita. Io penso che il dottor Davigo, proprio in virtù del ruolo che ha avuto nelle famose inchieste milanesi, abbia l'obbligo e il dovere di dire la verità, perché il verbale reso davanti ai pm di Perugia non chiarisce realmente il perché il dottor Davigo votò il 23 maggio del 2019 per la procura di Roma il dottor Viola". Lo stesso ex magistrato ha poi sottolineato che quel voto di Davigo "è il contrario di una colpa", ma che "c'è bisogno di chiarire perché votò prima il dottor Viola", cambiando voto la volta successiva, quando optò per Prestipino. Palamara ha affermato che in questo momento la politica "è debole anche perché molti uomini politici sono in un modo o nell'altro coinvolti in determinate inchieste e questo li rende più deboli nel proporre un percorso realmente riformatore". Nel corso del programma non ci sono state solo le parole dell’ex magistrato. Un duro scontro è andato in scena tra il sindaco di Napoli ed ex pm Luigi De Magistris e il sindaco di Benevento Clemente Mastella. Al centro le vicende dell'inchiesta "Why Not", quando De Magistris era magistrato a Catanzaro e Mastella ministro della Giustizia nel governo Prodi, nel 2007. Il primo cittadino di Napoli aveva ricordato quelle vicende e lo scontro tra le Procure di Salerno e Catanzaro, citando anche Mastella. L'ex ministro è intervenuto telefonicamente per difendersi. "Ho ascoltato le farneticanti affermazioni del dottor De Magistris sulla mia persona. E Palamara trascura di dire che quando andò a Napoli si trovò nel fan club di De Magistris contro di me", ha affermato Mastella. "Io sono stato perseguitato dal De Magistris fan club- ha continuato il sindaco di Benevento-. Successivamente è stato confermato che il 98% delle inchieste di De Magistris sono abortite per la sua incapacità di investigare. Prego la Corte di Appello di Roma di intervenire perché in seguito a mia segnalazione De Magistris mi deve dare un risarcimento. Altra cosa: non dice che lui ha utilizzato la prescrizione, è stato condannato per abuso dei tabulati telefonici miei e del Presidente del Consiglio, ma è stato salvato per la prescrizione". Accuse alle quali De Magistris ha contro ribattuto duramente: "Falso. Ho subito già troppi danni e non posso sentire le bugie di Mastella in diretta. Io sono stato assolto dalla Corte d'Appello non per prescrizione ma perché il fatto non costituisce reato. I miei procedimenti andavano talmente bene che ero considerato uno dei migliori magistrati, poi casualmente mi sono imbattuto in Mastella e c'è stata la reazione del Csm e delle correnti. Io mi sono messo contro un sistema criminale che mi ha fermato". Parole che hanno scatenato un aspro botta e risposta che ha costretto Giletti a riportare l'ordine. "Lei e altri avete commesso attentato alla Costituzione", ha detto De Magistris a Mastella, definendolo "bugiardo storico". L'ex ministro ha replicato dandogli del "farabutto".
“Sei un farabutto…”; “E tu un bugiardo…”. De Magistris e Mastella botte da orbi da Giletti. Il Dubbio l'8 febbraio 2021. Lo scontro tra l’ex magistrato De Magistris e l’ex ministro della Giustizia Mastella: “Le tue inchieste sono fallite per incapacità”. Duro scontro a “Non è l’Arena”, su La7, tra il sindaco di Napoli ed ex pm Luigi De Magistris e il sindaco di Benevento Clemente Mastella. Al centro le vicende dell’inchiesta “Why Not”, quando De Magistris era magistrato a Catanzaro e Mastella ministro della Giustizia nel Governo Prodi, nel 2007. De Magistris, ospite della trasmissione insieme all’ex magistrato Luca Palamara, aveva ricordato quelle vicende e lo scontro tra le Procure di Salerno e Catanzaro, citando anche Mastella. L’ex ministro è intervenuto telefonicamente. “Ho ascoltato le farneticanti affermazioni del dottor De Magistris sulla mia persona. E Palamara trascura di dire che quando andò a Napoli si trovò nel fan club di De Magistris contro di me – ha detto Mastella -. Io sono stato perseguitato dal De Magistris fan club. Successivamente è stato confermato che il 98% delle inchieste di De Magistris sono abortite per la sua incapacità di investigare. Prego la Corte di Appello di Roma di intervenire perché in seguito a mia segnalazione De Magistris mi deve dare un risarcimento. Altra cosa: non dice che lui ha utilizzato la prescrizione, è stato condannato per abuso dei tabulati telefonici miei e del Presidente del Consiglio, ma è stato salvato per la prescrizione”. Accuse alle quali Luigi De Magistris ha controribattuto: “Falso. Ho subito già troppi danni e non posso sentire le bugie di Mastella in diretta. Io sono stato assolto dalla Corte d’Appello non per prescrizione ma perché il fatto non costituisce reato. I miei procedimenti andavano talmente bene che ero considerato uno dei migliori magistrati, poi casualmente mi sono imbattuto in Mastella e c’è stata la reazione del Csm e delle correnti. Io mi sono messo contro un sistema criminale che mi ha fermato”. Da lì un aspro botta e risposta che ha costretto Giletti a riportare l’ordine. “Lei e altri avete commesso attentato alla Costituzione”, ha detto De Magistris a Mastella, definendolo “bugiardo storico”. L’ex ministro ha replicato dandogli del “farabutto”.
La sentenza del Tribunale di Avellino. Massacrato per libro su de Magistris, Tuccillo assolto: “Ho solo raccontato 10 anni di finta rivoluzione”. Andrea Esposito su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Che l’esperienza di Luigi de Magistris alla guida del Comune di Napoli si sia rivelata un flop, è ormai sotto gli occhi di tutti. E Bernardino Tuccillo, che ha condiviso col sindaco parte del suo percorso, non ha commesso alcuna diffamazione nel descrivere le scelte politiche e amministrative che hanno decretato il fallimento della “rivoluzione arancione”. A ribadirlo è stato il Tribunale di Avellino che ha assolto con l’ex assessore comunale al Patrimonio. Al centro della vicenda era finito Il sindaco con la bandana, il libro scritto da Tuccillo all’indomani delle dimissioni che avevano segnato la fine della sua esperienza in giunta. Pubblicato nel 2014, quel volume è costato all’ex assessore sei anni di processi e l’addio alla carica di commissario straordinario dell’Istituto autonomo delle case popolari (Iacp). Tutto a causa di ben quattro querele presentate da esponenti politici vicini a de Magistris, cioè dagli ex assessori Franco Moxedano e Sergio D’Angelo oltre che dall’attuale presidente del Consiglio comunale Alessandro Fucito. Nel libro, infatti, Tuccillo sottolineava l’inopportunità di scelte come la promozione da funzionario a dirigente comunale di Luigi Filace, cognato di Moxedano, avvenuta proprio mentre quest’ultimo era delegato al Personale. Nel volume, inoltre, si stigmatizzava duramente la gestione delle politiche sociali da parte dell’allora assessore D’Angelo. Soprattutto, però, si analizzava l’amministrazione del patrimonio comunale. A proposito, Tuccillo contestava l’adesione, da parte del Comune di Napoli, alla sanitoria regionale che consentiva di regolarizzare la posizione di quanti avevano illegalmente occupato alloggi pubblici assegnati ad altre persone. L’ex assessore, infine, si scagliava contro le modalità e i tempi dell’affidamento del patrimonio a Napoli Servizi perché la partecipata «non aveva le risorse umane né le competenze necessarie per completare il piano di dismissione degli immobili comunali» e perché la giunta arancione «non considerò la necessità di formare il personale e di far sì che la società fosse affiancata da altri almeno in una prima fase». Osservazioni documentate che, tuttavia, sono costate a Tuccillo non solo un calvario giudiziario, ma anche l’addio al vertice dell’Iacp: «Fu Moxedano, nel 2015 consigliere regionale, a fare pressione sul governatore Vincenzo De Luca per farmi allontanare». Insomma, per qualcuno criticare l’amministrazione de Magistris era vietato. Non per il giudice che ha assolto Tuccillo per la terza volta (la querela presentata da D’Angelo fu presto archiviata): «Sono stato bersagliato dal punto di vista umano, politico e giudiziario – commenta ora Tuccillo – ma continuerò a raccontare questi dieci anni di finta rivoluzione».
“Woodcock punito dal Csm? Un segnale a un pm scomodo”. Antonio Massari su Il Fatto Quotidiano il 2 febbraio 2021. “Sì, questi passaggi nel mio libro non ci sono. Ho introdotto degli argomenti, non ho messo tutto”. Ieri chi vi scrive, autore del libro Magistropoli (edizioni Paper First), si è confrontato con Luca Palamara, protagonista del libro intervista Il Sistema (edito da Rizzoli). A moderare il dibattito online il vicedirettore del Fatto Marco Lillo. Tra gli argomenti trattati, quello sul procedimento disciplinare al pm Henry John Woodcock, condannato dalla consiliatura del Csm successiva a quella di Palamara: fu punito per aver rilasciato un’intervista a Repubblica – mai autorizzata – e poi assolto dalla Cassazione.Ne “Il Sistema” Palamara si sofferma solo su un punto della vicenda: sostiene – ma il pm Giuseppe Cascini l’ha già smentito più volte – che il 5 luglio 2018 (…) “Cascini mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare (…) mi parla di un’intercettazione tra Legnini, vicepresidente del Csm e quindi arbitro della contesa, e l’onorevole Cirino Pomicino, in cui Legnini parla molto male del pm napoletano, in possesso dello stesso Woodcock, che è intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti (…)”. Cascini ha negato di aver mai parlato dell’intercettazione, della quale ignorava l’esistenza e ha annunciato che adirà le vie giudiziarie. Ma passiamo a ciò che nel suo libro intervista Palamara non dice. Palamara ieri non si è sottratto né alle obiezioni né alle domande. Ha anche sostenuto che intende parlare, di questo e altro, se sarà convocato, dinanzi alla Prima commissione del Csm e alla commissione antimafia. Ha aggiunto: “La condanna di Woodcock a mio avviso è stata un segnale. La mia è solo una valutazione ma ritengo che si trattò di un segnale per dire: ‘smetti di fare le indagini in quel modo’”. Se gliene chiediamo conto è per via di una frase scritta nelle sue chat: quando nel 2019 Woodcock viene condannato, commentando con un collega la sentenza, Palamara scrive: “Segnale per lui”. Adesso sappiamo cosa Palamara intendesse con quelle parole. Ma andiamo avanti.Nel luglio 2017, quando era nella Prima commissione del Csm, competente sull’eventuale incompatibilità ambientale di Woodcock a Napoli, riferisce in diretta all’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, l’andamento delle audizioni. E Woodcock era indagato (poi sarà prosciolto) proprio dalla procura guidata da Pignatone, per rivelazione del segreto d’ufficio per le fughe di notizie sui primi scoop del Fatto sull’inchiesta Consip. Ieri Palamara ha spiegato: “Nei mesi precedenti, prima dell’indagine, ero stato a cena con Pignatone e Luca Lotti”. A detta di Palamara le cene con poche persone si sarebbero tenute a casa dell’avvocato Paola Balducci. Poi Lotti sarà indagato nell’inchiesta Consip, con l’accusa di favoreggiamento e rivelazione di segreto. Palamara continua: “In quel periodo parlo con Pignatone anche dell’arrivo del fascicolo Consip che riguardava Lotti”. Quindi giunge al suo ruolo al Csm: “All’epoca ero vice presidente della Prima commissione del Csm e tra i miei compiti c’era quello di indagare su fughe notizie che avevano riguardato i fascicoli Cpl Concordia e Consip. Già dal 2016, sia in virtù della mia provenienza dalla procura di Roma, sia per il mio ruolo, c’era un’interlocuzione con Pignatone. L’iscrizione di Woodcock nel registro degli indagati mi lasciò molte perplessità: indagava su Consip ed era indagato dall’ufficio con cui si coordinava. Ne discutevo con Pignatone, con il quale c’era un confronto costante, anche in riferimento a quel che accadeva in prima commissione. L’iscrizione aveva alterato i rapporti tra gli uffici di Napoli e Roma e c’era molta attenzione a comprendere quel che avveniva nelle audizioni”.
Abbiamo chiesto al procuratore Pignatone se sul punto volesse precisare qualcosa ma ha preferito non replicare. A Palamara abbiamo chiesto conto anche di una chat agli atti. Perché il consigliere Lucio Aschettino gli scrive “Così Francesco (Cananzi, membro del Csm, ndr) fotte Sirignano (Cesare, magistrato che con Woodcock era titolare del fascicolo Cpl Concordia, ndr) io per questo non ho posto l’accento”? E perché Palamara gli risponde: “Non preoccuparti correggo io”? “Fottere” o non “fottere” Tizio o Caio è il modo corretto di condurre un’audizione? Palamara risponde: “L’indagine che facciamo è per capire se ci fu una fuga di notizie da parte dei magistrati di Napoli”. La fuga di notizie teorica non c’era però. Lo scoop del Fatto su un’intercettazione tra Matteo Renzi e il generale della GdF Michele Adinolfi, infatti, “Non era un notizia riservata e segreta” spiega Palamara “perché era allegata all’informativa su Cpl Concordia. (…) Aschettino in sostanza mi dice: ‘occhio, che se Cananzi fa queste domande, cioè va verso questa direzione, mette nei guai Sirignano, che avrebbe dovuto evitare che la notizia diventasse pubblica da titolare del fascicolo’”.
Non era un'invenzione di Palamara. Melillo conferma che l’intercettazione su Woodcock esiste, ma è stata nascosta. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Febbraio 2021. L’intercettazione “bomba” che doveva servire per stoppare il procedimento disciplinare nei confronti di Henry John Woodcock esiste. Non è una invenzione di Luca Palamara. Lo ha confermato il procuratore di Napoli Giovanni Melillo al quotidiano La Verità. La circostanza era stata rivelata dall’ex presidente dell’Anm nel libro-intervista Il Sistema. «Il 5 luglio del 2018 – racconta Palamara ad Alessandro Sallusti – Giuseppe Cascini (esponente di punta della sinistra giudiziaria e all’epoca, prima di essere eletto al Csm, procuratore aggiunto a Roma, ndr) mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare». Il pm napoletano era a processo davanti alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli per fatti relativi all’indagine Consip. «Ci incontriamo – prosegue Palamara – al bar Settembrini a Roma e (Cascini) mi parla di una intercettazione tra Legnini e Pomicino» in cui il vicepresidente del Csm «parla molto male del pm napoletano». Woodcock, in possesso dell’intercettazione, sarebbe «intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti». Il procedimento disciplinare, arrivato alle battute finali e pronto per la sentenza, subirà un rinvio e sarà concluso solo nella primavera del 2019, quando Legnini aveva terminato il mandato al Csm. Questi i fatti. Chiamato in causa, Cascini aveva affermato di non aver «mai saputo della esistenza di una intercettazione tra Legnini e Cirino Pomicino nella quale si parlava di Woodcock». «Non posso – aveva aggiunto – aver parlato con Palamara di una intercettazione della quale ignoravo (e ignoro) l’esistenza». «Non parlo con Woodcock da anni e certamente non mi ha riferito il contenuto di una intercettazione del genere. Ignoro quale interesse potessi avere io a veicolare a Palamara un messaggio del genere», aveva poi aggiunto. L’intercettazione “ambientale” riguardava un colloquio avvenuto nel 2016 fra Cirino Pomicino e l’imprenditore Alfredo Romeo, indagato dalla Procura di Napoli nel procedimento Consip. L’ex ministro si era rivolto nei mesi scorsi a Melillo per avere informazioni ma il procuratore di Napoli non aveva mai voluto dire nulla. Sono stati, dunque, più fortunati i giornalisti de La Verità. «È compresa fra gli atti trasmessi alla Procura della Repubblica di Roma al fine delle indagini relative ai delitti di competenza di quel Tribunale», ha fatto sapere Melillo. Per capire, però, come mai questa intercettazione, dopo essere finita a Roma, sia rimasta chiusa in questi anni in qualche armadio della Procura, è necessario tornare alla sera del 20 dicembre del 2016 quando i carabinieri del Noe, su delega di Woodcock, stanno interrogando a Roma Luigi Marroni, l’ex amministratore delegato della centrale acquisti della Pa. Nell’interrogatorio Marroni sta ammettendo di aver ricevuto ben quattro soffiate sull’indagine e sul fatto che fossero in atto intercettazioni telefoniche con microspie collocate nei propri uffici. Marroni dice di averlo saputo parlando con il deputato Luca Lotti, con il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia, con il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua Filippo Vannoni, e con il presidente di Consip Luigi Ferrara, a sua volta informato dal numero uno dell’Arma Tullio Del Sette. Quest’ultimo, per tale rivelazione, è stato condannato il mese scorso a 10 mesi di reclusione. L’ex ad aveva fatto bonificare il proprio ufficio, rimuovendo le microspie. Sfumata l’indagine gli inquirenti avevano deciso di sentirlo. Mentre i carabinieri e Woodcock stanno finendo di interrogare Marroni, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sta iniziando la cena per gli auguri di Natale con gli aggiunti Paolo Ielo e Rodolfo Sabelli e i vertici della Guardia di finanza della Capitale. Ielo, a metà della cena, riceve la telefonata di Woodcock che lo informa di questa attività investigativa da cui emergono elementi su una fuga di notizie che sarebbe stata causata dal comandante generale dell’Arma e da un esponente apicale del governo. Ielo avverte Pignatone e gli dice che la cosa migliore da fare sarebbe recarsi dai carabinieri. Pignatone non è d’accordo ma Ielo decide di andare lo stesso. Arrivato al Noe, Ielo legge il verbale delle dichiarazioni di Marroni e concorda con l’ipotesi di reato avanzata da Woodcock nei confronti di Lotti e Del Sette, sottolineando che la competenza sarà della Procura di Roma. Il giorno successivo, il 21, alle ore 18 per l’esattezza, Woodcock si reca a piazzale Clodio e consegna nelle mani di Pignatone il fascicolo, verosimilmente anche con l’intercettazione ambientale in questione che, però, non verrà mai depositata alle parti e rimarrà patrimonio di conoscenza in questi anni solo degli inquirenti. Per la cronaca, il 22 dicembre del 2016, Il Fatto Quotidiano aprirà il giornale con lo scoop sull’indagine Consip.
Il pallone ha un ruolo centrale. Chat e calcetto con Palamara, Prestipino e la promozione di Cascini Jr. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. «Nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire i curricula», disse, sommerso dalle critiche, Giuliano Poletti, allora ministro del Lavoro del governo Gentiloni. Leggendo la chat fra Luca Palamara e Francesco Cascini, fratello minore del più famoso Giuseppe, il togato del cartello progressista Area al Csm, il pallone ha un ruolo centrale. Ma iniziamo dalla fine. Cascini junior è stato recentemente nominato dal procuratore Michele Prestipino a far parte della Dda di Roma. Anche se la Cassazione ha smontato l’unica indagine per mafia che era stata fatta in pompa magna nell’Urbe da Giuseppe Pignatone, il suo predecessore e ora numero uno del Tribunale pontificio, Prestipino ha deciso di rinforzare comunque con tre nuove risorse la Dda di piazzale Clodio. Per far parte dell’antimafia romana era necessario, come da circolare, essere in possesso di “specifiche attitudini” e particolari “esperienze professionali”. Gli aspiranti dovevano aver svolto nella loro carriera procedimenti per reati di “criminalità organizzata”, essersi occupati di “misure di prevenzione antimafia”, aver avuto “rapporti con autorità investigative straniere ed esperienze professionali extragiudiziarie attinenti la criminalità organizzata”. Dulcis in fundo, aver redatto “pubblicazioni scientifiche” sulla materia. L’incarico di pm antimafia dura otto anni ed è molto ambito essendo titolo preferenziale per poter diventare procuratore. Tra i magistrati scelti, oltre a Cascini junior ci sono le pm Margherita Pinto e Maria Teresa Gerace: come scrive Prestipino, hanno maturato una vasta esperienza nel contrasto delle mafie, avendo lavorato a lungo in Procure calabresi. La dottoressa Gerace, in magistratura dal 2002, ha battuto la concorrenza di colleghi con maggiore anzianità di servizio, come Pietro Pollidori di oltre dieci più anziano. Torniamo, però, a Cascini junior. Il magistrato è stato a lungo, dal 2007 al 2018, fuori ruolo: prima dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e poi, in qualità di capo, al Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia. A via Arenula, per un periodo, è stato anche vice capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd). Cascini junior condivide con Palamara la grande passione per il pallone. I due si sentono spessissimo per organizzare partite di calcio e di padel nei centri sportivi dei Parioli. Fra i circoli preferiti c’è quello prestigioso dell’Aeronautica militare. Palamara, “malato” di pallone, ha anche creato un “clone” della Nazionale italiana magistrati di calcio, la Nazionale magistrati, senza “italiana”. Fra una nomina e l’altra organizza per le toghe tornei e partite senza soluzione di continuità. Un match degno di nota è quello fra “Procura Roma” e “Fuori ruolo”. I magistrati fanno la fila per giocare nella sua rappresentativa. Marco Mescolini, nominato procuratore di Reggio Emilia, gli regalerà la maglietta con su scritto “Pal Re di Roma”. Come Francesco Totti o prima di lui Paolo Roberto Falcao. Esaurito il bonus decennale per rimanere fuori ruolo, Cascini junior nel 2017 ha fatto domanda per la Procura di Roma. Scrive Cascini jr a settembre del 2017: «Luca ho mandato l’integrazione, sai qualcosa? Grazie». Palamara risponde: «Ti aggiorno tra poco». Cascini jr: «Ma secondo te come si mette?». «Sto cercando di rimetterla a posto, sono fiducioso», dice Palamara. Cascini jr: «Grazie mille Luca speriamo bene al plenum». «Speriamo bene», risponde Palamara. Cascini jr: «Grazie davvero senza di te non avevo speranze». Palamara: «Devo tenere a bada la San Giorgio (Maria Rosaria, togata di Unicost, la corrente di Palamara ed ora eletta giudice della Corte costituzionale, ndr)». Cascini: «Villani (Carlo, l’altro magistrato che ha fatto domanda per Roma, ndr) sta al Dap con il virtuale rientra quando vuole. Non danneggio nessuno ed è solo un fatto formale». Passa qualche giorno e Palamara scrive: «Sta andando bene in Commissione». Cascini: «Meno male grazie sai quando va in Plenum?» Palamara: «No ancora è combattuta in Commissione (la Terza, competente per i ‘tramutamenti’, ndr)». «Ma non è già passata 3 a 3?», domanda Cascini. Palamara lo gela: «Stanno discutendo di nuovo». Per poi aggiungere: «Passato in Commissione». Cascini, sollevato: «Grazie Luca, grazie davvero». Palamara, in trance da chat, aveva scritto anche a Cascini senior: «Ora in terza (Commissione, ndr) a difendere tuo fratello». E poi: «Francesco ok». «Grazie Luca», la risposta di Cascini senior, all’epoca procuratore aggiunto a Roma. Che cosa era successo? Perché ci fu una discussione “combattuta” in Commissione? E perché la togata San Giorgio venne ‘tenuta a bada’ a Palamara? L’ex zar delle nomine non ha fornito risposte. Per la cronaca, dopo che i giornali diedero la notizia, il 30 maggio del 2019, dell’indagine per corruzione a carico di Palamara, nata da una nota inviata a Perugia anche da Cascini senior l’anno prima, Cascini jr scrisse: «Luca mi dispiace per tutto quello che sta accadendo. Un abbraccio». «Grazie di cuore Ciccio. Ti voglio bene. Non merito tutto questo», la risposta di Palamara all’amico e compagno di tante partite.
Area: “Il libro di Palamara? Una congiura contro le toghe di sinistra”. Redazione su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Pubblichiamo qui di seguito un documento elaborato dalla corrente “AREA DG” della magistratura, e cioè dal gruppo di magistrati che recentemente si sono staccati da Magistratura democratica in polemica con le posizioni polemiche con Davigo prese dalla maggioranza di Md e con la scelta di Santalucia alla guida dell’Anm. I principali e i più celebri magistrati che hanno dato vita a questa nuova corrente sono Giuseppe Cascini, Luca Poniz, Eugenio Albamonte, Anna Canepa. Il documento è di asperrima polemica col libro di Luca Palamara e coi giornali (per la verità pochi pochi) che ne hanno parlato. Da giorni è in atto una campagna di screditamento della magistratura, delle istituzioni giudiziarie e delle più alte cariche istituzionali del Paese, condotta attraverso il libro-intervista di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, la cui pubblicazione e i cui contenuti sono stati rilanciati e amplificati attraverso passaggi televisivi e organi di stampa. Con questa operazione si cerca di accreditare una fantasiosa ricostruzione secondo cui da oltre vent’anni la magistratura progressista, attraverso il controllo delle cariche apicali della magistratura e delle più importanti Procure, e in combutta con l’occulta e sapiente regia della Presidenza della Repubblica e, in particolare, del Presidente Giorgio Napolitano, avrebbe pilotato, condizionato e strumentalizzato a fini politici le iniziative giudiziarie da un lato indirizzandole contro alcuni leader politici, dall’Onorevole Berlusconi, all’Onorevole Renzi e fino, da ultimo, all’Onorevole Salvini, in quanto avversari e invisi al Partito democratico e dall’altro avrebbe agevolato il Governo Prodi, mettendolo al riparo da azioni giudiziarie che ne avrebbero pregiudicato l’immagine. Un sistema, secondo gli autori, che attraverso il controllo delle nomine avrebbe consentito l’eterodirezione dell’azione giudiziaria e la sua strumentalizzazione a fini politici. L’operazione è condotta attraverso una narrazione capziosa e strumentalmente orientata, intrisa di clamorose falsità – alcune delle quali già documentalmente accertate – mezze verità e reticenze, millanterie, allusioni e accostamenti maliziosi, secondo una tecnica di diffamazione a mezzo stampa ben nota e sanzionata nelle aule giudiziarie, con cui Luca Palamara confessando, con sconcertante disinvoltura, la commissione di gravissime condotte, contrarie a un corretto esercizio delle proprie funzioni, cerca di costruire il teorema che non regge al confronto con la logica e la storia. Perché nel pretendere di ricostruire secondo una lente deformata la storia giudiziaria italiana degli ultimi vent’anni, il libro intervista prende in considerazione numerose vicende giudiziarie che hanno interessato imputati eccellenti, omettendo di spiegare che quelle inchieste sono state istruite lungo un ampio arco temporale, dalle più diverse procure della Repubblica, nelle quali vi hanno lavorato molti magistrati e sono state decise da altrettante Corti composte da dirigenti e magistrati della più varia ed eterogenea estrazione ed orientamento. Tanto che appare estremamente fantasioso che possano tutti esser stati condizionati nelle loro determinazioni da un unico manipolatore, fosse anche collocato ai più alti vertici istituzionali. In questo contesto deformato, i magistrati tutti – dirigenti, inquirenti, giudici civili e penali – salvo qualche eccezione faziosamente selezionata, farebbero parte di un sistema che li accomuna nella loro permeabilità alle pressioni politiche esercitate dai partiti della sinistra, nell’essere proni ai loro interessi e disponibili a svendere la funzione, la loro autonomia e indipendenza, non si comprende neppure bene per quale tornaconto. Il libro e il teorema che con esso si pretende di dimostrare, costituiscono, all’evidenza il punto di convergenza di un coacervo di interessi privati non certo commendevoli. Quello personale di Luca Palamara rivolto da un lato, a lucrare un ricollocamento in politica come da lui stesso appalesato, dall’altra a screditare tanto la Procura generale, quanto il C.S.M. che ne hanno determinato in sede disciplinare l’espulsione dall’ordine giudiziario e la destituzione, nonché nei confronti degli organi inquirenti e giudicanti competenti nell’ambito delle inchieste che lo vedono tuttora al centro di accuse di corruzione e altri reati. Ma vi è anche l’oggettivo interesse, convergente, di indagati e imputati, alcuni anche condannati in via definitiva, coinvolti in inchieste giudiziarie di grande risalto mediatico, a riscrivere, mistificandola, la storia giudiziaria del nostro Paese, per accreditare l’idea presso l’opinione pubblica di una azione inquirente etero diretta dalla politica e di una giurisdizione di parte. A fare le spese dell’intera operazione non sono solo i singoli, i gruppi della magistratura associata e coloro che, specificamente coinvolti, hanno già depositato querele o si apprestano a proporle e a intraprendere azioni in sede civile per le accuse gravemente diffamatorie e calunniose contenute nel libro-intervista, ma l’intera magistratura. Per perseguire gli interessi personali di chi ha ordito questa operazione, infatti, si delegittima e si disonora l’intero corpo giudiziario, spargendo un discredito che attinge tutti, accomunando la parte sana della magistratura a coloro che hanno strumentalizzato la loro funzione. In tal modo si restituisce una immagine complessiva della magistratura del tutto lontana dalla realtà che rischia di determinare una generalizzata perdita di fiducia agli occhi dell’intera comunità. Certamente esiste ed è sotto gli occhi di tutti una grave caduta etica che ha colpito profondamente l’autogoverno della magistratura piegato, dalle correnti e dai potentati personali che hanno operato in esse, a strumento di clientela e di favoritismo consortile; ma il libro intervista, lasciando sullo sfondo l’inchiesta di Perugia e le vicende connesse e omettendo intenzionalmente la narrazione di fatti che coinvolgevano persone che si è ritenuto conveniente non esporre, non contribuisce minimamente ad individuare le cause, le relative responsabilità ed i necessari indifferibili rimedi. Questa narrazione interessata non serve ai magistrati italiani; non serve a migliorare l’autogoverno, non serve al processo di rifondazione etica che, a partire dalla giunta uscente, è stata avviata dall’A.n.m. e viene ora portata avanti con convinzione. L’Associazione nazionale magistrati, i suoi aderenti e i gruppi associativi si sono impegnati in un processo di rinnovamento etico che passa attraverso l’indagine disciplinare ormai avviata, ma impone anche una profonda riflessione sulle cause che quella caduta hanno determinato e sugli strumenti idonei a prevenirla. Tale processo deve proseguire, lungo la strada che la stessa Associazione ha tracciato, per l’accertamento delle violazioni deontologiche, ma anche per contrastare il carrierismo e recuperare il senso e l’orgoglio di essere quel che la nostra Costituzione ci ha reso: semplici magistrati, che si distinguono tra loro solo per funzione, che svolgono in modo autonomo e indipendente il loro lavoro per la tutela dei diritti e delle garanzie dei cittadini, che non si rendono strumento di manipolazione esterna ne vittime di condizionamenti nell’esercizio delle loro funzioni.
E se ogni tanto qualcuno di voi si dimettesse? Il documento di Area? Poco convincente, ecco perché. Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. C’è qualcosa di poco convincente nel documento di “Area” che pubblichiamo qui. Almeno quattro cose, francamente, non mi convincono. La prima riguarda la denuncia della campagna di stampa, la seconda riguarda le responsabilità dei magistrati di Md, la terza riguarda la critica al libro di Palamara, la quarta riguarda il potere nelle Procure.
1) È in corso una campagna di stampa contro la magistratura? Beh, non posso immaginare che i magistrati che hanno steso questo documento lo credano davvero. Altrimenti dovrei pensare che la loro percezione della realtà sia molto molto ridotta. E siccome è affidata al loro giudizio la vita di molti imputati, mi preoccupo seriamente. Vediamo un po’. Faccio qualche esempio. Ci fu un ministro che si dimise su due piedi perché i giornali urlarono in prima pagina, e le Tv in apertura dei telegiornali, la notizia che un signore, indiziato, aveva regalato un orologio a suo figlio. Poi il signore indiziato fu assolto. Ma il ministro pagò severamente la campagna di stampa contro di lui. Condotta non dai piccoli giornali ma dai giornali importanti, tutti, compatti. Oppure vogliamo parlare delle settimane nelle quali l’intero dibattito politico, guidato dal Fatto con al seguito grandi quotidiani e Tv, fu centrato su una casa legittimamente comprata da Matteo Renzi a Firenze? Oppure preferite che vi riassuma brevemente il caso Ruby e che faccia un rapido conto dei titoli cubitali in prima pagina su Berlusconi stupratore? Forse 200, forse 400. Assolto. Amici magistrati, tranne il Riformista, la Verità e Il Giornale, se non sbaglio, nessun quotidiano ha riportato in prima pagina la notizia dell’uscita del clamoroso libro di Palamara. Né tantomeno, nei mesi precedenti, i giornali avevano scritto in prima pagina qualche riga sui tanti whatsapp di Palamara che offrivano la prova provata dei clientelismi, delle scorrettezze e degli scambi di potere che hanno determinato la scelta dei massimi vertici della magistratura italiana. Ditemi la verità: se una massa così impressionante di indizi e prove, anziché la vita interna della magistratura, avesse riguardato la vita interna dei partiti, o del parlamento, quanti avvisi di garanzia avreste firmato? E se avesse riguardato la vita delle regioni, o dei grandi Comuni, e la scelta delle giunte, quanti arresti, quante perquisizioni, quanti telefonini e computer sequestrati? Non solo non c’è stata nessunissima campagna di stampa contro la magistratura. C’è stata la più assoluta omertà – sì: omertà – da parte dei mass media, di fronte a quello che anche voi avvertite – e lo lasciate capire nelle ultime righe del vostro documento – come un enorme scandalo che mina alla base la credibilità e l’onore della magistratura. Perché questa omertà? Perché quasi tutto il giornalismo giudiziario, da una ventina d’anni, è completamente subalterno alle Procure. E questa è una delle ferite più gravi al principio della libertà di stampa e spesso anche al corretto funzionamento dello Stato di diritto.
2) Alcuni magistrati hanno pagato per il Palamaragate. Pochi, certo, di fronte alle dimensioni gigantesche dello scandalo, ma qualcuno ha pagato. Hanno dato le dimissioni magistrati appartenenti, mi pare, a tutte le correnti. Tranne una. La vostra. Eppure nei whatsapp e negli Sms di Palamara c’erano episodi non bellissimi che riguardavano anche qualcuno di voi, se non mi sbaglio. Non si è dimesso nessuno. Perché?
3) Voi parlate di omissioni e imprecisioni nel racconto contenuto nel libro di Sallusti e Palamara. Se ci sono vanno corrette. Sarebbe importante però che voi ci diceste quali sono. Finora non avete citato neppure un caso concreto. Le poche smentite arrivate (pochissime) sono apparse molto poco convincenti.
4) Voi dite – riferendovi, mi pare in modo evidente, a Berlusconi – che “quelle inchieste – cito alla lettera – sono state istruite lungo un ampio arco temporale, dalle più diverse Procure della Repubblica, nelle quali vi hanno lavorato molti magistrati e sono state decise da altrettante Corti composte da dirigenti e magistrati della più varia ed eterogenea estrazione ed orientamento”. Giusto. E come sono finite? Una settantina di inchieste. Una condanna (molto discussa anche in magistratura, e sulla quale pende un ricorso a Strasburgo), una cinquantina di assoluzioni o proscioglimenti e una ventina di prescrizioni (generalmente dovute alla rinuncia da parte dei Pm che non trovavano prove). Beh, che dite? A me pare che ci sia qualcosa che non va, in questi numeri. Qualcosa di molto preoccupante se tenete conto del fatto che alcune di queste inchieste hanno provocato terremoti politici. Giusto? Poi voi aggiungete: non siamo noi a controllare le diverse Procure. Vediamo. Le Procure veramente importanti, in Italia, sono tre: Milano, Roma e Napoli. Coi voti di chi, negli ultimi 20 anni, sono stati nominati i Procuratori in queste tre città. Beh, coi vostri… E allora, invece di protestare denunciando una persecuzione contro di voi, perché non prendete in mano la situazione e decidete una indagine seria al vostro interno, e proponete una vasta campagna di dimissioni dai vertici della magistratura, e una riforma seria che dia garanzie non a voi ma ai cittadini? È chiedere troppo? Non riuscite proprio in nessun modo ad uscire da una logica di corporazione e di difesa dei privilegi (anche del diritto alla sopraffazione) per entrare nell’ottica dei giuristi e dei servitori fedeli dello Stato?
P.S. Il ministro Bonafede, si sa, non aveva alcuna autonomia della magistratura, e dunque era impensabile che usasse i suoi poteri per indagare, correggere ed eventualmente punire e rimuovere. Il prossimo ministro si deciderà ad esercitare il suo ruolo e i suoi poteri?
Il Palamaragate e i suoi scandali. Intervista a Clementina Forleo: “Dopo 13 anni il libro di Palamara mi dà ragione”. Angela Stella su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. La dottoressa Clementina Forleo è una delle tante vittime dei meccanismi di strapotere delle correnti della magistratura: nel libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, Il Sistema, (Rizzoli) il suo nome è citato undici volte a partire dal capitolo “Chi tocca la sinistra è fuori”. E infatti, come è noto, contro Forleo, ex gip al Tribunale di Milano, ora in servizio in quello di Roma, fu emanato un vero e proprio anatema perché osò sfidare, come sostiene Palamara nel libro, sia la procura di Milano, considerata un «monolite, un fortino delle correnti di sinistra, non espugnabile», «sia la sinistra, nella primavera 2007 al governo». Clementina Forleo nel luglio 2008 fu addirittura trasferita da Milano a Cremona a seguito di una decisione del plenum del Csm che rilevò una sua incompatibilità ambientale per le dichiarazioni rese alla trasmissione di Michele Santoro Annozero sui «poteri forti» i quali, anche per il tramite di «soggetti istituzionali», avrebbero interferito nelle sue funzioni, proprio mentre da gip si stava occupando dell’inchiesta Bnl-Unipol. Il Tar prima e il Consiglio di Stato poi accolsero i ricorsi di Forleo che fu reintegrata a Milano. Prima ancora era stata assolta dalla sezione disciplinare del Csm dall’accusa di aver violato i suoi doveri per i contenuti dell’ordinanza con la quale, nel luglio del 2007, chiese alle Camere l’autorizzazione all’uso di intercettazioni che riguardavano alcuni parlamentari, tra cui D’Alema, Fassino e Latorre nell’ambito della stessa vicenda. Insieme ad oltre cento colleghi, Forleo ha firmato qualche giorno fa una lettera in cui si chiede al Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e al togato del Csm Giuseppe Cascini, di «smentire in modo convincente» il racconto di Luca Palamara che li ha chiamati in causa direttamente. In questa intervista ci tiene non tanto a fare la diagnosi del male che ha infettato la magistratura quanto a proporre una cura in un dialogo con la politica.
Dottoressa Forleo, Palamara nel suo libro l’ha definita “l’eretica” che ha osato sfidare certi poteri. Alla luce di quanto venuto fuori in questo ultimo anno e mezzo cosa si sente di dire?
«Non ho sfidato nessuno, semmai è stato qualcun altro a sfidare me, o meglio il mio operato e con esso l’autonomia e indipendenza della magistratura, senza evidentemente immaginare che a distanza di anni e grazie a un trojan inoculato nel cellulare di uno dei protagonisti di quella e di altre vicende, si potesse pervenire ad una confessione su quanto realmente accaduto. Io ho fatto quello che avrei fatto con qualunque altro potenziale indagato, mettendo inevitabilmente nero su bianco che l’autorizzazione a utilizzare le conversazioni intercettate era necessaria anche per consentire l’iscrizione nel registro degli indagati di taluni parlamentari che all’evidenza risultavano complici dei reati contestati, dato che l’unico elemento a loro carico era costituito da quelle conversazioni. È evidente che l’iscrizione avrebbe dovuto farla l’Ufficio del pm, come è altrettanto evidente che si sarebbe trattato di atto dovuto per il principio di obbligatorietà dell’azione penale, e ciò a prescindere dallo sviluppo successivo del procedimento. Tanto poi non è accaduto, nonostante il Parlamento avesse dato il via libera all’iscrizione, ma io ormai ero stata spedita a Cremona per “deficit di equilibrio”: cosi si giunse a scrivere in quella vergognosa pagina della magistratura italiana. Ora il dottor Palamara ci fa comprendere senza mezzi termini perché dunque costituivo un “pericolo” e che era necessario spostarmi “di peso” in altra sede. Non mi rimane che ringraziare il tempo, che è sempre galantuomo».
Fabrizio Cicchitto ha dichiarato che la sua vicenda, come quella di altri suoi colleghi, mette in evidenza «che nel sistema non c’era solo una sistematica intesa fra le correnti per l’assegnazione dei vari incarichi nella magistratura ma anche almeno dal ‘92-94 fino al 2013 uno scientifico uso politico della giustizia che scientificamente privilegiava la sinistra sia sul terreno dell’attacco sia sul terreno della difesa». È d’accordo?
«Posso solo dire che mentre negli anni novanta l’attacco al magistrato libero proveniva solo dall’esterno, ossia dal potere politico, dal 2007 in poi i veri attacchi sono arrivati dall’interno della magistratura associata. Che poi tali attacchi abbiano colpito chi si stava occupando di certe forze politiche “vicine” a certa parte della magistratura, è storia. In altri termini, è saltato il principio costituzionale sancito nell’art.101 anche per volere di alcuni vertici dell’ordine giudiziario».
Il professor Vittorio Manes da queste pagine ha detto: «Bisognerebbe prendere atto che l’amministrazione del giustizia è un “servizio”, una “public utility” dove i magistrati sono “civil servant” e i cittadini gli utenti; e che, specie in materia penale, un obiettivo minimo di civiltà impone di assicurare uniformità e parità di trattamento». Quanto siamo distanti da ciò in questo momento?
«Nonostante l’impegno dei tantissimi colleghi che amministrano la giustizia nell’unico interesse di rendere un servizio al cittadino, quanto è accaduto a seguito dell’attivazione di quel trojan e a seguito della pubblicazione degli innumerevoli messaggi rinvenuti sul telefono del dottor Palamara ci porta a concludere che siamo lontani anni luce da quel modello di cui parla il professor Manes».
Qualcuno vuole ridurre Palamara a capro espiatorio. Lei cosa ne pensa?
«Spero che si faccia chiarezza al più presto su quello che è emerso dall’indagine di Perugia e che il dottor Palamara non sia il solo a pagare, rappresentando all’evidenza uno dei tanti anelli di quella che altri colleghi anche su queste pagine, hanno definito “cupola”.
La parola chiave dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata “credibilità”. La magistratura è davvero pronta ad intraprendere il cammino di redenzione o sono solo messaggi di facciata? A suo parere, come si può sconfiggere il “sistema”?
Proprio per il carattere diffuso delle patologie emerse, che hanno investito anche i vertici del potere giudiziario (alcuni dei quali com’è noto, sono stati costretti a dimettersi), ritengo che la cura non possa che provenire dall’esterno. Penso ad una commissione parlamentare d‘inchiesta ma penso soprattutto ad una riforma che sottragga l’organo di autogoverno al potere delle correnti, che da centri di confronto culturale si sono via via trasformati in centri di spartizione clientelare del potere, giungendo ad essere complici dell’isolamento del magistrato che osava ed osa pensarla diversamente. Per riacquistare credibilità e per avere la garanzia di magistrati davvero autonomi e indipendenti, io ed altri sempre più numerosi colleghi chiediamo quindi che i componenti del Csm siano eletti in base a candidature non controllate dalle correnti, ma costituite da magistrati estratti a sorte in base a dei criteri prestabiliti, escludendo ad esempio i magistrati più giovani e quelli con censure disciplinari. Ancora, e mi riferisco alle proposte del movimento “Articolo 101”, penso anche a un sistema di rotazione degli incarichi direttivi tra i più anziani del singolo ufficio. Era il 2008 quando dicevo che se non si è “sostenuti” da una corrente non si può aspirare a nessuna nomina, a nessun incarico: già allora ero l’”eretica”, la “donna dai facili applausi” come qualche signore della magistratura associata mi definì con toni, a mio avviso, misogini. A distanza di oltre dieci anni, la nuda realtà emersa dalla messaggistica del telefono del dottor Palamara, oltre che dalle sue stesse parole, mi conferma che non avevo vaneggiato».
Nessuna riforma è possibile senza la volontà politica: secondo Lei avrà finalmente questo coraggio?
«Penso che sia venuto il momento che anche la classe politica tutta “prenda coraggio”, anche nel suo stesso interesse, onde evitare che – come si è visto anche in noti messaggi sempre estratti dal telefono del dottor Palamara e concernenti l’allora Ministro dell’Interno – alcune forze politiche possano essere danneggiate dalla “vicinanza” di taluni vertici del potere giudiziario a forze politiche di segno opposto».
Lei in passato, parlando della sua vicenda, ha detto: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti». Crede che adesso ci sarà più solidarietà tra voi colleghi danneggiati o il sistema fa ancora paura e nessuno si esporrà?
«Ora come allora mi fa paura il “silenzio degli onesti”, ossia dei tantissimi magistrati perbene che per i più vari motivi non osano mettersi contro il “sistema”. Capisco i più giovani e i loro timori, ma mi rimane incomprensibile il silenzio di chi non ha nulla da temere. Qualcuno ci accusa di fare il gioco del “nemico” e di contribuire a gettare fango sulla categoria: mi chiedo, ironicamente, a quale “nemico” e a quale “tipo” di fango ci si riferisca. Concluderei lanciando un messaggio ai giovani colleghi e citando una famosa frase di Indro Montanelli: «Non esitate a lottare per quello in cui credete. Perderete, come ho perso io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne: quella che ingaggerete ogni mattina di fronte al vostro specchio»».
Clementina Forleo: no, la legge non è uguale per tutti. di Mariella Boerci il 20/10/2010 su ariannaeditrice.it. Viso e parole affilatissimi nonostante il sorriso e la dolcezza della maternità appena voluta a dispetto dell'anagrafe, Clementina Forleo, 47 anni, non smentisce la sua fama di giudice che non teme di cantare fuori dal coro (per questo, nel 2008, è stata «esiliata» a Cremona) e ricorda che «l'articolo 82 della Costituzione prevede che il Parlamento costituisca una commissione d'inchiesta qualora particolari motivi di interesse pubblico lo ti chiedano».
Smentendo così, indirettamente, chi ha invitato il premier ad «andare a leggersi la Costituzione».
«Non so se la situazione sia tale da richiedere effettivamente una commissione parlamentare d'inchiesta. In alcune regioni però, e soprattutto in certe procure più esposte ai riflettori si sono verificati da parte di alcuni pm eccessi di potere che meriterebbero di essere valutati. A prescindere dal caso Berlusconi».
Susciterà un vespaio...
«Ci sono abituata».
Ma lei è favorevole a una commissione parlamentare?
«Non sono contraria a patto che, accertati i presupposti concreti circa la sua istituzione, ponga poi l'attenzione a 360 gradi su ciò che è accaduto negli ultimi anni, senza fare sconti a nessuno, superpotenti e intoccabili compresi. Io stessa, a quel punto, chiede rei di essere ascoltata perché si indagasse sulla vicenda delle scalate bancarie (che coinvolgeva esponenti del Pd, come Massimo DAlema e Nicola Latorre, ndr) che mi è stata sot tratta tra il maggio e il 29 luglio 2008».
Che cosa lamenta?
«Le carte concernenti la posizione del senatore Latorre, che in seguito alla mia richiesta tomavano dal Senato, stranamente] non arrivarono mai sulla mia scrivania. Finché, approfittando di una mia assenza di sette giorni, dopo oltre due mesi il pm le dissotterrò per inoltrarle «con urgenza» al gip di turno. Questi le rispedì al Senato senza informarmi, mentre ero stata tenuta al corrente di ogni dettaglio anche durante le ferie. Questo salvò Latorre. Se invece le carte fossero arrivate a me, che ero il giudice naturale; le avrei inoltrate al pm affinché decidesse se avviare o meno un procedimento, come già avevo fatto per D'Alema. Ritengo che questa sia una delle pagine più nere della giustizia e della storia del nostro Paese. Per questo richiede chiarezza».
Per questa vicenda Anna Finocchiaro l'ha appena querelata.
«Le ho risposto con una denuncia per calunnia. Finocchiaro, capogruppo del Pd al Senato ed ex magistrato, mi querela oggi per una vicenda che risale atre anni fa e riguarda un «summit» che si tenne nel suo ufficio per avviare un procedimento disciplinare contro di me, come poi effettivamente accadde, perché stavo per depositare la trascrizione di conversazioni imbarazzanti che vedevano coinvolti, suoi compagni di partito. Il punto è che le dichiarazioni per cui mi si querela, mai smentite, sono state rilasciate tre anni fa alla procura di Brescia dall'ex senatore Ferdinando Imposimato. Non sono io da querelare».
Vuole dire che la giustizia non è uguale per tutti?
«Lo dico da magistrato e ad alta voce: la legge non è uguale per tutti. Prendiamo il caso della pm barese Desirèe Digeronimo: attaccata in modo violento da Nichi Vendola, per le indagini che stava svolgendo, anche a suo carico, nessuno è intervenuto in sua difesa o ha aperto una pratica a tutela. Zero! Mentre se si prova a toccare un pm di Mani pulite o di Caltanissetta o di Palermo, che si sta occupando di un possibile coinvolgimento del premier nella stagione delle stragi si assiste a una levata generale di scudi e alla mobilitazione del Consiglio superiore della magistratura e dell'Associazione magistrati. E magari all'intervento di Antonio Di Pietro, il quale, silente sui due episodi che ho esposto, ha ripetuto più volte che si deve abbattere Berlusconi «anche scendendo a patti con il diavolo». L'affermazione mostra che l'ex magistrato Di Pietro vive l'avversario politico come un nemico da abbattere, con qualsiasi mezzo. Purtroppo un problema della giustizia è dato da certe frange del potere giudiziario che insorgono o tacciono a seconda di un interesse politico».
Secondo lei, un magistrato non dovrebbe fare politica?
«No, se non togliendosi definitivamente la toga. Per difendermi mi è stata offerta una candidatura e nonostante la consapevolezza che questo avrebbe potuto liberarmi da tanti problemi, per due volte ho rifiutato. Voglio continuare a fare il giudice e credo di poterlo fare ancora con passione, autonomia, serenità».
Che rosa c'entra la serenità?
«Guai a mancare di serenità rispetto ai casi che si trattano. Ecco perché certi pm, che si occupano sempre dei medesimi indagati, a un certo punto dovrebbero fare un passo indietro. A meno che non ci sia una connessione oggettiva fra i vari procedimenti, non dovrebbe essere possibile essere titolari a vita di indagini contro la stessa persona: perché ciò intacca la serenità nel sostenere l'accusa o l'immagine di serenità che anche un pm'deve garantire».
La magistratura non è una casta? Guai a parlare di riforme, a toccare gli stipendi, a chiedere un trasferimento...
««Non sono una che difende la casta, ma sui trasferimenti spezzo una lancia per la categoria: non bastano gli incentivi economici per invogliare un magistrato d'esperienza asportarsi in una sede disagiata. Serve anche un incentivo professionale, la garanzia di non essere destinato a smaltire l'arretrato, od occuparsi di fatti marginali».
Non ha detto una parola sulla riforma della giustizia.
«Ne ho dette tante, invece: è indispensabile. A partire dal Csm, che deve essere liberato al più presto dal sistema correntizio. Occorrono regole diverse dall'elezione e quindi una riforma costituzionale, per nominare i componenti del Csm evitando che si istauri una sorta di voto di scambio tra eletto ed elettore. In seconda battuta è fondamentale la separazione delle carriere. Che non significa, come è stato detto, che il pm deve essere subordinato all'esecutivo, bensì che deve essere messo in concreto nelle stesse condizioni della difesa».
Molti suoi colleghi sono riluttanti.
«Io stessa, quando ho parlato della necessità di riforme in un convegno delle camere penali, sono stata attaccata con estrema violenza da illustri esponenti della magistratura associata e si sono permessi addirittura di offendermi, visto che la libertà di certe espressioni è loro concessa, mentre ad altri non concedono neppure la libertà di opinione. Via dunque a questa riforma. Altrimenti sarà il massacro della giustizia».
Palamara: “C’era un’intercettazione Legnini-Pomicino su Woodcock. Chiesi conferma a Pignatone già nel luglio 2018”. Il Fatto Quotidiano l'1 febbraio 2020. “Il 4 luglio del 2018, cioè il giorno prima di una delle udienze del disciplinare a Woodcock, ebbi modo di parlare con Cascini, non con delle chat, ci fu un incontro. In quell’occasione c’era molta tensione anche all’interno dell’ufficio di Roma”. Lo ha detto l’ex pm Luca Palamara, in occasione dell’incontro con Marco Lillo e Antonio Massari. Durante il dibattito – trasmesso in diretta sui canali del fattoquotidiano.it – sono stati messi a confronto “Il Sistema”, il libro-intervista di Alessandro Sallusti a Palamara, con il saggio Magistropoli di Antonio Massari (Paper First). L’ex magistrato ha raccontato particolari inediti sull’episodio relativo ai retroscena del procedimento disciplinare al Csm contro Henry John Woodcock. Un procedimento sul quale – a sentire Palamara – avrebbe potuto avere un ruolo un’intercettazione di una conversazione tra Giovanni Legnini, all’epoca vicepresidente del Csm, e l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino, in cui il primo avrebbe espresso giudizi negativi su Woodcock. “Che cosa mi dice Cascini? Mi dice: guarda che voi questo processo non lo potete fare perché c’è un’intercettazione tra Legnini e Pomicino, questo dice, in virtù della quale comunque il processo non potrà essere continuato. Finita questa conversazione, lo ricordo come se fosse oggi, vado da Legnini e lo avviso della notizia che avevo avuto, perché per me poteva essere pure non vera”, sostiene l’ex pm nel suo racconto. E Legnini, sottolinea Palamara, “sbianca, si preoccupa e mi dice ‘sì, è vero, ho parlato con Pomicino e ho espresso dei giudizi negativi su Woodcock“. E così, prosegue Palamara, “nel pomeriggio, e pure su questo vi è traccia sul mio telefonino, contatto l’allora procuratore di Roma e lo raggiungo per chiedergli conferma se è vero o meno dell’esistenza di questa intercettazione. Il procuratore di Roma mi dice ‘guarda che nel famoso riparto di competenze tra Napoli e Roma, quando il fascicolo che riguardava Romeo venne trasmesso a Roma, ci fu una trasmissione di atti che comprendeva delle intercettazioni che abbiamo noi ma che sono rimaste anche a Napolì. Questa fu la risposta che mi diede. E fu la risposta che riconsegnai a Legnini”. Si trattava, spiega Palamara, “di un colloquio tra Legnini e Pomicino all’esito del quale Pomicino è andato nell’ufficio dell’intercettato, che era l’imprenditore Alfredo Romeo, e gli aveva rivelato il contenuto del colloquio che aveva avuto con Legnini”. Questo, aggiunge Palamara, “non c’è negli atti, c’è traccia delle mie telefonate con Pignatone, è il 4 luglio del 2018, e dei miei messaggi con Palazzi, il 4 luglio del 2018, e del fatto che il dottor Pignatone chiamò subito Legnini per relazionarlo di quanto accaduto. Questo è quello che racconto io specificando il perché il 28 maggio del 2019 parlo con Legnini in quel modo”.
Rivedi la diretta completa di Marco Lillo con Luca Palamara, in libreria con Il Sistema (Rizzoli) scritto con Alessandro Sallusti, e Antonio Massari, autore del libro Magistropoli (Paper First).
Ciclone Palamara, l’Anm: «Oltre 60mila pagine di chat all’esame dei probiviri». Il Dubbio il 6 febbraio 2021. In «tempi rapidissimi» il collegio dei probiviri dell’Anm «procederà all’acquisizione» delle «oltre 60mila pagine di chat del cellulare di Palamara», annuncia il segretario del sindacato delle toghe, Salvatore Casciaro. «Nel libro-intervista dei dottori Palamara e Sallusti, “Il Sistema”, sono rievocati dettagli di esperienze associative e consiliari, commistioni con la politica, pratiche spartitorie, attività di denigrazione dei concorrenti e raccomandazioni, ivi compresa l’attività delle autopromozioni. Altro discredito e un rinnovato vulnus per la credibilità della magistratura». A dirlo è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Salvatore Casciaro, intervenuto in apertura del Comitato direttivo centrale. C’è quindi la necessità di «impostare sulla questione morale una linea d’azione che sia autorevole e credibile» pensando a tutti i magistrati che sono «profondamente sdegnati» da quanto è emerso e continua a emergere dalla vicenda Palamara, spiega Casciaro. «Nell’accertare la veridicità e valutare la conformità di ogni episodio allo statuto etico dell’Anm, è doveroso premettere che non bisogna mai confondere il piano delle responsabilità dei singoli e le degenerazioni del correntismo con ciò che la magistratura italiana esprime e rappresenta – sottolinea Casciaro. Operano quotidianamente negli uffici giudiziari con coscienza ed abnegazione al servizio del Paese e dei cittadini migliaia di magistrati che, colpiti da un così grave discredito, sono i primi ad essere profondamente sdegnati per le inquietanti rivelazioni cui ho fatto cenno». In «tempi rapidissimi», forse «già la settimana entrante», il collegio dei probiviri dell’Anm «procederà all’acquisizione» delle «oltre 60mila pagine di chat del cellulare di Palamara disponibili presso la procura di Perugia», ha detto il segretario del sindacato delle toghe. «I probiviri, che hanno chiesto al comitato direttivo, per poter più efficacemente operare, di potersi dotare di un supporto organizzativo, non potranno ragionevolmente analizzare tutte le condotte disvelate nelle chat rilanciate mediaticamente dal libro intervista di Palamara e Sallusti», sottolinea Casciaro. Secondo il segretario dell’Anm, infatti, «le risorse, non inesauribili, dell’associazione impongono di interrogarci sui criteri di priorità per la trattazione del disciplinare associativo: anche nel corso dell’ultima riunione del collegio dei probiviri – ha riferito – è stato espresso il convincimento che sia opportuno elaborare, dei criteri oggettivi e uniformi per l’individuazione di comportamenti che si ritengano censurabili sotto il profilo deontologico. I colleghi e i cittadini, la cui fiducia intendiamo recuperare – ha concluso Casciaro – si attendono che si avvii subito, con serietà di metodo, un’azione forte per il rilancio della doverosa tensione etica di ogni nostra condotta».
Il retroscena. Le chat di Palamara furono insabbiate poiché erano coinvolti troppi Pm…Paolo Comi su Il Riformista il 29 Dicembre 2020. Come mai le “famigerate” chat di Luca Palamara vennero trasmesse al Csm dopo un anno dallo loro acquisizione? Perché questo ritardo? Si volevano evitare, ad esempio, situazioni d’imbarazzo per alcuni magistrati nel momento in cui la nomina del nuovo procuratore di Roma era tornata in discussione? In attesa di risposta, proviamo a ricostruire quanto accaduto, anche alla luce della “discovery” degli atti dell’ultimo procedimento a carico dell’ex presidente dell’Anm aperto dalla Procura di Perugia, quello per la rivelazione del segreto, avvenuta prima di Natale.
Il 30 maggio dello scorso anno i pm di Perugia che stanno indagando l’ex presidente dell’Anm per corruzione decidono di sequestrargli il telefonino. L’indagine è ormai sfumata a causa di una fuga di notizie: il giorno prima Repubblica, Corriere e Messaggero hanno aperto sull’inchiesta di Perugia a carico di Palamara con tre pezzi “fotocopia”: Repubblica titola: “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”; il Corriere: “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”; il Messaggero: “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”. Il pm Gemma Miliani, titolare del fascicolo insieme al collega Mario Formisano, ordina allora l’immediata estrapolazione dei dati. Gli avvocati di Palamara avevano presentato una istanza in cui sottolineavano la necessità per il loro assistito «di poter rientrare in possesso nel più breve tempo possibile dell’apparato cellulare in sequestro». Dall’ora di pranzo del 31 maggio gli inquirenti sono in possesso delle chat di Palamara con centinaia di magistrati che chiedevano nomine e incarichi. In quei giorni al Csm, e nella magistratura, sta succedendo di tutto. Mentre i tre quotidiani, con le indagini di fatto ancora in corso, continuano a riportare pezzi di intercettazioni effettuate soprattutto all’hotel Champagne la sera del 9 maggio 2019, a Palazzo dei Marescialli si dimettono cinque consiglieri togati. Ciò determina la modifica dei rapporti di forza fra le correnti, con il gruppo di Piercamillo Davigo che ha la maggioranza. La nomina di Marcello Viola come successore di Giuseppe Pignatone, decisa il 23 maggio precedente in Commissione per gli incarichi direttivi, viene annullata. Anche il presidente dell’Anm Pasquale Grasso, di Magistratura indipendente, è costretto alle dimissioni che avverranno 16 giugno al termine di una drammatica assemblea in cui verrà sfiduciato. Il motivo? Non avrebbe preso le “distanze” dai consiglieri, tre della sua corrente, che avevano partecipato al dopo cena all’hotel Champagne. In mezzo a questa bagarre le chat di Palamara non restano nel cassetto ma vengono utilizzate per alcuni interrogatori da parte dei pm di Perugia. Come quello del funzionario di polizia Renato Panvino, il capo centro della Dia di Catania. Secondo la Procura era stato incaricato di acquistare un monile, probabile prezzo di una corruzione, per conto di Palamara. L’8 luglio del 2019 Panvino viene interrogato a Perugia. Si legge nel verbale di interrogatorio: “L’ Ufficio da atto di dare lettura di alcuni messaggi sulla chat in atti”. A Panvino gli inquirenti chiedono essenzialmente dei rapporti di Palamara con il faccendiere Fabrizio Centofanti. Gli inquirenti, poi, sono incuriositi da una chat denominata “DU CAPELLI”. Panvino risponde: «Credo sia Minacapelli così lo chiamava Palamara. Minacapelli è un avvocato amministrativista che mi è sempre sembrata una brava persona». Al termine dell’interrogatorio di Panvino risulteranno allegate le sue chat con Palamara dal 9 agosto 2017 al 29 maggio 2019. Esattamente 267 pagine di chat. Come mai, allora, i contenuti del telefono sequestrato a Palamara, e in possesso degli inquirenti sin dal 31 maggio 2019, non vennero trasmessi al Csm unitamente alle intercettazioni dell’hotel Champagne e alle altre intercettazioni selezionate? Per conoscere i contenuti del telefono sequestrato a Palamara bisognerà attendere fino a maggio di quest’anno. Dopo la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma.
Piero Tony: «Cari magistrati, perché nessuno smentisce Palamara?» Valentina Stella su Il Dubbio il 5 febbraio 2021. «Palamara esagera definendo addirittura “sistema” l’apparato giustizia così com’è, quasi fosse una centrale del crimine anziché una spregiudicata accozzaglia di arrampicatori subculturati di cui è vittima la stessa magistratura». Parla Piero Tony, presidente del dipartimento Giustizia della Fondazione Einaudi, magistrato per 45 anni. Piero Tony oggi è Presidente del Dipartimento Giustizia della Fondazione Einaudi, ma è stato magistrato per 45 anni: giudice Istruttore a Milano fino al 1974, ha istruito tra l’altro il primo procedimento contro le Br di Curcio, Cagol più altri, con l’allora sostituto procuratore Guido Galli; è stato anche sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze fino al 1998, dove chiese ed ottenne l’assoluzione per Pacciani nel processo sul Mostro di Firenze. Componente del Comitato Promotore dell’Unione Camere Penali per la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere, nel 2015 fu autore con Claudio Cerasa di Io non posso tacere (Einaudi), un libro che scosse prima ancora de Il Sistema l’intera magistratura.
Cosa ne pensa del libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti?
«Per quanto riguarda il tema dello strapotere delle correnti, si tratta della scoperta dell’acqua calda. Non c’era bisogno del trojan inoculato nel telefono di Palamara per conoscere quei meccanismi di appartenenza. Li avevo già denunciati molti anni fa quando scrissi Io non posso tacere e fui pesantemente attaccato dall’Anm perché secondo il sindacato avevo scritto cose inesatte. Il tempo mi ha dato ragione, ma la consolazione è magra. Credo che il libro Sallusti-Palamara abbia sicuramente un valore aggiunto perché Palamara, avendo operato per anni nei più profondi meandri dell’organizzazione, può parlare per conoscenza diretta, quasi, absit iniura verbis, come un “pentito” , naturalmente mutatis mutandis quanto a motivazioni. Mi pare anche sicuro che Palamara, operando con questo libro una impietosa dissezione dell’apparato giustizia, ne cancelli forse per sempre, e con effetti imprevedibili, la tradizionale sacralità; che non consiste solo in fictio e paludamenti ma, soprattutto, in valori quali credibilità ed autorevolezza. Per concludere, mi pare anche che esageri definendo addirittura “sistema” l’apparato giustizia così com’è, quasi fosse una centrale del crimine anziché una spregiudicata accozzaglia di arrampicatori subculturati e tra loro quantomeno conniventi. Senza sottolineare – proprio in ogni pagina- che del “sistema” di cui parla è vittima estranea la maggior parte della magistratura».
Cosa lo ha colpito di più?
«Palamara racconta dettagli molto convincenti, peraltro al momento non smentiti da nessuno. Quelli che mi hanno colpito maggiormente, per la loro gravità inaudita, riguardano gli asseriti imbrogli per lottizzare e condizionare i processi. I segnali, a dir il vero, c’erano tutti: una persona normale non poteva non chiedersi come mai, ad esempio, per anni una Procura come Milano fosse pressoché concentrata solo su Berlusconi. Ma possiamo anche citare il caso di Giulio Andreotti: sicuramente tanto mafioso da aver baciato un boss? Per non parlare del giudice Corrado Carnevale, “l’ammazzasentenze”, accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso come se il collegio di legittimità fosse monocratico. L’inchiesta durò circa dieci anni, venne condannato ed alla fine assolto. Furono costretti a tenerlo a lavorare fino a circa 80 anni per esilarante risarcimento degli anni di carriera perduti. Quanto è accaduto a costoro oggi lo spiega Palamara: quello che lui chiama “il sistema” lo esigeva, il clima fortemente politico lo imponeva, guai a chi la pensava diversamente».
Che l’ideologia possa minare l’autonomia e l’indipendenza di un magistrato lo abbiamo visto anche nella chat di Palamara relativa a Matteo Salvini.
«È terrificante il dialogo tra i due magistrati: per dettato costituzionale dovrebbero essere autonomi ed indipendenti. Tuttavia, paradossalmente, nonostante che per legge non possano essere iscritti a partiti politici, tramite correnti politicizzate riescono ad organizzare una guerra politica contro un Ministro in carica».
Fatto questo quadro, come usciamo da questa crisi?
«Due sono i rimedi, ineludibili: separazione delle carriere dei magistrati e sorteggio per il plenum del Csm, in modo che i candidati siano esenti da giri elettorali e non si instauri il circuito del promettere, del dare, del pretendere. Per far decollare il processo così come riformato nel 1989 occorre attivare la centralità del dibattimento – guerra tra le parti davanti a giudice terzo ed imparziale – ed abbandonare la vigente malaprassi della centralità delle indagini preliminari. Sottolineare e ricordare che nella fase delle indagini preliminari la difesa è pressoché assente e comunque inerme».
E in tutti i gradi è svantaggiata perché l’arbitro indossa la stessa maglia dell’avversario, come ricorda l’Ucpi.
«Non c’è dubbio. Ed è svantaggiata anche a causa della sentenza 255 del 3 giugno del 1992 della Corte Costituzionale che sancì il principio di non dispersione dei mezzi di prova, “il principio del norcino”, come lo chiama qualcuno, perché non si butta via nulla. Con ciò snaturando i principi cardine del processo accusatorio».
Lo svantaggio della difesa deriva anche dal rapporto privilegiato che le procure hanno con gli organi di stampa.
«Come si dice chiaramente nel libro di Sallusti e Palamara non è quasi mai vero che gli atti giudiziari escono perché li passano gli avvocati difensori. Non è possibile, perché nella parte iniziale del procedimento esiste un momento in cui certi atti li hanno solo i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria. Quindi se qualcosa arriva alla stampa può provenire solo da quelle fonti. Conseguenze? Titoloni in prima pagina nell’immediatezza del fatto, rappresentazione dell’ipotesi accusatoria e colpevolista, formazione di una conseguente opinione pubblica, il cosiddetto processo mediatico, insomma. Molte persone sono state massacrate così, da un processo mediatico sostanzialmente inappellabile: se dopo anni vieni assolto, non se lo ricorda più nessuno».
Quale potrebbe essere una soluzione? Non citare i pm nei comunicati stampa?
«Anche se è tutto fuori legge, nessuno interviene. Pensiamo a quante volte le persone vengono riprese ammanettate, anche se non si dovrebbe farlo. O a quante volte le forze dell’ordine vanno ad arrestare qualcuno e arrivano già con qualche troupe televisiva al seguito. Non mettere il nome del pm può avere come unica conseguenza il fatto che lui legga con minor soddisfazione il giornale il giorno dopo, se è presenzialista o narcisista. Come tutte le libertà anche quella di stampa è come cristallo, assoluta . Ciò non vieterebbe però di fare indagini, sulla fonte delle notizie pubblicate, nel momento in cui le carte le ha solo il pm e la polizia giudiziaria. Sarebbe altresì auspicabile che la stampa si autoregolamentasse in maniera più adeguata».
La parola chiave dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata “credibilità”. Lei crede che la magistratura è pronta ad intraprendere la via della redenzione?
«Mi ero gonfiato di speranza quando circa quattro anni fa in un convegno dell’Anm a Siena nella mozione conclusiva si scriveva una cosa del tipo "diamo atto che così non va, dobbiamo pensare che ci dobbiamo acculturare, grazie anche alla scuola di formazione dei magistrati". Oggi cosa scopriamo: che anche codesta scuola pare sia lottizzata dalle correnti descritte da Palamara. La verità è che, per fortuna e misteriose ragioni, godiamo ancora di troppa credibilità rispetto a quanto emerso dalle chat di Palamara. Ma sa qual è il vero problema?»
Mi dica.
«Quando scrissi che del processo era centrale solo la fase delle indagini preliminari e che il pubblico ministero ha uno strapotere eccezionale venni criticato fortemente anche se ora lo ammettono in molti. La centralità in quella fase non è tanto del pm, quanto della polizia giudiziaria. Cosa vuol dire esattamente centralità delle indagini preliminari? Io dico “indagini preliminari di polizia”, visto che la gran parte delle indagini viene svolta dalla polizia giudiziaria, su delega aperta o su sua iniziativa, tanto che alcune volte l’indagato si trova in carcere o a giudizio senza che il pm lo abbia mai visto o ci abbia mai parlato. Significa che le prove – che dovrebbero essere formate in dibattimento, a ragionevole distanza di tempo dal fatto, sotto il controllo dialettico delle parti – vengono in realtà formate dagli investigatori alle spalle dei soggetti interessati. Questo viene accennato anche nel libro di Palamara quando racconta come da una qualsiasi velina o input si possa organizzare di tutto nei confronti di una determinata persona».
Però in questo anche il gip ha le sue responsabilità.
«Lei ha ragione e questo ci riporta alla necessità di separare le carriere. Approfitto per segnalare un frequente e pernicioso malvezzo: il pm chiede una misura cautelare e il gip risponde anche dopo anni, quando per il tempo trascorso è ormai svanita ogni esigenza. Questo succede solo da noi».
A proposito di questo, cosa ne pensa delle recenti dichiarazioni di Nicola Gratteri sul Corsera?
«Credo sia solo un problema di subcultura. Ne ha fatte tante altre nel corso della sua guerra ai fenomeni criminosi».
Non è rimasto colpito quando disse che il suo compito era salvare la Calabria?
«Non particolarmente, è un vezzo di tanti magistrati quello di voler essere salvatori, che sia dalla mafia, dalla ‘ndrangheta o dalla immoralità fa poco differenza. A tal proposito Giovanni Falcone amava ripetere qualcosa tipo «ma cosa c’entriamo noi con i fenomeni, noi giudichiamo le singole persone nei termini di legge»».
Lei ha citato Falcone: le faccio la stessa domanda che qualche giorno fa ho posto al professor Tullio Padovani. Il compianto giudice viene spesso strumentalizzato, De Magistris si presenta in televisione con la foto di Falcone e Borsellino alle spalle, ma poi nessuno ricorda che era favorevole alla separazione delle carriere.
«La foto di Falcone e Borsellino ce l’hanno un po’ tutti nel taschino. Falcone, che ho avuto modo di incontrare nel corso degli anni, considerava la separazione delle carriere un naturale corollario del processo accusatorio. Semplicemente questo. Sono passati più di 30 anni, convegni, proposta di legge popolare, ma il “naturale corollario” è chiuso nel cassetto e si discute dell’acqua calda del dottor Palamara».
Palamara, ora l'Anm si sveglia: il "sistema" esiste e va distrutto. Il sindacato dei magistrati ammette che la commistione toghe-politici è diffusa, come racconta il libro di Sallusti. Luca Fazzo, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. Adesso forse qualcosa è cambiato davvero dentro la magistratura. Perché fino all'altro ieri un libro come quello scritto da Alessandro Sallusti e Luca Palamara sarebbe stato trattato come un libello da macchina del fango. Invece ieri si riunisce per la prima volta, da quando Il Sistema è arrivato in libreria, il Cdc, il direttivo centrale dell'Associazione magistrati. E invece che gridare all'infamia e alla calunnia, si prende atto che quel che ne esce sono «commistioni con la politica, pratiche spartitorie, attività di denigrazione dei concorrenti e raccomandazioni, ivi compresa l'attività delle autopromozioni. Altro discredito e un rinnovato vulnus per la credibilità della magistratura». A parlare è Salvatore Casciaro, segretario dell'Anm. E il fatto che nemmeno in un inciso Casciaro metta in dubbio quanto riporta il libro la dice lunga sull'aria che tira. Il problema ormai non è più negare l'evidenza, ma come uscirne, come ridare alla magistratura la credibilità perduta. Perché se da un lato Casciaro ricorda doverosamente che i giudici non sono tutti come quelli raccontati da Palamara, e la grande massa opera «con coscienza e abnegazione», poi ammette che sono proprio questi magistrati di base i più «profondamente sdegnati» per le rivelazioni di questi giorni. Ed è a queste migliaia che l'Anm deve trovare una risposta da dare. Cacciando dalle sue fila, per esempio, le toghe più coinvolte nelle spartizioni. Ma qui iniziano i problemi. Perché ieri il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, annuncia che i probiviri dell'associazione inizieranno il 10 febbraio a selezionare le chat del caso Palamara per decidere (ancora non si sa su quali criteri) la sorte delle centinaia di colleghi che vi appaiono. Tempi a parte, la scelta pone due problemi. Uno riguarda il collegio dei probiviri: per la corrente di Davigo ne fa parte il giudice di Cassazione Giuseppe Corasaniti, che il Csm ha designato alla Scuola superiore con una delibera bocciata dal Consiglio di Stato, e che suddivideva col bilancino i posti tra le correnti: non proprio un esempio di perestrojka. Il secondo è che fermando l'indagine dei probiviri alle chat di Palamara si lascia fuori dal mirino tutto il resto accaduto in questi anni, e che solo per caso non è finito nella rete e divenuto pubblico. C'è poi un altro problema, sollevato ieri da Luca Palamara in una intervista a Radio Radicale: il presidente dell'Anm, Santalucia, era fino a due anni fa al ministero, nello staff del ministro Orlando. E in quella veste, «in numerosi scritti», ha affermato che il trojan, il sistema di captazione informatica usato contro Palamara, «non poteva considerarsi in vigore dal punto di vista normativo legislativo». Si può adesso usarne i risultati come se niente fosse? E, per quanto riguarda le chat - chiede Palamara - è giusto che siano usate dal Csm «in violazione della legge sulla privacy» e per decidere le sorti delle poltrone in ballo? È un utilizzo che rischia di avere ampi margini di arbitrio. Basta pensare a quanto sta accadendo per il posto di procuratore aggiunto a Salerno, dove uno dei candidati si vede rinfacciata la presenza nelle chat, nonostante che anche l'altro vi compaia. Un caos, insomma. Dove nel direttivo dell'Anm a sparare su Palamara si trova solo un giovane componente di sinistra, Rocco Maruotti, che invita polemicamente l'ex collega a andare «in procura a presentare una denuncia circostanziata, allegando le prove dei fatti» che racconta, «altrimenti non si può non pensare che lo faccia solo per un intento di delegittimazione e per il proprio tornaconto personale». Risposta brusca di Palamara: «In procura ci sono già andato».
"Una commissione d'inchiesta sulle rivelazioni di Palamara". La proposta di Forza Italia sul sistema svelato nel libro è condivisa da Lega e Fdi. Dem possibilisti, no del M5s. Massimo M. Malpica, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. Una commissione d'inchiesta sul «sistema» svelato da Palamara. La proposta, partita da Forza Italia, raccoglie il consenso del centrodestra, ma l'idea non fa breccia nella maggioranza. Se il Pd, che pure è stato più che lambito dall'inchiesta di Perugia e dai racconti dell'ex magistrato, appare possibilista, a chiudere la porta sono i paladini pentastellati della trasparenza. Per nulla convinti della necessità di un organismo parlamentare per indagare sull'intreccio tra potere giudiziario e politica, sullo strapotere delle correnti e sulle troppe «anomalie» emerse dall'indagine su Palamara o raccontate dallo stesso protagonista nel libro-intervista di Alessandro Sallusti Il sistema. Ancora ieri, in un'intervista a Libero, Palamara ha ricordato che «il sistema è quello delle correnti, e i meccanismi di potere sono regolati da un'oligarchia di cui io facevo parte». Proprio per capire chi erano gli altri oligarchi, e per fare luce su questa pagina oscura di una giustizia alle prese con la necessità di riforme, a partire da quella dell'organo di autogoverno della magistratura, il centrodestra reclama l'istituzione di una commissione. Voluta anche dai Radicali, rivela Palamara che a quel partito ha aderito, raccontando ancora parlando a Quarta Repubblica con Nicola Porro, che nel 2013 «la magistratura si compattò»contro Berlusconi, ritenendo di «mantenere la sua autonomia ed indipendenza in questo modo». Ecco dunque il rilancio della proposta di Fi da parte del portavoce azzurro Giorgio Mulè, che ricorda come di questo «sistema» Forza Italia sia stata «vittima privilegiata». Mentre la deputata di Fi e componente della commissione Giustizia Matilde Siracusano plaude l'apertura di Matteo Salvini «alla proposta di Forza Italia per l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sull'uso politico della giustizia». L'invito, aggiunge l'esponente di Forza Italia, ora è rivolto a tutte le forze politiche per calendarizzare e approvare quella proposta, una volta «esaurita questa ridicola crisi di governo». Invito raccolto, in Fdi, da Andrea Delmastro Delle Vedove, che oltre al suo ok alla commissione osserva come «il libro di Palamara» apra «uno squarcio inquietante sulla gestione lottizzata e partitocratica della magistratura». «Se solo un decimo di quello che scrive fosse vero- Prosegue Delmastro - si dovrà decespugliare la magistratura da queste correnti». Tanto che l'esponente di Fdi insiste sulla necessità di «arrivare al sorteggio del Csm», anche qui accogliendo la proposta rilanciata giorni fa dal parlamentare azzurro Pierantonio Zanettin. Dal Carroccio via libera alla commissione d'inchiesta anche del commissario regionale calabrese Giacomo Francesco Saccomanno, secondo cui, pur essendo meritorio il lavoro della maggioranza dei magistrati, «l'intervista di Palamara ha scoperchiato un sistema illegale di gestione della giustizia che merita un evidente approfondimento sia dal lato disciplinare che penale». E mentre dal Pd arriva cauto il commento del responsabile Giustizia del partito, Walter Verini («Una commissione d'inchiesta dopo le rivelazioni del libro? Prima troviamo un accordo sulla giustizia sul tavolo del Governo e poi ne parliamo», spiega), a chiudere la porta sono i Cinque Stelle, che con il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni bollano la proposta di creare una commissione come «una provocazione, finalizzata a complicare il percorso della riforma del Csm pendente in commissione».
«Nessuno ha smentito Palamara, ora commissione d’inchiesta». Simona Musco su Il Dubbio il 3 febbraio 2021. Andrea Ostellari, senatore leghista e presidente della seconda commissione permanente Giustizia, rilancia la proposta di Matteo Salvini dopo l’ultima ospitata di Palamara in Tv. «Sui fatti qui descritti da Luca Palamara e Alessandro Sallusti chiederemo una commissione d’inchiesta parlamentare», ha tuonato Matteo Salvini, dopo l’ennesima ospitata di Luca Palamara per raccontare quel “sistema” che lo ha portato prima ai vertici, puoi fuori dalla magistratura. Una proposta che qualche ora prima era stato Andrea Ostellari, senatore leghista e presidente della seconda commissione permanente Giustizia, a rilanciare, prendendo in prestito le parole di Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia. Quanto dichiarato da Palamara rende «necessario un esame dettagliato, completo e imparziale delle dinamiche interne dell’Anm, del Csm e dei loro rapporti», ha affermato il magistrato. Un esame, ha spiegato Ostellari al Dubbio, al quale «non può essere estraneo il Parlamento, attraverso l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta che dia la possibilità di un giudizio completo, necessariamente imparziale. E in questa commissione, con i poteri di una commissione d’inchiesta e quindi anche inquirenti, si può ricostruire sin dall’inizio il sistema così come è stato raccontato da Palamara, se così è. Perché il dramma, fino ad oggi, è che Palamara non è stato smentito».
Non ci sono state querele, se non quella del procuratore aggiunto Paolo Ielo, ma solo smentite verbali. Questo vuol dire che Palamara sa più di quel che dice?
«Evidentemente sì. La cosa strana è l’apparente silenzio attorno a questa vicenda. Magari è coperto dalla crisi attuale del Paese dal punto di vista politico. Parlare di governi, maggioranze, ministri e ministeri appare un po’ fuori luogo di fronte alle difficoltà degli italiani – sanitarie ed economiche – e a quelle legate alla Giustizia, duramente colpita da questa vicenda. Abbiamo l’obbligo di intervenire ed è per questo ho anche sollecitato il Presidente della Repubblica, che è garante anche del nostro sistema giudiziario, affinché dica qualcosa, oltre quello che ha già detto. Si deve prendere coscienza di questo tema, che deve essere essenziale anche e soprattutto per il prossimo governo, qualunque esso sia».
Un ddl di riforma sull’ordinamento giudiziario c’è già. Secondo lei quale sarebbe la soluzione migliore affinché il sistema descritto da Palamara venga disinnescato?
«Non sono il solo a dirlo, lo dicono anche tanti magistrati, come Nordio: non si può intervenire se non attraverso il sistema del sorteggio. Quantomeno un sorteggio primario, che consenta di effettuare poi un’elezione sulla base di una platea di nomi che siano stati prima estratti a sorte».
Una proposta che, pochi giorni fa, ha ribadito anche il deputato Pierantonio Zanettin, che ha ricordato la proposta già presentata da Forza Italia per il sorteggio temperato.
«Può essere una base di partenza, in ogni caso, in questo momento storico, non possiamo farne a meno per risolvere il problema delle correnti interne al Csm. Peraltro, lo stesso Palamara ha detto che uno dei sistemi più osteggiati dai magistrati era proprio quello del sorteggio. Evidentemente siamo sulla strada giusta».
Che fine fa la meritocrazia?
«Non corre alcun rischio, perché il sorteggio avviene sulla base di un corpo qualificato, i magistrati, persone alle quali noi chiediamo di svolgere una funzione importantissima. Tra l’attuale sistema e quello del sorteggio, credo che i cittadini siano più garantiti dal secondo».
Ha avuto modo di confrontarsi con gli altri partiti?
«No, ma penso che il tema della giustizia non debba essere ideologico. Va visto nel complesso di un Paese che adesso ha l’assoluta necessità di ripartire. Per farlo ha bisogno di un governo adeguato, forte, competente e che deve decidere se vuole investire sulla giustizia o se la intende come un costo. Io credo che debba essere considerata un grande investimento, che peraltro ha un ritorno in termini economici e di credibilità».
La giustizia d’altronde è il nodo fondamentale di questa crisi politica.
«Di più: sulla giustizia, nella sola diciottesima legislatura, sono caduti due governi e questo perché evidentemente c’è qualcuno che non ha fatto ciò che doveva fare e mi riferisco al ministro Bonafede. Nel primo governo non ha saputo presentare una riforma condivisa della giustizia penale, civile e tributaria. Non c’è stata una visione. Quel governo è caduto perché c’era una contrapposizione netta tra chi vedeva la giustizia come uno strumento per arrivare ad un’idea di giustizialismo eccessivo e chi, invece, intende la giustizia come un sistema garantista. La stessa cosa è accaduta anche nel governo attuale: alla fine le anime più garantiste si sono manifestate. Lo scontro sul tema della prescrizione manifesta proprio l’esigenza di dibattito che è mancato. Qualcuno dovrebbe anche ricordare che i temi di riforma della giustizia sono tuttora fermi, incompleti. Ma non perché esiste un’opposizione che fa il proprio mestiere, ma perché evidentemente la stessa attuale maggioranza non è d’accordo sulle basi di quella che dovrebbe essere la riforma. Ma se non ci credono loro, chi ci deve credere?»
Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale Salvi ha sottolineato la crisi di credibilità della magistratura ma ha anche rivendicato le azioni disciplinari. La magistratura ha reagito adeguatamente?
«Sono assolutamente convinto, e lo dico anche da avvocato, che la stragrande maggioranza dei magistrati siano alla ricerca di ritrovare una sana autonomia e una necessaria voglia di riprendere quella che è la loro funzione, necessaria nei confronti della gestione di questo sistema. Non si deve fare l’errore di fare di tutta l’erba un fascio. L’errore che è stato commesso da pochi non deve ricadere sulle spalle della stragrande maggioranza di magistrati che lavorano in silenzio, che non sono accecati dal poteri e che svolgono una funzione difficilissima, senza quella sete di rappresentanza che si è vista con il caso Palamara».
Palamara però fa un parallelismo interessante: il sistema descritto per la magistratura è sovrapponibile a quello della politica, in termini di accordi e spartizione di posti di potere. Ha torto?
«Questo evidentemente è quello che faceva lui e pochi altri. Così come non credo che i magistrati abbiano bisogno di rincorrere il fascino della rappresentanza, delle stanze del potere, credo che la politica si debba occupare del proprio ambito e cercare di rispondere attraverso progetti di legge e proposte».
Ma c’è una certa fragilità della politica a fronte della magistratura? Crede nelle inchieste ad orologeria?
«Non ci credo e non ci voglio credere. Se ci sono stati episodi lo vedremo, magari proprio grazie alla commissione d’inchiesta. Però credo che tutte queste situazioni, anche dentro la politica, vadano risolte con la qualità. Dobbiamo investire su quello, in termini di persone e di idee. E non ci si deve preoccupare di altro, ma del Paese, dei bisogni dei cittadini e di fare ciò che ci si aspetta da chi occupa queste delicate posizioni».
Arrivismo e spartizioni. Palamara non è un orco ma un ingranaggio di una magistratura illegale. Alberto Cisterna su Il Riformista 3 il Febbraio 2021. Ogni struttura complessa soffre la difficoltà di mitigare il carrierismo interno e la competizione tra i propri componenti. Società private e organizzazioni pubbliche devono confrontarsi quotidianamente con la necessità di incentivare e dosare le ambizioni di carriera di molti, tenendo presente un unico imperativo categorico: evitare conflitti permanenti perché questi, alla fine, sfibrano le imprese o rendono ingovernabili gli uffici. Un’operazione di governance complessa che si avvale di esperti, di competenze, di una stretta vigilanza e, quando possibile, di regole che mitighino il pericolo che la cooptazione sia il solo strumento di selezione delle élite. Persino la più cooptante delle istituzioni – in quanto fondata su una chiamata rivolta a un piccolo nucleo di apostoli – deve fare i conti con questa drammatica realtà: «Fuggite dal carrierismo, è la vera peste della Chiesa» ha ammonito Papa Francesco nell’aprile 2017, certo consapevole della promozione, duemila anni prima, di un mite pescatore a capo della Chiesa universale. Ovvietà si potrebbe dire. Ma come tutte le ovvietà non si può nascondere che anche questa necessiti di una propria esplicitazione quando si guardi a una singola situazione (D. Farias, L’ermeneutica dell’ovvio, 1990). Il pasticcio costituzionale e legislativo che ha segnato le sorti ultime della magistratura italiana si fonda tutto su questa drammatica ovvietà. La regolazione delle carriere è stata polverizzata nei suoi fondamenti costituzionali e consegnata, tutta, nelle mani delle correnti dell’Anm ancora oggi, dopo circa due anni, incapaci di trovare una soluzione che non sia il vacuo richiamo a una velleitaria svolta morale. Capi corrente che ora, se potessero, griderebbero pure quell’ “Aridatece er puzzone” che urlavano i romani nel giugno del 1944 delusi dall’arrivo dei liberatori. Il vuoto, a tratti evidente, lasciato dalla cacciata dal tempio del dottor Palamara è solo l’anticamera di quell’incolmabile abisso generato dallo stravolgimento delle regole costituzionali su cui si era inteso erigere il potere giudiziario in Italia. Regole, sia chiaro, tutt’altro che chiare, frutto di un compromesso della Costituente che dovrebbe oggi essere ampiamente riscritto, ma al quale nessuno osa metter mano. Come negare la contraddizione, pratica e ideologica, tra l’articolo 105 della Carta – per il quale «spettano al Consiglio superiore della magistratura … le promozioni» dei magistrati – e l’articolo 107 secondo cui «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni». Un apparato immaginato senza promozioni così come oggi intese, concepito senza un potere gerarchico, un plesso del tutto pulviscolare perché solo così provvisto di quell’autonomia e indipendenza che sono i cardini della giurisdizione (articolo 104). Quelle «promozioni» suonano oggi come una grossolana sgrammaticatura del Costituente, ancora troppo condizionato dalla struttura della magistratura monarchica e fascista. Una distorsione lessicale e concettuale che dovrebbe essere emendata perché pericolosa nella descrizione delle funzioni dei magistrati e perché del tutto inutile essendo sufficienti, per la designazione dei capi degli uffici, le mere «assegnazioni» di cui parla sempre l’articolo 105. Quelle «promozioni» hanno suscitato pulsioni inappropriate, se non quando illegali o addirittura illecite. In nome di un modello organizzativo efficientista – non previsto dalla Costituzione in alcuna sua parte tanto da lasciare al ministro della Giustizia «l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia» (articolo 110) – si è immaginato che vi fosse la necessità di manager, di organizzatori, di direttori, di capi insomma, di gente con un consenso correntizio. Mentre il modello costituzionale era, deliberatamente o meno, votato alla completa inefficienza, costruito come era su un sacerdozio che cesellava singole sentenze in vista «del progresso morale, civile e sociale. A tale intento la magistratura darà, come sempre ha dato, il fervido contributo della sua opera, frutto; non solo dello studio assiduo delle leggi, ma del travaglio quotidiano di coscienze diritte e severe che, al di sopra del contrasto pur fecondo delle passioni, adempiono all’ufficio di tracciare, fermamente e serenamente, la via del giusto e del vero», non a caso ricordava Giovanni Macaluso, avvocato generale della Cassazione, all’inaugurazione del 5 gennaio 1948, pochi ore dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Il Costituente con l’obbligatorietà dell’azione penale, con l’accesso senza filtri alla Cassazione, con il contraddittorio a largo compasso, con la parità processuale, con l’obbligo della motivazione, con la costruzione di un ordine giudiziario senza carriere come detto e con mille altre indicazioni (per carità una per una condivisibili, ma messe insieme un mix letale) ha costruito un modello di magistratura totalmente destinato all’inefficienza, alle lentezze, ai ritardi. Inefficienza che, infatti, ne connota l’intera storia repubblicana che non ha mai visto anni giudiziari inaugurati all’insegna delle conquiste organizzative e della soddisfazione dei cittadini. Un assetto di questo genere – che voleva garantirsi dai soprusi fascisti assegnando il massimo di autonomia e di libertà per ciascun giudice a scapito di un’efficienza che diveniva irraggiungibile – era vocazionalmente e ineluttabilmente destinato al fallimento organizzativo, alla scarsa produttività. Eppure qualcuno ha immaginato di poter innestare, su un corpo geneticamente incompatibile, l’imbroglio della ragionevole durata del processo (2001) e dei conseguenti protocolli manageriali e di coazione verticistica che hanno trasformato le «promozioni» – non sempre ma troppe volte – in posti di potere e in luoghi di gestione opaca delle funzioni, soprattutto inquirenti. Un primo punto deve essere chiaro: tutti coloro che orbitavano nell’universo delle carriere descritto dal dottor Palamara non ambivano a incarichi per ragioni economiche. Contrariamente a quanto accade ovunque, nel pubblico come nel privato, a una “promozione” non corrisponde alcuno scatto stipendiale. Non un euro in più è entrato nelle tasche di Tizio nominato procuratore al posto di Caio o di Sempronio. La progressione economica prescinde dalle funzioni esercitate. Quindi la competizione era solo ed esclusivamente per il potere o, nei casi più innocenti, per il prestigio. Mai emerge, a dire il vero, che qualcuno abbia sgomitato, brigato o intrallazzato perché desideroso di poter affermare la propria visione ideale della giustizia o un proprio modello di organizzazione che giovasse ai cittadini. Mai nessuno che in una chat abbia scritto: «Sai se mi piazzi in quel posto vedrai che risultati avranno i cittadini». Non c’è traccia, che si sappia, di un tale zelo o di una tale ansia riformatrice. Per carità, esistono tanti e tanti dirigenti che hanno effettivamente a cuore le sorti della giustizia loro affidata, ma sono la cifra oscura del sistema di potere descritto dal dottor Palamara, nelle pagine del suo racconto costoro semplicemente non esistono o compaiono come le vittime della macchina infernale. Non appaiono in migliaia e migliaia di chat o nelle migliaia di conversazioni che le avranno precedute e seguite e delle quali, ovviamente, non c’è traccia in questa tragicomica Odissea della magistratura italiana che non ha un’Itaca cui ritornare, perché priva di una patria costituzionale che la possa riconoscere per come è diventata.
L'ex pm interviene sul Palamaragate. “Non fermiamoci a Unicost, anche MI e Area hanno stesse dinamiche”, parla Alfonso Sabella. Angela Stella su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. L’ex pm e ora giudice al Tribunale di Napoli, Alfonso Sabella, è uno dei tanti (troppi) che hanno pagato la non appartenenza alle correnti, e hanno visto la loro carriera rallentata perché non ha voluto mai alzare il telefono per chiedere a qualcuno un favore. Sul Sistema Palamara avverte: «Non fermiamoci alle chat di Unicost, la magistratura indaghi anche su quelle di Mi e Area, troverà le stesse dinamiche».
Parola chiave dell’anno giudiziario: “credibilità”. Solo operazione di facciata o secondo lei la magistratura ha preso davvero coscienza che bisogna attuare una vera (auto)riforma?
«Magari fosse così. La magistratura non credo che sia in grado di autoriformarsi da sola. Purtroppo il meccanismo delle nomine e delle correnti dell’Anm è un tipico modus operandi della magistratura che va avanti da troppo tempo. La questione è semplice: dalle chat di Luca Palamara – di cui tutti eravamo a conoscenza e che ora tocchiamo con mano – è emerso il quadro di una magistratura associata che ha preso il controllo di un organo istituzionale, il Csm. O dobbiamo credere che le correnti dell’Anm siano realtà eversive e andrebbero sciolte con un decreto del ministro dell’Interno oppure occorre interrompere questo circuito vizioso tra le correnti dell’Anm e il Consiglio Superiore della Magistratura per recuperare la funzione di assoluta garanzia di autonomia e indipendenza che deve avere il Csm. L’unico modo per invertire la rotta è un trattamento chemioterapico d’urto, ossia il sorteggio dei componenti del plenum. È una proposta di cui non sono un grande sostenitore ma che ritengo essere un male necessario per porre freno allo strapotere delle correnti. Ciò dovrebbe passare per una riforma costituzionale, per quello dicevo che la magistratura da sola non è in grado di riformarsi».
Ieri Alberto Cisterna su questo giornale poneva sul piatto proprio la possibilità che l’Anm debba autosciogliersi: lei quindi sarebbe favorevole?
«Continuo a pensare che la condivisione di idee nella magistratura sia un valore aggiunto all’interno dell’esercizio della giurisdizione. Ammetto comunque di non provare alcuna simpatia per l’Anm, quindi non mi straccerei le vesti se un giorno ciò accadesse. Il Paese può sopravvivere anche senza di lei. Il problema vero è un altro: mi rendo conto che la politica non vuole affrontare questo discorso e si gira dall’altra parte, tuttavia bisogna non dimenticare che le correnti dell’Anm si muovono fuori da qualunque regola, o norma di legge. E ciò non riguarda solo l’Anm ma anche i partiti politici e i sindacati, appunto come l’Anm. Si tratta di soggetti che determinano il presente e il futuro del Paese ma lo fanno come associazioni private non riconosciute: è tempo di emanare una legge che regolamenti il loro operato. Pensi lei che l’Anm non ha nemmeno una pec. Non sono tenuti a nessun tipo di obbligo. Però c’è una differenza fondamentale tra l’Anm e le altre organizzazione sindacali».
Palamaragate, non finiscono i dubbi: anche inchieste e sentenze erano lottizzate?
«Quale? Le organizzazioni sindacali non decidono né le politiche aziendali né chi deve stare ai vertici delle società. L’Anm invece si arroga questo potere e ciò ha creato il sistema denunciato da Palamara».
Lei intende i capi degli uffici giudiziari, i posti apicali?
Certamente. Se i sindacati non decidono chi deve essere al comando di quella che fu la Fiat, invece le correnti scelgono colui che diventerà il prossimo Primo Presidente della Corte di Cassazione o il futuro Procuratore generale. Il problema fondamentale su cui tutti devono aprire gli occhi, invece di voltarsi e far finta di niente come stanno facendo ora i vertici della magistratura italiana, è un altro: ultimamente si torna a parlare di criteri oggettivi per la nomina dei vertici degli uffici, ma bisogna considerare che oramai i pozzi sono avvelenati. Chi ha avuto un incarico direttivo o semi direttivo con il sistema delle correnti oggi si trova “oggettivamente” in una posizione di vantaggio rispetto a chi quell’incarico non lo ha avuto. Anche qui occorre dunque un trattamento chemioterapico: non dico di tornare alla rigida soluzione dell’anzianità ma almeno utilizzare un sistema oggettivo che tenga conto anche di come sono stati ottenuti determinati incarichi. E quindi si faccia piena chiarezza su quello che è emerso dalle carte di Palamara: abbiamo solo le chat di Unicost, ma vediamo anche quelle di Mi e di Area dove troveremmo le stesse identiche cose. Su questo ci metto la mano sul fuoco».
A proposito di questo, abbiamo aperto una serie di approfondimenti sulla valutazione professionale dei magistrati. L’Ucpi dice: siamo l’unico Paese dove le valutazioni sono al 99% positive.
«È verissimo: se non commetti errori grossi, scatta automaticamente la promozione. Ma se non sei particolarmente gradito alla correnti la tua valutazione arriva dopo».
E ciò è quanto è accaduto a Lei.
«La mia valutazione è stata l’ultima ad arrivare perché non ho mai alzato il telefono per chiedere favori, in quanto credo profondamente nell’etica del nostro ruolo e, come me, la maggior parte dei magistrati italiani».
Però è anche vero che come denuncia l’Ucpi a «prescindere da una valutazione di merito delle attività in concreto svolte dal singolo magistrato» la sua carriera progredisce.
«Certo, perché la propria corrente proteggerà sempre quel magistrato. Io ci tengo a dire questo: non sono assolutamente contrario all’ingresso degli avvocati nei Consigli giudiziari: sentire l’opinione di chi vede l’operato della magistratura dall’esterno è importante. La dialettica professionale tra le varie parti del processo penale è fondamentale che si svolga con la massima serenità. Per questo è necessaria una riforma profonda del sistema giustizia, compresa quella amministrativa, contabile, tributaria».
Sempre ieri da questo giornale Tiziana Maiolo si è chiesta se le posizioni ideologiche di un magistrato possano influenzare l’esercizio della sua funzione. Qual è il suo parere?
«Il magistrato dovrebbe essere per Costituzione autonomo e indipendente. Molti miei colleghi purtroppo, e mi dispiace dirlo, hanno pensato che autonomia e indipendenza fossero un diritto e non un dovere. Io invece li ho sempre considerati come un dovere: qualunque idea politica io abbia, essa non può assolutamente condizionare il mio operato perché ho il dovere di presentarmi autonomo e indipendente dinanzi ai cittadini. Occorre pertanto un recupero etico della magistratura. A tal proposito voglio aggiungere una cosa che manca nel libro di Palamara».
Prego.
«Riguarda la formazione dei magistrati e la lottizzazione pure dei corsi di formazione. Io non ho le prove ma da quello che so c’è il corso in quota Mi, quello in quota Area, e quello in quota Unicost: è così che vengono formati i nuovi magistrati che decidono sulle vite dei cittadini. Così si fa un danno enorme alla giurisdizione, e non vorrei tirare il ballo Socrate e la corruzione dei giovani. Io sto notando una perdita di senso etico da parte dei nuovi magistrati: persone preparatissime ma prive di afflato etico, del rispetto del principi della giurisdizione, che nessuno ha insegnato loro. Spero di sbagliarmi».
Quindi secondo lei la priorità è la carriera più che il rispetto dello Stato di Diritto?
«Certo, è questo avviene perché vengono cooptati fin da subito. Il meccanismo non lo ha inventato di certo Luca Palamara. Accadde anche a me tanti anni fa, nel 1989, quando ero uditore giudiziario. Il mio coordinatore, elemento di spicco di Mi, la prima cosa che fece è invitare me e gli altri tirocinanti in un convegno a Taormina. L’incontro era finanziato non si sa da chi in due hotel di lusso sul mare, ci fu anche un concerto in un altro prestigioso hotel, fuochi d’artificio a mare, caviale e champagne a pasto: qual era l’obiettivo? Portarci da Mi e con qualche collega ci sono riusciti. Ora forse il meccanismo è cambiato ma la ratio è quella».
Riguardo alcune dichiarazioni contenute nel libro di Palamara, alcuni suoi colleghi hanno invitato Giovanni Salvi e Giuseppe Cascini a smentire o a dimettersi. Che ne pensa?
«Non chiedo le dimissioni di nessuno ma chi esercita pubbliche funzioni ha il dovere di essere trasparente: se ci sono ombre vengano chiarite. E di ombre ce ne sono tante e su molti colleghi, e non mi riferisco solo a quelle che emergono dal libro di Palamara. La magistratura ha il dovere di scavare in tutte le chat».
Molti suoi colleghi provano il suo stesso disagio, per così dire, ma non si espongono.
«Perché il sistema vive ancora. Io sono stato spedito a Napoli da cinque anni, ma la mia famiglia vive a Roma e faccio il pendolare. Mi aveva allettato l’idea di fare domanda per la posizione di sostituto procuratore generale di Cassazione: ho preparato tutta la documentazione ma poi ho rinunciato perché ho capito, parlando con colleghi del Csm, che il sistema è rimasto tale e quale. Con ogni probabilità questi posti saranno oggetto di spartizione tra le correnti».
Il procuratore generale di Cassazione Salvi all’inaugurazione dell’anno giudiziario ha stigmatizzato la mediaticità di certe procure. Lei è d’accordo?
«La questione è delicata ed il problema è stato affrontato nel peggior modo possibile dalla riforma che ha dato troppo potere al capo degli uffici. Il discorso non è la mediaticità del pm, io tra l’altro quando ero pm a Palermo non andavo in televisione. La domanda da farsi è: perché impedire ad un magistrato di rappresentare degli elementi che possono essere utili per la collettività? Per esempio è utile per il controllo democratico del suo operato sapere se un pm arresta solo persone di destra o di sinistra. Il problema è come lo si fa: se arriva un pm e presenta come colpevoli persone per le quali vale la presunzione di innocenza ha fatto un cattivo servizio al Paese».
Secondo Lei andrebbe abolita l’obbligatorietà dell’azione penale?
«No, ma bisognerebbe fare uno scelta di fondo: l’azione penale andrebbe limitata solo a casi in cui è necessaria la sanzione penale. Noi viviamo in un Paese panpenalistico: occorre una depenalizzazione serissima».
Massimo Borgnis per “Chi” il 4 febbraio 2021. «Sono consapevole di aver contribuito a creare un sistema che per anni ha inciso sul mondo della magistratura e di conseguenza sulle dinamiche politiche del Paese. Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli — colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni, molti dei quali tuttora al loro posto — che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo. Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c' entrano». Inizia così, con questa esplosiva dichiarazione, il libro in cui Alessandro Sallusti, direttore de “Il Giornale, ha raccolto in una lunga intervista la confessione di Luca Palamara, protagonista dello scandalo che la scorsa estate ha scosso dalle fondamenta la giustizia italiana. Uno scandalo che ha portato alla caduta e alla successiva radiazione di quello che era considerato l'enfant prodige della magistratura italiana, ma soprattutto il regista occulto di una fitta serie di trame di potere che attraverso la magistratura hanno condizionato le in-chieste e k sorti politiche degli ultimi decenni del nostro Paese.
Domanda. Che cos'è lo scandalo Palamara?
Risposta. «Da un punto di vista strettamente giudiziario è la clamorosa conclusione di un'indagine avviata sul giudice Palamara nel 2017 per fatti privati di marginale importanza. Viene accusato in sostanza di aver fatto quattro viaggi all'estero nell'arco di cinque anni per un ammontare complessivo di poco meno di 9 mila euro, viaggi che sono stati pagati da un imprenditore (anche se il magistrato sostiene di averli poi rimborsati integralmente), per di più finito nei guai per altre ragioni che non c'entrano nulla con Palamara. Dopo quasi due anni di indagine, anni durante i quali Palamara continua imperterrito il suo lavoro all'interno del Consiglio superiore della magistratura, gli investigatori gli infilano con un trucco nello smartphone un trojan, un virus che non solo registra le telefonate, ma addirittura a telefonino spento registra le voci, le immagini e gli spostamenti. Insomma come essere in un Grande Fratello perpetuo sia per il magistrato sia per i suoi interlocutori. L'epilogo avviene la notte tra l’8 e il 9 maggio 2019, in quella che viene chiamata "notte dell' Hotel Champagne". Poco prima di mezzanotte Palamara si incontra in una saletta riservata di un hotel di Roma con cinque magistrati del Csm, con Cosimo Ferri, deputato Pd passato a Italia Viva ed ex leader della corrente di destra del Csm, e con Luca Lotti, braccio destro di Matteo Renzi ed ex ministro dello sport del governo Gentiloni. Lodi è tra gli indagati eccellenti nell'inchiesta sulle tangenti per appalti pubblici partita da Napoli nel 2016 e approdata alla Procura di Roma. Il tema della cena è pilotare la nomina del nuovo procuratore capo di Roma. A un certo punto il telefonino spia capta la voce di Luca Lotti che indica la convergenza su un candidato: quindi si ascolta un politico, per di più indagato, che sta dettando la linea ai magistrati presenti o comunque prende atto (come sembra da una seconda perizia fonica sull'intercettazione) del loro accordo sul nome del candidato. Candidatura che puntualmente viene presentata pochi giorni dopo al Csm. A questo punto, dopo una fuga di notizie sulla cena, la Guardia di Finanza si presenta a casa di Palamara con un decreto di perquisizione e un avviso di garanzia per corruzione. L'accusa principale e più grave, quella di corruzione. cade quasi subito, ma da quel momento finisce di esistere il "Sistema Palamara". Nell'ottobre del 2020 Luca Palamara viene radiato dalla magistratura».
D. Che cos'è esattamente il "Sistema Palamara"?
R. «Luca Palamara è stato dal 2008 al 2019 al vertice del sistema giudiziario italiano. Prima come presidente dell'Associazione nazionale magistrati, il sindacato dei giudici, poi come autorevole membro del Csm, l'organo di governo della magistratura. Da quelle posizioni ha condizionato tutte le nomine della magistratura. Infatti le nomine fatte dal Csm non sono state decise in base ai curricula, alle competenze dei candidati, o ai voti dei colleghi, ma sono state tutte decise in base all'appartenenza a una delle tre correnti in cui è divisa la magistratura in Italia: una di sinistra, che si chiama Magistratura democratica, una di centro, che si chiama Unicost — alla quale apparteneva Palamara — e una di destra, Magistratura indipendente. Siccome le nomine vengono fatte a maggioranza tra i consiglieri del Csm, e Palamara, leader della corrente di centro, si era alleato con Magistratura democratica, negli ultimi dieci anni i magistrati sono stati eletti dal centrosinistra. Grazie al metodo Palamara, si è avuto in Italia una magistratura orientata su posizioni di sinistra, se non dichiaratamente di sinistra. Questo, naturalmente ha condizionato e condiziona le inchieste».
D. Palamara non è mai stato un magistrato d' assalto, non si è occupato di grandi inchieste, tipo "Mani Pulite". Come ha fatto a diventare il grande burattinaio del sistema giudiziario italiano?
R. «Lui è figlio di un grande magistrato che morì d'infarto giovane, quando lui era studente universitario. ll padre, che era molto bravo, non riuscì a fare la carriera che avrebbe meritato perché non era addentro ai sistemi che governano la giustizia, cioè alle correnti. Credo che il figlio abbia voluto in un certo senso vendicare il padre. Palamara ha capito che tu puoi essere bravo quanto vuoi, ma se non sei parte del Sistema non vai da nessuna parte. E allora lui ha scalato questo sistema perché ha intuito che il potere non sta tanto nella singola Procura, ma in coloro che decidono chi viene assegnato alla singola Procura. Fin da subito ha lavorato più che sul campo a fare inchieste, a scalare, attraverso il sistema delle correnti, il governo dei giudici. E c'è riuscito, perché ha un talento, straordinario in questo: è diventato presidente dell' Anm a 38 anni, che per un magistrato è come essere quasi un bambino».
D. Nel libro Palamara spiega bene come funziona poi sul campo il Sistema. Meccanismo che si basa su tre elementi.
R. «ll primo elemento necessario è un buon magistrato messo a capo di una importante procura della Repubblica, come Milano, Roma, Napoli, Bari o Palermo. A quello pensava Palamara, ma per mettere un buon magistrato a capo di una procura importante devi avere un collegamento con la politica, perché queste scelte il Csm le compie insieme con dei signori che si chiamano "membri laici del Csm", che sono nominati dai partiti. Quindi innanzitutto è importante avere un buon rapporto con la politica. Poi il procuratore nominato deve essere capace di circondarsi di bravi sostituti e soprattutto di investigatori capaci, perché i magistrati non fanno personalmente le indagini, hanno finanzieri, carabinieri o poliziotti, meglio se provenienti o comunque in buoni rapporti con i servizi segreti, che li aiutano. Poi serve un terzo elemento: almeno un paio di giornalisti di giornali importanti con cui creare un rapporto di reciproco scambio. Se si crea una situazione del genere, quel gruppo, quella Procura hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. E riescono a condizionare la vita politica del Paese come dimostrano i casi Berlusconi, ma anche Renzi e recentemente Salvini».
D. Il Sistema è molto reagivo contro gli avversari esterni, ma anche al suo interno: chiunque cerchi di uscire dalla linea stabilita viene eliminato.
R. «Sì, ci sono dei magistrati che a un certo punto si svincolano dal Sistema e vanno per la loro strada. Palamara cita qualche caso: Luigi De Magistris, attuale sindaco di Napoli, che improvvisamente indaga l'allora ministro della giustizia Mastella, siamo nel 2007, e fa cadere il governo Prodi. Poi il giudice Clementina Forleo, che a Milano, anni dopo, si permette di indagare i vertici del Pd: Fassino, D' Alema. Infine c'è un procuratore di Milano, Alfredo Robledo, che vorrebbe indagare l'attuale sindaco di Milano Giuseppe Sala, allora commissario per l'Expo. Palamara spiega che se qualcuno si permette di andare contro la linea politica del Sistema, che è una linea politica di sinistra, viene triturato velocemente, De Magistris viene addirittura sospeso dalla magistratura, la Forleo viene trasferita nel giro di poche settimane, Robledo viene espulso. Viceversa, se il Sistema, a torto o ragione (perché Palamara non entra mai nel merito se le inchieste siano giuste o sbagliate), indaga un avversario, un leader di centrodestra, come Berlusconi o Salvini, si schiera compatto a difesa dei magistrati che indagano, proteggendoli da ogni tipo di attacco, mediatico o politico. Questo è un fatto che ha condizionato la democrazia in Italia, perché in sostanza si poteva indagare sul centrodestra, ma non si poteva indagare sui leader di centrosinistra».
D. Questo teorema, però non vale per Renzi, anche lui finisce per scontrarsi con il Sistema R. «Sì, anche se si tratta di un cortocircuito solo apparente. Il Sistema, infatti, è cre-sciuto insieme con la sinistra italiana, prima con il Partito comunista, poi con il Partito democratico, Renzi è vero che a un certo punto diventa il segretario del Pd, ma lo diventa "rottamando" (termine usato dallo stesso Renzi) il vecchio partito che era il garante del Sistema. Quindi il Sistema non riconosce Renzi come il leader. Lo identifica anzi come uno che vuole rottamare il Pd e quindi reagisce. E Palamara documenta come si mette di traverso, creando non poche difficoltà al governo Renzi».
D. Renzi sarà poi il "motivo", secondo Palamara, della sua caduta.
R. «C'è un'organizzazione militare dentro quel Sistema. Se uno sgarra, si mette di traverso o non fa quello che deve fare, allora che cosa succede? Improvvisamente sbuca quello che lui chiama "il cecchino": da una qualche procura spunta un'intercettazione, un'informativa che mette in cattiva luce il magistrato che si era messo di traverso. La vittima è bruciata, è costretta a ritirarsi dalla nomina o a dimettersi da una carica. Palamara è stato anche lui vittima di un "cecchino": fino al 2016-2017 non è contrastate, perché correva con la corrente di sinistra e quindi andava tutto bene e nessuno lo tocca, anzi. Quando tra stare con la vecchia sinistra e la nuova sinistra, cioè con Renzi, sceglie quest'ultimo, ecco che arriva un'informativa sul tavolo del procuratore di Roma, secondo la quale lui da tempo frequentava una signora che non era la moglie. Con questa persona andava in alberghi e non pagava lui il conto, ma lo pagava un altro imprenditore. Questa informativa giaceva da tanto tempo, ma nessuno la usava perché Palamara era funzionale, ma quando improvvisamente salta sul carro di Renzi ecco che arriva l'informativa, dalla quale nasce un'inchiesta e dall'inchiesta poi nasce tutto quello che lo fa saltare in aria».
D. L'inchiesta parte nel 2017, però fino al 2019 lui continua a tessere le sue trame all'interno del Sistema. Com'è possibile?
R. «Credo sia un fatto abbastanza naturale. Tutti i signori che avrebbero dovuto emarginarlo, preso atto del fatto che fosse finito sotto inchiesta, all'inizio quasi lo proteggono perché è come fossero "figli" suoi. Non dimentichiamoci che Palamara aveva fatto eleggere il numero uno e il numero due della magistratura italiana, cioè il presidente e il vicepresidente della Corte di Cassazione. Per un certo periodo i suoi nemici ci hanno messo un po' a scardinare quel Sistema e ci sono riusciti soltanto perché Palamara ha commesso un errore che, se tornasse indietro, non rifarebbe, cioè la famosa cena dell'Hotel Champagne dove è presente un politico indagato. Da quel momento in poi diventa indifendibile, nonostante quelle riunioni per nominare i vertici della magistratura insieme con dei politici, o con alcuni politici, fossero l'assoluta normalità».
D. Palamara nel libro si dice ancora convinto di poter essere reintegrato. Questo perché ci crede o perché ha in mano ancora qualche asso da giocare?
R. «Credo che la sua sia più che altro una dichiarazione di principio. Perché dal punto di vista pratico è vero che lui può fare ricorso alla Corte europea, e che in teoria ci potrebbe essere uno spiraglio affinché possa ottenere un reintegro, ma in pratica io non credo sia possibile e a questo punto non penso interessi neppure a lui. Palamara vuole una sorta di riabilitazione. Dice: "Mi avete fatto passare come un mascalzone, quando invece il Sistema Palamara era condiviso da tutti i capi delle correnti, da tutti i procuratori della Repub-blica. Ma adesso fate passare solo me per un mascalzone"».
D. IL caso Palamara è la facciata che crolla mentre il palazzo resta in piedi oppure questo scandalo porterà finalmente a una modifica del Sistema?
R. «No, io temo di no. Temo che vincerà chi vuole ridurre il caso Palamara a una faccenda fatto di quattro viaggi pagati impropriamente a un magistrato che va quindi punito insieme con i suoi compagni di viaggio. Perché altrimenti il Sistema dovrebbe ammettere che tutta l'attuale classe dirigente della magistratura è figlia di un'anomalia. E questo non lo faranno mai. Allora chi potrebbe intervenire? Potrebbe farlo la politica, che ha il potere decisionale. Il Parlamento potrebbe aprire una commissione d'inchiestaper vedere che cosa è successo. Le commissioni d'inchiesta parlamentari hanno anche il potere giudiziario, possono capire che cosa è successo e prendere provvedimenti. Ma questa classe politica è talmente impaurita dal potere giudiziario che mai e poi mai farà una roba del genere».
D. Secondo lei dopo questo scandalo qualcosa cambierà? E chi è stato vittima del Sistema, ora che quell'accanimento è stato raccontato e documentato da uno dei protagonisti, avrà la soddisfazione di vedere riconosciute le proprie ragioni?
R. «Non credo. Il mio compito non è quello di cambiare il mondo. Il mio mestiere non è nemmeno quello di provare a riscrivere la storia, ma solo quello di scrivere la cronaca. Questo libro va in questa direzione. Secondo uno dei testimoni oculari le cose sono andate così in maniera ovviamente documentata. Il mio compito si ferma lì. Se nessuno nel mondo politico e istituzionale vorrà prendere atto di questa inedita storia e far finta di niente io non potrò fare altro che prenderne atto. Penso che aver raccontato cos'è il Sistema sia una cosa utile potenzialmente per tutti anche peri magistrati, perché ci sono tanti magistrati in tutte le Procure del Paese, anche quelle più piccole, che sputano sangue e rischiano la pelle ogni giorno dalla mattina alla sera e che forse queste cose non immaginavano nemmeno potessero esistere. Prendere atto di ciò che dice Palamara può es-sere una cosa utile per tutti: per la politica, per la magistratura e per il giornalismo, perché anche il giornalismo ha fatto parte di questo Sistema».
Sallusti presenta "Il sistema". Alessandro Sallusti, martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, presenta il suo ultimo libro-intervista a Luca Palamara: "Il punto di partenza è: è possibile che quel sistema interno alla magistratura con cui venivano decisi in modo abbastanza discutibile i procuratori, i magistrati più importanti d'Italia abbia infettato, oltre che la magistratura, anche la vita politica italiana? In altri termini, è possibile che abbiano subito attacchi giudiziari molti governi, da quello di Prodi a quello di Berlusconi, a quello di Renzi, financo a quello di Salvini?"
Inchieste e trame tra giudici e politici: ecco tutta la verità di Palamara. In un libro con Sallusti l'ex capo dell'Anm racconta la verità dietro le inchieste su Quirinale, Berlusconi, Renzi e Salvini. Alessandro Sallusti, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Il governo Conte due cade oggi per sua debolezza ma anche, e non è una coincidenza, perché stava andando a sbattere sull'iceberg della giustizia (domani è in agenda il voto sulla riforma Bonafede) che da sempre si muove ingombrante e minaccioso nei mari della democrazia italiana. Da oltre vent'anni i due mondi, politica e giustizia, si intrecciano e si scontrano, ma quello che ci è stato dato di vedere - e già non è poco - è solo la parte emersa del fenomeno. Per tutto questo tempo sotto il pelo dell'acqua, e quindi lontano da occhi indiscreti, è in realtà accaduto di tutto e di più. E c'è un uomo, Luca Palamara, magistrato radiato un anno fa in seguito a un'inchiesta che lo ha riguardato, che di quel sistema occulto è il depositario di verità e segreti per esserne stato il regista dal 2008 al 2019. Luca Palamara è stato il pilota di quell'iceberg e, di volta in volta, insieme al suo Stato Maggiore e al suo equipaggio, ha scelto chi puntare, chi schivare e chi investire dentro la magistratura e nella politica. Oggi ha deciso di aprire il suo ricco archivio e ne è nato un libro, Il Sistema - potere politica e affari Storia segreta della magistratura italiana (edizioni Rizzoli, 300 pagine, 19 euro), che per la prima volta squarcia lo spesso e impenetrabile velo di omertà dietro il quale la magistratura ha coperto fatti e a volte misfatti. È una lunga intervista che Palamara mi ha concesso, io e lui appartati soli per settimane, circondati da faldoni di documenti, appunti e migliaia di messaggini telefonici ed email estratti dal suo telefonino e dal suo computer. Non sta ovviamente a me giudicare il risultato. Quello che certo emerge è che la magistratura italiana - egemonizzata dalla sua corrente di sinistra della quale Palamara è stato a lungo alleato - è intervenuta direttamente e indirettamente, ma sopratutto coscientemente, sulla vita politica italiana, a volte di sua sponte, altre in accordo con le massime istituzioni del Paese, Quirinale non escluso. Attraverso un complicato sistema di nomine - spesso concordate con la politica, compresa quella dell'attuale vicepresidente del Csm David Ermini -, organizzato in modo militare, il «Sistema» raccontato da Palamara ha avuto il controllo delle principali procure, della Corte (...) Quanto tutto ciò ha influito sulle inchieste e sui processi che hanno terremotato la politica italiana, da quella che fece cadere il governo Prodi-Mastella a quelle su Berlusconi fino a quelle che hanno messo alle strette prima Matteo Renzi e poi Matteo Salvini? Qual è la verità sui casi di magistrati finiti a vario titolo nell'occhio del ciclone (De Magistris, Ingroia, Di Matteo), quale il ruolo del presidente Napolitano e di Gianfranco Fini nella stagione dell'antiberlusconismo giudiziario, e ancora quale il trattamento riservato ai magistrati che, sfidando il Sistema, hanno osato indagare sui leader della sinistra?
Da oggi in libreria sono a vostra disposizione le risposte a queste e a tante altre domande che per anni ci siamo posti inutilmente, anche dalle colonne di questo giornale. Una prima operazione verità di cui ringrazio Luca Palamara per aver accettato di farla e la Rizzoli per il coraggio di pubblicarla. Per chi vorrà, buona lettura.
Da la7.it l'1 febbraio 2021. La rivelazione di Palamara: "Il sistema non poteva permettersi Gratteri Ministro della Giustizia. L'ho vissuto in prima persona all'interno del mio ufficio...". Sandra Amurri: "In quel caso il sistema era il Presidente Napolitano?"
Il cattivo Palamara batte il buonista Carofiglio nel derby in libreria tra ex magistrati. "Il Sistema" scritto insieme a Sallusti ha già venduto oltre 47mila copie. Alessandro Gnocchi, Venerdì 12/02/2021 su Il Giornale. In vetta alle classifiche di vendita, c'è uno scontro fra ex magistrati, Luca Palamara (radiato) e Gianrico Carofiglio (decadenza dall'impiego). Il primo ha scritto un libro intervista con Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, intitolato Il sistema, uscito il 26 gennaio per Rizzoli. Il secondo ha scritto un giallo, La disciplina di Penelope, uscito per Mondadori il 21 gennaio. Anche la protagonista, Penelope era in magistratura; adesso solitaria e un po' depressa decide di prendere in mano un cold case, un caso dalla conclusione poco convincente, quindi da riaprire. Sallusti e Palamara invece rivelano la storia segreta della magistratura, tra giochi di potere, politica e affari. I numeri hanno emesso il seguente verdetto: Il sistema è primo in classifica con 47.823 copie vendute; La disciplina di Penolope è al secondo posto con molto meno della metà di copie vendute (19.091). La terza classificata, Valérie Perrin, quella di Cambiare l'acqua ai fiori (edizioni e/o), è a distanza siderale (6228 copie) anche se va detto che è nella top ten da quando portavamo i calzoni corti. Il giudice «brutto, sporco e cattivo» (Palamara) affonda il giudice bello, karateka e testimonial vivente del politicamente corretto (Carofiglio). Il genere è completamente diverso, e per questo balza all'occhio ancora di più la performance de Il sistema: raramente un saggio sopravanza un giallo senza pretese ma di un autore molto apprezzato e pubblicizzato quale indubbiamente è Carofiglio. Significa che è accaduto qualcosa, 47 mila copie sono un successo molto considerevole, lo dicono le statistiche, e magari perfino insperato dall'editore. Però, se ci pensi un attimo... La storia d'Italia, soprattutto dal 1992 in poi, è stata segnata dalle inchieste giudiziarie. Una parte, piuttosto vasta, della popolazione ha notato lo strano andamento delle medesime, indirizzate, a stragrande maggioranza, verso il centrodestra. Mentre a sinistra erano, e sono, tutti santi. Le conseguenze di quella stagione, gli anni Novanta, sono state disastrose. L'abuso di alcuni strumenti (carcerazione preventiva in testa) ha messo a serio rischio la nozione di diritto; la dubbia imparzialità ha lasciato il segno su imputati convinti di non avere avuto un giusto processo; la fuga di notizie che passavano dalla procura direttamente alla prima pagina ha fatto il resto. Non che la cittadinanza sia esente da colpe: il garantismo, in Italia, non ha mai trovato terreno troppo fertile. La magistratura ha sconfinato e ha assunto un ruolo politico che non dovrebbe esserle proprio. La politica, per contro, ha cercato di pilotare le nomine e le carriere, in cerca di un assetto favorevole alla propria parte. Sono brutte vicende, e si sono sempre svolte dietro le quinte. Ora Palamara e Sallusti alzano il sipario e ci mostrano il panorama. Al lettore il compito di decidere se è devastante o accettabile (bello possiamo escluderlo).
Così parlò Palamara. Alessandro Sallusti spiega “il Sistema” della magistratura politicizzata. Alfonso Piscitelli il 3 Febbraio 2021 su culturaidentita.it. La lotta ai politici di centro-destra e le guerre interne per il potere, a colpi di trojan. “Se Palamara parla crolla tutto”, si bisbigliava un anno fa negli ambienti dei bene informati quando la stella del magistrato cominciava ad offuscarsi. Luca Palamara ha parlato in un libro-intervista del direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti: Il Sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana (Rizzoli), una “voce di dentro” per descrivere lotte interne e volontà di potenza che serpeggiano tra i custodi della legalità. Abbiamo incontrato Sallusti per capire la portata delle rivelazioni di un protagonista, nel bene o nel male, della vita giudiziaria e politica del Paese. Il libro è primo nelle classifiche di vendite, ma nello stesso tempo suscita una certa indifferenza da parte dei diretti interessati.
Direttore, il “sistema” ha reagito con un certo aplomb…
«La cosa non mi stupisce, alzare un muro di gomma è la classica strategia di difesa di un sistema che peraltro è ancora saldamente al potere».
Un sistema, avrebbe detto il vecchio Marco Pannella, di tipo “partitocratico”, caratterizzato da correnti in lotta per il potere, ma anche da una “egemonia culturale” ben precisa.
«Non da oggi, il sistema giudiziario è imperniato attorno alla componente tradizionalmente conosciuta come Magistratura Democratica, una corrente ideologica che ha coltivato l’idea di sostituirsi alla politica. I guai di Palamara cominciano quando il magistrato crea una cordata per scalzare gli uomini della sinistra giudiziaria dalle posizioni apicali».
Si dice “sono giudici di sinistra” e “fanno politica”, ma specificamente quali obiettivi hanno perseguito?
«Magistratura democratica ha esercitato soprattutto un potere di interdizione: un diritto di veto nei confronti di qualsiasi governo di centrodestra o addirittura di personaggi non rigorosamente di sinistra. Ha usato in maniera impropria la giustizia non tanto per affermare un’idea sociale, quanto per contrastare politicamente gli avversari».
Quasi una nemesi rispetto agli anni del “Fattore K”, in virtù del quale i comunisti non avrebbero mai potuto governare nell’Italia del Patto Atlantico.
«Certo, un evidente capovolgimento».
D’altra parte “il Sistema è grande e il giornalista è il suo profeta”: c’è questo aggancio fondamentale tra mondo magistratura ed echi nella comunicazione di massa…
«Palamara racconta che l’informazione è un tassello fondamentale del sistema, addirittura arriva a dire che “un Procuratore della Repubblica in gamba con una polizia giudiziaria in gamba e due giornalisti di importanti testate formano un pool che è più potente di qualsiasi governo e di qualsiasi parlamento”. Il fatto che un libro che intervista un indubbio protagonista abbia suscitato reazioni così reticenti, distratte nella grande stampa, conferma che l’informazione svolge un ruolo importante nel sistema descritto da Palamara».
L’archetipo di questa liaison tra magistratura e giornalismo fu indubbiamente la famosa anteprima del Corriere della Sera dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi, mentre presiedeva una conferenza internazionale sulla criminalità…
«Quello fu un banco di prova fondamentale di un sistema, che coinvolgeva anche il Quirinale. Palamara descrive bene quale fu il contesto storico in cui maturò il forte interventismo politico di certi magistrati».
Gli anni di Mani Pulite?
«In quegli anni era un fresco laureato e racconta come per la sua generazione l’avvento del Pool di Mani Pulite e la popolarità di Di Pietro abbiano inciso sull’orizzonte mentale dei giovani magistrati: “noi allora capimmo che essere magistrati non significava percorrere una grigia e monotona carriera burocratica, ma significava poter diventare delle star, essere riconosciuti per strada, avvicinati con bramosia da giornalisti, essere investiti di una missione salvifica…”»
Anche essere ammirati dalle signore nei salotti.
«Sì, arriva a dire che il bello del loro ruolo era anche quello di essere ricercati dalle ragazze. Il protagonismo della magistratura, che poi è stato devastante, nasce in questo scenario».
La seduzione della gloria, forse simile a quella che nel Novecento avrebbe potuto nutrire un tenente colonnello sudamericano immaginando che fosse arrivato il momento di raddrizzare le sorti del proprio Paese: banana republic…
«Ed è qualcosa di simile a ciò che sta accadendo oggi con i virologi».
I giudici della salute!
«Che però in confronto sono dei dilettanti del controllo sociale».
C’è d’altra parte un limite a questa volontà di intervento: quando certi giudici si sono cimentati in politica fondando anche partiti personali i risultati sono stati grami.
«Hanno commesso l’errore di scambiare la popolarità conseguita con certe inchieste con il consenso elettorale e la capacità di governare. Possiamo dire che in alcuni casi sono stati anche utilizzati dai politici di professione, come quando il PDS utilizzò Di Pietro candidandolo nel Mugello o nel caso di Ingrao che divenne testimonial di una sinistra più movimentista. Certo, difficile immaginare che il picco di popolarità di Di Pietro possa ripetersi con altri suoi colleghi».
E d’altra parte Di Pietro esprimeva una antropologia popolaresca, neanche tanto di sinistra, che lo distingueva da più algidi esponenti della aristocrazia giudiziaria.
«Sicuramente».
Se quello sulle lotte interne alla magistratura fosse un film forse si chiamerebbe Hotel Champagne (dal nome dell’albergo in cui, racconta Palamara, si concordavano le nomine), ma come va a finire adesso questo film?
«Penso che sia un film che non finisce qui: c’è bisogno di un sequel. Quello che racconta Palamara è tutto documentato, ricostruibile, ma io non ho mai sostenuto che la sua testimonianza rappresenti “tutta” la verità. Non è detto che non esistano tasselli diversi per completare un mosaico più vasto. Fino ad ora si è scrutato nel telefono di Palamara, ma bisognerebbe forse verificare le posizioni di tante altre persone per raccontare una storia forse più complicata. Spero che il mio libro riesca ad aprire almeno una feritoia nel muro di Berlino che circonda il sistema: l’inizio di un percorso…»
La società cambia e lo sviluppo delle tecnologie crea fatti nuovi. Le intercettazioni hanno rappresentano una pallottola impazzita che a un certo punto ha cominciato a colpire anche i magistrati in carriera.
«Quando qualcuno all’interno del sistema risultava sgradito a chi era in posizione dominante, allora agiva “il cecchino”, che poteva essere una intercettazione o una nota informativa che al momento opportuno usciva dal cassetto. Certi mezzi venivano utilizzati all’esterno, ma spesso anche all’interno della categoria».
In un clima desolante da Unione Sovietica terminale. Interessante poi il doppio senso che in italiano evoca il termine “trojan”, la app per mettere sotto controllo un telefonino.
«E a parte queste sfumature, due cose colpiscono riguardo ai trojan: per legge possono essere usati solo nel sospetto di alcuni reati gravi, come la corruzione. E allora per Palamara ci si inventa una inconsistente accusa di corruzione, giusto il tempo di impiantare il trojan nel suo telefonino. Dopodiché l’accusa decade, ma intanto l’applicazione ha svolto il suo lavoro. La seconda cosa che da cittadino mi inquieta è che una compagnia privata italiana abbia “venduto” un suo cliente, mentre la Apple si rifiuta di dare le password dei telefoni, anche dei grandi terroristi internazionali. Gli antagonisti di Palamara non riuscivano ad entrare nel suo telefono dal momento che, sapendo grosso modo come si attiva il meccanismo, non apriva nessun messaggio da sconosciuti: il trojan lo attivi così. Allora i magistrati vanno dalla compagnia telefonica e la compagnia provvede a creare una finta interruzione della linea per poi ripristinare la funzionalità del telefono del cliente, ma con la spia incorporata».
Luca Palamara ad Alessandro Sallusti: "La manovra segreta delle toghe italiane". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 27 gennaio 2021. Pubblichiamo di seguito uno stralcio del libro in cui Alessandro Sallusti - direttore de "Il Giornale" e già direttore di "Libero" - intervista Luca Palamara - ex magistrato, ex membro del Consiglio Superiore della Magitratura nonché ex presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati - dal titolo "Il sistema - Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana" (Rizzoli, pag. 288, 19 euro).
Ci sono vicende in cui l'aspetto giudiziario s' intreccia non solo con quello politico ma anche con quello ideologico?
«Sì, ed è un mix esplosivo, come nel caso di Salvini, indagato per sequestro di persona per il blocco dei porti agli sbarchi di immigrati. Nell'estate del 2018 gli ingredienti ci sono tutti: un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale. Un piatto ghiotto, ovvio che la magistratura scenda in campo. Il culmine lo si tocca l'estate successiva, nel 2019, proprio nelle settimane in cui anche le tensioni nel governo tra Lega e Cinque Stelle sono in rapido crescendo. Io non le so dire se sia più la magistratura che tenta di dare la spallata al "governo delle destre", come veniva chiamato il Conte 1, o se sia Salvini a cercare il martirio per tenere comunque alto il suo consenso su un tema a cui l'opinione pubblica è sensibile, ma sta di fatto che quel governo, come tutti quelli che sfidano i magistrati, cadrà. Sarà una coincidenza, ma cadrà».
Tutto inizia all'alba del 16 agosto 2018, quando la nave della Guardia Costiera "Ubaldo Diciotti" soccorre in mare 190 immigrati. Da Roma Matteo Salvini, ministro degli Interni, ordina il divieto di sbarco. La nave rimane ferma al largo, prima di Lampedusa e poi di Catania, per cinque giorni, aspettando disposizioni. Poi, l'estate successiva, stessa sorte toccherà alle navi Gregoretti e Sea Watch.
«Il magistrato più attivo di tutti è Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica. Indaga Salvini sia per la Diciotti sia per la Gregoretti, la Open Arms e la Sea Watch, per la quale ordina lo sbarco immediato di tutti gli immigrati dopo una visita a bordo in favore di telecamere».
Suscitando l'ira del ministro degli Interni, che in tv parla di lui come di uno che stia commettendo il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
«Che si vada a uno scontro è chiaro fin dal primo avviso di garanzia, quello per la Diciotti. Il più veloce a saltare sul caso è il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, come tutti noi in scadenza di mandato. Il 24 agosto 2018, alle 21:07, mi manda il seguente messaggio: "Luca, dobbiamo dire qualche cosa sulla nota vicenda della nave, Area (corrente di sinistra, N.d.R.) è d'accordo a prendere l'iniziativa, Galoppi (Claudio Galoppi, consigliere Csm, N.d.R.) idem, senti loro e fammi sapere domani mattina". E ancora: "Domani mattina dovete produrre una nota, qualche cosa in- somma", forse sapendo già che il giorno seguente Salvini riceverà l'avviso di garanzia. Ma c'è qualche cosa che non mi torna».
Cos' è che non torna?
«Tanto attivismo non è da lui. In quattro anni di Csm non era mai capitato che ci dovessimo rincorrere sui telefonini da una spiaggia all'altra d'Italia. Perché tanta fretta? Ho il sospetto che Legnini stia giocando una partita personale per ingraziarsi i maggiorenti del Pd. Sono i giorni in cui si discutono le liste per le imminenti elezioni regionali in Abruzzo, e gira voce che lui intenda candidarsi a governatore con la sinistra, cosa che poi in effetti avverrà. Per il dopo Csm in realtà puntava ad andare all'Antitrust, aveva cercato una sponda al Quirinale - così mi confidò - ma gli avevano fatto sapere che non era aria».
Sconfitto alle elezioni in Abruzzo, Legnini non resterà disoccupato, gli trovano un posto come commissario delle zone terremotate. Ma lei in quel momento era l'unico ad avere sospetti di questo genere?
«Per nulla. Ecco cosa mi scrive quella stessa sera il consigliere del Csm Nicola Clivio: "Perché lui (Legnini, N.d.R.) ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave, e noi lo facciamo volentieri, ma poi non si deve dire che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema? Non dire a nessuno che ti ho detto questo". E io gli rispondo: "Esatto, lo chiede a tutti, anche a noi. Gli ho detto che ci devo riflettere, deve essere una riflessione di tutti coperta anche dai nuovi altrimenti la nostra diventa una cacchetta"».
Il giorno dopo, alle 16:02 l'Ansa batte, preceduta dall'asterisco che segnala le notizie importanti, il seguente lancio d'agenzia: «Del caso Diciotti deve occuparsi il primo plenum del Csm in programma il 5 settembre. È quanto chiedono, con una lettera al vicepresidente Giovanni Legnini, i capigruppo togati Valerio Fracassi, Claudio Galoppi, Aldo Morgigni e Luca Palamara». Segue la solita nota sulla tutela dell'indipendenza della magistratura eccetera eccetera. Sospetti o non sospetti la sua «riflessione» è durata poche ore.
«Prima regola: mai dividersi. Il clima tra governo e magistratura è tornato quello di dieci anni prima, ai tempi della contrapposizione con Berlusconi. E noi torniamo ai metodi di dieci anni prima. Di questo parlo, mettendolo in guardia, anche con Matteo Piantedosi, capo di gabinetto di Salvini, che diventerà poi prefetto di Roma, a una cena a casa della collega Paola Roja, presenti il procuratore di Roma Pignatone e il procuratore generale Fuzio: se Salvini continua ad attaccare i giudici non fa che compattarli contro di lui, com' è accaduto prima sia a Berlusconi sia a Renzi. L'attacco frontale alla magistratura è perdente, vince sempre la magistratura al di là che ci sia o no un uso politico delle inchieste, ipotesi che io non mi sento di escludere».
Passano tre-cinque ore da quel duro documento diffuso dall'Ansa, che lei, messaggiando con il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma, usa ben altri toni. Vale la pena di rileggere quello scambio di idee: Auriemma: «Mi spiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministero dell'Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c'entra la procura di Agrigento. Questo dal punto di vista tecnico, al di là del lato politico. Tienilo per te o sbaglio?». Palamara: «No, hai ragione. Ma ora bisogna attaccarlo». Auriemma: «Peraltro ha ragione Fuzio. Se la frase (di Salvini, N.d.R.) è solamente questa, dove sono le interferenze? Comunque è una cazzata atroce attaccarlo adesso, perché tutti la pensano come lui, tutti. E tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti, che avrebbero dovuto portare di nuovo da dove erano partiti».
«Auriemma pone un tema vero, sentito da tanti colleghi che vivono del loro e non partecipano al grande gioco del potere, che non devono rispondere al "Sistema" di quello che pensano, dicono e fanno».
Qual è questo «tema»?
«Le posizioni espresse dall'Anm e dal Csm sul caso Diciotti e più in generale sulla gestione dell'immigrazione clandestina sono legittime o costituiscono uno sconfinamento nell'area della politica? È giusto che nel 2018 si debba andare ancora in testa a un ministro per sostituire, integrare o rafforzare l'opposizione politica della sinistra al governo di turno da cui è esclusa? Di questo, al netto della sintesi di un messaggino, sto discutendo con Auriemma. Gli dico: "Hai ragione". Ma gli dico anche che bisogna fare così perché altrimenti si spaccherebbe il governo dei magistrati, ipotesi che, in quei giorni e su quel tema, è reale».
Però continuano a esistere due Palamara, quello che parla con Auriemma e gli scrive «hai ragione» a criticare Patronaggio, e il suo opposto, quello che al procuratore Patronaggio scrive: «Carissimo Luigi, ti chiamerà anche Legnini, siamo tutti con te», e «Carissimo Luigi, ti sono vicino, sii forte e resisti, siamo tutti con te».
«Il secondo messaggino si riferisce a una minaccia che aveva ricevuto, la mia solidarietà non poteva mancare ed era sincera. Ma non per questo voglio sfuggire al senso della domanda. Esistono tanti Palamara quanti ne servono per gestire con successo situazioni complesse e delicate. Del resto esistono anche due magistrature e due giustizie, il mio compito in quel momento era quello di tenerle insieme».
Due giustizie?
«Certo, due giustizie. Quella del procuratore di Agrigento, Patronaggio, che fa sbarcare gli immigrati e in qualche modo giustifica e protegge il ruolo delle Ong, e che indaga il ministro degli Interni per sequestro di persona. Poi c'è la giustizia del procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che negli stessi giorni e per gli stessi reati, per ben due volte, dà parere contrario a indagare Salvini; le navi le sequestra e alle Ong fa la guerra, ritenendole complici degli scafisti, in alcuni casi addirittura indagando i loro equipaggi per associazione a delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina. Catania e Agrigento distano tra loro solo un centinaio di chilometri, stesso mare, stesse navi, stesso Stato, stesso ministro e stesse leggi. Ma le leggi, com' è noto, non si applicano, si interpretano sì in base alla preparazione, ma anche alla sensibilità culturale, ideologica, politica dei magistrati, e a volte purtroppo anche alla loro appartenenza».
Rispetto a questo sdoppiamento non mi sembra che il governo dei magistrati sia equidistante, e neppure lei nei fatti lo è. Patronaggio passa per un eroe, Zuccaro per un avventuriero fazioso.
«Se è per questo anche la maggior parte dei giornali, dei partiti e dei cosiddetti intellettuali segue la stessa strada e si schiera senza se e senza ma dalla parte di Patronaggio. Chi l'ha deciso? Non c'è uno che dà le carte, c'è un blocco culturale omogeneo che si muove all'unisono e che in magistratura fa leva su Magistratura democratica, la corrente di sinistra che, da quando è nata, non ha mai abdicato al ruolo sociale che si è data di paladina dei diritti al di là delle leggi. Negli anni Settanta, con i famosi pretori d'assalto, fu la lotta al capitalismo e la difesa a oltranza dei lavoratori, poi si aggiunse la tutela dell'ambiente e infine, ai tempi attuali, il tema dell'immigrazione. Risultato? Ci sono situazioni in cui il Parlamento è scavalcato dai magistrati, le leggi dalle sentenze. Così è andata».
E le altre correnti che hanno fatto nel frattempo?
«Magistratura democratica è l'unica che sui temi sociali ha prodotto una sua elaborazione culturale, cosa mai fatta né da Unità per la Costituzione, che sta nel mezzo pescando aderenti sia a sinistra sia a destra - e quindi priva di un marcato tratto distintivo -, né da Magistratura indipendente, che viceversa enfatizza i temi sindacali tipo gli stipendi, l'organizzazione e i carichi di lavoro. Tutti cavalli di battaglia del suo leader Cosimo Ferri, che ha ben capito che i magistrati entrati dopo il '97 sono colleghi che non hanno vissuto il '68: innanzitutto vogliono vivere comodi, non avere problemi; hanno sofferto per arrivare ad avere la toga e ora vogliono godersela, stare meglio e non essere di continuo coinvolti in estenuanti scontri ideologici».
A Magistratura indipendente era iscritto anche Nunzio Sarpietro, il giudice di Catania che ha gestito l'udienza preliminare del processo a Salvini. «Salvini stia tranquillo» ha detto ai giornalisti il 24 settembre 2020, alla vigilia del dibattimento «che qui non ci sono Palamara», rispondendo indirettamente al leader della Lega che pochi giorni prima aveva detto: «Mi auguro di non trovare a Catania un altro Palamara».
«Quello di Sarpietro è un giudizio inquinato da questioni personali. Nel 2015 bisognava nominare il nuovo presidente del tribunale di Catania e Sarpietro presentò al Csm la sua candidatura. Non passò; con il mio contributo decisivo gli fu preferito un altro magistrato, Bruno De Marco, esponente della mia corrente. E mi adoperai affinché la nomina di De Marco venisse confermata nonostante il suo legittimo ricorso al Tar. Se non sbaglio, dopo quella bocciatura si dimise da Magistratura indipendente. Mi resta il dubbio che, se invece di essere bocciato fosse stato nominato, quella tessera se la sarebbe tenuta stretta. Capisco che possa essere risentito, ma tanto ho imparato sulla mia pelle che osteggiati e beneficiati, quando gira il vento, uguali sono. Sarpietro mi insulta solo ora che sono caduto in disgrazia. De Marco peraltro sarà il presidente del collegio dei probiviri che nel 2020 decreterà la mia espulsione dalla magistratura. Detto questo, sono convinto dell'assoluta autonomia di giudizio di Sarpietro».
Il gup del caso Diciotti va a Roma a interrogare Conte e in TV dice che fa il tifo per il ter…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. Non hanno capito quel che sta succedendo. Sembra tutto normale quando arriva da Catania un giudice a interrogare a Palazzo Chigi il premier Conte, e si mette a parlare in tv di politica e di processi. E si fa finta di niente nella giornata dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, a parte mascherine e distanziamenti, oltre a una certa fretta di fare presto, a causa del pericolo pandemia. Della valanga che sta loro precipitando addosso non mostrano di avere consapevolezza, il giudice “canterino” di Catania così come il presidente della cassazione Pietro Curzio, il procuratore generale Giovanni Salvi, il vice del Csm David Ermini. Tutto come prima, toghe rosse bordate di ermellino, immagine di sfarzo e rassicurazione. E ancora non sanno che la loro storia, quella in cui erano Casta incontrastata, sta entrando nel secondo tempo. Prendiamo questo magistrato di Catania, il dottor Nunzio Sarpietro, che nella sua veste di giudice per l’udienza preliminare è andato a palazzo Chigi a sentire come testimone Giuseppe Conte nell’inchiesta in cui è indagato Matteo Salvini per la vicenda della nave Diciotti. Questo giudice è sicuramente una persona per bene, ma quando si affaccia alle telecamere davanti al palazzo del governo, dovrebbe sapere di essere precipitato in mezzo a una grave crisi politica. Pure, invece di scappare via subito, di dribblare i giornalisti con il pudore di chi sia capitato per caso in mezzo a un litigio di famiglia, si ferma e dice la sua. Blandisce il premier Conte, ammicca a Salvini (non me ne voglia, senatore) e dice tranquillamente che lui, “a livello personale” augura al premier dimissionario di fare presto un bel Conte ter. Poi discetta lungamente sul processo. Impassibile, tranquillo, inconsapevole. Loro non se ne sono ancora resi conto, ma gli italiani cominciano a non sopportarli più. Se non siamo ancora arrivati a quel 70% di cittadini che davano un giudizio negativo sulla magistratura ai tempi dell’arresto di Enzo Tortora, non siamo molto lontani. Secondo una ricerca del sociologo Arnaldo Ferrari Nasi, solo il 37% degli intervistati ha ancora fiducia nelle toghe, mentre il 58% alla domanda risponde decisamente no. Ci sarà ben un motivo, cari ermellini e caro dottor Sarpietro. Inutile far suonare l’orchestra. Rendetevi conto del fatto che la nave sta affondando.
Toghe sporche: quanti dubbi. Palamaragate, non finiscono i dubbi: anche inchieste e sentenze erano lottizzate? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Un po’ lo dice, un po’ lo lascia intendere, il magistrato Luca Palamara, quando, ospite di Massimo Giletti, si trova d’improvviso in un faccia-a-faccia televisivo con Matteo Salvini. Dicendo che i suoi colleghi in toga hanno visioni diverse sul problema dell’immigrazione, intende dire che le divergenze ideologiche potrebbero cambiare i comportamenti nelle inchieste fino a far considerare reato o meno lo stesso atto? Fino a condizionare addirittura anche le sentenze “in nome del popolo italiano”? Il dottor Palamara non può non sapere quanto sia seria la questione. Per due motivi, ambedue piuttosto gravi. Il primo riguarda i cittadini, quegli stessi che oggi non paiono credere più nella giustizia nella misura del 70%, una percentuale pericolosamente vicina quell’83% che nel 1987, dopo il caso Tortora, votò SI al referendum per la responsabilità civile dei magistrati. Può un cittadino presentarsi con una certa serenità davanti al suo giudice naturale sapendolo non libero (e soggetto solo alla legge), ma schiavo di un pre-giudizio che può condizionare la sua decisione? Nel caso del pm la scelta di richiedere o meno una custodia cautelare in carcere? O quella del gip di discostarsi o no dalla richiesta del pm che magari appartiene alla sua corrente sindacale? È evidente che la questione si fa ancora più seria se entriamo nel campo dove agiscono quelli che dovrebbero essere gli unici ad appartenere alla magistratura, cioè i giudici, coloro che detengono il diritto-dovere di Juris dicere. Non è un caso che, pur senza disturbare le sentenze del giudice Corrado Carnevale (che “ammazzava” soprattutto i provvedimenti mal fatti e peggio scritti), troppo spesso il cittadino riesca ad avere giustizia solo al momento della cassazione. Se questi timori ci riguardano tutti, dal momento che nessuno vorrebbe mai trovarsi impigliato in una sorta di roulette russa che può cambiargli la vita, non è secondario neanche l’aspetto più appariscente di questa anomalia della magistratura militante italiana. Quella che riguarda la storia intera del Paese, condizionata sempre più, quanto meno negli ultimi venticinque anni, dalla presenza ingombrante delle toghe nella vita politica. Un esempio del passato. Una domanda da fare ai Palamara che furono prima di lui. Se nel 1993 i magistrati della “roccaforte rossa” di Milano, quelli che si autodefinirono Mani Pulite, non avessero arrestato l’ex presidente dell’Iri Franco Nobili (poi assolto), ma il suo predecessore o il suo successore, sarebbe cambiato qualcosa nella storia d’Italia? Qualcuno si è mai domandato perché a San Vittore non ci fosse quel Romano Prodi che fu predecessore e successore di Nobili all’Iri in quegli anni? Ci fu forse una cesura nella politica dell’ente, tale da far sospettare che solo nel breve periodo della presidenza Nobili ci sia stata la costituzione di fondi neri? Se in carcere ci fosse stato Prodi (che sarebbe poi comunque stato a sua volta assolto), sarebbe cambiata la storia d’Italia. Nessun magistrato milanese, di quelli che ancora indossano la toga come degli altri che sono ormai in pensione (Saverio Borrelli e Gerardo D’Ambrosio non ci sono più) risponderebbe alla domanda. Anche perché dovrebbero prima dare un paio di piccole spiegazioni sull’uso che hanno fatto della custodia cautelare e sulla discutibile applicazione della competenza territoriale, radicata a Milano invece che a Roma. Potrebbe per esempio spiegarci il procuratore milanese Francesco Greco perché in quei giorni, avendo incontrato a Roma il suo antico maestro, come lui di Magistratura Democratica, Francesco Misiani, pm a Roma, gli avesse detto «qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può fare o non fare le inchieste». Al che Misiani, che ha raccontato l’episodio nel bellissimo libro scritto con il giornalista Carlo Bonini, La toga rossa, aveva obiettato «…non è che ogni volta possiamo far finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza». Non è difficile interpretare, alla luce di quanto scritto da due magistrati nei due libri, quello di Misiani e quello di Palamara, il significato delle parole di Francesco Greco. Lui riteneva che la magistratura romana e quel palazzo di giustizia che un tempo era stato definito “il porto delle nebbie”, non fossero in grado di fare…che cosa, giustizia o pulizia? È tutta lì la differenza. Fare giustizia o fare pulizia. Processare Craxi, e poi Berlusconi, e poi magari Renzi e oggi anche Salvini, per verificare se ciascuno di loro ha commesso un reato, o abbattere il mostro? Ecco perché la vera domanda da porre al magistrato Luca Palamara (ma non solo lui) è se i loro intrighi di palazzo siano stati solo un gioco di scacchi con ogni pedina al posto giusto a conquistare posti di potere e a mangiare quello degli altri. O se invece i loro duelli, gli sgambetti, i veleni mediatici con i complici “magistrati di complemento”, alcuni giornalisti, non abbiano invece anche condizionato i loro comportamenti fino a entrare nei provvedimenti giudiziari e fino alle sentenze. In poche parole, fino a che punto sono state sporcate le toghe? Ogni volta in cui Silvio Berlusconi ha vinto le elezioni, c’è stata una mobilitazione della magistratura militante. Nel 1994 addirittura il procuratore Borrelli, esponente di Magistratura democratica come la gran parte dei magistrati della procura milanese, mise le mani avanti: «Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». Lui si candidò e partirono le indagini. E la scenografia napoletana di un importante convegno internazionale sulla criminalità da lui presieduto fu riempito della merda spalmata sul titolone del Corriere della sera, che diceva al mondo intero che colui che si accingeva a presentare come presidente del consiglio la ricetta per combattere le mafie nel mondo, era una parte di esse. Silvio Berlusconi fu assolto da quell’accusa. Ma per aprire l’indagine era stata usata l’obbligatorietà dell’azione penale o un altro tipo di obbligatorietà? Del processo Ruby si sa tutto. Ma forse non è del tutto chiusa quella che è l’unica condanna definitiva subita dal leader di Forza Italia, quella per frode fiscale. Adesso è il turno di Matteo Salvini, la graticola è tutta per lui. Nel libro di Luca Palamara si parla a lungo dell’agitazione che correva sul filo e sulle chat della magistratura militante quanto il pm agrigentino Patronaggio lo aveva messo sotto inchiesta per la vicenda della nave Diciotti, e tutti avevano solidarizzato con lui. Mentre un collega di Catania, il procuratore Carmelo Zuccaro, la pensava in modo opposto, tanto da chiederne per due volte l’archiviazione per l’episodio della nave Gregoretti. E il giudice dell’udienza preliminare che deve decidere su questa inchiesta, Nunzio Sarpietro, quello che dovrebbe reggere la bilancia della giustizia, ha dichiarato coram populo di tifare per un governo Conte ter, e anche che il presidente del consiglio, il quale aveva reso una testimonianza molto ambigua, dicendo che la politica sugli sbarchi degli immigrati era del governo ma che dei singoli episodi era responsabile il singolo ministro, era stato chiarissimo ed esaustivo. Ora, mentre ogni singolo cittadino dovrà capire di volta in volta che cosa passa per la testa di chi lo dovrà giudicare in un’aula di tribunale, a maggior ragione il segretario di quella che è al momento la forza politica più rilevante del panorama italiano dovrà sapere se la sua sorte sarà legata all’interpretazione della legge o ad altro. Obbligatorietà dell’azione penale o altro tipo di obbligatorietà? E tutti noi, cittadini elettori o politici eletti, abbiamo il diritto di sapere –e non solo dal dottor Palamara– quante notti insonni dovrà passare per esempio il giudice Nunzio Sarpietro per convincerci che la sua toga non è stata sporcata dall’ideologia, dall’appartenenza a una corrente sindacale o dal fatto che, sì, Salvini ha ragione, ma dobbiamo attaccarlo, come disse un giorno Luca Palamara al collega Auriemma mentre vergava il comunicato di solidarietà a Patronaggio. Le notti insonni dovete passare, cari pubblici ministeri e cari giudici, per essere credibili anche agli occhi di quel 70% dei cittadini che non si fidano più di voi.
Il curioso caso del Gip. Sulla crisi irrompe la magistratura: il destino dell’Italia in mano al gup Sarpietro. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Apriamo diligentemente il diario e prendiamo nota di una parola fondamentale che è la vera password del “Sistema” descritto da Luca Palamara. La parola è: “pretermesso”. Pretermesso significa segato da una carriera o un ruolo, a causa dei poteri di interdizione – o viceversa raccomandazione- per cui chiunque può essere pretermesso. Silvio Berlusconi – abbiamo imparato dal libro di Palamara – fu ad esempio accuratamente pretermesso dalla sua carriera politica con una accurata benché contorta applicazione di queste regole appunto. Non che non ce ne fossimo accorti da soli, ma da quando il dottor Luca Palamara ha parlato e poi anche scritto e firmato, possiamo essere sicuri che la nostra è una democrazia pretermessa , specialmente in politica, come in magistratura e sospettiamo che sia pretermessa anche in diversi altri campi fra cui quello mediatico-giornalistico, militare, accademico, dei servizi segreti, senza per questo escludere tutti gli altri settori e gangli della pubblica amministrazione. Come abbiamo scoperto questo termine prezioso? Dalle dichiarazioni giustamente sdegnate di un giudice che si chiama Nunzio Sarpietro, che è quello da cui dipende il futuro politico di Matteo Salvini il quale, se dobbiamo fidarci delle voci che girano, potrebbe essere rapidamente essere pretermesso, ovvero messo fuori combattimento per un bel po’ se il magistrato Sarpietro, presidente dei gip catanesi darà parere favorevole al processo di Matteo Salvini accusato di sequestro di persona nella vicenda della nave Gregoretti. Dipende da lui, Sarpietro, il quale ha appreso dal libro Il Sistema di Luca Palamara intervistato da Alessandro Sallusti, di essere stato fatto fuori proprio da Palamara dall’incarico di presidente del Tribunale di Catania, che andò invece a Bruno di Marco sostenuto da Palamara. C’è una connessione di causa-effetto fra quel che Sarpietro ha appreso dal libro di Palamara e la sua decisione sul rinvio a giudizio di Salvini? No, nessuna. È un caso, anche se come dicono i francesi, tout se tiens, tutto sta insieme. Ma è utile ricordare il testo dell’ex membro del Csm perché è ormai come il manuale Cencelli per la composizione dei governi o il manuale dell’Artusi per la cucina delle nostre nonne. Se non capisci come funziona il sistema, è inutile che ti metti a parlare di presente o di futuro: tutto dipende dalla pretermissione: se ti hanno pretermesso, sei fuori. E se sei fuori, è del tutto fatuo declamare programmi. La facciamo breve: il futuro non soltanto giudiziario ma anche politico di Matteo Salvini è nelle mani del giudice Nunzio Sarpietro, ovvero il Gip del processo contro il leader leghista per il blocco della nave Gregoretti. Le due storie si toccano per caso: questo magistrato deve decidere su Salvini, ma allo stesso tempo scopre, dalla lettura del Sistema di essere stato fatto fuori proprio da Palamara che gli sbarrò la strada di presidente del tribunale di Catania. Sarpietro, comprensibilmente offeso, ha concluso in una sua intervista di essere stato dunque pretermesso e come comprensibile non è affatto contento. Questo non vuol dire che la sua frustrazione per essere stato pretermesso lo renderà colpevolista con Salvini. Non lo sappiamo, ma lo scopriremo presto. Quel che sappiamo ancor prima che Palamara parlasse e scrivesse è che raramente le decisioni giudiziarie su uomini politici sono decisioni puramente giuridiche o banalmente giuste. Hanno un altro corso, seguono un’altra logica che è quella descritta dal Sistema. Ora è un dato di fatto che girino anticipazioni sulla decisione che riguarda Salvini, cosa inevitabile e secondo alcune di queste anticipazioni il pollice sarà verso. Nel senso che Salvini dovrebbe essere rinviato a giudizio e processato. Saranno i fatti a dire se le cose andranno così o no, ma ci sembra importante che Salvini prenda atto di questa pesantissima possibilità e rimetta la barra delle sue decisioni politiche, perché se si trovasse in tribunale a difendersi dall’accusa di sequestro di persona, sarebbe automaticamente “pretermesso” da un incarico da presidente del Consiglio essendo del tutto ovvio che se uno deve rispondere di sequestro di persona non può contemporaneamente fare il primo ministro. Avrà Matteo Salvini ben chiaro nella sua mente che questa purtroppo è l’aria che tira? Se lo mandano a processo, il leader leghista sarà fuori uso istituzionale per uno o forse anche due anni. È ovvio e anche lodevole che nell’attesa delle decisioni del giudice di Catania il leader della Lega si mostri fiducioso e anzi mansueto di fronte ai giudici. Ed è comprensibile, anche se ci sembra un po’ imprudente, che affermi di essersi sentito compreso dal giudice. Tutto secondo copione, ma il copione dice che “ha da passà ‘a nuttata”, devono trascorrere le ore cruciali tra la vita e la morte. Ma, ci chiediamo e lo chiediamo anche a lui, che senso ha durante le ore della nuttata insistere come un sol uomo con tutto il centrodestra sulla linea delle elezioni anticipate? Per far che? Cedere eventualmente la poltrona di capo del governo alla Meloni? Non ha alcun senso, salvo il senso della facciata che in questo gioco è come la faccia di chi gioca a poker. Gli inglesi usano l’espressione “poker face” per nominare quel tipo di faccia che meno è penetrabile, meglio è. Tutto si gioca nelle prossime ore, con il balletto dei nomi e dei contenuti, recitato da tante facce da poker che fingono davvero nel talk e sui telegiornali, di varare un meraviglioso governo, generato per partenogenesi, per impollinazione di costruttori europeisti, e trafficanti di invenzioni ridicole. Sono, come impone di dire il copione, ore decisive per la Repubblica. Ma la Repubblica si regge su un solo assioma: sbarrare la strada a Salvini e dunque diffondere l’idea secondo cui le elezioni sono comunque un atto sovversivo, da cui però sarebbe prudente premunirsi nel caso di un loro arrivo imposto dal fattore umano dei ridicoli eventi e dunque la necessità di pretermettere in anticipo Salvini avrebbe senso. La Luna consiglierebbe a Salvini di attenersi a una ferrea e plastica faccia da poker perché la cosa meno improbabile è che il gioco dell’oca italiana torni alla casella di partenza, square zero, in cui Conte torna a Palazzo, Renzi va alla Farnesina, il convitato di pietra Draghi seguiti ad essere una riserva della Repubblica, just in case. Per ora le cose stanno esattamente come Palamara le ha descritte e certamente la sua descrizione è incompleta. Purtroppo, ha deplorato proprio il Gip Sarpietro deplorando quel che gli è stato inflitto, gli eventi giudiziari dipendono, come la pesca nel mare, dalle correnti. E sarà così finché il Parlamento – chissà quale e chissà quando – non riprenderà il comando della Repubblica. Quanto alla politica, come l’intendance degli eserciti di Napoleone, seguirà, a capo chino.
Fulvio Fiano per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2021. «Si può dire che mi trovassi in uno stato di necessità... Avrei dovuto cercare un trancio di pizza in piazza Colonna, ammesso che i bar fossero aperti; l' albergo dove alloggiavamo io, la mia assistente e il carabiniere di scorta ci aveva praticamente cacciati fuori per la sanificazione Covid; avevamo dovuto lasciare i bagagli in un furgone... e per andare in bagno ho dovuto chiedere a Palazzo Chigi». Il giudice catanese Nunzio Sarpietro, 68 anni, è da ieri al centro delle polemiche per aver violato la zona arancione, pranzando il 28 gennaio scorso in un ristorante in centro della Capitale che doveva essere chiuso. Le telecamere della trasmissione tv Le Iene l' hanno seguito all' uscita dalla sede del governo, dove in qualità di giudice per le udienze preliminari aveva raccolto la testimonianza dell' allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel processo che vede imputato l' ex ministro dell' Interno Matteo Salvini per il ritardato sbarco dei migranti della nave Gregoretti, e l'hanno «sorpreso» mentre si accomoda in uno dei ristoranti di pesce più rinomati di Roma: Chinappi, in via Valenziani, zona Porta Pia. Porte chiuse come da Dpcm anti-Covid ma tavolo, unico, apparecchiato per lui e i suoi commensali, sua figlia e suo genero. Raggiunto al telefono, Sarpietro non si sottrae alle domande: «Trovo incredibile che il giornalismo italiano si sia ridotto a seguire un giudice al ristorante - obietta -.Detto questo, venivo a Roma dopo tanto tempo e ne approfittavo per salutare mia figlia. Non pensavo di suscitare questo clamore. È stata lei con mio genero a prenotare in questo ristorante amico, non certo io a chiedere un favore come giudice». Le immagini andate in onda ieri rendono visibile l' imbarazzo dei commensali. «Solo tre piattini freddi e un goccio di vino», si giustificava il magistrato, mentre il ristoratore spiegava: «È l' unico tavolo occupato nel locale vuoto, per comunicare una promessa di matrimonio». Poi, nelle ultime ore, è sembrato quasi rassegnato: «Pagherò la multa quando arriverà». Su posizioni analoghe è Sarpietro. Che a caldo, prima minimizzava sorridente ma infastidito: «Sono qui con mia figlia». Poi sosteneva: «Non è una violazione di legge, ma di un regolamento». E oggi aggiunge: «Sì, ho commesso una sciocchezza, seppur veniale. Ho chiesto anche scusa al ristoratore per averlo messo in questa situazione. Non credevo ci potesse essere tanto clamore. Dopodiché si tratta di una multa, che pagherò». Salvini, che pure lodò il giudice dopo l' udienza a Palazzo Chigi, interpellato sulla vicenda la liquida così: «Non commento pranzi o cene». Il giudice aveva attirato perplessità anche per aver raccontato per sommi capi, ai giornalisti fuori da Palazzo Chigi, l' andamento della testimonianza di Conte. Oggi avanza un sospetto: «Se questa vicenda vuole essere il tentativo di screditarmi come giudice, lo dicano. Hanno addirittura pubblicato il menù del pranzo... (che senza interruzione sarebbe stato ben più sostanzioso, ndr ). Ma non si può giudicare un magistrato da queste cose. Non ho ancora capito se vogliono che questo processo si faccia o meno». Ma sull' ipotesi che possa essere condizionato, assicura: «Per quindici anni ho vissuto sotto scorta in Sicilia in seguito ai miei processi alla mafia, sono abituato a pressioni ben diverse da quelle di questa vicenda ridicola. Chi è senza peccato scagli la sua pietruzza quotidiana...».
Il ristorante in zona arancione è chiuso, ma per il giudice del caso Gregoretti? Le iene News il 17 febbraio 2021. Filippo Roma e Marco Occhipinti hanno pizzicato il giudice Nunzio Sarpietro, gup del caso Gregoretti che dovrà decidere se mandare a processo Matteo Salvini, a mangiare in un ristorante subito dopo aver sentito l’allora premier Giuseppe Conte. Peccato che quel giorno Roma fosse in zona arancione e i ristoranti chiusi al pubblico. Il giudice come si è giustificato? Le norme di contenimento del coronavirus valgono per tutti? Viene da chiederselo, dopo quello che hanno scoperto i nostri Filippo Roma e Marco Occhipinti. E’ il 28 gennaio: il giudice Nunzio Sarpietro arriva a Roma per sentire l’allora premier Giuseppe Conte sul “caso Gregoretti”. Chiamato a decidere su uno dei casi giudiziari più discussi della politica italiana, nonostante il pm Andrea Bonomo abbia per due volte chiesto l'archiviazione del caso, il gup Sarpietro ha deciso invece di sentire il premier e tutti i ministri coinvolti. Il 28 gennaio, in piena crisi di governo, Sarpietro arriva nella Capitale per interrogare l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Il giudice trascorre la mattinata a Palazzo Chigi e dopo aver sentito il premier improvvisa una conferenza stampa ripresa da tutti i tg. Poco dopo attraversa il centro della città fino ad arrivare in via Valenziani, in zona Porta Pia. Lì il giudice infrange il dpcm in vigore, pranzando in un ristorante che sarebbe dovuto essere inaccessibile al pubblico come quelli di quasi tutto il territorio nazionale! In quei giorni infatti 15 regioni italiane erano in zona rossa o arancione e i ristoranti erano quindi chiusi al pubblico oltre che a cena anche a pranzo. E il Lazio era tra quelle. Il giudice, però entra per pranzare in uno dei ristoranti di pesce più rinomati della capitale: Chinappi. Il locale dovrebbe essere chiuso al pubblico, come prescrivono le norme di contenimento del coronavirus. Eppure i nostri Filippo Roma e Marco Occhipinti lo vedono entrare lì, e allora entrano per chiedergli spiegazioni mentre è attovagliato e con il bicchiere pieno di champagne. Il giudice appare evidentemente in imbarazzo e tenta di giustificarsi spiegando che si trova in quel ristorante a pranzo perché era l’unico modo per passare del tempo in compagnia della figlia. E quando la Iena gli fa notare che mentre i ristoranti sono chiusi al pubblico, un giudice invece è lì a mangiare, risponde: “Io sono in zona rossa in Sicilia, non vado a pranzo fuori da una vita e sono un povero disgraziato che non riesce a vedere tantissimi amici che tra l’altro ho perso con la pandemia”. Filippo Roma chiede se è normale che un uomo di legge che non rispetti la legge: “Io in questo momento sto violando un regolamento che è un elemento ulteriore e successivo e questa violazione del regolamento è una cosa che può essere considerata non condivisibile ma di cose gravi ce ne sono ben altre”. E la Iena allora gli chiede anche se il suo comportamento sia sicuro: “Il mio in questo momento ritengo che sia super sicuro e che sia una situazione in cui non ci sia assolutamente niente di particolarmente grave. Non è che le sto dicendo “sono qua ho rispettato”, ho fatto la violazione, ok? Tutto qua”, risponde Nunzio Sarpietro. Filippo Roma insiste: trova il suo comportamento rispettoso verso i ristoratori costretti a rimanere chiusi e verso i cittadini che rispettano le regole? E il giudice: “Guardi, non è che posso trovarle delle scuse o delle giustificazioni particolari, è una situazione in cui, ripeto, per vedere mia figlia e tutto qua, poi per il resto se ho sbagliato ho sbagliato lo ammetto, confesso, ma questo non porta nessun tipo di problema su come uno fa il magistrato, mi creda”. Cosa avrà mangiato il giudice, seduto a un ristorante che dovrebbe essere chiuso? “Niente primo, sono proprio tre piattini così, molti freddi e solo per stare mezz’oretta con mia figlia, basta. E un goccino di vino”. Sarà proprio così? A questo punto Filippo Roma va a parlare con il proprietario del ristorante cher smentisce il magistrato: “Ha mangiato una spigola al sale, un po’ di polpo e un po’ di crudi”. Un po’ di crudi? “Gamberi gobetti, palamite, poi ha mangiato i gamberi rossi e gli scampi. Tutti e tre hanno mangiato così e poi lo spaghettino alle telline l’ha mangiato solo la figlia”. E il vino? “Uno champagne”. La Iena chiede al ristoratore se ha trasgredito le norme perché aveva a che fare comn un pezzo grosso: “Lo sai come mi hanno prenotato? Come promessa di matrimonio! La figlia si sta sposando penso, che ne so io, tre persone, le ho messe dentro… hai capito? E il padre è uscito dal palazzo Chigi e ha detto “va beh vengo pure io” per conoscere la promessa di matrimonio, per fare queste cose. Stiamo in difficoltà capito? Poi voi l’avete seguito da palazzo Chigi”. Forse il ristoratore ha chiuso un occhio perché il cliente è il giudice nel caso Gregoretti? “No no no”, assicura il ristoratore. Prima di andare via, Filippo Roma chiede al giudice se d’ora in poi si atterrà ai dpcm: “Guardi io le prometto di continuare ad essere quel giudice serio che sono sempre stato, tutto qua”. Non ci resta che augurargli buon appetito. Potete rivedere l’integrale scambio di battute tra Filippo Roma, il giudice Nunzio Sarpietro e il ristoratore nel servizio in testa a questo articolo.
Da iene.mediaset.it il 16 febbraio 2021. Filippo Roma e Marco Occhipinti hanno pizzicato il giudice Nunzio Sarpietro, gup del caso Gregoretti che dovrà decidere se mandare a processo il leader della Lega Matteo Salvini, a mangiare in un ristorante subito dopo aver sentito l’allora premier Giuseppe Conte. Peccato che quel giorno Roma fosse in zona arancione e i ristoranti chiusi al pubblico sia a pranzo che a cena! Come si è giustificato? Scopritelo con noi stasera dalle 21.10 su Italia1. Le restrizioni e le norme di contenimento del coronavirus valgono per tutti? Una domanda dovuta, visto quello che hanno scoperto i nostri Filippo Roma e Marco Occhipinti! È il 28 gennaio: il giudice Nunzio Sarpietro arriva a Roma per sentire l’allora premier Giuseppe Conte sul “caso Gregoretti”. Chiamato a decidere su uno dei casi giudiziari più discussi della politica italiana, nonostante il pm Andrea Bonomo abbia per due volte chiesto l'archiviazione del caso, il gup Sarpietro ha deciso invece di sentire il premier e tutti i ministri coinvolti. Il 28 gennaio, in piena crisi di governo, Sarpietro arriva nella Capitale per interrogare l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Il giudice trascorre la mattinata a Palazzo Chigi e dopo aver sentito il premier improvvisa una conferenza stampa ripresa da tutti i tg. Poco dopo attraversa il centro della città fino ad arrivare in via Valenziani, in zona Porta Pia. Lì il giudice infrange il dpcm in vigore, pranzando in un ristorante che sarebbe dovuto essere inaccessibile al pubblico come quelli di quasi tutto il territorio nazionale! In quei giorni infatti 15 regioni italiane erano in zona rossa o arancione e i ristoranti erano quindi chiusi al pubblico oltre che a cena anche a pranzo. E il Lazio era tra quelle. Il giudice però entra per pranzare in uno dei ristoranti di pesce più rinomati di Roma: Chinappi. Il locale dovrebbe essere chiuso al pubblico, come prescrivono le norme di contenimento del coronavirus. Eppure i nostri Filippo Roma e Marco Occhipinti lo vedono entrare lì, e allora entrano per chiedergli spiegazioni mentre è attovagliato e con il bicchiere pieno di champagne: come si sarà giustificato Nunzio Sarpietro? Per scoprirlo non perdetevi il servizio in onda questa sera dalle 21.10 su Italia1.
Da "le Iene" il 16 febbraio 2021.
Giudice: “Guardi io sono qua con mia figlia…”
Iena: “Stare con la figlia le permette di non rispettare la legge?”
Giudice: “L’unico posto in cui potevo stare con lei in un momento tranquillo e non è minimamente, non c’è niente guardi…”
Iena: “Non è grave che un uomo di legge sia il primo a non rispettare la legge?”
Giudice: “No non è un rispetto della legge e se c’è una contravvenzione la pago…”
Iena: “Lei in questo momento sta rispettando la legge oppure no?”
Giudice: “Io in questo momento sto violando un regolamento che è un elemento ulteriore. Di cose gravi ce ne sono ben altre. Ritengo che sia super sicuro e che sia una situazione in cui non ci sia assolutamente niente di particolarmente grave”.
Iena: “Un comportamento del genere secondo lei è rispettoso verso verso quei ristoranti che rimangono chiusi e quei cittadini che rinunciano ad andare al ristorante?”
Giudice: “Ho sbagliato lo ammetto, confesso, ma questo non porta nessun tipo di problema su come uno fa il magistrato mi creda. Ho fatto la violazione, ok? Tutto qua. Hanno fatto questa cortesia perché c’è mia figlia, ma non credo che sia niente di drammatico, dai!"
Giudice: “Guardi c’è solo un goccino di vino e tre piatti freddi” (polpo)
Ristoratore: “Ha mangiato una spigola al sale, un po’ di polpo e un po’ di crudi, gamberi gobetti, palamide, poi i gamberi rossi e gli scampi. Tutti e tre così. Lo spaghettino alle telline l’ha mangiato solo la figlia. Poi uno champagne. Il conto finale? 200 euro”.
Ristoratore: “Lo sai come mi hanno prenotato? Come promessa di matrimonio. La figlia si sta a sposa questo, che ne so io. Poi me faranno pure la multa sicuro sono 4 mila euro capito? Per 200 euro."
Lockdown e norme anti covid valgono per tutti? È il 28 gennaio: il giudice Nunzio Sarpietro arriva a Roma per sentire l’allora premier Giuseppe Conte sul “caso Gregoretti” e infrange il dpcm in vigore, pranzando in un ristorante che sarebbe dovuto essere inaccessibile al pubblico come quelli di quasi tutto il territorio nazionale. In quei giorni 15 regioni italiane erano in zona rossa e arancione e i ristoranti erano quindi chiusi al pubblico oltre che a cena anche a pranzo. Il servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti, in onda domani, martedì 16 febbraio, in prima serata su Italia 1. Chiamato a decidere su uno dei casi giudiziari più discussi della politica italiana, nonostante il pm Andrea Bonomo abbia per due volte chiesto l'archiviazione del caso, il Gup Sarpietro ha deciso invece di sentire tutti i ministri coinvolti. Ad ottobre presso il Tribunale di Catania è stata la volta dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini e che al momento è indagato per sequestro di persona. A dicembre invece ha ascoltato gli ex ministri Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta. Venerdì prossimo sentirà i nuovi ministri del Governo Draghi Luigi di Maio e Luciana Lamorgese, mentre il 28 Gennaio, in piena crisi di Governo in corso, è arrivato nella Capitale per interrogare l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte. Il giudice trascorre la mattinata a Palazzo Chigi e dopo aver sentito il Premier improvvisa una conferenza stampa ripresa da tutti i tg. Poco dopo attraversa il centro della città, passa per le strade più note della capitale fino ad arrivare in via Valenziani, in zona Porta Pia, ed entra per pranzare in uno dei ristoranti di pesce più rinomati di Roma: Chinappi, che dovrebbe essere chiuso al pubblico, a pranzo e a cena, come da dpcm. Il giudice - alla vista dell’inviato della trasmissione - appare evidentemente in imbarazzo e tenta di giustificarsi spiegando che si trova in quel ristorante a pranzo perché era l’unico modo per passare del tempo in compagnia della figlia. Filippo Roma allora gli chiede se quello è un buon motivo per violare un decreto in vigore, se è rispettoso nei confronti dei tanti cittadini che non possono farlo e verso tutti gli esercizi che devono stare chiusi per osservare le regole. Il giudice dichiara, in un primo momento, di non trovare il proprio un comportamento grave, poi quando la Iena lo incalza ammette la violazione, “non di una legge, ma di un regolamento”, ma sostiene non si tratti di nulla di drammatico, di tenere comunque un comportamento sicuro e si dice che è disposto a pagare una sanzione. Però provando ancora a giustificarsi dichiara: “Guardi c’è solo un goccino di vino e tre piatti freddi” (polpo verace, ndr), sottolineando la frugalità del suo pranzo. Ma è possibile che uno dei ristoranti di pesce più rinomati della capitale apra apposta e rischi una multa per tre antipasti di polpo e un bicchiere di vino, si chiede Filippo Roma incredulo. Il ristoratore smentisce il giudice descrivendo il menù scelto dai tre commensali ben più ricco da quello dichiarato dal giudice: antipasti di polpo, dei piatti di pesce crudo con gamberi, scampi e palamide, degli spaghetti alle telline, cavallo di battaglia del ristorante, e una spigola al sale, il tutto innaffiato da una bottiglia di pregiato champagne. Per quale occasione tutte queste prelibatezze? Il ristoratore racconta si tratterebbe della promessa di matrimonio della figlia del giudice che siede lì al tavolo accompagnata dal fidanzato. A seguire lo scambio di battute tra l’inviato della trasmissione, il giudice Sarpietro e il ristoratore Stefano Chinappi:
Iena: Giudice! Se proprio lei con i ristoranti chiusi in tutta Italia, in piena pandemia, in pieno lockdown, sta al ristorante a mangiare…
Giudice: Guardi io sono qua con mia figlia.
Iena: Ho capito, ma stare con la figlia le permette di non rispettare la legge?
Giudice:...l’unico posto in cui potevo stare con lei in un momento tranquillo. E non è minimamente, non c’è niente guardi…
Iena: Non c’è problema, per legge i ristoranti sono chiusi e il giudice sta al ristorante e dice non c’è problema.
Giudice: Eh va beh, lei vuole mettere il commento, lo metta come vuole, io devo vedere mia figlia e non avevo altro da fare.
Iena: Quanti altri italiani vorrebbero andare a pranzo o a cena con la figlia nelle zone arancioni e non possono?
Giudice: Guardi lei mi dice una cosa, io sono in zona rossa in Sicilia, non vado a pranzo fuori da una vita e sono un povero disgraziato che non riesce a vedere tantissimi amici che tra l’altro ho perso con la pandemia.
Iena: Quindi sa quant’è importante rispettare le normative anti covid. Perché lei non la rispetta?
Giudice: Infatti lo sto rispettando qua con…
Iena: E certo! Lo sta rispettando ma mangiando al ristorante a Roma, in zona arancione, dove in teoria i ristoranti per legge dovrebbero essere chiusi!
Giudice: Va bene mi sono meritato qualche premio particolare? No?
Iena: Non è grave che un uomo di legge sia il primo a non rispettare la legge?
Giudice: No non è un rispetto della legge e se c’è una contravvenzione, se mi fa una contravvenzione, la pago, era previsto anche così.
Iena: E non gliela posso fare perché non sono un vigile.
Giudice: Eh chiama un vigile e me la fa fare.
Iena: Sì al di là della contravvenzione però un comportamento del genere secondo lei è rispettoso verso quei cittadini che invece la legge la stanno rispettando? Verso quei ristoranti che rimangono chiusi e quei cittadini che quindi rinunciano ad andare al ristorante?
Giudice: Guardi, non è che posso trovarle delle scuse o delle giustificazioni particolari, è una situazione in cui, ripeto, per vedere mia figlia e tutto qua, poi per il resto se ho sbagliato ho sbagliato lo ammetto, confesso, ma questo non porta nessun tipo di problema su come uno fa il magistrato, mi creda.
Iena: Lei in questo momento sta rispettando la legge oppure no? Me lo dica.
Giudice: Io in questo momento sto violando un regolamento che è un elemento ulteriore e successivo e questa violazione del regolamento è una cosa che può essere considerata non condivisibile ma di cose gravi ce ne sono ben altre.
Iena: Sì ho capito però se il regolamento dice che per non prendersi il covid è meglio che i ristoranti siano chiusi questo suo comportamento è un comportamento sicuro oppure no?
Giudice: Il mio in questo momento ritengo che sia super sicuro e che sia una situazione in cui non ci sia assolutamente niente di particolarmente grave. Non è che le sto dicendo “sono qua ho rispettato”, ho fatto la violazione, ok? Tutto qua.
Iena: Tutto qua. Va beh, scusi ma il ristorante l’hanno aperto solo per lei?
Giudice: Beh adesso non lo so, probabilmente hanno fatto questa cortesia perché c’è mia figlia, hanno aperto e basta, ma non per me, una cortesia che hanno fatto, ma non credo che sia niente di drammatico, dai!
Adesso Filippo Roma si rivolge al ristoratore:
Iena: Buongiorno, lei è il proprietario? È un ristoratore cortese, complimenti!
Ristoratore: Eh non… ho fatto sedere tre persone perché qua è insostenibile andare avanti.
Iena: Io la capisco, io la capisco!
Ristoratore: Non si può andare avanti, per tre persone, guarda qua, c’è distanza e tutto, seguiamo le regole però… fino a un certo punto.
Iena: Le regole non le sta seguendo, se quella è la regola.
Ristoratore: No, le stiamo seguendo le regole, perché è un anno che stiamo…nessuno lo mette in dubbio, ma per tre persone come lei vede…
Iena: Ho capito, non è neanche una persona qualunque, parliamo di un giudice.
Ristoratore: Che caspita ne so io!
Iena: E’ il giudice del caso Gregoretti. Magari lei ha chiuso un occhio perchè è un personaggio importante questo qua?
Ristoratore: No no no, ‘che sono tutti uguali.
Di nuovo l’inviato al giudice Sarpietro:
Iena: Almeno qui il pesce è buono?
Giudice: Quello che ho mangiato finora è buono.
Iena: Che ha preso?
Giudice: Del polipo fatto molto bene.
Iena: Più buono questo o quello siciliano?
Giudice: Beh no, quello siciliano è altrettanto buono, qui credo sia un ottimo pesce.
Iena: Primo?
Giudice: No no, niente primo, sono proprio tre piattini così, molti freddi e solo per stare mezz’oretta con mia figlia, basta.
Iena: La lasciamo a sua figlia.
Giudice: No no, niente, guardi, c’è un goccino di vino e tre piatti freddi, insomma. Ma il proprietario del ristorante si lascia andare ad uno sfogo che sembrerebbe far pensare ad altro.
Ristoratore: Allora? Mi avete massacrato? Che poi mi faranno pure la multa sicuro sono 4mila euro capito? Per 200 euro.
E, il menù consumato al tavolo, secondo il ristoratore sarebbe ben più ricco:
Ristoratore: Ha mangiato una spigola al sale, un po’ di polpo e un po’ di crudi.
Iena: Tipo crudi, quali?
Ristoratore: Gamberi gobetti, palamide, poi ha mangiato i gamberi rossi e gli scampi.
Iena: Ammazza che super piatto! La figlia che ha mangiato invece?
Ristoratore: Tutti e tre hanno mangiato così e poi lo spaghettino alle telline l’ha mangiato solo la figlia.
Iena: Che vino ha preso il giudice?
Ristoratore: Uno champagne
Iena: E quanto è stato il conto finale?
Ristoratore: 200 euro.
Il padrone di casa spiega anche quale occasione speciale starebbero festeggiando i tre commensali:
Ristoratore: Lo sai come mi hanno prenotato? Come promessa di matrimonio! La figlia si sta sposando penso, che ne so io, tre persone, le ho messe dentro… hai capito? E il padre è uscito dal palazzo Chigi e ha detto “va beh vengo pure io” per conoscere la promessa di matrimonio, per fare queste cose. Stiamo in difficoltà capito? Poi voi l’avete seguito da palazzo Chigi.
Iena: Eh beh si.
Ristoratore: Va beh, ora ve ne andate? perché questo sta… se no se non ve ne andate…
Filippo Roma cerca di capire se il giudice Sarpietro sia o meno pentito di questo pranzo clandestino.
Iena: Mentre tutti gli italiani a pranzo in zona arancione e rossa non possono andare nei ristoranti invece il giudice si fa i piattini e i brindisi con il vino.
Giudice: E va bene, sarò distrutto dall’opinione pubblica, cosa vuole che le dica, che è così, è andata così, basta.
Iena: Ci promette che d’ora in poi si atterrà ai regolamenti?
Giudice: Guardi io le prometto di continuare ad essere quel giudice serio che sono sempre stato, tutto qua.
Le auguriamo buon proseguimento e buon appetito!
Giudice: Anche a lei, buona giornata.
Iena: Arrivederci.
Giudice: Arrivederci.
E infine raccoglie lo sfogo del ristoratore:
Ristoratore: Io ho sbagliato però guardi noi abbiamo dallo spazzino al Presidente della Repubblica dove gli mandiamo il pesce. Per me sono tutti uguali, l’importante è che si va avanti, non si fanno più i soldi di prima. Sono tre persone e io per 200euro ho rischiato, rischio, perché adesso, 200 euro, sono soldi veri per pagare i miei dipendenti.
Iena: In bocca al lupo per tutto. Arrivederci.
Ristoratore: Arrivederci.
Giudice a pranzo al ristorante in zona arancione, ci scrive il fidanzato della figlia. Le iene News il 18 febbraio 2021. Nell’ultima puntata vi abbiamo mostrato il servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti, che hanno pizzicato il gup del caso Gregoretti Nunzio Sarpietro a pranzo in un ristorante con la figlia e il fidanzato nonostante la zona arancione. Proprio il fidanzato ci ha inviato una lettera di chiarimento, che noi pubblichiamo e a cui rispondiamo: ecco che cosa ci ha detto. Nell’ultima puntata de Le Iene vi abbiamo mostrato il giudice Nunzio Sarpietro, gup del caso Gregoretti che dovrà decidere se mandare a processo il leader della Lega Matteo Salvini, a pranzo in un ristorante a Roma quando la città era in zona arancione. I nostri Filippo Roma e Marco Occhipinti lo hanno pizzicato al tavolo insieme alla figlia e al fidanzato, impegnati a mangiare in violazione del dpcm per il contenimento del coronavirus: potete rivedere il servizio in testa a questo articolo o cliccando qui. Il fidanzato della figlia del giudice Sarpietro ci ha inviato martedì sera questa lettera, che vi riportiamo integralmente. Sotto potete trovare la nostra risposta alle parole del signor Simone.
"Gentili Signori, Buonasera. Mi chiamo Simone e mi pregio di essere il felice compagno della sig.na Sarpietro, figlia del dott. Sarpietro, ahimè protagonista del servizio del dott. Filippo Roma che andrà in onda nella serata odierna (ieri per chi legge, ndr). In merito al suddetto servizio vorrei comunicarvi alcune precisazioni di cui, spero, riuscirete a dare conto alla fine del servizio:
- Trovandosi il dott. Sarpietro a Roma, dove abito e convivo con la figlia, intendevo regalare ad entrambi un momento di svago insieme dopo una giornata particolarmente impegnativa. Per tale motivo, su gentile raccomandazione di un amico che collabora con il sig. Stefano Chinappi - cosa assolutamente documentabile e di cui posso produrre prova tramite screenshot delle relative conversazioni - ho avuto la possibilità di consumare un pasto all'interno del locale, comunque aperto per l'asporto. Il pranzo, da me offerto ed innegabilmente clandestino, superfluo dirlo, si è svolto però in totale sicurezza, essendo il locale completamente vuoto, ed è durato un’ora, giusto il tempo della mia pausa pranzo. Ritengo dunque inesatto ed estremamente arbitrario, se non addirittura malizioso, supporre che la richiesta di consumare all'interno del locale sia pervenuta dal dott. Sarpietro. - Purtroppo non si tratta, come segnalato da numerose testate giornalistiche, digitali e non, di un'eccezione concessa per una proposta di matrimonio, nè di una prenotazione ottenuta adducendo tale scusante. Tale deduzione, errata, trova ragione nel fatto che - accortomi della preoccupazione del titolare alla vista del cameraman - ho consigliato di dire che si trattasse di una prova piatti per un pranzo di matrimonio, nell'ingenuo tentativo di limitare i danni e ridurre il suo imbarazzo.
- Il dott. Sarpietro, invitato a raggiungerci la mattina stessa, non aveva onestamente idea dei cosa potesse aspettarlo perché non sono stato particolarmente limpido nel delineare adeguatamente la situazione. Di questo mi scuso innanzitutto con il dott. Sarpietro e con sua figlia. Perfettamente consapevole di aver compiuto una violazione, non particolarmente grave amministrativamente ma sicuramente odiosa dal punto di vista morale, mi scuso personalmente con tutti coloro che, quotidianamente, lottano con le restrizioni imposte dalla pandemia. Cosa non si farebbe, tuttavia, per impressionare il proprio suocero? Allo stesso tempo non condivido la lettura estremamente erronea del fatto, né le supposizioni, offensive di una carriera integerrima, da voi formulate. Una violazione commessa come privato cittadino - vi assicuro, in parte inconsapevole - non può assolutamente minare il valore di un magistrato che si è sempre distinto per coraggio ed imparzialità. Cordiali saluti, Simone"
Prima di tutto, ringraziamo il signor Simone per aver provato a spiegarci la sua posizione. Ci sono però alcune cose che non ci quadrano. Il fidanzato della figlia di Sarpietro parla di “regalare ad entrambi (il giudice e la figlia, ndr) un momento di svago insieme dopo una giornata particolarmente impegnativa”. Eppure oggi lo stesso magistrato in un’intervista al Corriere della Sera parla di un pranzo in “stato di necessità”. Avrebbe perfino dovuto chiedere a Palazzo Chigi di poter usare il bagno perché in hotel c’erano degli interventi di sanificazione. Dunque qual è la versione corretta? E soprattutto viene da chiedersi: questo pranzo non poteva esser fatto a casa della figlia e del fidanzato, visto che come lui stesso ha scritto abitano a Roma? La lettera prosegue raccontando come si sarebbe arrivati a questo pranzo, parlando di “raccomandazione di un amico” che avrebbe garantito “la possibilità di consumare un pasto all'interno del locale”. Inoltre il fidanzato della figlia del giudice aggiunge - come già fatto dallo stesso Sarpietro - che il pranzo si sarebbe svolto “in totale sicurezza, essendo il locale completamente vuoto”. Non pensiamo sia ulteriormente necessario ricordare come le regole, ancora più importanti quando si tratta di contenere una pandemia, vadano rispettate da tutti anche in presenza di una “raccomandazione”. Il fidanzato della figlia del giudice aggiunge che sarebbe arbitrario e malizioso “supporre che la richiesta di consumare all'interno del locale sia pervenuta dal dott. Sarpietro”. Ci preme sottolineare che noi non abbiamo mai detto che la richiesta fosse arrivata dal giudice. Ancora, la lettera prosegue assicurando che il giudice Sarpietro “non aveva onestamente idea di cosa potesse aspettarlo”. Prendendo per buono, come ci hanno detto, che sia stato invitato per pranzo al ristorante, ci viene da pensare che potesse aspettarsi una sola cosa: un invito a pranzo in un ristorante. Ed essendo lui un giudice sicuramente sapeva che in quel momento era vietato farlo. Infine, c’è un ultimo punto su cui ci sembra il caso di soffermarsi: “Cosa non si farebbe, tuttavia, per impressionare il proprio suocero?”. Ci permettiamo un suggerimento al signor Simone: non violare le regole che valgono per tutti potrebbe essere un buon inizio. Apprezziamo comunque il bel gesto di Simone: succede a tutti di sbagliare, non tutti hanno il coraggio di chiedere scusa.
Francesco Bonazzi per "La Verità" il 18 febbraio 2021. Piero Calamandrei, il giurista meno letto e più citato dai politici italiani, non sempre scrisse pagine profetiche. Per esempio, nella prefazione alla terza edizione di Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1959), spiegava: «L'elogio non va alle leggi, ma alla condizione umana del magistrato italiano: a quest' ordine di asceti civili, condannati, in una società sempre più sprezzante dei valori morali, alla solitudine, all'isolamento, in certi periodi anche alla miseria ed alla fame». Ed è forse per paura di morire di fame che il giudice Nunzio Sarpietro, che presiede l'udienza preliminare per il caso Gregoretti scaturita dalla richiesta di rinvio a giudizio per sequestro di persona dell'ex ministro dell'Interno, Matteo Salvini, il 28 gennaio scorso ha pranzato al ristorante a Roma, in piena zona arancione, in barba a tutti i Dpcm. Ieri il magistrato catanese, 68 anni, ha spiegato al Corriere della Sera che quel giorno era «in stato di necessità», perché l'albergo non gli dava da mangiare. In una magistratura squassata dallo scandalo di Luca Palamara, il pranzetto a base di pesce del giudice Sarpietro aggiunge solo un po' di folclore. Salvini, per il quale il pm aveva chiesto due volte l'archiviazione, se l'è cavata con eleganza: «Non commento pranzi o cene». Certo, ma come la mettiamo con quel famoso cartello «La legge è uguale per tutti?». Dobbiamo aggiungerci sotto «I regolamenti invece no»? E poi milioni di italiani hanno visto le immagini del giudice a pranzo, con figlia e aspirante genero. Merito di Le Iene, che il 28 gennaio hanno fatto quello che un tempo facevano i bravi cronisti di agenzia: hanno seguito il magistrato anche dopo che hanno spento i microfoni. Quel giorno, Sarpietro aveva sentito come testimone il premier dimissionario Giuseppe Conte e all'uscita da Palazzo Chigi aveva improvvisato una conferenza stampa, nella quale aveva regalato ai giornalisti anche le proprie impressioni personali. «Il premier Conte è stato molto collaborativo, molto profondo nelle risposte», aveva riferito il magistrato, per poi aggiungere che «Ha fatto un'ottima testimonianza, che mi ha chiarito tantissimi elementi sulla politica di governo e sulla ricollocazione dei migranti». Visto che era l'una e mezza passata, Sarpietro ha giustamente dovuto pensare a dove mangiare un boccone. Allora è salito su un van, con un carabiniere e un'assistente, e si è diretto verso uno dei migliori ristoranti di pesce della Capitale, Chinappi a Porta Pia. Bar e ristoranti sarebbero chiusi, almeno per i comuni mortali, ma la troupe de Le Iene segue la toga affamata e la becca seduta al ristorante. Con lui ci sono la figlia e un uomo che, secondo il ristoratore, sarebbe il fidanzato che vorrebbe farle «una promessa di matrimonio». Nel servizio andato in onda su Italia 1, Sarpietro ammette che l'hanno colto in fallo e tenta di far credere che stanno mangiando solo «tre piattini freddi e un goccio di vino». In realtà, nonostante l'interruzione tv, i tre hanno fatto un pranzo completo, accompagnato da una bottiglia di champagne e con un conto da 200 euro. Ieri, però, Sarpietro ha fornito al Corriere una nuova interpretazione giuridica: «Si può dire che mi trovassi in uno stato di necessità... Avrei dovuto cercare un trancio di pizza in piazza Colonna, ammesso che i bar fossero aperti; l'albergo dove alloggiavamo io, la mia assistente e il carabiniere di scorta ci aveva praticamente cacciati fuori per la sanificazione Covid... e per andare in bagno ho dovuto chiedere a Palazzo Chigi». Lo stato di necessità è una cosa seria. Per esempio, se si prende il codice penale, all'articolo 54 si legge che «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». E per il codice civile, «agisce in stato di necessità chi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile. In questa situazione al danneggiato spetterà solo una indennità» (articolo 2045). Insomma, di fronte alle impellenze fisiologiche e ai morsi della fame, considerata anche l'età, lo stato di necessità non poteva che essere sconfitto con i gamberi rossi di Chinappi e una spigola al sale, non necessariamente accompagnati da bevande isotoniche. Il magistrato catanese ha anche concesso: «Sì, ho commesso una sciocchezza, seppur veniale. Ho chiesto anche scusa al ristoratore per averlo messo in questa situazione. Non credevo ci potesse essere tanto clamore. Dopodiché si tratta di una multa, che pagherò». E comunque nessun favoritismo: «È stata mia figlia con mio genero a prenotare in questo ristorante amico, non certo io a chiedere un favore come giudice». E poi, «Non si può giudicare un magistrato da queste cose. Non ho ancora capito se vogliono che questo processo si faccia o meno». In attesa di capirlo, magari si potrebbe evitare di spiattellare davanti alle telecamere come sono andati gli interrogatori. Specie se sei atteso per pranzo in un ristorante aperto tutto per te.
Il gup di Catania silenzia Palamara. Ecco cosa l'ex pm avrebbe rivelato. Respinta la testimonianza nell'udienza su Salvini. L'ex leader Anm ne "Il Sistema" ha rivelato le trame dei magistrati nelle inchieste sui migranti: "Ovvio siano scesi in campo". Pier Francesco Borgia - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. Rigettando la richiesta di convocazione di Luca Palamara (nella foto) nell'udienza preliminare sul caso Gregoretti, il gup di Catania Nunzio Sarpietro ha rinunciato a immergere la forchetta in un «piatto ghiotto». La stiracchiata metafora la dobbiamo proprio all'ex presidente dell'Anm. E la si può ritrovare nel capitolo dedicato a Salvini del libro-intervista di Alessandro Sallusti Il sistema (Rizzoli). Ed è in quel breve capitoletto che si può trovare quanto avrebbe potuto dire Palamara se, come da richiesta degli avvocati di parte civile, fosse stato convocato sul caso Gregoretti. L'ex togato ha infatti definito quella vicenda giudiziaria un «piatto ghiotto». E lo ha fatto essenzialmente per gli ingredienti che componevano quel piatto. «Estate del 2018. Un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale. Un piatto ghiotto, ovvio che la magistratura scenda in campo». E infatti il primo magistrato che prova a mettere il cappello su questo affaire è, come ricorda lo stesso Palamara nel libro di Sallusti, Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento, nominato proprio da poco in quota Magistratura democratica (la corrente di sinistra della magistratura). Non soltanto indaga Salvini ma ordina anche lo sbarco dei migranti bloccati sulle navi per l'ordine emesso dal ministro. E le premesse di uno scontro tra toghe e politica ci sono tutte. Sembra, ricorda Palamara, di tornare ai tempi degli scontri frontali contro Berlusconi e Renzi. Lo stesso Palamara, incontrando a una cena il capo di gabinetto di Salvini, gli consiglia di suggerire al ministro che attaccare frontalmente la magistratura è il modo migliore per svegliare la coscienza partigiana di qualche giudice. Di questo, insomma, avrebbe potuto parlare Palamara se convocato all'udienza preliminare. Ma anche dell'attivismo inedito, fino ad allora, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Palamara ricorda maliziosamente che il vicepresidente è in scadenza e per ingraziarsi il Pd si mette a difendere il giudice di Agrigento dagli attacchi politici della Lega. Il risultato? Sarà candidato proprio dal Pd alla guida della Regione Abruzzo. Competizione che però perde. Legnini aveva anche provato a chiedere per sé l'Antitrust ma ha trovato tutte le porte sbarrate e si è dovuto accontentare, dopo la sonora sconfitta in Abruzzo, del posto di Commissario per la ricostruzione nelle zone terremotate. Ambizioni politiche a parte, le confidenze di Palamara portano - anche nel caso della Diciotti e della Gregoretti - a pensare che esistano due giustizie. Quella rappresentata dal procuratore di Agrigento e quella incarnata dal procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che «per ben due volte negli stessi giorni e per gli stessi reati dà parere contrario a indagare Salvini». D'altronde lo stesso ex presidente dell'Anm lo ripete come un refrain: «le leggi non si applicano, le leggi si interpretano in base alla propria sensibilità», e in alcuni casi, aggiunge sempre con malizia, «in base alla propria appartenenza». E la prova di questo è in un messaggio che arriva sul cellulare di Palamara. Lo spedisce il procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, che si dice testualmente: «Non vedo dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministero dell'Interno interviene perché non avvenga». Ironia della sorte il capitoletto su Salvini finisce proprio con un riferimento al gup che ieri ha respinto la richiesta di convocare Palamara. Sarpietro aveva chiesto al Csm la presidenza del tribunale di Catania ma gli fu preferito un altro magistrato, grazie proprio all'intervento di Palamara. Tanto che subito dopo Sarpietro evitò di rinnovare la tessera di Magistratura democratica. «Detto ciò - conclude Palamara, in questo davvero profetico - sono convinto della sua assoluta autonomia di giudizio».
La magistratura e quel sistema che ha infettato la politica italiana. Il sistema con cui vengono decisi i vertici della giustizia condiziona anche la vita democratica del Paese. Ecco come: esce in libreria Il sistema, il libro scritto dal direttore Sallusti. Alessandro Sallusti, Mercoledì 27/01/2021 su Il Giornale. "Sono consapevole di aver contribuito a creare un sistema che per anni ha inciso sul mondo della magistratura e di conseguenza sulle dinamiche politiche e sociali del Paese. Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli, colleghi magistrati, leader politici, uomini delle istituzioni, molti dei quali tutt'ora al loro posto, che hanno partecipato con me a tessere questa tela, erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo". Inizia così un lungo racconto, una lunga intervista che Luca Palamara, il magistrato al centro del sistema della magistratura, ora finito sotto la lente degli stessi magistrati, mi affida in questo libro Il Sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana (Rizzoli). Il punto di partenza è: è possibile che quel sistema interno alla magistratura con cui venivano decisi in modo abbastanza discutibile i procuratori, i magistrati più importanti d'Italia abbia infettato, oltre che la magistratura, anche la vita politica italiana? In altri termini, è possibile che abbiano subito attacchi giudiziari molti governi, da quello di Prodi a quello di Berlusconi, a quello di Renzi, financo a quello di Salvini? È possibile che quel sistema abbia condizionato anche la vita democratica del Paese? Ecco, queste sono tutte le domande che io ho posto a Palamara in una lunga serie di incontri. Domande alle quali Palamara non si è sottratto. Ne esce uno spaccato di vent'anni di amministrazione della giustizia che, immagino e spero, faccia riflettere più d'uno. Che cosa è successo in questi ultimi vent’anni? È successo, e da questo libro emerge chiaramente, che la magistratura ha interferito, a volte anche pesantemente, sulla vita politica italiana e, in particolare, ha interferito partendo da una posizione politica ideologica che fa capo alla sua corrente di sinistra, Magistratura democratica. Tant'è vero che anche Palamara è stato uno dei più grandi oppositori dei governi di destra. E alla domanda: "Ma allora anche tu sei di sinistra?", lui risponde così: "Non è vero. Io non ero il protettore di questo o di quello, di una parte politica o dell'altra, io ero il protettore del sistema correntizio che a maggioranza era su posizioni politiche e ideologiche di sinistra in conflitto con le destre di Silvio Berlusconi. Il mio compito non era di cambiare quella posizione, ma semplicimente di difendere il sistema. L'ho fatto per convenienza? Perché ci credevo? Per calcolo? L'ho fatto e l'ho fatto con successo. Punto". E da qui parte il racconto, non solo di quello che è successo all'interno della magistratura, ma anche di quello che è successo nei rapporti tra la magistratura e la politica, tra la magistratura e il Quirinale, tra la magistratura e i poteri costituiti di questo Paese. È uno spaccato che riguarda, come dicevo, vent'anni, che coinvolge i governi di destra e di sinistra, perché, ancora prima di essere di destra e di sinistra, il sistema voleva, e vuole, comandare sulla politica. Com'è potuto succedere tutto questo? E, soprattutto, com'è successo nei fatti, concretamente? Ecco, Palamara in questo libro non dà le sue opinioni, ma documenta episodio per episodio, inchiesta per inchiesta, nomina per nomina che cosa è successo dietro le quinte della magistratura e della politica italiana. È forse la prima volta che si scoperchia questo vaso di Pandora. Non è la verità completa, ma è pur sempre una prima verità sulla quale, immagino e spero, si inizi a riflettere concretamente.
I pm, Fini e il governo Monti: così il sistema attaccò il Cav. Il sistema funziona contro qualcuno ma anche a difesa di qualcuno. Con Berlusconi avviene contro, con Fini e con tanti altri a difesa. Alessandro Sallusti, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Per gentile concessione dell'editore Rizzoli pubblichiamo uno stralcio del libro Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana, scritto dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti. Il 27 luglio 2011 Nitto Palma diventa ministro della Giustizia, il vostro rapporto non può neppure essere messo alla prova perché di lì a poco, il 16 novembre, quel governo cadrà. Durante l’estate tutto precipita velocemente. Il governo è indebolito per l’uscita dalla maggioranza, avvenuta un anno prima, di Gianfranco Fini e di un gruppo di deputati e senatori che avevano fondato il partito Futuro e Libertà. Si è fatta molta letteratura sul perché Fini abbia mollato Berlusconi, e se si è arrivati a ipotizzare una regia del Quirinale, oltre che una "moral suasion" della magistratura su di lui, per alcune inchieste che avrebbero potuto coinvolgerlo. Quando nel dicembre 2010 si parla di un possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità. Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un’inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui lui è il numero due dopo Silvio Berlusconi. Abbiamo più di un incontro, ci rassicura che con lui a dirigere la Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati. Tra noi certamente c’è un buon feeling che diventa collaborazione attiva nel fornirgli pareri e spunti per emendare leggi che, direttamente o indirettamente, riguardano il nostro mondo. C’è anche un singolare inedito che caratterizza i nostri incontri. In un’occasione in cui andiamo da Fini con la giunta dell’Anm al completo, con noi c’è anche Pierluigi Picardi, un magistrato della corrente di Area, teoricamente quella di sinistra e più ostile al governo. Quando i due si incontrano, seppur in veste ufficiale, si riconoscono e rievocano i tempi camerateschi di gioventù. Avevate trovato il Cavallo di Troia. C’è un fatto incontestabile. Nell’estate del 2010 "ll Giornale" pubblica un’inchiesta ipotizzando il coinvolgimento di Gianfranco Fini nella vendita sospetta al cognato Giancarlo Tulliani di una casa, la famosa "casa di Montecarlo" che faceva parte del patrimonio di An. Fini nega ripetutamente e, il 26 ottobre, la procura di Roma annuncia - fatto anomalo - non l’apertura, stranamente avvenuta senza alcuna fuga di notizie, bensì la chiusura per archiviazione di un’inchiesta lampo condotta personalmente dal procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara, probabilmente la più veloce nella storia, su quella casa e su Fini. Ma anni dopo, il 13 febbraio 2017, Gianfranco Fini, per quella stessa ipotesi di reato, viene rinviato a giudizio per riciclaggio, e suo cognato scappa all’estero dove ancora oggi si trova, latitante a Dubai. Questa seconda inchiesta viene portata avanti dal nuovo procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e recepita dal giudice delle indagini preliminari Simonetta D’Alessandro, un cara amica che mi teneva aggiornato su tutto. Era solita organizzare cene ristrette a casa sua, alle quali partecipavano magistrati, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine e delle istituzioni. Un volta disse di essere molto preoccupata che il suo nome potesse essere infangato all’interno dell’inchiesta Mafia capitale, per via di un ingiusto coinvolgimento di un consulente al quale aveva affidato degli incarichi, e che Pignatone l’aveva tranquillizzata scrivendole un biglietto. Ora, è evidente che nel 2010 Giovanni Ferrara probabilmente non ha compiuto una corretta valutazione. Se a causa della fretta o di qualcosa d’altro lo lascio scrivere a lei. Me ne guardo bene, io penso che in quel momento Fini che si allea con la sinistra fosse funzionale al disegno di indebolimento del governo che il "Sistema" stava perseguendo. Più che funzionale, credo. Però può scrivere un fatto che nessuno può smentire o contestare, un fatto che di nuovo riguarda l’intreccio tra politica e magistratura e che all’epoca sfuggì ai più. Un anno dopo aver archiviato l’inchiesta, Giovanni Ferrara si dimette da procuratore di Roma con qualche mese di anticipo sulla pensione e viene nominato, in quota Fli di Gianfranco Fini, sottosegretario agli Interni del governo Monti. Coincidenza sospetta, un indizio che lo strappo di Fini che affossò il centrodestra non fosse tutta farina del suo sacco. A prescindere dal caso singolo, il potere delle procure a volte è quello di fare un’inchiesta partendo da una velina e di tirarla per le lunghe, altre di non farla pur davanti all’evidenza dei fatti concreti. Soprattutto se la grande stampa - come per coincidenza avvenne nel caso di una casa in mattoni e cemento nel pieno centro di Montecarlo - gira la testa dall’altra parte o minimizza e i partiti di sinistra pure. Si ricordi la regola aurea del tre, le tre armi del "Sistema", una procura, un giornale amico, un partito che fa da spalla politica. Funziona contro qualcuno ma anche a difesa di qualcuno. Con Berlusconi avviene contro, con Fini e con tanti altri a difesa. E lo ripeto ancora una volta a scanso di equivoci. Io ora non sto discutendo se uno è o meno colpevole, mi riferisco a come, oltre un certo livello, i reati o presunti tali vengono gestiti in base a criteri che con "la giustizia è uguale per tutti" hanno poco a che vedere. Ma non solo con la giustizia, lo stesso vale per l’etica.
Caso Palamara, Settimanale “Chi”: tutti contro il Cavaliere. AgenPress.it il 17 Febbraio 2021. “Il primo agosto del 2013 la sezione feriale della Corte di Cassazione presieduta dal giudice Antonio Esposito condanna definitivamente Silvio Berlusconi per evasione fiscale al termine di un iter processuale contestato nella forma e nella sostanza dalla difesa del Cavaliere. Quello che successe in quella camera di consiglio è ancora, a distanza di anni, avvolto da sospetti e da misteri. Nel libro-intervista Il Sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana (Rizzoli, 288 pag., € 19) il magistrato Luca Palamara, all’epoca al vertice del sistema di correnti che governava la magistratura, offre alcuni spunti che gettano nuove ombre sinistre su quella decisione e sui quei giorni convulsi. «Nelle settimane precedenti la sentenza», mi racconta Palamara nel libro, «ebbi modo di incontrare privatamente Amedeo Franco, uno dei colleghi che avrebbero fatto parte del collegio giudicante. Ebbene, Franco mi parlò delle sue preoccupazioni sia per il modo anomalo con cui si era formato il collegio, sia per le pressioni che si stavano concentrando affinché l’esito fosse di un certo tipo, in altre parole di condanna per Berlusconi», confermando così la versione che lo stesso Franco diede successivamente a Berlusconi in un incontro privato avvenuto mesi dopo la sentenza («Mi spiace, presidente, quella corte era un plotone di esecuzione e io non ho potuto farci nulla»). Ma Luca Palamara va oltre. Il 15 gennaio del 2015 il Csm, l’organo di autogoverno dei magistrati in cui Palamara è nel frattempo stato eletto, deve affrontare la promozione del giudice Franco. L’unanimità è data per scontata, ma all’ultimo uno dei magistrati chiamati ad esprimere il voto si tira indietro. Il suo nome è Ercole Aprile, anche lui come Franco membro della giuria che condannò Berlusconi. Ecco cosa racconta di quel giorno Palamara nel libro: «Venuto a sapere della sua astensione lo interrogo sui motivi, e lui mi dice: “Perché in quella camera di consiglio ho visto cose indicibili, cose che voi umani – citando la famosa frase di Blade Runner non potete nemmeno immaginare”». E qui vale la pena di continuare con il racconto del libro. Chiedo a Palamara: si spieghi meglio. «Il motivo dell’astensione», risponde, «non può che riguardare ciò che successe nella camera di consiglio che condannò Berlusconi. Non si può lanciare il sasso e ritirare la mano limitandosi a dire “Cose che voi umani…”. Gli umani avrebbero diritto di sapere, il Csm anche». Lo incalzo: quale è la verità? «Ciò che è successo lo sanno solo loro, quello che io voglio dire è che la verità è stata chiusa in cassaforte, non la si deve sapere». Ma c’è, nel libro, un altro passaggio inedito che riguarda indirettamente quella sentenza su Berlusconi. Il giudice Esposito, che firmò la condanna, finisce sotto processo disciplinare davanti al Csm per aver rilasciato – poche ore dopo aver emesso la sentenza – una intervista al Mattino di Napoli in cui nella sostanza anticipava le motivazioni, cosa di per sé assai grave. Racconta Palamara: «La pratica la ereditiamo dalla precedente consiliatura del Csm che aveva preferito rinviare e lavarsene le mani. Io ero conscio che non stavamo giudicando il comportamento di un collega ma la storia recente d’Italia. In effetti, le cose stavano come dicevano gli avvocati di Berlusconi, c’è poco da discutere. Ma si poteva offri- re un assist a Berlusconi dopo che per vent’anni si era cercato di metterlo all’angolo con ogni mezzo proprio quando l’obiettivo era stato raggiunto?». Chiedo a Palamara: me lo dica lei. «Era una responsabilità enorme che andava oltre il merito della vicenda. Condannare Esposito sarebbe stata una opzione corretta – lo aveva chiesto anche la procura generale – ma inevitabilmente avrebbe messo in dubbio la credibilità della sentenza sui diritti Mediaset. Viceversa, non potete nemmeno immaginare”». E qui vale la pena di continuare con il racconto del libro. Chiedo a Palamara: si spieghi meglio. «Il motivo dell’astensione», risponde, «non può che riguardare ciò che successe nella camera di consiglio che condannò Berlusconi. Non si può lanciare il sasso e ritirare la mano limitandosi a dire “Cose che voi umani…”. Gli umani avrebbero diritto di sapere, il Csm anche». Lo incalzo: quale è la verità? «Ciò che è successo lo sanno solo loro, quello che io voglio dire è che la verità è stata chiusa in cassaforte, non la si deve sapere». Il giudice Ercole Aprile, parlando con Palamara, così descrisse la situazione nel Consiglio superiore della magistratura in quei giorni: «In quella camera di consiglio ho visto cose indicibili, cose che voi umani non potete nemmeno immaginare». A cosa si riferiva? «La verità è chiusa in cassaforte, non si deve sapere», commenta Palamara. Il giudice Antonio Laudati. Di lui, Palamara racconta a Sallusti: «Era arrivato a capo della procura di Bari per cercare di mettere ordine in un ufficio devastato da lotte interne e fughe di notizie». Invece, finisce nel tritacarne dei colleghi che lo accusano di voler salvare Berlusconi da un reato che non esiste.
I DUBBI DEL GIUDICE APRILE L’OFFENSIVA PARTE DA BARI UNA SENTENZA CON TROPPE OMBRE: assolvere Esposito avrebbe rafforzato quella decisione. Senza voler violare il segreto della camera di consiglio posso testimoniare che questo ragionamento logico aleggiava nell’aria, per usare un eufemismo». Palamara, insomma, ci dice che certe decisioni non vengono prese in punta di legge ma in base alla convenienza, in questo caso la convenienza di incastrare Silvio Berlusconi. E su questa tesi è illuminante anche la ricostruzione di quanto avvenne alla procura di Bari quando scoppia il caso di Patrizia D’Addario la presunta escort che un faccendiere pugliese, Gianpaolo Tarantini, infila in un letto di Berlusconi a Roma. Non c’è nessun reato, ma a Bari la procura – molto chiacchierata per precedenti intrecci con la giunta regionale di sinistra di Niki Vendola – si scatena. Racconta Palamara: «Il capo della procura di Bari è in scadenza, il suo successore, Antonio Laudati, anticipa il suo arrivo per cercare di mettere un po’ di ordine in quell’ufficio devastato da lotte interne e fughe di notizie», che tradotto significa gestire in modo equilibrato l’inchiesta su Berlusconi. Guai a lui. Laudati finisce nel tritacarne dei colleghi che lo accusano di voler salvare Berlusconi da un reato che non esiste. Chiedo a Palamara: parte la stagione dei veleni, ma mi lasci dire che Laudati verrà assolto da tutte le accuse. Lui risponde: «Sono felice per lui, ma allora non era possibile difenderlo, avrebbe voluto dire mettere in dubbio la fondatezza dell’inchiesta D’Addario e fare passare Berlusconi come vittima di magistrati scellerati. Neppure io, che Laudati lo conosco bene, posso farci nulla. Anzi, da presidente dell’Anm sono tra quelli che imbracciano il fucile contro di lui nonostante le correnti della sinistra giudiziaria pugliese fossero politicamente compromesse con il sistema locale attiguo alla sinistra politica». Ma Palamara va oltre: «Quello delle donne è un buon filone, mediaticamente funziona, e di certo indebolisce la figura del presidente Berlusconi». La magistratura ci si butta a capofitto fino a incrociare il caso Ruby: «La telefonata – si chiede Palamara – alla questura di Milano per segnalare la disponibilità di una consigliere regionale lombarda, Nicole Minetti, a prendersi in carica la giovane Ruby, fermata per una violenta lite con una amica, è davvero un reato così grave o può rientrare in una normale, sia pure delicata, segnalazione? Qui scatta la discrezionalità dei magistrati, ma all’epoca la discrezionalità su Berlusconi non poteva esistere. andava attaccato, punto». Berlusconi su Ruby sarà assolto sia in appello, sia in Cassazione. Ma il danno politico fu enorme. E Palamara ammette: «Il nostro obiettivo era contrastare Berlusconi, con qualsiasi mezzo». Ecco, qui sta la verità indicibile ancora oggi.”
"Io assolto, ma distrutto dal Sistema". Laudati accusato di favorire il Cav: "Contro di me scatenato l'inferno". Lodovica Bulian, Mercoledì 17/02/2021 su Il Giornale. «Nessuna sorpresa, solo il riacutizzarsi di un dolore mai sopito». Le rivelazioni di Luca Palamara ne «Il Sistema» di Alessandro Sallusti sono una ferita che si riapre per Antonio Laudati, oggi sostituto procuratore alla direzione nazionale Antimafia, ma dieci anni fa un'altra «vittima» del sistema raccontato dall'ex magistrato. Nel 2009 Laudati era stato appena nominato procuratore a Bari quando scoppiò il caso D'Addario con l'inchiesta sulle escort a carico dell'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini. «Ero il più giovane d'Italia e un magistrato nel pieno della carriera», ricorda. Ignaro allora che dopo quella nomina avrebbe dovuto affrontare un calvario di processi in tribunale e procedimenti disciplinari al Csm lungo dieci anni, sempre assolto da ogni accusa. Quando si insedia a Bari, Laudati trova «clamore mediatico e una fortissima tensione politica perché l'inchiesta riguardava indirettamente l'allora premier Berlusconi (non indagato a Bari, ndr)». Tutte le indagini «erano sistematicamente riportate sui media». Laudati tenta di fermare le fughe di notizie, di distinguere tra intercettazioni rilevanti e non: «Decido disporre che fossero custodite presso la mia segreteria e che si utilizzassero solo le quelle pertinenti al fatto reato. Da quel momento non vi furono più fughe di notizie. Pensavo di aver fatto rispettare il codice di procedura penale. Non era così». Contro di lui partono gli esposti al Csm. Anche quello dell'allora collega sostituto procuratore di Bari, Giuseppe Scelsi. Laudati viene accusato di rallentare l'inchiesta e finisce sotto procedimento disciplinare. L'accusa è anche quella di aver tutelato così l'immagine istituzionale dell'allora premier Silvio Berlusconi. Per lo stesso motivo finisce imputato a Lecce, per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale. Sempre assolto. E oggi può sfogarsi su «Quarta Repubblica» a Rete4. È Palamara a rivelare come quel tentativo di fermare le fughe di notizie gli costò il sospetto «di connivenza con Berlusconi. Allora non era possibile difenderlo», ricorda l'ex magistrato. «Avrebbe significato fare passare Berlusconi come vittima di magistrati scellerati». Infatti, «da quel momento contro di me si è scatenato l'inferno - rammenta il procuratore - Non era possibile ammettere che le accuse nei miei confronti erano infondate perché ciò avrebbe significato ammettere che il diverso comportamento tenuto da altre Procure e da altri magistrati nei confronti di Berlusconi costituiva una forzatura. In quel momento storico, in cui la magistratura era governata dalle correnti di sinistra unitamente a Palamara, mi è piombata addosso la accusa più grave e più infamante per un magistrato: quella di aver aiutato Berlusconi. Ovviamente era del tutto infondata, avevo solo applicato la legge, ma fu tutto inutile sono stato estromesso da tutto. D'altra parte colpirne uno per educarne cento». Si è ritrovato così da inquirente a imputato, sia in sede disciplinare al Csm che penale nell'inchiesta aperta a Lecce: «Un'esperienza terribile. Ci ho messo dieci anni per essere assolto da tutto. Ho sempre pensato: se questo è successo a me che sono un Procuratore figuriamoci cosa può succedere al cittadino qualunque».
Le strategie del "Sistema" contro il Cavaliere. Da Noemi a Ruby, Palamara svela tutti i tentativi per far fuori Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. I cecchini che hanno puntato Silvio Berlusconi sono stati tanti, appostati su diversi Palazzi. Il primo, il più agguerrito, è stato il sindacato dei magistrati, che dopo la sua vittoria elettorale del 2008, si rafforzò immediatamente nella sua componente della sinistra più estrema. Anche Luca Palamara è della partita, ma la vera anima nera è Edmondo Bruti Liberati, lo stesso procuratore di Milano che dopo l’unica sentenza di condanna subìta dal leader di Forza Italia sentenziò che era immediatamente eseguibile, mentre il suo amico Matteo Renzi chiudeva la pratica con il suo famoso “game over”. Ma ben prima di poter cantar vittoria con il sigillo della cassazione, i cecchini avevano adocchiato non la vita politica del premier, ma quella personale. Gli piacciono le donne? È un tipo galante? Scaviamo su questo, qualcosa si troverà. E se non si trova lo si fa trovare. Si parte da un episodio dall’apparenza insignificante, del tutto innocente: Berlusconi che va a Casoria dove una ragazzina di nome Noemi Letizia festeggia i suoi diciotto anni. Il presidente del consiglio conosce il padre, che lo ha invitato all’evento, ma il fatto diventa presto irrilevante. Una cronista della redazione napoletana di Repubblica, che molto opportunamente gironzolava da quelle parti, porta a casa il suo piccolo scoop. Che diventerà presto una valanga. Lo scandalo sessuale, si sa, accende le pruderie del maschio latino e di tutti coloro che «danno consigli, non potendo più dare il cattivo esempio». Così i cecchini del “Sistema” di cui racconta Luca Palamara nel suo libro, si appostano sui tetti. Cecchini in toga e cecchini al computer. Passa solo qualche mese dalla sera di Casoria, quando si punta su Bari. Si parte dai “peccati” per trasformarli in reati. Il clima tra il governo e le toghe era già da guerra nucleare. Non c’era pm che aspettasse la notitia criminis per aprire un fascicolo intestato “Berlusconi più altri”, tutti con la lanterna in mano a cercare. Sembravano piccoli Diogene pensando di essere tanti Bartolo da Sassoferrato, quello definito lucerna juris. A Bari nell’estate del 2009 sta per insediarsi il nuovo procuratore capo Antonio Laudati, magistrato molto stimato, che appartiene alla corrente moderata di Magistratura indipendente. Già un piccolo difetto in partenza. La città è un verminaio di frequentazioni non sempre opportune tra schiere di magistrati (una cinquantina almeno, calcolerà il neo-procuratore) e ambienti imprenditoriali, in cui spiccherà Giampaolo Tarantini con le sue feste. Il “caso” di Patrizia D’Addario scoppierà anche qui con lo scoop di un cronista locale del Corriere della sera. Che si guarda bene dal frugare nei costumi sessuali dei magistrati festaioli, ma punta diritto su Silvio Berlusconi, cui Tarantini aveva presentato la ragazza (che verrà incoraggiata anche a scriverci sopra un libro) a Roma. I cecchini cominciano con il puntare Laudati, anche con la pallottola più schifosa, quella dell’esposto anonimo (uno di quelli con le impronte digitali sopra), cui seguirà una lamentela del procuratore generale su una presunta lentezza del dottor Laudati nel depositare le carte delle sue inchieste. Ecco dunque il sospetto più bruciante: intelligenza con il nemico. Per i cecchini in toga Silvio Berlusconi non era il presidente del consiglio, ma il Nemico. E il procuratore di Bari, se non si era trasformato in killer a sua volta, non poteva che esserne il complice, nemico a sua volta. Così Laudati finì indagato a Lecce per abuso d’ufficio e favoreggiamento. Superfluo dire che la sua posizione finirà poi archiviata. Ma quel che conta è ricordare che quel magistrato si era posto fuori dal “Sistema” e salvare lui avrebbe voluto dire salvare Berlusconi, cosa impensabile. Ormai i cecchini avevano colpito. Dice Luca Palamara su quel periodo: «Da presidente dell’Anm sono tra quelli che imbracciano il fucile». Quel fucile però ha solo due colpi in canna, uno per Laudati, l’altro per Berlusconi. E questo nonostante nello stesso periodo fossero state rese pubbliche alcune fotografie molto imbarazzanti per una serie di magistrati pugliesi. Che cosa ci facevano esponenti di Magistratura democratica come Gianrico Carofiglio, Francesca Pirrelli e Susanna De Felice al tavolo con il presidente della Regione Nicki Vendola da poco archiviato dagli stessi uffici per una vicenda che riguardava il mondo della sanità? Sciocchezzuole che non interessavano il Csm né il sindacato delle toghe. Gli antipasti erano ormai serviti, quando a Milano viene messo in tavola il piatto forte, il “caso Ruby”. Ritroviamo qui agguerrito più che mai il procuratore Bruti Liberati, ma anche colei che era considerata un po’ la giamburrasca della procura, quella Ilda Boccassini che da giovane era stata la “pm in blue jeans” e poi quella che aveva gridato il suo “j’accuse!” contro i suoi colleghi che avevano lasciato solo Giovanni Falcone fino al suo assassinio. Da allora si occupava di inchieste di mafia, i reati contro la pubblica amministrazione erano di competenza di Alfredo Robledo. Bruti scippa a Robledo l’inchiesta su una presunta concussione di cui si sarebbe reso responsabile il presidente del consiglio per la famosa telefonata alla questura di Milano per far consegnare Ruby alla consigliera regionale Nicole Minetti, e l’assegna a Boccassini. La quale si ingolosisce subito, afferra il trampolino nella speranza di sedere un domani al posto del suo capo. E fa anche il di più. Il Pornofilm nasce così, in una serata di maggio del 2010, al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano. Negli stessi uffici da cui era partita la caccia al cinghialone e sopra quella sala stampa in cui si brindò il giorno della prima informazione di garanzia nei confronti di Bettino Craxi. Ricordando tutto quel che seguì e il conflitto tra Bruti e Robledo anche per lo scippo su quell’inchiesta di cui si occupò il Csm fino alla defenestrazione del magistrato normale che stava fuori dal “Sistema”, c’è una domanda che andrebbe posta a tutti coloro che in quel tempo erano membri, togati e laici, di quel consiglio. Occhio alle date. Ruby viene fermata e rilasciata nella famosa notte di maggio del 2010. Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati il 21 dicembre e in seguito raggiunto da un invito a comparire il 14 gennaio 2011. Che cosa è successo tra Milano e Arcore tra maggio e dicembre del 2010? È successo che la ragazza viene ripetutamente interrogata, e anche che tutte le persone che frequentano la casa del presidente del consiglio sono pedinate, controllate, fotografate, intercettate. Per sei mesi si tesse la tela del ragno nei confronti del Nemico, cioè si indaga su di lui in violazione di ogni norma di procedura, comprese le guarentigie che riguardano i parlamentari. Coloro che in quei giorni erano membri del Csm si sono mai resi conto di quel che stava accadendo, o l’odio per il Nemico era comune a tutti? Se dubbi ci sono stati (e ci furono, a quanto ci racconta Palamara), pensò bene Bruti Liberati a spazzarli via. Chiese e ottenne dal suo referente al Csm, Giuseppe Cascini, la solidarietà della corporazione ai pubblici ministeri milanesi. Che arrivò, con la benedizione del Presidente della repubblica. Sappiamo come andò a finire quella vicenda, con la condanna di Silvio Berlusconi in primo grado e l’assoluzione in appello e cassazione. Ma nulla fu indolore. Non per lui, non per le ragazze trattate come prostitute, molte delle quali persero il lavoro e furono poi aiutate dal leader di Forza Italia che per quel motivo è ancor oggi processato. Ma non possiamo dimenticare il fatto che per fortuna ancor oggi c’è magistrato e magistrato. Chi è dentro il “Sistema” si salva, come il giudice Enrico Tranfa, presidente della corte d’appello che assolse nonostante il suo parere contrario e per quel motivo si dimise dalla magistratura con grande fanfara. E chi era fuori dal “Sistema”, come il pm Antonio Sangermano, che pure aveva condotto le indagini insieme a Ilda Boccassini, che seppe rispettare quella sentenza e osò persino denunciare la forzatura che fu fatta della Costituzione quando Berlusconi, su iniziativa di Matteo Renzi, fu espulso dal Senato dopo la sentenza della cassazione per un reato fiscale. Anche Sangermano fu esposto alla mira del cecchino sul tetto del palazzo di fronte. Si arrivò persino a chiederne le dimissioni dalla magistratura. Ecco quel che capita a chi sta fuori dal “Sistema”.
Quando con una telefonata all’alba iniziò la caccia a Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Luglio 2020. Mille giorni dopo Tangentopoli e Mani Pulite mi capitò di venir svegliata di notte. O forse era l’alba del 22 novembre 1994. Senza capire che ora fosse né dove io mi trovassi, risposi al telefono con l’immediata sensazione che qualcosa di grave fosse accaduto o stesse per accadere. Appresi così, dalla voce del mio amico Memmo Contestabile, sottosegretario alla giustizia, che il Corriere della sera sarebbe uscito a pagina piena con la notizia di un’informazione di garanzia al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ci risiamo, ho pensato subito. Benché non frequentassi più da due anni la sala stampa del Palazzo di Giustizia di Milano, rividi con lo sguardo del passato il quarto piano con gli uffici della procura, immaginai gli sguardi soddisfatti dei sostituti procuratori che incedevano nel corridoio con il consueto codazzo dei cronisti giudiziari. Ebbi l’immagine plastica dell’ufficio da cui era partita la notizia in esclusiva per il Corriere e la faccia del giornalista prescelto per lo scoop. E la mente geniale di chi aveva scelto la data adatta. Ero andata a Napoli in compagnia del ministro guardasigilli Alfredo Biondi e il sottosegretario Contestabile, i quali con me, che ero Presidente della Commissione giustizia della Camera, avevano formato il primo gruppo dei garantisti ai tempi del governo Berlusconi. L’appuntamento era di quelli destinati a diventare storici. Se poi lo fu, sarà per motivi opposti a quelli sperati. La mattina in cui Berlusconi, e sarà la prima volta per un presidente del Consiglio in carica, riceverà un mandato di comparizione firmato dal pm Antonio Di Pietro, si sarebbe inaugurata la prima Conferenza mondiale sulla giustizia. E si inaugurò, davanti alla faccia sgomenta di personalità del mondo politico e giudiziario provenienti da tutto il mondo. E noi relatori costretti a sfilare in una passerella accecante di fotografi e televisioni. Tutti avevano visto il Corriere. Seppi da subito che il governo non sarebbe durato a lungo. La mia esperienza degli anni precedenti, prima ancora di Tangentopoli e fin dai tempi della Duomo Connection, mi aveva insegnato che una notizia di cronaca giudiziaria, se va a toccare la politica, non è mai frutto solo di attività giornalistica. E il Corriere non era l’Unità, ma era Confindustria e Mediobanca. Avevo negli occhi il percorso con cui si erano salvati i proprietari di grandi testate, chinando la testa davanti alle Procure ed evitando il carcere. Gli industriali della carta insieme ai propri giornalisti avevano svolto il ruolo di tricoteuses mentre i procuratori alzavano le ghigliottine. Il “matrimonio” non si era mai sciolto, fin dal giorno in cui il procuratore Borrelli aveva ammonito: «Chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». Quell’armadio, nelle sue parole, stazionava in una stanza di casa Berlusconi. Che non solo si era candidato, ma aveva anche vinto le elezioni. Il primo conto lo aveva già pagato, nell’estate del 1994, quando era stato costretto a ritirare il famoso “decreto Biondi”, che aveva tentato di mettere ordine nei principi della custodia cautelare. Il provvedimento era stato da subito ribattezzato “salvaladri” e i pm di Milano avevano sfilato davanti alle telecamere con le barbe lunghe e gli occhi arrossati minacciando dimissioni di massa. Il decreto non sarà riconvertito, ma quegli stessi magistrati che, dicevano, con quelle scarcerazioni non potevano più lavorare, non riarrestarono quasi più nessuno. La manette erano dunque così indispensabili? La mattina del 22 novembre 1994 era stata anticipata da strani movimenti nei giorni precedenti, al quarto piano del palazzaccio di Milano. Numerosi cronisti avevano notato il passaggio di alti ufficiali dei carabinieri e un andirivieni di pm che scappavano via dai giornalisti con l’aria sorniona del gatto che si lecca i baffi dopo un buon pranzo. Quelli del Corriere sono stati più bravi degli altri? Mavalà. Certo, ci fu un cronista del quotidiano Avvenire che aveva qualche rapporto con ambienti in divisa e che ebbe l’intuizione (chiamiamola così) prima degli altri. Ma l’intrusione si risolse con la sua assunzione al primo quotidiano d’Italia. E lo scoop ebbe inizio, con troppi particolari perché si potesse sostenere che i cronisti non avevano in mano il pezzo di carta dell’invito a comparire. Qualche anno dopo lo confermò, gridandolo in faccia a Di Pietro durante una trasmissione tv, Sandro Sallusti, che era stato capocronista del Corriere. Da allora fu una slavina. I particolari dell’inchiesta, tutti i giorni, inonderanno ogni quotidiano, ogni televisione. Berlusconi apprenderà a mezzo stampa di essere indagato per una corruzione alla Guardia di Finanza, da cui sarà in seguito prosciolto. In seguito, appunto. Dopo che il suo governo sarà caduto. È particolarmente urticante, anche a rileggere dopo tanti anni, quel che scrivevano nei giorni successivi i giornali sulla “riservatezza” dello loro fonti. Roba da ridere, per chi come me aveva frequentato quegli uffici e quei corridoi, a volte partecipando al banchetto. Sentite questa: «Borrelli si chiude nel suo ufficio. Davigo, Colombo e Greco continuano a marciare nei corridoi con documenti e cartelle sottobraccio: sorridono, si guardano intorno, passano oltre. Senza parlare». Senza parlare? Ahah. Ho dichiarato diverse volte pubblicamente che le notizie coperte dal segreto me le avevano sempre date i magistrati e nessuno mi ha mai smentito. Non potrebbero. Intanto ogni giorno, sempre più smarrito e arrabbiato, Berlusconi apprendeva che un po’ tutte le Procure italiane gli avevano messo gli occhi addosso, che a Palermo pensavano lui fosse il mandante delle stragi di mafia. Fin da allora, ma certe toghe c’erano già, da quelle parti. Il ribaltone era nell’aria. Alla faccia di quello che avrebbe dovuto essere il controllore delle televisioni italiane, l’ultima parola sui media l’avevano sempre i procuratori. Ogni quotidiano, non solo il Corriere ma anche Repubblica, la Stampa e l’Unità erano i megafoni di Borrelli e i suoi sostituti. La loro parola era sempre d’oro. «Noi ci limitiamo ad applicare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale», sussurrava con voce flautata il procuratore capo. Tra virgolette. Ma quando le virgolette si chiudevano arrivava la polpa e si parlava di sedici interrogatori, di ampia documentazione di un sistema di conti bancari, e anche di una fiamma gialla in veste di pentito. Tutto falso, tutto inventato, perché Berlusconi verrà prosciolto. Dopo. Ogni giorno leggevo i quotidiani, guardavo le firme sotto le indiscrezioni e riconoscevo le impronte digitali del magistrato che aveva cantato sotto ogni notizia. I matrimoni tra pm e cronisti erano sempre indissolubili. Il terreno ormai era arato. Ormai anche alcuni di coloro che parteciparono fin dalla semina – parlo di ex cronisti giudiziari – ammettono che senza la complicità della stampa probabilmente non ci sarebbero stati (per lo meno non in quelle dimensioni) né Tangentopoli, né la caccia a Craxi né la fine del primo governo Berlusconi. E anche, dice qualcuno, non sarebbe successo niente senza la violazione di qualche regola. Ma intanto la storia è andata avanti in quel modo tutto politico, pieno di complicità e di imbrogli. In cui i giornalisti sono stati solo i cicisbei di qualcuno che contava più di loro. Quanto al primo governo Berlusconi, il colpetto finale lo diede, nel suo discorso di Capodanno, Oscar Luigi Scalfaro. Il peggior Presidente della Repubblica italiana. Ma i mandanti erano altri.
Il plotone d'esecuzione delle toghe. Silvio Berlusconi, dal 1994 a oggi storia di una persecuzione italiana. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Luglio 2020. Il plotone d’esecuzione che il primo agosto del 2013 puntò le armi e portò a termine l’esecuzione contro l’innocente Silvio Berlusconi, non è stato il primo né l’unico. Anche se quella pronunciata dalla cassazione presieduta da Antonio Esposito, oggi amicone di Marco Travaglio, è stata l’unica sentenza di condanna. Ma ci hanno provato in tanti, almeno una settantina di volte. All’inizio, la palma del vincitore, per costanza e impegno, andò , in una gara senza concorrenti, al procuratore capo di Milano, il dottor Francesco Saverio Borrelli. Berlusconi, dopo l’ultimo defatigante vano tentativo per convincere Mino Martinazzoli a impugnare le redini del defunto pentapartito e candidarsi contro Achille Occhetto alle elezioni del 1994, stava cogitando. E intanto che lui cogitava se buttarsi in politica e impedire l’arrivo dei “comunisti” a Palazzo Chigi, Borrelli già sentenziava: chi ha scheletri nell’armadio, non si candidi. Intanto che lui sentenziava (benché dovesse sapere che i procuratori indagano, solo i giudici emettono sentenze) , i suoi uffici già lavoravano con il codice penale tra le mani. Era il 12 febbraio (le elezioni saranno il 28 marzo) e al Circolo della stampa il Polo delle libertà presentava le sue liste, quando in Procura volevano già arrestare Berlusconi junior, e ancora Borrelli sentenziava: il voto non ci può fermare, la giustizia è un juke-box, se il gettone è buono la canzone va suonata. Era già partita l’inchiesta sul Milan, la Procura stava già indagando a 360 gradi anche su Standa e Publitalia. Gli uomini della procura della repubblica di Milano, dal palcoscenico dei trionfi dei due anni precedenti, quelli di Mani Pulite in cui ogni regola era saltata ma loro si ritenevano invincibili, avevano affondato i denti nel collo di Silvio Berlusconi e non lo molleranno più. Salvo poi portare a casa anche un bel numero di sconfitte, dal caso Sme fino al processo Ruby, come si vedrà. Ma nel 1994, se il governo Berlusconi durerà solo otto mesi, il partito dei piemme ebbe sicuramente il suo peso. Dopo la vittoria elettorale del 28 marzo, quando il presidente Scalfaro darà al leader di Forza Italia l’incarico di formare il nuovo governo, ecco che da Milano si leverà di nuovo la voce del dottor Borrelli: se il presidente ci chiama, non potremo dire di no. Peccato fosse stato già chiamato un altro. Così parte la prima raffica di arresti di uomini Fininvest. Mentre i primi mesi di governo scorrono, ecco i due grandi inciampi. Il decreto Biondi sarà ucciso in culla, nel mese di luglio, dall’immagine scarmigliata e scomposta dei procuratori milanesi che dichiaravano senza pudore alcuno di non poter più lavorare in assenza del potere di manetta continua. E poi arrivò novembre, e il presidente del consiglio era a Napoli a presiedere un convegno internazionale sulla criminalità davanti agli alti rappresentanti di 140 Paesi, quando il Corriere amico del Pool dei procuratori sparò tutte le colonne di piombo (o di quel che era) della prima pagina per annunciare che Berlusconi era indagato e convocato da Di Pietro per corruzione della Guardia di finanza. Fu l’inizio della fine. Quel primo plotone d’esecuzione che si esercitò quell’anno seppe lavorare bene e ancor meglio seppe colpire. Un mese dopo, il primo governo Berlusconi, il primo della seconda repubblica, il primo presieduto da un non politico, era affondato. La storia dirà però quanto pretestuose e politiche fossero quelle accuse di corruzione della Guardia di finanza che avevano acceso un faro di discredito del presidente del consiglio in tutto il mondo. Per tutti e quattro i capi d’accusa la cassazione assolse Silvio Berlusconi “per non aver commesso il fatto”. Ma siamo alla fine del 2001, lui ha vinto di nuovo le elezioni, ma sono passati sette anni e quattro governi in cui il leader di Forza Italia è stato costretto all’opposizione anche grazie a quelle inchieste giudiziarie. Anni in cui la magistratura milanese aveva lavorato a tempo pieno sul proprio indagato preferito. Iniziano nel 1998 le indagini sul processo forse più politico di tutti, per la caratura e i nomi di quelli che ne furono i protagonisti, quello che riguardava la vicenda Sme, la Società Meridionale di Elettricità che nel lontano 1985 il presidente dell’Iri Romano Prodi (l’unico a scampare a Mani Pulite) voleva vendere in via privilegiata all’imprenditore Carlo de Benedetti, ignorando la presenza di altre cordate concorrenziali, tra cui quella di Barilla, Ferrero e la Fininvest di Berlusconi. Finì che la Sme non fu venduta, ma De Benedetti intentò una causa civile e la perse. Anni dopo qualcuno, in una intricata vicenda di storie politiche e personali, risollevò la storia dal dimenticatoio e la magistratura milanese fu lesta a indagare e fare processare Berlusconi, accusandolo di aver “aggiustato” la causa civile. Anche questa volta, di processo in processo, si arriverà alla cassazione del 2007. Assoluzione con formula piena. Se vogliamo completare il quadro di una storia che non è ancora finita e che dura da trentasei anni e ha al centro un uomo che si chiama Silvio come nome di battesimo, ma anche Imputato come nome acquisito e non ancora abbandonato, non possiamo trascurare, prima di arrivare alla vicenda del plotone di esecuzione del primo agosto 2013, il “caso Ruby”. Qui c’entra forse poco Borrelli (anche perché nel frattempo era arrivato Edmondo Bruti Liberati a presiedere la procura milanese), ma molto una pm, Ilda Boccassini, che in tutta la vicenda ha saputo mettere insieme tutte le sue pulsioni di donna -non tanto nei confronti dell’Imputato, quanto nei confronti di una serie di ragazze belle e ambiziose- con lo stile investigativo degli uomini della procura della repubblica di Milano. Quello stile noncurante nei confronti di regole come la competenza territoriale. Oppure, come nel caso Ruby, di interrogare in una certa data la ragazza, di avere, secondo l’ipotesi accusatoria, già elementi per iscrivere Berlusconi nel registro degli indagati, ma di aspettare, indugiare, come se non si fosse sicuri. Ma intanto l’orologio dei termini processuali va a rilento, anzi è fermo e non scade mai. Se l’orologio è fermo i termini non scadono e la prescrizione non arriva mai. Si può indagare all’infinito, spiare, controllare la casa, gli ospiti, le abitudini. Così da luglio si arriva a dicembre, si iscrive l’indagato, e poi d’un tratto è febbraio. E quando il Parlamento nega al procuratore la possibilità di perquisire casa e ufficio del dottor Spinelli, ragioniere di Berlusconi, ecco che l’Imputato viene scaraventato di peso nella gogna mediatica di un processo celebrato con rito immediato, quindi direttamente in aula. La giustizia non avrà le vesti delle tre componenti del tribunale di primo grado, quelle che Berlusconi chiamerà “comuniste e femministe”, che forse non erano neanche dispiaciute della definizione, ma che si distinsero, come un po’ tutti in questi processi, anche i giudici che poi assolsero, per la loro misoginia e il loro moralismo. Ogni ragazza che aveva frequentato la casa di Arcore non era altro che una puttana. Donne che odiano le altre donne, potremmo dire. Comunque l’altalena delle sentenze andò così: condanna in primo grado, assoluzione in appello e cassazione. Naturalmente non è finita qui, perché da cosa nasce cosa. E Rubi bis e poi ter, e poi chissà. Così come la parte più infamante (e ridicola, se Silvio l’Imputato me lo permette) che, oltre che corrotto e puttaniere vuol vedere in Berlusconi un mandante di stragi mafiose. Il combinato disposto tra la procura di Palermo e quella di Firenze fa aprire tre volte il fascicolo. Ecco la cadenza. Indagato nel 1996, archiviato nel 1998. Indagato nel 2009, archiviato nel 2013. Indagato nel 2019, ancora indagato. Ma aspettiamo l’inevitabile terza archiviazione. Che barba, che noia. Questa è una parte della storia giudiziaria, cioè politica, di Silvio Berlusconi. Certo, insieme alle tante assoluzioni e proscioglimenti, ci sono le cause andate in prescrizione. Ma questo non è un problema dell’Imputato, ma della magistratura. Quella stessa che passa il tempo a occuparsi della propria carriera, dei propri guadagni e degli intrallazzi politici. La storia dell’Imputato Berlusconi finisce qui. Poi c’è quella del condannato. Che è politica nella sua parte penale, anche se è un tribunale civile a dirci che non ci furono imbrogli né opacità nella compravendita di diritti di film Usa. Ed è politica perché uno di quei giudici che condannarono Berlusconi in Cassazione ce lo ha detto chiaramente. Ma è ancor più politica la coda che seguì quella sentenza, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, la legge Severino dai risvolti assurdi, la sua applicazione retroattiva benché i maggiori costituzionalisti del Paese fossero più che perplessi sulla sua applicabilità a Berlusconi. E un signore che era il segretario del Pd e che si chiama Matteo Renzi, che oggi si dice solidale con il Berlusconi che fu vittima di un plotone di esecuzione. Ma che allora ne preparò uno suo personale, di plotoni, stimolando i suoi senatori a votare in fretta per cacciare Silvio il Condannato dal Senato. Anche questo fa parte delle ingiustizie politiche che Silvio patisce da trentasei anni.
Laudati: «Complotto contro Vendola per favorire Boccia alle primarie», scrive Giovanni Longo e Massimilano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Più che un complotto della D’Addario ai danni di Berlusconi, complotto che la giustizia ha già ritenuto inesistente, ce n’era stato uno ai danni di Nichi Vendola. Un doppio tentativo di delegittimare l’allora governatore, prima nel culmine delle indagini sulla sanità, poi alla vigilia delle elezioni primarie, che l’ex procuratore di Bari, Antonio Laudati, dice di aver sventato. A raccontarlo è lui stesso, nelle trascrizioni dei colloqui che un giornalista di «Panorama», Giacomo Amadori, ha registrato all’insaputa del magistrato. Il documento è stato depositato ieri a Lecce, dove Laudati è imputato per abuso d’ufficio e favoreggiamento, dall’ex pm Giuseppe Scelsi, che in questo troncone è parte civile: il Tribunale si è riservato di decidere. Per raccontare questa storia bisogna contestualizzarla. A gennaio 2010, Vendola - in cerca di riconferma - avrebbe dovuto sfidare alle primarie del centrosinistra Francesco Boccia, candidato del Pd. Laudati racconta dell’intervento di un «politico» («Non era del Pd») che avrebbe dato la notizia ad alcuni giornali. Laudati dice di essere stato chiamato da alcuni giornalisti («“No, noi non la possiamo scrivere, perché noi non abbiamo mai avuto conferma, anzi, il Procuratore ha smentito, eccetera”») e che gli stessi giornalisti si sarebbero accordati tra loro: «“Se lo scriviamo tutti insieme, (inc.) lo facciamo”. E allora quel giorno che cosa fa, si fa un lavoro da redazione di giornale». Vendola era stato ascoltato in Procura come testimone il 6 luglio 2009 nell’inchiesta sulla «cupola della sanità» condotta da Desirèe Digeronimo. Uno dei temi, a dirlo era stato lo stesso governatore, era appunto la nomina (mai avvenuta) di Giancarlo Logroscino a primario del Miulli di Acquaviva, nomina che Vendola avrebbe chiesto in una telefonata con l’allora assessore Alberto Tedesco. «Allora - racconta Laudati - i giornalisti che dicono? Diamo la notizia che è imputato per tentata concussione, come può essere questa tentata concussione per Logroscino, che è talmente una cazzata che uno che ci riflette, no, Vendola telefona, prima di tutto è una valutazione di discrezionalità amministrativa». La notizia su Vendola indagato per tentata concussione è pubblicata il 18 gennaio 2010, sei giorni prima delle primarie. Quel giorno, smentendo la circostanza, il governatore è sibillino: «Nella lotta politica, continuo ad essere contrastato con mezzi impropri». Anche la Procura di Bari, informalmente, fa subito sapere che la circostanza «non risulta». Parlando con il giornalista di Panorama, Laudati parla di «strumentalizzazione»: «Allora, Vendola io non lo riesco a fregare politicamente, perché è forte. Allora cerco la via giudiziaria. Io sono stato costretto a fare la smentita, e l’ho salvato. Perché siccome Vendola aveva fatto dimettere cinque assessori, se io avessi confermato: “Vendola è indagato”, Vendola dopo due secondi si doveva dimettere». Lo stesso problema, secondo l’allora procuratore, si era verificato nell’autunno precedente. L’11 novembre 2009 «Libero» aveva pubblicato la notizia di una iscrizione come indagato di Vendola, in base ad una informativa dei Carabinieri, sempre per tentata concussione. La Procura smentì immediatamente: Vendola «non è indagato» e a suo carico «attualmente non c’è alcun procedimento penale». «L’11 novembre - dice Laudati - viene fatta, come dire, confezionata ad hoc una informativa, viene registrata… E io lì ho sgamato tutto, avevo disposto la secretazione quando ho fatto il comunicato». Ovvero: il governatore era effettivamente indagato, ma non per tentata concussione e anzi per una vicenda su cui «ci sarà l'archiviazione a brevissimo». «L’informativa riguarda tutt’altro, è tutta un’altra storia. Anche lì una baggianata costruita ad arte, perché il problema di Vendola esiste. Su Vendola esisterà lo stesso problema che è esistito per Berlusconi per Mediaset, non poteva non sapere. Poi bisognerà vedere se è una responsabilità penale, se è una responsabilità politica». Sappiamo che l’inchiesta ha preso la seconda strada: la presunta associazione che pilotava le nomine nelle Asl, secondo l’accusa, faceva capo all’ex assessore Alberto Tedesco, che per questo è a giudizio. Ma in un troncone concluso in abbreviato, sei imputati della principale inchiesta sulla gestione della sanità pugliese sono stati assolti con formula piena. Tra le ipotesi scartate dai magistrati leccesi ci sono le pressioni che Laudati avrebbe esercitato nei confronti dei suoi pm: un esposto anonimo, infatti, ipotizzava che il capo della procura avesse «imposto» l’archiviazione delle indagini sul presidente della giunta regionale Nichi Vendola dopo aver ricevuto dalla Regione Puglia un finanziamento da 100mila euro per il convegno «Organizzare la giustizia», da lui voluto. Secondo gli inquirenti le ipotesi di reato sono «insussistenti». E le carte raccontano un retroscena inedito: nell’ambito di quelle indagini - che riguardavano la gestione delle nomine nelle Asl - la pm Desirèe Digeronimo voleva arrestare Vendola. «Nell'ambito del troncone investigativo assegnato alIa dott.ssa Digeronimo - è detto nella richiesta di archiviazione - era accaduto che quest'ultima avesse ricevuto una denuncia dei Carabinieri che, con riferimento aIle nomine di dirigenti ospedalieri, ipotizzavano il reato di concussione nei confronti di più persone, tra Ie quali il presidente Vendola. La dott.ssa Digeronimo aveva disposto l'iscrizione di tutti i denunciati nel registro delle notizie di reato ed aveva programmato di chiedere l'applicazione di una misura cautelare personale anche - tra gli altri - al presidente della Regione». L’inchiesta riguardava le presunte pressioni nelle nomine di primari e dirigenti della Asl, a carico di Vendola e altre 10 persone (tra cui l’ex assessore Alberto Tedesco). Dell’intenzione di procedere ad arresti la Digeronimo «aveva informato il procuratore (che invece non era stato informato preventivamente dell'iscrizione dell'on. Vendola e degli altri denunciati nel registro delle notizie di reato in quanto non era in sede quando era pervenuta l'informativa) ed aveva colto la preoccupazione del dott. Laudati per una eventuale fuga di notizie, perché, come le aveva scritto in un sms, se vi fosse stata fuga di notizia "sarebbero divenuti nemici"». La notizia il giorno dopo («puntualmente», commenta la procura di Lecce) è stata pubblicata sul quotidiano «Libero». Tuttavia, sono state le stesse dichiarazioni della Digeronimo a far cadere le accuse a Laudati: il procuratore «non aveva mai sollecitato o richiesto I'archiviazione nei confronti di Vendola e degli altri ed aveva sempre detto che lui voleva che si giungesse ad una decisione condivisa» tra tutti i pm assegnati al pool sanità. Nel pool (formato anche dai pm Francesco Bretone e Marcello Quercia) c’erano differenze di vedute, ma questo era già emerso. Ma c’è altro. «Copia della richiesta di archiviazione, poi accolta dal giudice per le indagini preliminari, era risultata in possesso dell' on. Vendola già il giorno dopo la sua sottoscrizione, benché dagli atti non risultasse né richiesta di copia, né autorizzazione al rilascio, né lo stesso rilascio. Ma, a tacere della impossibilità di identificare l'autore della copia e della sostanziale irrilevanza dell'omessa riscossione dei diritti di rilascio stante la modestia dell'ammontare di essi, la disponibilità della richiesta di archiviazione da parte dell'indagato non appare in contrasto con alcun segreto di indagine ed avergliela consegnata non integra alcun illecito penale». E il convegno di Bari? Anche «se da un canto c'e forse da rilevare la inopportunità di averne chiesto il finanziamento ad un ente il cui presidente (con altri esponenti politici e amministrativi) dal novembre 2009 era sottoposto ad indagini dalla Procura barese», secondo i Pm salentini «non è risultato alcun collegamento tra il finanziamento del convegno e la richiesta di archiviazione nei confronti dell'on. Vendola».
I magistrati, se non sono di sinistra, non meritano rispetto.
Occhi bendati su Laudati, scriveva Liana Milella sul suo Blog il 2 aprile 2013. "Certo che è davvero con la benda sugli occhi questa giustizia disciplinare del Csm, del procuratore generale della Cassazione, del ministro della Giustizia. Il caso Laudati - il tuttora capo della procura di Bari, per chi non se lo ricordi - fa davvero scuola. Scuola in negativo, s'intende. Dimostra che tutte le autorità che dovrebbero occuparsi di giustizia disciplinare per le toghe sono strabiche, o quanto meno, nel caso Laudati, si sono volutamente messe una benda sugli occhi. Quella stessa benda che invece non portano se c'è da guardare il famoso pelo nell'uomo che riguarda Antonio Ingroia. Per l'ex procuratore aggiunto di Palermo basta un aggettivo in più in una dichiarazione per far scattare subito la vigile attenzione del Guardasigilli Paola Severino e del procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani. Altrettanto accade per il pm Nino Di Matteo, che finisce isolato e nel mirino di Cosa nostra. Per Laudati invece non avviene nulla. È lì tranquillo al suo posto da oltre due anni. Un ex collega della procura come Pino Scelsi gli imputa scorrettezze gravi e che succede? Che il Csm lo manda assolto. Azione disciplinare? Neanche a parlarne. Nel frattempo si apre un'indagine a Lecce grazie alle intercettazioni inviate da Napoli che evidenziano un comportamento di Laudati nient'affatto commendevole. Logica vuole che, se non altro per un ovvio gesto di corretta trasparenza e perché l'onore qualcosa ancora conta nella vita, Laudati chieda di sua iniziativa il trasferimento. Nemmeno a parlarne. Lecce ipotizza reati come l'abuso d'ufficio e il favoreggiamento. Non bazzecole. Per chi poi? Laudati avrebbe favorito Berlusconi, mentre l'indagine che riguarda l'ex premier e Tarantini, l'uomo delle escort scelte per il sovrano, sta proprio a Bari, in quella procura dove Laudati continua a svolgere funzioni di capo. Ma non è finita. Lecce notifica la chiusura delle indagini, la posizione di Laudati si aggrava, ma continua a non succedere niente, Laudati è sempre al suo posto. Poi arriva la richiesta di rinvio a giudizio per quei gravi reati. Scelsi, dunque, aveva visto e detto il vero. Che fa il Csm? Decide di sentire Laudati. Che fanno il Guardasigilli e il pg della Cassazione? Ancora niente. In un Paese dov'è stata approvata una pur del tutto insufficiente legge sulla non candidabilità dei condannati in Parlamento, dove perfino un partito come il Pdl è stato costretto a non mettere in lista personaggi con pendenze giudiziarie ancorché non definitive come Dell'Utri, Cosentino, Papa, Scajola ed altri, che cosa fa la magistratura? Consente che a capo di una grande procura come Bari ci stia ancora il signor Laudati. La prima domanda da farsi è questa: ma chi è il santo o chi sono i santi che proteggono Laudati? La seconda: non si lamentino poi le toghe quando in futuro si discuterà di modificare il sistema della giustizia disciplinare. La terza: non crede il Guardasigilli Severino di svolgere il suo lavoro in via Arenula vestendo troppo i panni dall'avvocato penalista? Forse, per veder traslocare Laudati, dovremo aspettare il terzo grado di giudizio tra una decina d'anni?"
Invece, d’altro canto…
Panorama: Sino ad ora, almeno ufficialmente, nessuna toga italiana si è pronunciata sulla vicenda della foto pubblicata da Panorama.it che ritrae Nichi Vendola seduto accanto al giudice Susanna De Felice che il 31 ottobre 2012 lo ha assolto da un’accusa di abuso d’ufficio. Un silenzio che non hanno rotto neppure i componenti del Consiglio superiore della magistratura o i vertici dell’Associazione nazionale magistrati o i rappresentanti delle diverse correnti solitamente così prodighi di interventi su ogni genere di questione, compresa la condizione degli operai in Cina. Nessuno si è espresso, tranne un giudice, di Massa Carrara, Cosimo Maria Ferri, segretario generale di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, che ha affidato alle agenzie questa nota: «Sul rapporto politica e giustizia e su ciò che è accaduto e sta succedendo a Bari il Csm mostra distacco e non interviene. I cittadini non comprendono come gli stessi protagonisti possano passare dalle aule di giustizia, dove si ricerca la verità, fine primario del processo penale, allo scontro politico».
A chi si riferisce Ferri? Ai sei magistrati immortalati a pranzo con Vendola e i suoi parenti? Il segretario di Mi non lo precisa, ma nel testo prolunga il suo pensiero: «Tutto ciò fa male alla magistratura e come sempre c'è molta ipocrisia perché il Csm invece di intervenire e difendere l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, si è preoccupato di aprire una pratica di incompatibilità nei confronti del procuratore della Repubblica (Antonio Laudati ndr) che ha cercato e sta cercando di organizzare il proprio ufficio giudiziario nell'interesse di tutti i cittadini».
Un lavoro che era già stato approfonditamente messo sotto osservazione da una lunga ispezione ministeriale, conclusasi con un giudizio favorevole. Chiude Ferri: «Allora la domanda è legittima e va reiterata: perché il Csm sta guardando solo nella direzione sbagliata? Magistratura indipendente chiede chiarezza e trasparenza a 360 gradi».
Si attende risposta.
E poi…
I colloqui di Laudati: «A Bari una lobby di giudici e politici», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Non solo il racconto di un’inchiesta su un presunto «complotto istituzionale», fascicolo reso noto da Panorama ma che, in realtà, non sarebbe mai esistito. Nelle frasi riferite dall’ex procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati a un cronista del settimanale, che le avrebbe registrate di nascosto, emergono giudizi non lusinghieri sui colleghi magistrati in servizio a Bari. Le conversazioni, che sarebbero avvenute a Bari tra fine gennaio e inizio febbraio 2010, sono state depositate in un procedimento civile, a Milano, dove si discute in appello sul risarcimento danni che Patrizia D’Addario, reclutata da Gianpaolo Tarantini per partecipare a feste nelle residenze dell’allora premier Berlusconi, ha chiesto a Panorama. In primo grado la donna, assistita dall’avvocato Fabio Campese, ha ottenuto un risarcimento di 55mila euro. Sulla base delle trascrizioni di quei colloqui la D’Addario ha anche depositato una querela per diffamazione ai danni di Laudati che la definisce una «ricattatrice». E così si scopre che l’ex procuratore barese definisce, in quelle conversazioni, «disastrosa» la situazione nel suo ufficio. Basti pensare che, a suo giudizio, «c’era una guerra tra lobby politiche e giornalistiche, dalla Procura di Bari si fa carne da macello» perché era «diciamo permeabile». Il procuratore avrebbe illustrato al cronista, Giacomo Amadori una «questione inesplorata», ovvero «il rapporto che lui (Tarantini, ndr) aveva con l’ambiente giudiziario, a queste feste quanti magistrati ci andavano?». Riferendo una frase di tale Cosimo, Laudati dice: «Lì non dovevate mandare un procuratore, dovevate togliere cinquanta magistrati». È l’intero contesto a fare storcere il naso al magistrato oggi in servizio alla Dna, imputato a Lecce con l’accusa di avere favorito Berlusconi e Tarantini durante le indagini sulle escort. Laudati parla del presidente del Tribunale che è stato presidente della Regione, di Emiliano che «va a fare il sindaco», di Maritati che «fa le indagini su D’Alema e va a fare il sottosegretario, va a fare il parlamentare». Di conseguenza, dice senza sapere di essere registrato, «è ovvio che esiste un cordone ombelicale. Penso che dopo il Csm dovrà farsi una sessione speciale».
Ed ancora. Caso escort, Laudati rinviato a giudizio, rallentò l'inchiesta per favorire Gianpi. L'ex procuratore di Bari è accusato di abuso di ufficio e favoreggiamento di Tarantini e Berlusconi. Il giudice Vergine: "Decisione sofferta", scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. L'ex procuratore di Bari Antonio Laudati è stato rinviato a giudizio con le accuse di abuso d'ufficio e favoreggiamento personale di Giampaolo Tarantini a causa di presunti illeciti commessi nella gestione delle inchieste baresi sulle escort portate dallo stesso Tarantini nelle residenze dell'ex premier Silvio Berlusconi. Il gup di Lecce Cinzia Vergine, chiamata a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura nei confronti di Laudati (oggi in servizio presso la Procura generale della corte d'appello di Roma) ha sciolto la riserva dopo quattro ore di Camera di Consiglio, con una decisione che lo stesso giudice ha definito "sofferta". L'ex capo degli inquirenti baresi non è arrivato a Lecce per seguire la lettura della sentenza, al contrario di quanto aveva fatto in tutte le altre udienze, nel corso delle quali ha anche preso la parola per rilasciare dichiarazioni spontanee e chiarire la sua posizione. Laudati ha ripetutamente sostenuto di avere sempre agito nel rispetto delle regole e di non avere in alcun modo ritardato le indagini che l'allora pm Giuseppe Scelsi stava conducendo sulle escort che avrebbero frequentato Berlusconi per il tramite di Tarantini. Il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, e l'aggiunto Antonio De Donno sono invece convinti che l'intervento di Laudati sulla polizia giudiziaria a cui erano state delegate le indagini sia stato pesante e comunque finalizzato a rallentare l'inchiesta, al fine di favorire Tarantini e indirettamente Berlusconi. Una tesi sostenuta anche da Scelsi (a sua volta indagato per abuso d'ufficio, per avere illecitamente intercettato la collega Desiree Digeronimo e l'amica Paola D'Aprile, che ha scelto di essere giudicato con il rito abbreviato), il quale ha portato agli inquirenti salentini un'ampia documentazione finalizzata a provare i presunti abusi commessi dal suo capo. Gli ultimi atti sono stati depositati dai legali di Scelsi, Luigi Covella e Andrea Sambati, durante l'udienza del 9 gennaio. A quelle memorie i difensori di Laudati, Andrea Castaldo e Angelo Pallara, hanno ribattuto con ulteriori indagini difensive, depositate nei giorni scorsi presso l'ufficio del gup Cinzia Vergine. È stata lei a disporre anche il rinvio a giudizio di sei giornalisti, accusati di diffamazione nei confronti dell'ex procuratore di Bari, che si è costituito parte civile contro di loro. La Digeronimo compare invece come parte civile in relazione alla posizione di Laudati, mentre Scelsi è solo parte offesa. Il processo a carico del magistrato e dei sei giornalisti inizierà il 5 maggio davanti ai giudici della Seconda sezione penale del Tribunale di Lecce.
L'ex procuratore di Bari Antonio Laudati, scrive invece “La Gazzetta del Mezzogiorno”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Lecce Cinzia Vergine per abuso d’ufficio e favoreggiamento personale nell’ambito delle inchieste baresi sul caso delle escort portate da Gianpaolo Tarantini alle feste dell’ex premier Silvio Berlusconi. Laudati è accusato di abuso d’ufficio per aver indagato “illecitamente” su due magistrati del suo ufficio, Giuseppe Scelsi (ora sostituto pg a Bari) e Desirèe Digeronimo (candidato sindaco del capoluogo pugliese), e di favoreggiamento personale aggravato per aver aiutato Gianpaolo Tarantini e, indirettamente, l’allora premier Silvio Berlusconi ad “eludere le indagini” sulle escort che l'imprenditore barese aveva portato nelle residenze dell’allora capo del governo tra il 2008 e il 2009. Assieme a Laudati sono stati rinviati a giudizio per diffamazione ai danni dell’allora procuratore di Bari quattro giornalisti e due direttori di giornali. Il processo a carico dei sette imputati comincerà il prossimo 5 maggio davanti ai giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Lecce, competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio nel distretto della Corte d’appello di Bari. Nel processo è anche imputato per abuso d’ufficio, per fatti estranei al processo escort, anche il magistrato Scelsi che sarà processato con rito abbreviato dal prossimo 27 marzo, sempre dal gup Vergine. A Scelsi viene contestata la vicenda legata a intercettazioni telefoniche disposte d’urgenza dal pm per danneggiare – secondo l'accusa – la collega Digeronimo che assieme a lui conduceva indagini sulla sanità pugliese e che aveva intercettato casualmente il fratello di Scelsi, Michele, medico, mentre questi parlava con l’allora assessore pugliese alla Sanità Alberto Tedesco, indagato dalla Digeronimo. Scelsi – secondo l'accusa – temendo che in base a questa intercettazione Digeronimo potesse sottrargli un’altra indagine sulla sanità, intercettò con decreto d’urgenza i telefoni del medico barese Paola D’Aprile che – secondo i pm salentini – sapeva amica di Digeronimo e di Lea Cosentino, soprannominata dalla stampa Lady Asl, affinchè potesse risultare il rapporto di amicizia e la collega fosse costretta ad astenersi dal fascicolo a carico di Tedesco. «Si è trattato di una decisione sofferta e faticosa per l’altissima levatura morale e professionale di tutte le persone coinvolte mandate a giudizio». Lo ha detto ai giornalisti il gup del tribunale di Lecce Cinzia Vergine dopo aver disposto il rinvio a giudizio dell’ex procuratore di Bari, Antonio Laudati, ora sostituto pg presso la Corte d’appello di Roma, e di sei giornalisti. Oltre all’ex procuratore di Bari, Antonio Laudati, il gup del tribunale di Lecce Cinzia Vergine ha rinviato a giudizio quattro giornalisti accusati di diffamazione a mezzo stampa ai danni di Laudati e per omesso controllo il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, e l’ex direttore del Corriere del Mezzogiorno, Marco De Marco. Dal 5 maggio 2014 prossimo dinanzi al Tribunale di Lecce, oltre a Laudati, accusato di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale, comparirà il cronista Gianni Lannes, accusato di aver offeso in un articolo la reputazione di Laudati, del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, e dell’allora capo di gabinetto di quest’ultimo, Francesco Manna. L’articolo pubblicato sulla testata on line Costruendo l’Indro, faceva riferimento ad un finanziamento concesso dalla Regione ad un convegno sulla giustizia organizzato a Bari da Laudati. Gli altri articoli ritenuti dalla pubblica accusa diffamatori per la reputazione del procuratore Laudati sono quelli della cronista di Repubblica-Bari, Mara Chiarelli, (di omesso controllo risponde il direttore del quotidiano Ezio Mauro), di Massimiliano Scagliarini de 'La Gazzetta del Mezzogiorno' e di Nazareno Dinoi del Corriere del Mezzogiorno-Puglia (di omesso controllo è accusato l’allora direttore della testata, Marco De Marco). La vicenda attribuita a Scelsi è estranea alle indagini escort e riguarda intercettazioni disposte d’urgenza dal pm per danneggiare – secondo l’accusa – la collega Digeronimo che assieme a lui conduceva indagini sulla sanità pugliese e che aveva intercettato casualmente il fratello di Scelsi, Michele, medico, mentre questi parlava con l’allora assessore pugliese alla sanità Alberto Tedesco, indagato dalla Digeronimo. Scelsi - secondo l’accusa – temendo che in base a questa intercettazione Digeronimo potesse sottrargli un’altra indagine sulla sanità, intercettò "per ripicca" con decreto d’urgenza i telefoni del medico Paola D’Aprile che sapeva amica di Digeronimo e di Lea Cosentino, ex dg della Asl Bari e soprannominata dalla stampa Lady Asl, affinchè potesse risultare il rapporto di amicizia e la collega fosse costretta ad astenersi dall’inchiesta Tedesco. Diverse le accuse mosse a Laudati, al quale viene contestato di aver disposto "arbitrariamente", il 26 giugno 2009, due mesi e mezzo prima di insediarsi nell’incarico di procuratore di Bari, che le indagini sulle escort "venissero sospese e non si adottasse alcuna iniziativa fino a quando non avesse assunto le funzioni" di capo della procura. L’incontro avvenne nella scuola allievi della Guardia di finanza di Bari alla presenza del pm Scelsi e di ufficiali della Gdf. Dando quelle disposizioni - secondo l’accusa – Laudati impedì "l'assunzione di sommarie informazioni dalle altre escort non ancora ascoltate" e causò "ritardo ed intralcio nello svolgimento delle investigazioni". In questo modo il procuratore – è scritto negli atti – "aiutò Tarantini e gli altri indagati" ad "eludere le indagini" nel procedimento escort nel quale "era coinvolto quale fruitore delle prestazioni sessuali il premier Silvio Berlusconi (al fine di favorire indirettamente quest’ultimo preservandone l’immagine istituzionale) ed aiutato anche quest’ultimo ad eludere le suddette indagini, dirette ad accertare anche l’eventuale suo concorso nei suddetti reati". Laudati dovrà difendersi anche dall’accusa di abuso d’ufficio ai danni dei pm Digeronimo (poi trasferita alla procura di Roma e ora candidato sindaco di Bari) e Scelsi che sono stati - secondo l’accusa – "illecitamente sottoposti da parte della Gdf ad investigazioni e ad abusivo controllo della loro attività professionale".
«Desta non poche perplessità apprendere che, insieme con l’ex procuratore di Bari, Antonio Laudati, il gup del tribunale di Lecce ha rinviato a giudizio anche i giornalisti che si occuparono della vicenda, contestando loro il reato di diffamazione a mezzo stampa». Lo afferma in una nota il presidente dell’Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso. «Dalla lettura del provvedimento – spiega Lorusso – appare chiaro che l’unica colpa dei colleghi Massimiliano Scagliarini, Mara Chiarelli e Nazareno Dinoi, della Gazzetta del Mezzogiorno, Repubblica e Corriere del Mezzogiorno, è quella di aver pubblicato il contenuto degli atti su cui si basava il giudizio, peraltro non coperti da segreto istruttorio. In questo modo, è come se il gup sostenesse che la notizia di reato in cui lei stessa ha ravvisato possibili profili di colpevolezza a carico dell’ex procuratore di Bari potrebbe avere anche un contenuto diffamatorio. Delle due l’una. Non si capisce, infatti, come le due ipotesi accusatorie – quelle a carico del dottor Laudati e quelle a carico dei giornalisti – possano stare in piedi contemporaneamente. A meno che, nel disporre il rinvio a giudizio, il gup di Lecce non abbia inteso contestare la pubblicazione del contenuto di atti di indagine». «Nell’esprimere solidarietà ai colleghi rinviati a giudizio, il sindacato dei giornalisti pugliesi, pur non entrando nel merito della vicenda, non può non ricordare – conclude – che è dovere dei giornalisti pubblicare le notizie, anche quelle coperte da segreto istruttorio, perchè esiste il diritto insopprimibile dei cittadini a essere informati. A nessuno - neanche all’autorità giudiziaria – è consentito anche solo tentare di comprimere il diritto di cronaca».
Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”, Lun, 26/09/2011 con Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.
Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.
TOGHE CONTRO. La giustizia a Bari è una macchietta. Se a Palermo ci sono i clan, a Bari vi è un nido di vipere ed a Lecce son felici di metter dito. Antonio Laudati lascia la guida della Procura di Bari. Il Plenum del Csm ha accolto la sua richiesta di essere destinato alla Procura Generale presso la Corte d'Appello di Roma, con funzioni di sostituto. Verrà ora quindi archiviata la procedura di trasferimento d'ufficio per incompatibilità che gli era stata aperta dalla Prima Commissione del Csm. Laudati è indagato a Lecce per favoreggiamento nei confronti di Paolo Tarantini e di Silvio Berlusconi in relazione all'inchiesta sulle escort. "Non è per nulla facile, perché quella richiesta di trasferimento non l'avrei mai firmata e avrei voluto continuare a servire questa Comunità. Ho dovuta presentarla non per timore di procedure di incompatibilità, dalle quali, per gli stessi fatti, ero già stato prosciolto, ma per un senso di dovere istituzionale che avverto profondamente". Lo afferma, in una nota, il procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, a proposito dell'accoglimento da parte del plenum del Csm della sua richiesta di trasferimento. Il dirigente dell'ufficio della Procura del capoluogo pugliese è stato assegnato alla Procura generale di Roma, "una delle sedi da me indicate", sottolinea. "Non appena saranno espletate le procedure previste - aggiunge – lascerò la Procura e i validissimi colleghi, funzionari e dipendenti amministrativi con i quali ho fatto squadra insieme alle Forze dell'Ordine, ma soprattutto dovrò salutare i cittadini di Bari e del Distretto giudiziario che per circa quattro anni mi hanno accolto e fatto sentire parte integrante di un territorio straordinariamente ricco di risorse umane e professionali". Laudati evidenzia che "la richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Lecce, mi ha convinto che dovevo assolutamente mettere al riparo l'Ufficio di Bari da ogni ulteriore danno di immagine malgrado io consideri le accuse formulate radicalmente infondate".
Il procuratore di Bari e un ex pm imputati, un altro pubblico ministero parte civile contro entrambi e Palazzo Chigi citato come responsabile civile per l'eventuale risarcimento dei danni subiti da un medico intercettato «per ripicca» durante la guerra tra le toghe, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I veleni che da quasi quattro anni scuotono la procura di Bari approdano per la prima volta davanti al gup di Lecce per l'udienza preliminare al procuratore di Bari, Antonio Laudati, e all’ex pm Giuseppe Scelsi, da qualche tempo sostituto presso la procura generale barese. Al centro della vicenda, le indagini sulla sanità pugliese e l’inchiesta sulle escort che Gianpaolo Tarantini, tra il 2008 e il 2009, ha portato nelle residenze dell’allora premier Silvio Berlusconi, e che il procuratore Laudati è accusato di aver rallentato per favorire Gianpi e, indirettamente, l’ex capo del governo. Basta leggere gli atti di costituzione di parte civile depositati, in apertura dell’udienza preliminare dinanzi al giudice Cinzia Vergine, per capire che tra le toghe baresi è arrivata l’ora della resa dei conti. Il primo a costituirsi parte civile contro il suo capo e l'ex collega Scelsi, è stato il pm Desireè Digeronimo, autore delle indagini sulla sanita» che hanno coinvolto anche il governatore della Puglia Nichi Vendola e l’ex senatore del Pd ed ex assessore pugliese alla Sanità Alberto Tedesco. Su Digeronimo e Scelsi – secondo l’accusa – Laudati ha indagato «illecitamente» impiegando un «contingente» di militari della Guardia di Finanza. Scelsi fu il primo a denunciare il suo capo, accusandolo di aver rallentato le indagini sulle escort. Ne seguì una bufera che la procura di Lecce, titolare ad indagare sui magistrati baresi, ha tradotto in accuse ben precise: favoreggiamento personale e abuso d’ufficio per Laudati; abuso d’ufficio per Scelsi. Il procuratore Laudati è accusato di aver convocato, il 26 giugno 2009, due mesi prima del suo insediamento a Bari, una riunione in una caserma con il pm Scelsi e ufficiali della Gdf durante la quale dispose che le indagini sulle escort «venissero sospese e non si adottasse alcuna iniziativa fino a quando non avesse assunto le funzioni» di capo della procura. In questo modo - secondo la procura di Lecce - ha «ritardato ed intralciato» le investigazioni aiutando Tarantini e Berlusconi «ad eludere» le indagini. Oltre alla costituzione di parte civile del pm Digeronimo e di Laudati contro i sei giornalisti accusati di averlo diffamato, il gup ha ammesso quella del medico barese Paola D’Aprile, ritenuta amica di Digeronimo e dell’ex dg della Asl Bari Lea Cosentino, conosciuta come Lady Asl. D’Aprile vuol chiedere i danni a Scelsi e ha per questo citato come responsabile civile la Presidenza del Consiglio dei ministri, per obbligarla in solido con l’imputato. La vicenda contestata a Scelsi non riguarda l’indagine escort ma intercettazioni telefoniche disposte d’urgenza dal pm per danneggiare – secondo l'accusa – la collega Digeronimo che assieme a lui conduceva indagini sulla sanità e che aveva intercettato casualmente il fratello di Scelsi, Michele, medico, mentre questi parlava con l'allora assessore Tedesco, indagato dalla Digeronimo. Scelsi - secondo l’accusa – temendo che Digeronimo potesse sottrargli un’altra indagine sulla sanità, intercettò con decreto d’urgenza i telefoni di Paola D’Aprile affinchè – secondo i pm salentini - potesse risultasse il rapporto di amicizia e la collega fosse costretta ad astenersi dal fascicolo a carico di Tedesco.
«Per l'ennesima volta apprendo dalla stampa delle iniziative giudiziarie prese nei miei confronti dalla Procura di Lecce: dall'iscrizione nel registro degli indagati (giugno 2011 sulla base di un esposto anonimo), passando per i due avvisi di chiusura indagine (25 settembre 2012 e 10 gennaio 2013)»: comincia così il commento del procuratore capo di Bari, Antonio Laudati a poche ore dalla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Lecce che lo ha indagato con l'accusa di aver ostacolato le indagini sul giro di escort che Giampaolo Tarantini reclutava per le feste nella residenza romana di Silvio Berlusconi. Rinvio a giudizio che riguarda anche il suo sostituto, Giuseppe Scelsi. «Questa mattina - aggiunge Laudati - dopo aver letto che la Procura di Lecce ha inviato nella tarda serata di ieri, 18 marzo 2013, a Roma all'Ufficio di presidenza del Csm la richiesta di rinvio a giudizio a mio carico ho immediatamente chiamato il mio avvocato di Lecce, scoprendo che anche lui ne era a conoscenza solo per aver letto il quotidiano La Repubblica. Le indagini preliminari a mio carico non hanno garantito né celerità né riservatezza, come la normativa impone - conclude il capo della procura di Bari - A questo punto, confidando nella correttezza della Magistratura della quale mi onoro di far parte, sto valutando tutte le iniziative da prendere».
Ricordiamo il processo "Arcobaleno". Dopo oltre 12 anni dagli arresti si è concluso, con la dichiarazione di non luogo a procedere per avvenuta prescrizione di tutti reati, il processo sulla gestione della «Missione Arcobaleno», l'operazione umanitaria voluta nel 1999 dal governo D'Alema in Albania per sostenere i kosovari in fuga dalla loro terra bombardata dalla Nato in conseguenza dell'intervento contro la Serbia, scrive “Il Corriere della Sera”. Lo ha deciso il tribunale di Bari su richiesta della procura che nel novembre scorso, d'accordo con i difensori dei 17 imputati, aveva chiesto ai giudici della seconda sezione un rinvio preliminare ai fini di una declaratoria predibattimentale della prescrizione di tutti i reati, l'ultimo dei quali si è «estinto» il 28 aprile scorso. Il processo - cominciato il 10 febbraio 2011 - non è quindi mai andato oltre le questioni preliminari anche perchè vi era un lasso di tempo troppo breve per istruire un dibattimento che contava 17 imputati e oltre 100 testimoni. I giudici hanno dichiarato anche l'estinzione della misura cautelare a carico dell'albergatore albanese Ramhi Isufi per il reato di peculato aggravato. Isufi era sfuggito nel 2000 alla cattura e da allora era latitante. Secondo l'accusa, gli italiani avrebbero aiutato l'albanese ad impossessarsi di centinaia di quintali di pasta e prodotti alimentari vari destinati ai fuggiaschi. Il 20 gennaio del 2000 furono invece arrestati: Massimo Simonelli (dipendente della Protezione civile e capo della missione italiana), Luciano Tenaglia, capo del campo profughi di Valona, Silvia Lucatelli e Alessandro Mobobno, dipendente e volontario della Protezione civile. Tutti erano accusati di occultamento, falso, uso distorto di atto pubblico. Tra i 17 imputati a processo l'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Franco Barberi, all'epoca dei fatti capo dipartimento della Protezione civile. Barberi era accusato di associazione per delinquere assieme al suo segretario Roberto Giarola, a Simonelli, Tenaglia, Mobono, Emanuele Rimini, Luca Provolo e Antonio Verrico. Nei loro confronti si erano costituiti parte civile Palazzo Chigi e il Viminale, che non saranno risarciti. L'accusa era oggi rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Pasquale Drago, che ha ereditato il fascicolo istruito da Michele Emiliano (poi sindaco di centrosinistra di Bari) e passato, dopo l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, al pm Marco Dinapoli (poi procuratore di Brindisi). Dal 5 febbraio 2009, data prevista per l'inizio del processo, il collegio dei giudici è cambiato quattro volte e la prima udienza è stata rinviata sette volte in due anni.
Ed a proposito delle punizioni. La prima commissione del Csm ha ascoltato i pm della Procura di Bari Desirèe Digeronimo e Francesco Bretone, il procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno e il giudice Antonio Diella, presidente aggiunto dell’ufficio gip-gup del Tribunale di Bari. Palazzo dei Marescialli sta verificando se sussistano i presupposti per un trasferimento d’ufficio per incompatibilità del pm di Bari Digeronimo, che insieme al collega Bretone e all’aggiunto Bruno rappresentava l'accusa nel processo contro il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. A sollecitare la pratica sul magistrato barese erano stati i togati di Area, dopo che il pm Digeronimo aveva, assieme al collega Francesco Bretone, inviato al pg, al procuratore capo e a uno degli aggiunti di Bari un esposto sul giudice Susanna De Felice, che ha assolto Vendola. Nell’esposto i due pm di Bari rilevavano che il giudice De Felice è amica della sorella di Vendola. Il giudice aveva già sollevato la questione al suo superiore Diella, che non aveva ritenuto di sostituirla nella trattazione del processo. Il Csm sta ascoltando i magistrati baresi nell’ambito di una fase preliminare all’eventuale apertura di un procedimento per trasferimento d’ufficio.
Dopo le polemiche e l’apertura di una inchiesta da parte della Procura di Lecce, adesso è la prima commissione del Consiglio superiore della Magistratura ad occuparsi della sentenza di assoluzione di Nichi Vendola e della presunta amicizia - sostenuta in un documento dai pubblici ministeri Desirée Digeronimo e Francesco Bretone - tra la sorella del governatore pugliese, Patrizia Vendola e la giudice Susanna De Felice che pronunciò quella sentenza, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”. Infatti, sono stati ascoltati a Roma il capo dell’ufficio gip-gup, Antonio Diella, il procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno e Digeronimo e Bretone. Massimo riserbo su cosa sia stato riferito dai quattro magistrati ai componenti della prima commissione del Csm. A chiedere di avviare una pratica su Digeronimo per verificare se esistano i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale erano stati due componenti togati del Csm appartenenti alla corrente Area. Al centro delle audizioni e della nuova querelle c’è la lettera riservata con la quale Digeronimo e Bretone, lo scorso novembre, all’indomani dell’assoluzione del governatore Vendola dall’accusa di abuso d’ufficio, manifestarono dubbi sull’imparzialità della giudice per la sua presunta amicizia con Patrizia Vendola.
Ricostruiamo la vicenda. Il 31 ottobre 2012, la giudice De Felice assolse il presidente della Regione Puglia e Lea Cosentino, ex direttore generale dell’Asl Bari. Qualche giorno dopo, i due pubblici ministeri titolari dell’indagine inviarono una lettera al procuratore generale, Antonio Pizzi, al procuratore di Bari, Antonio Laudati e per conoscenza all’aggiunto Giorgio Lino Bruno con la quale i due magistrati segnalavano un’amicizia tra la giudice che si era occupato del caso e la sorella del governatore. Secondo Bretone e Digeronimo, le due donne sarebbero legate da «un’amicizia diretta» e da «frequentazione di amici in comune». Per questo motivo, a loro dire la giudice si sarebbe dovuta astenere dal processo. I due pubblici ministeri motivarono la scelta di scrivere e trasmettere la lettera «in modo da consentire di attivare, ove lo ritengano, i poteri loro attribuiti di vigilanza e controllo». I magistrati baresi spiegarono anche di aver sollevato il caso dopo l’assoluzione perché, sostenevano, soltanto dopo il processo avrebbero avuto contezza che l’amicizia tra il giudice e la sorella di Vendola fosse cosa nota a Bari.
La voce di una presunta conoscenza tra le due donne, però, pare girasse da diverso tempo nei corridoi della Procura, tanto che lo scorso settembre, un mese prima della sentenza, era stata la stessa De Felice a prendere carta e penna per fare presente al capo del suo ufficio, Antonio Diella, di conoscere la sorella del governatore. Non di esserle amica, ma di averla incontrata a un paio di cene una delle quali proprio in casa di Digeronimo. La lettera dei due pubblici ministeri sollevò un polverone: il procuratore generale Pizzi avviò gli accertamenti e ascoltò i capi degli uffici, predisponendo una relazione finale che dovrebbe essere già stata trasmessa a Lecce e, probabilmente, a Roma, proprio al Consiglio superiore della magistratura.
Il magistrato denunciata dalle colleghe: «Non doveva giudicare Nichi», scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Il giudice che ha assolto Nichi Vendola per la storiaccia del concorso da primario all'ospedale di Bari finisce sotto inchiesta. Al gip Susanna De Felice è dedicato un fascicolo ad hoc aperto a Lecce, non si sa se d'ufficio o dopo la denuncia dei pm titolari dell'inchiesta su Nichi che avevano (invano) chiesto il rinvio a giudizio per il leader di Sel, e in subordine s'erano affrettati a denunciare che lo stesso gip si sarebbe dovuto astenere perché amico della sorella dell'indagato eccellente e sempre a loro dire in rapporti pure con l'ex pm e senatore Pd Carofiglio, marito della pm barese Pirrelli. L'indagine sulla gip è emersa per caso, con un appunto del procuratore Cataldo Motta scritto in calce all'avviso di chiusura indagini inviato ai due protagonisti della guerra alla procura di Bari: il capo Laudati e l'ex aggiunto Scelsi. E si rifà a una lettera, depositata a Lecce dalla pm Digeronimo, nella quale spiega che per ovvii motivi insieme al collega Bretone si asterrà dalle indagini su tre filoni di sanità (in uno dei quali è indagato ancora il governatore). Proprio questa lettera, scrive a mano il procuratore Motta, va allegata al fascicolo intestato «contro De Felice Susanna», il gip di Vendola, amica della sorella di Nichi. Proprio in quest'inchiesta avviata dai pm di Lecce è stata interrogata come persona informata sui fatti anche Patrizia Vendola. Oggetto le accuse, nemmeno tanto velate, dei pm Digeronimo e Bretone che al procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, nero su bianco l'avevano messa così: «Già prima del processo eravamo a conoscenza che la dottoressa De Felice fosse amica della sorella di Vendola. Le lega un'amicizia diretta e amici comuni come il senatore Gianrico Carofiglio e la moglie dottoressa Pirrelli, sostituto di questo ufficio, entrambi amici stretti di Patrizia Vendola» come peraltro confermato da Carofiglio in un'intervista a Repubblica il 3 aprile 2009. Nel carteggio a Laudati i pm baresi spiegano di non aver ricusato formalmente il gip per il troppo rispetto che nutrivano nei suoi confronti. Senonché, dopo le uscite di Vendola che annunciava urbi et orbi che si sarebbe dimesso in caso di condanna («Questo comportamento ha costituito a nostro giudizio un'indebita pressione su un giudice che in caso di condanna avrebbe determinato l'uscita dalla scena politica del fratello della sua amica») molti colleghi di Bretone e Digeronimo, alla luce dell'assoluzione, «ci hanno chiesto come fosse stato possibile che a giudicare il governatore fosse stata un'amica della sorella di Vendola». Il gip, in una contro-nota all'aggiunto Divella, a fronte di voce che le arrivavano all'orecchio a proposito di un'amicizia con Patrizia Vendola specificava di non essere amica della sorella di Nichi ma di averla conosciuta proprio a casa della sua accusatrice, la Digeronimo. E quest'ultima ha sentito il bisogno di precisare al procuratore di Lecce che dal 2009 non intrattiene più alcun rapporto con la sorella di Nichi e con i coniugi Carofiglio «all'epoca miei amici», e che soprattutto «non ho mai avuto rapporti di frequentazione diretta con la collega Susanna De Felice».
Patrizia Vendola, sorella di Nichi, è stata sentita dai giudici in merito alla sua amicizia con Susanna De Felice, il giudice che nell’ottobre 2012 ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio. A rivelarlo è un articolo del settimanale Panorama, che racconta il giro di frequentazioni della sorella del leader di Sel, vicina a molti magistrati della procura di Bari, che poi ha assolto il governatore. Vendola, dal canto suo, smentisce e querela il settimanale della Mondadori. Ma vediamo i fatti. Il 31 ottobre dello scorso anno Nichi Vendola viene assolto con formula piena dal tribunale di Bari «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo. A puntare il dito contro il governatore era stata un’ex dirigente dell’Asl del capoluogo pugliese, Lea Cosentino, a suo tempo sollevata dal suo incarico proprio da Vendola. La richiesta dell’accusa nei confronti di Nichi è pesante: 20 mesi di reclusione. Vendola, che ha appena dato vita all’alleanza di centrosinistra insieme al Pd, però afferma con forza la sua innocenza: «Se verrò condannato, lascerò la politica», disse Nichi, prima di essere assolto. A dicembre, però, il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, apre un fascicolo proprio sulla De Felice, il giudice che ha assolto il governatore. Lo spunto arriva proprio dai due pm che hanno indagato Vendola: Desirèe Di Geronimo e Francesco Bertone. La Di Geronimo, tra l’altro, è stata per anni anche lei molto amica della sorella del governatore, come testimoniano alcune immagini su Facebook. E il 31 gennaio Patrizia Vendola viene convocata in procura per dare spiegazioni sulla sua amicizia con la De Felice. Quello che vogliono capire è se tra le due donne, la sorella di Vendola e il giudice, esistesse un’amicizia che possa gettare ombre sulla sentenza di assoluzione del governatore. E davanti ai pm la sorella dei Vendola avrebbe ammesso la conoscenza con la De Felice, specialmente nel periodo dal 2004 al 2009, in seguito alle frequentazioni con Carofiglio e sua moglie, Francesca Pirrelli, altra pm del capoluogo pugliese. «Ho condiviso amici e feste con De Felice per diversi anni, con una cadenza di circa una volta al mese, fino al 2009. Dopo ci saremmo viste cinque o sei volte, non di più», ha detto Patrizia Vendola ai magistrati. Insomma, la frequentazione c’era, anche con il compagno della De Felice, il magistrato Achille Bianchi, anch’egli amico di Carofiglio e della moglie. Nulla di male, per carità. Il problema, però, si pone se si viene a scoprire che un giudice che assolve una determinata persona è amica di colui che ha assolto o di un suo stretto familiare. E nell’inchiesta sarebbero saltate fuori anche delle fotografie che ritraggono allo stesso tavolo Vendola e, appunto, De Felice. «E’ possibile, ma si tratta di occasioni o episodi avvenuti molto tempo prima il processo nei confronti di mio fratello», ha spiegato la sorella di Vendola ai pm. Un intreccio che rischia di gettare un’ombra di sospetto sull’assoluzione del governatore pugliese impegnato nella campagna elettorale per le Politiche al fianco di Pier Luigi Bersani. Ma Vendola fermamente smentisce e querela Panorama. «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere denuncia nei confronti del settimanale Panorama, per il piccolo concentrato di fango, con cui, in linea con l'informazione berlusconiana, ha inteso colpirmi», afferma il governatore, annunciando il ricorso alle vie legali.
“E' mai stata a casa della dottoressa Susanna De Felice?”. Intorno a questa domanda riportata da “La Gazzetta del Mezzogiorno”, si è svolto l’interrogatorio di Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese Nichi, ascoltata come persona informata dei fatti il 31 gennaio scorso dal procuratore di Lecce Cataldo Motta. E’ una delle informazioni pubblicate da Panorama da domani 14 febbraio in edicola, che alla vicenda ha dedicato un’inchiesta. La donna – informa una nota di Panorama – è stata sentita dopo che il giudice De Felice il 31 ottobre 2012, aveva assolto Nichi Vendola da un’accusa di abuso di ufficio; e soprattutto dopo che i pm Francesco Bretone e Desirèe Di Geronimo, titolari del procedimento, avevano protestato con i loro superiori contestando i rapporti tra Patrizia Vendola e De Felice, anche grazie alla comune amicizia con Gianrico Carofiglio ex pm barese e parlamentare Pd, e con sua moglie Francesca Pirrelli, magistrato della stessa procura. Secondo Panorama, nell’interrogatorio Patrizia Vendola “ha così quantificato gli incontri conviviali con De Felice a partire dal 2004: Ho condiviso amici e feste con lei per diversi anni, con una cadenza di circa un incontro al mese sino al 2009; da allora, dopo che è mancato mio padre, ci saremo viste cinque o sei volte, non di più. In tutto fa oltre cinquanta occasioni”. Patrizia Vendola ha comunque negato di essere mai stata a casa del giudice De Felice (su cui Motta ha aperto un fascicolo). “Anche se da qualche anno ho improvvisi vuoti di memoria e per questo sono andata anche da un neurologo. A Bari, in questi giorni, – è detto nella nota di Panorama – si vocifera pure di foto che ritrarrebbero a una festa e allo stesso tavolo Nichi Vendola e il giudice De Felice”. Intervistata da Panorama, Patrizia Vendola non lo esclude “ed elenca le occasioni in cui i due potrebbero essersi ritrovati insieme: Forse alla festa per i miei 40 anni, in una discoteca di Bisceglie del 2005. Oppure ai festeggiamenti per i miei 42 anni e mezzo in una masseria di Monopoli”.
E non solo: Escort, caso Laudati al Csm, rischia il trasferimento d'ufficio. La Prima Commissione avvia a maggioranza assoluta la procedura dopo che i pm di Lecce lo hanno accusato di aver aiutato Tarantini a eludere le indagini sulle ragazze portate nelle residenze di Berlusconi, scrive “La Repubblica”. Rischia il trasferimento d'ufficio per incompatibilità il procuratore di Bari Antonio Laudati, accusato dai pm di Lecce di aver aiutato Silvio Berlusconi e l'imprenditore barese Paolo Tarantini a eludere le indagini sulle escort. A quanto si è appreso la Prima Commissione del Csm gli ha aperto a maggioranza la relativa procedura. Cinque i voti a favore dell'apertura della procedura, contrario solo il laico del Pdl Nicolò Zanon. Poco più di un anno fa il Csm aveva archiviato l'esposto del pm barese Pino Scelsi che accusava Laudati di aver rallentato la sua inchiesta sulle escort portate nelle residenze di Silvio Berlusconi, quando era a capo del governo, e di aver affidato a una "aliquota" Gdf un'indagine parallela per controllare il lavoro dei sostituti. Ma quel fascicolo è stato riaperto nel novembre a seguito degli sviluppi dell'inchiesta di Lecce, che vede Laudati accusato di favoreggiamento di Berlusconi e Tarantini, e di abuso d'ufficio per aver indagato illecitamente due pm del suo stesso ufficio, Scelsi e Desirè Digeronimo. In questi mesi la Commissione ha compiuto una sorta di pre-istruttoria, ascoltando il procuratore generale di Bari Pizzi e i pm Pasquale Drago, Anna Maria Tosto e Giorgio Lino Bruno. Ora però partirà l'indagine vera e propria, il cui primo atto sarà la convocazione di Laudati perchè possa difendersi, anche con l'assistenza di un collega o di un avvocato, dalle contestazioni che gli vengono mosse. Solo al termine degli accertamenti che saranno ritenuti necessari la Commissione deciderà se proporre al plenum il trasferimento del procuratore o una nuova archiviazione.
«Alquanto curiosa e preoccupante è la decisione della Prima commissione del Csm di aprire a distanza di tempo una pratica per incompatibilità ambientale del Procuratore di Bari su fatti già noti ed ampiamente chiariti dall'interessato ed archiviati sia dal Csm che dall'Ispettorato del Ministero della Giustizia che ne ha approvato pienamente il lavoro. Non se ne comprendono i motivi e questa iniziativa non convince per le modalità e per i tempi. - Lo dichiara il segretario di Magistratura indipendente, Cosimo Ferri. Il Csm, sottolinea Ferri, - non fa autocritica su come avvengono le nomine dei capi d'ufficio, questione su cui sono stati richiamati anche recentemente dal Presidente della Repubblica, si attiva invece per aprire una pratica di trasferimento per un Procuratore che ha riorganizzato un ufficio importante e delicato raggiungendo risultati eccellenti.»
Laudati, l'atto d'accusa di Lecce: "Favorì Tarantini e Berlusconi". Oltre tremila pagine che fanno tremare la procura di Bari. Ieri a Lecce sono stati depositati gli atti allegati all’inchiesta che coinvolge il procuratore capo di Bari e il pm Giuseppe Scelsi. La relazione choc degli ispettori: in procura guerra di veleni, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Gli atti della procura di Napoli, i verbali dei magistrati che secondo il procuratore Cataldo Motta inchiodano Laudati come "favoreggiatore " di Tarantini e Berlusconi. Gli ispettori che, a differenza dei magistrati di Lecce, salvano il procuratore e dicono che se un ritardo nelle indagini c'era stato, la colpa era proprio di Scelsi che le stava conducendo male. La Digeronimo che secondo gli ispettori avrebbe dovuto astenersi. Una brutta storia raccontata analiticamente nelle 3.386 pagine depositate ieri dalla procura di Lecce negli atti allegati all'inchiesta che coinvolge Laudati e Scelsi. E che sta facendo tremare (più ancora delle fondamenta ballerine) il palazzo di giustizia di Bari. La procura di Lecce ha pochi dubbi: l'atteggiamento di Laudati è stato sin dall'inizio indirizzato a salvaguardare dall'inchiesta su Tarantini l'allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Per motivarlo, utilizzano i verbali dei partecipanti alla riunione di luglio (prima dell'insediamento ufficiale di Laudati) quando sia Scelsi sia il finanziere Paglino raccontano che Laudati, in missione per conto di Alfano, avrebbe chiesto e ottenuto di bloccare l'inchiesta fino al suo arrivo a settembre. Un passo questo, dice Lecce, che avrebbe minato definitivamente la bontà dell'inchiesta visto che le escort interrogate a settembre (e non a Luglio come la D'Addario & co.) hanno "salvato" Berlusconi forse perché indottrinate dagli avvocati vicini all'allora premier. Il presidente del consiglio - annota Lecce - godeva di una struttura in grado di avvicinare indagati e testimoni, come hanno fatto con Tarantini, la cui difesa è stata in un certo senso commissariata proprio da Berlusconi. Le intercettazioni telefoniche (nelle quali si parla indirettamente del procuratore di Bari) dimostrerebbero inoltre, secondo Motta, come alcuni dei legali di Tarantini avessero rapporti che andavano oltre la normale collaborazione con un procuratore con Laudati. E a riprova che Laudati sapeva che la riunione di luglio fosse da temere, avrebbe informato preventivamente della cosa i pm (Iodice e Dentamaro, che lo hanno raccontato a verbale) che avevano disposto l'arresto di Paglino. Su questo punto però, la procura di Lecce è arrivata a conclusioni diversi rispetto agli ispettori del ministero che invece avevano archiviato l'archiviazione di Laudati disponendo la denuncia invece sia per Scelsi sia per la Digeronimo. Scelsi accusava Laudati di aver rallentato le indagini su Tarantini? "Il quadro che emerge circa lo stato dei procedimenti a carico di Tarantini all'atto dell'insediamento di Laudati è quello di una attività di indagine ancora tutta da sviluppare, con circa 150mila intercettazioni svolte e non trascritte, nonché una massiccia acquisizione documentale, disposta a seguito di attività di perquisizione e sequestro, non ancora compiutamente esaminata e riscontrata. Ovvero, in buona sostanza, emerge documentalmente che se inerzia e incongruità vi furono avvennero prima della formazione dei gruppi e pertanto paradossalmente, sono ascrivibili proprio al denunziante Scelsi. Peraltro, a riscontro dell'efficienza ed assiduità del magistrato deve, altresì, evidenziarsi la circostanza della enorme quantità di atti relativi alle indagini in argomento rinvenuti, ammassati alla rinfusa, all'atto del suo trasferimento in Procura Generale, nel giugno 2011". La squadretta? "Era un semplice potenziamento della polizia giudiziaria a cui erano state delegate le indagini e alla analisi del materiale probatorio acquisito per consentire un efficace coordinamento tra tutti i filoni di indagine ". Scelsi è indagato per abuso di ufficio per aver intercettato abusivamente la dottoressa Paola D'Aprile, che aveva la sola colpa di essere amico del sostituto procuratore Digeronimo: secondo la procura di Lecce, Scelsi temeva che la collega le "scippasse" l'inchiesta e voleva dimostrare l'incompatibilità della collega. La D'Aprile era infatti amica di Lea Cosentino, indagata nell'inchiesta Digeronimo. Secondo gli ispettori, Scelsi ha commesso un abuso. Ma la Digeronimo (archiviata a Lecce) avrebbe dovuto astenersi da quel fascicolo. Per spiegare il perché, utilizzano il verbale dello stesso pm. "Paola D'Aprile - si legge - è mia amica da tempo (...) Sapendo che era amica della Cosentino, mia indagata nel procedimento Tedesco, ho colto l'occasione in cui si parlava con il collega Scelsi, con il quale avevo un rapporto di amicizia e confidenza, delle indagini sulla sanità per invitarlo, nel caso fosse emerso un qualche coinvolgimento della, di avvisarmi tempestivamente al solo fine di prendere le distanze e di non frequentarla più. Scelsi mi rassicurò e mi disse di non preoccuparmi assolutamente ". Poco dopo, Scelsi intercettò il telefono della D'Aprile. E registrò alcune telefonate tra lei e l'amica. "A novembre - racconta sempre la Digeronimo - dopo una cena a cui ero stata invitata dal Procuratore, Laudati in separata sede mi fece ascoltare la registrazione di una conversazione intercorsa tra me e la D'Aprile e mi chiese di chiarire alcune circostanze rilevabili dal colloquio ". Agli atti di Scelsi finisce poi un messaggio della D'Aprile alla Cosentino dal testo: "non ho finito, sto lavorando per te. Tutto ok", inviato un'ora dopo che la stessa D'aprile era salita a casa della Digeronimo. "Ma io - ha spiegato la pm - non ho mai parlato con la D'Aprile di attività investigative, tantomeno sulla Cosentino". "In occasione dell'arresto della Cosentino - segnalano però gli ispettori - la dottoressa Digeronimo non ha esitato a incontrare la D'Aprile premurandosi di prendere l'iniziativa di contattarla e, sentendola in lacrime, di invitarla nel proprio ufficio peraltro invitandola a non dichiararlo al piantone". Un elemento che, insieme agli altri, farebbe secondo gli ispettori "sussistere i presupposti perché il magistrato facesse formale istanza di astensione in quanto si era manifestata una situazione obiettivamente suscettibile di far ipotizzare che la condotta funzionale potesse essere ispirata al perseguimento di fini diversi da quelli istituzionali".
Ma questo non basta. Dal mondo accademico balziamo a quello giudiziario. Si legge sul “Il Corriere della Sera” che sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini per abuso d'ufficio al procuratore di Bari, Antonio Laudati, e al suo ex sostituto Giuseppe Scelsi. Il caso riguarda il procedimento penale sulle escort che l'ex imprenditore barese, Gianpaolo Tarantini, ha portato dall'ex premier Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. Lo stesso atto, che solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione. L'inchiesta a carico del procuratore di Bari è stata avviata dopo che Laudati è stato accusato da un suo ex pm, Scelsi (ora sostituto procuratore presso la Corte d'appello di Bari), di aver di fatto rallentato l'indagine sulle escort. Dopo i primi accertamenti, la procura di Lecce aveva indagato Laudati per favoreggiamento personale, abuso d'ufficio e tentativo di violenza privata. I sei giornalisti indagati per diffamazione sono stati invece denunciati dal procuratore Laudati nel corso del tempo. A proposito del procuratore di Bari, Antonio Laudati, la procura di Lecce ipotizzando il reato di abuso d'ufficio scrive: «Nello svolgimento delle funzioni di procuratore avrebbe intenzionalmente arrecato ingiusto danno ai magistrati Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo consistito nella indebita aggressione alla sfera della personalità per essere stati i due magistrati illecitamente sottoposti da parte della guardia di finanza ad investigazioni e ad abusivo controllo della loro attività professionale e della loro immagine». Ed ancora è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini Laudati avrebbe «delegato, senza alcun atto scritto, al personale di polizia giudiziaria della guardia di finanza attività d'indagine - seguendone personalmente gli sviluppi - sulle modalità di conduzione delle indagini sulla sanità pubblica pugliese svolta dai sostituti procuratori Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo e sulle irregolarità e criticità di esse in violazione sia dell'articolo 11 del codice di procedura penale, sia delle disposizioni del decreto legislativo n. 109/2006 in materia di accertamento della responsabilità disciplinare nonché della relativa normativa secondaria del Csm che non consentivano di avviare di iniziativa indagini per accertare eventuali profili di legittimità svolte dai magistrati del suo ufficio». Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, è anche accusato di favoreggiamento personale per aver aiutato sia «Gianpaolo Tarantini ed altri indagati» ad eludere le indagini sulle escort, sia «aiutato» Silvio Berlusconi ad eludere le stesse indagini «dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». A Laudati viene contestato di aver disposto «arbitrariamente», il 26 giugno 2009, due mesi e mezzo prima di insediarsi nell'incarico di procuratore di Bari, che le indagini sulle escort portate da Tarantini nelle residenze di Berlusconi «venissero sospese e non si adottasse alcuna iniziativa fino a quando non avesse assunto le funzioni» di capo della procura. L'incontro avvenne nella scuola allievi della Guardia di finanza di Bari alla presenza del pm inquirente, Giuseppe Scelsi, e di ufficiali della Gdf a cui erano state delegate le indagini. L'insediamento di Laudati avvenne il 9 settembre 2009. Dando quelle disposizioni - secondo l'accusa - «con abuso dei poteri e violazione dei doveri di magistrato» Laudati, tra l'altro, ha impedito «l'assunzione di sommarie informazioni dalle altre escort non ancora ascoltate» e ha causato «ritardo ed intralcio nello svolgimento delle investigazioni per la maggiore difficoltà di accertamento di fatti e circostanze conseguente alla maggiore distanza temporale del momento investigativo dal loro verificarsi». In questo si è concretizzato - secondo i magistrati salentini - il reato di favoreggiamento personale aggravato contestato al procuratore di Bari. Laudati avrebbe quindi - è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini - «aiutato Gianpaolo Tarantini e gli altri indagati» ad «eludere le indagini» nel procedimento per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione delle «cosiddette escort» avviato dal pm Giuseppe Scelsi «nel quale era coinvolto quale fruitore delle prestazioni sessuali il presidente del Consiglio dei ministri, on. Silvio Berlusconi (al fine di favorire indirettamente quest'ultimo preservandone l'immagine istituzionale) ed aiutato anche quest'ultimo ad eludere le suddette indagini, dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». Avrebbe «intenzionalmente arrecato ingiusto danno» ad un altro pm della procura di Bari, Desirèe Digeronimo, e a un'amica di quest'ultima, Paola D'Aprile, attuando una «indebita aggressione alla sfera della loro personalità» intercettandone le conversazioni «per fini estranei alla funzione giurisdizionale»: è con questa motivazione che la procura di Lecce contesta al pm barese Giuseppe Scelsi (ora sostituto procuratore generale) il reato di abuso di ufficio nell'avviso di conclusione delle indagini a suo carico e a carico del procuratore di Bari, Antonio Laudati. La vicenda attribuita a Scelsi nel capo di imputazione è estranea alle indagini escort che riguardano il suo ex capo Antonio Laudati. La contestazione del reato all'ex pm riguarda invece le inchieste sulla sanità della Regione Puglia che tra il 2008 e il 2009 conducevano sia Digeronimo (che aveva tra gli indagati l'ex assessore Alberto Tedesco) sia Scelsi stesso, che avrebbe agito per «ripicca», secondo la procura di Lecce, e per «costringere» la collega ad astenersi. Per perseguire le proprie finalità «estranee alla funzione giurisdizionale», Scelsi, infatti, avrebbe più volte usato «surrettiziamente» elementi acquisiti durante altre intercettazioni, che lui stesso alcuni mesi prima aveva ritenuto penalmente irrilevanti. Sempre per perseguire il proprio intento, avrebbe anche coinvolto la guardia di finanza chiedendo informative che giustificassero le sue richieste di intercettazione di D'Aprile, che sapeva amica di Digeronimo. L'accusa dei confronti di Antonio Laudati per abuso di ufficio è invece legata alla costituzione di un'aliquota di finanzieri voluta dallo stesso procuratore e che aveva l'incarico di lavorare esclusivamente ai suoi ordini. Secondo la denuncia presentata a suo tempo da Scelsi quei finanzieri avrebbero però svolto una sorta di indagine parallela sul modo in cui veniva condotta l'indagine su Tarantini. La Procura di Lecce sostiene oggi che di fatto Laudati "spiò" il pm Scelsi e la collega Desierè Digeronimo eseritando nei loro confronti una vera e propria violenza privata, deleggitimandone anche la funzione agli occhi dei finanzieri incaricati di controllarli. Sul caso era intervenuta anche la commissione disciplinare del Csm che aveva tuttavia archiviato il fascicolo.
L'avviso di conclusione delle indagini è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione a mezzo stampa al procuratore di Bari, Antonio Laudati. I cronisti indagati sono di Massimiliano Scagliarini de "La Gazzetta del Mezzogiorno" per un articolo che riguarda la stessa materia per la quale oggi la procura ha indagato Laudati. Poi Gianni Lannes, accusato di aver offeso in un articolo la reputazione di Laudati, del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, e dell’allora capo di gabinetto di quest’ultimo, Francesco Manna. L’articolo faceva riferimento ad un finanziamento concesso dalla Regione ad un convegno sulla giustizia organizzato a Bari da Laudati. Gli altri 'pezzi' ritenuti diffamatori per la reputazione del procuratore Laudati sono quelli della cronista di "Repubblica-Bari", Mara Chiarelli, (di omesso controllo risponde il direttore del quotidiano Ezio Mauro), e di Nazareno Dinoi del "Corriere del Mezzogiorno-Puglia" e direttore de “La Voce di Manduria” (di omesso controllo è accusato il direttore della testata, Marco De Marco).
Tutta l'Italia ne parla, a secondo della fazione. Intanto il procuratore di Bari Antonio Laudati è indagato dalla Procura di Lecce.
La sua iscrizione era nell’aria. Ed è la conseguenza della trasmissione degli atti dell’inchiesta della Procura di Napoli sul presunto ricatto al premier, atti in cui si ipotizzano ritardi nell’indagine barese sulle escort utilizzate da Gianpaolo Tarantini per allacciare rapporti affaristici. Nei dialoghi intercettati dalla Procura partenopea il procuratore Laudati viene indicato come colui che avrebbe cercato di favorire Gianpi e, soprattutto, di evitare la divulgazione delle intercettazioni scomode di Silvio Berlusconi. Abuso d’ufficio e favoreggiamento personali sono le ipotesi per le quali è stato aperto il fascicolo che è sul tavolo del procuratore Cataldo Motta. Un fascicolo blindato, la cui titolarità il capo della Procura leccese (competente ad indagare sui fatti che coinvolgono i magistrati del distretto della Corte d’Appello di Bari) divide con il suo aggiunto Antonio De Donno.
L’inchiesta avviata a Lecce dovrà chiarire se Gianpaolo Tarantini, parlando al telefono con il direttore ed editore dell’Avanti Valter Lavitola, diceva il vero quando riferì che il procuratore capo Laudati avrebbe chiesto ai suoi legali di patteggiare la pena per evitare tanto una nuova esposizione pubblica al presidente Berlusconi, con l’avviso di conclusione delle indagini e la conseguente diffusione degli atti e delle intercettazioni, quanto anche un processo pubblico che avrebbe comportato l’interrogatorio dello stesso Tarantini.
«L’ha fatto apposta Laudati questo, perché, si sono messi d’accordo, nel momento in cui riaprono l’indagine e non mandano l’avviso di conclusione, non escono pubbl... non diventano pubbliche le intercettazioni». Sono le parole di Tarantini trascritte dagli investigatori napoletani ed inserite nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti dello stesso Tarantini, della moglie Angela Devenuto e del direttore e editore dell’Avanti Valter Lavitola per la presunta estorsione ai danni del premier. Soldi pretesi per assicurare versioni concordate e di basso profilo sulla vicenda delle escort.
C’è, poi, un’altra intercettazione. La voce è sempre quella di Tarantini: «Quello a Nicola gli ha messo l’ansia... ha detto che è catastrofica... che il suo ruolo è fallito... perché lui era convinto, ti ricordi, di archiviarla». Nella conversazione, almeno secondo quanto ipotizzato dagli investigatori napoletani, il riferimento dovrebbe essere all’avvocato Nicola Quaranta, all’epoca difensore di Tarantini, e al procuratore Laudati (“quello”). L’intercettazione è del 5 luglio 2011.
Pochi giorni prima nella Procura di Bari si era consumato lo strappo fra Laudati e l’ex sostituto Giuseppe Scelsi, che per primo ha indagato sulla scuderia di escort di Tarantini e che ora è sostituto alla Procura generale di Bari. Alla base della frizione c’è l’iniziativa di Laudati che avrebbe ordinato alla Guardia di Finanza di consegnare a lui anziché a Scelsi l’informativa finale sull’indagine relativa al favoreggiamento e allo sfruttamento della prostituzione. Sul punto l’ex pm ha trasmesso un esposto al Csm e il contenuto è materia che interessa anche l’inchiesta della Procura di Lecce.
«Un procuratore se indagato non può continuare a svolgere il suo ruolo con la serenità e il dovuto prestigio che deve caratterizzare la sua funzione. Per questo mi dichiaro a completa disposizione delle Procure di Napoli e Lecce». Così si era espresso Laudati all’indomani della diffusione del contenuto delle intercettazioni di Tarantini sul suo conto, lasciando intendere che si sarebbe dimesso qualora fosse stato indagato. L’inchiesta, intanto, va avanti. Nel fine settimana i magistrati leccesi insieme con quelli napoletani hanno sentito i loro colleghi baresi: Giuseppe Scelsi e Eugenia Pontassuglia che ha ereditato il fascicolo. Sul contenuto il riserbo è massimo.
Il 19 settembre 2011 infine, c’è stata l’audizione durata quattro ore di Giuseppe Scelsi davanti alla Prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura sull’esposto presentato dall’ex pm contro il procuratore Laudati. Laudati sarà ascoltato il giovedì successivo. Abuso d’ufficio, favoreggiamento, addirittura tentata violenza privata. Il procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, si ritrova indagato dai colleghi di Lecce per il «caso Tarantini». Ben tre ipotesi di reato e con questo biglietto da visita giovedì è atteso davanti alla prima commissione del Csm, che potrebbe decidere un suo trasferimento d’ufficio. Per non parlare dell’eventuale azione disciplinare, che è proprio dietro l’angolo.
Che ha fatto Laudati per meritare tutti questi guai? L’accusa è pesante, infangante: quella di aver voluto controllare le indagini su Gianpaolo Tarantini, anche per rallentare la diffusione delle intercettazioni tra il faccendiere e le ragazze portate alle feste del premier. E questo per favorire, più che Tarantini, Silvio Berlusconi. La grande colpa di Laudati, insomma, sarebbe quella di non aver fatto abbastanza per inchiodare il Cavaliere. Il sospetto nasce da intercettazioni in cui Giampaolo Tarantini e il direttore de L’Avanti Valter Lavitola parlano di presunti accordi degli avvocati con lui. E lo sostiene il suo grande accusatore, l’ex pm Giuseppe Scelsi, oggi alla procura generale barese. La tentata violenza privata sarebbe proprio nei confronti dell’ex titolare dell’inchiesta, che a luglio 2011 ha inviato un esposto al Csm, poi ha ripetuto la sua versione dei fatti di fronte ai colleghi leccesi e napoletani e lunedì 19 settembre a Palazzo de’ Marescialli. Così, da inquisitore di Tarantini (lo ha fatto anche arrestare) Laudati diventa indagato.
Passa in ombra la pubblica autodifesa in cui il procuratore capo racconta della situazione trovata in Procura al suo arrivo a settembre 2009, con i sostituti che a suo dire lavoravano a ruota libera, senza coordinamento e, soprattutto, con le continue e clamorose fughe di notizie sui giornali. Quello che Laudati descrive come un necessario mettere ordine nell’ufficio, imporre regole ferree ai pm, maggiore controllo sulla Guardia di finanza per i compiti di polizia giudiziaria e assoluto riserbo verso i mass media, per Scelsi è imposizione verticistica, interferenza sospetta, come quella di avocare a sé, di fatto, la delicata inchiesta sulle escort.
Sembra che il primo titolare delle indagini si sia sentito sotto accusa per il sospetto che proprio dal suo computer siano fuggite le prime notizie a luci rosse sull’escort Patrizia D’Addario e le altre, pubblicate dal Corriere della Sera proprio il giorno dell’insediamento di Laudati. Il rapporto tra i due (il primo vicino alla corrente di Magistratura indipendente, l’altro militante in Magistratura democratica) comincia male e prosegue peggio. Al pm vengono affiancati due colleghi per l’inchiesta scottante, lo stress sale, gli attriti con il capo pure e Scelsi chiede il trasferimento alla Procura generale. Ma prima vuole a tutti i costi l’informativa finale delle Fiamme gialle. La sollecita. A tre giorni dalla sua uscita, salta l’ultima riunione per le ferie dei colleghi e non ci riesce. Scelsi lascia con l’amaro in bocca, si sente defraudato e, forse anche per pararsi da eventuali attacchi, scrive al Csm.
Lunedì 19 settembre 2011, alla prima commissione presieduta dal laico Nicolò Zanon, ripete la sua versione calcando la mano. Accusa Laudati di aver imposto alla Guardia di finanza di consegnare solo a lui la famosa informativa. Lo stabilisce una direttiva del Capo del dicembre 2009, ma lui la contesta. Contesta addirittura l’opportunità della riunione di coordinamento delle indagini indetta da Laudati, parla di ritardi voluti, di intromissione verticistica nelle inchieste, di suggerimenti a Tarantini, di uso personalistico delle Fiamme Gialle da parte del procuratore, con un «pool» che rispondeva solo a lui. Addirittura, di un’«indagine parallela» alla sua. E Laudati viene crocifisso.
Il senatore del Pd Alberto Maritati - dalemiano, sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi e amico di vecchia data dell’avvocato della D’Addario, Maria Pia Vigilante - nell’estate 2009 chiese informazioni all’ex pm barese Pino Scelsi sulle indagini che riguardavano Tarantini appena perquisito. E lo fece su incarico di Roberto De Santis, dalemiano di ferro. A riferirlo è proprio Scelsi, nel suo interrogatorio a Lecce su Laudati, procuratore di Bari indagato. «Laudati mi disse che a Roma si era sparsa la voce che la fuga delle notizie pubblicate sul Corriere della Sera, preceduta dalle dichiarazioni di D’Alema (quelle sulla «scossa nel governo», ndr) (...) era a me addebitabile, o che comunque io avrei contribuito (...). Risposi che non avrei avuto alcun interesse a danneggiare la mia indagine con improvvide rivelazioni, e che peraltro dalla stessa indagine risultava che Tarantini era legato ad ambienti vicini all’area politica di D’Alema (...). Feci presente a Laudati che io personalmente avevo avuto richieste di informazioni da parte di Alberto Maritati, vicino all’ambiente di D’Alema, e che avevo categoricamente rifiutato di dare notizie, come tra l’altro risultava da alcune conversazioni intercettate sull’utenza di De Santis, persona assai vicina a D’Alema e suo compagno di barca».
DALEMIANI PREOCCUPATI
Dalle intercettazioni, prosegue Scelsi, «risultava sia l’incarico dato da De Santis a Maritati di raccogliere informazioni (…), sia la risposta di Maritati che aveva riferito a De Santis l’impossibilità di avere alcuna informazione (…)». Un episodio che Scelsi avrebbe raccontato anche al predecessore di Laudati, Marzano, e all’ex coordinatore della Dda Marco Di Napoli. Interessante anche alla luce di una dichiarazione di Tarantini in un verbale di novembre 2009, di cui parla anche Scelsi nel suo interrogatorio: «Angelillis (uno dei due pm che Laudati affiancò a Scelsi, ndr) aveva chiesto al Tarantini di riferire sui suoi rapporti con De Santis e Tarantini aveva dichiarato di essersi rivolto, dopo le perquisizioni, a De Santis chiedendogli di attivarsi presso qualche politico presumibilmente vicino ai magistrati. A detta di Tarantini, De Santis non aveva mai dato risposta». Dunque, se non era nell’interesse di Tarantini, per conto di chi Maritati e De Santis avevano cercato informazioni?
«MI MANDA ALFANO»
Scelsi non risparmia stoccate a Laudati che prima dell’insediamento, a suo dire, tenne una riunione coi finanzieri Bardi, D’Alfonso e Paglino: «Laudati fece un discorso chiaro, che era molto amico del ministro della Giustizia, che “gli aveva concesso l’onore del tu”, e che in virtù di quest’amicizia aveva garantito per me, così impedendo l’avvio dell’attività ispettiva sul mio operato. Aggiunse che era stato mandato a Bari per conto del ministro della Giustizia».
IL COMPLOTTO «ROSSO»
Anche l’altra pm del caso escort, Eugenia Pontassuglia, ha riferito che tra i temi da sottoporre a Gianpi in uno degli interrogatori, «si era individuato quello dell’esigenza di comprendere (…) i rapporti tra De Santis, Tarantini e D’Alema (che da alcune intercettazioni risultava essere presente in Sardegna nello stesso periodo in cui c’era Tarantini, agosto 2008) e se vi fosse collegamento» tra questi e il rapporto «che la D’Addario aveva avuto con Berlusconi», per valutare «la possibilità che vi fosse stato un accordo tra i tre in virtù del quale Tarantini avesse messo in collegamento D’Addario con Berlusconi (ipotesi che la Pontassuglia alla luce degli atti dice «poter essere esclusa», ndr)». Tanti indizi, non fanno un complotto.
Dagli interrogatori di Scelsi, Pontassuglia e Paglino uno spaccato della procura barese divorata da guerre fra magistrati e polizia giudiziaria e attraversata da presunte omissioni e depistaggi.
Trenta pagine di verbali resi da due sostituti procuratori di Bari e da alte cariche della Guardia di Finanza. Le carte depositate dalla procura di Napoli e Lecce nell'ambito del processo Tarantini raccontano la rete assai ingarbugliata, tanto da risultare preoccupante, che si è sviluppata a Bari intorno all'inchiesta su Gianpi e le prostitute da portare al presidente del Consiglio. Una rete fatta di guerre tra magistrati e polizia giudiziaria e piena di presunte omissioni e depistaggi. Con dietro lo spettro di un complotto. In mezzo ci sono accuse molto dure mosse dal pm Scelsi e da alcuni finanzieri al lavoro di Laudati accusato di aver ritardato e controllato le indagini su Tarantini. Ma ci sono anche le parole sofferte di Eugenia Pontassuglia, il sostituto che più di tutti ha seguito l'indagine (ascoltando per esempio tutte i file audio delle intercettazioni telefoniche) e che si trova costretta a rispondere di accuse incrociate, a volte anche durissime e forse strumentalizzate, tra i colleghi al fianco dei quali ha lavorato in questi mesi. Ecco i sunti dei verbali di tutti i testimoni dell'indagine ascoltati in questi mesi dalla procura generale di Bari e dai magistrati di Lecce e Napoli.
GIUSEPPE SCELSI
"Confermo il
contenuto dell'esposto indirizzato al Csm. (...) Quando fu pubblicata
l'intervista di Patrizia d'Addario e fu pubblicata sui giornali la notizia
dell'inchiesta, la collega Elisabetta Pugliese mi disse che Laudati, già
nominato dal Csm procuratore di Bari, mi cercava e aveva bisogno di parlarmi. Mi
misi in contatto con lui e mi disse che a Roma si era sparsa la voce che la fuga
delle notizie preceduta dalle dichiarazioni dell'onorevole D'Alema era me
addebitabile. Risposi a Laudati che non avrei avuto alcun interesse a
danneggiare la mia indagine con improvvide rivelazioni e che peraltro dalla
stessa indagine risultava che Tarantini era legato ad ambienti vicini all'area
politica di D'Alema. In quella stessa occasione o forse successivamente feci
presente al collega Laudati che io personalmente avevo avuto richieste di
informazioni da parte dell'onorevole Alberto Maritati, vicino all'ambiente di
D'Alema, e che avevo categoricamente rifiutato di dare notizie, come tra l'altro
risultava da alcune conversazioni intercettate sull'utenza di Roberto De Santis,
persona assai vicina a D'Alema e suo compagno di barca. Dalle conversazioni
intercettate, infatti, risultava sia l'incarico dato da De Santis a Maritati di
raccogliere informazioni sulla vicenda per la quale erano state disposte le
perquisizioni, sia la risposta di Maritati che aveva riferito a De Santis della
impossibilità di avere alcuna informazione stante la mia categorica chiusura.
Successivamente mi incontrai con Laudati in occasione della festa della Finanza,
il 26 giugno 2009. Dopo la cerimonia ci spostammo in caserma dove si sarebbe
dovuto tenere un incontro, come Laudati mi aveva preannunciato. Era stato
organizzato un pranzo cui partecipavano, oltre a Laudati, il generale Bardi, il
colonnello D'Alfonso, il colonnello Paglino e il generale Bartoletti comandante
della Scuola: non c'era invece il generale Inguaggiato e Laudati mi disse che
non era stato invitato perché inaffidabile per la sua provenienza dai Servizi e
i suoi legami con il direttore del Sismi, Pollari. Laudati fece un discorso
molto chiaro dicendo che era molto amico del Ministro della Giustizia, che "gli
aveva concesso l'onore del tu", e che in virtù di quest'amicizia aveva garantito
per me, così impedendo l'avvio dell'attività ispettiva sul mio operato. Aggiunse
che era stato mandato a Bari per conto del Ministro della Giustizia e che era
necessario costituire un organo che sovraintendesse alle indagini in corso, in
particolare a quelle sulla vicenda Tarantini. Il 9 settembre Laudati prese
possesso del suo ufficio di procuratore e lo stesso giorno furono integralmente
pubblicati gli interrogatori di Tarantini (quelli della fine di luglio) benché
neanche il difensore ne avesse avuto copia. Quello stesso giorno ci fu un duro
scontro tra Laudati e il colonnello Paglino in quanto quest'ultimo aveva chiesto
a me il permesso di riferire al Procuratore alcuni aspetti delle indagini.
Laudati si alterò tanto che Paglino lasciò la stanza in cui ci trovavamo.
Disposi poi il fermo di Tarantini per questioni di droga, come suggerito da
Laudati. Il difensore di Tarantini chiese un nuovo interrogatorio e la richiesta
fu passata a me e ai colleghi Pontassuglia e Angelillis che nel frattempo mi
avevano affiancato. Subito dopo la coassegnazione, Angelillis prospettò
l'ipotesi dell'impossibilità di configurare reati in materia di prostituzione
sulla base di una sua ricerca giurisprudenziale. L'orientamento del collega
corrispondeva a quello del procuratore Laudati. Le perplessità di Angelillis
furono manifestate anche alla collega Pontassuglia, ma sia io che lei ritenemmo
necessario approfondire il tema.
Laudati manifestò l'esigenza di costituire un coordinamento presso la sua segreteria con un contingente della Finanza a sua disposizione, e di una banca dati in cui dovevano confluire le copie delle indagini fatte in materia di sanità, nonché le vecchie intercettazioni e le nuove che si andavano facendo. Tale banca dati fu costituita presso la scuola Allievi della Finanza dove un intero corridoio di uno degli ultimi piani era occupato dagli atti, dai terminali informatici.
Nel secondo interrogatorio il collega Angelillis introdusse l'argomento del complotto medialicopoliticogiudiziario chiedendo a Tarantini, per quanto io ricordi, notizie sulla presenza di D'Alema in Sardegna e sugli eventuali suoi incontri con Tarantini nella stessa estate in cui quest'ultimo aveva iniziato a frequentare Villa Certosa di Berlusconi. Tarantini escluse tale circostanza rispondendo che era inutile che si continuasse a chiedergli di dichiarare cose che non rispondevano al vero. Ricordo che già nel precedente interrogatorio, Angelillis aveva chiesto al Tarantini di riferire sui suoi rapporti con Roberto De Santis e Tarantini aveva dichiarato di essersi rivolto, dopo le perquisizioni, a De Santis chiedendogli di attivarsi presso qualche politico presumibilmente vicino ai magistrati. A detta dello stesso Tarantini, De Santis non aveva mai dato risposta a quella richiesta. Quando nel successivo interrogatorio Tarantini sbottò di smetterla con quelle continue richieste sul complotto, facendo implicito riferimento ad ipotesi ricostruttive che nessuno di noi aveva in precedenza formulato, io mi rivolsi all'avvocato Quaranta che assisteva all'interrogatorio con sguardo interrogativo e con un significativo gesto della mano per chiedergli a chi si riferisse Tarantini; e Quaranta articolò con le labbra un nome che io non compresi. Risentito per l'evidente intromissione da parte di altri nella programmazione degli argomenti da chiedere a Tarantini mi alzai adirato e uscii dalla stanza sbattendo la porta. Qualche minuto dopo, tranquillizzatomi, rientrai e proseguii l'interrogatorio.
Mi risulta che più volte l'avvocato Quaranta è andato a conferire in ordine ai procedimento che coinvolgevano il Tarantini direttamente con il Procuratore Laudati. Rimanevo sorpreso che non venisse a parlare con i magistrati delegati.
EUGENIA PONTASSUGLIA
"Il primo interrogatorio di Tarantini si svolse ad Ariano Irpino il 6 novembre 2009. A seguito di una mia domanda a Tarantini sul contenuto di un incontro che aveva avuto in Piazza Navona a Roma con Roberto De Santis (incontro che era stato videoregistrato senza l'audio nell'ambito delle indagini su Tarantini) quest'ultimo spiegò i suoi rapporti con De Santis e il contenuto della discussione avuta con lui e di cui alla videoregistrazione; di sua iniziativa aggiunse che comunque non c'era alcun complotto e non c'era la possibilità di pensare ad alcun complotto. Gli chiesi come mai parlasse di complotto e Tarantini, guardando interrogativamente l'avvocato Quaranta gli chiese, quasi a chiederne conferma, se non sì trattasse di uno degli argomenti in merito ai quali avrebbe dovuto riferire. E l'avvocato Quaranta dandogliene conferma disse che effettivamente si trattava di uno degli argomenti che gli erano stati indicati dal dottore Laudati come temi da approfondire.
icordo che si fece riferimento ad un foglietto sul quale l'avvocato Qauranta aveva annotato le indicazioni ricevute dal dottor Laudati e che aveva consegnato a Tarantini. Mi pare di ricordare, ma non ne sono certa, che quest'ultimo tirò fuori dalla tasca un biglietto con degli appunti. Devo dire che non ricordo alcun episodio in cui durante un interrogatorio, a seguito di una domanda di Angelillis che prospettava l'ipotesi di un complotto, Scelsi si sia rivolto con un segno della mano dal significato interrogativo all'avvocato Quaranta e quest'ultimo abbia risposto articolando con le labbra un nome.
Ricordo invece un episodio nel quale Scelsi si allontanò, innervosito, dalla stanza dove avveniva l'interrogatorio sbattendo la porta, ma non riesco a collocarlo in alcun contesto. (...) Avemmo un incontro di coordinamento e tra i temi discussi si era individuato quello dell'esigenza di comprendere quali fossero stati i rapporti tra De Santis, Tarantini e l'onorevole D'Alema.
La «guerra di Bari» tra esposti anonimi al Csm e i malumori dei magistrati. È oggetto di un articolo de Il Tempo del 17 aprile 2011. Ha lasciato la procura di Bari dopo vent'anni di onorata carriera. Il pubblico ministero Giuseppe Scelsi, negli ultimi tempi balzato agli onori della cronaca per le indagini sui rapporti tra la escort Patrizia D'Addario e il premier Silvio Berlusconi, è stato promosso alla procura generale. Lo ha esplicitamente richiesto e non è un caso. A pesare sulla sua scelta i non ottimi rapporti con il capo della procura Antonio Laudati che avrebbe sollevato qualche osservazione sul modo in cui venivano condotte le indagini sul caso D'Addario. Indagini che, dopo le rivelazioni del 2009 si sono praticamente fermate. Ma i dissidi tra Laudati (che a Bari è arrivato nel settembre 2009) e Scelsi sono solo l'ultima puntata di una guerra che vede il procuratore capo assoluto protagonista. Un po' di storia. La magistratura barese è sempre stata un ottimo «bacino di pesca» per il centrosinistra. Da qui arrivano il sindaco di Bari Michele Emiliano, il senatore Pd Gianrico Carofiglio, il suo collega Alberto Maritati (entrato per la prima volta a Palazzo Madama nel 1999 con i Ds) e l'assessore regionale all'Ambiente Lorenzo Nicastro. Per completezza va poi ricordato che Scelsi è sempre stato vicino a Magistratura democratica, una delle correnti di sinistra dell'Anm, mentre il suo collega Roberto Rossi è diventato membro del Csm sostenuto dal Movimento per la giustizia (altro gruppo di sinistra). Laudati si inserisce in questo contesto che, al suo arrivo, è reso particolarmente incandescente da battaglie intestine tra pm, fughe di notizie e una certa sovraesposizione mediatica delle toghe. Immediato il giro di vite. Che produce anche vere e proprie «eccezioni» nel panorama della giustizia italiana. Ad esempio, è stata arrestata la presunta «talpa» che avrebbe passato al Corriere della Sera i verbali di interrogatorio di Giampaolo Tarantini. In ogni caso Laudati riorganizza anche la gestione delle indagini. Costituisce pool di magistrati e ne affianca due a Scelsi: Eugenia Pentassuglia e Ciro Angelillis. I maligni parlano di «commissariamento» e non è escluso che anche questo esacerbato i rapporti tra i due. Di certo il procuratore capo non vuole che il caso D'Addario-Berlusconi venga trattato con superficialità e vuole avere contezza di tutti i fatti prima di prendere qualsiasi decisione. Un atteggiamento che lo ha immediatamente etichettato come «berlusconiano». Peccato che il Csm abbia aperto un fascicolo su di lui per l'accusa opposta: troppo amico di Nichi Vendola. Al punto da organizzare, con il contributo economico della Regione, un'iniziativa sul tema della giustizia con ospite il governatore. Che però è stato indagato, uscendone indenne, nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione della Sanità in cui è stato chiesto l'arresto del senatore Pd Alberto Tedesco. Il fascicolo è stato aperto sulla base di un esposto anonimo sostenuto da una relazione del procuratore generale di Bari Antonio Pizzi. E proprio il carattere anonimo della denuncia ha immediato scatenato la fantasia dei «complottisti», mentre la giunta barese dell'Anm ha difeso Laudati attaccando la «vile pratica del dossieraggio». Di certo la sua gestione ha dato fastidio a qualcuno. Sarebbe bello capire a chi.
«Quanti punti oscuri sulla mia intercettazione». L'ex ministro: «Parlai con Legnini di Woodcock, poi ritrovai sui quotidiani le mie frasi». Massimo Malpica, Mercoledì 27/01/2021 su Il Giornale. «Quando la scorsa estate lessi di questa intercettazione tra me e Legnini, pensai che o intercettavano me, o intercettavano Legnini. Di intercettare me non avevano motivo, mentre per Legnini ne avrebbero avuto». Paolo Cirino Pomicino ricorda bene l'episodio relativo ai retroscena del procedimento disciplinare al Csm contro il pm Woodcock raccontato da Luca Palamara al direttore del Giornale Alessandro Sallusti nel libro-intervista «il Sistema». Palamara rivela che, a luglio 2018, «il leader della corrente di sinistra, Giuseppe Cascini, mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare». Motivo? «Un'intercettazione tra Legnini, vicepresidente del Csm e quindi arbitro della contesa, e l'ex onorevole Cirino Pomicino, in cui Legnini parla molto male del pm napoletano, in possesso dello stesso Woodcock, che è intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti».
«Il disciplinare va rinviato, in quel momento Woodcock va salvato. E così sarà», conclude l'ex pm.
«Con Legnini conferma Cirino Pomicino - ho parlato, l'ho incontrato per caso in un bar vicino al Csm, e abbiamo scambiato qualche battuta: avevamo un giudizio negativo su Woodcock, credo condiviso dal 90 per cento degli italiani, cioè è una cosa normalissima».
Che però avrebbe creato le premesse per la storia che racconta Palamara.
«Io, siccome questa intercettazione arrivava da Napoli, ho scritto al procuratore capo, Giovanni Melillo, che nel 1993, con Franco Roberti e Paolo Mancuso, mandò un avviso di 416 bis a me, Gava e Scotti, i leader della Dc napoletana, nello stesso giorno in cui la procura di Palermo lo mandava ad Andreotti. Poi noi siamo stati naturalmente assolti, e loro hanno fatto carriera. Ma al di là dei ricordi, gli ho scritto per chiedere se mi avessero intercettato e chi aveva deciso dell'intercettazione, oltre a chiedere copia dell'eventuale intercettazione».
Ha avuto risposta?
«Un mese dopo Melillo mi ha scritto, negando qualsiasi possibilità di darmi una copia con una serie di articolazioni dotte. Poi si è saputo subito dopo che quell'intercettazione sarebbe stata tra me e Romeo, al quale avrei raccontato di aver incontrato Legnini e che avevamo un giudizio negativo su Woodcock. Dunque Melillo non ha voluto dirmi una notizia che però poi è finita sui giornali».
E perché?
«Forse perché dicono di averla intercettata tra me e Romeo, ma non è vero. I difensori di Romeo hanno copia di tutte le intercettazioni del loro assistito, questa non c'è. Dunque quella uscita sui giornali era una bugia, mentre molto probabilmente l'intercettato era Legnini. D'altra parte perché mai avrebbero dovuto intercettare me, che non ero indagato, o Romeo, che era già a processo? Se questo è lo scenario, il silenzio di Melillo è un silenzio imbarazzato, e quella lettera di diniego spedita solo perché non poteva dirmi che intercettavano Legnini».
Che effetto le fa pensare che per quella chiacchierata con Legnini il procedimento di Woodcock sarebbe stato «sospeso»?
«Nessun effetto, a parte fare una banale considerazione: questo è il terzo potere dello Stato in via di distruzione. In Italia i tre poteri - quello esecutivo, quello legislativo e quello giudiziario stanno messi tutti molto male, e sono profondamente solcati da fratture e da contrasti. Uno Stato che ha i suoi tre poteri in queste condizioni è uno Stato che lentamente declina, come purtroppo vediamo ogni giorno e in ogni direzione».
Il Sistema, il caso Salvini secondo Palamara. Redazione de L'IndYgesto l'8 febbraio 2021. L’ex leader dell’Anm racconta i retroscena dell’intervento giudiziario su Salvini nell’estate roventissima del 2019, quando l’ex ministro dell’Interno provò, a modo suo, a fermare gli sbarchi…Il racconto di Luca Palamara sui rapporti turbolenti tra Salvini e parte della magistratura diventa particolarmente inquietante, perché si focalizza su un leit motiv rovente della propaganda leghista: il contrasto all’immigrazione clandestina. Non entriamo nel merito della vicenda, se non per ribadire che, dal punto di vista umanitario, Salvini ha torto comunque. Ben diverso l’aspetto giuridico, nel quale entra obbligatoriamente l’aspetto della pubblica sicurezza e della lotta a una delle attività più odiose della criminalità internazionale: il traffico di esseri umani. Qui la posizioni diventano più sfumate. E, non a caso, ricorda Palamara, non tutti i magistrati furono d’accordo sulla levata di scudi dell’Anm a favore del pm di Trapani…
[Sallusti] Salvini e le due magistrature. Ci sono vicende in cui l’aspetto giudiziario s’intreccia non solo con quello politico ma anche con quello ideologico?
[Palamara] Sì, ed è un mix esplosivo, come nel caso di Salvini, indagato per sequestro di persona per il blocco dei porti agli sbarchi di immigrati. Nell’estate del 2018 gli ingredienti ci sono tutti: un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale. Un piatto ghiotto, ovvio che la magistratura scenda in campo. Il culmine lo si tocca l’estate successiva, nel 2019, proprio nelle settimane in cui anche le tensioni nel governo tra Lega e Cinque Stelle sono in rapido crescendo. Io non le so dire se sia più la magistratura che tenta di dare la spallata al «governo delle destre», come veniva chiamato il Conte 1, o se sia Salvini a cercare il martirio per tenere comunque alto il suo consenso su un tema a cui l’opinione pubblica è sensibile, ma sta di fatto che quel governo, come tutti quelli che sfidano i magistrati, cadrà. Sarà una coincidenza, ma cadrà. Tutto inizia all’alba del 16 agosto 2018, quando la nave della Guardia Costiera Ubaldo Diciotti soccorre in mare 190 immigrati. Da Roma Matteo Salvini, ministro degli Interni, ordina il divieto di sbarco. La nave rimane ferma al largo, prima di Lampedusa e poi di Catania, per cinque giorni, aspettando disposizioni. Poi, l’estate successiva, stessa sorte toccherà alle navi Gregoretti e Sea Watch. Il magistrato più attivo di tutti è Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica. Indaga Salvini sia per la Diciotti sia per la Gregoretti, la Open Arms e la Sea Watch, per la quale ordina lo sbarco immediato di tutti gli immigrati dopo una visita a bordo in favore di telecamere. Suscitando l’ira del ministro degli Interni, che in tv parla di lui come di uno che stia commettendo il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Che si vada a uno scontro è chiaro fin dal primo avviso di garanzia, quello per la Diciotti. Il più veloce a saltare sul caso è il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, come tutti noi in scadenza di mandato. Il 24 agosto 2018, alle 21:07, mi manda il seguente messaggio: «Luca, dobbiamo dire qualche cosa sulla nota vicenda della nave, Area (corrente di sinistra, N.d.R.) è d’accordo a prendere l’iniziativa, Galoppi (Claudio Galoppi, consigliere Csm, N.d.R.) idem, senti loro e fammi sapere domani mattina». E ancora: «Domani mattina dovete produrre una nota, qualche cosa, insomma», forse sapendo già che il giorno seguente Salvini riceverà l’avviso di garanza. Ma c’è qualcosa che non mi torna.
[Sallusti] Cos’è che non torna?
[Palamara] Tanto attivismo non è da lui. In quattro anni di Csm non era mai capitato che ci dovessimo rincorrere sui telefonini da una spiaggia all’altra d’Italia. Perché tanta fretta? Ho il sospetto che Legnini stia giocando una partita personale per ingraziarsi i maggiorenti del Pd. Sono i giorni in cui si discutono le liste per le imminenti elezioni regionali in Abbruzzo, e gira voce che lui intenda candidarsi a governatore con la sinistra, cosa che poi in effetti avverrà. Per il dopo Csm n realtà puntava ad andare all’Antitrust, aveva cercato una sponda al Quirinale – così mi confidò – ma gli avevano fatto sapere che non era aria.
[Sallusti] Sconfitto alle elezioni in Abruzzo, Legnini non resterà disoccupato, gli trovano un posto come commissario delle zone terremotate. Ma lei in quel momento era l’unico ad avere sospetti di questo genere?
[Palamara]Per nulla. Ecco cosa mi scrive quella stessa il consigliere del Csm Nicola Clivio: «Perché lui (Legnini N.d.R.) ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave, e noi lo facciamo volentieri, ma poi non si deve dire che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema? Non dire a nessuno che ti ho detto questo». E io gli rispondo: «Esatto, lo chiede a tutti, anche a noi. Gli ho detto che ci devo riflettere, deve essere una riflessione di tutti coperta anche dai nuovi altrimenti diventa una cacchetta». Il giorno dopo, alle 16:02 l’Ansa batte, preceduta dall’asterisco che segnala le notizie importanti, il seguente lancio d’agenzia: «Del caso Diciotti deve occuparsi il primo plenum del Csm in programma il 5 settembre. È quanto chiedono, con una lettera al vicepresidente Giovanni Legnini, i capigruppo togati Valerio Fracassi, Claudio Galoppi, Aldo Morgigni e Luca Palamara». Segue la solita nota sulla tutela dell’indipendenza della magistratura eccetera eccetera. Sospetti o non sospetti la sua «riflessione» è durata poche ore. Prima regola: mai dividersi. Il clima tra governo e magistratura è tornato quello di dieci anni prima, ai tempi della contrapposizione con Berlusconi. E noi torniamo ai metodi di dieci anni prima. Di questo parlo, mettendolo in guardia, anche con Matteo Piantedosi, capo di gabinetto di Salvini, che diventerà poi prefetto di Roma, a una cena a casa della collega Paola Roja, presenti il procuratore di Roma Pignatone e il procuratore generale Fuzio: se Salvini continua ad attaccare i giudici non fa che compattarli contro di lui, com’è accaduto prima sia a Berlusconi sia a Renzi. L’attacco frontale alla magistratura è perdente, vince sempre la magistratura al di là che ci sia o no un uso politico delle inchieste, ipotesi che io non mi sento di escludere.
[da Il Sistema, cap. La ferocia e l’inganno, pp. 215-218]
I giudici e l'estate delle trame: così hanno "abbattuto" Salvini. Un ministro di destra, l'immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita. E la magistratura scende in campo: ecco cosa è successo nell'estate del 2018. Alessandro Sallusti, Sabato 30/01/2021 su Il Giornale. Per gentile concessione dell'editore Rizzoli pubblichiamo uno stralcio del libro Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana, scritto dal direttore del Giornale, Alessandro Sallusti.
Ci sono vicende in cui l’aspetto giudiziario s’intreccia non solo con quello politico ma anche con quello ideologico?
Sì, ed è un mix esplosivo, come nel caso di Salvini, indagato per sequestro di persona per il blocco dei porti agli sbarchi degli immigrati. Nell’estate del 2018 gli ingredienti ci sono tutti: un ministro degli Interni di destra, il povero immigrato maltrattato, la sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale. Un piatto ghiotto, ovvio che la magistratura scenda in campo. Il culmine lo si tocca l’estate successiva, nel 2019, proprio nelle settimane in cui anche le tensioni nel governo tra Lega e Cinque Stelle sono in rapido crescendo. Io non le so dire se sia più la magistratura che tenta di dare la spallata al "governo delle destre", come veniva chiamato il Conte 1, o se sia Salvini a cercare il martirio per tenere comunque alto il suo consenso su un tema a cui l’opinione pubblica è sensibile, ma sta di fatto che quel governo, come tutti quelli che sfidano i magistrati, cadrà. Sarà una coincidenza, ma cadrà. Tutto inizia all’alba del 16 agosto 2018, quando la nave della Guardia Costiera Ubaldo Diciotti soccorre in mare 190 immigrati. Da Roma Matteo Salvini, ministro degli Interni, ordina il divieto di sbarco. La nave rimane ferma al largo, prima di Lampedusa e poi di Catania, per cinque giorni, aspettando disposizioni. Poi, l’estate successiva, stessa sorte toccherà alle navi Gregoretti e Sea Watch. Il magistrato più attivo di tutti è Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento nominato nel 2017 in quota Magistratura democratica. Indaga Salvini sia per la Diciotti sia per la Gregoretti, la Open Arms e la Sea Watch, per la quale ordina lo sbarco immediato di tutti gli immigrati dopo una visita a bordo in favore di telecamere. Suscitando l’ira del ministro degli Interni, che in tv parla di lui come di uno che stia commettendo il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Che si vada a uno scontro è chiaro fin dal primo avviso di garanzia, quello per la Diciotti. Il più veloce a saltare sul caso è il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, come tutti noi in scadenza di mandato. Il 24 agosto 2018, alle 21:07, mi manda il seguente messaggio: "Luca, dobbiamo dire qualche cosa sulla nota vicenda della nave, Area (corrente di sinistra, N.d.R) è d’accordo a prendere l’iniziativa, Galoppi (Claudio Galoppi, consigliere Csm, N.d.R.) idem, senti loro e fammi sapere domani mattina". E ancora: "Domani mattina dovete produrre una nota, qualche cosa insomma", forse sapendo già che il giorno seguente Salvini riceverà l’avviso di garanzia. Ma c’è qualche cosa che non mi torna.
Cos’è che non torna?
Tanto attivismo non è da lui. In quattro anni di Csm non era mai capitato che ci dovessimo rincorrere sui telefonini da una spiaggia all’altra d’Italia. Perché tanta fretta? Ho il sospetto che Legnini stia giocando una partita personale per ingraziarsi i maggiorenti del Pd. Sono i giorni in cui si discutono le liste per le imminenti elezioni regionali in Abruzzo, e gira voce che lui intenda candidarsi a governatore con la sinistra, cosa che poi in effetti avverrà. Per il dopo Csm in realtà puntava ad andare all’Antitrust, aveva cercato una sponda al Quirinale - come mi confidò - ma gli avevano fatto sapere che non era aria.
Sconfitto alle elezioni in Abruzzo, Legnini non resterà disoccupato, gli trovano un posto come commissario delle zone terremotate. Ma lei in quel momento era l’unico ad avere sospetti di questo genere?
Per nulla. Ecco cosa mi scrive quella stessa sera il consigliere del Csm Nicola Clivio: "Perché lui (Legnini, N.d.R) ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave, e noi lo facciamo volentieri, ma poi non si deve dire che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema? Non dire a nessuno che ti ho detto questo". E io gli rispondo: "Esatto, lo chiede a tutti, anche a noi. Gli ho detto che ci devo riflettere, deve essere una riflessione di tutti coperta anche dai nuovi altrimenti la nostra diventa una cacchetta".
Palamara e la verità su Salvini: "Ecco perché andava colpito". Luca Palamara è stato ospite di Massimo Giletti per approfondire alcuni punti del libro Il sistema pubblicato con Alessandro Sallusti sul caos magistrature. Francesca Galici, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Lo scandalo della magistratura emerso dopo le intercettazioni di Luca Palamara, ex presidente dell'Anm, ha scoperchiato un sistema fatto di stretti legami tra giustizia e politica. Nel libro Il sistema, scritto da Alessandro Sallusti, si racconta il dietro le quinte di questo mondo attraverso le parole di Luca Palamara, che col direttore de Il Giornale ne ha ricostruito gli intrecci e i retroscena. Questa sera, Luca Palamara è stato ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena per ribadire le sue verità. "Finché non c'è una decisione definitiva io sono ancora un magistrato e mi vanto di aver fatto questo racconto da magistrato", ha esordito Luca Palamara nello studio di Massimo Giletti parlando del suo libro, rivelando che "I magistrati mi dissero: "Luca tu devi dire la verità"". Il magistrato ha poi aggiunto: "La più grande soddisfazione è stata sentirmi dire: 'Luca ho letto il libro, dice tutta la verità"". Luca Palamara ha difeso la decisione di realizzare il tomo, sottolineando che lo scandalo delle procure, dal suo punto di vista sia una "operazione che si è tentata di fare, di identificare nella mia persona l'unico responsabile, è fallito". Ciò di cui viene accusato oggi non è una novità per le magistrature perché, come spiega Luca Palamara, "i problemi di cui parliamo oggi sono problemi già dibattuti ma ci siamo arroccati, siamo diventati una casta, di cui facevo parte anche io e la politica ne faceva parte". In molti accusano oggi Palamara di essere alla base della perdita di credibilità della magistratura, ma il magistrato si difende e attacca: "Il problema della credibilità non può essere legata a una persona sola. Perde credibilità quando i tempi della giustizia sono troppo lunghi". Luca Palamara ha messo il suo racconto a disposizione: "Mi sono messo a disposizione delle varie autorità giudiziarie. Sono disponibile a reiterare le mie affermazioni, quello che dirò questa sera, davanti alla Commissione del Csm per un confronto". "Le parole del consigliere Nino Di Matteo furono quelle di un uomo forte e coraggioso ma mi fecero riavvolgere il nastro delle mie conversazioni di quel periodo", ha raccontato il magistrato ospite di Massimo Giletti rimettendo in ordine i tasselli del caso Di Matteo scoppiato lo scorso maggio: "È il sistema che ha fatto fuori Di Matteo, che non era assolutamente controllabile. In quel periodo si discuteva sui posti apicali al ministero, all'interno della magistratura c'è un problema di gelosie". Il discorso si è poi spostato sulla nomina del ministro della Giustizia, che non sarebbe dovuto essere Bonafede come spiega Palamara: "Il sistema non poteva soffrire Nicola Gratteri come ministro della Giustizia. L’interlocuzione dei magistrati con il Quirinale avveniva". Si passa poi a parlare delle chat con il procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, sull'inchiesta di Salvini ad Agrigento durante il periodo del leader della Lega al ministero degli Interni. "All'interno della magistratura ci sono diverse sensibilità culturali. Su questo tema subentra un substrato ideologico", ha spiegato Luca Palamara, prima di ricevere in diretta la chiamata di Matteo Salvini: "L'idea di Palamara è emersa, quanti altri pensano uguale, fanno di peggio e delle loro chat non risulterà niente?". Matteo Salvini, ora a processo, si è detto tranquillo sull'esito, ma ha sottolineato come dal suo punto di vista "la cosa grave per cui ho comprato il libro di Palamara e Sallusti, è tutto quello che c'è dietro. Le nomine pilotate, la spartizione per correnti. La giustizia riguarda 60 milioni di italiani, non c'è solo il penale, c'è anche la giustizia tributaria. Io avrei due o tre soluzioni per superare questi problemi e vorrei anche sapere che cosa ne pensa il dottor Palamara". Luca Palamara ha mosso le sue scuse in diretta a Matteo Salvini: "Non ho nessuna difficoltà ad ammettere un errore, dovuto a una conversazione affrettata. Ma che in quel momento ci fosse quel clima nei confronti del senatore Salvini all'interno della magistratura è la verità". Il leader dela Lega, ribadendo la sua convinzione a un buon esito del processo, ha teso la mano a Luca Palamara: "Io accetto le sue parole, non porto rancore. Mi auguro però che ci siano alcune procure che aprano inchieste su quello che Palamara ha scritto nel suo libro, perché quelli sono reati". Il senatore Salvini ha poi proseguito esponendo la sua idea di riforma, spiegando che "contro il sistema delle correnti e la spartizione delle nomine nella magistratura, l'unica soluzione è il sorteggio". Il magistrato ha confermato l'ipotesi del leader della Lega, spiegando che "il sorteggio era la riforma più temuta, avrebbe scardinato il sistema delle correnti". Il leader della Lega ha concluso sottolineando come "le parole di questa sera di Palamara hanno chiarito che quando la giustizia invade il campo della politica non è mai un buon segnale. Non vorrei che lui venga utilizzato come capro espiatorio da suoi colleghi che hanno fatto anche di peggio".
Quel sorteggio che spaventa il Csm. Fi torna alla carica sull'elezione delle toghe. Zanettin: il nostro testo limita il potere delle correnti e rispetta la Carta. Massimo Malpica, Martedì 02/02/2021 su Il Giornale. «Quando ero presidente dell'Anm, da uomo di corrente quale ero, la riforma più temuta era solo una, quella che avrebbe potuto scardinare il sistema delle correnti, il sorteggio. E penso di aver risposto». Così Luca Palamara interpellato a proposito del sorteggio per l'elezione del Csm dal leader del Carroccio Matteo Salvini, intervenuto per telefono durante l'intervista di Massimo Giletti al magistrato, a Non è l'Arena, domenica sera. E ieri, sul tema, è tornato il parlamentare azzurro Pierantonio Zanettin, già componente laico del Csm e primo firmatario di una proposta di legge di riforma dell'organo di autogoverno della magistratura che, per l'appunto, propone l'adozione di un sorteggio «temperato» per eleggere i componenti togati. Scelta obbligata, spiega il deputato al Giornale, perché è la nostra Costituzione che all'articolo 104 parla di componenti togati «eletti», non sorteggiati. Quindi la proposta di Fi suggerisce che tra tutti i magistrati italiani che abbiano raggiunto la quinta valutazione di professionalità (la cadenza delle valutazioni è quadriennale) ne vengano estratti a sorte 100, e che l'elezione dei 20 togati da parte del corpo elettorale formato dai 9mila magistrati avvenga solo tra questi. Un modo per arginare lo strapotere delle correnti e le elezioni «guidate», uno strumento, come spiega Zanettin, per «limare le unghie alle correnti, visto che non possiamo toglierle del tutto». E soprattutto una correzione della proposta di riforma del Guardasigilli Bonafede che prevede il voto in collegi uninominali a doppio turno e, se nessun candidato supera il 65%, un ballottaggio a quattro. Quattro, esattamente come le correnti maggioritarie presenti nell'Anm. «Un sistema sintetizza l'esponente azzurro che non solo non contrasta, ma addirittura enfatizza il ruolo delle correnti nell'elezione dei componenti del Csm». Così, vista la risposta di Palamara e considerata la domanda di Salvini Zanettin ha pensato di rilanciare quella proposta, chiedendo a «tutto il centrodestra» di convergere su quella proposta. In fondo Salvini ha già dato il suo endorsement in diretta tv domenica sera. E pure Giorgia Meloni più volte, commentando lo scandalo scatenato dall'inchiesta perugina su Palamara, ha espresso il favore di Fdi per l'opzione-sorteggio. «La mia proposta insiste Zanettin è per aprire un dibattito, e fare di questo punto un primo passo verso un programma comune del centrodestra». Chi è contrario, come ha spiegato bene Palamara l'altra sera, sono proprio le associazioni di magistrati. Anche se «ci sono eccezioni», ricorda ancora Zanettin, «come il giudice Andrea Mirenda e i tanti magistrati che non si riconoscono nelle correnti, ma ricordo anche Sebastiano Ardita, consigliere del Csm ed esponente di Autonomia e Indipendenza, che pure si è espresso in maniera critica sulla proposta del Guardasigilli».
Non è l'arena, Matteo Salvini telefona e Luca Palamara si scusa: "Perché i magistrati lo attaccano", colpaccio Giletti. Libero Quotidiano l'1 febbraio 2021. "Chiedo scusa a Matteo Salvini". Colpaccio di Massimo Giletti: a Non è l'Arena va in onda il confronto tra Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, e il leader della Lega. Il tema della serata è la giustizia politicizzata, che il magistrato sotto inchiesta ha contribuito a far emergere suo malgrado, con le intercettazioni di cui è stato oggetto, e con il libro-confessione realizzato con Alessandro Sallusti. Salvini gli chiede conto della famigerata chat con il procuratore Auriemma sull'inchiesta contro Salvini per il caso Carola Rackete e SeaWatch, nel 2019, quando il leghista era ministro degli Interni. "Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando - scriveva Auriemma a Palamara -. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia ed il ministro dell'Interno interviene perché questo non avvenga. E non capisco cosa c'entri la Procura di Agrigento. Questo dal punto di vista tecnico, al di là del lato politico. Tienilo per te, ma sbaglio?". Risposta di Palamara: "No, hai ragione ma ora bisogna attaccarlo". "Su questo deve spiegare", lo incalza Giletti: "Sul tema della immigrazione dentro la magistratura ci sono delle diversità culturali e inevitabilmente subentra un sostrato ideologico. Allora l'Anm era governata da centro e sinistra, per tenere l'equilibrio ho detto che dovevamo fare un comunicato a favore della Procura di Agrigento, per tenere l'equilibrio interno. Il mio non era un attacco contro Salvini". E qui arriva la telefonata in diretta dello stesso Salvini, per un confronto significativo e rivelatore. "Non ho nessuna difficoltà ad ammettere l'errore - ribadisce Palamara al leghista -. È vero, in quel momento all'interno della Magistratura c'era quel clima nei confronti del senatore Salvini. Garantiamo la libertà di espressione di tutti altrimenti questo non è più uno Stato democratico". "Accetto le scuse e non porto rancore, non scappo dai processi e vado a rivendicare quello che ho fatto a testa alta - è la replica dell'ex ministro, evidentemente amareggiato -. Mi auguro che ci sia qualche Procura che apra dei fascicoli su quanto ha scritto Palamara, perché lì sono segnalati dei reati". Il leader della Lega però guarda già avanti: "Come risolvere il problema della giustizia e dei tempi dei processi? Sorteggiamo". "Quando ero presidente dell'Anm la riforma più temuta che avrebbe scardinato le correnti era quella del sorteggio, questa mia risposta dice tutto". In studio si parla anche del caso del procuratore anti-mafia Di Matteo, candidato alla direzione del Dap e "scartato" dal ministro Alfonso Bonafede in modo poco trasparente. "Non è degno della giustizia italiana che Bonafede sia ancora sulla sua poltrona senza aver fatto luce su quello che ha denunciato Giletti, che ne ha pagato anche le conseguenze - bombarda Salvini -. Io spero che il teatrino squallido di questi giorni finisca con l'allontanare alcuni ministri che non sono all'altezza". "Basta così, la saluto", taglia corto Giletti presagendo la slavina politica in arrivo.
Valentina Errante per "il Messaggero" il 26 gennaio 2021. Un potere che non può essere scalfito: è Il Sistema. Parla con Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, Luca Palamara il pm radiato dalla magistratura e attore principale di quel risiko delle nomine che l' ha portato sotto procedimento disciplinare, mentre è anche a rischio processo per corruzione a Perugia. Parla e racconta quello che da mesi vorrebbe che tutti sapessero, perché il sottotitolo di questo volume, edito da Rizzoli (pagg 205, euro 19) è «Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana». Il concetto, declinato nei dettagli nella lunga intervista, è che, a partire dal 2008, nessuna nomina è sfuggita alle logiche e agli accordi tra le correnti della magistratura: in tutti gli uffici giudiziari. Ma Palamara racconta di più: quanto sulle scelte del Csm pesino le pressioni dello Stato, come sarebbe accaduto per la nomina di Francesco Lo Voi a capo della procura di Palermo, il candidato che ha meno titoli dei suoi avversari, ma è «meno rigido sull' inchiesta che riguarda la Trattativa Stato Mafia». E ricorda le parole di Nicola Clivio al plenum al momento dell' elezione: «Sono venuto a Roma per vedere come funziona il potere. Oggi l' ho capito e sono rimasto sconvolto». Nella versione dell' ex pm romano, i dialoghi intercettati all' hotel Champagne a maggio 2019, dal trojan piazzato sul suo telefono dalla procura di Perugia, sono solo un piccolo episodio della cronaca ordinaria.
GLI INCONTRI. «Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome, può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione», dice Palamara. Racconta di pranzi, cene e incontri, ai quali hanno preso parte proprio le toghe che lo hanno accusato, e durante i quali si decidevano gli incarichi. Incontri anche con persone poi travolte dalle inchieste, come il consigliere di Stato Riccardo Virgilio o l' imprenditore Fabrizio Centofanti. E di come lui stesso abbia avuto un ruolo anche nelle nomine di tre vice presidenti del Csm, del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e di come quest' ultimo, oggi presidente del Tribunale Vaticano, abbia influito sulla scelta del capo dei pm a Palermo e sia riuscito a designare i suoi aggiunti nella Capitale. Ma non c' era incarico che sfuggisse al controllo. Con le alleanze sui nomi che diventavano un segno di forza.
NON SINISTRA. L' ex pm avvalora in qualche modo il mantra berlusconiano sulle toghe rosse, spiega però che non c' è una magistratura di sinistra, ma che «il nemico è la non sinistra», così il Sistema espelle chi viola le regole non dette. Nel dettaglio, Palamara racconta il retroscena nella presa di posizione dell' Anm, che presiedeva all' epoca, rispetto all' allora magistrato Luigi De Magistris, titolare dell' inchiesta Why not. E Palamara dà anche una spiegazione politica alla sua espulsione «Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all' inferno». Aveva tradito, pensava di essere così forte da potere dettare le regole. L' errore è stato schierarsi con i renziani, i rottamatori. E persino l' ex premier Matteo Renzi avrebbe commesso un errore fatale, pensare di potere nominare l' attuale capo della procura di Catanzaro Nicola Gratteri, ministro, senza avere consultato le correnti.
LA CADUTA. Per Palamara il sistema al quale è stato organico e che lo ha espulso vive in osmosi con la politica ed è capace anche di condizionarla. Un lungo capitolo è dedicato alle vicende giudiziarie che hanno riguardato Silvio Berlusconi e alla caduta del suo governo, nel 2011. «Tutti quelli - colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto - che hanno partecipato con me a tessere questa tela, erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo» dice Palamara. Il «Sistema», sostiene, «è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato». Palamara, a posteriori ricostruisce, e spiega che nel 2017, quando ha pensato di violare gli accordi tra correnti e far nominare al vertice della Cassazione i suoi candidati, è cominciata la caduta. E spiega anche quella sua ultima partita, quando anziché schierarsi con la corrente di centro decide di allearsi con quella di destra per la nomina di Marcello Viola alla procura di Roma. E conclude: «Continuerò a difendermi nel processo e ho rispetto per i pubblici ministeri di Perugia, ma sono convinto che altri abbiano usato me per stoppare una nomina che altrimenti non avrebbero avuto la forza di fermare in altro modo».
L' AUTOCRITICA. Dopo avere ricostruito nel dettaglio le fortune e le sciagure professionali di alcuni suoi colleghi, Palamara conclude: «Con il senno di poi ho fatto un azzardo: smarcarmi definitivamente da quella sinistra ideologica antirenziana con la quale avevo condiviso la lottizzazione della magistratura, oltre che la gestione politica della giustizia. Il primo ex consigliere del Csm, radiato dall' ordine giudiziario (intanto ha presentato un ricorso) è fiducioso di poter tornare a indossare la toga, almeno così dice a Sallusti. Anche se non crede affatto che le regole del Sistema cambieranno mai.
Lo hanno cacciato? "Ecco dove voglio arrivare": Luca Palamara rivela a Libero il suo piano, terremoto per la magistratura? Libero Quotidiano il 30 gennaio 2021. "Potere, politica e affari". Massimo Giletti presenta così la nuova puntata di Non è l'Arena. Nell'anticipazione rilanciata su Twitter il conduttore di La7 svela cosa aspettarsi domenica 31 gennaio. Nel salotto del talk ci sarà niente di meno di Luca Palamara. "L'uomo che un anno fa - spiega Giletti - finiva sotto interrogatorio". L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati sarà chiamato a parlare del sistema” delle correnti della magistratura che avrebbe influenzato la politica italiana e il mondo degli affari in questi anni. In sostanza quella che Giletti definisce "storia segreta della magistratura italiana". Palamara è ancora al centro della cronaca per le rivelazioni fatte ad Alessandro Sallusti e contenute nel nuovo libro Il Sistema. Qui il magistrato è un fiume in piena. "È un mix esplosivo - esordisce in riferimento al connubio tra giustizia, politica e ideologia -, come nel caso di Salvini, indagato per sequestro di persona per il blocco dei porti agli sbarchi di immigrati". Per Palamara quell'estate gli ingredienti c'erano tutti: dal ministro degli Interni di destra, "al povero immigrato maltrattato", fino "alla sinistra che cerca la rivincita dopo la batosta elettorale". Anche in questo caso il giudice non può negarlo: "Il piatto è ghiotto e la magistratura scende in campo". Un'ammissione pesantissima che dà molto da pensare su come si procede nel nostro Paese. Ma Palamara fa anche i nomi: "Il magistrato più attivo di tutti è Luigi Patronaggio, procuratore di Agrigento". In lui il magistrato ravvisa qualcosa di insolito: "Tanto attivismo non è da lui. In quattro anni di Csm non era mai capitato che ci dovessimo rincorrere sui telefonini da una spiaggia all'altra d'Italia. Perché tanta fretta?". Un intreccio letale che ha rischiato di mettere il leader della Lega alla sbarra se non fosse che il Senato ha votato "no" all'autorizzazione a procedere.
Vittorio Feltri, le confessioni di Luca Palamara e la reazione della magistratura: allora dice la verità? Libero Quotidiano l'1 febbraio 2021. Il libro uscito nei giorni scorsi da Rizzoli, una intervista puntigliosa di Alessandro Sallusti a Luca Palamara, sta facendo discutere. Trattasi di un trattato importante e illuminante sulla situazione vergognosa della magistratura italiana, più dedita alla politica che alla amministrazione pura della giustizia. Ovviamente giudici vari e pubblici ministeri non sono contenti di questa pubblicazione scottante, protestano e minacciano querele avendo le mani in pasta con le pandette, come è ovvio negano le rivelazioni contenute nel testo. Avranno le loro buone ragioni per protestare, tuttavia non si può ignorare che la toga radiata non era e non è una figura secondaria nell'universo giudiziario, nel quale egli ha menato le danze per anni determinando non soltanto le carriere dei colleghi ma anche l'orientamento dei processi. Questo lo avevamo capito da tempo anche noi che non frequentiamo volentieri i tribunali e le procure. Diciamo pure che ne abbiamo viste di ogni colore pertanto le parole piccanti di Palamara ci suonano familiari. Non possiamo accertarne l'assoluta verità, però il sospetto che descrivano una parte della realtà ce l'abbiamo e non possiamo nasconderlo. Saremmo ipocriti. D'altronde quando la politica langue o addirittura latita è fatale che si affidi ad altri poteri. In altri termini, qualora gli uomini e le donne eletti dal popolo siano assenti, si crea un vuoto che ovviamente qualcuno riempie. In questo caso, da Mani pulite in poi, la magistratura ha invaso il campo, creando un sistema gestionale anche al proprio interno non esattamente limpido. La sensazione è che la denuncia di Palamara abbia un seguito perché mette a fuoco una situazione imbarazzante. Vedremo cosa succederà. Dalle pagine vergate da Sallusti emergono pure dati di fatto incontestabili che dimostrano quanto segue: non tutti i magistrati si sono assoggettati ai criteri opachi adottati da tante toghe. Qualcuno, per esempio il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, è sfuggito alla trappola e ha agito onestamente in proprio. Ma non basta lui per assolvere gli altri.
La notte all'Hotel Champagne e gli intrighi della magistratura. Il potere della magistratura non può essere scalfito: nel libro "Il sistema" il direttore Sallusti spiega come funziona. Alessandro Sallusti, Giovedì 28/01/2021 su Il Giornale. Per gentile concessione dell'editore Rizzoli pubblichiamo uno stralcio del libro Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana, scritto dal direttore del Giornale Alessandro Sallusti. La notte tra l’8 e il 9 maggio del 2019, poi nota come “notte dell’Hotel Champagne”. Siamo a Roma, in una saletta riservata di un albergo di via Principe Amedeo, alle spalle della stazione Termini, usato come base d’appoggio da alcuni magistrati che arrivano da fuori città. Pochi minuti prima di mezzanotte, Palamara si incontra con cinque magistrati del Consiglio superiore della magistratura e Cosimo Ferri, già onorevole del Partito democratico e ora di Italia viva, ma soprattutto leader storico della corrente di destra della magistratura, Magistratura indipendente, con il quale Palamara - leader della corrente di centro Unità per la Costituzione - da anni si siede, a volte da socio altre da avversario, ai tavoli dove si gioca il Risiko delle nomine. Poco dopo si aggiunge Luca Lotti, deputato del Pd, già braccio destro e sottosegretario di Matteo Renzi prima e ministro dello Sport di Paolo Gentiloni poi, ma anche tra gli indagati eccellenti nell’inchiesta Consip (tangenti su appalti pubblici) partita da Napoli nel 2016 e poi approdata alla procura di Roma. E proprio la procura di Roma è il tema caldo di quella riunione notturna. I convitati devono infatti verificare per l’ultima volta se nel plenum del Csm avranno i voti necessari per pilotare il loro candidato, Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, su una delle poltrone più importanti delle istituzioni italiane. La poltrona, ambita e contesa, di procuratore capo di Roma, appena liberata da Giuseppe Pignatone, costretto a lasciare per raggiunti limiti di età dopo sette anni di potere incontrastato. Il Csm deve decidere a giorni, il tempo stringe e servono certezze. Ognuno dei partecipanti a quell’incontro mette le carte in tavola, cioè garantisce per sé ma anche per altri colleghi, grandi elettori a loro fedeli. Conta e riconta, a un certo punto il trojan capta la voce di Luca Lotti dire: “Si va su Viola, sì, ragazzi” secondo una frettolosa trascrizione fatta dagli uomini della Guardia di Finanza; “Si arriverà su Viola, sì ragazzi” stando alla perizia fonica disposta poi dal Csm. Che Lotti, cioè un politico indagato, abbia dettato la linea ai magistrati presenti o più semplicemente, come parrebbe dalla seconda versione, abbia preso atto dell’esito della loro conta, sta di fatto che pochi giorni dopo, il 23 maggio 2019, la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, con quattro voti su sei, propone al suo plenum, che si dovrà riunire di lì a poco, di nominare Marcello Viola procuratore di Roma.
Palamara alza il tiro: Ermini? Anche lui eletto al Csm col sistema dell’hotel Champagne. E Pignatone…Paolo Lami lunedì 1 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Luca Palamara alza il tiro suoi suoi ex-colleghi che lo hanno messo all’indice ed espulso dalla magistratura trattandolo come un appestato. E quello che era un timore recondito, il fastidioso ronzio di un’ape vicino all’orecchio, inizia a prendere pericolosamente concretezza: Luca Palamara ne ha per tutti, nessuno escluso. Prendiamo Ermini, il placido avvocato toscano proiettato da Renzi ai vertici del Csm. Ieri fra Ermini – che ha definito incautamente l’ex-pm romano una “scoria” – e Palamara, c’è stato il primo round. Oggi è arrivato il resto. “La versione iniziale per cui il ‘Sistema’ (sottinteso Palamara, ndr) si identificava in quella famosa notte all’Hotel Champagne, alla quale avevano partecipato Lotti, Palamara e Ferri, e che avrebbe significato l’aspetto più deteriore del correntismo, oggi non l’accetta più nessuno per un motivo molto semplice: il vicepresidente Ermini è ancora il vicepresidente del Csm e venne eletto con lo stesso meccanismo di quella sera”. Parole sferzanti quelle pronunciate dall’ex-presidente dell’Anm Luca Palamara nel corso di una diretta sui canali Facebook e YouTube del Fatto Quotidiano. “Sono a disposizione di tutti – ha aggiunto Palamara facendo rabbrividire ancor di più gli ex-colleghi. – Io mi sento un uomo delle istituzioni, ho un ruolo istituzionale, quindi se mi chiama la Commissione Antimafia sono assolutamente a disposizione. Però penso che sia altrettanto molto importante una mia audizione presso la competente Prima Commissione del Csm, che dovrebbe essere il luogo deputato a verificare se quello che racconto corrisponde al vero o no”. Insomma i giochi sono solo all’inizio. Spianato Ermini, Palamara passa al testo della truppa. E volano gli stracci. In cima alla lista c’è, dopo Ermini, il suo ex-collega della Procura di Roma, Giuseppe Cascini. A cui Palamara lancia un invito provocatorio: racconti le modalità sull’iscrizione del pm Woodcock nel registro degli indagati. “Sarebbe cosa buona e giusta che invece che sia io a raccontare le modalità con le quali venne iscritto il dottor Woodcock, ne riferisse il dottor Cascini? Penso di sì”. “Io di tutte queste cose – aggiunge Palamara -, al di là delle mie posizioni testimoniali, sono pronto ad andarne a parlare anche in un pubblico confronto. Io rimetterei a lui la palla, sarebbe più giusto, ormai che la cosa è venuta fuori, che lui raccontasse quello che mi raccontò, così facciamo prima”. Su questo, conclude Palamara, “direi che per un’operazione verità sarebbe più opportuno che lui raccontasse quello che mi disse”. Reagisce quasi in tempo reale Cascini. Che replica a Palamara – ma si rivolge all’intera categoria – scrivendo sulle mailing list dell’Associazione Nazionale magistrati. “Ritengo di poter escludere di aver incontrato Luca Palamara il 5 luglio 2018. Non che mi ricordi, ma sul mio telefono non trovo contatti con lui in quei giorni – spiega Cascini. – Mentre trovo un messaggio del 4 luglio 2018 a mio figlio nel quale gli dico che il giorno dopo mi fermo al mare e mi accordo per pranzare insieme il venerdì 6, cosa che, sempre sulla base dei messaggi, risulta avvenuta”, chiarisce Cascini. Ancora, spiega il togato, “non ho mai saputo della esistenza di una intercettazione tra Legnini e Cirino Pomicino, nella quale si parlava di Woodcock. Non so se una tale intercettazione esista. Non posso aver parlato con Palamara di una intercettazione della quale ignoravo (e ignoro) l’esistenza. Non parlo con Henry J. Woodcock da anni e certamente non mi ha riferito il contenuto di una intercettazione del genere. Ignoro quale interesse potessi avere io a veicolare a Palamara un messaggio del genere”.
“Ho già detto che questa non è l’unica falsità contenuta nel libro e che chiederò alla competente Autorità giudiziaria di accertare la falsità di tutte”, conclude Cascini. Poi è la volta del “capo”, l’ex-procuratore di Roma, il potentissimo Pignatone. Che Palamara tira in ballo in una cena assieme a lui ed all’ex-ministro dello Sport, l’ex-deputato renziano Luca Lotti. A cena dove? A casa dell’ex-membro del Csm
Balducci.
Palamara la ricostruisce così la faccenda. “Perché io entro nella vicenda Consip? Per quale motivo? Perché nel 2016 i rapporti fra la procura di Roma e la procura di Napoli sono sempre stati non semplici, soprattutto sotto il profilo del riparto delle competenze”. “Sapete benissimo quali erano i miei rapporti col procuratore Pignatone all’epoca, rapporti molto stretti, confidenziali, oltre che chiaramente istituzionali. Succede un fatto specifico nel dicembre del 2016”. Quale? “All’esito di una riunione la procura di Napoli decide di trasmettere delle carte che riguardano anche l’onorevole Lotti alla procura di Roma. Ne parlo – rivela Palamara -,col procuratore Pignatone anche perché mi era capitato nei mesi precedenti più volte di essere a cena col procuratore Pignatone e con l’onorevole Lotti, e quindi si poneva il problema, già prima delle carte, di capire e di comprendere quelli che sarebbero stati gli ulteriori sviluppi di questa situazione”.
Subito dopo Palamara, sempre a proposito delle cene cui ha appena accennato, aggiunge: “Prima dell’inizio dell’indagine, assolutamente sì, almeno un paio di volte, 2 o 3 volte minimo, di questo c’è, come dire, il luogo presso cui facevamo le cene è un luogo, come dire, conosciuto a Roma, un’abitazione privata di un avvocato penalista, quindi da questo punto di vista i fatti sono facilmente dimostrabili”.
Infine, alla domanda su chi fosse l’avvocato, Palamara risponde: “La professoressa Balducci, membro del Csm”.
Su Pignatone, Palamara racconta anche un’altra vicenda spinosa. E cioè l’intercettazione fra l’ex-vicepresidente del Csm, Legnini e Pomicino. Di cui, appunto, Palamara parlò con Pignatone. Eccolo dunque il racconto di Palamara che esordisce così: “A me dispiace che il dottor Cascini si sia risentito. Però non è stata colpa mia se il trojan ha registrato una conversazione fra me e Legnini. E tutto quello che ho raccontato lo racconto sulla base di due elementi: atti giudiziari, colloquio tra me e Legnini, e la trascrizione di un’intercettazione che è nel fascicolo del processo di Perugia”, ricostruisce l’ex-presidente dell’Anm nel corso della diretta sui canali Facebook e YouTube del Fatto Quotidiano.
È la premessa necessaria prima di parlare dell’intercettazione fra Legnini e Pomicino. “Quando questa intercettazione è uscita fuori – spiega Palamara -, ho uno sfogo con Legnini, che è stato vicepresidente del Csm. E nel mio libro racconto anche come è diventato vicepresidente del Csm”. “Lo avverto – ricorda Palamara – che c’è qualcosa che non va. E quel qualcosa che non va è molto semplice. E collocabile al 21 maggio del 2019, allorquando un giornalista del Corriere della Sera viene nel mio ufficio e mi dice ‘sono arrivate le carte di Perugia che ti riguardano’. Da quel momento, ovviamente – ammette Palamara – la mia vita cambia perché conosco le regole del gioco, conosco gli accertamenti e quindi so quello che poi da lì a breve accadrà”. “Anche perché – aggiunge l’ex-pm romano – questa confidenza, rivelazione, del giornalista del Corriere della Sera, impatta un giorno molto importante che è il 23 maggio del 2019. Cioè il giorno in cui viene votato in Quinta Commissione il procuratore di Roma”. Nei giorni successivi, prosegue Palamara, “mi trovavo fra due fuochi: da un lato l’aspirazione a poter diventare procuratore aggiunto di Roma e, dall’altra, il fatto che io sapevo che la storia di Perugia, che viene portata all’esterno per la prima volta il 27 settembre del 2018 dal Fatto Quotidiano, in un modo o nell’altro mi verrà tirata fuori, perché anche queste sono regole del gioco all’interno del Csm”.
Ecco, a questo punto, il momento topico. “Ho uno sfogo con Legnini al quale dico: ‘Giovanni, se però poi succede qualcosa che non deve succedere, ovverosia, per essere chiari, la mia eliminazione per via giudiziaria, guarda che io racconto tutto. E racconto anche la storia del disciplinare, di quel giorno in cui Cascini mi fece quella rivelazione che io ti vengo a consegnare’…”. Ora “ritorniamo indietro – evidenzia Palamara -, e precisamente al luglio del 2018. Accade che il 4 luglio del 2018, cioè il giorno prima di una delle udienze del disciplinare a Woodcock, ebbi modo di parlare con Cascini, non con delle chat, ci fu un incontro”. “In quell’occasione – ricorda Palamara – c’era molta tensione anche all’interno dell’ufficio di Roma”. E “che cosa mi dice Cascini? Mi dice: ‘guarda che voi questo processo non lo potete fare perché c’è un’intercettazione tra Legnini e Pomicino’, questo dice, in virtù della quale comunque il processo non potrà essere continuato. Finita questa conversazione, lo ricordo come se fosse oggi, vado da Legnini e lo avviso della notizia che avevo avuto, perché per me poteva essere pure non vera”.
E Legnini, sottolinea Palamara, “sbianca, si preoccupa e mi dice ‘sì, è vero, ho parlato con Pomicino e ho espresso dei giudizi negativi su Woodcock”. E così, prosegue Palamara, “nel pomeriggio, e pure su questo vi è traccia sul mio telefonino, contatto l’allora procuratore di Roma e lo raggiungo per chiedergli conferma se è vero o meno dell’esistenza di questa intercettazione. Il procuratore di Roma mi dice ‘guarda che nel famoso riparto di competenze tra Napoli e Roma, quando il fascicolo che riguardava Romeo venne trasmesso a Roma, ci fu una trasmissione di atti che comprendeva delle intercettazioni che abbiamo noi ma che sono rimaste anche a Napoli’. Questa fu la risposta che mi diede. E fu la risposta che riconsegnai a Legnini”. Si trattava, spiega Palamara, “di un colloquio tra Legnini e Pomicino all’esito del quale Pomicino è andato nell’ufficio dell’intercettato, che era l’imprenditore Alfredo Romeo, e gli aveva rivelato il contenuto del colloquio che aveva avuto con Legnini”. Questo, aggiunge Palamara, “non c’è negli atti, c’è traccia delle mie telefonate con Pignatone, è il 4 luglio del 2018, e dei miei messaggi con Palazzi, il 4 luglio del 2018, e del fatto che il dottor Pignatone chiamò subito Legnini per relazionarlo di quanto accaduto. Questo è quello che racconto io specificando il perché il 28 maggio del 2019 parlo con Legnini in quel modo”. E’ “una versione documentata sugli atti – avverte Palamara -, perché altrimenti significherebbe vanificare gli effetti del Trojan per tutti, e non è la mia version, è la versione di come sono andate le cose. E il 5 luglio c’è il procedimento. Il procedimento non viene effettuato, si mette in moto un meccanismo interno rispetto al quale dobbiamo stabilire la strategia da seguire, che coinvolge anche il procuratore Fuzio”. “L’11 luglio – ricostruisce ancora Palamara – c’è un incontro tra Legnini e Melillo, anche questo è documentato agli atti perché Melillo ha la scorta e quindi può tranquillamente vedere e valutare la situazione. E stato detto che era normale che il procedimento disciplinare a Woodstock venisse rinviato venisse rinviato alla consigliatura successiva, benissimo”, ma “noi contestualmente facevamo un altro procedimento”, e “andate a vedere se quel procedimento è stato rinviato o no, e iniziò più o meno nello stesso periodo”. Lo “dicono i fatti, le carte, non lo dico io – conclude Palamara -, penso che chi sta al Csm deve assumersi la responsabilità di dire la verità, non di accusare altri di falso”. “Il libro di Palamara e le sue ultime uscite pubbliche squarciano un velo sul potere giudiziario reso opaco dalla degenerazione delle correnti, a discapito di tanti giudici e pubblici ministeri impegnati a svolgere il loro servizio con abnegazione”, osserva Giulia Bongiorno, senatrice e responsabile del Dipartimento Giustizia della Lega. “Una ricerca – aggiunge Bongiorno – diffusa di collateralismo alla politica ha inquinato singole inchieste, ma più in generale il rapporto tra poteri dello Stato e dunque le regole dell’agire democratico”. “Il prossimo governo in tema di giustizia non potrà mostrare timidezza, ma dovrà essere in grado di stroncare le distorsioni del correntismo. Senza questo punto di partenza fondamentale – conclude l’ex ministro leghista – ogni tentativo di rilancio della giustizia sarebbe vano”. E intanto l’ex Procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara annuncia querele in sede civile contro Palamara: “Tutte falsità e intendo far emergere la verità attraverso un’azione giudiziaria civile per risarcimento danni”, avverte Ferrara.
“IL SISTEMA” INIZIA A SGRETOLARSI? Palamara, non delegittimo magistratura. (ANSA il 29 gennaio 2021) - ROMA, 29 GEN - "La mia non è un'opera di delegittimazione magistratura ma il racconto di esperienze vissute". Lo ha detto Luca Palamara intervistato da Fatti e Misfatti, spiegando che tanti magistrati gli hanno "chiesto di raccontare la verità" (ANSA).
Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 29 gennaio 2021. Il governo Conte cade e non si rialzerà, perché non aveva i voti per fare passare la riforma della giustizia concordata più con i magistrati che con il Parlamento, cioè l' ennesimo atto di sottomissione della politica alla magistratura. Una magistratura che oggi, tra non pochi imbarazzi, inaugura l' anno giudiziario convinta - anche per la benevolenza di gran parte della stampa italiana - di poter non fare i conti con il caso Palamara e i suoi strascichi, primo fra tutti le rivelazioni che il magistrato ha fatto nel libro-confessione Il Sistema - ne sono il coautore e chiedo scusa per l' autocitazione - che ricostruisce in modo documentale gli indicibili intrecci tra politica e magistratura negli ultimi vent' anni. So bene che il presidente Mattarella in queste ore ha cose importanti e urgenti da fare, cioè tentare di ridare un governo al Paese (auguri presidente). Ma essendo stato proprio lui, appreso del caso Palamara, a parlare di «modestia etica» della magistratura, mi chiedo come possa accettare che il suo vicepresidente del Csm David Ermini partecipi oggi all' inaugurazione del primo anno giudiziario post-Palamara dopo aver appreso dalla lettura de Il Sistema la notizia - non smentita - che proprio Ermini fu eletto grazie a Palamara dopo una cena carbonara cui partecipò anche l' interessato insieme a un politico indagato, Luca Lotti del Pd. E mi chiedo se il primo procuratore di Cassazione (il magistrato più alto in carica dell' ordinamento) Giovanni Salvi oggi nella sua prolusione farà qualche riferimento al suo pranzo su una terrazza romana con Luca Palamara per cercare la sua benevolenza nel gioco delle nomine. Lo stesso discorso vale per blasonati procuratori e importanti giudici. Insomma mi chiedo con che faccia oggi i vertici della magistratura ci racconteranno che il caso Palamara è alle spalle e che loro sono il futuro. Ieri una trentina di importanti magistrati ha preso le distanze da questa ipocrita sceneggiata. È un primo e buon segno. Ma contemporaneamente Nunzio Sarpietro, il magistrato che ieri ha interrogato il premier Conte sul caso del blocco delle navi degli immigrati, uscendo da Palazzo Chigi ha dichiarato: «Il presidente del Consiglio ben rappresenta la volontà degli italiani». Roba da togliergli l' inchiesta, mi auguro che avvenga, per palese sudditanza psicologica, e mi fermo qui per evitare querele. Già, perché i magistrati non spiegano né rispondono alle critiche ma querelano, forti del fatto che cane non mangia cane. Questo è il loro Sistema.
Palamara, toghe in silenzio. E il pm Ielo querela l'ex capo Anm. Forza Italia: "Subito una commissione d'inchiesta". Floris zittisce Salvini: "Il libro? Doveva parlare prima". Anna Maria Greco, Giovedì 28/01/2021 su Il Giornale. Il sistema si difende con il silenzio. Tra i magistrati non si commenta il libro-intervista di Luca Palamara ad Alessandro Sallusti che s'intitola, appunto, «Il Sistema»(Rizzoli) e dimostra la commistione tra politica e attività giudiziaria. Tacciono i singoli nelle mailing list delle correnti, tacciono i consiglieri del Csm, tacciono i vertici della Anm. E quando Matteo Salvini, a Di martedi (La7), tira fuori le dichiarazioni che riguardano le sue vicende giudiziarie, dicendo che Palamara racconta dall'interno di una certa giustizia malsana come qualcuno utilizza a suo piacimento le inchieste, subito Giovanni Floris gli tappa la bocca: «Eh, ma se lo diceva prima, ormai è stato espulso». Gli unici che parlano del libro-denuncia sono quei magistrati che non si riconoscono in alcuna corrente e da anni cercano di scoperchiare il vaso di Pandora, come Palamara ha fatto adesso. «Nell'ascoltare il conduttore ieri sera (martedì, ndr)si è avvertita la sensazione che il Sistema abbia già predisposto la sua strategia difensiva per resistere all'uragano che dovrebbe investirlo», si legge nell'editoriale del blog «Uguale per tutti». Quella di Floris suona come «la tipica scusa italica: se me lo dicevi prima. A ben vedere è molto sospetta perché pare concepita a misura del Sistema, proprio lo stesso che PRIMA non ha fatto parlare un Palamara molto desideroso, invece, di raccontare e spiegare» e che «cacciandolo, conta di averlo screditato». In sostanza, «se parlava prima era ricatto; se parla dopo è vendetta». Sempre su «Uguale per tutti» Carmen Giuffrida, magistrato al Consiglio dell'Ue, ricorda che il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi in una direttiva ai suoi che valutano le toghe da accusare per le chat di Palamara, indicava «di non procedere con l'incolpazione nei casi di autopromozione». Ora nel libro si scopre che nel 2017 Giovanni Legnini, allora vicepresidente del Csm, voleva Salvi Pg della Cassazione e lui stesso a «giugno invitava Palamara su una splendida terrazza di un lussuoso albergo romano nei pressi di Corso Vittorio Emanuele e lì fastosamente si auto-promuoveva». Palamara assicura che dell'incontro con Salvi c'è prova sul suo cellulare e la Giuffrida conclude: «Escludere dall'azione disciplinare l'autopromozione dopo essersi autopromossi non è cosa che possa restare inosservata». Querela per diffamazione l'aggiunto di Roma Paolo Ielo e Palamara risponde: «La querela richiede l'onere della prova». Giuseppe Cascini del Csm dice al Fatto che è «tutto inventato», sulle sue pressioni per fermare il disciplinare contro il pm Henry J. Woodcock, ma l'ex presidente dell'Anm lo sfida «a un confronto pubblico», dicendo di aver prove e testimoni. Quanto alla politica, Maurizio Gasparri di Fi chiede «concrete azioni di radicale revisione della magistratura, con montagne di estromissioni» e prepara «specifiche iniziative» sull'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Il coordinatore siciliano azzurro Gianfranco Miccichè vuole una commissione d'inchiesta parlamentare: «L'accanimento nei confronti di Berlusconi è stato feroce e non si può escludere un'alta regia». Per Fabrizio Cicchitto, David Ermini che rimane vicepresidente del Csm conferma che è «un prodotto del sistema» e l'espulsione di Palamara «un modo per assicurarne la continuità». E l'azzurra Matilde Siracusano si augura che un nuovo governo introduca nella riforma del Csm il sorteggio, che il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha bocciato.
Palamara rilancia: "Fatemi raccontare il "Sistema". E adesso il Csm potrebbe ascoltarlo. Terremoto nella giustizia dopo il libro con Sallusti. L'ex leader Anm: "Querele? Non mi intimidiscono: se il Consiglio chiamerà, spiegherò tutto". Il laico Lanzi: "Giusto sentirlo". Felice Manti e Massimo Malpica, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Appuntamento al Csm. È quello che voleva Luca Palamara, l'ex leader Anm che con le sue rivelazioni contenute nel libro Il Sistema di Alessandro Sallusti potrebbe riscrivere la storia giudiziaria degli ultimi anni. «Quello che ho raccontato è basato alla mia esperienza diretta, credo che il luogo più appropriato per discutere i fatti e vicende raccontate sia il Csm, la prima commissione. Mi metto a disposizione per raccontare fatti e vicende», aveva detto l'ex pm a 24 mattino su Radio24. «Quasi quotidianamente oggi l'attività del Consiglio su nomine, valutazioni di professionalità è basata sull'interpretazione delle mie chat. Tanto vale chiamarmi, anche in un pubblico confronto con chi ritiene che io non abbia detto la verità, il Csm la sede istituzionale più competente per fare questo», ha spiegato Palamara, allontanato dalla magistratura in attesa del processo che lo aspetta a Perugia. «Giusto sentirlo», è la replica di Alessio Lanzi, membro laico di Forza Italia e vicepresidente della prima commissione del Csm, la stessa a cui vorrebbe parlare Palamara e che in questi giorni sta passando al setaccio una serie di pratiche aperte sulle chat estratte dal cellulare dell'ex leader Anm trasmesse a Palazzo dei Marescialli. «Noi ci stiamo occupando dei rapporti di Palamara e altri magistrati. La proposta potrebbe essere accolta - spiega ancora Lanzi - perché in effetti ci occupiamo dell'interlocuzione tra un magistrato, per il quale si valuta se avviare o meno un procedimento, e Palamara. Nei poteri della commissione potrebbe esserci anche quello di sentirlo direttamente. Può essere utile per capire il contesto e il tenore delle cose che si sono detti e che risultano dalle trascrizioni». Intervenendo al Tgr Calabria l'ex toga di origini calabresi ha parlato di Luigi de Magistris e Nicola Gratteri. Sul primo si dice convinto che il suo allontanamento fu deciso anche dall'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, come ha confermato ieri al Giornale lo stesso sindaco di Napoli: «Settori importanti della sinistra hanno fatto di tutto per delegittimare De Magistris ma le nostre posizioni erano condivise con il Quirinale. Per la prima volta nella storia dell'Anm - ha aggiunto - rompemmo il tabù di non difendere uno dei nostri. Fu la prima volta, riguardò solo De Magistris. Una disparità di trattamento che dopo mi ha fatto riflettere». Anche Gratteri non è apprezzato dalle toghe «rosse». «Basta prendere l'ultimo documento di pochi giorni fa di Magistratura democratica per capire che Gratteri non è benvoluto dalla parte che conta della magistratura. Ho sempre apprezzato, al di là del merito delle inchieste, comunque il suo coraggio». La mancata nomina a ministro della Giustizia? La Procura di Roma aveva timore che potesse diventare Guardasigilli». Accuse pesanti, per cui Palamara potrebbe non essere l'unico a cui il Csm è interessato: «Io ero uno degli elementi del sistema, non mi sottraggo. Spero facciano così anche altri», sottolinea infatti lo stesso ex pm romano, che chiama in correità «i magistrati che hanno l'obbligo della verità, soprattutto quelli che siedono al Csm. Nessuna querela può intimidirmi: chiamatemi in prima commissione - ha ribadito - luogo deputato a valutare questi fatti, dubbi e perplessità in quella sede troveranno risposte». La prima querela è quella avanzata dal pm romano Paolo Ielo, probabile che nei prossimi giorni ne arrivino altre: «Se si dovessero verificare, sarà l'occasione per chiarire pubblicamente di fronte a un giudice il mio racconto, anzi contribuisce a un'operazione di verità e chiarezza che ho sentito il dovere di fare», ribadisce ancora l'ex pm.
"Smentite o dimettetevi" 27 toghe chiedono la testa dei vertici della giustizia. Nel mirino il pg di Cassazione Salvi e il membro Csm Cascini: "Gravissime le accuse di Palamara". Massimo Malpica e Felice Manti, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. «Smentite o dimissioni». I tormenti delle toghe per le rivelazioni del caso Palamara tracimano dalle mailing list e dalle chat private e diventano un macigno per i vertici della magistratura. Almeno 27 toghe (ma chi ha lanciato l'iniziativa assicura che alla fine saranno molte di più) hanno chiesto la testa del Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e del consigliere del Csm Giuseppe Cascini, entrambi pesantemente tirati in causa nel libro-intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara Il Sistema. Diversi magistrati, tra cui l'ex gip di Milano Clementina Forleo, oggi in servizio al tribunale di Roma, e gli esponenti di Articolo 101 nel direttivo dell'Anm, Andrea Reale e Giuliano Castiglia, chiedono ai due di smentire «in maniera convincente» i fatti riportati nel libro o di abbandonare le cariche ricoperte». L'attuale procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, è finito nel mirino perché in almeno due occasioni avrebbe incontrato l'allora componente del Csm, «in privato e su sua richiesta, per caldeggiare la propria nomina a importantissimo incarico pubblico», almeno secondo la ricostruzione di Palamara. «Ove veri, questi fatti gettano un'ombra inquietante sia sui loro asseriti protagonisti che sulla sorprendente circolare dello stesso procuratore generale che assolve per principio chi raccomanda se stesso per incarichi pubblici e chi quella raccomandazione accetta». I fatti riferiti da Palamara sono narrati in maniera molto dettagliata», dice off the record al Giornale uno dei firmatari, «Salvi non può rappresentare la titolarità dell'azione disciplinare nel momento in cui appare come una persona raccomandata da chi è stato cacciato per infedeltà alla magistratura. Come si è fatta pulizia in questi mesi di chi si è macchiato di fatti gravissimi - continua il magistrato firmatario della richiesta choc - a maggior ragione deve andare via o deve smentire le ricostruzioni di Palamara con dichiarazioni convincenti». Sulla graticola è finito anche uno degli attuali componenti del Csm, l'ex leader dell'Anm Giuseppe Cascini, accusato da Palamara e dai firmatari della lettera di una «indebita e pesante interferenza in un procedimento disciplinare a carico di un collega (Henry John Woodcock, ndr), compiuta quando il primo svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma». Ma Cascini ebbe un peso anche sul caso Forleo, spostata da Milano per aver indagato sui Ds, e sul caso de Magistris. Tra i firmatari c'è infatti anche Gabriella Nuzzi, ex pm di Salerno a cui si era rivolta l'ex pm di Catanzaro per spiegare i contorni dell'inchesta «Why Not». La Nuzzi venne trasferita dal Csm su richiesta dell'allora Guardasigilli Angelino Alfano proprio per aver cercato di far luce su quelle vicende. Un trasferimento «benedetto» da Palamara e dall'Anm, da cui la Nuzzi uscì definendo il comportamento di Palamara «insopportabilmente oltraggioso». «Palamara ha semplicemente portato alla luce ciò che tutti sapevano. Non credo sia tutto oro colato, ma ormai non possiamo più tacere», commenta a caldo un altro magistrato che ha deciso di sottoscrivere l'appello lanciato da Articolo 101, il movimento («non è una corrente», precisa) guidato da Giuliano Castiglia e Andrea Reale che nella magistratura raccoglie sempre più consensi e che alle ultime elezioni dell'Anm ha in parte drenato i voti della corrente di Piercamillo Davigo. Il loro programma politico per eliminare le incrostazioni del potere delle correnti si muove su due binari: «L'elezione dei membri del Csm pescati da una lista composta da magistrati estratti con un sorteggio temperato e la rotazione degli incarichi direttivi». «La mia presunta interferenza nel procedimento disciplinare Woodcock è una falsità, ho già dato mandato al mio legale di agire in giudizio», ha risposto in serata Cascini. Una nuova guerra tra toghe è appena iniziata e nessuno sa come e quando finirà.
LA LETTERA INTEGRALE DEI 27 MAGISTRATI SU SALVI E CASCINI
Secondo quanto riportato nel libro “Il Sistema”, in vendita da ieri, l’attuale procuratore generale della Cassazione, dott. Giovanni Salvi, in almeno due occasioni avrebbe incontrato in privato e su sua richiesta il dott. Luca Palamara, all’epoca componente del Csm, per caldeggiare la propria nomina a importantissimo incarico pubblico. I fatti riferiti dal dott. Palamara sono narrati in maniera molto dettagliata e sono stati ribaditi ieri sera nella nota trasmissione “Porta a Porta”. Ove veri, gettano un’ombra inquietante sia sui loro asseriti protagonisti che sulla sorprendente circolare dello stesso Procuratore Generale che “assolve” per principio chi raccomanda se stesso per incarichi pubblici e chi quella raccomandazione accetta. Nello stesso libro si attribuisce all’attuale componente del Csm, dott. Giuseppe Cascini, una indebita e pesante interferenza in un procedimento disciplinare a carico di un collega, compiuta quando il primo svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma. Appare evidente che la gravità delle accuse rivolte pubblicamente e ora note a tutti e la rilevanza dei ruoli ricoperti nell’assetto costituzionale dai dottori Salvi e Cascini impongono loro di smentire in maniera convincente i fatti o dimettersi dalle cariche ricoperte. Confidiamo che i dottori Salvi e Cascini sapranno scegliere una delle due alternative. Lo devono alla Repubblica italiana alla quale hanno prestato, come noi, giuramento di fedeltà.
1. Milena Balsamo (Corte di Cassazione)
2. Francesco Bretone (Procura Bari)
3. Giuliano Castiglia (Tribunale Palermo)
4. Natalia Ceccarelli (Appello Napoli)
5. Matteo Centini (Procura Piacenza)
6. Donato D’Auria (Tribunale Pisa)
7. Desirèe Digeronimo (Procura Roma)
8. Gabriele Di Maio (Appello Salerno)
9. Stefania Di Rienzo (Appello Bologna)
10. Giovanni Favi (Tribunale Torre Annunziata)
11. Clementina Forleo (Tribunale Roma)
12. Giovanni Genovese (Tribunale Vicenza)
13. Carmen Giuffrida (Esperto Nazionale Distaccato presso il Consiglio dell’Unione Europea)
14. Consiglia Invitto (Appello Lecce)
15. Paolo Itri (Procura Napoli)
16. Alessio Liberati (Tribunale Roma)
17. Felice Lima (Procura Generale Messina)
18. Ambrogio Marrone (Tribunale Bari)
19. Andrea Mirenda (Ufficio di sorveglianza di Verona)
20. Ida Moretti (Tribunale Benevento)
21. Pietro Murano (Tribunale Pisa)
22. Andrea Reale (Tribunale Ragusa)
23. Nicola Saracino (Appello Roma)
24. Daniele Sansone (Procura Palermo)
25. Giorgia Spiri (Procura Palermo)
26. Massimo Vaccari (Tribunale di Verona)
27. Luciano Varotti (Appello Bologna)
Resa dei conti tra toghe sulle chat di Palamara. Unicost: intervenga l'Anm. La corrente di cui faceva parte l'ex pm si schiera: "Rilievo deontologico dei fatti". Anna Maria Greco, Martedì 02/02/2021 su Il Giornale. I probiviri dell'Associazione nazionale magistrati individuino le «responsabilità deontologiche» e le eventuali sanzioni per le toghe di cui parla Luca Palamara nel libro-intervista con Alessandro Sallusti Il Sistema (Rizzoli). Lo chiedono i componenti del comitato direttivo centrale del «sindacato» dei magistrati di Unità per la costituzione, la corrente centrista che era guidata dall'ex presidente dell'Anm, dopo lo scandalo radiato dalla magistratura e in attesa di processo a Perugia. I fatti riportati nel volume, scrivono in una nota, «ci costringono ancora una volta a confrontarci con situazioni che, se confermate, nella doverosa distinzione tra condotte dei singoli e corpo sano della magistratura, rappresenterebbero una nuova, profonda ferita alla Istituzione, così aggravando il decadimento di credibilità dell'intero ordine giudiziario». Dopo i procedimenti giudiziari e quelli disciplinari al Csm, si preannunciano dunque nuove azioni da parte dell'Anm, che non può ignorare le novità emerse nel Sistema. A Palazzo de' Marescialli, invece, tutto tace e lo stesso Palamara in un'intervista a Libero sollecita una convocazione per spiegare i fatti raccontati. «Dice di essere pronto e di avere le prove - spiega al Giornale un membro del Csm - ma noi non possiamo intervenire sulla base di un intero libro. Palamara sa bene che ci servono degli esposti documentati su episodi specifici». Pochi giorni fa la prima a sollecitare un «rapidissimo accertamento della veridicità dei fatti narrati» è stata la corrente Magistratura indipendente e arrivano a 80 le firme dell'appello per chiedere al Pg della Cassazione Giovanni Salvi e al membro del Csm Giuseppe Cascini di smentire le accuse di Palamara nel volume o di dimettersi. La raccolta, firmata tra gli altri, da Clementina Forleo e Desirée Digeronimo, trova molti sottoscrittori tra chi non si riconosce nelle correnti. Chi smentisce le affermazioni fatte domenica a Non è l'Arena da Palamara è il presidente del Tribunale del Vaticano ed ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone: «Non ho mai parlato con il ministro della Giustizia Bonafede di qualsiasi incarico e in particolare dell'eventuale nomina del Di Matteo a capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria». Palamara, invece, conferma. Ora l'attenzione è puntata sull'Anm, che sabato riunirà il suo vertice. I membri di Unicost del direttivo sollecitano l'urgente acquisizione degli atti alla procura di Perugia e la fissazione di «criteri oggettivi e uniformi» e di un «cronoprogramma» che fissi scadenze certe. Un discorso «garantista», che comunque mette in moto il meccanismo. «Occorre agire - si legge nella nota - per arrivare in tempi rapidi, con rigore, equilibrio e rispetto delle necessarie garanzie, alla valutazione del rilievo deontologico dei fatti. Lo dobbiamo ai cittadini e a noi stessi, servitori dello Stato». I 5 probiviri si sono appena insediati, si è discusso se confermare quelli precedenti, che hanno radiato Palamara e sanzionato uno dei 5 partecipanti alla famosa riunione dell'hotel Champagne, Paolo Criscuoli (che ha impugnato), mentre gli altri hanno preferito lasciare l'Anm, ma alla fine su input soprattutto di MI si è deciso di rinnovarli. In base al codice etico dell'Anm, potrebbero decidere nuovi procedimenti e gli illeciti disciplinari possono portare a varie sanzioni, dalla censura, all'interdizione dai diritti sociali, fino all'espulsione. Dopo l'istruttoria, i probiviri possono decidere di assolvere e il loro parere è vincolante, altrimenti il giudizio è del direttivo.
Francesco specchia per “Libero quotidiano” l'1 febbraio 2021. Luca Palamara, romano, classe '69, ex enfant prodige dell' Associazione Nazionale Magistrati e membro del Csm, ha l' aria allegra dell' angelo sterminatore. In questi giorni infiammabili d' apertura dell' anno giudiziario col suo libro scritto con Alessandro Sallusti "Il sistema" (Rizzoli) ha spalmato di napalm quell' intreccio vischioso di magistratura e politica di cui è stato per anni centro di gravità. Palamara, lei è stato espulso dalla magistratura per le note vicende che partono dalla "degenerazione correntizia" al pilotaggio politico delle nomine. Ma il suo memoir vende, e spacca la magistratura. Perché?
«Ho scritto questo libro, oltre che per i cittadini, anche e soprattutto per venire incontro alle richieste di molti magistrati - 24 di loro mi hanno scritto un lettera aperta (la più nota è Clementina Forleo, ndr) - dove che mi chiedevano di mettere a nudo il meccanismo della giustizia italiana, di raccontare di come davvero stavano le cose. Che non erano solo quelle della notte dell' Hotel Champagne (che poi non era notte, ma sera tarda); ma si trattava di una sorta di ragnatela di potere che coinvolgeva chiunque avesse una rappresentanza. Ecco, l' idea è che debba esserci una seria riflessione su questo, mi pare giusto specie per quei colleghi che rimangono ai margini perché non si identificano nelle correnti, soprattutto le correnti di sinistra».
Dove vuole arrivare con le denunce del suo libro? Vuole vendicarsi di avversari come il vicepresidente del Csm Ermini che la giudica "una scoria", di chi - come dice lei - ora la attacca e prima le chiedeva favori?
«Non capisco chi mi imputa di voler scardinare la magistratura. Questo è un libro a favore della magistratura. Ma se lei mi chiede se ora la magistratura è credibile, bé, è un altro paio di maniche. La magistratura è fatta di posizionamenti, collateralismo, gerarchie».
Quindi ammette che esisteva un "sistema Palamara" con cui si gestivano le carriere in nome di un consociativismo con la politica?
«Certo, ma non era il "sistema Palamara". E "sistema", da vocabolario, non è un' organizzazione criminale, ma una relazione fra più soggetti. L' idea che una sola persona potesse decidere - io, nella fattispecie - stride con la realtà. Il sistema è quello delle correnti, e i meccanismi di potere sono regolati da un' oligarchia di cui io facevo parte. Chi era fuori dalle correnti non contava. Ma non c' ero solo io, ripeto. Le pare possibile che, parlando di intrecci tra magistrati e politici, i protagonisti riuniti all' Hotel Champagne erano gli stessi che hanno partecipato all' elezione di Ermini, ma lì nessuno ha avuto da ridire. Sono diventato il capro espiatorio. Ma non è che "se esce Luca risolviamo i problemi", così non funziona».
Spiazza che lei esca con un libro di denuncia in un momento in cui i suoi colleghi devono ancora pronunciarsi definitivamente sulla sua espulsione. Non teme di complicare la sua situazione?
«Non ho alcun timore, le assicuro. Se l' ho fatto, è esclusivamente per dover di verità. Ho le carte. Posso dimostrare, per dire, che Gigliotti e Ermini stesso (entrambi Csm, ndr) mi contattarono per avere il sostegno per la nomina del vicepresidente del Csm. E lo fecero anche dopo che Il Fatto Quotidiano aveva pubblicato l' inizio dell' inchiesta».
L'Anm l'ha cancellata per corruzione. Dice che lei ha avuto la sua possibilità di essere audito ma che è stato vago. Cosa succederà quando e se riaprirà il suo caso?
«L' audizione presso l' Anm è stata fatta davanti a 100 persone su 9000 membri, tra l' altro tutti di un' unica corrente. Non so quanta rappresentatività possa avere quell'organo. D' altronde, quando il presidente Grasso si è solo permesso di sollevare dubbi sul sistema senza essere troppo duro col sottoscritto, venne fatto dimettere dalla corrente di sinistra».
La mia domanda era un' altra, però.
«Io ho fiducia che il nuovo presidente dell' Anm, il dottor Santalucia, esponente di Magistratura Democratica, che conosce bene sia la mia storia personale che quella del dottor Fava (pm coinvolto anch'egli nel processo disciplinare, ndr), dato che eravamo insieme a Reggio Calabria, faccia un' indagine a 360° non solo su di me ma su tutto il sistema. Santalucia, quando parla di magistrati che hanno agito "per tornaconto personale", non si riferisce a me ma a quei colleghi che hanno fatto carriera in ruoli pubblici o privati».
Giovanni Bianconi, firma giudiziaria del Corriere della Sera, scrive che la sua ricostruzione è parziale con «episodi chirurgicamente selezionati». Parla di «tossine in circolo».
«Aspetto di fare sentire la registrazione audio tra me e Bianconi del 21 maggio scorso, quella intercettata dal trojan. Ne farò esplicita richiesta».
Quando Berlusconi denunciava l'accanimento giudiziario, lei era un avversario. Il presidente Cossiga a SkyTg24 la prese addirittura a sberle metaforiche, rise ferocemente di lei. Avevano ragione?
«Non sono mai entrato nel merito dei processi, ma certo l'azione politica della magistratura c'era. Come nel caso di De Magistris è indubbio che si è preferito allontanare magistrati "non in linea", così vale per Berlusconi. L' Anm, anche con me presidente, ha agito spesso ha senso unico, diciamo svolgendo un ruolo di opposizione politica. E, certo, fui amareggiato da quello che ritenevo un attacco personale di Cossiga; ma onestamente, devo dire che ho compreso politicamente le sue ragioni».
Un risultato l' ha ottenuto: le toghe sono in subbuglio. Si aspetta che la chiami il Csm per sentirla?
«Il procuratore di Napoli Riello mi invita a non denunciare attraverso i libri ma attraverso le Procure. Ma io l' ho fatto. Prima di scrivere il libro i magistrati erano stati ampiamente informati. E, dato che l' attività del Csm su nomine e valutazioni e molto altro è basata sulle mie chat, tanto vale che io venga sentito direttamente. Mi metto a completa disposizione con nomi, date, documenti. Che mi chiami, il Csm».
Il presidente della Cassazione Curzio sostiene che oggi la giustizia è inadeguata e urgono riforme. Il Consiglio d' Europa ci avverte che i nostri processi sono i più lenti del continente, che il 50% degli italiani non si fida dei magistrati. Arriveranno le riforme, o è il solito fumo?
«Servirebbe non parlare genericamente di "riforme" e entrare nel dettaglio. Per esempio, ci sono cose da rivedere come l' ingiusta detenzione alla base degli errori giudiziari. Poi c' è la mancanza di personale che causa disagio. Poi c' è la lentezza dei processi che impedisce agli investitori stranieri di avvicinarsi. Infine ci sono le riforme ordinamentali, che non si toccano mai. E quante volte ha sentito della riforma sulla legge elettorale del Csm? L' unico modo per scardinare le correnti e il sistema era il sorteggio, da me caldeggiato, ma non l' hanno mai adottato».
E la separazione delle carriere, e le "porte girevoli" delle toghe che vanno in politica e rientrano.
«La separazione è già in atto da qualche anno: di fatto, chi sceglie la carriera di giudice finisce con quella, idem per i pm. Mentre sulle "porte girevoli" bisogna prendere una decisione definitiva: non si può - è vietato dalla Costituzione - impedire ai magistrati di candidarsi in politica, ma si deve bloccargli il rientro».
Il ministro Bonafede nella sua relazione sulla giustizia non ha parlato di prescrizione, ha appena accennato ai detenuti del 41 bis a casa per Covid, e poco altro? Doveva entrare più nel merito?
«Bonafede è la rappresentazione plastica del fatto che questo momento storico ha reso monco il dibattito sulla giustizia».
Palamara, scusi, ma lei perché è entrato in magistratura?
«Grazie all' esempio di mio padre, magistrato prematuramente scomparso. E l' ho fatto, chiaramente, sulla scorta dei suoi insegnamenti basati sul rispetto della giustizia e della legge, della tenuta delle regole, della necessità di comprendere le cose fino in fondo e non solo al primo sguardo per comprenderne la verità».
Giustappunto, l' etica. Gliela metto giù secca: considerando tutto, non si sente, come magistrato, di aver fatto qualcosa di eticamente sbagliato?
«Io mi sono comportato esattamente secondo i meccanismi - noti a tutti, ripeto - che il sistema imponeva. Ma non ho ottenuto vantaggi di carriera o politici, non ho avuto incarichi altisonanti; certo, sono diventato un personaggio pubblico, ma le assicuro che ne avrei fatto volentieri a meno. Credo che il mio spostamento a destra e la rottura con la componente di sinistra dei colleghi abbia creato la frattura che ha portato a questo».
Ho capito, non sfugga. Era il sistema di cui faceva parte, che lei ha avuto comunque il merito di denunciare. Ma rifarebbe quel che ha fatto?
«Io pensavo di poter cambiare il sistema da dentro, non ci sono riuscito. Mi assumo la mia quota di responsabilità, ma pensavo di agire per il bene di tutti».
Palamara: «Il sistema ha fatto fuori Di Matteo». Il Dubbio il 31 gennaio 2021. «Fino a quando non ci sarà una decisione definitiva io sono ancora un magistrato», ha dichiarato l’ex presidente dell’Anm. «Identificare soltanto con me i problemi della magistratura italiana è sbagliato. I problemi di cui parliamo oggi sono problemi arroccati, e il sistema è diventato una casta. Tutto è nato quando si decise di mettere la politica nella magistratura». Lo ha detto l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, nel parlare anche del suo nuovo libro “Il Sistema”, a “Non è l’Arena” su La7. «Fino a quando non ci sarà una decisione definitiva io sono ancora un magistrato – ha ricordato Palamara – e tanti magistrati mi hanno chiesto di raccontare la verità, come funziona “il sistema”. «In tanti nella magistratura mi hanno chiesto di raccontare la verità, spiegare come funziona il sistema. La più grande soddisfazione è stata sentirmi dire da un magistrato che il mio libro dice la verità. Io mi sono messo a disposizione delle varie autorità giudiziarie e sono disponibile a reiterare le mie affermazioni davanti alla I Commissione del Csm per un confronto». «È il sistema che ha fatto fuori Di Matteo», ha detto l’ex presidente dell’Anm, riferendosi alla mancata nomina del pm Nino Di Matteo a capo del Dap. «Di Matteo non era assolutamente controllabile -, ha aggiunto -. In quel periodo si discuteva sui posti apicali al ministero, all’interno della magistratura c’è un problema di gelosie». «La magistratura riflette il dibattito che c’è all’esterno. A livello giuridico ci sono state delle prese di posizione nell’ambito della trattativa che ha coinvolto il consigliere Di Matteo. Significa che come c’era preoccupazione per il fatto che Di Matteo potesse diventare capo del Dap, evidentemente il sistema si preoccupava pure che Di Matteo potesse monopolizzare la sua posizione», ha detto l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. «Lo stesso identico sistema, ad esempio, non poteva permettersi Gratteri come ministro della Giustizia – ha detto ancora Palamara – In quel caso l’interlocuzione dei magistrati con il Quirinale avveniva come è sempre avvenuta».
Ciclone Palamara. L’Anm si indigna per il libro shock, ma qualcuno chiede «verità». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 30 gennaio 2021. Magistratura indipendente ora chiede un «rapidissimo accertamento della veridicità dei fatti narrati». Il “Sistema”, il libro-intervista di Luca Palamara con Alessandro Sallusti, già sold out in molte parti d’Italia, sta scatenando, com’era prevedibile, polemiche feroci fra le toghe. Le rivelazioni dell’ex togato Csm, per anni punto di riferimento dell’associazionismo giudiziario, hanno messo in imbarazzo più di un magistrato. Diverse le querele già presentate. «Quanti sono chiamati in causa spiegheranno e diranno la loro verità e chi ne ha il potere distribuirà torti e ragioni. Quel che non può tollerarsi», è la reazione che il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha affidato ieri a una nota, «è che una intera istituzione, la magistratura, paghi oggi un prezzo elevatissimo in termini di sfiducia collettiva e di pericolosa delegittimazione per l’opera di quanti hanno creduto di poterla utilizzare per personale tornaconto. È il tempo della reazione indignata», è il passaggio chiave di Santalucia, «contro chi, per comprensibile convenienza, non si immerge nella faticosa opera di distinguere i fatti e i comportamenti dei singoli ma cuce con suggestione narrativa tanti diversi episodi per tratteggiare con le fosche tinte del complotto l’esistenza di un ‘ sistema’ in cui la magistratura si muoverebbe come un corpo unitario, animato da convenienze faziose e interessi corporativi». Parole durissime che, però, non sembrano essere condivise da tutti. A prendere le distanze dal presidente dell’Anm, esponente di primo piano della componente progressista “Area”, sono i vertici di “Magistratura indipendente”, Mariagrazia Arena e Paola D’Ovidio, rispettivamente presidente e segretario della corrente moderata. “Mi”, si ricorderà, era stata “penalizzata” dallo scoppio dall’affaire Palamara, con tre consiglieri su cinque al Csm costretti alle dimissioni per aver partecipato all’incontro all’hotel Champagne. «I fatti in questione, se veri, determinano discredito e un grave vulnus di credibilità della magistratura. Chiediamo con forza un rapidissimo accertamento della veridicità dei fatti narrati e una loro rigorosa valutazione, da operarsi nel rispetto di ogni garanzia, da parte degli organi preposti nell’interesse dell’intera magistratura e dei cittadini». Dello stesso tenore il commento della presidente, a sua volta vicina a “Mi”, della Corte d’Appello di Venezia, Ines Marini: «Sarebbe sbagliato risolvere ogni cosa con l’espulsione del singolo, facendone un capro espiatorio: occorre circoscrivere la discrezionalità del Csm nelle nomine, privilegiando l’anzianità di servizio e l’esercizio effettivo dell’attività giurisdizionale rispetto a quella svolta fuori ruolo oppure in incarichi elettivi, anche istituzionali, perché questi ultimi presuppongono l’indispensabile supporto delle correnti». Dopo lo scambio fra vertice Anm e componente “moderata”, ieri è poi di nuovo intervenuto Palamara, ormai corteggiatissimo dai media: domenica è atteso a “Non è l’arena” su La7: «Non sto parlando come una persona che è definitivamente fuori dalla magistratura, la decisione del Csm sulla mia rimozione è temporanea, non è definitiva, né esecutiva», ha esordito a chi gli domandava se avesse nostalgia della toga. «Nel libro – ha poi aggiunto – racconto fatti accaduti. Se l’ho fatto è per dare un contributo e svolgere una riflessione sul mondo della magistratura». Alla domanda sul perché avesse deciso di scrivere un libro, ha risposto di voler «spiegare il meccanismo delle nomine, anche perché il racconto che viene fuori dai giornalisti di giudiziaria è il racconto di giornalisti divenuti magistrati aggiunti, perché parlano con gli stessi e quindi diventano depositari di verità. Se qualcuno si sente danneggiato può chiamarmi e parlarne, io ci sono», ha quindi concluso, rinnovando l’invito a essere ascoltato dalla prima commissione del Csm, competente per le incompatibilità ambientali, con particolare riferimento alle polemiche per i passaggi del libro in cui e citato, fra gli altri, il togato Giuseppe Cascini, che giovedì sera ha annunciato di voler querelare Palamara. Ieri è arrivato anche il commento di Andrea Reale, fra i fondatori di Articolo 101. Il gruppo delle toghe “anticorrenti” aveva chiesto al pg di Cassazione Giovanni Salvi e allo stesso Cascini di querelare Palamara per quanto scritto nei loro confronti nel libro. Cascini ha appunto immediatamente assecondato l’invito. «Chiederemo all’Anm di prendere una posizione: auspichiamo il confronto pubblico anche in una sede istituzionale», precisa Reale, secondo cui «tutti i cittadini hanno il diritto di sapere come sono andati i fatti». A Palamara, osserva Reale, «è stato tolto il diritto di parola e di difendersi davanti all’Anm. Il processo disciplinare è stato troppo frettoloso, gli hanno falcidiato la lista testi. L’Anm deve decidere se essere parte offesa o riconoscere di essere stata protagonista di una stagione infamante della magistratura e dare atto al nuovo corso. Palamara è stato solo la punta di un iceberg».
Le rivelazioni di Palamara spaccano la magistratura: “Salvi e Cascini, dimettetevi o querelate”. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. «Salvi e Cascini perché non querelate?». Nella lunga lista di magistrati che, a poco più di due giorni dall’uscita del libro Il Sistema, ritenendosi diffamati hanno dato mandato ai propri avvocati di querelare Luca Palamara, primi fra tutti Paolo Ielo, procuratore aggiunto a Roma, e Antonio Esposito, già presidente di sezione in Cassazione, mancano due nomi di “peso”: il capo delegazione di Area, la corrente di sinistra delle toghe, al Csm Giuseppe Cascini, e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, anch’egli di Area. Ad “insospettirsi” del fatto che i due alti magistrati fino a ieri sera non avessero denunciato Palamara stati i loro stessi colleghi che hanno deciso di pubblicare una lettera aperta. Salvi, secondo la ricostruzione contenuta nel libro, per caldeggiare la propria nomina a Procuratore generale della Cassazione, nel 2016 avrebbe, presente il vice presidente del Csm Giovanni Legnini, invitato Palamara, allora potente zar delle nomine a Palazzo dei Marescialli, «su una splendida terrazza di un lussuoso albergo nei pressi di Corso Vittorio Emanuele». «Un candidato che incontra privatamente il presidente della Commissione che dovrà giudicarlo?», domanda Alessandro Sallusti, il coautore del libro. E Palamara risponde: «Appunto, nella vita dei comuni mortali se queste cose le fa un politico su una nomina pubblica finisce sotto inchiesta, se lo fa un magistrato nulla da dire». Palamara ricostruisce dettagliatamente l’incontro al termine del quale non si sarebbe sbilanciato. Legnini, preoccupato, gli avrebbe allora detto di «non fare scherzi, su Salvi ho preso un impegno con il Quirinale». Nulla da fare. La nomina andrà poi a Riccardo Fuzio, detto “baffetto”, esponente di Unicost, la corrente di cui Palamara è stato leader indiscusso per un decennio. Legnini, terminato il voto, così avrebbe replicato a Palamara: «Mi hai umiliato agli occhi del Quirinale, penseranno che io non conto nulla». Su Cascini, invece, la vicenda è già stata raccontata nei giorni scorsi dal Riformista. A luglio 2018, quando la consiliatura del Csm stava volgendo al termine, Cascini avrebbe avvisato Palamara che esisteva una intercettazione telefonica fra Giovanni Legnini e l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. Nella telefonata il vice presidente del Csm aveva espresso giudizi molto pesanti nei confronti di Henry John Woodcock. Il pm napoletano, in quel momento sotto procedimento disciplinare al Csm per come aveva condotto l’indagine Consip, sarebbe stato intenzionato a far arrivare questa intercettazione ai giornali per dimostrare la non imparzialità di Legnini. Una mossa che avrebbe messo in pessima luce il vice presidente che presiedeva il collegio, di cui faceva parte Palamara, e che doveva emettere la sentenza. Cascini, allora, avrebbe avvisato Palamara che era meglio che il procedimento disciplinare si fermasse. Cosa che poi avvenne. Da un lato, dunque, “l’autopromozione” per una nomina, dall’altra l’ingerenza in un procedimento disciplinare. «O smentiscono in maniera convincente o si devono dimettere», concludono quindi le toghe. Prima firmataria della lettera la giudice di Cassazione Milena Balsamo, poi Clementina Forleo, il pg di Messina Felice Lima, il giudice di sorveglianza di Verona Andrea Mirenda e il gip a Ragusa Andrea Reale, uno dei capi di Articolo 101, il gruppo “anti correnti”. In serata, invece, è arrivata la notizia che la Prima commissione del Csm è pronta ad ascoltare Palamara. L’ex presidente dell’Anm aveva fatto un appello in tal senso ieri sul Riformista. «Non abbiamo una richiesta formale, ma la sua proposta potrebbe essere accolta», ha detto il vice presidente della Prima commissione, competente sulle incompatibilità dei magistrati, Alessio Lanzi (FI).
La verità di Palamara: “Le correnti decidono tutto…” Il Dubbio il 25 gennaio 2021. Il libro verità di Luca Palamara: “La verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e, direttamente o indirettamente, i loro referenti politici, e ciò è ampiamente documentabile”. “Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”. Lo racconta Luca Palamara ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura, incalzato dalle domande di Alessandro Sallusti, nel libro ‘Il Sistema – Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana’, in uscita domani per Rizzoli. “La verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e, direttamente o indirettamente, i loro referenti politici, e ciò è ampiamente documentabile”.
“Legnini mi insulta”. “Dopo la votazione al Csm che incorona Fuzio raggiungo il vicepresidente Legnini a Chieti per partecipare a un convegno. Mi insulta, si sfoga: ‘Tu mi hai umiliato agli occhi del Quirinale, penseranno che io non conto nulla, non finirà qui'”. racconta Palamara
“Il pontiere tra magistratura e politica”. “Io per natura sono un pontiere, colui che crea ponti tra quel sistema – il sistema di potere della magistratura – e la politica”. “Renzi e Lotti – aggiunge Palamara – hanno il potere politico, io le conoscenze e un bel pacchetto di voti da mettere sul tavolo delle nomine che contano in magistratura. “Quando nel dicembre del 2010 si parla di un possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità”,racconta Luca Palamara. “Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un’inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui lui è il numero due dopo Silvio Berlusconi – spiega l’ex pm – Abbiamo più di un incontro, ci rassicura che con lui a dirigere la Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati. Tra noi certamente c’è un buon feeling che diventa collaborazione attiva nel fornirgli pareri e spunti per emendare leggi che, direttamente o indirettamente, riguardano il nostro mondo”.
Palamara: «Le mie cene segrete? Sì, con pm e direttori di giornale». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 26 gennaio 2021. Il titolo del libro dice tutto: “Il Sistema”. L’ex capo Anm lo ha pubblicato ieri, sotto forma di intervista ad Alessandro Sallusti. È una definitiva delegittimazione della magistratura italiana. «Pm e giornalisti si usano a vicenda…». È uscito ieri. Ed è già un caso, ovviamente. “Il Sistema”, il libro-intervista di Luca Palamara con Alessandro Sallusti edito da Rizzoli, si fa notare già per il “promettente” sottotitolo: “Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”. Si tratta di un evento editoriale atteso da tempo da parte di molti “addetti ai lavori” del mondo della giustizia: toghe, politici, uomini delle istituzioni. Da un lato la naturale curiosità, dall’altro il timore di essere stati tirati in ballo dall’ex presidente della Anm, recentemente radiato dalla magistratura.
Verso la definitiva delegittimazione delle toghe. Il volume ripercorre dieci anni di storia del Paese. Ciò che emerge già dalla lettura delle prime pagine non è molto edificante e, probabilmente, contribuirà ad accelerare il processo di delegittimazione, già in atto da tempo, della magistratura italiana. Delegittimazione del potere giudiziario che d’altronde non può essere considerata una colpa di Palamara. Il quale ha solo avuto il “merito”, se così si può dire, di raccontare per primo episodi e circostanze di cui molti avevano avuto da tempo il sentore. Molto spazio è dedicato alle nomine “pilotate” di cui in questi mesi si è avuta contezza con la lettura delle chat fra Palamara e centinaia di magistrati. “Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome, può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”, precisa serafico l’ex pm della Procura di Roma.
Pm-giornali, vero blocco di potere. La magistratura, nella ricostruzione di Palamara (e Sallusti), è riuscita a influenzare in maniera determinante la politica italiana, dando vita appunto a un “Sistema”, come da titolo del libro, che non ammette defezioni. Chi prova a cambiarlo viene “abbattuto” con vari metodi: dossieraggi su giornali compiacenti, procedimenti penali, pratiche disciplinari al Csm. Tanti gli episodi raccontati nelle circa 300 pagine. Un capitolo, che merita di essere letto con attenzione, riguarda i rapporti fra i magistrati e informazione. “La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti”, esordisce Palamara. “Magistrati e giornalisti – lo dico anche per esperienza personale – si usano a vicenda, all’interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni. Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall’editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica”.
Le vere cene segrete di Palamara. “È inevitabile”, si legge ancora nel libro-intervista, “che una frequentazione assidua porti a una complicità professionale, a volte anche a un’intimità personale più o meno clandestina che crea qualche imbarazzo tra i colleghi”. Un’analisi impietosa sulla qualità del giornalismo giudiziario del Paese, che vede troppo spesso il racconto dei fatti sostituito dalla trascrizione delle veline delle Procure. Ma, aggiunge poi sibillino Palamara, “c’è anche un livello superiore: io stesso ho avuto modo di partecipare a incontri riservati tra importanti direttori e procuratori impegnati su inchieste molto delicate”. Solo che l’ex numero uno dell’Associazione nazionale magistrati non fa i nomi.
Il circo mediatico-giudiziario che ha stritolato pure l’ex capo Anm. Il magistrato a cui il Csm ha inflitto la radiazione, ma che discuterà ora il ricorso dinanzi alle Sezioni unite della Cassazione, è rimasto vittima per primo, va detto, di quel “meccanismo” di reciproca utilità fra magistrati e giornalisti. Il 29 maggio del 2019 tre importanti quotidiani nazionali aprirono la loro prima pagina proprio sull’inchiesta di Perugia avviata nei suoi confronti. Gli articoli erano sostanzialmente identici, ad iniziare dai titoli: “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”. Le indagini a Perugia a quel tempo non si erano concluse, e la fuga di notizie, su cui nessuno ha mai indagato, ebbe come conseguenza quella di far saltare la nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma.
«Mi iscrissi a Md perché comandava». Nel libro sono riportati anche dettagli sul passato giovanile “progressista” di Palamara. Il motivo è semplice: “La maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura”. A un certo punto, ricorda l’ex pm di Roma, “capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel Sistema”. Poi, compreso che Md è una “corrente ideologica e non scalabile con la mia storia”, maturerà la scelta di passare a Unicost di cui diventerà il leader incontrastato per un decennio.
Caos Procure, agli ex togati le garanzie negate a Palamara, che ora spera nel ricorso. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 20 gennaio 2021. L’ok del Csm ai testi dei 5 incolpati rafforzerà l’ex capo Anm dinanzi alla Cassazione. Potrebbe giocare a favore di Luca Palamara la decisione della disciplinare del Csm di ammettere senza “tagli” la lista testi presentata dai cinque ex consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Il processo a carico degli ex togati del Csm, costretti alle dimissioni per aver partecipato la sera dell’ 8 maggio del 2019, insieme all’ex presidente dell’Anm, ad un incontro con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti in un albergo romano, è alle battute iniziali. Esaurite le questioni preliminari, questa settimana è stato il turno dell’ammissione dei testi. A differenza di quanto accaduto nel procedimento a carico di Palamara, l’attuale collegio che compone la Sezione disciplinare ha deciso di ammettere tutti i testi presentati dalle difese degli incolpati. Nei confronti di Palamara, come si ricorderà, era stato in- vece fatto una taglio pressoché totale, ammettendo solo i finanzieri del Gico che avevano condotto le indagini e i tecnici della società Rcs che aveva fornito il trojan. Questa decisione, come detto, potrebbe favorire Palamara in vista del suo ricorso alla Sezioni unite civili contro il provvedimento di radiazione dall’ordine giudiziario. La scadenza del termine per il deposito del ricorso è fissata alla fine di febbraio. Nel ricorso, quasi certamente, Palamara rappresenterà tale “disparità” di trattamento. Molti dei testimoni ammessi adesso sono comuni a quelli contenuti nella lista che aveva presentato Palamara ed era stata quasi integralmente cassata. L’ex presidente dell’Anm ed il suo difensore, il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, avevano più volte stigmatizzato il “taglio” effettuato dalla disciplinare. Il testimone più “importante” sarà sicuramente Marcello Viola, il procuratore generale di Firenze. Viola era candidato alla nomina a procuratore di Roma ed era stato votato in Commissione per gli incarichi direttivi il 23 maggio del 2019. Quello che accadde poi è noto: la fuga di notizie sull’indagine di Perugia a carico di Palamara fece saltare la sua nomina, mettendo tutto in discussione. Secondo le iniziali ipotesi accusatorie, la nomina di Viola sarebbe dovuta servire ad “aggiustare” alcuni procedimenti. Ad iniziare da quello Consip che vede coinvolto Lotti. Viola ha sempre smentito di aver fatto accordi con alcuno. Anzi, nel ricorso al Tar contro la decisione del Csm di preferirgli Michele Prestipino, e la cui sentenza è attesa entro il mese, Viola ha evidenziato di essere stato danneggiato da questa vicenda. La Commissione per gli incarichi direttivi aveva deciso, infatti, di annullare la votazione proprio in base a questi asseriti accordi che sarebbero intercorsi fra Palamara e Lotti.
Da ildubbio.it il 16 febbraio 2021. Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, e del procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, contro la nomina da parte del Csm del procuratore di Roma Michele Prestipino. Non sono ancora note le motivazioni della sentenza ma, secondo il Tar, il Csm non avrebbe considerato i titoli dei due ricorrenti e quindi ora dovrà procedere a una nuova valutazione. Lo Voi e Viola si sono rivolti al Tar del Lazio dopo essere stati entrambi battuti (assieme al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, pure lui autore di un’impugnazione) dall’attuale capo dell’ufficio inquirente della Capitale. I ricorrenti sostengono che Prestipino non avrebbe i requisiti per essere nominato, non avendo mai diretto una Dda né essendo mai stato a capo di una procura. Viola, assistito dagli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, era stato indirettamente danneggiato dalle intercettazioni del caso Palamara, in cui si parlava di lui come candidato sostenuto dallo stesso ex presidente dell’associazione nazionale magistrati e da due politici come Cosimo Ferri e Luca Lotti, quest’ultimo renziano e indagato proprio a Roma per la vicenda Consip. Gli altri due candidati, Lo Voi e Creazzo, venivano invece visti negativamente dal gruppo che faceva capo a Luca Palamara. A prescindere da questo, tutti e tre sostengono di avere più titoli di Prestipino.
Il Tar annulla la nomina di Prestipino alla procura di Roma. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 16 febbraio 2021. Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, e del procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi contro la nomina di Prestipino da parte del Csm. Il Tar del Lazio ha accolto il ricorso del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, e del procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, contro la nomina da parte del Csm del procuratore di Roma Michele Prestipino. Non sono ancora note le motivazioni della sentenza ma, secondo il Tar, il Csm non avrebbe considerato i titoli dei due ricorrenti e quindi ora dovrà procedere a una nuova valutazione. Lo Voi e Viola si sono rivolti al Tar del Lazio dopo essere stati entrambi battuti (assieme al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, pure lui autore di un’impugnazione) dall’attuale capo dell’ufficio inquirente della Capitale. I ricorrenti sostengono che Prestipino non avrebbe i requisiti per essere nominato, non avendo mai diretto una Dda né essendo mai stato a capo di una procura. Viola, assistito dagli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, era stato indirettamente danneggiato dalle intercettazioni del caso Palamara, in cui si parlava di lui come candidato sostenuto dallo stesso ex presidente dell’associazione nazionale magistrati e da due politici come Cosimo Ferri e Luca Lotti, quest’ultimo renziano e indagato proprio a Roma per la vicenda Consip. Gli altri due candidati, Lo Voi e Creazzo, venivano invece visti negativamente dal gruppo che faceva capo a Luca Palamara. A prescindere da questo, tutti e tre sostengono di avere più titoli di Prestipino. Possibile che il Parlamento continui a far finta di niente?
Palamaragate si allarga, nomina Prestipino illegale: non aveva titoli, era raccomandato da Pignatone. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Il Tar ha destituito Il procuratore di Roma Michele Prestipino. Per la magistratura italiana, scossa dal caso Palamara, inizia un terremoto. Il Tar ha accolto i ricorsi di Marcello Viola (attuale Procuratore generale di Firenze) e di Francesco Lo Voi (Procuratore di Palermo) i quali contestavano la nomina di Prestipino, sostenendo che lui non avesse i titoli per essere nominato Procuratore. Prestipino è uno dei magistrati legati più strettamente al gruppo di Giuseppe Pignatone, che forse è stato il magistrato più potente della storia della Repubblica. La nomina di Prestipino, nel marzo scorso, avvenne dopo una lotta senza quartiere tra le correnti, condotta con furore e utilizzando colpi bassi, fughe di notizie attraverso giornalisti amici, improvvise giravolte e cambi di alleanze. Lo scontro, all’inizio, era tra i “continuisti” guidati soprattutto dalle correnti di sinistra, che volevano Prestipino, e “discontinuisti” (guidati da Davigo) che volevano un “cambio” ai vertici di Roma. I discontinuisti avevano praticamente vinto – e si aspettava la nomina di Viola – quando una fuga di notizie sul “Palamara-gate” (che era ancora un’inchiesta segreta) e una manipolazione delle intercettazioni, mise fuori gioco Viola. Davigo a quel punto (e non ha mai spiegato perché) passò con Prestipino, che vinse. Ora è intervenuto il Tar e tutto cambia. Il Csm dovrà nominare un nuovo Procuratore, cambiando tutti i rapporti di forza tra le correnti all’interno della Procura di Roma. A questo punto, tra le correnti della magistratura che dominano il nostro sistema della Giustizia, si riapre la guerra. Questa guerra oltretutto sarà rinfocolata dalle accuse di Palamara, che sin qui sono state tenute a bada grazie alla stampa amica, ma che ora iniziano a diventare difficilmente contenibili. Nell’opinione pubblica, nonostante il silenzio glaciale dei giornali, inizia a farsi largo l’idea che la magistratura sia guidata da bande illegali, anticostituzionali ed eversive. Quelle che si chiamano correnti, e che rendono illegale tutto il complesso della nostra democrazia. Possibile che il Parlamento continui a far finta di niente? Diversi magistrati ed ex magistrati hanno chiesto una commissione di inchiesta parlamentare, che faccia luce su intrighi, congiure, camarille. E accerti se questo sistema abbia finito per inquinare inchieste e sentenze (è ovvio che questo è avvenuto: si tratta di accertare dove, come e con che frequenza). Ora, finalmente, abbiamo anche un ministro della Giustizia. È necessario che intervenga in fretta.
Dagospia il 17 febbraio 2021. L'ITALIA, UN PAESE AGGRAPPATO AL TAR - LA DECISIONE DEI GIUDICI AMMINISTRATIVI, PIÙ CHE ESSERE UNA STRONCATURA DELLA NOMINA DI PRESTIPINO A CAPO DELLA PROCURA DI ROMA, È UNA BOCCIATURA DEL CSM I CUI MEMBRI VENGONO BACCHETTATI - LA SENTENZA DIMOSTRA COME L'ESPULSIONE DI PALAMARA NON ABBIA ELIMINATO CERTE DINAMICHE POLITICHE E DECISIONI ARBITRARIE - DALLA SENTENZA DEL TAR, PRESTIPINO ESCE DEPOTENZIATO, LO VOI E' AZZOPPATO DA UN PASSAGGIO DEL LIBRO DI PALAMARA…
L'ETERNO RIBALTONE ALL'ITALIANA. Fra. Gri. per "la Stampa" il 17 febbraio 2021. C'è poco da meravigliarsi, purtroppo. In Italia c'è sempre un Tar che ribalterà decisioni politiche già prese. Il Tar della Campania annulla un' ordinanza sanitaria di De Luca e riapre d' autorità le scuole in piena pandemia. Il Tar della Puglia ordina la chiusura dell' Ilva dopo anni di investimenti, leggi e decisioni di diversi governi. Il Tar del Lazio promuove i colonnelli scartati facendoli generali (famoso tra i carabinieri il caso di Antonio Pappalardo). Succede anche con le nomine a procuratore capo, anche se mai finora era capitato per la poltrona di Roma, forse perché circondata da un'aura particolare, forse perché nessun magistrato che pure ne avesse avuto l' ambizione, mai aveva pensato di poter guidare la procura più importante d' Italia contro il Consiglio superiore della magistratura, contro i suoi colleghi.
Giacomo Amadori per "la Verità" il 17 febbraio 2021. La guerra per la conquista della Procura di Roma non è ancora finita. Quasi due anni dopo il disarcionamento di Marcello Viola, candidato spazzato via (senza colpe) dalle intercettazioni dell'hotel Champagne (essendo sostenuto da Luca Palamara), il Tribunale amministrativo del Lazio accoglie i ricorsi dello stesso Viola e del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi contro la nomina del marzo 2020 di Michele Prestipino. Il Tar non ha invece accolto il ricorso di Giuseppe Creazzo, il procuratore di Firenze inviso al Giglio magico. La decisione dei giudici amministrativi, però, più che essere una stroncatura di Prestipino, di cui riconosce le qualità (i giudici parlano di «eccezionali esperienze»), è una bocciatura senza appello del Consiglio superiore della magistratura i cui membri vengono bacchettati come bambini delle elementari. La sentenza del Tar pare dimostrare come le cose con l'espulsione di Palamara dalla magistratura e con la cacciata di cinque consiglieri del Csm non abbia eliminato certe logiche che portano a interpretare le regole in modo arbitrario. In particolare dietro alla lavagna finisce la corrente progressista di Area e i suoi cinque rappresentanti al Csm, che più di tutti hanno portato avanti la candidatura di Prestipino (lo ribadiamo, ottimo magistrato) utilizzando argomenti considerati pretestuosi dal Tar. Ma escono sconfitti anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, la corrente di Unicost (la vecchia casa di Palamara), i laici dei 5 stelle Alberto Maria Benedetti e Fulvio Gigliotti e i tre componenti della corrente di Autonomia & indipendenza, capeggiati da Pier Camillo Davigo. Quest' ultimo aveva votato nel maggio 2019 per Viola e nel marzo del 2020 per Prestipino, tanto che ieri Palamara è sbottato: «Ora Davigo chiarisca perché cambiò voto in favore di Prestipino». Nelle sentenze rese note ieri il Tar riconosce che le decisioni del Csm sono sindacabili solo «se inficiate da irragionevolezza, omissione o travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione», vizio, quest' ultimo ravvisato in questo caso. Il Csm aveva preferito Prestipino per la sua conoscenza dell'«originalità territoriale» e in particolare della «peculiarità della criminalità romana», un aspetto che, però, il collegio «non ritiene legittimo». Aveva ritenuto qualificanti anche il fatto che, da procuratore aggiunto di Reggio Calabria e di Roma, si fosse occupato di processi di competenza della Direzione distrettuale antimafia, «con il coordinamento di un numero rilevante di sostituti» e aveva premiato anche il suo «progetto organizzativo» e la conoscenza dei flussi di lavoro. Ma il Tar non ha trovato questi argomenti convincenti. Per esempio il collegio ritiene che Lo Voi, essendo un raffinato conoscitore delle mafie tradizionali come Prestipino, sia in grado di «"cogliere e sviluppare" come procuratore - presumibilmente in poco tempo o quantomeno in quello impiegato dal dottor Prestipino quale "aggiunto" - l'originalità della realtà criminale laziale», fatta di mafie autoctone capaci di muoversi tra i palazzi della politica, ambasciate, Vaticano e altri contesti tipicamente capitolini. I fan di Prestipino potrebbero obiettare che quel bagaglio di conoscenza l'attuale procuratore lo ha acquisito in nove anni e non nello spazio di un semestre, mentre i supporter di Lo Voi potrebbero ribattere che l'«originalità» della realtà criminale laziale cristallizzata nel processo Mafia capitale, procedimento condotto anche da Prestipino, è stata bocciata dalla Cassazione. Il Tar aggiunge inoltre che se diventasse decisiva per questo tipo di scelte la conoscenza delle strutture criminali territoriali si violerebbe «il riconosciuto carattere "nazionale" della procedura di affidamento di incarichi direttivi e semidirettivi». Lo Voi prevale anche sotto il profilo dell'anzianità di ruolo (è entrato in magistratura nel 1981, lo sfidante tre anni dopo) e sotto quello delle funzioni svolte, perché dirige la procura di Palermo dal 2015, mentre il suo avversario non ha mai svolto funzioni direttive. Il Tar precisa che la prevalenza di un procuratore su un aggiunto non può, però, essere automatica. Ma i giudici evidenziano anche che se è vero che Prestipino ha ben svolto il ruolo di semidirettivo in contesti importanti, il che lo farebbe preferire a tanti procuratori di piccole realtà, Lo Voi dirige «proficuamente» un ufficio che per complessità organizzativa e impegno in indagini di mafia è certamente equivalente a quello di Roma, se non addirittura superiore. In questo quadro, il Csm per scegliere Prestipino non aveva che una strada e cioè valorizzare la conoscenza che lo stesso aveva già maturato dell'ufficio di Roma e delle peculiarità del territorio capitolino. Nel momento in cui il Tar boccia questo ragionamento e non considera prevalente il curriculum di Prestipino per la sua conoscenza delle dinamiche locali, la possibilità che lo stesso possa battere Lo Voi si riducono al lumicino e una decisione in questo senso rischierebbe seriamente di essere considerata non rispettosa della decisione presa dal giudice amministrativo. Per quanto riguarda il ricorso di Viola il Tar si limita a rilevare un vizio a monte della comparazione, evidenziando che il Csm non ha spiegato perché sia stato proposto nella tornata di votazioni e sia stato escluso in quella successiva. Aggiunge di aver preso atto del fatto che sia nella discussione in plenum che nelle audizioni era emersa l'estraneità di Viola alle conversazioni oggetto di intercettazione nell'indagine su Palamara. Il collegio sostiene in pratica che non lo si può escludere per le chiacchiere dell'Hotel Champagne alle quali lui era estraneo. Viola, quindi, conserva intatte le sue chances sia contro Prestipino che contro Lo Voi ma, contemporaneamente, al Csm resta la possibilità di motivare in modo coerente la sua esclusione. In parole povere il Pg di Firenze se la può ancora giocare con tutti, ma può anche perdere con tutti. Al contrario Lo Voi, quanto meno nel confronto con Prestipino, pare in una posizione di evidente vantaggio, essendosi il Tar già sbilanciato, stabilendo che nella comparazione gli elementi utilizzati a favore dell'attuale procuratore capitolino non sono validi. Ovviamente il collegio lo dice con il linguaggio e le formule di un giudice che non deve spingersi a censurare il merito, lasciando formalmente al Csm un piccolo margine per confermare l'attuale capo degli inquirenti capitolini. Uno scontro strano quello tra Prestipino e Lo Voi, visto che hanno lavorato tutti e due al fianco del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e sono ritenuti entrambi suoi degni eredi (Palamara, intercettato, parlava di «continuità»). E così tra i due litiganti, alla fine, potrebbe spuntarla l'outsider sponsorizzato dalle toghe conservatrici. Viola infatti è uscito incolume dall'ottovolante delle chat e delle intercettazioni di Palamara, mentre Lo Voi è finito al centro di un capitolo del libro di Palamara e Alessandro Sallusti. Nel paragrafo in questione l'ex presidente dell'Anm ricorda la disputa per la poltrona di procuratore di Palermo in cui Lo Voi era risultato perdente al Tar contro Guido Lo Forte. Il Consigliò di Stato ribaltò, un po' a sorpresa, la decisione. Sul punto Palamara scrive: «La pratica finisce alla quarta sezione, nel frattempo presieduta da Riccardo Virgilio (coinvolto in un'inchiesta sulle sentenze pilotate a Palazzo Spada ndr), che nei racconti di Pignatone è a lui legato da rapporti di antica amicizia. I due si incontrano una mattina presso la mia abitazione. Dopo aver lasciato sul tavolo i cornetti che mia moglie ha comprato per gli ospiti, mi allontano per preparare il caffè. Li vedo parlare in maniera molto fitta e riservata». Ma non è finita qui: «Di questo incontro parlo direttamente con Francesco Lo Voi nel mese di gennaio del 2016 []. Ci incontriamo nel Caffè Giuliani in via Solferino nei pressi del Csm. Poche settimane dopo arriva la sentenza di Virgilio, favorevole a Lo Voi». In questo gran pasticcio di nomine e di carte bollate va ricordato che il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, che potrebbe dover decidere sugli eventuali ricorsi, ha recentemente annunciato querela contro l'avvocato Piero Amara per gravi accuse che dovrebbero essere al vaglio della Procura di Roma (al momento guidata da Prestipino). Un ulteriore potenziale conflitto di interessi in grado di rendere ancora più intricata questa delicata partita.
La decisione del Tar del Lazio. Storia della congiura che fece diventare Prestipino capo della Procura di Roma. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Il Tar del Lazio ieri mattina ha fatto saltare la nomina più importante che il Consiglio superiore della magistratura aveva in calendario nell’attuale consiliatura: quella del numero uno della Procura di Roma, la più importante del Paese. Uno smacco incredibile dal momento che per Michele Prestipino Giarritta aveva votato convintamente l’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo, il magistrato “paladino della legalità”, come disse l’ex zar delle nomine Luca Palamara. Contro la nomina “viziata da illogicità” di Prestipino Giarritta avevano presentato lo scorso anno ricorso i tre candidati “sconfitti”: il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. La prima sezione del Tar del Lazio, presidente Antonino Savo Amodio, estensore Ivo Correale, ha accolto i ricorsi dei primi due, respingendo quello di Creazzo. I giudici amministrativi sono stati durissimi con il Csm, bacchettandolo in particolare per essersi scordato di indicare i motivi secondo i quali aveva deciso di escludere la candidatura di Viola e di non valutare adeguatamente i titoli di Lo Voi: “L’omissione della valutazione di Viola, data dalla revoca della proposta a lui favorevole del 23 maggio 2019, appare priva della necessaria motivazione, in assenza di elementi oggettivamente riscontrabili a suo carico (rinvio a giudizio, apertura di procedimento disciplinare e simili)”. Il Csm, in estrema sintesi, aveva “irragionevolmente” cambiato atteggiamento sulla nomina di Viola dopo la diffusione illegale del contenuto delle intercettazioni ambientali a caco di Palamara. “Emerge da più di un intervento in Plenum – osserva il Tar – che Viola, in audizione, si era dichiarato ‘parte offesa’ e che, oggettivamente dalla lettura delle intercettazioni emergeva tale qualità di parte offesa rispetto alle ‘macchinazioni o aspirazioni di altri’”. In sostanza l’essere stato ‘scelto’ a sua insaputa, “non poteva condizionare in alcun modo l’orientamento del Csm”. “Suggestivo” era stato poi il tentativo di Palazzo dei Marescialli di giustificare il mutamento di indirizzo a causa delle diverse persone fisiche presenti in Commissione e dall’audizione di Viola. Questi i “fatti” in diritto. Per capire come sia stato possibile che il Csm abbiamo avallato una nomina “illogica” è necessario tornare indietro di circa due anni. Tutto ha inizio il 23 maggio del 2019 quando Viola era risultato il candidato più votato dalla Quinta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, competente per gli incarichi direttivi, con 4 voti, fra cui quello di Davigo, rispetto al voto singolo andato agli altri due candidati, Lo Voi e Creazzo. La decisione mette subito in agitazione la sinistra giudiziaria a piazzale Clodio e i suoi giornali di riferimento. Come dirà Palamara, Viola non poteva venire a Roma “in quanto uomo di destra e vicino a Cosimo Ferri”, leader indiscusso della destra togata e all’epoca parlamentare renziano. Eugenio Albamonte e Mario Palazzi, due pm di punta a Roma di Magistratura democratica, esprimono a Palamara tutto il loro disappunto. L’arrivo di Viola farebbe anche saltare il “metodo Giuseppe Pignatone”, condiviso dal fedelissimo Prestipino e dagli aggiunti Rodolfo Sabelli, titolare del dipartimento reati economici, Maria Monteleone, di quello dei reati contro donne e minori, di Giuseppe Cascini (eletto al Csm). Fra i più legati a Pignatone, andato in pensione il 9 maggio di quell’anno, c’è l’aggiunto Paolo Ielo, il capo del Dipartimento reati contro la Pa, candidato in pectore alla nomina di Procuratore di Milano. Viola metterebbe, infine, scompiglio anche negli apparati investigativi della Capitale, in quel momento monopolizzati dalle attività del Gico della guardia di finanza. Quella che sulla carta sembra cosa fatta, salta il 29 maggio successivo con tre pezzi fotocopia del Corriere, Repubblica e Messaggero, dalla medesima “matrice” informativa dirà Palamara. I tre quotidiani riportano le intercettazioni di Palamara, all’epoca indagato dalla Procura di Perugia per corruzione, relative a dei suoi colloqui effettuati la sera dell’8 maggio con cinque togati del Csm e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti all’hotel Champagne di Roma. Le trascrizioni, peraltro errate come poi si vedrà, mettono in cattiva luce Viola. Il pg di Firenze, secondo la narrazione, avrebbe dovuto aggiustare diversi fascicoli, ad iniziare da quello Consip a carico di Lotti. Le indagini dimostreranno come Viola fosse all’oscuro di tutte le trame e che sul suo conto neppure altri avessero fatto alcuna illazione. La clamorosa fuga di notizie, su cui nessuno ha mai indagato, ha due conseguenze: il cambio di maggioranza al Csm con le dimissioni dei togati che avevano partecipato alla cena e la revoca in autotutela della votazione del 23 maggio. Relatore è il togato Marco Mancinetti, acerrimo nemico di Palamara che puntava a diventare aggiunto a Roma. Pur essendo le indagini di Perugia in corso, i tre quotidiani per settimane riportano ampi stralci dei colloqui di Palamara. La campagna stampa portata avanti dai tre quotidiani, come detto, costringe alle dimissioni i cinque consiglieri che avevano partecipato a quell’incontro e, per il meccanismo elettorale del Csm, ai dimissionari subentrano i primi dei non eletti. La maggioranza al Csm cambia radicalmente al punto che molti commentatori parleranno apertamente di “ribaltone”. Il presidente dell’Anm Pasquale Grasso, in carica da qualche mese, è sfiduciato. Esponente di Magistratura indipendente, secondo alcuni non avrebbe preso le distanze dall’incontro fra i togati e i due politici. Tre dei cinque consiglieri presenti all’incontro all’hotel Champagne sono di Magistratura indipendente. La stessa corrente di Viola. Il capo dello Stato, fra le polemiche, decide di non sciogliere il Csm di andare avanti. In un drammatico Plenum qualche settimana più tardi, alcuni consiglieri paragoneranno quanto accaduto ai fatti della P2. Il Csm sperimenta allora una nuova alleanza fra la sinistra giudiziaria e davighiani. Il primo banco di prova è valorizzare l’esperienza di Prestipino in materia di criminalità organizzata ed il suo “radicamento” sul territorio per farlo diventare procuratore di Roma. L’operazione riesce. E Prestipino, senza essere mai stato procuratore e con titoli nettamente inferiori, batte la concorrenza di Creazzo e Lo Voi. Adesso l’ultima speranza è riposta nel Consiglio di Stato. A meno che il Csm non voglia recuperare un minimo di credibilità e nominare uno fra Viola e Lo Voi senza presentare ricorso a Palazzo Spada. Difficile trovare altre assist per rinforzare il curriculum di Prestipino. Nel prossimo voto la corrente progressista Area potrebbe mollare Prestipino e puntare sulla prima scelta, Lo Voi. Una scelta comunque gradita a piazzale Clodio visti gli ottimi rapporti fra Lo Voi e Pignatone. Su Viola, invece, probabile il voti di Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita.
Luca Fazzo per "il Giornale" il 18 febbraio 2021. «Secondo la mia visione a Roma doveva arrivare un procuratore che non provenisse dall' esperienza professionale romana. Io e Davigo già da marzo pensavamo che Marcello Viola fosse la persona più adatta». A parlare, interrogato il 3 novembre dai difensori di Luca Palamara, è Sebastiano Ardita: all' epoca dei fatti braccio destro di Davigo nella guida di Autonomia e Indipendenza, la corrente fondata dall' ex pm. È un verbale che racconta bene quanto e perché Davigo fosse deciso a portare Viola alla Procura di Roma. Ma non spiega perché, dopo l' esplosione del caso Palamara, Davigo fece retromarcia, abbandonò Viola e votò Michele Prestipino: ovvero l'unico candidato che lavorava già a Roma, esattamente il contrario del criterio che aveva portato a votare Viola. Ora che il Tar del Lazio ha annullato la nomina di Prestipino e ha ordinato al Consiglio superiore della magistratura di rifare tutto, la ricostruzione del dietrofront di Davigo sarebbe interessante per capire le dinamiche che hanno attraversato la lotta tra le correnti del Csm intorno alla scelta del procuratore di Roma. Ed è una ricostruzione che inciderà anche sulla sorte di Palamara, che per le manovre intorno a quella nomina è stato radiato dalla magistratura, ma che si prepara a ricorrere in Cassazione per riottenere la toga. Se tutti tramavano intorno a Roma, dirà Palamara, perché devo andarci di mezzo solo io? Oltretutto la sentenza del Tar del Lazio dice che il candidato sostenuto da Palamara e da Davigo (ma anche dal Pd e persino dal Quirinale), ovvero Viola, aveva tutti i numeri per aspirare alla carica. A questo si riferisce Palamara, quando l' altro ieri invita Davigo a spiegare «ai magistrati e agli italiani» il perché della retromarcia. «Mi chiedo ancora oggi se fu una sua autonoma scelta», dice Palamara. In attesa della risposta di Davigo, qualche lume può venire dai verbali della quinta commissione del Csm. A maggio del 2019, Viola prende i voti di Davigo, del togato di destra Lepre e dei consiglieri grillino e leghista, Gigliotti e Basile. La sinistra vota il procuratore di Palermo Lo Voi, mentre Unicost, la corrente di Palamara, vota il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Il mese dopo, esplode il caso Palamara. Viola non c' entra niente, non è indagato, il suo numero di telefono non compare nelle chat, Palamara non lo ha votato. Ma l' occasione per farlo fuori è troppo ghiotta. Davigo, si dice anche su pressione di Area, la corrente di sinistra, lo scarica. Ma le sorprese non sono finite. Francesco Lo Voi, che pochi mesi prima era il candidato della sinistra, viene bruscamente abbandonato. In commissione il consigliere di Area si astiene, in plenum la sinistra converge a sorpresa sull' outsider Prestipino che diventa procuratore. Cosa è accaduto nel frattempo? Che anche contro Lo Voi sono entrati in funzione quelli che Palamara chiama i «cecchini», gli spargitori di veleni contro i candidati troppo forti. Un bel mondo.
Liana Milella Maria Elena Vincenzi per "la Repubblica" il 18 febbraio 2021. Il Tar del Lazio ha bocciato la nomina di Michele Prestipino al vertice della procura di Roma, ma al Csm fonti autorevoli rivelano che potrebbe prevalere la linea di riconfermare la sua nomina, e anche in tempi stretti. Per la semplice ragione che un ufficio importante come quello di piazzale Clodio non può restare acefalo. Il rischio è concreto, in quanto le sentenze del Tar, una volta notificate, diventano subito esecutive. E sia il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, sia il capo della procura di Palermo Franco Lo Voi - i cui titoli per il Tar sarebbero prevalenti su quelli di Prestipino per la qualifica (lui procuratore aggiunto, loro già procuratori) e per l'esperienza in tema di mafia - potrebbero chiedere di eseguire le sentenze immediatamente. Quasi fosse una maledizione, al Csm si riapre il destino della procura di Roma che è già costato all'ex pm Luca Palamara la rimozione dalla magistratura. Perché è proprio dalla cena all'hotel Champagne - dove il 6 maggio 2019 Palamara trattava con due politici del Pd, Luca Lotti e Cosimo Maria Ferri ( lì nella veste di potente toga di Magistratura indipendente) e 5 toghe del Csm la scelta del futuro procuratore - che bisogna partire per capire come si arriva a Prestipino. Il 23 maggio 2019 la commissione per gli incarichi direttivi del Csm sceglie Viola. Per lui 4 voti su 6, uno a Lo Voi e uno a Creazzo, il procuratore di Firenze di cui il Tar boccia il ricorso. Scoppia il caso Palamara, diventano pubbliche le chat, emergono i dettagli dell'hotel Champagne, si blocca la nomina del procuratore di Roma su cui si torna solo il 4 marzo 2020, quando il plenum sceglie Prestipino, il procuratore aggiunto che, dal pensionamento di Giuseppe Pignatone (l'8 maggio 2019) ha retto la procura. Viola, Lo Voi e Creazzo scompaiono dai radar. Vince il candidato che ha presentato il miglior progetto di lavoro, è già aggiunto, lo è stato a Reggio Calabria e Palermo, conosce perfettamente la criminalità romana. Ma al Tar non basta. Per i giudici amministrativi i titoli di Viola e Lo Voi sono più forti. E poi il Csm non ha motivato a sufficienza la nomina di Prestipino, e non ha spiegato perché ha accantonato Viola. Adesso il Csm - dove l'ufficio studi, in prima istanza, riesaminerà il caso - potrebbe rimettere in sella Prestipino spiegando meglio perché privilegia lui a discapito degli altri due. In alternativa, se su questa via non si dovesse formare una sufficiente maggioranza, resta il ricorso al Consiglio di Stato. Ai giudici di palazzo Spada - cui potrebbe rivolgersi anche Prestipino - il Csm dovrebbe chiedere la sospensione cautelare delle sentenze del Tar, così da consentire al procuratore di Roma di restare al suo posto in attesa della decisione finale. La sentenza del Tar ha rimesso in gioco Viola e Lo Voi che ambiscono a guidare piazzale Clodio Adesso sarà l'ufficio studi di palazzo dei Marescialli a dover affrontare la questione.
(ITALPRESS il 25 marzo 2021) - Si accende lo scontro sulla nomina del Procuratore presso il Tribunale di Roma. Anche Michele Prestipino Giarritta ha proposto appello avverso la sentenza del Tar Lazio che aveva annullato la sua nomina. La vicenda trae origine dal fatto che il procuratore Marcello Viola aveva impugnato davanti al Tar Lazio i provvedimenti con i quali Prestipino è stato nominato Procuratore di Roma. Il Tar Lazio Roma ha accolto il ricorso di Viola. In particolare, il Tribunale amministrativo ha rilevato come dalla documentazione relativa all'indagine di Perugia fosse emersa la qualità di parte offesa dei Viola rispetto alle "macchinazioni o aspirazioni di altri". Il Tar ha, inoltre, rilevato come la decisione del Csm - di non formulare alcuna proposta volta al conferimento a Viola dell'incarico di Procuratore di Roma - sia immotivata "in assenza di elementi oggettivamente riscontrabili a suo carico e si ponga in contrasto con la precedente proposta formulata prima dell'avvio dell'indagine di Perugia". Il Plenum del Csm nei giorni scorsi ha deliberato a maggioranza - con tredici voti favorevoli, sei contrari e cinque astenuti - di invitare l'Avvocatura Generale della Stato a proporre appello avverso la sentenza. Ed in effetti, l'Avvocatura - con apposito appello - ha chiesto al Consiglio di Stato l`annullamento previa sospensione della sentenza del Tar Lazio. Anche Prestipino Giarritta ha proposto appello avverso la sentenza, chiedendone la sospensione ed evidenziando come "l`esecuzione della sentenza cagionerebbe un grave vulnus all`Amministrazione della giustizia. La quale, in tal modo, sarebbe privata del valore aggiunto costituito dalle significative e qualificate capacita` di Prestipino e dal patrimonio di conoscenze ch`egli ha acquisito in tutta la sua carriera e che ora ha ulteriormente affinato quale Procuratore della Repubblica di Roma". Viola, difeso dagli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, si è costituito innanzi al Consiglio di Stato chiedendo il rigetto dell'appello. Nei prossimi giorni verrà fissata dal Presidente del Consiglio di Stato l'udienza per la trattazione della domanda di sospensione della sentenza proposta da Prestipino.
Open Arms, Luca Palamara sul pm che vuole Salvini a processo: "Francesco Lo Voi non aveva i titoli, ma..." Libero Quotidiano il 21 marzo 2021. La Procura di Palermo ha chiesto per Matteo Salvini il rinvio a giudizio. Il caso è quello della Open Arms e risale all'agosto del 2019 quando il numero uno del Carroccio negò lo sbarco a Lampedusa di 147 migranti soccorsi in mare dalla nave della ong spagnola. A prendere la decisione il pm Francesco Lo Voi, un nome che ad Alessandro Sallusti non suona nuovo. "Va bene - premette nel suo editoriale sulle colonne del Giornale -, facciamo finta che Luca Palamara non abbia raccontato che cosa è successo in quell'estate dentro la magistratura per andare a colpire la Lega". Nella premessa il direttore del quotidiano vuole far finta "di non vedere che la giustizia è nelle mani di una banda di sciagurati che purtroppo fanno capo (spero a sua insaputa) al presidente Mattarella in quanto capo del Csm che, come tale, almeno formalmente, dovrebbe avallare le loro decisioni". Tutto questo però non frena Sallusti dallo svelare all'Italia intera da che "pulpito arriva la richiesta di rinviare a giudizio Salvini per un presunto reato politico". A spiegarlo meglio l'ex membro del Consiglio superiore della magistratura, ormai passato alla ribalta per lo scandalo nomine. Ecco, proprio Palamara nel libro che ha scritto Sallusti rivela: "Mi convoca il procuratore di Roma Pignatone e a sorpresa mi dice: Si va su Lo Voi?. Rimango sorpreso, è il candidato con meno titoli tra quelli in corsa, ma sono uomo di mondo, mi adeguo e studio la pratica. È un'impresa difficile, l'uomo era distaccato fuori sede, all'Eurogest. Ricordo la trattativa come una delle più difficili della vita, faccio un doppio gioco e la vinco: Lo Voi va a Palermo e, dopo il giusto ricorso di un suo avversario, io e Pignatone organizziamo una cena con il magistrato che dovrà decidere sul ricorso che...". E ancora: "Un ingenuo membro del Csm il giorno della nomina di Lo Voi disse davanti a tutti: Lo Voi non aveva i titoli, oggi ho capito che cosa è il potere". Da qui un'amara conclusione, questa volta del giornalista: "Ecco, la politica oggi si fa giudicare da un uomo così, abbassa la testa, non apre commissioni di inchiesta sulla magistratura, tace impaurita".
La nomina del Procuratore. Ecco perché il Csm va sciolto. Andrea Mirenda su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. «Non risulta alcuna specificazione sulle ragioni per le quali il ricorrente è stato omesso nella valutazione a seguito dell’acquisizione degli atti sull’indagine in corso e non l’altro magistrato coinvolto, pure originario destinatario di una proposta». Così il giudice amministrativo annulla, senza esitazioni, la nomina del dott. Prestipino a Procuratore di Roma. Pietre scagliate sul Lauto Governo. Perché, al netto dello stile curiale, il Tar Lazio ci addita – senza mezzi termini – l’ennesimo abuso commesso dai signori del Csm (qui i Fab Five di Area, gli ottimi consiglieri di Unicost, il pg Salvi, oltre a un incomprensibile Davigo che nel 2019 aveva votato per Viola, ed ancora i consiglieri Marra e Pepe di A&I e i due laici 5S Benedetti e Gigliotti). Il tutto a meno di un mese dall’altro clamoroso annullamento di 6 nomine su 6 dei membri del Consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura, altro fecondo terreno di pascolo del correntismo. Ma questa volta, purtroppo, assistiamo a qualcosa di assai più grave ed inquietante rispetto alla – per lo più grottesca – vicenda delle nomine della Scuola superiore, allora salutata orgogliosamente dal consigliere Cascini come capolavoro di pluralismo culturale e formativo… Ed è un qualcosa che non può lasciare indifferenti le nostre coscienze. Parliamo, difatti, dell’errore intenzionale, vera contraddizione logica. Perché con la sentenza n.1860/2021 il Tar Lazio, moderno Giudice a Berlino, ci mette al cospetto del più intollerabile degli illeciti che un consesso a prevalenza togata possa mai commettere, riassumibile nel “è cosi perché è così”. È così perché lo dico io, il Csm, con tutta la violenza morale di un’istituzione deragliata dai binari costituzionali nell’erigersi ad entità regolatrice del diritto. Che dicono i giudici amministrativi? In pillole, che il Csm (ma sarebbe meglio dire i consiglieri di cui sopra), senza aver indicato alcun motivo ed, anzi, ben sapendo che non ve ne potevano essere (il dott. Viola, estraneo fino a prova contraria alle penose strategie degli “champagnisti”, era stato a suo tempo proposto, a larga maggioranza, proprio per quell’incarico dalla Quinta Commissione), decise comunque di affossarlo, escludendolo arbitrariamente dalla corsa a Capo della Procura romana. Con plateale violazione del diritto oggettivo e dei diritti del magistrato sgradito. Non è difficile ipotizzare il fine perseguito con tale sviamento di potere: colpire l’allegra brigata dell’Hotel Champagne, quella del “si vira su Viola”, che – laddove quella candidatura avesse invece trovato conferma in plenum – avrebbe avuto agio nel dire che, in fondo in fondo, al di là dei consueti traffici levantini “fuori sede” (peraltro comuni a tutto l’arco correntizio, non importa se tra modeste sale di hotel o splendide terrazze romane…) e al di là della “modestia etica” di questi artisti di arte varia, nulla di veramente sbagliato era stato fatto, attesa la comprovata qualità finale del “prescelto”. La qual cosa avrebbe reso assai difficile predicarne le dimissioni, come poi avvenute… Ecco, allora, il dolo, lo sbaglio lucidamente pianificato nella piena coscienza della violazione sincronica dei principi di legalità, trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa che l’art.97 Cost. impone, prima di tutti, ai custodi della legge chiamati all’alto compito dell’Autogoverno della Magistratura. Né sfugge, a questo punto, la devastante torsione istituzionale che segnalano, in filigrana, i giudici del Tar nel dar conto dell’abnormità di un organo di rilevanza costituzionale in contrasto con la Carta Fondamentale. Insomma e in breve, assistiamo all’ennesima conferma, ove mai ve ne fosse bisogno, dell’ottimo stato di salute di quel mondo parallelo che – lungi dall’essere venuto meno insieme a Palamara – riconferma la sua natura di “sistema” illegale sul quale bene farebbero a prestare attenzione le Procure competenti. E tuttavia, nel dubbio che ciò accada in tempi ragionevoli, si istituisca al più presto una Commissione parlamentare di inchiesta con i poteri dell’autorità giudiziaria. Il Paese non può più attendere ed è quanto mai necessario rinsaldare la fiducia dei cittadini nella Giustizia, seguendo la strada maestra del far chiarezza, per poi accingersi alle riforme conseguenti. E già che ci siamo, anziché dar corso alla farsa di una terza elezione suppletiva dall’esito già scritto, meglio sarebbe sciogliere il Csm, mandando negli spogliatoi l’allegra brigata del “rinnovamento erminiano” sulla quale, oramai, ben poco vi è da sperare…
Il Procuratore scaricato per le chat. Csm all’angolo, sulla vicenda Viola-Prestipino entra la Corte di giustizia europea. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Marzo 2021. In aiuto di Marcello Viola arrivano i giudici europei. Il procuratore generale di Firenze, “segato” lo scorso anno dalla corsa alla Procura di Roma per essere stato citato a sua insaputa durante il famigerato incontro serale all’hotel Champagne organizzato da Luca Palamara, ha trovato un alleato inatteso. Si tratta di Koen Lenaerts, il 66enne giudice belga presidente della Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha emesso lo scorso 2 marzo la rivoluzionaria sentenza sull’utilizzo delle intercettazioni e dei tabulati da parte dell’autorità giudiziaria. La sentenza, già oggetto di commento in questi giorni, avrà sicuri effetti sull’esito del ricorso presentato dal Consiglio superiore della magistratura contro il provvedimento del Tar del Lazio che aveva annullato lo scorso gennaio la nomina di Michele Prestipino, dando quindi ragione a Viola. I giudici della Grande Chambre erano stati chiamati ad esprimersi sulle modalità di impiego dei dati personali nel settore delle comunicazioni elettroniche da parte delle autorità. Avvocato generale nel processo era l’italiano Giovanni Pitruzzella. La pronuncia dei giudici di Strasburgo ha riguardato un procedimento penale condotto in Estonia e conclusosi con una condanna a due anni per furto e utilizzo indebito di carta di credito. La Corte di cassazione estone si era posta il problema del rispetto dell’articolo 5 della direttiva 2002/58 dal titolo “Riservatezza delle comunicazioni”. «Gli Stati membri – si legge nella direttiva – assicurano, mediante disposizioni di legge nazionali, la riservatezza delle comunicazioni effettuate tramite la rete nonché dei relativi dati sul traffico». In particolare essi «vietano l’ascolto, la captazione, la memorizzazione e altre forme di intercettazione o di sorveglianza delle comunicazioni, e dei relativi dati sul traffico, ad opera di persone diverse dagli utenti, senza consenso di questi ultimi, eccetto quando sia autorizzato legalmente». Non è impedita, dunque, «la memorizzazione tecnica necessaria alla trasmissione della comunicazione fatto salvo il principio della riservatezza». Per i giudici europei, però, i confini di applicazione della norma sono alquanto limitati. Anche in caso di autorizzazione all’utilizzo dei dati, si deve circoscrivere la procedura ad attività aventi «per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica, e ciò indipendentemente dalla durata del periodo per il quale l’accesso ai dati suddetti viene richiesto, nonché dalla quantità o dalla natura dei dati disponibili per tale periodo». In estrema sintesi, le intercettazioni telefoniche o con il trojan e i tabulati, vedasi le chat, possano essere utilizzate soltanto per reati gravi e non per illeciti amministrativi o disciplinari. Nella stroncatura di Viola, le intercettazioni e le chat di Palamara erano state utilizzate a mani basse dal Csm. Come riportato ieri dal Riformista, infatti, nella delibera con cui è stato dato mandato all’Avvocatura dello Stato di “resistere” contro la sentenza del Tar del Lazio che aveva dato ragione a Viola, questo passaggio è descritto con dovizia. «Considerata la situazione emersa dalle citate indagini la Commissione (per gli incarichi direttivi, ndr) riteneva opportuno, in data 25 luglio 2019, acquisire copia delle trascrizioni relative alle intercettazioni trasmesse dalla Procura di Perugia al Csm concernenti la copertura dell’ufficio di Procuratore della Repubblica di Roma». «Nella seduta del 19 settembre 2019 – prosegue – dava conto di avere preso atto di detto materiale istruttorio e procedeva alla revoca delle proposte formulate nella seduta del 23 maggio 2019 dalla Quinta commissione (dove Viola aveva preso quattro voti su sei, ndr)». Tutto “illegittimo”, dunque, per la Corte Edu. La delibera in questione è stata votata ieri dal Plenum con tredici voti a favore. Fra i gruppi togati che hanno deciso di procedere con il ricorso al Consiglio di Stato, gli stessi che avevano votato lo scorso anno per Prestipino: la sinistra giudiziaria di Area, Unicost, l’ex corrente di Palamara, e i due davighiani della prima ora: Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. Con loro anche il laico Alberto Maria Benedetti (M5S) e Pietro Curzio e Giovanni Salvi, rispettivamente primo presidente e procuratore generale della Cassazione, entrambi di Area. Sei invece i contrari: quattro laici, Filippo Donati (M5S), Alessio Lanzi (Forza Italia), Stefano Cavanna e Emanuele Basile (Lega), e due togati, Nino Di Matteo e Antonio D’Amato, di Magistratura indipendente, la stessa corrente di Viola. Cinque gli astenuti: le togate Loredana Miccichè e Maria Paola Braggion (Magistratura indipendente) e il togato Sebastiano Ardita, ex davighiano, e i laici Michele Cerabona (Forza Italia) e Fulvio Gigliotti (M5s).
Toghe contro toghe. Procura di Roma, Viola stoppato illegalmente ma il Csm difende Prestipino. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Marzo 2021. La fuga di notizie relativa all’indagine di Perugia a carico di Luca Palamara costò il posto di procuratore di Roma a Marcello Viola. Quello che fino ad oggi era un semplice “sospetto” viene certificato dal Consiglio superiore della magistratura. Un reato, la violazione del segreto d’ufficio da parte degli inquirenti che passarono ai giornali le intercettazioni effettuate con il trojan durante l’incontro all’hotel Champagne, è alla base, dunque, della decisione dell’Organo di autogoverno delle toghe, come noto presieduto dal capo dello Stato, di stroncare la corsa di Viola a successore di Giuseppe Pignatone. La circostanza emerge in maniera evidente leggendo la delibera con cui il Csm ha deciso di ricorrere avverso la sentenza del Tar del Lazio che nelle scorse settimane aveva annullato la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma. La delibera di dare mandato all’Avvocatura dello Stato di presentare appello al Consiglio di Stato sarà discussa oggi in Plenum. Viola, procuratore generale di Firenze, era stato votato dalla Commissione per gli incarichi direttivi, la quinta, il 23 maggio del 2019. A lui erano andati quattro voti su sei. Uno ciascuno per Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, e Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze. Il successivo 29 maggio, qualche giorno prima che il Plenum si esprimesse con il voto finale, Repubblica, Corriere e Messaggero aprirono sull’inchiesta di Perugia con tre pezzi sostanzialmente identici. Repubblica aveva titolato “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, il Corriere “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, il Messaggero “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”. «A seguito della pubblicazione su diversi quotidiani nazionali della notizia dell’esistenza presso la Procura di Perugia di un’indagine penale coinvolgente un ex consigliere e riguardante, tra l’altro, un presunto accordo per la nomina del procuratore di Roma intercorso tra il predetto, due politici ed alcuni consiglieri in carica, si verificava la dimissione dei consiglieri presenti all’incontro suddetto e, tra l’altro, la modifica della composizione della quinta Commissione», esordisce subito la delibera del Csm in difesa di Prestipino. «Considerata la situazione emersa dalle citate indagini – prosegue – la predetta Commissione riteneva opportuno, in data 25 luglio 2019, acquisire copia delle trascrizioni relative alle intercettazioni trasmesse dalla Procura di Perugia al Csm concernenti la copertura dell’ufficio di Procuratore della Repubblica di Roma». «Nella seduta del 19 settembre 2019 dava conto di avere preso atto di detto materiale istruttorio e procedeva alla revoca, non già della proposta in favore di Viola (che, dalle notizie emerse, risultava essere il candidato al posto di Procuratore di Roma preferito dai partecipanti all’incontro di cui si è detto), ma di tutte le proposte in favore dei predetti tre magistrati, formulate nella seduta del 23 maggio 2019 dalla Quinta commissione», puntualizza quindi il Csm. «Con tale atto, il Consiglio specificava, pertanto, espressamente la ragione della revoca delle proposte, ovvero le informazioni derivanti dal materiale intercettivo trasmesso dalla Procura di Perugia, dalle quali emergeva il tentativo di condizionare l’esito della procedura concorsuale», conclude il Csm. Il resto è noto. Il 23 settembre 2019 la quinta Commissione decise di procedere all’audizione dei concorrenti. Tale nuovo atto istruttorio, come emerge dalla delibera del 4 marzo 2020, contribuì «in modo decisivo alla formazione della volontà della Commissione» di puntare su Prestipino, all’epoca aggiunto a Roma, che l’anno prima non era stato preso neppure in considerazione dal Csm. In questa vicende Viola risulterà completamente all’oscuro delle “manovre” ordite da Palamara. Oltre al danno, dunque, la beffa. Viola, si ricorderà, il 23 maggio era stato votato da Piercamillo Davigo che poi virò la propria preferenza su Prestipino. Per la cronaca, infine, sugli autori della fuga di notizie non risultano essere state mai effettuate indagini.
Procura di Roma, il Csm difende il capo Prestipino: "Più esperto di mafia di Lo Voi". Liana Milella su La Repubblica il 19 aprile 2021. Palazzo dei Marescialli si rivolge al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio che aveva annullato la nomina di Prestipino a favore di quelle del Pg di Firenze e del procuratore di Palermo. Per il Csm Michele Prestipino deve restare procuratore di Roma. Tant’è che oggi pomeriggio - come Repubblica ha scoperto - la commissione per gli incarichi direttivi, con 5 voti contro uno, ha deciso di ricorrere al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio che invece il 22 febbraio aveva accolto i ricorsi del procuratore generale di Firenze Marcello Viola e del procuratore di Palermo Franco Lo Voi. È ancora una storia senza una fine certa quella della procura di Roma. Il cui vertice era divenuto nel 2019 un “pezzo” del caso Palamara per via dell’incontro dell’8 maggio all’hotel Champagne in cui Luca Palamara, con i deputati Luca Lotti (Pd) e Cosimo Maria Ferri (allora Pd, oggi renziano), e cinque consiglieri in carica del Csm poi dimessisi, faceva strategie per far vincere il Pg di Firenze Viola. Ma un anno dopo, il 4 marzo del 2020, il Csm ha scelto Michele Prestipino, già procuratore aggiunto a piazzale Clodio quando al vertice c’era Giuseppe Pignatone, andato in pensione a maggio del 2019. I concorrenti della prima votazione del 23 maggio 2019 - Viola, Lo Voi, il capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo - hanno fatto ricorso al Tar del Lazio. Che ha riconosciuto in parte le ragioni di Viola e di Lo Voi, mentre ha bocciato il ricorso di Creazzo, nel frattempo finito sotto azione disciplinare per via di alcune sue presunte avance nei confronti della collega di Palermo Alessia Sinatra. Storia complicata questa della procura di Roma, uno degli uffici giudiziari più importanti d’Italia. Ma che oggi vede una nuova puntata. Importante. Perché la commissione che decide i capi degli uffici e i loro vice (direttivi e semi-direttivi) ha deciso di confermare indirettamente la nomina di Prestipino ricorrendo al Consiglio di Stato contro il Tar. Lo aveva già fatto nel caso di Viola, sostenendo che i giudici amministrativi non avevano ragione nel sostenere che la bocciatura del Pg di Firenze - che invece nel 2019, sponsorizzato a sua insaputa (perché non c’è alcuna chat o intercettazione che lo coinvolge) da Palamara e soci, era stato designato come vincitore dalla commissione - non era stata motivata adeguatamente. Invece il Csm adesso ha sostenuto che proprio i fatti dell’hotel Champagne, nonché le dimissione di due dei 6 componenti della commissione dell’epoca, potevano ben giustificare la mutata decisione. Infatti, a prescindere dalle responsabilità di Viola, comunque la proposta che lo vedeva vincitore era inquinata da comportamenti illeciti altrui. Stavolta invece, nel caso di Lo Voi, la motivazione del Csm punta su un altro argomento del tutto tecnico e professionale. Che ha convinto cinque dei 6 componenti, il presidente di Autonomia e indipendenza (la corrente di Davigo) Giuseppe Marra, il vice di Area Giuseppe Cascini, nonché il laico di Forza Italia Alessio Lanzi, Michele Ciambellini di Unicost, Filippo Donati laico indicato da M5S. Si è astenuta invece Loredana Miccichè, toga di Magistratura indipendente, che quel 4 marzo aveva votato per Lo Voi. La motivazione della commissione è semplice, anche se contenuta in un lungo parere che sarà votato mercoledì in plenum e poi sarà presentato al Consiglio di Stato. Michele Prestipino “batte” Lo Voi per la sua esperienza più lunga e più variegata nel contrasto alle mafie, poiché per più di vent’anni tra Palermo, Reggio Calabria e Roma - procure dove ha sempre rivestito il ruolo di procuratore aggiunto - ha acquisito più “punti” rispetto a Franco Lo Voi che ha lavorato alla procura di Palermo come pm, ma poi è stato al Csm e giudice di Eurojust. Adesso la partita decisiva la giocherà il Consiglio di Stato dove si è già svolta l’udienza per il ricorso di Viola, e la cui decisione dovrebbe essere depositata tra un mese, e che poi a seguire si pronuncerà su Lo Voi.
Magistratura, il Consiglio di Stato respinge l'appello di Prestipino e del Csm sulla nomina del procuratore di Roma. Libero Quotidiano l'11 maggio 2021. L'ultima sentenza del Consiglio di Stato contro il Csm apre un nuovo capitolo sulla guerra tra procure. Scendendo nel dettaglio, il Consiglio di Stato ha respinto l'appello presentato dall'attuale procuratore capo di Roma Michele Prestipino e dall'intero Consiglio superiore della magistratura. Il Csm, infatti, aveva deciso di impugnare la sentenza del Tar del Lazio, che lo scorso 16 febbraio aveva accolto il ricorso del procuratore generale di Firenze Marcello Viola, anche lui candidato - ma sconfitto - alla Procura di Roma nel 2020. Alla base di questa "guerra" c'è il "Sistema" di cui ha parlato l'ex magistrato Luca Palamara. Per capire meglio, è necessario fare un passo indietro. Come ricorda il Giornale, tutto nasce qualche anno fa dall'esigenza di trovare un magistrato che potesse occupare il vertice della Procura di Roma al posto di Giuseppe Pignatone. I candidati erano: Giuseppe Creazzo, procuratore capo a Firenze, Marcello Viola e Francesco Lo Voi, procuratore capo a Palermo. In campo erano scese anche le correnti; infatti nel maggio del 2019 Palamara incontrò Luca Lotti, Cosimo Maria Ferri e cinque consiglieri in carica del Csm, con l'obiettivo di sponsorizzare Viola. Qualche mese dopo l'incontro all'hotel Champagne, il Csm scelse Prestipino come procuratore capo di Roma, anche per via dello scandalo emerso sul caso Palamara. E così è iniziato il balletto dei ricorsi. Viola, Lo Voi e Creazzo hanno deciso di rivolgersi al Tar del Lazio, che poi ha bocciato solo il ricorso di Creazzo, riconoscendo le ragioni degli altri due magistrati. Il Csm allora ha impugnato quella sentenza per confermare, di fatto, la scelta di Prestipino. Oggi, però, il Consiglio di Stato si è espresso esattamente come il Tar, respingendo gli appelli per due motivi: primo, il Csm avrebbe escluso Viola in maniera immotivata, e secondo, perché "il Csm ha valutato e comparato in modo illegittimo le rispettive attitudini direttive di Prestipino e di Marcello Viola". Adesso la palla passa al Csm, che dovrà esprimersi nuovamente sulla nomina di Prestipino e l’adottata esclusione di Viola. Ma un altro passaggio importante avverrà il 13 maggio, quando verrà trattata la domanda di sospensione presentata da Prestipino contro l’altra sentenza del Tar che aveva accolto un altro ricorso, quello presentato dal procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi.
«Su Prestipino errore del Csm». Procura di Roma, è tutto da rifare. Il Consiglio di Stato rigetta l’appello dell’attuale capo dei pm e dà ragione a Viola: fu giusto il primo voto favorevole al pg di Firenze (e a Palamara...) Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Il Consiglio superiore della magistratura non poteva nominare Michele Prestipino procuratore di Roma. Lo hanno stabilito ieri i giudici della quinta sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Giuseppe Severini, confermando dunque la sentenza del Tar del Lazio che aveva accolto lo scorso febbraio il ricorso del procuratore generale di Firenze Marcello Viola contro l’ex aggiunto della Capitale. La nomina di Prestipino, come si evince leggendo le quarantatre pagine della sentenza, è illegittima per diversi motivi. Il primo è relativo all’annullamento della votazione del 23 maggio del 2019 della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm. In quell’occasione la maggioranza dei voti, quattro, erano andati a Viola, un voto ciascuno agli altri due candidati, Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, e Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo. Per Viola, in particolare, avevano votato Antonio Lepre, togato di Magistratura indipendente, Piercamillo Davigo, i laici in quota Lega e M5s, Emanuele Basile e Fulvio Gigliotti. Il togato di Area, la corrente progressista, Mario Suriano aveva votato per Lo Voi e quello di Unicost, Gianluigi Morlini, per Creazzo. La fuga di notizie sull’indagine di Perugia nei confronti dell’ex presidente Anm Luca Palamara, e la conseguente campagna di stampa portata avanti per settimane, a iniziare dal successivo 29 maggio, con la pubblicazione delle intercettazioni effettuate la sera del 9 maggio all’hotel Champagne, mise tutto in discussione. Il Csm fu travolto dalle polemiche e i consiglieri che avevano partecipato all’incontro costretti alle dimissioni. Ciò comportò un cambio di maggioranza a Palazzo dei Marescialli e una nuova composizione delle Commissioni. Fra le prime decisioni vi fu quella di annullare la votazione di Viola. Nonostante quest’ultimo fosse risultato del tutto estraneo a quanto accaduto quella sera, il Csm decise di azzerare comunque la scelta fatta il 23 maggio. Eppure era già emerso con chiarezza come Palamara e i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti avessero espresso, all’insaputa di Viola, il proprio gradimento nei suoi confronti per il posto di procuratore di Roma. Nelle nuove votazioni, in cui Viola non era nemmeno stato preso in considerazione, ebbe la meglio Prestipino, aggiunto del precedente capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone e, dopo il congedo di quest’ultimo, procuratore facente funzioni. Il 20 marzo del 2020 il plenun, spaccandosi, decise che doveva essere lui a dirigere la Procura più importante d’Italia. Ma per i giudici di Palazzo Spada aver escluso Viola è stata una decisione “immotivata”. Molto severo, poi, il giudizio circa i titoli e le attitudini dei candidati. Il Csm ha effettuato valutazione e comparazione, anche in questo caso, in modo illegittimo. Il Consiglio di Stato si è spinto oltre parlando di “manifesta irragionevolezza”, laddove da un lato il Csm ha valorizzato le funzioni di aggiunto svolte per appena poco più di tre mesi da Prestipino, senza prendere “in adeguata considerazione” lo svolgimento, da parte di Viola “per ben tre anni, della funzione direttiva di secondo grado di procuratore generale presso una delle principali Corti d’Appello italiane”. Palazzo Spada ha anche sottolineato come il Csm abbia erroneamente attribuito maggior peso all’esperienza di Prestipino in materia di criminalità organizzata, senza tenere adeguatamente conto delle esperienze di Viola quale procuratore della Repubblica di Trapani, “un territorio con una radicata presenza di complesse strutture criminali di tipo mafioso”. La sentenza ha poi evidenziato che il Csm ha errato nel valorizzare la conoscenza da parte di Prestipino della Procura di Roma dove faceva servizio “giacché la valutazione deve prescindere dal radicamento personale sul singolo territorio”. Un punto, quest’ultimo, che renderà molto difficile da parte del Csm un ulteriore indicazione favorevole a Prestipino. In caso per la decisione finale bisognerà comunque aspettare il 13 maggio quando verrà trattata la domanda cautelare sull’appello di Prestipino, con appello incidentale Csm, contro l’altra sentenza del Tar Lazio che aveva accolto il ricorso di Voi. Solo a quel punto la Commissione per gli incarichi direttivi riesaminerà la nomina del capo della Procura della Capitale con una proposta che verrà sottoposta al voto del plenum. E si preannuncia una decisione non facile. Il Csm in questo ricorso era rappresentato dall’Avvocatura dello Stato, Prestipino dal professore Massimo Luciani, che aveva nei mesi scorsi assistito al Consiglio di Stato l’ex togato Piercamillo Davigo contro la decadenza da Palazzo dei Marescialli, Viola dagli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia. Relatore della sentenza è stato il consigliere Valerio Perotti. Anche Giuseppe Crezzo, per la cronaca, aveva presentato ricorso contro la nomina di Prestipino ma i giudici amministrativi lo avevano respinto.
La doppia sentenza. Consiglio di Stato boccia l’asse Prestipino-Csm: respinti gli appelli sulla nomina a procuratore di Roma. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Anche il Consiglio di Stato boccia l’asse Prestipino-Csm. La V Sezione dell’organo giurisdizionale di Palazzo Spada ha infatti respinto con due sentenze, la numero 3712 e 3713, gli appelli presentati da Michele Prestipino Giarritta e del Consiglio Superiore della Magistratura contro la sentenza del Tribunale amministrativo del Lazio del 16 febbraio scorso che aveva accolto il ricorso presentato da Marcello Viola, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, contro la nomina dello steso Prestipino a Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, decisa dal Csm il 4 marzo 2020. Una bocciatura su tutta la linea quella messa nero su bianco dal Consiglio di Stato, che spiega come la delibera del Csm sulla nomina dell’attuale capo della procura di Roma è “illegittima per due ordini di motivi”. Il primo: perché si basa “su una proposta della Quinta Commissione, interna al Csm, che ritornando sulle proprie precedenti determinazioni, immotivatamente aveva escluso Viola dai candidati da proporre al Plenum per la decisione, prima invece considerato da proporre”. Secondo il Consiglio di Stato Viola, in un primo momento nella lista dei ‘papabili’ per il ruolo di capo della Procura di Roma, fu ‘cassato’ immotivatamente dopo lo scoppiare dello scandalo Palamara. Il secondo: perché il Csm “ha valutato e comparato in modo illegittimo le rispettive attitudini direttive di Michele Prestipino Giarritta, Procuratore aggiunto di Roma, e di Marcello Viola”. Una decisione, quella sul capo della Procura di Roma, che passa nuovamente nelle stanze del Consiglio superiore della magistratura: i suoi membri dovranno esprimersi nuovamente sulla nomina di Prestipino ‘cassata’ da Tar e Consiglio di Stato, con la quinta commissione chiamata a valutare i candidati tenendo conto delle recenti sentenze. Il 13 maggio invece verrà trattata la domanda cautelare sull’appello Prestipino, con appello incidentale Csm, contro l’altra sentenza del Tar Lazio- che aveva accolto il ricorso di Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo anch’egli in corsa per la nomina a numero uno della procura capitolina.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
"Delibera Csm illegittima". Terremoto alla procura di Roma. Giuseppe De Lorenzo l'11 Maggio 2021 su Il Giornale. La decisione del Consiglio di Stato dopo il ricorso del Csm e di Prestipino. Continua la guerra interna tra magistrati. Non si placa la guerra delle procure. O meglio, della procura più importante d'Italia. E ora si colora di una nuova, importante, puntata: il Consiglio di Stato ha respinto l'appello presentato da Michele Prestipino, attuale procuratore capo di Roma, e del Consiglio Superiore della Magistratura contro la decisione del Tar del Lazio che il 16 febbraio aveva accolto il ricorso presentato dal procuratore generale di Firenze Marcello Viola. Detta così può apparire come semplice baruffa tra magistrati. E invece si tratta di uno degli eventi chiave che alla fine hanno portato a scoperchiare il "Sistema" denunciato da Luca Palamara nel libro scritto con Alessandro Sallusti. Breve riassunto. Tutto nasce dalla necessità di trovare il sostituto di Giuseppe Pignatone a piazzale Clodio. La carica è di quelle che pesano. E infatti la corsa al posto si fa subito agguerrita: i candidati sono Giuseppe Creazzo (procuratore capo a Firenze), Marcello Viola (pg a Firenze) e Francesco Lo Voi (procuratore capo a Palermo). In campo scendono anche le "correnti" della magistratura, al lavoro sottobanco. L'8 maggio del 2019 all'hotel Champagne Palamara incontra Luca Lotti, Cosimo Maria Ferri e cinque consiglieri in carica del Csm, con l'obiettivo di sponsorizzare Viola. Il procuratore fiorentino sembra effettivamente il favorito, poi però accade il patatrac. Qualche mese dopo, il 4 marzo del 2020, anche a seguito dello scandalo emerso sul "caso Palamara" e dall'incontro all'hotel Champagne, il Csm sceglie Prestipino e dà il via al valzer dei ricorsi. Lo Voi, Creazzo e Viola si rivolgono al Tar del Lazio. Il quale, dopo aver bocciato il ricorso di Creazzo, riconosce in parte le ragioni degli altri due togati. Si tratta della prima, violenta, scossa di terremoto. Per provare a puntellare Prestipino, la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, quella che sceglie i capi degli uffici e i loro vice, decide allora di ricorrere al Consiglio di Stato. E lo stesso fa Prestipino. La bagarre resta sospesa nell'aria, tanto che l'attenzione in queste settimane vira su un altro scandalo che investe la magistratura: quello dei dossier recapitati ai giornali, di Davigo, dei verbali di Amara e della presunta loggia segreta "Ungheria". Fino alla sentenza di oggi. La V Sezione del Consiglio di Stato, con le decisioni nn. 3712 e 3713, ha respinto gli appelli, rispettivamente, di Prestipino e del Csm contro la sentenza del Tar su Viola. I giudici, confermando la decisione del Tribunale amministrativo, ritengono la delibera del Csm illegittima per due ordini di motivi. "Anzitutto - si legge in una nota - perché si basa su una proposta della Quinta Commissione, interna al Csm, che ritornando sulle proprie precedenti determinazioni, immotivatamente aveva escluso Viola dai candidati da proporre al Plenum per la decisione, prima invece considerato da proporre. Inoltre perché il Csm ha valutato e comparato in modo illegittimo le rispettive attitudini direttive di Prestipino e di Marcello Viola". La guerra interna a Piazzale Clodio però non si ferma qui. Il 13 maggio, infatti, verrà trattata la domanda cautelare sull'appello di Prestipino contro l'altra sentenza del Tar Lazio che aveva accolto il ricorso presentato dal procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi. E sarà una nuova scossa tellurgica.
IL CSM NELLA BUFERA: LA PROCURA DI ROMA RESTA SENZA PROCURATORE. Il Corriere del Giorno l'11 Maggio 2021. I giudici amministrativi di Palazzo Spada hanno respinto gli appelli presentati sia dall’attuale procuratore capitolino che dal Csm contro la sentenza del Tar del Lazio che aveva accolto il ricorso presentato dal procuratore generale di Firenze Marcello Viola contro la nomina del capo della procura della Capitale. Dopo la sentenza del Tar del Lazio dello scorso 16 febbraio, è arrivato oggi anche la decisione del Consiglio di Stato, che respinto i ricorsi in appello presentati dal Csm che in una delibera approvata a maggioranza aveva definito “erronea, illogica e contraddittoria” la decisione dei magistrati amministrativi sulla nomina dell’ormai ex-procuratore capo di Roma Michele Prestipino Giarritta. La delibera con cui il Consiglio Superiore della Magistratura aveva vanificato le ambizioni romane del procuratore generale di Firenze Marcello Viola escluso immotivatamente dalla corsa al vertice della procura di Roma, è illegittima. La sentenza del Consiglio di Stato n. 3712/13 depositata questa mattina, revoca di fatto la delibera del plenum del Csm del 4 marzo del 2020 che aveva votato a maggioranza approvando la nomina di Prestipino al vertice della procura di Roma sarebbe illegittima per due motivi. Secondo i giudici di Palazzo Spada la Quinta Commissione del Csm, aveva escluso immotivatamente il magistrato Viola dopo essere ritornata sulle sue precedenti decisioni. Infatti inizialmente il procuratore generale di Firenze era stato inserito tra i papabili per ricoprire il ruolo di procuratore capo della Capitale. Successivamente a seguito dell’esplosione dello scandalo Palamara, secondo il Consiglio di Stato, la prima rosa di nomi indicata dalla commissione nomine ed incarichi del Csm era stata annullata immotivatamente. Nella seconda motivazione i giudici amministrativi entrano nel merito: il Csm, nel valutare i magistrati Marcello Viola e Michele Prestipino Giarritta, ha comparato in maniera illegittime le rispettive attitudini, non considerando i ruoli dei due concorrenti. Mentre Prestipino era un procuratore aggiunto nella Capitale, Viola ricopriva e ricopre ancora l’incarico di procuratore generale di Firenze. Il prossimo 13 maggio verrà trattata la domanda di sospensione presenta da Prestipino contro l’altra sentenza del Tar che aveva accolto un altro ricorso, presentato dal procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi anch’egli candidato alla guida della procura della Capitale. “Il Giudice Amministrativo ha ribadito che la scelta del Csm di non formulare alcuna proposta volta al conferimento al dott. Viola dell’incarico di Procuratore di Roma fosse immotivata e che nessun rilievo potesse riconoscersi al fatto che la composizione dell’organo fosse nelle more parzialmente mutato”, hanno commentano gli avvocati Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, che assistono il dr. Lo Voi. Nella sentenza è stato rilevato al riguardo che “il Consiglio Superiore della Magistratura non è organo politico ma di alta amministrazione di rilievo costituzionale. Le ragioni della revoca non potevano dunque ravvisarsi implicite ed esaustive né nel fatto della intervenuta sostituzione delle persone di alcuni commissari, né nel mero mutamento di preferenza al riguardo da parte di un altro rimasto – spiegano i legali del procuratore Lo Voi – Inoltre, il Consiglio di Stato, condividendo i motivi di ricorso non esaminati in primo grado e reiterati in appello, ha rilevato come il Csm abbia errato nel ritenere prevalente il profilo del dott. Prestipino Giarritta nonostante lo stesso avesse svolto solo funzioni semidirettive (quale Procuratore Aggiunto presso le Procure di Reggio Calabria e di Roma) a fronte delle – più rilevanti – funzioni direttive svolte dal dott. Viola (che è stato Procuratore della Repubblica a Trapani ed è attualmente Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze)”. Il problema adesso torna a Palazzo dei Marescialli dove la quinta commissione del Csm, dovrà dunque rivalutare i candidati (smentendo la precedente votazione) ed elaborare una nuova proposta da portare al voto del plenum, che dovrà tenere conto e rispettare le recenti sentenze del Consiglio di Stato sulla nomina di Prestipino e l’illegittima esclusione di Viola.
Anna Maria Greco per “il Giornale” il 14 maggio 2021. Due scenari, tre eventi legati. Il più clamoroso è a Roma, dove il Consiglio di Stato rinvia all' 8 luglio l' esame del ricorso di Michele Prestipino contro la sentenza del Tar del Lazio che dichiara illegittima la sua nomina a procuratore di Roma, dando ragione al concorrente Francesco Lo Voi (come già a Marcello Viola). Lo fa, questo è da capire, su richiesta proprio di Prestipino e Lo Voi, che chiedono tempo per valutare nuove impugnazioni e organizzare la difesa. Intanto, la procura capitolina rimarrà per oltre due mesi (ci vorrà tempo per conoscere la sentenza), guidata dal «reggente» Prestipino che, secondo i giudici amministrativi, non ha titolo per rimanere in quel posto. Sempre nella Capitale, il Csm respinge la richiesta di trasferimento, avanzata da Nino Di Matteo per incompatibilità con ogni funzione giudiziaria nel distretto di Lecce, che riguarda Valerio Fracassi, capogruppo di Area a Palazzo de' Marescialli nell' ultima consiliatura e molto attivo nelle trattative sulle nomine, proprio con Palamara, come risulta dalle chat. Il plenum si spacca: 11 contrari, 3 astenuti, 6 favorevoli. La motivazione, arriverà entro un mese. A Perugia, invece, Luca Palamara affronta l' udienza preliminare per l' accusa di aver utilizzato segreti d' ufficio, con il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio e l' ex pm di Roma Stefano Fava, per infangare l' allora capo della procura capitolina Giuseppe Pignatone e l' aggiunto Paolo Ielo. Nei tre casi si intrecciano i più grossi scandali che hanno colpito la magistratura e il Csm, quello che prende il nome appunto dall' ex presidente dell' Anm e quello che ha al centro il faccendiere Piero Amara. Davanti al gup di Perugia Angela Avila, Palamara, Fuzio e Fava devono rispondere delle contestazioni dei pm che vogliono il rinvio a giudizio per concorso in rivelazione e utilizzazione di segreti d' ufficio, accesso abusivo a sistema informatico e abuso d' ufficio. Accolta la richiesta di costituirsi parte civile di Ielo (oltre che del ministero della Giustizia e di Cittadinanzattiva), non del fratello avvocato Domenico. Per l' accusa, Fuzio al telefono rivelò a Palamara l' arrivo al Csm di un esposto di Fava, che accusava di scorrettezze Pignatone e Ielo, anche perché nelle indagini su Amara non si sarebbero astenuti, pur avendo ambedue i fratelli consulenti di parti in causa. Fuzio avrebbe rivelato a Palamara come il Comitato di presidenza del Csm, di cui faceva parte, voleva procedere per l' esposto. Fava, invece, avrebbe usato abusivamente il sistema informatico per «avviare una campagna mediatica» contro Pignatone, appena andato in pensione e Ielo, con l' aiuto di Palamara «a cui consegnava l' incartamento indebitamente acquisito». I due avrebbero poi fornito a Il Fatto e La Verità notizie secretate, sul fatto che Amara «era indagato per bancarotta e frode fiscale e che Fava aveva predisposto una misura cautelare», che i capi avevano bloccato. Fava è anche accusato di abuso d' ufficio per aver utilizzato atti di procedimenti penali per far avviare un procedimento disciplinare contro Pignatone e per screditare Ielo. Siamo solo all' inizio.
Il filosofo in toga che ha ottenuto la super poltrona grazie a Pignatone. Anna Maria Greco il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. Da Palermo fino alla Capitale, Prestipino è stato l'eterna "spalla" del collega più anziano. Lo scandalo Palamara il 4 marzo 2020 porta Michele Prestipino sulla poltrona più ambita e più «politica» delle procure italiane. Quella che «vale tre ministeri», diceva l'andreottiano Franco Evangelisti. Il braccio destro di Giuseppe Pignatone sembrava fuori dalla corsa, perché nella famosa notte dell'hotel Champagne le correnti dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, Unità per la Costituzione e del magistrato ora deputato renziano Cosimo Ferri, Magistratura Indipendente, puntarono sul Pg a Firenze, Marcello Viola, nel nome della «discontinuità». Ma quando i loro piani vennero alla luce, partirono inchieste e processi disciplinari, l'accordo saltò e Prestipino arrivò al posto del suo amico e mentore Pignatone, con l'appoggio della sinistra di Area e di Autonomia&Indipendenza, di Piercamillo Davigo. Per 10 mesi, mentre la bufera spazzava la magistratura, era stato capo dell'Ufficio facente funzione, alla fine fu premiato. Michele Prestipino Giarritta, nato nel 1957 a Roma da famiglia siciliana ed entrato in magistratura nel 1984, conosce l'allora aggiunto Pignatone quando arriva nel 1996 come sostituto a Palermo. Con lui 10 anni dopo cattura Bernardo Provenzano, latitante da 40 anni e nella Dda svolge indagini importanti, dallo scandalo delle «talpe» in procura alle connessioni tra mafia, politica e sanità. Nel 2020 segue a Reggio Calabria, come aggiunto, Pignatone diventato capo della procura e indagano sulla ndrangheta e sulle ramificazioni nel nord Italia e nel nord Europa. Arrivato a Roma nel 2013 con Pignatone, Prestipino conduce l'indagine su Mafia capitale e vive la delusione di vedere la Cassazione negare il carattere mafioso dell'organizzazione. Le indagini sugli Spada di Ostia portano a 150 anni di condanne, altre arrivano per i Fasciani, poi l'inchiesta sui Casamonica, l'altra su Diabolik alias Fabrizio Piscitelli e la Grande Raccordo Criminale. Sulle mafie di ieri e di oggi scrive anche due libri. Con Pignatone, sempre suo alter ego. Nel libro-intervista con Alessandro Sallusti Il Sistema, Palamara racconta che, quando nel 2012 Pignatone arriva nella capitale, gli confida che con Prestipino al fianco vuole «cambiare l'agenda della procura di Roma, sterzare su grosse indagini contro la criminalità organizzata mafiosa, come aveva fatto a Palermo e poi a Reggio Calabria». Intende portare nella Capitale il suo amico fidato, dopo aver tentato senza successo di fargli prendere il suo posto in Calabria. Palamara dice di aver manovrato per assecondare Pignatone, dicendo all'altro aggiunto in corsa, Nicola Gratteri, che Prestipino è sostenuto dal suo ex capo. Quello, offeso, si ritira. Cerca di convincere anche Federico Cafiero de Raho a fare un passo indietro, senza riuscirci. Sarà lui il successore di Pignatone a Reggio Calabria e la missione di Palamara diventa spianare a Prestipino la strada per Roma. Nel 2013 arriva la nomina di aggiunto, ma il procuratore di Tivoli Luigi De Ficchy, che ha fatto domanda, ricorre al Tar sostenendo di avere più titoli di Prestipino. «Carte alla mano non aveva tutti i torti - dice Palamara nel libro -, ma il meccanismo delle nomine... prescinde dai curricula e segue altre logiche, molto discrezionali e legate a opportunità politiche, di potere e di appartenenza alle correnti». Nel 2015 De Ficchy perde il ricorso, ma poteva fare appello al Consiglio Stato e allora la parola definitiva sarebbe stata di Sergio Santoro. Palamara briga per mediare e racconta di una cena in casa Santoro, con Pignatone e Fabrizio Centofanti (che poi sarà arrestato dal primo proprio per l'inchiesta sul ras delle nomine). Il procuratore rinuncia al ricorso e Palamara afferma di essersi attivato per la sua nomina a procuratore Perugia, dove diventerà il suo grande inquisitore. Prestipino, intanto, guida la procura di Roma, sempre stakanovista e determinato, con poco tempo per le sue due passioni, oltre la famiglia: la corsa e i libri di filosofia teoretica. Ma per poco.
Valentina Errante per “il Messaggero” il 20 maggio 2021. Gli attacchi esterni e le guerre intestine alla magistratura. Mentre il deputato di Azione, Enrico Costa, ci riprova con l' annosa questione delle separazione delle carriere e deposita in commissione Giustizia alla Camera un emendamento al decreto Covid (firmato da tutto il centrodestra) per distinguere il concorso degli aspiranti pm e quello degli aspiranti giudici, le polemiche tra le toghe non si placano. Ieri, il pm milanese Paolo Storari, indagato per violazione del segreto d' ufficio e interrogato per quattro ore a Brescia, ha accusato il procuratore di Milano Francesco Greco, per le mancate indagini sulla loggia Ungheria. Mentre Marcello Viola ha mandato un invito formale al Csm, perché la sua nomina a procuratore di Roma venga votata dal plenum, alla luce della sentenza del Consiglio di Stato che due settimane fa gli ha dato ragione contro Michele Prestipino. Viola non ha rinunciato all' incarico che si è visto sfuggire nel maggio del 2019, quando, la maggioranza della quinta commissione lo aveva indicato. Non intende retrocedere per andare a Palermo come procuratore generale, facendosi da parte per consentire al Csm di nominare una seconda volta Prestipino capo dell' ufficio giudiziario più grande d' Europa. Il segnale e chiaro.
LA VICENDA. A maggio di due anni fa mancava solo il plenum, Viola era il procuratore di Roma in pectore. E, invece, l' esplosione del caso Palamara e le intercettazioni all' hotel Champagne avevano fatto riavvolgere il nastro: la pratica era tornata in commissione e il nome di Viola era stato depennato. La sentenza del Consiglio di Stato ha confermato il pronunciamento del Tar sul ricorso dell' attuale procuratore generale di Firenze, annullando la nomina di Michele Prestipino a capo dell' ufficio giudiziario della Capitale, ma sembrava scontato che Viola avesse perso interesse all' incarico a Roma. E fosse proiettato verso la procura generale di Palermo, per la quale concorre. Ma l' istanza presentata ieri al Consiglio dimostra il contrario e, visto che gli equilibri, all' interno del Csm, sono cambiati, nulla sembra più scontato. Palazzo dei Marescialli non affronterà la questione prima che i giudici amministrativi di secondo grado si pronuncino su un altro ricorso, presentato contro la nomina di Prestipino, quello di Francesco Lo Voi, anche lui candidato, escluso, dalla corsa per la procura di Roma. Però l' energica presa di posizione del procuratore generale di Firenze potrebbe significare che la riconferma di Prestipino potrebbe essere di nuovo impugnata al Tar.
L' INVITO. L'invito notificato al Csm è firmato dai legali di Viola, Girolamo Rubino e Giuseppe Impiduglia, che chiedono di riattivare, in esecuzione alle pronunce del giudice amministrativo, «il procedimento volto alla nomina del Procuratore di Roma procedendo, previo il necessario concerto ministeriale, a sottoporre al plenum le proposte originariamente formulate dalla quinta commissione il 23 maggio 2019». Quella di Viola. Gli avvocati sottolineano che le sentenze hanno annullato la decisione del settembre , quando la commissione incarichi direttivi ha disposto la revoca della proposta originariamente formulata a favore di Viola «Per effetto delle sentenze - scrivono i legali - il procedimento non potrà che essere riattivato a partire dall' ultimo atto legittimo» formulato dalla quinta commissione del Csm nel 23 maggio 2019. Non solo, secondo i legali, bisognerebbe procedere con celerità perché, «per effetto delle sentenze, l' importantissimo Ufficio direttivo di Procuratore presso il Tribunale di Roma risulta privo del suo titolare».
L' EMENDAMENTO. L' emendamento presentato da Costa è solo una premessa per portare avanti il progetto della separazione delle carriere tra pm e giudici che il centrodestra coltiva da tempo. La norma del decreto Covid prevede una prova semplificata per il prossimo concorso in magistratura, con due scritti sorteggiati tra diritto civile, penale e amministrativo. L' emendamento propone invece che i candidati indichino nella domanda quale funzione (giudicante o requirente) vogliano svolgere e che le materie siano scelte di conseguenza. Se la norma passasse, avrebbe l' effetto di separare in partenza le funzioni, ma riguarderebbe il singolo concorso. L'emendamento, però, sembra preludere al dibattito che si aprirà nell' ambito della riforma dell' ordinamento giudiziario sull' ipotesi più generale di inserire la separazione delle funzioni.
Il Consiglio di Stato. Prestipino è illegale, ennesima sentenza contro il procuratore abusivo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Il Consiglio di Stato ha emesso la quarta o la quinta sentenza (ho perso il conto…) contro il Procuratore di Roma Michele Prestipino. Ha detto a lettere chiarissime che non aveva i titoli per essere nominato Procuratore. Due dei suoi “competitor”, e cioè il Procuratore generale di Firenze Viola e il Procuratore di Palermo Lo Voi, avevano e hanno molti più titoli di lui e sono stati esclusi arbitrariamente dal Csm. Il Consiglio di Stato ha scritto proprio così, nella sentenza: “Molti più titoli”. Ormai non sembra che possano esserci molti dubbi sulla questione: prima il Tar e poi il Consiglio di Stato si sono pronunciati ripetutamente e in modo univoco sui ricorsi di Viola e Lo Voi e hanno messo il Csm con le spalle al muro. La nomina di Prestipino fu illegittima e – a occhio – fu frutto di una di quelle manovre di correnti (accordi, pasticci, scambi di favori e di potere) denunciate in modo molto circostanziato da Luca Palamara. Le sentenze del Tar e del Consiglio di Stato sono abbastanza imbarazzanti per il Csm (non tutto, naturalmente: diciamo per quei consiglieri che hanno votato per Prestipino). Ma il problema più grosso è un altro: Prestipino finora non ha mostrato nessuna intenzione di lasciare. Continua a presentare nuovi ricorsi nonostante l’evidenza palmare della sua posizione insostenibile. E continua a mantenere il potere immenso che detiene un procuratore di Roma, continua a poter influenzare indagini, imputazioni, e anche sentenze. Il danno per la credibilità della giustizia (e per la serenità degli imputati) è gigantesco. Se un politico mostrasse la stessa arroganza sarebbe cacciato via di corsa dal suo stesso partito. Almeno dopo questa quarta sentenza, Prestipino avrà il buon gusto di farsi da parte? O, altrimenti, qualcuno vorrà intervenire per ristabilire la legalità?
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Michele Prestipino, il procuratore di Roma è abusivo: l'accusa dei colleghi, caos-Capitale. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Il procuratore di Roma Michele Prestipino è sempre più abusivo. Il Consiglio di Stato, per l'ennesima volta, ha stabilito che l'attuale numero uno di piazzale Clodio non ha i titoli per ricoprire quel ruolo. Troppo scarso il suo curriculum e troppo debole la sua esperienza professionale per poter svolgere un incarico così importante. Ieri è stata depositata la sentenza che ha accolto il ricorso del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, il magistrato che l'anno scorso era stato bocciato dal Consiglio superiore della magistratura, a favore di Prestipino, per il posto di procuratore della Capitale. Per i giudici del Consiglio di Stato non si comprende, infatti, come il procuratore di Palermo, territorio da sempre caratterizzato da infiltrazioni mafiose, possa essere recessivo sul tema del contrasto alla criminalità rispetto ad un collega, come Prestipino, che per anni si è relazionato solo con la delinquenza romana. A meno di non voler dar retta a Roberto Benigni, alias Johnny Stecchino nell'omonimo film, secondo il quale il problema principale di Palermo era "il traffico". Il Csm per favorire Prestipino aveva lavorato di fantasia, affermando che Roma ha una sua «specificità criminale». Tesi bocciata senza appello dal Consiglio di Stato. Prima di Lo Voi anche il procuratore generale di Firenze Marcello Viola, altro escluso dalla corsa per il posto di procuratore di Roma, aveva fatto ricorso, con successo, contro la nomina di Prestipino. La partita per la Capitale, comunque, non è ancora conclusa. Ci sarà un tempo supplementare. Prestipino, non accettando i responsi sfavorevoli, ha deciso di mettere in discussione l'autorità del Consiglio di Stato e si è rivolto ai colleghi della Cassazione. Il ricorso per "eccesso di potere" sarà discusso il 23 novembre. Prima di allora difficilmente il Csm metterà mano alla pratica romana, sfrattando Prestipino. La nomina del procuratore di Roma è il frutto avvelenato del Palamaragate. L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva rivelato nel libro "Il Sistema" scritto con il direttore Alessandro Sallusti i pesanti giochi di potere dietro la scelta del capo della Procura più importante del Paese, quella che, secondo una vulgata in voga durante la Prima Repubblica, vale come "due ministeri". Prestipino era l'erede naturale dell'ex procuratore Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale Vaticano. Pignatone, come affermato sempre da Luca Palamara, è stato uno dei perni del "sistema" che condiziona le nomine in magistratura. E fu Pignatone ad avvisare Palamara che stavano facendo accertamenti nei suoi confronti, consigliandogli di rinunciare a fare carriera a Roma. Un ribaltone dal momento che, come sostiene ancora Palamara, fu lui a mettere in pista la nomina di Pignatone a capo della procura di Roma nel 2012, battendo la concorrenza di Giancarlo Capaldo. Palamara aveva esaudito tutti i desiderata di Pignatone, caldeggiando il trasferimento a Roma dei suoi stretti collaboratori e la promozione di magistrati di sua fiducia. «Lo aiuto a circondarsi di investigatori di sua scelta - qualcuno dirà che si era fatto una polizia privata - ma soprattutto m' impegno a portargli a Roma come vice il suo braccio destro di sempre, Prestipino, che era rimasto a Reggio Calabria a fare la guardia all'ufficio». Per uno scherzo del destino saranno proprio quegli ufficiali di polizia giudiziaria a condurre le indagini contro Palamara che ne hanno determinato la cacciata dalla magistratura.
Prestipino e Greco delegittimati. Roma e Milano, procure senza capo: a comandare è la loggia Ungheria. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Naturalmente la nostra è solo un’ipotesi. Diciamo un ragionamento. I fatti sui quali proviamo a ragionare sono semplici e chiari. Dopo le vacanze riprende l’attività giudiziaria. Le due procure più importanti d’Italia sicuramente sono quelle di Milano e di Roma. Il problema è che la Procura di Milano ha un procuratore capo che sta per andare in pensione ma non ha intenzione di lasciare con anticipo, sebbene ha di fatto ricevuto la sfiducia circa del 95 per cento dei suoi sostituti e sebbene sia indagato da Brescia per avere forse ostacolato le indagini sulle rivelazioni dell’avvocato Amara, il quale sostiene che esiste una Loggia segreta (si chiama Ungheria) che governa la giustizia in Italia secondo le sue idee e i suoi interessi. È un bel problema. Milano è senza guida. A Roma la situazione è simile. Anche qui il Procuratore capo in carica è alquanto delegittimato. Stavolta non dai suoi sottoposti ma da un paio di tribunali che hanno messo in mora anche il Csm e hanno sostenuto che la sua nomina è stata illegittima. Voi sapete che in politica basta un avviso di garanzia per indurre un ministro, o un assessore, o un sindaco, o un presidente di Regione a farsi immediatamente da parte. Prima ancora, molto prima di essere giudicato. Come mai in magistratura questa accortezza non viene chiesta? Eppure il procuratore di Roma ha già due solenni sentenze contro: una del Tar e una del Consiglio di Stato. Anche Roma è senza guida. I giornali si interessano pochissimo di questa situazione. Cioè del punto di crisi quasi irreversibile al quale è giunta la giustizia italiana. Due procure delegittimate sono una cosa seria. Ma i giornali, si sa, non sono propensi a criticare la magistratura. A questo punto però il nostro ragionamento ci porta alla domanda del titolo. Molto pacata: chi comanda a Roma e a Milano? Il sospetto è che comandi proprio la Loggia Ungheria, della quale, a quanto pare, nessuno vuole parlare. Neppure i politici, mi sembra. I politici, evidentemente, o sono loro molto distratti, o sono anche loro sottomessi come i giornalisti, o sono molto impauriti. È così potente – se esiste – questa loggia Ungheria? Credo di sì. Così potente che può permettersi di esistere e dichiarare di non esistere.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
E i media tacciono...Prestipino non molla la poltrona: abusivo a Roma, si gioca la carta della disperazione spalleggiato dal Csm. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Il Palamaragate scoppiò il 29 maggio 2019. Quel giorno Corriere, Messaggero e Repubblica, con tre articoli sostanzialmente identici, diedero la notizia dell’indagine della Procura di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. In particolare, venne raccontato un incontro, avvenuto la sera fra l’8 e il 9 maggio precedente, presso una sala dell’hotel Champagne di Roma. In quel modesto albergo nei pressi della stazione Termini, Palamara si era intrattenuto con cinque componenti in carica del Consiglio superiore della magistratura e i deputati Cosimo Ferri (Iv) e Luca Lotti (Pd). L’argomento di discussione della serata era stato la nomina dei capi di alcune importanti Procure, ad iniziare da quella della Capitale. L’8 maggio, infatti, fu l’ultimo giorno di servizio di Giuseppe Pignatone. All’insaputa del diretto interessato, i convenuti iniziarono a ragionare sul nome di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze. L’incontro venne registrato con il trojan inserito da qualche giorno nel cellulare di Palamara. Il 23 maggio successivo la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm voterà Viola nuovo procuratore di Roma con quattro voti su sei. Un voto ciascuno per gli altri due candidati, Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, e Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo. Per Viola aveva votato anche Piercamillo Davigo. La notizia dell’incontro dell’hotel Champagne ebbe l’effetto immediato di stoppare la corsa di Viola. Il voto finale in Plenum, previsto per giugno, non ci sarà mai. I giornali ed i telegiornali per giorni si occuperanno di questa vicenda. E anche il capo dello Stato fu “costretto” ad intervenire stigmatizzando quanto era successo.
Il Csm “rinnovato” dopo le dimissioni dei togati che avevano partecipato a quell’incontro annullerà la votazione di Viola. Al suo posto verrà nominato Michele Prestipino, fedelissimo di Pignatone fin dai tempi di Palermo. Viola, siciliano di Cammarata in provincia di Agrigento, non si perse d’animo ed iniziò una battaglia a colpi di carte bollate davanti al giudice amministrativo, uscendone sempre vittorioso. Sia il Tar che il Consiglio di Stato stabilirono che aveva più titoli di Prestipino e che il Csm non doveva escluderlo. A differenza del Palamaragate, su questo aspetto è calato però il silenzio assoluto. La classica cappa di piombo. Un silenzio assoluto della grande informazione che per settimane ha gridato scandalizzata all’incontro di Palamara, poi radiato dopo un turbo processo. Adesso, invece, nessuno si scandalizza del fatto che la nomina dell’attuale procuratore di Roma da parte del Csm è illegittima. Grazie al silenzio dei media il Csm prende tempo. E, con una decisione senza precedenti, ha deciso di resistere insieme a Prestipino nei suoi ricorsi. Se i ricorsi davanti al giudice amministrativo sono stati tutti persi, è rimasta ora la carta della disperazione. Il ricorso in Cassazione per “eccesso di potere” del Consiglio di Stato. Il ricorso verrà discusso il prossimo 23 novembre. Ovviamente è un ricorso senza speranza. La tesi del procuratore romano è che il CdS abbia limitato la “discrezionalità” propria del Csm in tema di nomine. Le sentenze a favore di Viola sono comunque chiarissime. Il Csm ha violato le sue stesse regole in tema di incarichi direttivi. Viola per il momento non ha voluto indossare l’elmetto per lo scontro finale e chiedere l’ottemperanza della sentenza del giudice amministrativo che il Csm si rifiuta di eseguire. Nel frattempo, però, i mesi passano. Il tempo è una variabile fondamentale in questa partita. Quando, prima o poi, il Csm, affronterà il dossier, si può essere certi che all’interno del Plenum ci sarà chi alzerà la manina e dirà: “Come facciamo adesso a mandare via Prestipino che da maggio del 2019 sta reggendo, prima come facente funzioni e poi come titolare, la Procura di Roma?”. Un assist importante che rischia di fare carta straccia delle sentenze di Viola. Prestipino, comunque, anche se dovesse essere “salvato” dal Csm, come prevedibile, sarà sempre un procuratore nominato dopo una forzatura. Situazione non piacevole perché tutti sapranno sempre che il candidato più titolato per quel posto era un altro. Il merito, va detto, non è quasi mai di casa a Palazzo dei Marescialli. Passerà agli annali la frase del togato Valerio Fracassi a Palamara: «Decidi chi va, poi organizziamo il voto». Cosa aggiungere ancora? Paolo Comi
“Lo Voi ha più titoli di Prestipino”. Il Consiglio di Stato detta la linea sulla procura di Roma. Palazzo dei Marescialli accoglie il ricorso del procuratore di Palermo, ritenendo che abbia molti più titoli dell’attuale procuratore della Capitale. Il Dubbio l'1 settembre 2021. Il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi ha più titoli di Michele Prestipino e di questo dovrà tenere conto il Csm nel decidere chi sarà il nuovo capo della Procura di Roma. Con la decisione con cui ha respinto i ricorsi presentati dall’attuale procuratore capo della Capitale, dal ministero della Giustizia e dal Csm, il Consiglio di Stato ha reso definitiva la decisione che dà ragione – dopo averlo fatto già col procuratore generale di Firenze, Marcello Viola – anche al procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi. Nel rivedere la nomina di Prestipino, decretata dal plenum di Palazzo dei Marescialli il 4 marzo 2020, l’organo di autogoverno dei giudici dovrà seguire le indicazioni che il Consiglio di Stato ha dato, in accoglimento del ricorso incidentale presentato, per conto di Lo Voi, dagli avvocati Salvatore e Tommaso Pensa bene Lionti. I giudici amministrativi sono entrati nel merito della scelta adottata dal Csm e hanno affermato che il capo della Dda del capoluogo siciliano ha molti più titoli dell’attuale procuratore della Capitale. In sostanza adesso la quinta sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Federico Di Matteo, tiene conto di ciò che il tribunale amministrativo regionale del Lazio aveva considerato «assorbito» in altri punti del ricorso, riconoscendo la prevalenza della «specificità delle funzioni direttive» svolte da Lo Voi quale procuratore capo. «Se è statala raffinata conoscenza delle mafie tradizionali – si legge in sentenza – che ha consentito a Prestipino di cogliere l’originalità della situazione peculiare di Roma, non si comprende come tale capacità non potesse essere riconosciuta anche a Lo Voi». E quest’ultimo, «a differenza di Prestipino, dal 2014, è titolare di incarico direttivo, cioè di procuratore della Repubblica». Inoltre, nella Direzione distrettuale antimafia, la Procura di Palermo ha 60 aggiunti contro i 25 di Roma. In precedenza Prestipino era risultato «soccombente» anche per i ricorsi presentati da Viola, pure lui aspirante al posto: in questo caso la sentenza del Consiglio di Stato è definitiva da alcuni mesi ma il plenum dovrà solo reinserire tra i candidati da valutare il pg di Firenze, escluso a causa dei veleni del «caso Palamara». Contro Viola, Prestipino, assistito dall’avvocato Massimo Luciani, ha proposto un ulteriore ricorso allo stesso Consiglio di Stato (che lo ha respinto sul piano cautelare) e in Cassazione, che ha fissato l’udienza in camera di consiglio per il 23 novembre.
Altro che Riina e Provenzano, Buzzi e Carminati sono la vera mafia…Paolo Comi su Il Riformista il 22 Aprile 2021. La conoscenza della nota mafia “laziale” ha giocato a favore di Michele Prestipino. Nella delibera con cui il Consiglio superiore della magistratura ha dato mandato all’Avvocatura dello Stato di opporsi al ricorso presentato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, si punta molto sulla “peculiarità” criminale romana. Dopo l’annullamento del voto a favore del procuratore generale di Firenze Marcello Viola, la Commissione per gli incarichi direttivi aveva disposto che per scegliere il nuovo procuratore di Roma si procedesse ad una nuova votazione. Due voti erano andati a Lo Voi, un voto al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo e un voto a Prestipino, allora aggiunto nella Capitale e molto legato a Giuseppe Pignatone. Il Plenum, nella seduta del 4 marzo 2020, approvava a maggioranza la proposta formulata in favore di Prestipino. Sia Viola che Lo Voi, non accettando la decisione del Csm, si erano rivolti al giudice amministrativo. Il Tar aveva dato ragione ad entrambi. Nel ricorso Lo Voi aveva sottolineato «il positivo esercizio di funzioni direttive specifiche rispetto al posto messo a concorso», mentre Prestipino «poteva vantare solo l’esercizio di funzioni semidirettive», ricordando inoltre di essere a capo di «una delle Procure di grandi dimensioni più complesse d’Italia, per di più caratterizzata dalla rilevante presenza di varie organizzazioni criminali, specie di stampo mafioso». Il Csm, in pratica, aveva sottovalutato il percorso professionale di Lo Voi e sovrastimato le esperienze di Prestipino. Lo Voi aveva fatto presente di lavorare in «una delle zone del paese che può vantare un triste primato di pervasività del fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso». «La specificità “criminale” della regione Lazio non sarebbe in grado di superare l’eccezionale esperienza di Lo Voi di contrasto alla criminalità organizzata siciliana – con ramificazioni a livello internazionale – perfezionata sia nello svolgimento delle funzioni direttive (avendo assunto il coordinamento della Dda di Palermo) sia a livello di funzioni requirenti nei vari gradi di giurisdizione ed in ambito sovranazionale», si poteva leggere nel ricorso. «D’altronde la mafia siciliana presenta interazioni con altre organizzazioni mafiose presenti sul territorio nazionale e all’estero, nonché rapporti con il mondo politico, le istituzioni centrali e l’imprenditoria che caratterizzerebbero la specificità del territorio capitolino», aveva ricordato Lo Voi. Il procuratore di Palermo, però, non aveva fatto i conti, in particolare, con Massimo Carminati da Sacrofano, Salvatore Buzzi da Rocca Cencia e, soprattutto, con la testata di Roberto Spada al giornalista Daniele Pervicenzi. Questi criminali avevano permesso a Prestipino, come scrive il Csm, di acquisire «una straordinaria conoscenza delle dinamiche del tutto peculiari proprie della criminalità organizzata laziale, conseguendo rilevantissimi risultati investigativi e processuali». Le mafie tradizionali «nella realtà romana coesistono e convivono tra loro, nonché con organizzazioni criminali autoctone, capaci di infiltrarsi nel tessuto economico, sociale e istituzionale, come svelato dalle indagini svolte nei numerosi e complessi procedimenti e condotte anche in collegamento con altre Procure italiane», l’arzigogolata risposta del Csm al ricorso di Lo Voi. Prestipino, in conclusione, era stato «ritenuto prevalente sia perché in possesso di una più duratura, variegata, e, quindi, pregnante, esperienza nel contrasto alla criminalità mafiosa, sia perché l’arricchimento del suo profilo professionale, maturato nell’azione di contrasto alle organizzazioni criminali, nuove ed originali, che operano sul territorio laziale, lo rende più idoneo a soddisfare le peculiari esigenze della Procura di Roma». Paolo Comi
Zero tituli, crolla l'impero dei Pignatones. Un abusivo alla Procura di Roma: Prestipino non ha titoli, bocciato anche dal Consiglio di Stato. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Nominate Marcello Viola procuratore di Roma e poi dimettetevi. E quanto si sente dire da più parti in queste ore. Lo smacco subito ieri dal Consiglio superiore della magistratura non ha precedenti. La nomina più importante che doveva essere effettuata durante l’attuale consiliatura, il capo della Procura della Capitale, è stata bocciata per ben due volte dai giudici amministrativi. Un record. Sia il Tar che il Consiglio di Stato hanno infatti affermato che il Csm ha agito in maniera “illegittima”, nominando un magistrato, Michele Prestipino, già aggiunto a Roma e fedelissimo di Giuseppe Pignatone, pur in assenza di titoli ed attitudini per ricoprire un incarico di tale importanza. Il Csm, oltre a non tenere in considerazione i titoli posseduti da Viola, si era poi lanciato nella teoria del “radicamento territoriale”. Prestipino, secondo questo ragionamento, conoscendo la realtà romana per aver effettuato l’indagine “Mafia Capitale” doveva essere maggiormente valorizzato rispetto a chi, come Viola, aveva lavorato a lungo nel trapanese. Il Csm, sotto il profilo dell’importanza criminale, aveva di fatto ritenuto Matteo Messina Denaro un neofita rispetto a Salvatore Buzzi. E questa mattina gli avvocati del procuratore generale di Firenze procederanno, da quanto risulta al Riformista, all’immediata notifica della sentenza del Consiglio di Stato. Un’accelerazione improvvisa dal momento che, secondo fonti ben informate, il Csm sembrerebbe essere intenzionato a far “melina” e a prendere tempo, ad esempio aspettando l’esito del ricorso presentato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, l’altro candidato bocciato, pur di non eseguire il giudicato amministrativo. «È l’ennesima brutta figura un Csm senza pace», dichiara al Riformista il capogruppo in Commissione giustizia alla Camera, Pierantonio Zanettin. «Lo dico – prosegue il parlamentare di Forza Italia ed ex laico del Csm – con rammarico: i tanti magistrati che operano sulla trincea dell’impegno quotidiano, con totale abnegazione professionale e senza clamore, non meritano questo sconsolante spettacolo». «Peraltro ho sempre considerato scontato l’esito del ricorso. Secondo la circolare, un semidirettivo, come un procuratore aggiunto, non aveva nessuna possibilità di prevalere su un procuratore generale, che aveva già svolto con ottimi risultati la funzione apicale di procuratore della Repubblica su un fronte caldo come quello di Trapani», puntualizza Zanettin, secondo cui «il Csm ha fatto una forzatura, ed è stato punito». Ma come si è arrivati a questa situazione? Il 23 maggio del 2019 la Commissione per gli incarichi direttivi aveva votato Viola per il posto lasciato libero qualche settimana per raggiunti limiti di età da parte di Pignatone. Una manina mai identificata, il successivo 29 maggio, aveva fatto arrivare al Corriere, Repubblica e Messaggero le intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel telefono dell’ex zar delle nomine al Csm, Luca Palamara. In particolare i colloqui fra l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri la sera del 9 maggio all’hotel Champagne di Roma. La fortissima pressione mediatica spinse alle dimissioni i togati coinvolti, aprendo al primo ribaltone della storia del Csm. Colloqui taroccati, come la celebre frase mai pronunciata “si vira su Viola” da Lotti, fecero passare il messaggio che il pg di Firenze doveva essere nominato a Roma per aggiustare il processo Consip, dove era coinvolto il deputato fiorentino, e regolare i conti in sospeso di Palamara contro l’aggiunto Paolo Ielo e la sinistra giudiziaria di Piazzale Clodio. La votazione venne annullata, pur essendo il pg di Firenze all’oscuro di tutto, e in quella nuova Piercamillo Davigo, che aveva votato inizialmente Viola, si spese per Prestipino che a maggio del 2019 non era stato preso neppure in considerazione. «Viola è il candidato di Ferri e non verrà mai a Roma», dissero in maniera profetica a Palamara nei giorni caldi di maggio 2019 diversi magistrati della Capitale. Il Csm ha ora due strade. La prima è insistere su Prestipino, ma con le motivazioni “blindate” del Cds pare improbabile. La seconda è un cambio di scenario con la decisione della sinistra giudiziaria, che aveva voluto Prestipino, di puntare su Lo Voi, toga, come Viola, di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice. A Viola sembrerebbe che sia stato offerto, se rinuncia a Roma, il posto di Roberto Scarpinato, che andrà in pensione tra qualche mese, a Palermo. In questo incastro togato entra però in gioco anche la Procura di Milano. Il procuratore Francesco Greco andrà in pensione in autunno. Se Viola decidesse di presentare domanda per il capoluogo lombardo sarebbe un concorrente difficile da battere. Come competitor troverebbe il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Ma la decisione di notificare subito la sentenza, mettendo così pressione al Csm, lascia intentedere che il pg di Firenze voglia andare, anche per una questione di principio, fino in fondo e non lasciare cadere nel vuoto la partita romana. Paolo Comi
Magistratura alla deriva. Procura di Roma decapitata, destituito Prestipino: è la fine del gruppo di potere di Pignatone? Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Il colpo inferto dal Consiglio di Stato è micidiale. Delegittima il Csm, smascherando giochetti e camarille, e decapita la Procura di Roma, ponendo fine – forse – al lungo dominio di quel gruppo potentissimo di magistrati riuniti attorno all’ex Procuratore Pignatone. Dico “forse” perché chi sa delle cose interne alla magistratura racconta che è già incorso la controffensiva, e che il gruppo fedele a Pignatone e Prestipino ha dei piani in mente per salvare la poltrona all’attuale procuratore, sebbene la sua nomina sia stata illegittima. La magistratura non è un luogo che assomiglia agli altri luoghi del potere e della scena pubblica. Nei quali, comunque, vigono delle regole di comportamento che non possono essere aggirate. Prestipino è stato dichiarato decaduto prima dal Tar e poi dal Consiglio di Stato: immaginate cosa succederebbe se un senatore o un deputato fosse dichiarato decaduto. Sparirebbe dal Parlamento in cinque o sei minuti. Prestipino invece resta al suo posto, resiste all’evidenza, al buon senso, alla legge. Mi ricordo di quando i giustizialisti ci spiegavano che i politici si devono fare da parte ancor prima che sia accertato un reato, se la loro condotta presenta aspetti eticamente discutibili. C’è una ministra che qualche anno fa fu messa alla porta solo perché il suo fidanzato era stato intercettato mentre la maltrattava a parole. Prestipino invece può restare al suo posto. Così come al loro posto sono tutti i magistrati riempiti di vergogna dalle accuse di Palamara, giusto per fermarci al libro e non affrontare il capitolo Amara. Eppure i politici non dispongono della nostra libertà e delle nostre vite, i magistrati sì. La magistratura ha scelto questa linea per resistere alla bufera. Far finta di nulla. Aggrapparsi a ogni cavillo. Rimettere in moto il potere di controllo e di ricatto che le correnti continuano ad avere. Tramare, scambiare potere e favori, disinteressarsi alla giustizia. È nel pantano fino al collo, la magistratura, ma sembra non preoccuparsi troppo: sguazza nel fango. Protetta non solo dal Fatto Quotidiano, cioè dal giornale ufficiale del partito dei Pm, ma anche dai grandi organi di stampa e da moltissime televisioni. Il tesoretto che è rimasto in mano ai Pm è quello: un drappello molto folto di giornalisti, che in questi decenni hanno servito fedelmente il potere giudiziario, e ancora hanno un po’ paura a liberarsi dei lacciuoli e tornare liberi. Esiste questo fenomeno, studiato da molti sociologi e filosofi: la paura di tornare liberi, dopo tanti anni di sottomissione. Sindrome di Stoccolma. Non scattò questo timore della libertà, 30 anni fa, quando scoppiò Tangentopoli, e i magistrati diedero l’assalto al Palazzo politico. In quel momento i giornalisti che erano stati scudieri dei capi partito ci misero pochi minuti a saltare la barricata e passare coi Pm. Qual è la differenza tra allora e oggi? Allora ai giornalisti in fuga fu offerto un rifugio sicuro da un potere -quello giudiziario- che era più forte del potere che tradivano. Stavolta invece se abbandoni i Pm resti solo, libero, senza protettori: la politica è troppo debole per offrirti un riparo, è diventato impossibile sottometterglisi. Quindi resisterà il pantano? Stavolta forse non ce la fanno. Si odiano tra loro, hanno paura, commettono errori su errori. E sta diventando concreta la possibilità che la rivolta esploda nelle stesse file della magistratura. Ogni volta che si parla del potere giudiziario si dice, quasi per formalità, di non fare d’ogni erba un fascio, perché esistono tanti magistrati onesti. Non è una formalità: esistono davvero, solo che sono sempre stati silenziosi. Magari stavolta trovano il coraggio per alzare la testa e dire basta. Sarebbe una rivoluzione. L’impero dei Pignatones potrebbe vacillare davvero, gruppi di magistrati onesti e interessati alla giustizia potrebbero conquistare posti chiave, lo stato di diritto potrebbe tornare a fare capolino nella nebbia. Speriamo. Se parte la campagna referendaria, questo è certo, può dare una mano. Anche perché sperare in una spallata della politica, o dei giornalisti, è inutile.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
«Qualcuno chieda la verità a Pignatone: è lui lo snodo di quello che è successo in questo Paese negli ultimi 10 anni». Parla Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale e autore del libro "Il sistema", scritto assieme all'ex capo dell'Anm Luca Palamara: «Necessario un controllo esterno che verifichi l'operato delle toghe». Simona Musco su Il Dubbio il 12 maggio 2021. La decisione del Consiglio di Stato sulla nomina del procuratore di Roma è solo «un altro tassello del sistema». Ne è convinto Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale e autore, assieme all’ex capo dell’Anm, Luca Palamara, del libro che racconta le verità non dette della magistratura. Un vero e proprio terremoto che ancora, a quanto pare, continua a produrre scosse d’assestamento. L’ultimo episodio, quello dei verbali secretati di Piero Amara, è soltanto l’ennesimo atto di una storia ancora non del tutto disvelata. E che racconta come la magistratura necessiti di una vera e propria rivoluzione. «Serve un controllo esterno – spiega Sallusti al Dubbio -, affinché l’operato e la trasparenza delle toghe sia verificata così come la magistratura fa con gli altri due poteri».
Direttore, cosa ci dice questa sentenza?
Uno dopo l’altro stanno venendo al pettine tutti i nodi che avevano interessato il sistema. La vicenda di Prestipino rappresenta un tassello importante. Palamara racconta nel libro come sia arrivato a Roma, in qualità di vice di Pignatone, grazie ai meccanismi del sistema, con passaggi abbastanza opachi, se vogliamo definirli così, descritti nel libro e mai smentiti. Il secondo round è costituito dalla fretta del Csm di chiudere la partita Palamara-Roma: paradossalmente, lo fa secondo le indicazioni del vecchio sistema. Palamara aveva sfidato le regole, ha perso, e il vecchio sistema, che voleva Prestipino, riesce a collocarlo a capo della procura di Roma.
Che ruolo ha Prestipino?
È un link fondamentale, perché rimanda a Pignatone, che è il grande assente di questo racconto. Perché Prestipino è Pignatone. Secondo la versione di Palamara, che non è la Bibbia, ma è verosimile e mai smentita, il dominus del sistema è proprio l’ex procuratore. Che esce di scena rinunciando a chiedere la proroga di un anno, sfilandosi dal sistema e andando in questa pensione dorata che è il Vaticano. Invece di inseguire Tizio e Caio, se vogliamo sapere cos’è successo, la roba più semplice sarebbe chiamare il dottor Pignatone per chiedergli se Palamara si è inventato tutto o se davvero era lo snodo di quello che è successo in questo Paese nella Giustizia e quindi nella politica e nella vita democratica del Paese in questi 10 anni. Ma nessuno neanche lo cita.
Questa decisione ci dice che Palamara aveva ragione ad indicare Viola come miglior candidato. Non è, dunque, solo una questione di sistema?
È un dato di fatto che i requisiti migliori li avesse Viola e non altri. Ma nel racconto di Palamara i requisiti contano fino ad un certo punto: sono fondamentali per essere ammessi alla finale, non sono indispensabili per vincerla.
Però paradossalmente in questo caso la regola del sistema dava per vincente, stando ai dati che abbiamo, il miglior candidato.
Ma era la regola del sistema perdente, in quel momento. La mia opinione è che Palamara sia caduto perché non ha concesso a Pignatone la successione su Roma.
Il che spiegherebbe anche le ultime fasi del loro rapporto.
Pignatone, stando al racconto di Palamara, è il suo killer. È colui che ha diretto il “trojan”, che era nelle disponibilità dell’ufficiale della Guardia di Finanza a capo della polizia giudiziaria di Pignatone. Trojan che casualmente non registra la conversazione con lui. Che dire, capita. Comunque non c’è bisogno di dar retta a Palamara per capire che il posto da procuratore di Roma vale due ministeri di peso. Quello che pensava di essere il sistema vincente, un pezzo alla volta, sta facendo la fine del sistema che ha perso.
L’ultima puntata è il caso dei verbali. Questo ci dimostra che il sistema è ancora più ampio?
La verità deve ancora venir fuori. Perché quella di Palamara è lo spicchio di una verità più ampia che si cerca di tenere nascosta. Ma il coperchio di questa pentola, ormai, sta per saltare. Dobbiamo aspettarci altro ancora.
Questa vicenda cosa ci racconta della magistratura? Di mezzo c’è anche la nomina di Prestipino: le strade di Davigo e Ardita si separano proprio in quel momento e adesso quell’argomento torna centrale.
Da un punto di vista penale lo vedremo, da un punto di vista politico ci insegna che nessuno può chiamarsi fuori da quello che è successo. In un modo o nell’altro, anche all’interno di una guerra per bande, più o meno tutti hanno tramato nell’ombra o comunque in una zona grigia. L’incontro tra Morra e Davigo è imbarazzante, perché Morra ci dice che Davigo era il suo referente per la giustizia. Davigo non ha mai fatto mistero della sua simpatia per il M5S. Questa storia ci dice che se fai il moralista poi c’è sempre qualcuno più moralista di te che ti frega.
La magistratura, con tutte queste vicende, ha perso credibilità, nonostante la stragrande maggioranza dei magistrati non abbia a che fare con queste trame. Ma il problema è chiaro.
Che la maggior parte dei magistrati non c’entri nulla lo dice lo stesso Palamara. Sono persone che al mattino si alzano, vanno in tribunale, fanno le loro inchieste e vivono una vita comune. Palamara, però, dice che se volevi fare carriera dovevi entrare nel sistema, altrimenti non ne facevi. Parliamo dunque di una casta ristretta, ma è quella che ha condizionato in maniera importante la politica giudiziaria di questo Paese. Io mi chiedo che cosa aspetti Mattarella a fare piazza pulita.
Che opzioni ci sono?
Una dubbia dal punto di vista costituzionale, che è fare piazza pulita, e l’altra che è stare alla finestra ad aspettare che, un pezzo dopo l’altro, il sistema crolli da solo. Credo Mattarella stia facendo questo, altrimenti non si spiega, dal momento che tendo ad escludere che sia complice di questo andazzo.
Il problema rimane finché rimane questo sistema elettorale oppure finché, come sostengono molti, non verrà realizzata la separazione delle carriere. Inoltre c’è la proposta di una commissione sulla magistratura, che vede contrapposte due scuole di pensiero: quella che teme un’invasione di campo della politica nel potere giudiziario e quella che vuole fare chiarezza su come la giustizia abbia condizionato la politica degli ultimi anni. Qual è la strada giusta?
Io penso che sia un dovere quello di riscrivere una storia che si scopre essere stata falsa. Qualsiasi strumento utile è il benvenuto. Anche io sono scettico sulle commissioni d’inchiesta, però se fosse l’unica strada, non per risolvere il problema, ma per raccontare la verità, allora sarei d’accordo. Le storie vanno riscritte se si scopre che sono state scritte male, altrimenti tramandiamo ai posteri qualcosa che non era vero. Anche la commissione sulla P2 non portò a nulla dal punto di vista giudiziario, però contribuì a scrivere una pagina della storia italiana. Quindi sono favorevole, ma non per smania giustizialista, che non mi appartiene, ma solo per dire: la partita è stata truccata. Almeno si sappia.
Che riforma serve a questo Csm?
Non sono un tecnico, ma faccio un’osservazione: la separazione dei poteri deve continuare ad esistere. Noto, però, una cosa: dei tre poteri dello Stato, due – legislativo ed esecutivo – sono controllati dalla magistratura. E il terzo, la magistratura, non è controllato da nessuno e ha dimostrato di non essere sufficientemente maturo, leale e sincero da poter continuare a rimanere in questo stato. Non so quale sia la strada, ma ferma restando l’autonomia, ci vorrebbe un potere esterno per verificare cosa accade all’interno della magistratura.
La precisazione. Balduini non è ferriana. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2021. L’avvocato Carlo Maria Mattioli ci ha scritto per contestare un nostro articolo pubblicato nei giorni scorsi a proposito dell’elezione del presidente del Tribunale di Roma, Roberto Reali, a difesa della sua assistita Tiziana Balduini, componente togato del Csm. Riassumiamo qui di seguito le argomentazioni contenute nella missiva che Mattioli ha indirizzato al giornale. In data 8/5/2021 è stato pubblicato sul quotidiano il Riformista un articolo dal titolo “Csm, sinistra sconfitta. Torna l’asse Palamara-Ferri”. Nell’articolo in questione, nel commentare la nomina a Presidente del Tribunale di Roma del dott. Roberto Reali si è artatamente attribuita alla elezione della dott.ssa Balduini quale componente togato del Csm la circostanza di un accordo volto a ricreare “l’asse Palamara-Ferri” al supposto fine di incidere sulle nomine operate dal Csm. La nomina della dott.ssa Balduini avrebbe, invero, “fatto subito la differenza”. In particolare, poi, la dott.ssa Balduini è stata falsamente indicata quale “ferriana”, “vicina a Cosimo Ferri”, “legata a Ferri e quindi alla corrente più coinvolta nel Palamaragate”. L’articolo si chiude, infine, con la frase: “Si è quindi ‘ricreato’ l’asse Palamara-Ferri”, quasi a voler sostenere che il voto dato dalla dott.ssa Balduini (unitamente a quello di altri undici consiglieri), abbia sugellato la ricostituzione di un “asse” (occulto o palese non è ben chiaro) tra il dott. Palamara e l’on. Ferri, nonché la loro interferenza nelle attività consiliari. Si insinua, infatti, con subdola malevolenza uno stretto rapporto di sudditanza (solo in tal senso può essere intesa la dizione “ferriana”) della dott.ssa Balduini al dott. Ferri, nonché una ripresa di intese tra quest’ultimo ed il dott. Palamara, nel tentativo di condizionare le scelte del Csm. A prescindere dall’assoluta assenza di rapporti e frequentazione tra la dott.ssa Balduini ed il dott. Ferri, quantomeno a far data dalla primavera 2019 e dalla circostanza nota (attesa l’avvenuta pubblicazione delle chat tra il dott. Palamara ed il dott. Mancinetti sul quotidiano La Verità) che nell’entourage del dott. Palamara la dott.ssa Balduini era ritenuta una “acerrima avversaria”, le affermazioni, le circostanze ed i fatti riportati nell’articolo sono del tutto falsi e tendenziosi ed appaiono evidentemente volti a giustificare la mancata nomina del “candidato della sinistra giudiziaria”, omettendo di riferire la sola circostanza di rilievo ovvero che semplicemente quest’ultimo era meno meritevole del dott. Reali, il quale, per inciso, non è mai stato iscritto a Magistratura Indipendente, né vanta rapporti di amicizia e neppure di semplice frequentazione con la mia assistita.
Risponde Paolo Comi. Gentile avvocato, dispiace molto essere stato frainteso. Non era mia intenzione scrivere un articolo diffamatorio nei confronti della consigliera Tiziana Balduini a cui vanno i complimenti miei e di tutta la redazione per la recente elezione al Csm. Elezione inaspettata in quanto tutte le previsioni della vigilia, come certamente saprà, davano vincente il candidato della sinistra giudiziaria Luca Minniti. Mi permetto alcune precisazioni. Che i curricula dei due candidati al posto di presidente del Tribunale di Roma fossero sostanzialmente “equivalenti” non me lo sono inventato ma lo hanno detto i consiglieri intervenuti in Plenum prima della votazione finale. È sufficiente riascoltare la discussione su Radio Radicale. Il riferimento all’asse “Palamara-Ferri”, invece, è da intendersi in base al fatto che i consiglieri di Unicost e Magistratura indipendente, i gruppi dei due magistrati, hanno votato compatti per Reali. Unicost, secondo quanto affermato da Palamara, quasi sempre votava al Csm con la sinistra giudiziaria di Area e non con Magistratura indipendente. Definire, infine, “ferriana” la sua assistita non credo sia offensivo. Anzi. Che la consigliera Balduini abbia avuto rapporti con Cosimo Ferri fino alla “primavera del 2019” è lei stessa a confermarlo indirettamente. Ricordo poi che Ferri è stato il magistrato più votato di sempre all’Anm e che, insieme al padre Enrico, ha fatto la storia della magistratura moderata italiana. I loro nomi, insieme a quelli di Paolo Borsellino e Pierluigi Vigna, figurano nell’albo d’onore di Magistratura indipendente. E la dottoressa Balduini, da iscritta a Mi, credo ne sia consapevole.
Giacomo Amadori per “La Verità” il 12 maggio 2021. Mentre la magistratura affonda bombardata dalle dichiarazioni dell'avvocato-faccendiere Piero Amara, il colpo di grazia alla credibilità delle toghe arriva dal suo organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura. Ieri il Consiglio di Stato ha bocciato senza appello i ricorsi del procuratore di Roma Michele Prestipino e del Csm che avevano impugnato la decisione del Tar di rimettere in corsa per la poltrona di procuratore della Capitale Marcello Viola, procuratore generale di Firenze. Domani, sempre il Consiglio di Stato, dovrà esprimersi anche sui ricorsi (pure in questo caso di Prestipino e del Csm) contro Franco Lo Voi, al pari di Viola tornato in gara grazie al Tar per il posto di capo degli inquirenti di Piazzale Clodio. Dalla notte dell'hotel Champagne (quando Luca Palamara e alcuni consiglieri del Csm vennero intercettati mentre discutevano della nomina del procuratore di Roma) i membri del parlamentino dei giudici non ne hanno azzeccata una e adesso le due più importanti Procure italiane si trovano nelle sabbie mobili dell'incertezza. A Milano le faide interne hanno portato alla diffusione dei verbali segretati di Amara con modalità imbarazzanti: il pm Paolo Storari avrebbe dichiarato che a convincerlo a diffonderli, nell'aprile del 2020, sarebbe stato niente meno che l'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, a quel tempo considerato un sacerdote della legalità. Davigo, appena un mese prima, aveva rotto con due consiglieri della sua stessa corrente per la scelta del procuratore di Roma. Una decisione che trova i suoi prodromi nella riunione carbonara dello Champagne quando i presunti congiurati, poi passati (simbolicamente) per le armi uno a uno, si incontravano nottetempo per sponsorizzare Viola, inviso alle toghe progressiste perché considerato di «destra» e troppo vicino a Cosimo Ferri, ex leader della corrente conservatrice di Magistratura indipendente e in quel momento parlamentare renziano. Ma dopo che il pg di Firenze aveva incassato quattro voti in commissione (propedeutici alla sua investitura), tra cui quello di Davigo, era stato spazzato via dalla pubblicazione delle conversazioni dello Champagne. A quel punto i consiglieri del Csm superstiti (sei sono stati costretti alle dimissioni nell'immediatezza dei fatti, mentre un altro ha lasciato qualche mese dopo), guidati dal cartello progressista di Area, uscito indenne dalla bufera come il Pds durante Tangentopoli, sono riusciti a ribaltare i rapporti di forza all'interno di Palazzo dei marescialli, dopo che la maggioranza era scivolata a destra. Prima hanno nominato uno dei loro a capo della fondamentale Procura generale della Cassazione, l'ufficio che indaga sui giudici, quindi hanno cancellato Viola dalla lista dei papabili per Roma, senza spiegazioni e hanno candidato al suo posto il pur validissimo Prestipino, che, però, non era entrato nella terzina dei candidati prescelti nel maggio 2019. Tutto questo sotto l'egida del presidente Sergio Mattarella e del vicepresidente David Ermini, eletto grazie all'accordo tra Palamara, all'epoca leader della corrente centrista di Unicost, e i parlamentari renziani Luca Lotti e Ferri, capaci di conquistare alla causa i suffragi delle toghe moderate. Ma Ermini ha presto disertato e abbandonato al suo destino i suoi grandi elettori, accettando di tenere insieme i cocci del Csm eletto nel luglio del 2018, una sorta di armata Brancaleone, con ben tre laici 5 stelle e due della Lega, il cui unico collante è parso essere la gestione del potere e degli incarichi. Questo consiglio ridotto a pezzi si è trovato a dover decidere il nome del nuovo procuratore di Roma.E a sorpresa ha bocciato tutti e tre i candidati del maggio 2019, compreso il nemico numero uno dei renziani, Giuseppe Creazzo, il procuratore di Firenze che ha firmato la richiesta di arresto per i genitori dell'ex premier di Rignano sull'Arno. Anche il procuratore di Palermo Lo Voi, considerato appena due anni fa il degno erede di Giuseppe Pignatone, ha perso appeal alla corte delle toghe di sinistra, che pure lo avevano inizialmente sostenuto. Il Csm azzoppato, capitanato da Giuseppe Cascini, capogruppo di Area in Consiglio, ha puntato su una risorsa interna alla Procura, il facente funzioni Prestipino, considerato il più adatto a garantire la continuità nella governance dell'ufficio. Ma le nomine in magistratura devono osservare precise regole e indicatori che, secondo il Consiglio di Stato, in questo caso non sarebbero stati rispettati. Infatti, tagliando fuori dalla gara Viola, il Csm non avrebbe chiarito «le concrete, oggettive, esternate e giustificate ragioni tecnico-professionali sopravvenute» alla base dell'eliminazione del pg.Si legge nella sentenza del Consiglio di Stato: «Il nome del dottor Viola, non più riproposto all'esito della riunione del 14 gennaio 2020, era proprio quello del candidato che aveva ottenuto pochi mesi prima, in seno alla commissione, il maggior numero di voti favorevoli in ragione del particolare curriculum professionale: e dunque era stato indicato come primo tra i designati. Le necessarie ragioni di disparere e disvolere però non sono state esternate, come risulta per tabulas dal verbale []. Il che è vizio che vizia l'ulteriore prosieguo del procedimento, ivi compreso il provvedimento finale», cioè la nomina di Prestipino. Il quale, nella seconda tornata, era stato preferito sulla scorta di diversi indicatori, a partire dal fatto di aver già lavorato come aggiunto a Roma con egregi risultati (come del resto a Palermo e Reggio Calabria). Ma per i giudici del Consiglio di Stato la commissione che ha bocciato Viola è partita dall'assunto errato che funzioni direttive (quelle ricoperte da Viola a Trapani e Firenze) e semidirettive (il ruolo di aggiunto) «siano sostanzialmente equiparabili», visto che solo il procuratore «è titolare esclusivo dell'azione penale». Adesso la quinta commissione dovrà istruire nuovamente la pratica, tenendo conto delle sentenze e delle vecchie candidature. Alla fine il Csm potrebbe rivendicare la propria autonomia e riproporre il nome di Prestipino, risultando, però, «inottemperante» rispetto alle decisioni della giustizia amministrativa. Una possibilità piuttosto irrealistica per un Consiglio debole che già per designare Prestipino si era spaccato (14 voti contro 8 nel ballottaggio) e che si era diviso anche per l'impugnativa della decisione del Tar.
Intrighi e guerra tra bande. Nomina di Prestipino, Davigo spieghi perché cambiò idea sull’uomo di Pignatone. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Per capire cosa c’era dietro la nomina di Michele Prestipino a procuratore capo di Roma – revocata ora dal Tar – la prima persona da sentire è Luca Palamara. Il quale risponde alla domanda con una nuova domanda, molto inquietante. “Sono sicuro che dopo l’odierno pronunciamento del Tar, il dott. Davigo vorrà chiarire ai magistrati italiani, e a tutti i cittadini, le ragioni per cui, dopo aver votato Viola, decise di cambiare il suo voto a favore del dott. Prestipino, dopo i noti fatti che hanno riguardato la mia persona. Mi chiedo ancora oggi se fu una sua autonoma scelta”. Cosa intende dire Palamara? Una cosa molto grave, evidentemente. E cioè avanza il sospetto che Piercamillo Davigo abbia votato per Prestipino Procuratore di Roma non per propria scelta ma per ordine di qualcuno più potente di lui. Chi? Probabilmente non lo sapremo mai. Ammenochè Piercamillo Davigo non decida di spezzare il cerchio e di parlare. Non è probabile. Quello che è sicuro è che la decisione del Tar di destituire Michele Prestipino – esponente di ferro del gruppo Pignatone – dall’incarico di Procuratore di Roma scatena un vero e proprio terremoto dentro la magistratura. Dopo il deflagrare di “magistratopoli” questo è il primo atto che mette in discussione il “sistema”, come l’ha chiamato Palamara (o la Cupola, come hanno detto altri magistrati) che fino a ieri – si spera fino a ieri… – ha dominato e governato la magistratura al di fuori di tutte le regole e della legalità repubblicana. La decisione del Tar apre una guerra tra le correnti che, almeno in teoria, potrebbe portare a un risultato salutare: il reciproco annientamento delle correnti e il ritorno alla legalità. Vediamo prima di tutto come sono andate le cose, poi cerchiamo di capire cosa potrà succedere adesso. Quando Giuseppe Pignatone – uno dei magistrati più potenti di tutta la storia della repubblica – andò in pensione, alle fine del 2018, si aprì la battaglia per la successione. Potete star ben sicuri che non fu una battaglia di idee e neppure una battaglia professionale. Fu una feroce battaglia di correnti. Pignatone, ovviamente, voleva fare in modo che la sua ombra continuasse a dominare sulla Procura romana. E la sua ombra è sempre stato Michele Prestipino. Che è un ottimo magistrato, credo anche un’ottima persona – serio, lavoratore, onestissimo, colto – con due soli – ma gravi – difetti: la sua subalternità all’ideologia e la sua subalternità a Pignatone. Non sono difettucci. Pignatone però doveva affrontare una battaglia difficile, perché diverse correnti non gli erano più affezionate e iniziò a farsi largo la parola d’ordine: “discontinuità”. Discontinuità, evidentemente, voleva dire no-Prestipino. I tre candidati della discontinuità erano Francesco Lo Voi, Procuratore di Palermo, Marcello Viola, Procuratore generale di Firenze, e Giuseppe Creazzo, Procuratore capo di Firenze. Tutti e tre, oltretutto, avevano i titoli che Prestipino invece non aveva. Avendo tutti e tre guidato una o più Procure, negli anni scorsi, mentre Prestipino aveva ricoperto solo incarichi cosiddetti “semidirettivi”. Esiste una norma del Csm che prevede che per guidare una grande Procura occorre avere già guidato una Procura piccola o media. Il fronte della discontinuità era guidato da Piercamillo Davigo, il Savonarola del ventunesimo secolo, all’epoca membro del Csm. Iniziarono le audizioni dei candidati e Prestipino fece in modo che la sua audizione fosse fissata pochissimi giorni dopo la sentenza della Corte Costituzionale su “Mafia Capitale”, il più famoso di tutti i processi romani. Lui si aspettava una sentenza di conferma, che lo avrebbe portato a una audizione da trionfatore. La Cassazione invece disse che la mafia non c’entra nulla, e per Pignatone e Prestipino fu uno ceffone formidabile: l’audizione andò malissimo. E così la commissione del Csm che doveva selezionare le candidature selezionò Viola (che ottenne più voti di tutti), Lo Voi e Creazzo. La nomina di Viola al plenum era praticamente scontata. Ma…Scoppiò il caso Palamara. Era successo che la guardia di Finanza (molto legata alla Procura di Roma) aveva messo un trojan nel cellulare di Palamara e aveva registrato una riunione all’Hotel Champagne alla quale avevano partecipato, insieme a Palamara, membri del Csm e politici. Tra i politici Luca Lotti. L’inchiesta era ancora segreta, ma il Csm si stava apprestando a nominare il Procuratore di Roma e, probabilmente, a scegliere Viola. Allora qualcuno diede le intercettazioni segrete al Corriere della Sera, alla Repubblica e al Messaggero, che le pubblicarono con tre articoli fotocopia (in realtà gli articoli fotocopia sono da un po’ di tempo diventati abitudine nel giornalismo giudiziario). Ma è un reato? Sì, è un reato, ma anche questo, da tempo, è abitudine nelle Procure e nelle redazioni. E nelle intercettazioni c’era una frase di Lotti, braccio destro di Renzi, che diceva così: “Allora si vira su Viola”. Poi si accertò che l’intercettazione era stata manipolata. Lotti aveva detto: “Allora ai arriverà a Viola”. La sua, cioè, non era un’indicazione politica (“Virare”) o un auspicio: era una banale previsione che chiunque poteva fare sulla base del voto in commissione, stravinto da Viola. L’intercettazione, illegalmente pubblicata, però fu sufficiente per stabilire che Viola – che forse è uno dei pochissimi magistrati di alto livello considerati unanimemente assolutamente indipendente – non poteva più essere candidato a Roma. Funzionano così le cose. Del resto, Palamara, lo ha scritto chiaro chiaro all’inizio del suo libro: basta che un procuratore abbia a sua disposizione un paio di sostituti fedeli, qualche ufficiale di polizia giudiziaria e un paio di giornalisti, e qualunque gioco è fatto. Già. Stavolta i giornalisti a disposizione erano tre. E così torna alla ribalta la candidatura di Prestipino che – clamorosamente – vince soprattutto per l’alleanza tra Area (corrente di sinistra) e Davigo (corrente di destra). Sì, di Davigo, proprio quello che aveva chiesto discontinuità. Come mai ci fu questa giravolta? È la domanda che si pone Palamara. Boh. Ora il Tar ribalta tutto. Soprattutto sulla base di quella norma di cui parlavamo, che prevede per i candidati alle grandi Procure la necessità di essere stati Procuratori in qualche città minore. Necessità che tuttavia, va detto, in passato era stata sempre dimenticata: Palermo, Catanzaro, Napoli, Torino, Milano… tutte procure dove anche in anni recenti sono stati nominati Procuratori senza precedenti alla guida in altre Procure. Come mai? Per una ragione molto semplice: il sistema delle correnti ha sempre contato molto più delle regole. La magistratura è l’unico luogo della repubblica dove le leggi e le regole contano zero: conta il potere, il sistema di potere. Sia per quel che riguarda la definizione della propria gerarchia, sia per quel che riguarda l’orientamento di inchieste e – talvolta – anche delle sentenze. Ma allora perché stavolta Prestipino è stato fatto secco? Evidentemente perché il gruppo che lo sostiene si è molto indebolito. Reagirà, questo gruppo, alla sconfitta? Reagirà. È questa la causa della guerra che sta per scatenarsi…
I giornali vengono scritti in Procura...Italia senza libertà di stampa: Corriere, Repubblica e Messaggero censurano caduta Prestipino. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Se in Venezuela succede che una qualche autorità giudiziaria destituisce il Procuratore di Caracas, potete stare sicuri che il giorno dopo la notizia esce in prima pagina su tutti i giornali. Anche in Turchia è così. Perché? Perché in Venezuela e in Turchia esistono dei regimi illiberali, che tuttavia accettano un minimo di libertà di stampa. E se in un paese esiste almeno un piccolo spiraglio di libertà di stampa, nessun giornale rinuncia a dare in prima pagina una notizia clamorosa come la destituzione di uno degli uomini più importanti del paese. Perché, allora, in Italia, non succede così? Ieri la notizia del giorno era senza ombra di dubbio la destituzione di Michele Prestipino, capo della Procura di Roma, decisa dal Tar. La destituzione di Prestipino – giusta o ingiusta che sia – avrà delle conseguenze clamorose, e ancora difficilmente calcolabili, sugli assetti di potere nella magistratura italiana. E dunque sulla sua azione. Quasi tutti i giornali in passato hanno scritto questa semplice verità: il capo della Procura di Roma è una persona molto più importante e più potente di un ministro potente e importante. Voi immaginate cosa succederebbe se qualche autorità giudiziaria stabilisse la decadenza – per esempio – del ministro dell’Interno, o degli esteri, o della salute. Potete pensare che qualche giornale si risparmierebbe un titolo a tutta pagina, in prima? Non potete pensarlo. Volete sapere come i principali giornali italiani, ieri, hanno offerto ai loro lettori la notizia della destituzione di Michele Prestipino? Repubblica: non ha dato la notizia. Il Messaggero edizione nazionale: non ha dato la notizia, l’ha relegata in cronaca di Roma, con un articoletto. Il Corriere della Sera: un articoletto di poche righe a pagina 21, non in testa alla pagina, ma in fondo in fondo. Capisco che voi non ci crediate. Che pensiate che sia una mia trovata polemica. No, amici, è una cosa tristissima quella che sto scrivendo, ma è la pura e semplicissima verità. Come è possibile? Provo a spiegarlo: la libertà di stampa in Italia non esiste. Non c’è neppure quel piccolo spiraglio di libertà ammesso in regimi come quello venezuelano o quello turco. Per trovare paesi dove è possibile nascondere una notizia così grande, credo, bisogna spostarsi in Corea del Nord. Naturalmente la limitazione, anzi la soppressione della libertà di stampa, non riguarda tutto il campo dell’informazione. Per esempio – a differenza della Turchia e del Venezuela – l’Italia dispone della piena libertà di informazione sulla politica. Di una libertà quasi piena e comunque accettabile sull’economia, sullo sport, sulla cronaca nera. È sulla giudiziaria che la libertà è zero. Zero. Almeno nei grandi giornali e in gran parte delle testate televisive. Una notizia che riguardi la magistratura può essere pubblicata solo con il consenso della magistratura e secondo la versione della magistratura. La destituzione di Prestipino è una notizia molto complicata, che rischia di infastidire in ogni caso alcune correnti della magistratura. Quindi sparisce. Quando le notizie riguardano la magistratura, i giornali non si scrivono più in redazione: si scrivono in Procura. C’è da indignarsi? Forse. Comunque c’è da avere molta paura.
Quello di Palamara è un libro-vendetta che consolida il sistema di potere delle procure. Davide Varì su Il Dubbio il 2 febbraio 2021. Le tossine di Palamara trasformano il dibattito sulla giustizia in una resa dei conti. Per scardinare le sacche di potere di alcune procure dovremmo invece discutere di separazione delle carriere. Si presenta come il grande pentito della magistratura corrotta, deviata. Quasi vuol apparire come una sorta di Tommaso Buscetta che svela codici e semantica della magistratura “intrallazzona” ed “eversiva”. Ma se vogliamo rimanere nell’iperbole che lo stesso Luca Palamara tratteggia e suggerisce nel suo libro, allora dobbiamo constatare che manca un ‘ piccolo’ particolare: non c’è un Falcone, quella figura geniale e cristallina in grado di mediare tra i due mondi e riannodare i fili di un racconto che altrimenti rischia di ingarbugliarsi, di sfuggire di mano ancora di più. E così il racconto di Palamara, pagina dopo pagina, appare sempre più come la grande vendetta di un uomo che ha perso tutto e pronuncia un grande “muoia Sansone con tutti i filistei”. Ma il gioco, per gli attori che coinvolge – arriva a sfiorare anche il Quirinale – è assai pericoloso e il mazziere, dobbiamo dirlo, non del tutto disinteressato. E nessuno riesce a toglierci dalla testa che il suo libro possa essere l’ultimo atto del cosiddetto “metodo Palamara”, quello col quale ha gestito e pilotato nomine, cariche, favori. E così l’ex presidente dell’Anm trascina tutti noi nel “sistema”, ci arruola nella battaglia ma forse sta solo continuando a giocare la sua personalissima partita. Anche perché la vicenda non è ancora chiusa. Ma cosa racconta Palamara nel suo “libro verità”? Racconta una cosa che chiunque abbia appena frequentato il mondo della giustizia sa da anni: le nomine per le procure più importanti sono frutto di accordi politici tra le varie aree della magistratura che vengono decise anche con lo zampino dei partiti. «La verità – scrive infatti Palamara – è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e, direttamente o indirettamente, i loro referenti politici. Compresa la nomina del vice presidente del Csm Ermini, quello che sovraintende alla mia radiazione». E qui serve assoluta chiarezza e onestà intellettuale: nessuno può pensare che la nomina a procuratore di Roma – ma anche di Milano, Napoli e di ogni altra città di media grandezza e importanza – possa non essere frutto di valutazioni anche di natura “politica”. Da una lato perché le associazioni della magistratura (siamo certi che sia giusto criminalizzare?) servono proprio a offrire punti di vista e soluzioni diverse a problemi comuni; dall’altro perché tutti sanno che la nomina del Procuratore capo di Roma, ovvero il magistrato che si ritroverà nel punto esatto in cui si incontrano e si scontrano i poteri dello Stato, da quello politico a quello giudiziario, non potrà tenere conto solo di valutazioni riguardanti l’anzianità di servizio, quasi si trattasse di scegliere l’arbitro della strapaesana. Panzane: chi siede lì deve avere pelo sullo stomaco e grande buon senso. Come chi lo sceglie. Anche se non sempre è stato così. Insomma, non può che essere una scelta ‘ politica’. Che poi dovrebbe essere con la P maiuscola è un altro discorso. E del resto che il Csm, massimo organo di autogoverno della magistratura, sia un luogo intrinsecamente e inevitabilmente politico, lo spiega bene lo stesso Palamara a pagina 17: «Composto da 16 togati eletti dalle correnti della magistratura e 8 laici eletti dal Parlamento, il Csm è il massimo dell’incrocio tra politica e magistratura. Il luogo in cui il potere esprime il massimo delle sue doti, nobili e meno nobili». Rimane il fatto che pensare di limitare il potere strabordante delle procure con un libro “vendetta” è pura illusione. Le tossine di Palamara trasformano il dibattito sulla giustizia in una resa dei conti. Per scardinare le sacche di potere di alcune procure dovremmo invece discutere di separazione delle carriere, di riforma del processo e del ruolo dell’avvocatura svilito dal protagonismo di alcune toghe: «Siamo giovani e ambiziosi e ci sentiamo investiti di una missione salvifica, e prima o poi finiremo su giornali e tv», ammette nelle primissime pagine Palamara. E allora leggete il suo libro – ci mancherebbe – ma sapendo che si tratta di un’operazione politico- editoriale che paradossalmente rischia di rafforzare quel “sistema” senza intaccare le ragioni profonde del potere “terribile della magistratura”, per dirla col professor Tullio Padovani. E del resto non è un caso che l’immagine che Palamara sceglie come simbolo della corruzione originaria sia proprio l’istantanea dell’Hotel Champagne, lì dove entra in ballo la politica, ancora una volta presentata come il virus che infetta il corpo ( sano?) della Giustizia. Insomma, niente di nuovo sotto il sole…
Palamara: «Ormai sono il diavolo: il Csm penalizza i pm con cui chattavo». Davide Varì su Il Dubbio il 4 febbraio 2021. Luca Palamara racconta al Dubbio l’ultima “trovata” del Csm: le chat sono un elemento di valutazione per i candidati agli incarichi direttivi. «Il mio libro non è una vendetta, è un racconto per i cittadini e per quei tanti magistrati ai quali ho voluto svelare il funzionamento del sistema che governa la giustizia italiana». Luca Palamara è affabile, sereno. Appare come una persona in cerca di un nuovo equilibrio dopo che la tempesta ha travolto tutto: affetti, lavoro, stile di vita. Ha tenuto a parlare col nostro giornale dopo un articolo di chi scrive nel quale, tra le altre cose, si chiedeva una cosa semplice: perché solo ora? Perché Palamara ha parlato e svelato il “Sistema” solo dopo che quello stesso sistema lo ha espulso in modo brutale?
Dottor Palamara, perché non dovremmo pensare che il suo libro sia una resa dei conti tra magistrati in lotta per conquistare fette di potere?
«Capisco che qualcuno possa pensare a una vendetta ma invito tutti a riavvolgere il nastro e fermarsi al giorno in cui io ho chiesto di essere ascoltato dall’Anm. Avrei voluto discutere di questo ma in quel momento ho capito che non volevano che io parlassi. Semplicemente non dovevo aprire bocca. Quando poi sono stato ammesso a farlo ho trovato di fronte a me solo un centinaio scarso di persone, la quasi totalità dei quali appartenenti peraltro alla corrente di Area, scarsamente interessate a quello che avevo da dire ritenendomi oramai un diverso da loro».
L’istantanea dell’hotel Champagne (il famigerato albergo nel quale Palamara incontrò Luca Lotti e Cosimo Ferri per decidere la poltrona della procura di Roma) era ancora troppo fresca?
«Probabilmente sì. Fatto sta che mi tolsero la possibilità di parlare, di spiegare, di aprire una discussione che avrebbe potuto essere utile per tutti».
A quel punto ha deciso di vuotare il sacco?
«Decisi di iniziare a parlare dopo che sulle mailing list dei magistrati circolò la lettera di una collega che mi chiedeva spiegazioni. Pensando di infierire quando oramai ero caduto in disgrazia mi ha però dato l’opportunità di fare esattamente quello che volevo fare: spiegare».
Se non sbaglio la collega le chiese se in questi anni avesse fatto il magistrato oppure il “politico”…
«In quel periodo, naturalmente, ero molto concentrato a organizzare la mia difesa ma ad un tratto scoprii che mi avevano cambiato il calendario e lì capii che qualcosa all’interno della sezione disciplinare che doveva giudicarmi non andava. Una sensazione – per così dire – che si è di recente rafforzata quando è stato deciso di ammettere i testi nei procedimenti disciplinari a carico degli altri partecipanti all’hotel Champagne a differenza di quanto è capitato con me. Una scelta arbitraria e fuori da ogni regola. Per tutte queste ragioni e al fine di poter contribuire ad una palingenesi della magistratura ho deciso che era arrivato il momento di parlare, di raccontare tutto quel che sapevo sulla politicizzazione dei magistrati, sul potere delle correnti e su tutte le degenerazioni che colpiscono la giustizia. E così ho svelato il sistema delle nomine e messo a fuoco la battaglia tutta interna della magistratura sul collateralismo».
Collateralismo?
«Sì, certo, è uno dei cavalli di battaglia delle correnti che non si riconoscono nel “massimalismo giudiziario”».
Questo vuol dire che ci sono magistrati collaterali?
«Il tema del collateralismo dei magistrati con la politica fa parte dei libri di storia ed è la base di partenza per comprendere i riflessi di tale ideologia sui processi».
Cambiamo argomento: come fa un’associazione come l’Anm, nata per fini sindacali e politici, a non fare politica?
«Quando l’Anm venne fondata, l’allora ministro della giustizia Orlando stigmatizzò la nascita di un’associazione che aveva chiari connotati politici. Insomma, parliamo di una discussione centenaria. È chiaro che la nomina di un procuratore, per esempio, deve tenere conto di merito e attitudini, come prevede la legge, ma nella scelta, di fatto, entrano in gioco valutazioni “non previste”…»
Ci faccia un esempio.
«Mettiamo il caso che io sia il presidente della V commissione del Csm (la Commissione per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, ndr). E mettiamo anche il caso che la scelta si restringa a due, tre magistrati, e non facciamo nomi altrimenti lei mi “accusa” di volermi vendicare. Lei pensa che quei tre non faranno di tutto per contattarmi? E badi bene che le parlo di un sistema e non di singoli casi».
Torniamo alla vendetta: lei nega e dice che ha soltanto voluto raccontare i fatti. Ma lei ha una mentalità politica e sapeva bene dell’impatto deflagrante che il suo “racconto” avrebbe avuto nella magistratura…
«Ripeto, io volevo raccontare il Sistema a quelle centinaia di colleghi che ogni mattina si spaccano la schiena per far girare la macchina inceppata delle giustizia italiana. E, d’altra parte, la resa dei conti forse l’ha voluta chi, dal primo giorno, non ha voluto che raccontassi la mia versione dei fatti».
Ma forse i nodi veri della giustizia si chiamano separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, prescrizione. Eppure nel suo libro non ne fa riferimento.
«Quello è un
altro discorso. Ovviamente si tratta di temi centrali, decisivi e io stesso mi
sono sempre considerato un riformatore. E se vogliamo entrare nel merito, posso
dirle che la battaglia delle camere penali sulla separazione delle carriere è
involontariamente favorita dalla stessa magistratura perché al nostro interno di
fatto la separazione esiste già: ormai, nei fatti, è assodato che un pubblico
ministero non diventerà mai giudice. E del resto molti giudici mettono in luce
il fatto che il loro lavoro è assai diverso da quello degli inquirenti. A questo
punto tanto vale affrontare il problema anche dal punto di vista ordinamentale».
C’è una frase del suo libro che gela il sangue. Lei
scrive che «se un procuratore ha un paio di aggiunti svegli, un ufficiale di
Polizia ammanicato con i Servizi segreti, un paio di testate giornalistiche
amiche e un giudice intimo, allora ha più potere del Parlamento». Conferma di
aver conosciuto casi del genere?
«Certo, è una realtà di fatto».
E cosa pensa delle “esternazioni” del procuratore Gratteri? Non le sembra che utilizzi un po’ troppo la sponda dei media? Nel corso di una conferenza stampa disse di voler smontare la Calabria come un lego. Le sembra un linguaggio appropriato a un procuratore della Repubblica?
«Il tema conferenza stampa è un tema grave ma posso dire con certezza che non riguarda solo Gratteri. Una cosa è il diritto dell’opinione pubblica a essere informata, altra è l’abitudine di presentare gli arrestati come colpevoli senza neanche aver iniziato un processo…»
Questa deriva mediatica delle procure l’ha contrasta anche quando era presidente dell’Anm?
«Nei limiti del possibile ho cercato di arginarla. Così come ho contrastato l’idea che le intercettazione diventino gossip. E a proposito di Chat, vuol sapere l’ultima?»
Dica pure.
«Ho appena saputo che le mie chat sono diventate un elemento di valutazione per i candidati agli incarichi direttivi».
Si spieghi meglio.
«La legge prevede che un candidato debba essere valutato sulla base dell’attitudine e del merito. Nelle attuali valutazioni vengono incredibilmente inserite anche le mie chat. In questo modo un magistrato viene penalizzato per il solo fatto di aver interloquito con me. Io credo che così facendo il Csm stia abdicando al suo ruolo basando le sue decisioni sul pregiudizio legato alla mia persona. In ogni caso c’è già un caso specifico di cui parlano tutti i resoconti consiliari in queste ore: la sfida per la procura di Salerno tra Alfano e Soviero è avvenuta proprio sulla base di quelle chat. Ma la legge non vieta certo di parlare con Palamara e in ogni caso c’è un grave problema nella divulgazione delle mie chat. Basta consultare le pratiche di archiviazione della prima commissione: chiunque può accedere sul sito del Csm e leggerne tranquillamente il contenuto senza che le stesse siano in alcun modo secretate o omissate, come invece richiederebbe una corretta applicazione della legge sulla privacy, anche quando riportano per intero messaggi privati tratti dal mio cellulare che nulla hanno a che vedere con i reati che mi vengono imputati. Per questo, dopo essermi consultato con esperti giuristi in materia ho deciso di agire in sede risarcitoria nei confronti del Csm per la indebita pubblicazione del contenuto delle mie chat».
È accaduto spesso a molti cittadini…
«Ma infatti ho lottato contro questo sistema. Dai tempi dei furbetti del quartierino molte cose sono cambiate sia a livello di giurisprudenza europea che di normativa consiliare, ma soprattutto di consapevolezza nelle procure che le intercettazioni che non hanno attinenza con il reato e contengono informazioni lesive della reputazione dell’indagato e dei terzi non devono essere depositate agli atti del processo. Ripeto, io non dico che non debbano essere utilizzate, ma questa divulgazione capillare da parte del Csm è intollerabile. A questo punto davvero mi chiedo, come mai non è mai stata fatta una discussione sulle chat che riguardano i componenti del Consiglio superiore della magistratura?»
Leggere il libro di Palamara per capire il momento in cui la politica si è consegnata alle toghe. Aldo Varano su Il Dubbio l'1 febbraio 2021. Lo squilibrio tra potere politico e magistratura può essere ormai accettato solo se si è convinti del teorema Davigo: tutti gli innocenti sono in realtà colpevoli che l’hanno sfangata. Bisogna arrivare a pagina 51 del Sistema, la confessione-denuncia sulla realtà impantanata in cui si agita la magistratura italiana, dettata da Luca Palamara, già grande stella del potere giudiziario del nostro paese, ad Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, il quotidiano di casa Berlusconi, per imbattersi in una prosa distante dalle limature, dal linguaggio centellinato, e dalla furbizia che a tratti emerge dall’intero testo. In pochissime righe Luca Palamara riassume l’origine del peccato originale che ha innescato i peccati dell’attuale situazione: quelli della magistratura e quelli della politica. Detta a Sallusti: «Per esempio non mi torna come il Parlamento – su spinta della sinistra risparmiata dalle inchieste – possa aver approvato la legge suicida che toglie l’immunità ai parlamentari, aprendo di fatto lo sconfinamento della magistratura nel terreno della politica. Rimango sorpreso dal fatto che la strutturale dipendenza della politica dal finanziamento privato venga spacciata per banale e criminale corruzione di alcuni partiti, e che per la prima volta nel 1994 un Presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi, venga raggiunto da un invito a comparire». Palamara è così sinceramente stupito da quegli eventi che consegnarono il potere politico italiano alla magistratura da essere perfino impreciso nelle definizioni tecnico-giuridiche. Infatti, l’immunità parlamentare in Italia, al contrario di quel che scrive, non è stata mai eliminata. E’ stata invece abolita l’autorizzazione a procedere per indagare sui parlamentari. In precedenza il magistrato che si fosse imbattuto, o avesse creduto di essersi imbattuto, in reati consumati da un parlamentare non poteva compiere alcun atto d’indagine senza prima chiedere al parlamento l’autorizzazione a procedere nelle indagini. Era tutelato. Il Parlamento avrebbe dovuto in precedenza autorizzare le indagini. Avere eliminato questa barriera protettiva, con una riforma di rilievo costituzionale, significò dare ai magistrati il potere di procedere nelle indagini contro i parlamentari che è vero continuavano ad essere protetti dall’immunità (che hanno ancora oggi), ma che potevano venire sputtanati e sono stati sputtanati da fughe di notizie, cioè dal meccanismo che s’è configurato come un micidiale carrarmato mediatico-giustizialista. E’ vero che il Parlamento italiano aveva a lungo approfittato di quel potere di tutela autorizzando indagini sui parlamentari con la stessa avarizia dell’Arpagone di Moliere. Ma invece di intervenire su questo punto e su tutti gli stratagemmi parlamentari a protezione di inaccettabili privilegi della categoria, avere eliminato l’autorizzazione a procedere nelle indagini avrebbe ed ha modificato in modo drastico l’equilibrio e l’autonomia dei poteri tra la politica e la magistratura facendo della magistratura un potere senza alcun contrappeso. Insomma, s’è gettata l’acqua sporca con il bambino dentro. Il quadro oggi è nettamente sbilanciato. I parlamentari godono dell’immunità parlamentare ma possono essere trascinati sui giornali nei notiziari radiofonici e televisivi, mostrati all’opinione pubblica carichi d’indagini che gli addossano colpe e responsabilità insopportabili. Nei fatti, nonostante l’immunità, sono costretti a soccombere, spesso rinunciando a perseguire le proprie scelte politiche. Di contro i magistrati che muovono accuse gravissime, anche quando quelle accuse a fine percorso si risolvono in aria fritta e spezzano l’impegno o la carriera di un politico, non subiscono alcuna conseguenza. Anzi, hanno già immagazzinato e utilizzato consenso e scatti di potere.L’autorizzazione a procedere è stata cancellata in un momento drammatico della storia italiana: il tempo di tangentopoli. La decisione venne presa in un parlamento dove sui banchi delle forze di destra avevano ripetutamente dondolato, tra urla e schiamazzi, cappi e nodi scorsoi come indicazione per la soluzione del problema corruzione addebitato senza grandi distinzioni all’intero ceto politico italiano. Anche se quel clima e quelle responsabilità, di cui ancora paghiamo oggi il costo, non appaiono mai nel racconto e nei ricordi di Palamara e Sallusti. Ma lo squilibrio tra potere politico e magistratura può essere ormai accettato solo se si è convinti dell’esattezza del teorema Davigo per cui tutti gli innocenti sono in realtà colpevoli che l’hanno fin qui sfangata. Come uscirne? Non sarà facile. Col libro di Palamara si può essere polemici e critici duri. Si può sostenere che l’enfant prodige della magistratura italiana cerca anche lui di sfangarsela e che non è un’anima innocente. Palamara racconta fatti in modo da attenuare le proprie responsabilità. Ma l’insieme di quei fatti, non la loro interpretazione che può anche essere maliziosa e o interessata, fanno emergere una realtà che riduce drasticamente il prestigio della magistratura. Perfino le richieste di quanti chiedono che si faccia luce impietosa su tutti i fatti raccontati restano, quindi, molto al di sotto di ciò che serve per restituirle dignità piena. E’ questo il problema da affrontare. E non sarà facile.
Il libro-verità di Palamara: «La magistratura segue le logiche della politica. Anzi, le anticipa…». su Il Dubbio il 25 gennaio 2021. «Md? È l’embrione del Sistema. Se sei un magistrato libero e indipendente, allora sei un traditore dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e devi essere cacciato come infame». Palamara si racconta nel libro-intervista con Sallusti. «Normalmente funziona che se le correnti si accordano su un nome può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione». Lo racconta Luca Palamara ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura, incalzato dalle domande di Alessandro Sallusti, nel libro “Il Sistema – Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”, in uscita oggi per Rizzoli. «La verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e, direttamente o indirettamente, i loro referenti politici, e ciò è ampiamente documentabile», racconta l’ex magistrato. «Possono cambiare gli equilibri tra le correnti, esattamente come cambiano in politica all’avvicendarsi, per via naturale e democratica o traumatica, dei leader dei partiti. Vuol dire che per diventare procuratore dovrai passare non più sotto le forche caudine di Palamara e Ferri e Cascini, ma sotto quelle, per fare un esempio, di Davigo e Di Matteo. La ruota gira ma non diventerà mai quadrata», aggiunge Palamara.
«Legnini mi insulta». «Dopo la votazione al Csm che incorona Fuzio raggiungo il vicepresidente Legnini a Chieti per partecipare a un convegno. Mi insulta, si sfoga: “Tu mi hai umiliato agli occhi del Quirinale, penseranno che io non conto nulla, non finirà qui”», scrive Palamara.
«Il pontiere tra magistratura e politica». «Io per natura sono un pontiere, colui che crea ponti tra quel sistema – il sistema di potere della magistratura – e la politica». «Renzi e Lotti – aggiunge Palamara – hanno il potere politico, io le conoscenze e un bel pacchetto di voti da mettere sul tavolo delle nomine che contano in magistratura. Quando nel dicembre del 2010 si parla di un possibile patto tra la magistratura e Gianfranco Fini, ben visto dal Colle, non si va lontano dalla verità». «Con lui, in quel momento presidente della Camera, troviamo un’inaspettata sponda in campo avverso, quello del centrodestra di cui lui è il numero due dopo Silvio Berlusconi – spiega l’ex pm – Abbiamo più di un incontro, ci rassicura che con lui a dirigere la Camera non varerà nulla di sgradito ai magistrati. Tra noi certamente c’è un buon feeling che diventa collaborazione attiva nel fornirgli pareri e spunti per emendare leggi che, direttamente o indirettamente, riguardano il nostro mondo». «I casi di Luigi De Magistris, di Clementina Forleo, di Antonio Ingroia, di Alfonso Sabella e Antonio Sangermano, per citare i più noti, dimostrano che se sfidi il Sistema sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto. E io lo so bene perché c’ero: in quel momento il Sistema ero io», prosegue Palamara, che aggiunge: «De Magistris ha ragione quando dice che un’azione punitiva di quel genere nei confronti di un magistrato non c’era mai stata». Quando il Csm apre un fascicolo che di lì a pochi mesi porterà al trasferimento di Luigi de Magistris, «io mi consulto sia con i miei sia con il Quirinale. E succede che, per la prima volta nella sua storia, almeno recente, l’Anm prende le distanze dall’operato di un pubblico ministero. Il comunicato lo feci io insieme a Giuseppe Cascini, fu un atto sofferto ma di coraggio, rompeva il dogma secondo cui un pm va difeso sempre e comunque. E su questo ebbi la spinta di Cascini, cioè dell’ala sinistra della magistratura, una spinta che mi lasciò molto stupito», prosegue l’ex togato.
«La magistratura segue le stesse logiche della politica». Quindi l’affondo: «La magistratura segue le stesse logiche della politica, a volte addirittura le anticipa. Solo con Berlusconi non è avvenuto». «Magistratura democratica è l’embrione del sistema», spiega Palamara raccontando il suo ingresso in Md: «Noto una cosa: la maggior parte dei colleghi che contano sono iscritti a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura». A un certo punto «capisco che ho bisogno di una protezione e per questo mi iscrivo alla corrente di Magistratura democratica. Ecco, in quel momento, anche se ancora non ne ho piena coscienza, varco la porta ed entro nel “Sistema”». Poi, compreso che Md è una «corrente ideologica e non scalabile con la mia storia», matura la scelta di passare a Unicost. «Se sei collaterale al Pci-Pds-Pd sei un sincero democratico e un magistrato libero e indipendente; se sei collaterale a Renzi via Lotti, a Berlusconi via Nitto Palma o a Salvini via non so chi, allora sei un traditore dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e devi essere cacciato come infame», prosegue. «Il sistema è rodato – conclude – e si inceppa raramente, tipo quando sul tavolo viene messo il nome del cosiddetto “impresentabile”, che il più delle volte però la sfanga perché il proponente minaccia di dichiarare “impresentabile” uno dei tuoi e ci si infila in un tunnel senza fine. Questo per dire…».
Palamara: “Così la Procura di Roma si oppose alla nomina di Gratteri a ministro della Giustizia”. Il Dubbio il 28 gennaio 2021. L’ex presidente dell’Anm ripercorre le fasi della mancata nomina di Nicola Gratteri a ministro della Giustizia con l’allora governo Renzi: «La magistratura è più potente della politica e può condizionare la riforma della politica». «La magistratura è più potente della politica e può condizionare la riforma della politica». Lo ha detto l’ex presidente dell’Anm, Luca Palamara, intervenendo alla trasmissione Buongiorno Regione della TgR Calabria. L’ex magistrato, che ha origini calabresi, ha sottolineato che in Calabria «ci sono degli importanti investigatori e importanti magistrati che si battono per la legalità», quindi ha ripercorso le fasi della mancata nomina di Nicola Gratteri a ministro della Giustizia con il Governo Renzi. «Nicola Gratteri – ha detto – è una persona troppo indipendente. Con lui ho condiviso l’inizio della mia carriera. Basta prendere l’ultimo documento di pochi giorni fa di Magistratura Democratica per capire che Gratteri all’interno della magistratura, quanto meno, non è benvoluto dalla parte che conta della magistratura. Ho sempre apprezzato, al di là del merito delle inchieste, comunque il suo coraggio». L’ex presidente dell’Anm ha aggiunto: «Nella vicenda della mancata nomina a ministro della Giustizia, sicuramente all’interno della magistratura e nell’allora mio ufficio, la Procura di Roma, c’era timore che potesse diventare Ministro. Per la mia esperienza, quando si mettono in moto questi meccanismi, difficilmente la politica può accettare una cosa del genere. Successivamente – ha concluso Luca Palamara – ho avuto modo di sapere in alcuni incontri politici che non era voluta da alcuni magistrati della Procura di Roma». I fatti risalgono al 2014. L’anno in cui Matteo Renzi era presidente del Consiglio: appena incaricato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il leader di Italia viva voleva a tutti i costi Gratteri alla guida del ministero della Giustizia. Gratteri al tempo era procuratore aggiunto a Reggio Calabria ma si era già fatto notare per la sua lotta alla criminalità organizzata e una popolarità sempre crescente anche al di fuori della magistratura Per questo Renzi voleva affidargli la guida di via Arenula, ergendolo a «segnale più importante della discontinuità che intendo dare al mio esecutivo». Gratteri era pronto ad accettare ma, disse, «soltanto se avessi la libertà di realizzare le cose che ho in testa». Voleva carta bianca, insomma, e l’allora neo inquilino di palazzo Chigi era disposto a dargliela. Ma non finì bene, perché a mettersi di traverso fu proprio Napolitano, che storse la bocca quando Renzi presentò la lista dei ministri. Si parlò di una regola non scritta, ma praticamente sempre rispettata, per cui un magistrato ancora in servizio non potesse ricoprire il ruolo di ministro della Giustizia. Non tutte le ricostruzioni di quei momenti convergono, fatto sta che dopo tre ore di colloquio la lista dei ministri cambiò e quella casella venne occupata da Andrea Orlando, democratico garantista, pro abolizione dell’ergastolo e contrario all’obbligatorietà dell’azione penale.
Il Sistema, Alessandro Sallusti intervista Luca Palamara su tutti i segreti della magistratura italiana. Redazione su Il Riformista il 26 Gennaio 2021. Ottobre 2020: per la prima volta nella storia della magistratura un ex membro del Csm viene radiato dall’ordine giudiziario. Chi è Luca Palamara? Una carriera brillante avviata con la presidenza dell’Associazione nazionale magistrati a trentanove anni. A quarantacinque viene eletto nel Consiglio superiore della magistratura e, alla guida della corrente di centro, Unità per la Costituzione, contribuisce a determinare le decisioni dell’organo di autogoverno dei giudici. A fine maggio 2019, accusato di rapporti indebiti con imprenditori e politici e di aver lavorato illecitamente per orientare incarichi e nomine, diventa l’emblema del malcostume giudiziario. Incalzato dalle domande di Alessandro Sallusti, in questo libro Palamara racconta cosa sia il “Sistema” che ha pesantemente influenzato la politica italiana. “Tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo.” Il “Sistema” è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato. È quello che succede anche a Palamara: nel momento del suo massimo trionfo (l’elezione dei suoi candidati alle due più alte cariche della Corte di Cassazione), comincia la sua caduta. “Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano.” I segreti sono tutti in questo libro.
Le rivelazioni sugli intrecci fra toghe. Il mistero di Consip: cosa ci faceva Ielo da Woodcock il giorno in cui iniziò l’indagine? Alessandro Sallusti su Il Riformista il 26 Gennaio 2021. Esce domani nelle librerie il volume intitolato “Il sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”, Rizzoli, pagine 288, euro 19. Si tratta di un’intervista a Luca Palamara curata da Alessandro Sallusti. Per concessione dell’editore pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo “Il Rottamatore”. Il 21 aprile 2015 Matteo Renzi è nel suo ufficio a Palazzo Chigi, nel pieno dei suoi poteri e al massimo del suo successo politico. «Basta palude, avanti su tutto» twitta apostrofando le resistenze di parte dei suoi e delle opposizioni alla nuova legge elettorale, l’Italicum. Quello stesso giorno due ufficiali dei Carabinieri, che fanno parte della squadra di polizia giudiziaria del procuratore di Napoli Henry John Woodcock, entrano nell’ufficio del procuratore di Modena Lucia Musti con un enorme faldone di intercettazioni telefoniche e informative, composto da ben undici capitoli che coinvolgono anche personaggi, per la verità minori, del mondo cooperativo modenese. L’inchiesta è denominata Cpl Concordia, riguarda presunte tangenti per la metanizzazione dell’isola di Ischia ed è considerata la madre della successiva inchiesta Consip. Uno dei due carabinieri è il capitano Giampaolo Scafarto, che poi, vedremo come e perché, finirà nei guai. L’altro è il colonnello Sergio De Caprio, più noto come il «Capitano Ultimo», l’uomo che il 15 gennaio del 1993, a Palermo, arrestò Salvatore Riina, il capo dei capi della mafia, e a cui Raoul Bova dette un volto nella fortunata miniserie televisiva andata in onda nel 1998. Secondo quanto riferito dalla Musti il 17 luglio 2017 davanti alla commissione disciplinare del Csm, che stava valutando le accuse a Woodcock per una fuga di notizie sensibili, i due carabinieri le dicono: «Questa è una bomba, si arriverà a Renzi». Ricordo bene, io facevo parte di quella commissione che stava ascoltando la Musti e giudicando Woodcock. Esattamente le parole messe a verbale dalla Musti sono: «I due mi dicono: “Dottoressa lei ha una bomba in mano, se vuole può fare esplodere la bomba”». In realtà la bomba era già in pieno possesso della procura di Napoli, che era pronta a farla esplodere autonomamente, come poi avvenne, ma non complichiamo la storia. Anzi, per capirla bisogna fare un passo indietro, al 21 febbraio 2014, giorno in cui Matteo Renzi, disarcionato Enrico Letta, sale al Quirinale da Napolitano per sottoporgli la lista dei ministri del suo governo. E compie il primo, grave e decisivo passo falso, almeno per quanto riguarda la magistratura. Ce lo ricordiamo quel giorno: Renzi varca la porta dello studio del presidente, le telecamere e i giornalisti fuori ad attenderlo ma inspiegabilmente per oltre due ore lui non esce, un tempo anomalo per quel tipo di formalità. Esatto. Tutti con il fiato sospeso perché Napolitano si rifiutava di firmare la nomina proposta da Renzi di Nicola Gratteri a ministro della Giustizia. Come si arrivò lì lo ha raccontato lo stesso Gratteri il 20 febbraio del 2020, durante la trasmissione televisiva diMartedì di Giovanni Floris, presenti lei Sallusti e il direttore dell’«Espresso» Marco Damilano. Gratteri disse che il giorno prima della formazione del governo lo chiamò Graziano Delrio, maggiorente del Pd renziano, e lo convocò con urgenza a Roma per un incontro con Renzi, che non aveva mai conosciuto. Parlarono per oltre due ore – «mi fece “un interrogatorio”» dirà scherzando – e alla fine Renzi gli propose di fare il ministro. Lui pose solo una condizione: carta bianca per ribaltare il sistema della giustizia, e Renzi accettò. Ecco, quello è il punto decisivo. La cosa si seppe, perché Roma è sì tanto grande ma certe notizie girano veloci come in un borgo.
Poteva un «Sistema» che aveva combattuto e vinto la guerra con Berlusconi e le sue armate farsi mettere i piedi in testa da Matteo Renzi e da un collega, molto bravo ma anche molto autonomo, fuori dalle correnti e per di più intenzionato a fare rivoluzioni?
«A occhio direi di no. E infatti non era possibile. Si muovono i pezzi da novanta del «Sistema», il Quirinale è preso d’assalto dai procuratori più importanti – lo stesso Pignatone mi confiderà di aver avuto in quelle ore contatti – e dai capicorrente. Napolitano prende atto che la cosa non si poteva fare. Renzi, che come si vedrà non aveva capito che razza di potere ha la magistratura, testardo, sale al Colle con quel nome. Dico questo non in base a supposizioni, ma per i numerosi contatti che ho avuto in quelle ore. Gratteri, che è il più sveglio di tutti, non vedendo la porta di Napolitano aprirsi nei tempi dovuti capisce al volo, come vi ha raccontato da Floris, cosa sta succedendo. Successivamente avrò conferma dai diretti interessati che il mondo della magistratura, tra cui il procuratore Pignatone, ha fatto arrivare al presidente Napolitano un segnale di non gradimento nei confronti di Nicola Gratteri. Ma Gratteri non era un problema solo in quanto Gratteri».
E allora qual era il problema?
«Che Renzi con quella mossa sfida il sistema delle correnti e dei grandi procuratori, che da sempre vengono consultati preventivamente dal premier incaricato o da chi per lui per dare il gradimento a un nuovo ministro della Giustizia. Dopo aver asfaltato, o almeno pensato di aver asfaltato il Pd, Renzi prova a fare altrettanto con la magistratura: qui ora comando io. E no, non funziona così. Detto da uno che è indicato come il fondatore della corrente renziana dentro la magistratura…Mi avesse chiesto consiglio allora… Scherzo, ma non più di tanto. Nel nostro mondo non si può entrare a gamba tesa, ti fai solo del male. E lui, non pago del caso Gratteri, poco dopo essersi insediato a Palazzo Chigi mette sul tavolo la questione delle ferie eccessive e della responsabilità dei giudici. E a quel punto si scava la fossa».
Lei mi sta dicendo che l’azione penale contro un presidente del Consiglio dipende dalla sua politica sui temi della giustizia?
«Be’, la stagione della contrapposizione a Berlusconi qualche cosa avrebbe dovuto insegnare a Renzi. Perché prima di lui Enrico Letta e dopo di lui Paolo Gentiloni sono usciti indenni dalla loro presidenza? Perché erano immacolati? Può essere, ma è una risposta semplicistica. Il motivo principale è che non hanno sfidato i magistrati. Renzi invece commette l’errore di pensare che, essendo lui il segretario del Pd, la magistratura, a maggioranza di sinistra, sarebbe stata al suo fianco a prescindere. Non capendo che sì, la magistratura è quella cosa lì, ma i suoi riferimenti non erano i giovani del Giglio magico, i Lotti e le Boschi come i Gratteri o i Cantone, ma il vecchio apparato comunista e postcomunista che lui stava rottamando. Parliamo di gente che al Partito comunista prima e al Pd poi la linea la dettava, non la subiva. Di colleghi che sono inorriditi di fronte al patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Insomma, la sinistra giudiziaria, o più correttamente il massimalismo giustizialista, stava perdendo i suoi riferimenti politici e reagì in soccorso di quel mondo politico e culturale che li aveva generati. A tal proposito le parole di Piergiorgio Morosini mi sembrano eloquenti.
Piergiorgio Morosini, autorevole magistrato di sinistra, membro del Csm, già segretario di Magistratura democratica, nonché gip nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Proprio lui. In un’intervista «non autorizzata» con la giornalista del «Foglio» Annalisa Chirico, alla vigilia del referendum costituzionale del 2016, che per volontà del premier è anche un referendum su Renzi, Morosini usa parole violente: «Bisogna guardarsi bene da una deriva autoritaria di mestieranti assetati di potere e per questo al prossimo referendum bisogna votare no»».
Una dichiarazione di guerra.
«La guerra era già iniziata sul fronte giudiziario, non dimentichiamo quel «dottoressa lei ha una bomba» dell’anno precedente. L’assalto finale è in modo esplicito anche politico, perché il Pd andava restituito ai suoi legittimi proprietari. (…)
Torniamo alle vicende giudiziarie. Prima del caso Consip, vediamo la questione delle inchieste sui genitori di Renzi.
«Alla procura di Genova giaceva una denuncia che riguardava due fatture sospette di una loro società dichiarata fallita nel 2014, se non sbaglio una da 20.000 e una da 140.000 euro. Il fascicolo era fermo perché dimenticato insieme a centinaia di altri fallimenti? Perché erano i genitori del sindaco di Firenze, che non dava fastidio a nessuno e, anzi, casomai era meglio tenerselo buono? Sta di fatto che, non necessariamente per colpa di qualcuno, quello giaceva dimenticato in mezzo ad altre centinaia di fascicoli tributari e fallimentari come normalmente avviene negli uffici giudiziari. Quando Renzi diventa premier e tenta di imporre Gratteri, prova a mettere becco sulle nostre ferie, oltre a pensare alla responsabilità civile dei giudici o ancora a flirtare con Berlusconi e fare fuori Bersani, ecco che qualcuno si ricorda dell’esistenza di quel fascicolo e di altri pasticci gestionali che i genitori di Renzi avevano combinato nei primi anni Duemila. Manna dal cielo, come Ruby per Berlusconi. E così un banale fallimento, come ce ne sono migliaia sepolti chissà dove, diventa il caso di Stato».
Parliamo pur sempre di un reato.
«Certamente, ci mancherebbe. L’inchiesta è assolutamente legittima, ma l’accelerazione degli accertamenti e il dispiego di forze per farli in concomitanza con l’arrivo del figlio a Palazzo Chigi davvero mirano unicamente a dare giustizia ai creditori? Diciamo bene come funzionano le cose».
Ecco, diciamolo.
«Sì, ma giriamola su di me, così evitiamo guai: parliamo non dei coniugi Renzi, ma in generale di un meccanismo che ben conosco e ho visto più volte applicare. Io, Luca Palamara, vado in ufficio e negli armadi ho centinaia di fascicoli che noi chiamiamo «comuni», nel senso che hanno scarso peso specifico, quali per esempio possono essere quelli su fatture sospette. Mi rendo conto che uno di questi riguarda il parente di una persona famosa e potente, vado a prenderlo e inizio a leggere le carte che prima non avevo mai letto, perché, per parlare con onestà, non sempre un magistrato legge tutto. Inizio ad approfondire e delego l’indagine al mio ufficiale di polizia giudiziaria, cioè a un carabiniere o a un finanziere, e decido se avvisare o meno il mio procuratore capo. Ma c’è capo e capo. Ci sono quelli che dicono «dammi qua che ci penso io» e quelli che lasciano fare per non avere rogne. E lo stesso vale per l’ufficiale di polizia giudiziaria, che potrà bussare o no alla porta del suo superiore: «Guardi che ho per le mani». Il quale – come tutti gli attori di questa catena – potrebbe bussare o non bussare alla porta del parente importante, oppure a quella del giornalista amico. Come finisce? Che uno di questi signori, per un verso o per l’altro, diventerà qualcuno».
Chiaro, ma torniamo all’inizio, all’inchiesta con cui, non sui genitori ma sugli appalti, si mira a Matteo Renzi.
«Quella sulla Cpl Concordia, la società che deve metanizzare la Campania, è una maxi inchiesta che nel 2015 il pm napoletano Woodcock annuncia con squilli di tromba che lasciano intendere grandi cose: già dai primi giorni si sussurra che si arriverà a D’Alema ma pure a Renzi, «la bomba» di cui parla la pm modenese Musti. Di migliaia di carte disseminate per competenze nelle procure di mezza Italia alla fine rimarrà ben poca cosa, ma questo è un altro discorso. Una di quelle carte in effetti farà il botto, non giudiziario ma – tanto per cambiare – politico e mediatico. È l’intercettazione di una telefonata tra Matteo Renzi e il generale Michele Adinolfi, in quel momento vicino a diventare comandante generale della Guardia di Finanza. Si dice che Renzi, segretario del Pd, risponda al cellulare mentre si trova a Palazzo Chigi in attesa di essere ricevuto dal premier Enrico Letta, al quale sta per comunicare la decisione di licenziarlo e prendere il suo posto, cosa che avverrà pochi giorni dopo. Nella telefonata non c’è nulla di penalmente rilevante: i due parlano con grande confidenza – Adinolfi chiude dicendo: «Ciao stronzo» – e Renzi si lascia andare a giudizi su Letta, «non è cattivo, è un incapace», e su Berlusconi, «con lui si può parlare». Woodcock quella trascrizione la custodisce gelosamente e un anno dopo, nel luglio del 2015, la conversazione appare integrale sul «Fatto Quotidiano». Adinolfi salta, Renzi è in grande imbarazzo, partono accuse e controaccuse, ma il dato è che su Matteo Renzi si accende un faro della magistratura che non si spegnerà più. Per induzione, da Cpl Concordia Woodcock passa a Consip, l’inchiesta sulla centrale d’acquisti dello Stato, e il cerchio si allarga. Accuse, sospetti e veleni travolgono tutto il mondo renziano, dal sottosegretario Lotti al padre di Renzi, dal comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette al comandante della Legione Toscana dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia, tanto per fare i nomi più conosciuti. La cosa curiosa è che poco o nulla di tutto ciò c’entra con Napoli, tanto che Woodcock, fatta scoppiare la bomba, deve inviare le carte alla procura di Roma guidata da Pignatone, uno molto sensibile a certi equilibri. Pignatone non ci sta a trovarsi per le mani un’inchiesta preconfezionata che per di più appare coinvolgere premier e generali ed è inquinata da macroscopici errori – famosa la frase mai pronunciata dal padre di Renzi durante una telefonata – e da fughe di notizie che addirittura chiamano in causa i servizi segreti. Tanto per farle capire: una mattina il «Corriere della Sera» pubblica la notizia che il Noe ha segnalato in prossimità degli uffici dell’imprenditore campano Alfredo Romeo una macchina sospetta appartenente ai servizi, con l’obiettivo di carpire notizie per bruciare l’indagine. Quella stessa mattina mi squilla il telefono: è il padre di un amichetto di mio figlio che mi dice: «Luca, hai letto il “Corriere”?». Gli rispondo: «Sì, perché?». «Ma quello della macchina sono io, stavo solo rientrando a casa mia che è davanti a quegli uffici. Possibile che in Italia le indagini funzionino così?» Per Pignatone è troppo, decide di indagare Woodcock per violazione del segreto istruttorio e lo stesso fa con il suo braccio destro Giampaolo Scafarto. Il giornalista del «Fatto Quotidiano» Marco Lillo viene perquisito e a Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto? oltre che molto amica di Woodcock, viene sequestrato il telefonino. Come se non bastasse, la giornalista Annalisa Chirico sul «Foglio» apre scenari inediti, e mai smentiti, svelando che quando, il 16 dicembre 2016, la procura di Napoli apre l’inchiesta Consip con l’interrogatorio del manager Luigi Marroni, nella stanza con Woodcock è presente anche un magistrato della procura di Roma, Paolo Ielo, braccio destro di Pignatone: un mistero nei misteri. È uno scontro tra procure senza precedenti, ma soprattutto è un grande giallo, anzi un noir, di cui ancora oggi non conosciamo la fine, con carte che girano e quindi fughe di notizie, tutti che parlano con tutti. Una vera Babele, altro che inchiesta giudiziaria. Valgono le parole della povera pm di Modena Lucia Musti, destinataria, come detto, di un troncone dell’inchiesta, davanti alla commissione del Csm: «Siamo stati colpiti da questa baraonda, noi siamo una piccola procura, ricordo di aver messo persino i forestali a stampare carte, che è un assurdo, questa informativa di Napoli in verità non la leggemmo neanche, tanto era ampia e caotica, solo i titoli… Si parlava dal sindaco di Rodi Garganico al premier Renzi al figlio di Napolitano, i riferimenti a Modena erano poche righe in una marea di carte… A me avevano insegnato che le inchieste non si fanno così». E ovviamente quel verbale sarà da noi secretato, l’imbarazzo è forte».
Tutto questo per far fuori Renzi per via giudiziaria?
«Mi sembrava di essere tornato ai tempi degli eccessi su Berlusconi. Il Csm non può chiamarsi fuori, su Woodcock viene aperto un procedimento disciplinare. Ma ormai il «Sistema» è impazzito, quasi fuori controllo, e anche il Csm ne rimane vittima».
In che senso?
«Nel tutti contro tutti, il vicepresidente del Csm Legnini finisce in un fascicolo aperto dalla procura di Roma, che lo lambisce per rivelazioni di segreto d’ufficio a una giornalista sua amica, Silvia Barocci, che lavora con Lucia Annunziata alla trasmissione Mezz’ora in più. Ma, a parte questo, parlo con lui del fatto che il Csm dovrebbe aprire una istruttoria sulle due procure di Roma e Napoli, che pubblicamente se le stanno dando di santa ragione. Decidiamo di avvertire il procuratore di Roma, Pignatone, che a me era noto per una dote, quella di non perdere mai le staffe. In quell’occasione invece Pignatone è una furia: «Roma» sbotta «deve rimanere fuori dai radar del Csm». Non ricordo di averlo mai visto così alterato, tanto che io e Legnini decidiamo di soprassedere. Resta in piedi il procedimento disciplinare contro Woodcock, ma anche lì ci sarà un colpo di scena».
Qui le cose si complicano: dalle sue parole sembra che ci fosse un collegamento tra l’inchiesta Consip portata avanti dalla procura di Roma e il Csm. È così?
«Durante le audizioni che conduciamo al Csm su questa vicenda c’è una sorta di filo diretto tra me e il procuratore. Peraltro anche Pignatone conosce Luca Lotti, che in più di un’occasione è stato suo commensale a casa di Paola Balducci. E grazie anche a questo canale ha potuto instaurare un rapporto diretto con l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che peraltro sarà sentito direttamente dallo stesso Pignatone e dal pubblico ministero Stefano Pesci in occasione dell’indagine sulla telefonata di De Benedetti al professionista che curava i suoi interessi in borsa, dicendo di aver appreso queste notizie da Renzi. Si crea in quel periodo una sorta di affidamento che naufragherà nei successivi sviluppi della stessa indagine Consip. Io rimango con il cerino in mano».
Storia infinita.
«Già. Il 5 luglio del 2018 – ne ho traccia – il leader della corrente di sinistra, Giuseppe Cascini, mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare. Ci incontriamo al bar Settembrini del quartiere Prati di Roma. Mi parla di un’intercettazione tra Legnini, vicepresidente del Csm e quindi arbitro della contesa, e l’ex onorevole Cirino Pomicino, in cui Legnini parla molto male del pm napoletano, in possesso dello stesso Woodcock, che è intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti. Riferisco la cosa a Legnini che sbianca, mi conferma che in effetti lui ha avuto un colloquio con Pomicino al bar Florian, nei pressi del Csm, in cui si è lasciato andare a giudizi negativi e anticipatori della sentenza nei confronti di Woodcock. Teme una campagna stampa violenta nei suoi confronti se la notizia dovesse trapelare».
Uno sceneggiatore non sarebbe stato capace di tanto, il problema è che voi dovreste essere il meglio della magistratura.
«Ma non è finita. Mi consulto con il procuratore Pignatone, che mi conferma tutto: si tratta di un’intercettazione ambientale – tenuta riservata – eseguita presso gli uffici di Alfredo Romeo, imputato eccellente dell’inchiesta Consip, in cui Pomicino rivela il colloquio con Legnini. Per mettere una pezza suggerisco a Legnini di parlare con il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, che io e lui avevamo appoggiato per la nomina e che in teoria dovrebbe mostrarsi riconoscente. Parlo con il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio per farci spiegare da Melillo gli esatti termini della vicenda e sondare il Quirinale. Melillo pochi giorni dopo incontra Legnini, è molto freddo e non ha nessuna intenzione di sbilanciarsi. Fuzio parla con il Quirinale e mi consiglia di non forzare: il disciplinare va rinviato, in quel momento Woodcock va salvato. E così sarà. A complicare definitivamente il quadro è anche questo messaggio che arriva sul mio telefonino: «Dei procedimenti romani quale gip e gup non occorre parlarne perché dovrebbero essere noti al Csm PER LA RILEVANZA». A scrivermelo con i caratteri in maiuscolo è Gaspare Sturzo che per perorare la sua causa mi ricorda di essere il gip della vicenda Consip».
Renzi non ottiene soddisfazione, la considera una sua sconfitta?
«Io sono uno che da sempre non guarda alla singola partita ma al campionato, in carriera ne ho fatte e viste tante».
(ANSA il 26 gennaio 2021) - La Procura di Roma ha depositato oggi la lista di testimoni, oltre cinquanta nomi, che dovranno comparire davanti alla ottava sezione collegiale dove è in corso il processo per il caso Consip. Tra le persone citate l'ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Nella lista presente anche il colonnello Sergio Di Caprio, il capitano "Ultimo". Nel procedimento sono imputate sei persone tra cui l'ex ministro Luca Lotti, Emanuele Saltalamacchia all'epoca dei fatti comandante dei Carabinieri della legione Toscana, l'ex presidente di Publiacqua Firenze Filippo Vannoni e i carabinieri Giampaolo Scafarto e Alessandro Sessa.
Sansonetti: “Palamara ha svelato l’esistenza di una magistratura deviata”. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti in un video editoriale è tornato su quanto riportato nel libro-intervista di Alessandro Sallusti su Luca Palamara: “Una volta si parlava di servizi segreti deviati. Lo Stato li sciolse. Noi oggi ci troviamo davanti ad un pezzo di magistratura che è deviata. E sappiamo che è il pezzo di comando che agisce anche sulla parte sana della magistratura. Lo sappiamo in modo concreto. Grazie al libro di Luca Palamara uscito da un paio di giorni in libreria. Un ex magistrato molto importante, capo dell’Anm, uno dei capi del Csm, è stato un pm importante. Poi è stato cacciato dalla magistratura per un’inchiesta, delle intercettazioni (rese in parte pubbliche in parte no)“. Sansonetti prosegue: “Palamara ha raccontato in questo libro parte delle cose che lui sa. In un capitolo, in particolare, ci dice che se c’è un procuratore della repubblica bravo, con un paio di sostituti e aggiunti svegli, che controlla un ufficiale di polizia che sa lavorare sul campo e che ha contatti con i servizi segreti. Se controlla un giudice e lo frequenta e anche contatti con un paio di giornalisti importanti, questa squadra ha un potere superiore a quella del primo ministro, del governo e del parlamento“. “Una situazione di illegalità che però dilaga e modifica ferendo profondamente la democrazia decidendo della vita personale di molti di noi. Molti si ricordano la vicenda della P2 che fu uno scandalo pazzesco, cadde il governo. Possibile – conclude Sansonetti – che nessuno ora fa nulla?”.
Palamara svela quel potere occulto e illegale che domina l’Italia: la magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. “Le spiego una cosa fondamentale per capire cosa è successo in Italia negli ultimi vent’anni. Un Procuratore della repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentando magari l’abitazione…Ecco, se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Soprattutto perché fanno parte di un “Sistema” che li ha messi lì e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Quello che avete appena letto è un passo del libro di Luca Palamara, ex membro del Csm, ex capo dell’Anm (l’associazione magistrati), ex re delle nomine. È un libro appena uscito in libreria e del quale continueremo a parlare e scrivere nei prossimi giorni perché di straordinario interesse. Perché di straordinario interesse? Perché racconta fatti precisi (sui quali Palamara offre ampi riscontri e documenti in grado di dimostrarne la veridicità) i quali costituiscono la storia di un potere occulto ed eversivo – sì: occulto ed eversivo – che da alcuni decenni domina l’Italia azzerando la democrazia. No, no: non è la P2 di Licio Gelli, che fece solo chiacchiere. Si chiama Ma-gi-stra-tu-ra. Allora, torniamo alla citazione del libro ed esaminiamo bene le frasi che contiene. Prima domanda: Palamara si riferisce a una procura in particolare, o il suo è un esempio generico? Diciamo che ragionevolmente si riferisce o alla Procura di Roma o a quella di Milano, perché solo a Roma e Milano (e forse a Napoli) ci sono giornalisti giudiziari di peso che scrivono liberamente per delle grande testate. E Palamara mette questi giornalisti tra i protagonisti di quello che lui chiama “Il Sistema”, e che sarebbe appunto il groviglio di potere anticostituzionale e illegale che domina il paese attraverso la magistratura. Probabilmente Palamara quando pronuncia queste frasi, nell’intervista-libro condotta da Alessandro Sallusti, si riferisce a un procuratore in particolare, a degli aggiunti in particolare, a un ufficiale preciso della polizia giudiziaria, e anche a un giudice specifico e a un paio di giornalisti di cui ha in mente cognome e nome. Anche perché il riferimento alla frequentazione dell’abitazione del giudice, difficilmente è stato buttato lì a caso. È semplice immaginare che Palamara pensi a qualche caso specifico. Noi possiamo anche avere un sospetto su quale sia la procura e quali i nomi dei protagonisti, ma con i sospetti non si fa la storia. Il problema comunque è generale, non riguarda una singola procura. Il problema è: è vero quello che denuncia Palamara? Cioè è vero che la magistratura italiana è un castello dominato non dal diritto ma dagli ammanicamenti? Ed è vero, come sostiene Palamara, che questa magistratura, quando riesce a incastrare insieme una squadra compatta fatta da Procuratori, sostituti, giudici, poliziotti e giornalisti, diventa una macchina molto più potente del potere democratico e legittimo? Da una prima rapida lettura del volume, pubblicato da Rizzoli, e che sta già provocando varie reazioni tra i magistrati, si capisce che Palamara non si limita affatto a esporre una teoria generale o esempi vaghi. Racconta una montagna di episodi, con i nomi dei magistrati protagonisti, che delineano, nel dettaglio, il meccanismo del “sistema”. E danno una forte credibilità alle sue tesi. Tutto è organizzato secondo una logica di potere, dominata dalle correnti dei magistrati, e questa logica di potere costruisce non solo la struttura dirigente della magistratura (capitolo nomine) ma decide anche quali inchieste vanno aperte e quali no, e spesso determina persino le sentenze. Questo è l’aspetto più grave di tutta la faccenda. Perché è con le inchieste e con le sentenze che si decidono gli assetti della politica, si tengono sotto scacco i partiti, si influisce sulla vita personale, e sulla tranquillità o sulla infelicità, di migliaia di cittadini e delle loro famiglie. Chiunque leggerà questo libro e non considererà Luca Palamara un pazzo (e noi sappiamo che tutto il gruppo dirigente della magistratura, in questi anni, non solo non lo ha considerato squilibrato ma anzi ha affidato alla sua saggezza il funzionamento di tutti i meccanismi e gli assetti del potere) non potrà non porsi questa domanda essenziale: quanti innocenti sono stati condannati e quanti colpevoli assolti in questi vent’anni per colpa del gioco delle correnti? Oltretutto noi diciamo vent’anni, perché Palamara è giovane e solo degli ultimi vent’anni è stato testimone. L’impressione è che negli anni precedenti le cose non fossero molto diverse. Palamara ci racconta vari episodi. E da oggi, e poi nei prossimi giorni, riferiremo sui più significativi. Per cercare di capire insieme fino a dove arrivasse il marcio. Intanto dobbiamo dirvi subito una cosa che lascia abbastanza sbigottiti: l’uso delle cene. Voi sapete che tutto questo scandalo del palamaragate è scattato perché, seppure illegalmente, i finanzieri che rispondevano alla procura di Roma intercettarono e registrarono un dopocena all’Hotel Champagne, vicino alla stazione Termini, nel quale Palamara e altri magistrati incontrarono un paio di esponenti politici. Precisamente Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non è bello che questo dopocena sia avvenuto. Ma non esiste, che io sappia, uno specifico articolo della Costituzione che stabilisce che i politici e i magistrati non possano discutere tra loro, anche in privato. Invece esiste un articolo molto importante della Costituzione, il 111, che prevede la terzietà del giudice rispetto al Pm e alla difesa. E c’è l’articolo 105 che assegna al Csm il compito di controllare i magistrati e il loro lavoro, e di premiarli o punirli. Ora mi chiedo: è normale, è giusto, è nel rispetto della Costituzione, che Pm, giudici, membri del Csm si vedano a cena tutti insieme allegramente per discutere di nomine o di orientamenti politici, giuridici e culturali della magistratura? O invece, se ciò avviene, non solo si viola in modo evidente e spavaldo ogni idea del diritto e ogni possibile codice morale, ma si straccia la legalità e si ferisce in modo mortale la credibilità della magistratura? Eppure il libro di Palamara racconta diverse di queste cene, e snocciola i nomi di magistrati autorevolissimi e di membri del Csm, e accenna anche a cene nelle quali a loro si aggiungevano esponenti politici di primissimo piano. Tutto questo ci pone dinanzi a due problemi distinti e drammaticissimi.
Il primo, forse il più urgente, è cosa bisogna fare per fermare l’espandersi di questo potere illegale. Prima ancora di cercare le responsabilità, di stabilire se ci sono stati reati e quali, sarà necessario che la politica provveda a mettere un freno al sovversivismo evidente e pericolosissimo di gruppi della magistratura. Si tratta di ristabilire la legalità democratica, sfregiata e sospesa.
Il secondo problema riguarda la riforma e la riorganizzazione della magistratura. Noi sappiamo, con ragionevole certezza, che la magistratura è composta circa per l’80 per cento da magistrati molto seri, onestissimi e – almeno in gran parte – preparati. E per il 20 per cento, invece, da elementi che tengono in ben poco conto la giustizia e la verità, perché dipendono esclusivamente dal logiche di potere. Non possiamo gettare tutto a mare. Si tratta di intervenire per smantellare il potere occulto delle correnti e del cosiddetto partito dei Pm e per restituire alla magistratura la sua indipendenza che oggi non esiste più. Prima di tutto occorrono delle riforme serie (separazione della carriere, fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, freno alle misure cautelari, responsabilità civile e professionale dei magistrati), e poi serve una ristrutturazione completa dei vertici.
Sappiamo che i vertici delle procure e dei tribunali sono stati nominati, in gran parte, in modo illegale. Sappiamo che molte inchieste e molte sentenze sono state pilotate. Può una società democratica accertare e accettare una situazione così grave senza reagire? Avete presente quando scendono in piazza quelli che agitano la questione morale, l’emergenza e l’onestà? Ecco qui: ora c’è davvero una questione morale aperta, una grande emergenza e un deficit gigantesco di onestà. Vogliamo dare un nome a tutto ciò? Ma-gi-stra-tu-ra.
Palamaragate: abusi e vizi scoperchiati. Le rivelazioni di Palamara sono ben più gravi dei dossier di Licio Gelli. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. Quando Licio Gelli fece trovare i suoi dossier a Villa Wanda, giusto 40 anni fa, scoppiò un tale scandalo da scuotere le fondamenta della democrazia italiana, tanto da provocare un deciso intervento pubblico del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, da far cadere un governo, da troncare la tradizione del presidente del Consiglio sempre democristiano e da portare il primo presidente laico a Palazzo Chigi. Oggi – di fronte alle dichiarazioni pubblicate dall’ex potentissimo magistrato Luca Palamara – ci troviamo in una situazione ancora più grave, perché appare coinvolto e protagonista della sovversione addirittura uno dei corpi dello Stato. Quel che accade è sotto gli occhi di tutti: il magistrato Palamara, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ex capo della associazione magistrati, (cacciato, dopo un processo sommario, nel tentativo di ridurlo al silenzio) ha messo nero su bianco quel che sa in un libro intervista con Alessandro Sallusti. Citando date, fatti, nomi e cognomi, descrivendo gran parte del marcio che si annida in settori della Magistratura che, stando a Palamara, avrebbero agito e tuttora agirebbero contro la Repubblica, contro la Costituzione, contro la giustizia e contro il Parlamento. Abusando delle garanzie previste a protezione dei cittadini e non a vantaggio di funzionari statali che devono la loro carriera a un concorso pubblico e agli avanzamenti previsti dall’organo di autocontrollo, il Consiglio Superiore della Magistratura con sede nel Palazzo dei Marescialli in piazza Indipendenza. Già una volta un presidente della Repubblica fece schierare in quella piazza, all’alba, un reparto di Carabinieri in tenuta antisommossa per intimare l’obbedienza costituzionale a un gruppo di insorti togati (membri del Csm) non meno sovversivi di quelli che il sei gennaio scorso a Washington hanno dato l’assalto al Parlamento americano con l’intenzione di scoperchiarlo come una scatola di tonno. Nel 1981, per cercare di capire come avesse funzionato la Loggia massonica P2, governata da Licio Gelli, fu messa in piedi una commissione parlamentare di inchiesta (la celebre commissione Anselmi) che lavorò per anni, seguita con grande attenzione dai mass media. Non è il caso, oggi, di fare quantomeno la stessa cosa, per restituire al parlamento qualcuno dei suoi poteri e per capire cosa sta succedendo nella magistratura italiana, ormai fuori da ogni controllo democratico? Del funzionamento di una Commissione parlamentare d’inchiesta ho viva memoria essendo stato dal 2002 al 2006 presidente di una Commissione bicamerale (venti senatori e venti deputati) per indagare sulle attività degli agenti di influenza sovietici in Italia dai tempi della Guerra fredda. Quella Commissione portò a termine il suo lavoro glacialmente ignorato da tutte le televisioni e sottoposto a fabbricazioni e trappole che si conclusero con l’avvelenamento, davanti agli occhi stupiti del mondo intero, dell’informatore Alexander “Sasha” Litvinenko, assassinato a Londra con una dose mortale di polonio radioattivo. Sono passati quindici anni. Ma posso ricordare come funziona una procedura del genere. Il primo elemento indispensabile anche se non sufficiente, è la volontà politica di farla, una tale commissione, dopo aver preso atto che un’area crescente di minacciose illegalità si è allargata a partire dagli anni Ottanta e che quel marciume ha minacciato, intimidito, anestetizzato e corrotto il primato del Parlamento. Dopo questo primo passo, occorre scrivere e presentare una legge, o di iniziativa parlamentare o persino per iniziativa popolare, come ogni legge. Quando il Parlamento eletto nel 2001 decise di votare una legge che istituisse una Commissione d’inchiesta sul “Dossier “Mitrokhin” (dal nome dell’archivista russo che consegnò tutte le sue memorie al governo inglese, il quale le passò poi ai Paesi alleati fra cui l’Italia), le aule di Camera e Senato esaminarono diverse proposte di legge di destra e di sinistra che erano in parte già state depositate alla fine della legislatura precedente. La discussione parlamentare in quel caso fu lunga e feroce: un anno di battaglie senza esclusione di colpi, ma aveva una base concreta che non consisteva tanto nel “dossier” che uno sconosciuto maggiore Vasilij Mitrokhin aveva messo insieme copiando per trent’anni con un sistema cifrato i documenti che gli erano passati per le mani e che svelavano le attività di numerosi “agenti di influenza” (da non confondere con le spie, che sono modesta manovalanza), ma consisteva nella volontà politica anche all’interno dell’ex Partito comunista di chiudere una partita tra filorussi e filoamericani e di cicatrizzare spesso occultandole, molte vecchie ferite. Furono giornate di baraonda e violente emozioni sia alla Camera che al Senato, ma alla fine la legge venne fuori, i partiti scelsero i commissari che avrebbero partecipato ai lavori della Commissione, perché tutti i partiti allora esistenti furono rappresentati in maniera proporzionale in un Parlamentino cui fu assegnata una sede conveniente nel Palazzo delle Commissioni in via del Seminario fra il Pantheon e piazza Sant’Ignazio, nello stesso massiccio edificio che aveva ospitato la Santa Inquisizione e dove era stato interrogato, minacciato e costretto ad abiurare Galileo Galilei. Nello stesso Palazzo, che appartiene al Senato, sono quasi tutte le commissioni d’inchiesta e molte commissioni permanenti come quella della vigilanza Rai. Io ero stato eletto senatore a Brescia per Forza Italia e quando si riunì per la prima volta la Commissione d’inchiesta presieduta provvisoriamente dal commissario più anziano, che si chiamava Giulio Andreotti, furono indette le votazioni di rito per tutte le cariche e io fui eletto presidente cominciando un lavoro della cui enormità e delle cui conseguenze non ero ancora in grado di rendermi conto. Che cosa fa una Commissione d’inchiesta? È un tribunale? Uno strumento di ricerca storica? Con quali poteri e quali limiti? Le risposte a queste e altre domande le deve dare il Parlamento che discute e approva la legge: quella è la road-map della Commissione che però ha anche poteri di intervento che la mettono nelle condizioni di agire come un giudice. Dunque una Commissione d’inchiesta che indagasse sul mondo marcio e minaccioso prospettato dal giudice Palamara dovrebbe essere equipaggiata dalla legge che la istituisce in modo tale da poter fronteggiare i nemici della Repubblica con armi legittime e adeguate, purché sia chiaro in partenza un solo principio: il primato del Parlamento su ogni altro potere, poiché in una Repubblica democratica parlamentare tutto il potere che appartiene al popolo viene delegato per intero ai rappresentanti, motivo per cui non ne avanza neanche un millimetro o un grammo. In genere a questo punto saltano fuori coloro che ripetono che i poteri sono tre, come ai tempi di Luigi XVI, del re, del clero e del Terzo Stato. Ma non è così: in una democrazia i poteri appartengono al Parlamento secondo quel manuale d’istruzioni che ne stabilisce limiti e modalità e che si chiama Costituzione, con un presidente che ha il compito di garantire la perfetta applicazione delle regole. Ma la Magistratura non è un potere, visto che i suoi “clerk”, i funzionari, sono legittimati da un concorso pubblico e avanzano secondo un sistema che nelle intenzioni era stato concepito non per privilegiare i magistrati, ma per privilegiare i cittadini affinché fossero protetti dalla minaccia di giudici non indipendenti. Ciò che già era emerso decine di volte e che adesso Palamara conferma con date, nomi e fatti, sembra certificare il contrario: una parte dei “clerk”, dei funzionari, hanno affinato poteri e privilegi abusivi con cui comandano sia sugli altri giudici che sulla politica, l’economia e l’informazione. E naturalmente su tutti i cittadini che inquisiscono e che giudicano, non sappiamo più con quali criteri. Sappiamo che questa proposta non passerà. O non passerà subito. Assisteremo a ondate di spalle scrollate e di sguardi di compatimento, a derisioni e minacce. Tutto previsto. Ma il cammino per la rigenerazione della cadaverica democrazia italiana può partire solo da lì: dal ripristino della legalità repubblicana nella magistratura, e dalla liberazione della democrazia dal tiranno. Si tratta, come ognuno può vedere, di una vera guerra di liberazione che potrà essere vinta soltanto se le parti sane della democrazia sapranno schierarsi e battersi.
Palamara ha scoperchiato la cloaca della magistratura, ma dalla Ue arriva un silenzio assordante. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 29 Gennaio 2021. Luca Palamara sembra non avere affatto la vocazione del capro espiatorio. E lo ha dimostrato con la pubblicazione del libro intervista, a firma di Alessandro Sallusti, dal titolo “Il Sistema – Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana”. Spiegando perché quello che gli viene ora addebitato non è altro che la prassi, e da decenni, di pezzi dirigenti della magistratura, che Piero Sansonetti chiama “magistratura deviata”. Oltre che di chi lo ha preceduto nella funzione di Presidente dell’ANM, il potentissimo sindacato della magistratura, e sui banchi del Consiglio Superiore della Magistratura, governato di fatto da quello che altro non è che un sindacato o una corporazione. Vedo già alcuni cominciare ad arrampicarsi sugli specchi, provando a difendere l’indifendibile. Dicendo ad esempio che Palamara non fa altro che difendersi dal processo fuori del processo. Io invece dico bravo a Palamara, per questo libro-intervista a Sallusti. Che, in attesa di un giusto processo, non toglie in nulla le sue responsabilità morali. Per le quale fu già pubblicamente stigmatizzato in modo che più duro non poteva, oltre un decennio fa, da Francesco Cossiga. Sono anche convinto che questo libro faccia parte della sua difesa, e che non avrà detto davvero tutto quello che sa. Come sono convinto che, se non fosse un magistrato detentore di chissà quali altri segreti, non gli sarebbe mai stato permesso di partecipare a tanti dibattiti mediatici, da indagato, e di pubblicare persino un libro su fatti relativi al suo processo in corso. Perché sono convinto che a un comune mortale sarebbero state immediatamente applicate le misure cautelari per «rischio di inquinamento probatorio». Ma bene ha comunque fatto Palamara a parlare pubblicamente e, pur non avendo alcuna certezza del suo sincero pentimento, mi chiedo perché si debba credere a tanti cosiddetti “pentiti” di mafia, le cui parole per troppi giornalai nazionali sono state sempre considerate oro colato, anche quando non lo erano, e non si debba dare credito a chi ha rappresentato per anni, nei fatti, il potere giudiziario, conoscendone i segreti più indicibili. E soprattutto abituato a pesare ogni parola che, sono certo, é pure in grado di documentare e provare. Ora mi aspetto che la disastrata politica nazionale trovi il coraggio e la capacità, prima di mettere mano ad una seria riforma della giustizia, di costituire una Commissione parlamentare d’inchiesta sul funzionamento della magistratura negli ultimi trent’anni (anche se qualcuno parla, non so perché, solo di vent’anni). Il Parlamento, rappresentante del popolo sovrano, deve fare chiarezza su quella che Sansonetti chiama “magistratura deviata”, e che io non esito a definire, anche per esperienza diretta sul campo, una vergogna assoluta del nostro Paese e cancro della nostra democrazia. Che non rende nessun onore ai tanti magistrati per bene (e ne conosco!) che pensano esattamente la stessa cosa. Ma che, da soli, non avranno mai alcuna voce in capitolo. Di fronte al funzionamento infernale dell’Associazione Nazionale Magistrati, spiegato nel dettaglio da Palamara, e che il Presidente Cossiga definiva pubblicamente “associazione sovversiva e di stampo mafioso”. Così come di fronte alle ragioni, spiegate nel dettaglio e documentate, oltre un decennio fa dal giornalista de l’Espresso Stefano Livadiotti (nel libro “Magistrati, Ultracasta”), per le quali non si possa sperare che sia la magistratura a riformare sé stessa. La riforma deve essere fatta infatti dal popolo sovrano, a mezzo dei suoi rappresentanti al Parlamento. Ma nel mio grande pessimismo circa la capacità e la volontà dell’attuale classe politica di mettere mano a quella che dovrebbe essere la madre di tutte le riforme nazionali, trovo scandaloso anche il silenzio assordante dell’Unione Europea. Io resto un europeista convinto. Ma mi chiedo cosa aspetti ancora l’Unione Europea ad aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per quanto, dopo la cloaca infetta scoperchiata da Palamara, neppure i ciechi sordi hanno più scuse per fare finta di non vedere e sentire. La stessa Unione Europea che si è invece giustamente mossa, rapidamente e senza remore, contro l‘Ungheria e la Polonia. Paesi che avrebbero ben ragione di sentirsi discriminati di fronte alla tiepida, se non assente, reazione di Parlamento europeo e Commissione di fronte alla vergogna emersa dal caso Palamara. Punta dell’iceberg di un problema che non si può continuare a non vedere. Nemmeno quando diluito nel sangue di tanti magistrati eroi e martiri che, magari, prima che le loro foto finissero incorniciate negli uffici di tanti sepolcri imbiancati, erano stati vittime essi stessi di quello stesso sistema oggi denunciato da Palamara, che ne è stato per anni lo zar. Il nome di Giovanni Falcone dovrebbe bastare, per chi ne conosce davvero la storia. E questa mia domanda la pongo, provocatoriamente, chiedendo di farsi avanti a chi fosse capace di dimostrarmi che non ci sono le condizioni per procedere contro l’Italia, a causa di questi pezzi della magistratura deviata denunciati prima da Cossiga ed ora da un ex presidente dell’ANM e membro del CSM, per palese violazione dello stato di diritto nel nostro paese. Allo stesso modo sfido anche qualsiasi magistrato, politico, avvocato o dirigente della polizia giudiziaria dotato di un minimo di onestà intellettuale ad avere il coraggio di smentire quanto detto pubblicamente in questo recente video di Piero Sansonetti sulla “magistratura deviata”. Oltre che giornalmente su Il Riformista. Io lo attendo. Penso che, considerata la situazione incancrenita, solo dopo un energico intervento dell’Ue o del Consiglio d’Europa la politica italiana, indipendentemente dallo schieramento, potrà sentirsi obbligata, pur senza averne né il coraggio né la capacità, a fermare il Frankestein che ha cannibalizzando la vita democratica del nostro paese. Assieme a quella di milioni di presunti colpevoli. Ma anche oltraggiato e frustrato tantissimi magistrati gentildonne e gentiluomini che, anche se privi qualunque potere effettivo contro i mandarini della casta, svolgono giornalmente il loro lavoro da autentici eroi. In un paese che si chiama Italia. E che non ha quindi la fortuna di non averne bisogno, come ricordava Bertold Brecht. Concludo pensando alla stampa. Che, assieme alla politica, è stato il complice principale – per azioni ed omissioni – di questa deriva. E mi chiedo se sia mai possibile che ci siano solo Sansonetti, Sallusti e pochissimi altri giornalisti a denunciare così chiaramente questo schifo assoluto, che è diventato un cancro che affligge da decenni il nostro Paese. Come già ricordato ai tanti che continuano a far finta di cadere dal pero, le stesse cose, prima di Sansonetti e Sallusti, le denunciava tre lustri fa un presidente della Repubblica emerito. Con quale coraggio quindi, ancora così tanti “addetti ai lavori”, della stampa, della politica e delle istituzioni fanno finta di non vedere o si girano dall’altra parte turandosi il naso, sino a che la materia melmosa contenuta nella cloaca scoperchiata da Palamara non si riversi sulle loro persone? Il libro di Palamara resta l’ultimo appello per chi si è sinora arrampicato sugli specchi del “non sapevo, e non immaginavo”. Consiglio quindi loro, ed ai troppi grilli parlanti (o travaglianti) del giustizialismo anche mediatico nostrano, di leggerselo, di riflettere e, se addetti ai lavori che “non potevano non sapere”, di vergognarsi e chiedere scusa al Paese ed alle loro famiglie. Per essere stati complici di questa cancrena istituzionale.
Le toghe del "Sistema". Storia del "sistema" che salvò Beppe Sala e bloccò Alfredo Robledo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. C’è sempre un cecchino. Tutti lo devono sapere: ogni volta che il gruppo di magistrati che costituiscono “Il sistema” decide di eliminare un avversario politico o un nemico-collega che sta fuori dal gruppo, c’è sempre qualcuno che si apposta sul tetto del palazzo di fronte e impugna un’arma. Del “sistema” ha fatto parte Luca Palamara, che lo ha denunciato nel suo libro che ne prende anche nome nel titolo, e lo racconta dal suo punto di vista di magistrato che ha occupato ruoli di potere sia al Csm che nel sindacato delle toghe. E riscrive la storia, vista dall’interno della pancia del “sistema”. Di cui la vittima più famosa è certamente Silvio Berlusconi. Ma non è il solo. E la sua vicenda non è l’unica che abbia cambiato la storia politica del Paese, o di una parte di esso. Ci sono magistrati carnefici e, a volte, anche magistrati vittime. Come è stato a Roma per due persone che hanno onorato la toga come Michele Coiro e Francesco Misiani. Magistrati di sinistra annientati, fino a morirne, dalla sinistra. Le toghe del “sistema” contro quelle fuori-sistema. È la storia che cambia la vita delle persone, e anche la politica. Prendiamo il caso che a Milano, qualche anno fa, vide contrapposti il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo. Vista da Roma, e dall’interno del Csm, la vicenda ha le sembianze di un esposto presentato da Robledo contro il suo superiore. E finirà con il cecchino che tirerà fuori da carte ormai archiviate dalla procura di Brescia alcune intercettazioni prive di rilievo penale da passare a un giornalista dell’Espresso. Il tiro andrà a segno. La stessa storia vista da Milano, ha la faccia di Beppe Sala, che probabilmente oggi non sarebbe sindaco (e nuovamente candidato), se non fosse intervenuto il “sistema” con i suoi uomini. Che si chiamano Giorgio Napolitano (presidente della repubblica), Matteo Renzi (presidente del consiglio), Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della repubblica. La distinzione tra Robledo e Bruti è solo dovuta al fatto che l’uno era (nessuno dei due indossa più la toga) un magistrato “normale”, l’altro faceva parte di quella corrente di Magistratura democratica che teorizzava come compito del giudice quello di cambiare la storia con le sentenze. Una sorta di lotta di classe in toga, insomma. Ma lo scontro tra i due non fu ideologico. Semplicemente fu sullo “stile ambrosiano”, che aveva una visione molto elastica del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Così il procuratore capo aveva tolto di mano in modo sistematico le indagini più delicate al suo vice, che aveva la delega ai reati contro la pubblica amministrazione. Dal Caso Ruby alle indagini sull’Expo, fino alla vendita di Sea, la società degli aeroporti milanesi. Accelerare o frenare, a seconda dell’interesse politico, questo era lo “stile ambrosiano”. Di questo si era lamentato Alfredo Robledo nell’esposto. Che aveva messo in difficoltà il Csm, perché era fondato. Ma il “sistema” si muove subito, fino ai suoi vertici più elevati. Interviene Giorgio Napolitano che, in quando presidente della repubblica è anche il capo dell’organo di autogoverno della magistratura. E non lascia scampo. Invia una lettera al plenum del consiglio per ricordare che il capo dell’ufficio ha diritto di assegnare i casi a chi gli pare. Chissà se intendeva anche parlare dei binari morti. Cioè quelli dove finivano i fascicoli che andavano rallentati. Sarà un caso, se il 5 agosto del 2015 il presidente del consiglio Matteo Renzi è a Milano in procura a ringraziare Bruti Liberati per la “sensibilità istituzionale” mostrata sul caso Expo? Tutto il resto, quel che era accaduto fuori dal “sistema” pareva marginale. Il fatto che il procuratore generale Minale avesse a sua volta lamentato con il consiglio giudiziario e lo stesso Csm il comportamento di Bruti Liberati e che fosse stato costretto ad avocare a sé l’inchiesta, raccogliendola dal binario morto. Il fatto che Beppe Sala, ormai candidato dalla sinistra di sistema e poi eletto sindaco, finisse poi condannato per falso e infine, di recente, salvato dalla prescrizione del reato. Tutto ciò dopo aver goduto di due anni interi di moratoria. In procura a Milano nel frattempo è subentrato Francesco Greco, successore a tutti gli effetti di chi lo aveva preceduto. A conferma della blindatura della procura di Milano da parte di Magistratura democratica, la corrente di appartenenza degli ex capi dell’ufficio Borrelli e D’Ambrosio. Proprio nel 2021 l’attuale procuratore capo di Milano compie settant’anni, l’età della pensione. E forse sarebbe anche ora di cambiare il famoso “stile ambrosiano”. Quello per esempio per cui Francesco Greco non ebbe esitazione nell’inviare al Csm una relazione contro il suo ex maestro Francesco Misiani che gli aveva chiesto qualche banale informazione sull’inchiesta milanese che riguardava il collega Squillante. Ma non ebbe neppure pudore nel proseguire la politica del binario morto, come quella delle indagini su Expo. Che, ripensando a quegli anni, non fu neanche la più grave. Ci fu la questione della vendita di una quota di Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi, che fu poi aggiudicata da F2i, la società di Vito Gamberale. Che in questa storia è forse il più innocente. Tutta Milano sapeva che quel bando doveva finire così. Ma si intromise un magistrato di Firenze, il quale inviò a Bruti Liberati un’intercettazione in cui si parlava di gara preparata su misura. L’intercettazione rimase per tre mesi nella cassaforte del procuratore capo, “dimenticata”. Quando lui se ne ricordò, ormai la gara era terminata. Dopo che un imprenditore indiano, Vinod Saha, che avrebbe offerto di più di F2i, fu fatto disperdere dai suoi accompagnatori nei meandri di Palazzo Marino (neanche fosse Versailles) fino ad arrivare a presentare la sua offerta dieci minuti dopo l’orario di scadenza. Come sarebbero andate le cose se un cecchino ingaggiato dal “sistema” e appostato al palazzo di fronte non avesse mirato su Robledo?
L'aggiunto della Procura di Roma lo denuncia. Ielo querela Palamara che lo sfida: “Mi convochi il CSM”. Paolo Comi su Il Riformista il 28 Gennaio 2021. A meno di 48 ore dall’uscita del libro Il Sistema di Luca Palamara, è già ingorgo di querele presso gli uffici giudiziari italiani. L’ultima in ordine di tempo porta la firma di Paolo Ielo, uno degli aggiunti della Procura di Roma. Per Ielo, in pista di lancio per diventare il nuovo procuratore di Milano quando a fine anno Francesco Greco andrà in pensione, alcuni episodi raccontati dall’ex presidente dell’Anm e che lo vedono coinvolto sarebbero “falsi e diffamatori”. Non si è fatta attendere la replica del diretto interessato. «Come ho già dichiarato il giorno dell’uscita del libro, tutto ciò che vi è riportato corrisponde al vero: non sono un mitomane», dichiara stizzito Palamara dopo essere stato contattato al riguardo dal Riformista. «Anzi, mi rivolgo tramite il vostro giornale – aggiunge l’ex zar delle nomine – alla Prima commissione del Csm: chiedo di essere sentito quanto prima sui fatti e circostanze riportate nel mio libro, ad iniziare proprio da ciò che concerne il dottor Paolo Ielo». «In caso fosse necessario, sono disponibile anche ad un pubblico confronto», conclude, per nulla intimorito dalle querele, Palamara. La Prima commissione del Csm si occupa di valutare i profili di “incompatibilità ambientale” delle toghe. Presidente della Commissione è la giudice Elisabetta Chinaglia, esponente della sinistra giudiziaria. Vice presidente è il professore Alessio Lanzi, laico in quota Forza Italia. Fra i componenti c’è anche il pm antimafia Nino Di Matteo. Tornando al libro, Palamara racconta che, quando era consigliere del Csm, l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone gli avrebbe caldeggiato la nomina di Ielo ad aggiunto. Nomina che poi effettivamente avvenne agli inizi del 2016. Ielo, divenuto capo del dipartimento reati contro la Pa, era stato oggetto, nella primavera del 2019, di un esposto presentato al Csm dal pm Stefano Rocco Fava. Il magistrato, conterraneo di Palamara, aveva indicato dei procedimenti in cui Ielo, e anche Pignatone, non si sarebbero astenuti pur a fronte di possibili conflitti d’interesse. Fava in quel momento stava gestendo dei fascicoli a carico degli avvocati Pietro Amara, uno dei principali protagonisti del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e avvocati finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi, e Luca Lanzalone, l’ex super consulente della sindaca Virginia Raggi, incaricato di seguire il dossier sullo stadio della A.S. Roma a Tor di Valle e presidente della Multiutility Acea. Il pm in uno di questi procedimenti aveva anche chiesto la custodia cautelare a carico di Lanzalone. Pignatone, non condividendo la gestione delle indagini da parte di Fava, le avocò a se. Dopo essere stati riassegnati al dipartimento di Ielo, quest’ultimo scrisse una nota a Pignatone, il giorno prima del suo pensionamento, in cui chiedeva di “soprassedere” sulle richieste di custodia cautelare, “ritenendo necessarie ulteriori attività istruttorie, valutando insufficiente la provvista indiziaria”.
Le polemiche dopo l'uscita de "Il Sistema". Caso Woodcock, per Cascini “è tutto inventato” ma Palamara replica: “Ho le prove”. Paolo Comi su Il Riformista il 27 Gennaio 2021. «È tutto vero. Non sono un mitomane. Gli episodi riportati nel libro sono realmente accaduti», ha dichiarato al Riformista Luca Palamara. All’indomani dell’uscita del suo libro-intervista Il Sistema sono arrivate puntuali le querele e le smentite da parte dei personaggi chiamati in causa dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Fra i primi a replicare alle “accuse” c’è l’ex aggiunto della Capitale Giuseppe Cascini, attuale consigliere del Csm ed esponente di punta della sinistra giudiziaria. Cascini viene citato nel libro a proposito del disciplinare a carico del pm napoletano Henry John Woodcock. Questa la ricostruzione di Palamara. Il 5 luglio 2018 la consiliatura del Csm sta volgendo al termine. Cascini, alla vigilia del voto per il rinnovo del Plenum di Palazzo dei Marescialli, chiama Palamara e lo avvisa che esiste una intercettazione telefonica fra Giovanni Legnini e l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. Nella telefonata il vice presidente del Csm avrebbe espresso giudizi molto pesanti nei confronti di Woodcock. Il pm napoletano, in quel momento sotto procedimento disciplinare al Csm, sarebbe intenzionato a far arrivare questa intercettazione ai giornali per dimostrare la non imparzialità di Legnini. Una mossa che metterebbe in pessima luce il vice presidente che presiede il collegio, di cui fa parte Palamara, e che a breve emetterà la sentenza. Cascini, allora, avvisa il collega che è meglio che il procedimento disciplinare si fermi. L’ex presidente dell’Anm si consulta con il suo capo, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, che gli conferma tutto. Il procedimento a carico di Woodcock, accusato di aver violato il dovere di imparzialità, correttezza e diligenza nella gestione dell’indagine Consip, in quelle settimane si stava mettendo male per il diretto interessato. L’allora procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo gli aveva contestato, in particolare, le modalità dell’interrogatorio di Filippo Vannoni, il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua. Indicato da Luigi Marroni, l’ex ad di Consip, come uno dei soggetti che lo informarono dell’indagine di Woodcock, Vannoni, dopo aver chiamato in causa anche l’allora sottosegretario Luca Lotti e i vertici dell’Arma dei carabinieri, i generali Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, sarebbe stato interrogato dal magistrato napoletano come persona informata dei fatti (senza l’assistenza di un difensore, ndr), quando invece già c’erano gli elementi per iscriverlo nel registro degli indagati, cosa che poi fecero i pm romani quando il fascicolo venne trasmesso nella Capitale per competenza territoriale. Averlo sentito come testimone senza il legale di fiducia avrebbe “leso le sue garanzie difensive”. Fu un interrogatorio molto duro disse Vannoni, con domande “pressanti” concentrate soprattutto sui suoi “rapporti con Matteo Renzi” e con minacce neppure tanto velate, come “vuole fare una vacanza a Poggioreale?” da parte di Woodcock. Le modalità dell’interrogatorio da Paese sudamericano che colpirono ed intimidirono Vannoni vennero confermate dallo stesso davanti alla sezione disciplinare del Csm. Gli operanti, i carabinieri del Noe e Woodcock smentirono, invece, la ricostruzione di Vannoni. Al termine delle udienze testimoniali Legnini era stato costretto ad intervenire parlando di “testimonianze largamente divergenti”. E a quel punto, secondo Palamara, è sceso in campo Cascini per invitarlo a stoppare il disciplinare. Quello che accadde poi è noto. Il disciplinare si fermò per riprendere solo dopo che si era insediato il nuovo Csm e quindi la nuova sezione disciplinare di cui fa ancora parte Cascini. A marzo del 2019 Woodcock verrà assolto da tutte le accuse più gravi e condannato solo per aver commentato con la giornalista di Repubblica Liana Milella l’indagine. Condanna poi cancellata in Cassazione. Il collegio era presieduto dal laico M5s Fulvio Gigliotti in quanto David Ermini si era astenuto a causa di alcune dichiarazioni su Woodcock fatte quando, nella passata legislatura, era responsabile giustizia dei dem. Cascini, contattato dal Fatto, ha affermato che è «tutto inventato, non ho mai detto nulla del genere». «Sfido Cascini a un confronto pubblico. Ho le prove di quanto scritto. Ed ho anche altre persone che possono testimoniare», la replica di Palamara. Delle due l’una: o mente Palamara o mente Cascini. Non ci sono molte alternative.
LA PRECISAZIONE DI GIOVANNI LEGNINI. Gentile direttore, con riferimento alle dichiarazioni del dottor Palamara riportate ieri dalla sua testata, ho il dovere di precisare che non sono mai stato “sotto ricatto” sulla vicenda disciplinare che ha interessato il dottor Woodcock, come riporta il titolo dell’articolo. Nel corso dell’occasionale incontro con l’on. Pomicino non ho mai espresso “giudizi negativi e anticipatori della sentenza su Woodcock“, come dichiarato dal dottor Palamara. Nell’intercettazione, nota da tempo e che riguarda un dialogo tra l’on. Pomicino e un altro soggetto, della quale nel passato altri organi di informazione hanno dato notizia, non c’è traccia di quanto asserito dal dottor Palamara. Smentisco la ricostruzione fatta da quest’ultimo, e tengo in modo particolare a precisare che la notizia di quella intercettazione, che non mi riguardava se non indirettamente, non condizionò mai in alcun modo la mia funzione di giudice disciplinare. Il processo disciplinare a carico del dottor Woodcock fu differito, in accoglimento dell’istanza della sua difesa, perché il Consiglio era in scadenza ed erano già stati eletti i nuovi componenti del Csm; l’intero collegio disciplinare, di cui Palamara era componente, decise pertanto di rinviare il processo al nuovo Consiglio, che successivamente, come è noto, si pronunciò sulla vicenda. Tralasciando ogni altra considerazione sulle affermazioni del dott. Palamara, sulle quali mi riservo ogni ulteriore iniziativa, intendo chiarire definitivamente che ho sempre svolto con imparzialità, serenità ed in piena libertà la funzione giurisdizionale propria della Sezione disciplinare.
Il magistrato scomodo cacciato dalla mailing list. Anm contro il Pg Lima: aveva criticato correnti e spartizioni in magistratura. Paolo Comi su Il Riformista il 26 Gennaio 2021. “Bannato” dalla mailing list dei magistrati. Dopo l’ennesimo post ritenuto sopra le righe, è partita la richiesta al presidente dell’Associazione nazionale magistrati e a tutti i componenti della Giunta esecutiva centrale dell’Anm di contenere l’irruenza digitale di Felice Lima, sostituto procuratore generale a Messina. Dopo lo scoppio del Palamaragate la mailing list dell’Anm, che non ha un moderatore, è il terreno di scontro preferito fra le toghe. Da un capo all’altro dell’Italia in questi mesi i magistrati hanno infatti utilizzato la mailing list come “sfogatoio” per commentare quanto stava accadendo. In questa battaglia 2.0 Lima è stato certamente uno dei principali protagonisti. Al vetriolo molti dei suoi post contro la degenerazione del correntismo e contro il sistema spartitorio degli incarichi al Csm. Critiche che, evidentemente, devono aver dato fastidio a diversi colleghi orfani del “Sistema” Palamara e che desiderano quanto prima un ripristino dello status quo ante cena all’hotel Champagne di maggio del 2019. Personaggio scomodo, Lima era stato anche bocciato recentemente per far parte del collegio dei probiviri dell’Anm che dovrà analizzare le chat di tutti i magistrati che avevano chiesto una raccomandazione a Palamara. Il suo nome era stato fatto da Articolo 101, il gruppo nato in contrapposizione alle correnti tradizionali della magistratura. Contro la candidatura di Lima pesò un precedente disciplinare risalente ai tempi delle indagini sulle stragi di mafia, tirato fuori al momento della votazione finale. Il giudice Andrea Reale, esponente di punta di Articolo 101 ed ora componente della Giunta dell’Anm, dopo aver criticato la decisione dell’Anm di estromettere Lima, non ha usato mezzi termini per commentare la richiesta di estromettere il sostituto pg messinese dalla mailing list. «È un bavaglio, si vuole silenziare il dissenso», ha detto Reale, ricordando un “successo” degli ultimi giorni ottenuto proprio grazie alla mailing list delle toghe. La vicenda riguarda il giudice Gabriella Nuzzi, coinvolta all’epoca nello scontro fra le Procure di Catanzaro e Salerno. Dopo essere stata allontanata da Salerno, la magistrata aveva fatto rientro nella sua città, Napoli, ed era diventata affidataria dei Mot, i neo magistrati. Lo scorso anno aveva rinunciato alla candidatura all’Anm in dissenso con la posizione sul Palamaragate del gruppo di Area, il cartello progressista che l’aveva proposta. A dicembre, con i voti dei togati di Area, il Csm non gli aveva rinnovato l’incarico di affidataria dei Mot. Una “rappresaglia” avevano scritto i colleghi sulla mailing list. Il Csm, a furor di popolo, aveva poi annullato la delibera.
Palamaragate. La Guardia di Finanza intercettò illegalmente Palamara: ma a indagare fu… la Guardia di Finanza. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. Chi ha svolto le indagini sulle modalità di utilizzo da parte del Gico della guardia di finanza del “trojan” inserito nel telefono di Luca Palamara? Lo stesso Gico della guardia di finanza. La circostanza, a dir poco sorprendente, emerge dalla lettura del fascicolo aperto dai pm della Capitale a seguito della denuncia del giudice Cosimo Ferri, attuale parlamentare di Italia viva e già esponente di punta di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe. Ferri, esploso a maggio del 2019 lo scandalo sulle nomine al Csm, aveva presentato agli inizi del successivo mese di ottobre una denuncia in cui rappresentava come il Gico della guardia di finanza di Roma, delegato dai pm di Perugia che stavano indagando Palamara per corruzione, avesse violato le proprie prerogative di parlamentare della Repubblica. In particolare Ferri aveva evidenziato molte “irregolarità” nelle captazioni effettuate con il trojan inserito nel telefono di Palamara da parte del Gico, il reparto investigativo d’eccellenza della guardia di finanza, all’epoca diretto dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, uno degli ufficiali di fiducia dell’allora procuratore Giuseppe Pignatone. La più evidente di queste irregolarità, rappresentò Ferri, era che il Gico non avesse spento il captatore informatico quando, insieme a Luca Lotti, aveva incontrato Palamara e altri magistrati nell’ormai celebre dopo cena all’hotel Champagne di Roma. Tale registrazione sarebbe avvenuta in contrasto con il dettato costituzionale che prevede la preventiva autorizzazione da parte della Camera di appartenenza del parlamentare. Gli inquirenti hanno sempre giustificato la registrazione dicendo che l’incontro era “casuale”. Ferri, invece, aveva ribadito il contrario, affermando che questo appuntamento era stato programmato da tempo. Ferri aveva portato come prova il fatto che il Gico era già a conoscenza di questo incontro avendo ascoltato diverse ore prima una telefonata in cui Palamara confermava l’appuntamento serale all’albergo con i due deputati a un collega, il pm Luigi Spina. La delega al Gico di fare indagini sulla correttezza del proprio operato venne data dalla pm Rosalia Affinito. La dottoressa Affinito è un personaggio chiave nella vicenda Palamara. E qui si torna alla primavera del 2019. In quel periodo alla Procura di Roma erano convinti da tempo che l’attività di “dossieraggio” contro il procuratore Giuseppe Pignatone fosse opera di Palamara. L’episodio venne raccontato direttamente dall’ex presidente dell’Anm durante un suo interrogatorio davanti ai pm di Perugia il 31 maggio di quell’anno. Stefano Rocco Fava, l’autore dell’esposto contro Pignatone al Csm, secondo i colleghi di piazzale Clodio, sarebbe stato una pedina nelle mani dell’ex zar delle nomine. «Una cosa che mi colpì molto fu il fatto che una collega che stimo molto, Lia Affinito, mi venne riferito che in un colloquio avuto con Stefano (Fava, ndr) ebbe a dirgli che in ufficio si sapeva che dietro di lui c’ero io», disse Palamara. Questa informazione Lia Affinito l’avrebbe avuta direttamente dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, capo del dipartimento in cui lavorava Fava. Un fatto che aveva stupito molto Palamara, il quale disse anche di essere rimasto «sorpreso che i fascicoli tolti a Fava (da Pignatone, ndr) erano stati assegnati alla stessa Affinito». Fava, a proposito dell’esposto da lui presentato per asserite mancate astensioni in alcuni procedimenti da parte di Pignatone, ha invece più volte dichiarato, al momento senza successo, che si trattò di una sua iniziativa autonoma senza alcun condizionamento esterno. Tornando al fascicolo sulla denuncia presentata da Ferri, l’assegnazione alla dottoressa Affinito venne fatta direttamente dall’allora procuratore facente funzione Michele Prestipino, adesso numero uno della Procura romana. Gli accertamenti durano un anno al termine del quale, il 7 ottobre dello scorso anno, la pm ha presentato richiesta di archiviazione, senza mai aver iscritto alcun finanziere del Gico nel registro degli indagati. Si è ora in attesa della decisione del gip.
Al Csm la crisi di governo tocca i casi di Maresca e Manzione. Errico Novi su Il Dubbio il 17 gennaio 2021. Il Csm ha congelato le nomine dei due magistrati perché uno è stato sottosegretario nel governo Letta e l’altro potrebbe candidarsi a sindaco di Napoli. Possibile che lo strappo di Renzi faccia sentire i propri riverberi al Csm? Certo è che la più aspra contesa vissuta in tempi recenti a Palazzo dei Marescialli riguarda proprio la nomina a procuratore di Lucca di un magistrato, Domenico Manzione, congelata, giovedì scorso, a causa del suo pregresso mandato da sottosegretario nel governo Letta, ma soprattutto per la sua amicizia col leader di Iv. La pratica su Lucca è tornata in quinta commissione, per un nuovo esame, come sollecitato dalla togata che era relatrice del dossier, Loredana Micciché di Magistratura indipendente. «Non c’è nulla di male a essere amici di un politico, ma la dichiarazione esplicita di essere stato nominato sottosegretario nel governo Letta per i rapporti con il senatore Renzi, nel corso di una intervista a Report diventata di dominio pubblico, non mi consente di sostenere questa nomina», ha detto in plenum Micciché. La dichiarazione, per la consigliera, influisce sulla «percezione di imparzialità e indipendenza, requisiti fondamentali per un procuratore della Repubblica in Toscana dove Renzi è esponente politico di grande rilievo». Tra i 5 che hanno inutilmente votato contro il ritorno in commissione c’è stato Giuseppe Cascini. Che ha rovesciato sul tavolo un caso sul quale il Csm si appresterebbe, ha detto, ad assumere un atteggiamento diverso. «Sul rapporto tra magistratura politica, si chiede di applicare per il dottor Manzione una disposizione di sfavore che non esiste, ma la prima commissione ha deciso di non occuparsi di un’altra vicenda», per Cascini analoga: quella di Catello Maresca, in servizio presso la Procura generale di Napoli e probabile candidato sindaco del centrodestra nel capoluogo campano. Cascini sarebbe per dare corso alla segnalazione arrivata al Csm da parte dell’attuale capo di Maresca, Luigi Riello. La prima commissone di piazza Indipendenza ha chiesto di archiviare la pratica innescata dal pg. Ma dopo le polemiche su Manzione, non si può escludere che gli equilibri cambino nel plenum, che si pronuncerà su Maresca a breve. Scosse che sarà pure improprio ricollegare al terremoto Renzi. Ma certo la tentazione è forte.
Il Pm Racanelli non piaceva a Pignatone: trasferito. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. Vogliono “inculare il povero Racanelli”, disse – profetico – Cosimo Ferri, alla presenza del dem Luca Lotti, a Luca Palamara il 21 maggio del 2019. Il destino di Angelantonio Racanelli, procuratore aggiunto a Roma ed ex segretario generale di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, era segnato da tempo. Nessuna sorpresa, dunque, sulla decisione di questi giorni da parte del Consiglio superiore della magistratura di aprire una pratica per il suo trasferimento d’ufficio. Il trasferimento sarebbe motivato da una presunta “incompatibilità ambientale”. Intercettato con l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati per mezzo del famigerato trojan, Racanelli si era lasciato andare ad alcuni commenti sulla nomina del nuovo procuratore di Roma e sull’esposto che era stato presentato dal pm romano Stefano Rocco Fava contro Giuseppe Pignatone. Fava, a marzo del 2019, aveva segnalato al Csm delle presunte mancate astensioni in alcuni fascicoli da parte del suo ex capo. Racanelli, che prima di diventare procuratore aggiunto era stato al Csm come Palamara, aveva espresso il suo parere al riguardo. Per il Csm queste conversazioni sarebbero sufficienti a giustificare il trasferimento di sede di Racanelli. La proposta di archiviare la pratica, infatti, è stata respinta in settimana anche se a carico dell’aggiunto romano “non ci sono esposti e denunce” e l’ultimo parere professionale contiene ottimi giudizi, descrivendolo come un magistrato dalle “indiscusse capacità di guida e motivazione dei colleghi” che gode di “grande prestigio e ottimi rapporti con il foro ed il personale”. Racanelli, come disse Ferri, ora deputato di Italia viva ma per anni leader indiscusso proprio di Magistratura indipendente, era da diverso tempo under fire a piazzale Clodio. Pignatone infatti, dopo essere andato in pensione nominato da papa Francesco presidente del Tribunale pontificio, secondo Palamara, “non voleva Racanelli ma insisteva pesantemente per Ielo (Paolo, ndr) e Sabelli (Rodolfo, ndr)”. Concetto che sempre Palamara aveva ribadito anche a un suo amico, tale Edo. «Pignatone mi aveva chiesto sempre due aggiunti (..) Paolo Ielo e Rodolfo», disse Palamara. «Me lo ricordo …e li hai sostenuti in questo», gli rispose Edo. Palamara, da zar delle nomine ricorda bene cosa era successo e cosa aveva fatto: «Li ho sostenuti ….cioè Paolo Ielo … Rodolfo……Cascini (Giuseppe, ndr)…..tutti….tutto ciò che è stato chiesto l’ho fatto…». Per poi aggiungere: «…il problema era che quando io parlavo con Pignatone… Pignatone voleva come successione Lo Voi (Francesco, attuale procuratore di Palermo, ndr) e Prestipino (Michele, all’epoca procuratore aggiunto a Roma e poi nominato procuratore di Roma , ndr) a Palermo». Una sorta di staffetta. Ielo, Sabelli e Cascini le cui nomine a procuratore aggiunto, secondo Palamara sarebbero quindi state “pesantemente” caldeggiate da Pignatone, che non avrebbe invece gradito Racanelli, verso la metà del mese di maggio del 2018 erano stati i magistrati firmatari dell’informativa a Perugia a carico di Palamara. Informativa da cui era poi nata l’indagine che, fra gli effetti, ha avuto quello di far saltare la nomina di Marcello Viola (procuratore generale a Firenze) a procuratore di Roma a favore proprio di Prestipino.
Il Csm “condanna” Lupacchini: l’ex pg aveva «denigrato» Gratteri. Il Dubbio il 16 giugno 2021. La sezione disciplinare del Csm infligge a Otello Lupacchini la sanzione della perdita di anzianità di 3 mesi, disponendo il trasferimento d’ufficio nella sede e nelle funzioni già disposte nel provvedimento cautelare. Condanna alla sanzione della perdita di anzianità di tre mesi e conferma del trasferimento d’ufficio a Torino. E quanto ha deciso la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura per l’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, sotto processo con l’accusa, tra l’altro, di avere denigrato e delegittimato il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, per alcune dichiarazioni, rilasciate durante un’intervista televisiva, sull’operazione anti ’ndrangheta "Rinascita-Scott". Il collegio, dopo due ore di camera di consiglio, ha inflitto a Lupacchini una sanzione superiore a quella sollecitata dalla procura generale della Cassazione, che aveva chiesto la censura. L’ex pg di Catanzaro è stato invece assolto l’altro capo di incolpazione, relativo al fatto di avere postato su Facebook una petizione a favore di Eugenio Facciolla, procuratore di Castrovillari, poi trasferito dal Csm a seguito di un’indagine della Procura di Salerno, che conteneva espressioni ritenute denigratorie nei confronti del Consiglio.
Parla l'ex pg di Catanzaro. “Vi racconto il mio calvario”, la verità di Lupacchini il procuratore condannato dal Csm per aver criticato Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Giugno 2021. «Non avranno pace». Giornata particolare, quella di lunedì scorso, per Otello Lupacchini, ex procuratore generale di Catanzaro, davanti alla commissione disciplinare del Csm. Impegnativa per lui, uno dei magistrati più competenti e colti d’Italia, per il quale parlano 40 anni di rispettabile e brillante carriera, costretto a giustificare quattro parole di un’intervista, in un mondo in cui tante toghe parlano e straparlano, garantendosi l’impunità. Ma giornata non di tutto risposo neppure per chi lo accusa e per chi lo giudica. Con una severità che rende il suo un caso unico. I magistrati possono picchiare la moglie, molestare le colleghe, essere incapaci e incompetenti, dimenticare documenti in cassaforte o tralasciare elementi di prova in favore degli imputati. Possono anche dire che rivolteranno l’Italia come un calzino o demoliranno la Calabria per ricostruirla come un Lego. Possono andare in trasmissioni televisive a lanciare sospetti di collusione mafiosa su nomine o mancate nomine di competenza del Ministro. E parlare, parlare, parlare. Solo al procuratore Lupacchini non è consentito. E soprattutto non è consentito se vieni preso di mira da un intoccabile. Allora sei colpevole di lesa maestà nei confronti dell’intoccabile e di conseguenza del prestigio dell’intera magistratura. Così, davanti alla prima commissione, lui parte deciso, con una domanda retorica ma efficace. «Sono io a vulnerare il prestigio e l’onore dell’Ordine giudiziario con i comportamenti dedotti in incolpazione, cioè denunciando pubblicamente le condotte anomale, già portate a conoscenza, oltre a tutto in epoca non sospetta, di codesto Consiglio e degli organi disciplinari poste in essere dalla mia asserita "vittima", il Procuratore distrettuale di Catanzaro, dottor Nicola Gratteri, o quell’onore e quel prestigio viene costantemente violato proprio da chi se ne atteggia da custode e vindice?». Certo, sono sotto gli occhi di tutti i passi falsi delle inchieste del Procuratore di Catanzaro e le bacchettate che ogni giorno ha ricevuto da giudici di diverso livello. Ed è umiliante per una magistratura oggi già in ginocchio che ne esca come “condannato” (il dottor Lupacchini in agosto compie 70 anni e andrà in pensione) chi ne ha tenuta sempre alta la reputazione osservando le regole, mentre altri sono addirittura intoccabili. Lui non ha neanche tanta voglia di continuare a nominarlo, il procuratore capo di Catanzaro. Preferisce considerare quella di lunedì solo “la prima di tante altre giornate”. Perché non molla. La commissione disciplinare del Csm lo ha ascoltato per due ore e mezza, e poi il suo difensore Ivano Iai, che ha ricordato, giurisprudenza alla mano, quanti magistrati sono stati assolti pur dopo aver criticato in modo feroce i provvedimenti di colleghi. E poi ancora quaranta minuti del magistrato incolpato, dopo che il procuratore generale aveva voluto replicare. Fatica un po’ sprecata, se non fosse che tutto rimane agli atti, perché forte è la sensazione che, quanto meno nella testa dei presenti, tutto fosse già chiaro e deciso. «Avevano una gran fretta di andare in camera di consiglio», non può che constatarlo l’ “imputato”. Che non si ferma, anche se constata davanti alla Commissione che «nella vita talvolta è necessario saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza», sine spe nec metu. Ma che cosa paga, dottor Lupacchini, in realtà? Non mi dica che aver definito un certo tipo di inchieste come alcune condotte dal procuratore Gratteri, "evanescenti come ombra lunatica", può comportare l’essere trasferito a mille chilometri di distanza e degradato a semplice sostituto dopo esser stato Procuratore generale? Pago il non esser stato “così”, risponde. Così come? Non essere uno dei tanti personaggi cui tutto è consentito, e non si sa bene perché. Lunedì mi hanno dimostrato che non potevano avere spazio persone che non frequentino spioni salvati dal segreto di Stato, persone che non frequentino giornalisti con profumo di ricatto o ufficiali felloni. Persone che non frequentino truogoli dove si muovono ambigui personaggi della finanza o della politica. Non c’è spazio per uno come me in un mondo di incapaci, ma capaci di tutto. Il ritratto è molto chiaro, con la ciliegina sulla torta: blatero de omnibus, ma senza capire nulla. Di che cosa per esempio blatera, questo personaggio virtuale, visto che quello vero non lo vogliamo nominare? Può minacciare giudici, dicendo che prima o poi si scopriranno le loro marachelle, può mandare messaggi traversi…. Certo, Otello Lupacchini appartiene a un altro mondo, a un’altra storia. Forse sono io ad aver sbagliato tutto, dice senza crederci. Sono entrato in magistratura quando i miei colleghi erano persone colte, persone per bene, alcune poi ammazzate come cani, come Galli e Alessandrini, o in strani incidenti d’auto, come capitato in Sicilia. Non mi ritrovo in questo clima di volontà di potenza, di politicanti che si parlano nella tromba delle scale…Un momento, dottor Lupacchini, di chi parla? Di un magistrato di grande spessore (ridacchia, ndr) che voleva garantirci la sua presenza fino a cento anni. Del resto dottor sottile vuol dire che è sottile, no? Beh, dottor Lupacchini, c’è chi fa incontri nella tromba delle scale e chi, come Luca Palamara, ha avuto il coraggio di scrivere con Alessandro Sallusti un libro in cui disvela il Sistema. Anche se ha “dimenticato” un certo episodio di cui è stato protagonista lui stesso con Nicola Gratteri e di riflesso anche lei. Parliamo del 2018, di quella volta in cui lei e Gratteri eravate tutti e due convocati presso la prima commissione del Csm, lei il giorno prima e il suo sottoposto in quello successivo. E i due si sono incontrati al bar “Il cigno”, su insistenza del procuratore di Catanzaro, alle otto del mattino, proprio prima della sua audizione. Certamente per parlare delle buche di Roma, sospira Lupacchini. Del resto, aggiunge, Palamara è astuto, sa con chi non ci si può scontrare. Anche se non faceva parte di quella commissione, era comunque un personaggio molto importante del Csm. Chissà che fretta aveva Gratteri di incontrarlo proprio dopo la mia deposizione e prima della sua. E chissà perché non se ne parla nel libro, possiamo aggiungere. Ed è anche strano -visto che della conoscenza tra i due comunque nel Sistema si accenna- che il procuratore di Catanzaro si sia affrettato, dopo l’esplosione del caso dell’ex presidente della Anm, a prenderne le distanze come se i due non si fossero mai visti. Altre storie, altre generazioni. Uno come Lupacchini non avrebbe mai definito se stesso, né nessun altro magistrato, come “il derattizzatore della Calabria”. Il Gratteri pensiero. Su cui Lupacchini ha le idee chiare. Parliamo di quello che scarica sempre su altri, non fa nomi ma getta sospetti su tutti, pur con “il suo eloquio involuto”, quello che si lamenta se i giornalisti non danno sufficiente risalto ai suoi blitz, quello che pubblica un libro ogni sei mesi per essere sempre sulla cresta dell’onda. In una terra dove qualcuno ha addirittura messo un cartello di benvenuto a Lamezia Terme con la pubblicità del processo “Rinascita Scott”, quello che ha già subìto una serie di contraccolpi da giudici di vario livello, ma che rimane il fiore all’occhiello del procuratore Gratteri, il processo con cui vuole diventare più famoso di Giovanni Falcone. Per Otello Lupacchini quel cartello fa semplicemente parte del culto della personalità: est modus in rebus, è il suo unico commento. L’opinione sconsolata di un magistrato decisamente diverso, altro stile. E anche successi. Come li ha raggiunti? Io mi sono limitato ad applicare le regole, dice. Perché il garantismo non è una malattia venerea, è solo applicazione delle regole. E dal 1974 e fino al 2020, con le leggi speciali prima sul terrorismo, poi sulla mafia e infine sulla corruzione, si mostra disprezzo nei confronti delle regole compatibili con il giusto processo, con diversi articoli della Costituzione (2, 3, 24, 25, 27) e anche della normativa europea. Certo, è responsabilità del legislatore. Ma la storia, anche quella di questi giorni, ci ha insegnato a conoscere anche quella dei magistrati. E purtroppo di quelli come Otello Lupacchini, ne sono rimasti ben pochi.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il monito dell'ex pg di Catanzaro. Storia di Lupacchini, magistrato con una carriera eccezionale finito in disgrazia dopo aver criticato Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Aprile 2021. Forse ci vorrebbe uno come Otello Lupacchini, invece di Nicola Gratteri, a Milano. Anche se il posto di Francesco Greco, che tra pochi mesi andrà in pensione, forse per lui sarebbe poca cosa, visto che, fino a che non è stato cacciato, occupava un ruolo di livello superiore, quello di procuratore generale a Catanzaro. Del resto, basta sentirlo parlare, come è accaduto nella seduta del 26 marzo davanti alla commissione disciplinare del Csm, per capire che, sul piano della competenza ma anche della cultura, di magistrati come Otello Lupacchini ormai non ce ne sono quasi più. Erano quelli che non dormivano la notte se dovevano chiedere o decidere di mandare qualcuno in cella o emettere una sentenza di condanna. Non c’era bisogno dell’uso del trojan per sapere che le toghe di quella tempra non passavano il tempo a brigare per la carriera o a chiedere privilegi vaccinatori. Per questo non c’è da stupirsi se, ascoltando a Radio radicale la seduta della commissione disciplinare del Csm sulle due “incolpazioni” di cui deve rispondere l’ex Pg di Catanzaro, si sente una certa insofferenza di coloro che sono chiamati a giudicarlo. Lui cerca di ricordare (senza bisogno di gridare “lei non sa chi sono io”, ma ci starebbe bene) di aver svolto il suo lavoro sempre con serietà ed equilibrio, mentre è stato trattato, solo per aver osato avanzare critiche nei confronti di certi comportamenti (in particolare quelli omissivi) del procuratore Gratteri, come una specie di “protettore dei masso-mafiosi”. Il tono mellifluo del consigliere Fulvio Gigliotti, membro laico in quota Cinque stelle del Csm, che presiede la commissione, lo interrompe continuamente, cerca di fargli perdere il filo, richiamandolo al tema. Le incolpazioni sono due, e non paiono così distanti dal problema dell’ immagine che del magistrato è stata data e che spetta a lui (o a chi altri?) riportare sul corretto binario. Otello Lupacchini è accusato di aver criticato l’inchiesta “Rinascita Scott” del 19 dicembre 2019 del procuratore Gratteri, quella messa in discussione prima di tutto da diversi giudici che avevano immediatamente ridimensionato i 334 arresti. In un’intervista al TGcom24 l’alto magistrato aveva osservato che “per quanto concerne l’operazione, sebbene questo possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato sulla stampa, in quanto vi è la buona abitudine da parte della Procura distrettuale di Catanzaro di saltare tutte le regole di coordinamento e collegamento con la Procura generale”. Parole gravi? Certo. Tanto più che il dottor Lupacchini era stato intervistato soprattutto come esperto di grande criminalità, sia come giudice che come pubblico ministero, e in tale veste non aveva potuto non notare l’”evanescenza” nell’impostazione di certe inchieste. Termine usato spesso, come ricordato nell’audizione, dalle sentenze di Cassazione quando si tirano le orecchie a certi provvedimenti. Parole che avrebbero dovuto allertare il ministro Bonafede e il procuratore generale Salvi a mettere gli occhi su quel che stava combinando il procuratore Gratteri. E’ accaduto il contrario. Hanno messo le manette a Lupacchini. Le manette a uno (ce ne fossero tanti di procuratori che parlano così!) che dice del proprio ruolo di inquirente, che non è quello di “derattizzatore” . Non è chiamato a fare pulizia, ma a fare giustizia. Ma non piace. Non piace che lui ricordi “superior stabat lupus” e dica che i lupi che nel passato amavano ululare oggi hanno mezzi più sofisticati per colpire. La maestra gli rimprovera di essere fuori tema. Come se nel corso del processo all’imputato venisse tagliata la lingua. Così tocca all’avvocato Ivano Iai fare il punto sulla seconda incolpazione di cui deve rispondere il suo assistito, quello di aver postato sul proprio profilo Facebook il testo di una petizione, sottoscritta da cinquemila persone, in favore del procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, trasferito dal Csm al tribunale civile di Potenza. Sono tanti i testimoni che andrebbero sentiti dalla commissione disciplinare per valutare se l’equilibrio di un magistrato si valuta dalla sua capacità di “derattizzare” o da ben altro. Il rappresentante della procura generale Marco Dall’Olio, esponente di Magistratura democratica, chiede che ogni richiesta dell’avvocato Iai venga respinta. La tenaglia sta per scattare. Dalla strage di testimoni si salva solo Paolo Liguori, il direttore di TGcom24, che verrà sentito nella seduta del prossimo 13 maggio.
Al Csm dicevano: “Gratteri è pazzo”, ora processano Lupacchini. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. L’ex procuratore generale di Catanzaro ieri a Roma “processato” in sede disciplinare dal Csm, il procuratore capo due giorni fa a Lamezia incensato dalle telecamere al suo Maxi. Destini incrociati e opposti quelli di Otello Lupacchini, ex procuratore generale di Catanzaro, e Nicola Gratteri, attuale capo della procura della stessa città. Si erano annusati e subito respinti come due poli incompatibili. Ieri uno davanti a quella commissione disciplinare del Csm che ai suoi occhi non è nulla di meno che un plotone d’esecuzione, l’altro il giorno prima con la ruota del pavone e l’elicottero della polizia a proteggerlo dall’alto, a inaugurare l’aula-bunker dove si celebra il maxi-processo che dovrà renderlo famoso. Ancora di più, sempre di più. Se c’è un destino ingiusto, è quello che sta vivendo il magistrato Otello Lupacchini, uomo colto e raffinato come pochi, procuratore equilibrato e lungimirante, che si ritrova a esser processato in sede disciplinare dal Csm, dopo esser entrato in conflitto con Nicola Gratteri, uno che accetta (con qualche ragione) di esser definito “ignorante”, ma che è molto attivo come “lottatore”. Come se quello di combattere i fenomeni sociali o criminali fosse compito di un pubblico ministero e non delle forze di polizia. Ma sono sottigliezze che non possono albergare nella vita super-impegnata del dottor Gratteri. Ci sono varie questioni da chiarire, nelle vite incrociate dei due alti magistrati. Prima di tutto il Csm come istituzione è in debito nei confronti del dottor Lupacchini, perché negli anni scorsi quando nella veste di procuratore generale segnalava all’organo di autogoverno della magistratura, così come al ministro di giustizia e al procuratore generale della cassazione i comportamenti omissivi ed autoreferenziali del dottor Gratteri, faceva orecchi da mercante. E non si è mosso fino a che lo stesso procuratore capo di Catanzaro non ha inoltrato analoga e opposta protesta nei confronti del proprio superiore gerarchico. Come se fosse normale il fatto che all’interno di un distretto giudiziario si facessero blitz, si aprissero inchieste con centinaia di indagati, si scrivessero quindicimila pagine di accuse, si andasse in televisione a dichiarare che si sta smontando la Calabria come una costruzione Lego, senza mai informare il procuratore generale. Cioè la massima autorità degli uffici dell’accusa. Ma come funzionava quel Consiglio superiore della magistratura degli anni scorsi? Ci si occupava solo ciascuno della propria e altrui carriera per gli avanzamenti o qualcuno sapeva anche valutare la differenza tra un magistrato che svolgeva con competenza il proprio lavoro e altri che usavano come metodo la pesca a strascico, salvo essere poi sconfessati dal tribunale del riesame piuttosto che dalla cassazione? Fatto sta che alla fine del 2019, dopo che aveva definito “evanescenze” certi blitz del procuratore Gratteri, il dottor Lupacchini subiva un trasferimento cautelare da Catanzaro a Torino, con degradazione da capo a semplice sostituto del procuratore generale. E questo accadeva mentre lo stesso Luca Palamara, che aveva votato quel trasferimento, definiva Gratteri “un pazzo” da fermare. Ma questo lo si saprà solo dopo che saranno rese pubbliche tutte le chat, captate dal trojan, che l’ex capo del sindacato dei magistrati scambiava con i suoi amici e colleghi. I giornali e i siti calabresi si sono sbizzarriti a lungo su queste conversazioni nei mesi scorsi, quando tutte le conversazioni sono diventate pubbliche. Si riportano le dichiarazioni di Gratteri che sostiene di sapere che ci sono in Calabria almeno 400 magistrati corrotti. E Palamara che chiacchierava con il suo collega del Csm Massimo Forciniti e diceva: «Purtroppo è un matto vero… Però va fermato, non può continuare così». E quando parla con il procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, Palamara gli gira l’articolo con le dichiarazioni di Gratteri commentando: «Le solite cazzate, sta diventando patetico». Questo era il quadro che aveva portato Otello Lupacchini come incolpato davanti al Csm e a quella prima commissione che lo ha spedito a mille chilometri di distanza a prendere ordini da qualcuno che era stato suo pari fino a poco prima. Se il procuratore Gratteri era considerato dagli stessi componenti del Csm come un pazzo che andava fermato, perché imputare al dottor Lupacchini il fatto di aver definito “evanescenti” delle inchieste che spesso venivano poi sconfessate (come accaduto di recente con il processo “Nemea”) in sede giudicante? Certo l’ex procuratore generale aveva anche ospitato sulla propria pagina Facebook un appello perché un altro suo collega calabrese, trasferito dal Csm, fosse reintegrato al suo ruolo precedente, e qualche membro del Csm si era “offeso”. Ma siamo all’Asilo Mariuccia, come si dice a Milano? Cioè, i magistrati del Csm sono adulti o bambini che mettono il broncio? Ed è o no una provocazione il fatto di ritrovarsi poi giudicati, sia per il trasferimento che per l’azione disciplinare, davanti a quegli stessi colleghi che si erano offesi o ai loro compagni di banco con cui spesso si dividono vacanze e merende?
Per capire quel che è successo in seguito, basterebbe ricordare quei due giorni nuvolosi ma non troppo caldi del 2018, il 25 e il 26 luglio. Siamo a Roma, il Csm si è finalmente svegliato dal torpore e si è deciso a estrarre dal cassetto tutte le segnalazioni del dottor Lupacchini nei confronti del procuratore Gratteri. Sono fissate due audizioni riservate e separate. Il primo giorno Lupacchini dalle 14 alle 15, l’indomani Gratteri dalle 11,40 alle 12,35. Ci sono un po’ di ore di distanza tra l’una e l’altra, e il procuratore “più scortato d’Italia” pensa bene di farle fruttare. Cioè di cogliere l’occasione del viaggio a Roma per salutare un vecchio amico, anche lui calabrese. Casualmente il “vecchio amico” si chiama Luca Palamara, e casualmente è membro del Csm. Il procuratore lo cerca, l’altro in un primo momento non risponde. Poi, dopo uno scambio di messaggi, i due concordano di vedersi la mattina dopo, alle 8,10 al bar “Il Cigno” di viale Parioli. Cioè dopo l’audizione di Lupacchini, ma prima di quella di Gratteri. Tutto documentato, e tutto casuale, ovviamente. Non risulta che il dottor Palamara abbia mai chiesto al sindaco di Roma di provvedere con un Tso a far curare il “matto” e neanche che il Csm abbia aperto una pratica che lo riguardasse. Risulta solo che si sia invece solo infierito su un magistrato per bene come Otello Lupacchini, colpevole solo di essersi bruciato le dita, e la carriera, per aver detto piccole cose, rispetto a quelle più gravi che si scambiavano al telefono i membri dello stesso Csm che lo ha inquisito e scacciato. Ah, dottor Palamara, quando sono state rese pubbliche le sue opinioni su di lui, il procuratore Gratteri avrebbe detto, secondo il quotidiano calabrese online Iacchitè: «Io e Palamara non siamo mai stati amici». Quindi, quell’incontro del 26 luglio 2018 non era proprio una rimpatriata tra conterranei, giusto?
Csm, 100 toghe nel mirino per le chat con Palamara. Al vaglio del consiglio le posizioni dei magistrati vicini all'ex pm. Lo scontro tra le correnti. Anna Maria Greco, Giovedì 14/01/2021 su Il Giornale. Cento magistrati a rischio trasferimento d'ufficio, forse più, per le chat con Luca Palamara su incarichi, nomine e traffici vari. Il Csm in plenum affronta i primi 3 casi, con altrettante proposte d'archiviazione, quelli che indicheranno le linee guida anche per gli altri. Ed è subito bagarre, con Nino di Matteo e le toghe di sinistra che si oppongono all'archiviazione per l'ex segretario di Magistratura indipendente Antonello Racanelli e anche alla nomina a procuratore di Lucca di Domenico Manzione, già sottosegretario all'Interno nei governi Letta e Renzi. Sessantamila pagine di chat roventi, sequestrate nel 2019 sul cellulare dell'ex presidente Anm, sono alla prima commissione, che valuta se un magistrato dev'essere trasferito perché, senza colpa, ha perso autonomia e indipendenza nel suo ufficio. Un percorso parallelo a quello disciplinare, che ha portato a 27 richieste di processo (alcuni già in corso). «Il disciplinare - spiega la presidente della commissione Elisabetta Chinaglia, togata di Area - non può e non deve esaurire la complessità delle questioni sulle comunicazioni di Palamara. Diverse e ben più ampie sono le valutazioni del Csm, sia per trasferimento d'ufficio, ma soprattutto per valutazioni di professionalità e nomina dei dirigenti». Alla stessa commissione viene trasmessa dal comitato di presidenza del Csm la richiesta del procuratore di Perugia Raffaele Cantone di aprire una pratica a tutela dei pm del suo ufficio, accusati da un quotidiano di aver «insabbiato» le chat di Palamara acquisite nell'indagine sull'ex pm di Roma, invece di trasmetterle subito a Palazzo de' Marescialli. Un altro fronte che si apre all'organo di autogoverno. «Le mie chat sono a disposizione - fa sapere Palamara in serata - Mi auguro che anche gli attuali consiglieri del Csm mettano a disposizioni le loro chat relative al periodo alla nomina del procuratore di Roma», ha aggiunto. Di un centinaio di pratiche da esaminare parla in plenum il vicepresidente della prima commissione Alessio Lanzi, laico di Forza Italia. «Il materiale che ci è arrivato è enorme - spiega al Giornale - un'alluvione. Tra centinaia di contatti di magistrati che parlano con Palamara per anni dobbiamo distinguere tra normali rapporti di vita sociale e interventi sull'attività del Csm, indebiti accordi e pressioni, per individuare chi è da sottoporre alla procedura ex articolo 2, per incompatibilità funzionale o ambientale. Sulle prime 3 richieste di archiviazione, solo su Racanelli non c'è stata unanimità: in 3 su 6 (con Lanzi, la relatrice Paola Maria Braggion di Mi e il laico della Lega Emanuele Basile, contro: Chinaglia, Di Matteo e Ilaria Pepe di Autonomia & Indipendenza, ndr) abbiamo chiesto indagini preistruttorie. Di fronte al no degli altri, abbiamo proposto di definire la pratica. Con un 3 a 3 il caso doveva chiudersi, ma una recente interpretazione del regolamento l'ha fatto arrivare al plenum». Il clima è teso a Palazzo de' Marescialli, dalle 10 alle 13.30 si discute sull'archiviazione per Alessandra Camassa, presidente del tribunale di Marsala, che fa raccomandare l'amico-collega del suo ufficio Vito Saladino a Palamara dal marito e capo del Dap Dino Petralia e poi ringrazia direttamente con abbracci e punti esclamativi, dopo la sua nomina a presidente di sezione. Loredana Micciché di Mi dice che se questo comportamento è solo una segnalazione di merito, bisogna affermare il principio generale che sono da considerare solo pressioni per appartenenza correntizia o denigrazioni di altri candidati. Chiede il ritorno in commissione, sono contrari in 13, favorevoli in 8. Finisce con l'archiviazione: 12 sì e 10 astensioni, un Csm spaccato. È solo l'assaggio, perché nel pomeriggio lo scontro sale su Racanelli, viene respinta l'archiviazione e la pratica torna in commissione. Archiviata la pratica di Alberto Liguori, procuratore di Terni, che si interessa con il capogruppo di Unicost al Csm per una nomina al tribunale di Cosenza. La nomina di Manzione resta sospesa.
Giustizia, sulle chat di Palamara cento casi all’esame del Csm. Liana Milella su La Repubblica il 13 gennaio 2021. Da Perugia il procuratore Cantone chiede una pratica a tutela dei suoi pm per gli attacchi di una parte della stampa. Palamara, interrogato, dice “i consiglieri del Csm diano le loro chat”. La prima archiviazione per Alessandra Camassa. Bocciata quella per il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli. Le chat di Palamara arrivano per la prima volta al plenum del Csm. Ed emerge un numero, ben cento casi, che la prima commissione, delegata a trattare quelli che potrebbero comportare un eventuale trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, sta esaminando. Gli accertamenti sono complessi e mirano a verificare se, in effetti, ci siano state comunicazioni tra l’ex pm e i suoi colleghi che possano comportare adesso un’effettiva procedura di trasferimento. Una discussione che, da subito, si preannuncia molto calda. E che si conclude, dopo moltissime ore, con una duplice decisione. Viene archiviato il caso di Alessandra Camassa, presidente del tribunale di Marsala. Mentre viene respinta l’archiviazione per Antonello Racanelli, procuratore aggiunto di Roma, sul quale adesso la prima commissione aprirà una verifica, nella quale lo stesso Racanelli sarà ascoltato. Ma quando è sera, ecco che da Perugia, dov’è stato interrogato, Palamara manda un altro messaggio al Csm: “Le mie chat sono a disposizione. Mi auguro che anche gli attuali consiglieri mettano a disposizioni le loro chat relative al periodo della nomina del procuratore di Roma”. E poi ci tiene a dire che, nell'interrogatorio, ha ribadito “l’estraneità alla pubblicazione dell'esposto di Fava contro Pignatone”. Insomma, un botta-risposta che non ha mai fine.
Cantone chiede tutela per i suoi pm. Ma prim’ancora di affrontare i primi tre casi di chat - Camassa, Liguori, Racanelli - che il Csm affronta, tocca dar conto di una richiesta di tutela, per i suoi pm, del procuratore di Perugia Raffaele Cantone. La notizia, quando il plenum è in corso da pochi minuti, arriva sul tavolo del vice presidente David Ermini. Cantone gli scrive chiedendo formalmente di aprire una pratica per tutelare i suoi pm dopo quelli che considera ormai insistenti e ripetuti attacchi che gli sono giunti da una parte della stampa che accusa la sua procura di non avere tempestivamente trasmesso tutti gli atti acquisiti nell'indagine proprio a carico dell’ex pm Luca Palamara. Cantone, per suo conto, ha cercato di chiarire la questione, spiegando che nessuno ha nascosto nulla. Ma gli attacchi sono proseguiti. Negli ultimi giorni un quotidiano ha pubblicato diversi articoli sul tema, con titoli come “Troppi pm legati a Palamara. La procura insabbiò le chat”, “La procura nascose le chat al Csm. Perché?”, “Sono spariti tutti gli sms. Maledetta distrazione” e ancora “Perugia ha nascosto gli sms di Palamara con altri magistrati. Chi sta proteggendo?”. Notizie che ovviamente Cantone considera del tutto infondate, ma che adesso, a suo avviso, richiedono anche la tutela istituzionale del Csm per colleghi che stanno portando avanti un’indagine difficile, in vista di un processo altrettanto complesso.
Sulle chat ore di discussione. Una seduta infuocata sin dalle prime battute. Perché il “libro mastro” delle chat, l’unico al momento disponibile sui rapporti privati tra i giudici italiani, tormenta comunque i sonni della magistratura nell’incertezza e nelle divisioni su chi ritenere colpevole per aver colloquiato con l’ex pm di Roma ed ex presidente dell’Anm, e su chi invece assolvere per chiacchierate del tutto innocenti. Chat su cui, è assolutamente necessario ricordarlo, è al lavoro anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi con i suoi sostituti che esaminano le conseguenze disciplinari delle conversazioni. Finora dal suo ufficio sono partite 27 richieste disciplinari, di cui alcune, come quelle dei protagonisti degli incontri all’hotel Champagne, sono già in udienza al Csm. Finora per il solo Palamara è già stata emessa la sentenza, la rimozione dall’ordine giudiziario, il 9 ottobre. Mentre sono sotto processo i cinque ex componenti del Csm che hanno partecipato a quell’incontro, nonché il deputato renziano ed ex leader di Magistratura indipendente Cosimo Maria Ferri.
Nessuna colpa per Camassa. Inevitabilmente il dibattito sulle chat al Csm parte in salita. Per giunta da un caso, quello di Alessandra Camassa, presidente del tribunale di Marsala, e moglie del capo del Dap Dino Petralia, che viene archiviato con 12 voti a favore e 10 astensioni, come del resto aveva proposto la prima commissione. Un caso evidente di assoluta non colpevolezza, ma che per il solo fatto di essere trattata per prima determina la voglia di tutti di esprimere i propri principi generali sulla questione. Ma il caso Camassa è lampante. Tra lei e Palamara c’è stato uno scambio di tre messaggi, riportati nella relazione di Elisabetta Chinaglia, la presidente della prima commissione di Area. È il 12 aprile del 2018 e al Csm, alle 10 e trenta, è stato votato come presidente di sezione penale del tribunale di Marsala Marcello Saladino, un giudice dello stesso tribunale. Tra le 10 e 44 e le 10 e 46, Camassa scrive a Palamara e dice “grazie, Saladino e? iperbravo. Ero preoccupatissima”. È il primo messaggio che Camassa invia a Palamara, tant’è che si firma con nome e cognome. Palamara risponde con “un abbraccio a presto”. È lei di rimando gli invia “un abbraccio”. Tutto qui. Non ci vuol molto a capire che in queste poche battute non si può leggere alcuna conseguenza disciplinare. Ci sarà poi un’altra occasione invece per esaminare le chat tra Palamara e Michele Ruvolo, dal 4 settembre 2017 anche lui presidente di sezione del tribunale di Marsala, che è a favore di Saladino e affronta la questione della convivente del fratello dello stesso Saladino che è pm a Marsala, una coincidenza che potrebbe creare una incompatibilità. Questione su cui, minimizzandola, interviene con Palamara anche Dino Petralia, che descrive Saladino come un bravissimo magistrato. A riscaldare il dibattito al Csm, al di là del merito, è una proposta di Loredana Miccichè di Mi di modificare la delibera di archiviazione sostituendo il passaggio della delibera in cui è scritto che la condotta è idonea ad appannare l’immagine di imparzialità del dirigente, ma la Camassa non vi rientra perché ha fatto riferimento solo ai meriti professionali del candidato e non a criteri correntizi. Un principio, secondo Miccichè, che deve valere in generale e non solo nel caso della Camassa. Ma alla fine, in un dibattito che si aggroviglia, è la stessa Miccichè a ritirare la sua proposta, mentre viene respinta con 13 voti a favore e 8 contrari l’ipotesi di far tornare di nuovo in commissione il caso.
Più sofferta l’archiviazione per Liguori. Si chiude con un’archiviazione anche il caso di Alberto Liguori, il procuratore di Terni, che si fa sentire dall’allora caposquadra di Unicost al Csm per una nomina al tribunale di Cosenza. Secondo Nino Di Matteo a salvare Liguori dall’apertura della pratica di incompatibilità c’è solo il fatto che lui ormai lavori in un altro ufficio, dopo anni passati in Calabria. Perché invece i suoi interventi che mirano ad avvantaggiare la sua corrente e il cartello Unicost-Area e la trattativa su più nomi da promuovere, tira in ballo la polemica sulle ben note nomine a pacchetto e l’esigenza di rispettare gli accordi. Di Matteo spiega che Liguori, sentito dalla prima commissione, spiega che, pur non lavorando più in Calabria ed essendo di origine calabrese, era attento alle nomine di quella zona. Ma l’ex pm di Palermo conclude dicendo che “per la gravità, la reiterazione e la finalizzazione delle richieste non ci sarebbero stati dubbi per il trasferimento per incompatibilità se Liguori avesse lavorato in Calabria”. Ma poiché dirige la procura di Terni i suoi comportamenti, secondo le regole della prima commissione, non incidono sull’ufficio che dirige, perché non sceglie chi lavora con lui, né tratta questioni attinenti all’esercizio delle sue funzioni”. Insomma, è archiviazione. E finisce con 21 voti a favore e due astensioni.
Niente archiviazione per Racanelli. Ma è sul caso di Antonello Racanelli, tuttora procuratore aggiunto di Roma ed ex segretario di Magistratura indipendente, legato a Cosimo Maria Ferri, che si apre un contorto e lungo dibattito al Csm. Per due anni, dal dicembre 2017 al 29 maggio 2019, quando esplode l’inchiesta Palamara, i due hanno contatti continui, via chat, via telefono, in presenza. Anche Racanelli è stato componente del Csm nel quadriennio precedente a quello di Palamara, conosce assai bene l’ambiente e le sue dinamiche interne. E poi i due sono colleghi a piazzale Clodio, Racanelli aggiunto, votato dallo stesso Palamara quando era al Consiglio, lui ritornato pm dopo gli anni a palazzo dei Marescialli. Discutono di tutto, del dopo Pignatone alla procura di Roma, dell’alternativa tra la scelta del procuratore di Palermo Franco Lo Voi e quella del procuratore generale di Firenze Marcello Viola, parlano dell’esposto di Stefano Fava contro l’ex procuratore Giuseppe Pignatone e contro l’aggiunto Paolo Ielo, parlano dell’inchiesta di Perugia che incombe sullo stesso Palamara. Archiviare tutto questo in prima commissione o aprire la procedura che può portare all’incompatibilità ambientale per Racanelli? Diciamo subito come finisce al Csm. Non passa la proposta di archiviare il caso, presentata da Paola Maria Braggion, anche lei di Mi. E non passano neppure le due diverse richieste di rimandare la pratica in commissione, ma soltanto per un’ulteriore fase di approfondimento della vicenda. Il laico di Forza Italia Alessio Lanzi chiede che si dia il via a varie audizioni di magistrati e avvocati, ma la proposta incassa solo otto voti a favore. Mentre quella di Micciché, anche in questo caso un rinvio ma per ascoltare in via informale lo stesso Racanelli, cosa che finora non è stata mai fatta, incassa 9 voti a favore, 11 contro e due astensioni. Alla fine si vota sull’ipotesi di archiviare tutto il caso, ma 11 consiglieri dicono no, la sinistra di Area, i tre laici indicati da M5S, due consiglieri di Autonomia e indipendenza, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra, Nino Di Matteo, e il laico indicato dalla Lega Stefano Cavanna. L’altro leghista, Basile, vota a favore, assieme al forzista Lanzi e i tre consiglieri di Mi. In 7 si astengono, i due capi della Cassazione Curzio e Salvi, Unicost, Sebastiano Ardita di Autonomia e indipendenza. La pratica torna in commissione e Racanelli sarà ascoltato, ma con la garanzia del suo difensore.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 12 gennaio 2021. Una richiesta singolare. Girata direttamente all'incolpato: «Ciò che le chiediamo è di mettere a disposizione della magistratura italiana la messaggistica da lei intrattenuta con i colleghi». Così scrivono 24 toghe, rivolgendosi con parole mai sentite a Luca Palamara. È una lettera aperta senza precedenti quella che il Giornale pubblica: Palamara è stato presidente dell'Associazione nazionale magistrati e consigliere del Csm; soprattutto era uno dei punti di riferimento del sistema di potere delle toghe tricolori. Poi è arrivata l'inchiesta della Procura di Perugia, le intercettazioni a tappeto con il trojan e tutto il resto: il sistema che porta il suo nome è stato smascherato, ma solo in parte. Soprattutto ha colpito la sua rapidissima espulsione dall'Anm: lui voleva spiegare, raccontare, allargare il quadro. Non gliene hanno dato il tempo: l'hanno cacciato dopo un procedimento velocissimo, troppo veloce e circoscritto secondo la difesa dell'ex leader di Unicost, la corrente di centro della magistratura. Palamara, questo il sospetto e anzi più di un sospetto, sa molte altre cose e potrebbe svelare gli intrecci di potere, gli scambi sottobanco, le lottizzazioni degli incarichi. Insomma, se c'era un sistema, è impensabile che quel modello si reggesse solo su un singolo o i suoi amici. Per carità, il Csm è stato decimato dalla pubblicazione a puntate dei documenti emersi a Perugia, ma l'impressione è che ci siano altre carte ancora nascoste o comunque non ancora pubbliche. Palamara ha più volte detto di volersi prendere le proprie responsabilità ma di non accettare la parte del parafulmine solitario. Gli incontri fra i capi delle correnti, di destra come di sinistra, le mediazioni estenuanti, i veti su questo o quel nome, e la contiguità con la politica, erano tutti segreti di Pulcinella. E però evidentemente una parte sia pure minoritaria del potere giudiziario non si fida completamente di quel che la magistratura competente - la Procura di Perugia e il Csm - sta facendo per portare a galla tutta la rete di rapporti obliqui e opachi. Palamara incontrava tutti e si è occupato di nomine su nomine. Cosa è venuto fuori e cosa no? I 24 - appartenenti a uffici giudiziari del Nord e del Sud - chiedono chiarezza e lo fanno rivolgendosi direttamente a lui, un tempo potentissimo e riverito, oggi in disgrazia e scaricato da tutti. «Gentile dottor Palamara - ecco l'incipit del testo - sono i suoi colleghi che le scrivono, in nome di quel culto della verità e della giustizia che lei ha dichiarato di nutrire anche nel momento della dismissione della toga. Si è professato vittima di un sistema i cui meccanismi ha imparato a utilizzare non meno di altri che l'hanno preceduta e di altri ancora che sono rimasti ancorati ai medesimi ingranaggi. La magistratura - prosegue la lettera - soffre di una crisi che sarebbe riduttivo definire di immagine. Di qui la domanda formulata senza tanti giri di parole: Palamara dia «il suo contributo a prevenire qualunque tentativo di insabbiamento che possa essere messo in atto dalle correnti generatrici di questo sistema e che rischia di farlo diventare il suo unico capro espiatorio». È la frase chiave del testo: i 24 sono convinti che ci sia ancora molto nascosto sotto la superficie. Il cosiddetto sistema Palamara funzionava anche prima del suo avvento e non è stato smantellato con la sua uscita di scena, in un processo lampo alla Disciplinare di Palazzo dei Marescialli. Per questo le toghe - fra cui è nota all'opinione pubblica almeno Clementina Forleo, un tempo gip a Milano e oggi al tribunale di Roma - vogliono verità. E sperano che lui tiri fuori tutti, ma proprio tutti i messaggi scambiati in anni di frenetiche frequentazioni e manovre di potere. Spingendo così la magistratura a voltare pagina. E ad abbandonare quella logica di scambio che l'ha indebolita e le ha fatto perdere autorevolezza davanti agli occhi del Paese.
Palamaragate, le verità nascoste dello scandalo che ha travolto la magistratura. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Il Palamaragate si sta ingarbugliando sempre di più. Esce fuori ogni giorno un nuovo groviglio di trame, sotterfugi, imbroglietti, bugie, che rendono sempre più opaca (anzi: nera) l’immagine dei vertici della nostra magistratura. Nei giorni scorsi vi abbiamo raccontato di come sia stata ritardata la consegna al Csm e alla Cassazione dei messaggi whatsapp scaricati dal cellulare sequestrato a Luca Palamara. E vi abbiamo parlato anche del mistero degli Sms che non risultavano consegnati, e invece la procura di Perugia è sicura che siano stati consegnati. Oggi emerge un altro particolare clamoroso. Palamara nel maggio del 2019 era intercettato più di un dissidente tedesco nella Germania comunista. Spie, controspie, e il famoso trojan, cioè quel marchingegno che rende il cellulare un microfono che trasmette tutto quello che succede intorno a te, una centrale che intercetta. Beh, siamo riusciti a ricostruire come mai e quando e in che modo il trojan fu spento solo per alcune ore in occasione di una cena importantissima di Palamara con l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e altri tre o quattro magistrati molto molto importanti. In quella cena, probabilmente, si parlò del destino della procura di Roma e della battaglia per conquistarla (battaglia poi vinta da Pignatone con la nomina di Michele Prestipino). Il trojan non funzionò, e la cena restò segreta perché un finanziere interruppe la programmazione automatica che prevedeva l’intercettazione di Palamara in tutte le sue serate. Tutte meno che una. Chi diede l’ordine al finanziere (di cui abbiamo trovato anche la sigla)? Non i Pm perugini, evidentemente. E allora? L’ordine, o il consiglio, partì da Roma? Da chi? Sarà il caso che qualcuno indaghi, o se non ci sono esponenti politici di mezzo la magistratura pensa che sia possibile non indagare?
Anna Maria Greco per "il Giornale" il 14 gennaio 2021. Cento magistrati a rischio trasferimento d' ufficio, forse più, per le chat con Luca Palamara su incarichi, nomine e traffici vari. Il Csm in plenum affronta i primi 3 casi, con altrettante proposte d' archiviazione, quelli che indicheranno le linee guida anche per gli altri. Ed è subito bagarre, con Nino di Matteo e le toghe di sinistra che si oppongono all' archiviazione per l' ex segretario di Magistratura indipendente Antonello Racanelli e anche alla nomina a procuratore di Lucca di Domenico Manzione, già sottosegretario all' Interno nei governi Letta e Renzi. Sessantamila pagine di chat roventi, sequestrate nel 2019 sul cellulare dell' ex presidente Anm, sono alla prima commissione, che valuta se un magistrato dev' essere trasferito perché, senza colpa, ha perso autonomia e indipendenza nel suo ufficio. Un percorso parallelo a quello disciplinare, che ha portato a 27 richieste di processo (alcuni già in corso). «Il disciplinare - spiega la presidente della commissione Elisabetta Chinaglia, togata di Area - non può e non deve esaurire la complessità delle questioni sulle comunicazioni di Palamara. Diverse e ben più ampie sono le valutazioni del Csm, sia per trasferimento d' ufficio, ma soprattutto per valutazioni di professionalità e nomina dei dirigenti». Alla stessa commissione viene trasmessa dal comitato di presidenza del Csm la richiesta del procuratore di Perugia Raffaele Cantone di aprire una pratica a tutela dei pm del suo ufficio, accusati da un quotidiano di aver «insabbiato» le chat di Palamara acquisite nell' indagine sull' ex pm di Roma, invece di trasmetterle subito a Palazzo de' Marescialli. Un altro fronte che si apre all' organo di autogoverno. «Le mie chat sono a disposizione - fa sapere Palamara in serata - Mi auguro che anche gli attuali consiglieri del Csm mettano a disposizioni le loro chat relative al periodo alla nomina del procuratore di Roma», ha aggiunto. Di un centinaio di pratiche da esaminare parla in plenum il vicepresidente della prima commissione Alessio Lanzi, laico di Forza Italia. «Il materiale che ci è arrivato è enorme - spiega al Giornale - un' alluvione. Tra centinaia di contatti di magistrati che parlano con Palamara per anni dobbiamo distinguere tra normali rapporti di vita sociale e interventi sull' attività del Csm, indebiti accordi e pressioni, per individuare chi è da sottoporre alla procedura ex articolo 2, per incompatibilità funzionale o ambientale. Sulle prime 3 richieste di archiviazione, solo su Racanelli non c' è stata unanimità: in 3 su 6 (con Lanzi, la relatrice Paola Maria Braggion di Mi e il laico della Lega Emanuele Basile, contro: Chinaglia, Di Matteo e Ilaria Pepe di Autonomia & Indipendenza, ndr) abbiamo chiesto indagini preistruttorie. Di fronte al no degli altri, abbiamo proposto di definire la pratica. Con un 3 a 3 il caso doveva chiudersi, ma una recente interpretazione del regolamento l' ha fatto arrivare al plenum». Il clima è teso a Palazzo de' Marescialli, dalle 10 alle 13.30 si discute sull' archiviazione per Alessandra Camassa, presidente del tribunale di Marsala, che fa raccomandare l' amico-collega del suo ufficio Vito Saladino a Palamara dal marito e capo del Dap Dino Petralia e poi ringrazia direttamente con abbracci e punti esclamativi, dopo la sua nomina a presidente di sezione. Loredana Micciché di Mi dice che se questo comportamento è solo una segnalazione di merito, bisogna affermare il principio generale che sono da considerare solo pressioni per appartenenza correntizia o denigrazioni di altri candidati. Chiede il ritorno in commissione, sono contrari in 13, favorevoli in 8. Finisce con l' archiviazione: 12 sì e 10 astensioni, un Csm spaccato. È solo l' assaggio, perché nel pomeriggio lo scontro sale su Racanelli, viene respinta l' archiviazione e la pratica torna in commissione. Archiviata la pratica di Alberto Liguori, procuratore di Terni, che si interessa con il capogruppo di Unicost al Csm per una nomina al tribunale di Cosenza. La nomina di Manzione resta sospesa.
Sanzione disciplinare al procuratore Creazzo. Lui: “Sentenza ingiusta, sono innocente”. Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Perdita di anzianità di due mesi: è questa la sanzione stabilita dal tribunale delle toghe per il procuratore di Firenze, accusato di aver molestato una collega nel 2015. Perdita di anzianità di due mesi: questa la sanzione decisa dalla sezione disciplinare del Csm nei confronti del procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, nell’ambito del procedimento aperto davanti al “tribunale delle toghe” per le avances alla pm di Palermo Alessia Sinatra in un hotel della Capitale nel 2015. Il procedimento disciplinare – che aveva preso il via lo scorso maggio e che si è svolto interamente a porte chiuse – si è concluso ieri sera: la sanzione disciplinare è stata disposta relativamente al capo di incolpazione inerente le avances – che non sono state oggetto di azione penale per mancanza di querela della persona offesa -mentre riguardo la seconda incolpazione – anche questa mossa al capo dei pm di Firenze dalla procura generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare – inerente la «violazione del dovere di correttezza e di equilibrio» con il «comportamento gravemente scorretto» nei confronti della collega, la disciplinare ha escluso l’addebito, ritenendolo quale un fatto avvenuto “tra privati”, ed assolto Creazzo. Che dopo la decisione del Csm commenta: «Si tratta di una sentenza ingiusta perché sono innocente. È una decisione conforme alla condanna mediatica che avevo già subito allo scoppiare della notizia. Farò ricorso per Cassazione, dove confido che potrò avere finalmente giustizia»
Buffetto del Csm al pm molestatore. Luca Fazzo il 18 Dicembre 2021 su Il Giornale. Sanzione simbolica a Creazzo che palpeggià una collega. Infuria la polemica. E adesso chi glielo dice al tifoso fiorentino che per la palpata in diretta a una giornalista è finito giustamente sotto pubblico ludibrio e incriminato per violenza carnale? Come gli spiegheranno che il capo della Procura che indaga contro di lui ha anch' egli toccato senza preavviso e senza consenso il sedere di una donna, e che per questo il Consiglio superiore della magistratura lo ha punito con un buffetto quasi ridicolo, e continuerà tranquillamente a restare al suo posto di procuratore, perché in fondo quella smanacciata è una faccenda privata tra lui e la collega? Le cose, purtroppo, stanno esattamente così. Ieri il Csm chiude il procedimento disciplinare a carico di Giuseppe Creazzo, capo della Procura fiorentina, accusato da Alessia Sinatra, giovane e tosta pm palermitana, di avere allungato pesantemente le mani su di lei, quando si trovarono da soli nell'ascensore di un hotel romano. Il Csm apparentemente aveva due strade davanti a sé: assolvere Creazzo per mancanza di prove, visto che nessun altro aveva assistito alla scena, e quindi alla fine contro di lui c'era solo la parola della Sinatra; o punirlo con una pena esemplare, dimostrando che la gravità di certi comportamenti è identica, e semmai più grave, se a metterli in atto è un magistrato. Invece la sezione disciplinare del Csm sceglie una terza strada; ritiene provate le accuse contro Creazzo, ma lo punisce solo con una pena simbolica, due mesi di perdita di anzianità; e lo assolve dalla seconda accusa, quella di aver violato con questo comportamento i «doveri di correttezza propri di un magistrato». Secondo il Csm, i due non erano nell'esercizio delle loro funzioni, ma privati cittadini: nonostante, va ricordato, stessero rientrando in albergo da una riunione del direttivo centrale dell'Associazione nazionale magistrati. Erano magistrati o non erano magistrati? Boh. Per Creazzo l'inciampo si chiude qui, continuerà a guidare la Procura di Firenze, reati sessuali compresi. Conseguenze penali per la violenza alla Sinatra non ne ha mai rischiate, per il semplice motivo che la pm palermitana non lo ha mai denunciato: una scelta, ha spiegato a suo tempo la Sinatra, «sofferta e complessa»: «ci ho pensato a lungo, alla fine ha prevalso la scelta di non danneggiare l'istituzione cui appartengo e in cui credo». Il problema è che mentre Creazzo esce pressoché incolume dalla vicenda, ad andarci di mezzo rischia di essere proprio la sua vittima, Alessia Sinatra, che è finita anche lei sotto procedimento disciplinare, e che il prossimo 14 gennaio è attesa dalla sentenza del Csm. La sua colpa? Essersi sfogata chattando con Luca Palamara, allora leader della sua corrente, Unicost: e avere definito Creazzo «essere immondo e schifoso». Certo, ci si può augurare che il Csm dopo avere condannato il molestatore si senta ora in dovere di assolvere la sua vittima. Ma resta il fatto che la decisione di incriminarla per quello sfogo era stata vissuta assai male dalla Sinatra, che disse senza giri di parole di sentirsi «violentata un'altra volta». E resta anche il fatto che se non fosse stato per le chat di Palamara, di questa storia non si sarebbe mai saputo nulla: come di tante altre vicende che restano a girare sottovoce, nei corridoi delle procure e del Csm, senza che nessuno decida di portarle alla luce.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
La sanzione: persi due mesi di anzianità. Il caso Creazzo, il magistrato ‘punito’ con un buffetto dopo le molestie alla collega Sinatra. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Sanzione della perdita di due mesi di anzianità. Per chi non seguisse le vicende che riguardano la magistratura potrebbe sembrare una condanna irrisoria. Ed invece, considerati i precedenti su casi analoghi, è una sanzione molto pesante che può segnare la fine della carriera del procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura lo ha ritenuto ieri colpevole di aver molestato sessualmente la pm dell’antimafia di Palermo Alessia Sinatra. L’episodio sarebbe accaduto alla fine di dicembre del 2015 in un albergo romano dove i due magistrati alloggiavano dopo aver partecipato a un convegno organizzato da Unicost, il gruppo di cui all’epoca Luca Palamara era il ras indiscusso. La magistrata non aveva mai denunciato la violenza subita. «Mi sembra tutto molto surreale, kafkiano direi. In questa storia sono sia vittima che colpevole: era meglio se non fossi stata creduta», disse in una intervista al Riformista la pm siciliana che fino a quel momento si era occupata di fasce deboli. «Dopo quello che è successo non riesco a occuparmi più di vittime di reati sessuali. Non sono più andata ai convegni, nelle scuole, io che avevo sempre incoraggiato le vittime di questi reati a fare denuncia», aggiunse la magistrata. Il procedimento disciplinare nei confronti di Creazzo, e inizialmente anche di Sinatra, aveva avuto una genesi molto particolare: le chat di Palamara. Quando esplose il Palamaragate, i pm di Perugia decisero di sequestrare il cellulare dell’ex zar delle nomine. Fra le migliaia e migliaia di messaggi che Palamara scambiava con i colleghi, spuntarono anche quelli con la magistrata. A differenza di tutti gli altri, però, la pm antimafia non chiedeva posti o incarichi ma cercava conforto. Il primo messaggio che balzò agli occhi degli inquirenti era dal contenuto inequivocabile: «Giurami che il porco cade subito». È il 23 maggio del 2019, la vigilia della nomina in Commissione del nuovo procuratore di Roma, e Creazzo è in pole per succedere a Giuseppe Pignatone. «Non mi dire che Creazzo ci crede?», scrive Sinatra a Palamara, «sono pronta a tutto e lo sai». «Io insieme a te. Sempre…», risponde Palamara. «Ma con te il porco ha parlato?», prosegue Sinatra. E Palamara: «Assolutamente no». «Porco mille volte», risponde la magistrata. E poi: «Sono inorridita. Sento kazzate su valori e principi fondanti ed elevatissimi. E su queste basi il gruppo per il quale io mi sono spesa stando nell’angolo, farà di tutto per mettere sulla poltrona di Roma un essere immondo e schifoso». «Io sono disposta a tutto», conclude Sinatra. I messaggi vennero trasmessi alla Procura generale della Cassazione che avviò gli accertamenti. Solo a quel punto si scoprì il segreto che la magistrata aveva rivelato a pochissimi amici, fra cui Palamara.
Quest’ultimo, da abile mediatore, gestiva lo sfogo di Sinatra e le richieste di Creazzo, con cui era in ottimi rapporti.
A settembre del 2017 Palamara scrive: «Caro Peppe se capiti a Roma in questi giorni ci prendiamo caffè?».
«Carissimo – gli risponde Creazzo – non ho in programma di venire almeno nelle prossime due settimane, se tuttavia ritieni posso venire a prescindere da altri impegni dimmi tu». «Non preoccuparti – lo rassicura Palamara – volevo fare il punto su alcune questioni ci sentiamo anche telefonicamente domani un abbraccio». Seguiranno messaggi per il posto di aggiunto a Firenze. Scrive Creazzo: «Carissimo Luca ho incontrato Cosimo Ferri che mi ha espressamente chiesto chi preferisco per il terzo aggiunto fra i due di Mi. Se la scelta si riduce a questa ristrettissima rosa secondo me Dominianni (pm di Mi, ndr) è meglio per profilo e attitudini e per la circostanza, che ritengo ancor più decisiva, che non appartiene già a questo ufficio al contrario dell’altro e dunque porterebbe un rinnovamento, cosa sempre positiva. Questo è il mio pensiero, per quel che vale, nell’ovvio rispetto di ogni decisione che verrete a prendere».
«Si tratta di una sentenza ingiusta, sono innocente. È una decisione conforme alla condanna mediatica che avevo già subito allo scoppiare della notizia», è stato il commento di Creazzo alla lettura della sentenza. Il provvedimento del Csm arriva in un momento delicato per la Procura di Firenze che sta conducendo molte indagini complesse: da quelle sulla Fondazione Open di Matteo Renzi, condotte dal procuratore aggiunto Luca Turco e dal pm Antonino Nastasi, noto alle cronache anche per il caso David Rossi, a quelle sulla fuga di notizie che ha caratterizzato l’indagine di Perugia a carico di Palamara. Ma a parte le indagini di grande risonanza, come potrà Creazzo, che ha presentato domanda per il posto di procuratore nazionale antimafia, coordinare o condurre personalmente i procedimenti per i reati di violenza sessuale dopo questa sentenza del Csm? Paolo Comi
Nasce la nuova giurisprudenza. Il procuratore Creazzo molestò una collega, ma per il Csm sono cose private: lievissima sanzione, “so’ cose da ragazzi…” Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Dicembre 2021. La commissione disciplinare del Csm ha esaminato le accuse rivolte da una magistrata di Palermo al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Le accuse erano parecchio pesanti. Diciamo molestie sessuali, ma forse anche qualcosa di più. La legge mi pare che in questi casi dica che si tratta di vera e propria violenza sessuale. La magistrata siciliana, secondo la sua ricostruzione, fu nella sostanza aggredita dal dottor Creazzo. Nell’atto di incolpazione c’è scritto che Creazzo tentò di baciarla sulla bocca, armeggiò con la lingua, le mise le mani sul seno sinistro e sul sedere. Lei si difese e resistette. Lo scacciò, e non sporse denuncia penale. Naturalmente bisogna vedere se è vero tutto questo, visto che i procuratori della Repubblica hanno gli stessi diritti di difesa di uno scippatore di periferia. E il garantismo vale per loro come per tutti. Creazzo ancora ieri si è dichiarato innocente. Se fosse innocente sarebbero gravi le accuse contro di lui. Vedremo in Cassazione. La commissione disciplinare del Csm però (riunita in camera di consiglio e presieduta da David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore) ha preso la più folle delle decisioni che essere umano (o, peggio, gruppo di esseri umani) possa prendere: ha stabilito che le accuse della magistrata di Palermo sono vere, e ha condannato Creazzo a perdere due mesi di anzianità. Si, ragazzi, è inutile che ridiate: è così. Due mesi. Quando andrà in pensione, il dottor Creazzo, invece di avere, poniamo, una anzianità di 480 mesi, dovrà accontentarsi di una anzianità di 478 mesi. La perdita di retribuzione sarà dello 0,4 per cento. Nessuna pena accessoria, la conferma a procuratore di Firenze e l’assoluzione dalla seconda accusa: quella di avere violato (quando ha aggredito la collega) i doveri di correttezza propri di un magistrato. La commissione disciplinare del Csm ha escluso questo addebito, ritenendo (riferisce l’Ansa) che la vicenda possa “circoscriversi a evento tra privati”. Nasce una nuova giurisprudenza. Preottocentesca. Io non riesco a commentare. Le mani tremano (di incredulità, di sbigottimento, di rabbia…). Cioè è successo questo ieri, se ho ben capito: il massimo organismo di governo della magistratura italiana ha stabilito che quando un maschio aggredisce sessualmente una donna e le reca violenza, questo atto rientra nei rapporti privati tra loro. È giusto rimproverare il magistrato per il disagio che ha creato col suo comportamento, e per la sua evidente maleducazione, e concretizzare questo rimprovero con una pena simbolica, ma niente di più. Cerchiamo di riprenderci dallo stupore e di ragionare. Creazzo resta magistrato. Il Csm ha stabilito che l’autore di una violenza sessuale può fare il magistrato. Creazzo non subisce nessuna limitazione di carriera. Creazzo resta Procuratore di Firenze, cioè capo dei pubblici ministeri del capoluogo toscano che – oltretutto – in questi mesi hanno per le mani processi importantissimi. Mi chiedo: come potrà mai la Procura di Firenze, da questo momento, indagare su denunce per molestie sessuali o tentativi di aggressione sessuale? Qualunque imputato potrà difendersi spiegando che la questione che lo riguarda è una questione privata. Ma mi chiedo anche quale autorità morale potrà esercitare il procuratore di Firenze sui suoi sostituti, e i suoi sostituti, a loro volta, sulla cittadinanza. Quale opinione potrà avere, Firenze, della sua magistratura? Poi c’è un secondo ragionamento da fare. Io non ho una grande opinione – come ho scritto ieri proprio su questo giornale – dell’Ordine dei giornalisti, ma nemmeno di quello degli architetti, degli ingegneri, dei notai. E tuttavia penso che se una cosa del genere fosse avvenuta ad un architetto, o a un ingegnere, o a un notaio – o a maggior, maggior ragione a un avvocato o a un medico – gli Ordini rispettivi si sarebbero comportati in maniera assai più rigorosa. Perché? Per un motivo semplicissimo: nella società italiana, anche nei piani alti del potere e dell’establishment, nessuno si considera onnipotente. E nessuno pretende il diritto all’impunità. I magistrati si. Si sentono onnipotenti, si sentono casta, difendono coi denti il loro diritto ad essere casta e ad essere l’unica casta. Di essere superiori alla società. Difendono i loro cuccioli dirazzati, li proteggono. Perché anche i cuccioli dirazzati fanno parte dell’incastro del loro potere. E nessuno, mai nessuno, da fuori, deve scalfire quel potere. Altrimenti – gridano – cade l’indipendenza della magistratura. Se nessuno avrà la forza, e l’audacia, e il coraggio di mettere le mani in questa follia, il potere della magistratura crescerà ancora. Diventerà puro arbitrio. Ci siamo vicini.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il silenzio dei MeToo sul pm molestatore. Francesco Maria Del Vigo il 18 Dicembre 2021 su Il Giornale. Esiste un Paese a due velocità: quello di chi fa parte della casta della giustizia e quello dei comuni mortali. Al primo Paese è concesso tutto, proprio tutto: anche molestare una collega e venire condannato alla perdita di due mesi di anzianità. Reato per il quale un cittadino normale - in presenza di una denuncia - rischia anni di reclusione. Ma, al netto della stragrande maggioranza di giudici e pm per bene, toga non morde toga. La storia: Giuseppe Creazzo, capo della procura di Firenze - che tra le altre cose sta indagando su Matteo Renzi e il caso Open, quindi fascicoli politicamente rilevanti - nel 2015 fa delle avances alla collega Alessia Sinatra in un hotel di Roma. Lei non denuncia i fatti, ma se ne lamenta al telefono e il suo sfogo finisce nelle intercettazioni dell'ex numero uno dell'Anm, Luca Palamara. A questo punto la questione diventa pubblica e, obtorto collo, non si può più fare finta di nulla. Così ieri il Csm punisce Creazzo con la perdita di due mesi di anzianità. Una condanna - si fa per dire -, ridicola e offensiva nei confronti della vittima e di tutte le donne. In un Paese nel quale per dieci giorni l'attenzione pubblica è stata monopolizzata dalla scellerata pacca di un tifoso (che verrà processato per molestie sessuali proprio dalla procura di Firenze, quindi da Creazzo) a una giornalista in diretta tv, nessuno batte un ciglio se un uomo dello Stato molesta una sua collega. Ma oltre al danno, c'è la beffa. Che fine hanno fatto le paladine del #Metoo? Dov'è andata a nascondersi l'onda di solidarietà rosa che solitamente abbraccia chi è vittima di avances non gradite? Perché il mondo femminista non apre un lungo e fecondo dibattito sulla condizione della donna nella magistratura che, a giudicare da questi fatti, è ancora ferma ai tempi delle caverne? Attendiamo le solite - e giuste - prese di posizione indignate.
Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.
Il silenzio della stampa. Molestie di Creazzo, i giornali censurano la notizia per ordine del partito delle Procure. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Il Csm – come voi sapete e pochi altri sanno, tra poco vedremo perché – ha riconosciuto il Procuratore di Firenze colpevole di violenza sessuale verso una sua collega. Il Csm ha inflitto al Procuratore di Firenze, per questa (diciamo così) malefatta, una pena che consiste in due mesi di perdita di anzianità. Il relatore nella sezione disciplinare che doveva giudicare e punire era Giuseppe Cascini, Torquemada contro i reati della pubblica amministrazione (tipo l’imperdonabile traffico di influenze). Il Presidente era David Ermini, cioè il capo del Csm. Il Csm ha dichiarato anche che l’aggressione del Procuratore di Firenze nei confronti di una sua collega è da considerare un “fatto privato”. Bene, non so se avete mai frequentato una scuola di giornalismo. Anche se non l’avete frequentata, capite bene che questa è una notizia clamorosa, se vera. Naturalmente aspettiamo la Cassazione prima di dare per certa la colpevolezza del Procuratore di Firenze. Però sappiamo per certo che il Csm ha giudicato “un fatto privato” l’incontro violento tra il Procuratore e la magistrata che avrebbe subito violenza sessuale. E di conseguenza il Csm ha stabilito che non era necessario nessun intervento sulla carriera del Procuratore, né tantomeno la sua rimozione, ma solo – così, proprio per non fare figuracce – la pena minima ipotizzabile. Questa dei due mesi tagliati via da una pensione che sarà ridotta circa del 0,4 per cento. Tutti i grandi giornali hanno considerato questa notizia una notizia da pagina 32, piccola piccola, infondo alla pagina (parlo del Corriere della Sera). Più o meno come si dà la notizia di un modesto furto in un supermercato, o di un ingorgo, o qualcosa del genere. L’esempio del Corriere è stato seguito dagli altri grandi giornali, Repubblica, il Messaggero, La Stampa.
Io però conosco i miei colleghi. Sanno fare il loro lavoro, almeno i più anziani lo sanno fare, lo hanno fatto per tanti anni e bene. A nessuno di loro può venire neppure in mente che quella notizia non fosse una clamorosa notizia da prima pagina. Sia per l’enormità del fatto che coinvolge un Procuratore della repubblica, cioè una delle massime autorità del paese (che, tra l’altro, sta indagando su Renzi e Berlusconi) sia per l’ignominia di un Csm che definisce “fatto personale” una molestia o una violenza sessuale, cosa che non avrebbe fatto neppure un pretore di campagna degli inizi del secolo scorso. Del resto il silenzio non ha riguardato solo la stampa: la politica ha fatto altrettanto. E allora, tutto questo come si spiega? In un solo modo: con la consapevolezza che oggi il sistema delle Procure, che purtroppo comprende anche il Csm, dispone di un controllo ferreo e inaggirabile sulla politica e sull’informazione. I grandi giornali sono tenuti ad obbedire, e obbediscono, come sotto giuramento. Mai un piccolo gesto di ribellione. Se Procuratore, o Csm comanda, giornalista obbedisce. Naturalmente non c’è nessuna possibilità, in queste condizioni, di parlare di libertà di informazione. La libertà d’informazione, in Italia, esiste su molti piani. Ma esclude la possibilità di critica al potere più grande. Cioè al potere giudiziario. Chi ha voglia di contrastare questa tendenza totalitaria – come noi, per esempio – deve convincersi che dovrà farlo più o meno dalla clandestinità, come facevano i nostri nonni che si opponevano al Minculpop.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il caso del procuratore di Firenze. Csm femminista con le afghane, talebano con le italiane: le molestie di Creazzo “un fatto privato…”. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Lo scorso mese di agosto il Consiglio superiore della magistratura, all’indomani della presa di Kabul da parte dei terribili talebani, diramò un comunicato-appello dai toni drammatici. «Considerata – scrissero a Palazzo dei Marescialli – la condizione di criticità nella quale attualmente versa, in quel Paese, la garanzia della integrità dei diritti fondamentali, avuto particolarmente riguardo la condizione delle donne e dei minori» e «tenuto conto di quanto dettato dalla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne alla quale ha aderito anche l’Afghanistan», «tutte le Istituzioni interne ed internazionali si attivino per quanto di rispettiva competenza al fine di garantire il rispetto dei diritti umani in quel Paese». È urgente, aggiunsero i consiglieri del Csm, «promuovere ogni azione necessaria o utile allo scopo» e bisogna vigilare «sulla effettiva efficacia di ogni intervento a tal fine diretto».
Dopo aver quindi manifestato «piena solidarietà alle donne afghane e in particolare alle donne magistrato», i componenti dell’organo di autogoverno delle toghe espressero «la più viva preoccupazione per l’evoluzione della situazione in Afghanistan auspicando che tutte le Istituzioni interne ed internazionali si attivino per quanto di rispettiva competenza al fine di garantire il rispetto dei diritti umani in quel Paese». La settimana scorsa, invece, sempre gli stessi componenti del Csm, per la precisione quelli della Sezione disciplinare, comminavano la sanzione della perdita di soli due mesi di anzianità al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, reo di aver molestato sessualmente in un corridoio di un albergo romano, la collega Alessia Sinatra, pm alla Dda di Palermo.
Nella sentenza alcuni dei capi di incolpazione inizialmente a carico di Creazzo erano stati peraltro esclusi dal momento che “la vicenda si poteva ascrivere a un evento fra privati”. In attesa, comunque, di conoscere nel dettaglio le motivazioni di questa sentenza, relatore è il togato progressista Giuseppe Cascini, già procuratore aggiunto a Roma, è già possibile fare qualche considerazione. Ad esempio sulla composizione del collegio giudicante. Presieduto dal vice presidente del Csm David Ermini, su sei componenti cinque erano uomini.
Sarebbe interessante capire perché si sia deciso di comporre un collegio di soli uomini. Infatti, oltre alla togata Paola Maria Braggion che ha fatto compagnia ai cinque, al Csm ci sono altre magistrate. Per la precisione cinque. In ipotesi, dunque il collegio che ha giudicato Creazzo poteva essere composto di sole esponenti del gentil sesso. Ma a parte ciò, vale la pena di ricordare che in questi giorni la pm Sinatra non ha ricevuto la solidarietà dei colleghi. Anzi. Nei suoi confronti sono stati aperti due procedimenti: uno davanti ai probiviri dell’Associazione nazionale magistrati, ed uno davanti alla stessa sezione disciplinare del Csm che ha sanzionato Creazzo. Il motivo è riconducibile alle sue chat con Luca Palamara. Avendo detto che Creazzo era un “porco” e che doveva essere segato quanto prima nella corsa per la Procura di Roma, la magistrata avrebbe commesso una grave “scorrettezza”.
Secondo la Procura generale della Cassazione di questo Paese, lo sfogo di una donna magistrato che ha subito pesanti avances sessuali è passibile di sanzione disciplinare. La magistrata attende il verdetto nei suoi confronti il prossimo 14 gennaio. Ad assistere la pm antimafia è il professore siciliano Mario Serio, già componente laico del Csm. Sarebbe sorprendente se dopo la pronuncia “soft” nei confronti di Creazzo, pur a fronte della gravità del fatto (il procuratore di Firenze, da quanto si è potuto sapere, avrebbe palpeggiato le parti intime della magistrata), la dottoressa Sinatra venisse a sua volta sanzionata. Per il Csm, ed è il dato di fondo, è molto più grave se un magistrato chatta con Palamara che se molesta sessualmente una collega. Forse Sergio Mattarella, che è anche presidente del Csm, non ha tutti i torti quando parla della necessità di una “rigenerazione etica” in magistratura. Paolo Comi
Creazzo dovrà astenersi. Caso Palamara, la Procura di Firenze si sveglia e indaga sulla fuga di notizie. Redazione su Il Riformista il 17 Gennaio 2021. La Procura di Firenze si sveglia e apre un fascicolo sulla fuga di notizie relative al caso Palamara, coperte dal segreto istruttorio, che il 28 maggio 2019 finirono in possesso dei cronisti di Repubblica e Corriere della Sera. Ne dà notizia Il Fatto Quotidiano. L’inchiesta dei pm perugini ha svelato, tramite un utilizzo ancora poco chiaro del trojan (quel marchingegno che permette di trasformare un cellulare in un telefono spia che trasmette tutto ciò che avviene attorno a lui), le manovre all’interno della magistratura per la successione di Giuseppe Pignatone alla guida della Procura di Roma. L’ex presidente dell’Anm Luca Palamara (nei mesi scorsi espulso dalla magistratura ad opera del Csm) finì il 29 maggio dello stesso anno sulle prime pagine dei due quotidiani nonostante le notizie riportate fossero coperte dal segreto istruttorio e in possesso soltanto dei magistrati inquirenti e dei militari del Gico (Gruppi d’investigazione sulla criminalità organizzata) della Guardia di Finanza. L’inchiesta della Procura fiorentina, guidata da Giuseppe Creazzo (che dovrà astenersi perché coinvolto nelle chat di Palamara), designata a indagare sulla procura di Perugia, è scattata dopo un esposto, presentato nei mesi scorsi, dallo stesso Palamara e potrebbe far luce su uno scandalo che coinvolge decine di magistrati e che getta un’ombra di fango molto larga sull’istituzione magistratura.
Giustizia, Creazzo lascia in anticipo: così si estingue il procedimento sulle molestie sessuali alla collega Sinatra. Conchita Sannino su La Repubblica il 13 maggio 2021. Il procuratore di Firenze va in pensione quattro anni prima del tempo. Una decisione che annulla l'indagine disciplinare che lo vede sotto accusa al Csm. Il magistrato: "Non avevo prospettive di carriera". Pensionamento anticipato. Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, getta la spugna: chiede di lasciare la toga con quattro anni di anticipo. La richiesta sarebbe già stata inoltrata al Csm e al ministero della Giustizia. Impossibile non collegare una tale decisione al procedimento disciplinare che lo vede sotto accusa dinanzi al Csm, per le presunte molestie consumate sulla collega, pm a Palermo, Alessia Sinatra.
Csm, molestie sulla pm Sinatra, un testimone racconta: "Lei si sentì tradita da Creazzo, era sconvolta". Conchita Sannino su La Repubblica il 22 aprile 2021. Cominciato il processo che vede la magistrata incolpata per dei messaggi con Palamara. Sotto processo anche il procuratore presunto molestatore, che ha sempre negato. “Mi confidó tutto. La dottoressa Sinatra mi raccontó che, dopo una cena di lavoro, era stata oggetto di un approccio fisico, intrusivo, da parte del dottor Creazzo, un collega che lei stimava. E dal quale, con quel gesto, si sentì improvvidamente tradita e umiliata. Ne fu sconvolta”. É cominciato con il racconto di un testimone, che ha confermato le molestie subite dalla pm Alessia Sinatra, il processo - dinanzi alla Sezione disciplinare del Csm - a carico della stessa toga, sostituto procuratore a Palermo.
Caso Creazzo: “La pm era sconvolta dal suo approccio fisico intrusivo”. Prima udienza disciplinare al Csm nei confronti della pm di Palermo Alessia Sinatra: al centro del processo davanti al 'tribunale delle toghe', la vicenda emersa da una chat tra Sinatra e Luca Palamara, riguardante presunte molestie che la pm sostiene di aver subito dal capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo. Il Dubbio il 23 aprile 2021. Prima udienza disciplinare al Csm nei confronti della pm di Palermo Alessia Sinatra: al centro del processo davanti al ‘tribunale delle toghe’, la vicenda emersa da una chat tra Sinatra e Luca Palamara, riguardante presunte molestie che la pm sostiene di aver subito dal capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo. Nel messaggi, estrapolati dal telefono di Palamara, Sinatra sollecitava la bocciatura di Creazzo nella corsa all’incarico direttivo per la guida della procura di Roma. La procura generale della Cassazione muove, dunque, a Sinatra l’incolpazione di aver tenuto in tal modo un “comportamento gravemente scorretto”, nei confronti del capo dei pm di Firenze per ottenere una sorta di “giustizia riparativa”. Per questa vicenda, Creazzo – che ha sempre respinto le accuse – e’ in attesa dell’avvio del procedimento disciplinare, il cui inizio e’ previsto per il 7 maggio. L’udienza di oggi si e’ aperta con un’eccezione del difensore di Sinatra, il professor Mario Serio, con la quale si e’ messa in evidenza la non corrispondenza delle trascrizioni delle chat estratte dal telefono di Sinatra con quelle inserite nel capo di incolpazione. Inoltre, e’ stato sentito un teste – il neuropsichiatra infantile Francesco Vitrano, che ha svolto lavori di consulenza con la pm di Palermo – chiamato dalla difesa, il quale ha riferito che Sinatra aveva confidato anche a lui le presunte avances di Creazzo, e sottolineato come la pm fosse rimasta “sconvolta”, per tale episodio, considerandolo “una sorta di tradimento”. “Mi raccontò che al ritorno di una cena di lavoro, mentre rientrava nella sua camera il collega ebbe un approccio fisico intrusivo nei suoi confronti e questa cosa l’aveva turbata molto. Lei era molto sconvolta perchè aveva grande fiducia nei confronti del collega e considerò questo episodio come un tradimento non solo sul piano personale. Si sentiva molto sofferente e violata nella sua intimità e per lei era molto doloroso”, ha riferito il testimone, secondo il quale, da quell’episodio- che Creazzo smentisce – la pm, a cui sarebbero bastate “scuse che credo non siano mai arrivate”, avrebbe per anni sofferto di attacchi di panico e crisi d’ansia. La prossima udienza è stata convocata per il 15 luglio. Saranno ascoltate la sorella della magistrata Alessandra, e il giudice di Palermo Bruno Fasciana.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 16 gennaio 2021. E adesso nel caso Palamara fa irruzione il #Metoo: la questione planetaria del sesso arrembante, delle molestie, del potere usato a fini di conquista. Perché, come era statisticamente inevitabile, nell'oceano di chat intercettate sul telefono dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, saltano fuori anche faccende che hanno poco a che fare con le nomine e le correnti. E investono la correttezza dei rapporti umani. Col risultato che nel mirino del Consiglio superiore della magistratura finiscono i protagonisti di una storia - per larghi aspetti ancora oscura - di presunte avances in ascensore: sono il presunto molestatore e la presunta molestata, entrambi nomi di spicco di Unicost, la stessa corrente di Luca Palamara. Lei è Alessia Sinatra, bionda e tosta pm di Palermo, una vita di inchieste in prima linea e di impegno nella corrente di centro delle toghe. Lui è un nome ancora più importante: Giuseppe Creazzo, procuratore della Repubblica a Firenze che ha condotto le indagini contro l'ex premier Matteo Renzi. Che nel periodo radiografato dall'inchiesta era in corsa per diventare capo della Procura di Roma, in quello scontro feroce tra correnti che alla fine ha portato all' incriminazione di Palamara. Sconfitto da Michele Prestipino, Creazzo non si è arreso e ha fatto ricorso al Tar, che non si è ancora pronunciato. Il trojan della Guardia di finanza racconta in diretta quella faida. Ma il 23 maggio intercetta anche un messaggio della Sinatra a Palamara: «Giurami che il porco cade subito». Il contesto dice chiaramente che il riferimento è a Creazzo: «il porco di Firenze», lo definisce ancora la Sinatra, e poi ancora «porco mille volte», «essere immondo e schifoso». Così quando la Procura di Perugia, che ha condotto l'inchiesta su Palamara, gira tutte le chat alla Procura generale della Cassazione perché valuti i procedimenti disciplinari contro i magistrati coinvolti, nell'elenco finisce anche la Sinatra, per le espressioni violente usate contro Creazzo. La Procura generale della Cassazione a settembre convoca la Sinatra e la interroga. E lei non si rimangia niente, anzi: «Ho reso le più ampie e complete spiegazioni liberatorie», racconta ieri la pm siciliana al Giornale. La cosa, dunque, non finisce lì. Il seguito è ancora avvolto dal segreto, ma qualcosa si riesce a ricostruire. Perché un fascicolo che ricostruisce tutta la vicenda approda sul tavolo della Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. È la commissione che si occupa di trasferire i magistrati incompatibili con la funzione che ricoprono o il territorio in cui operano. Il fascicolo contiene il provvedimento di archiviazione di un procedimento penale aperto proprio a carico di Creazzo, il procuratore capo di Firenze. L'inchiesta su Creazzo, secondo quanto è dato capire, nasce proprio dalle intercettazioni della Sinatra. In quel fascicolo si spiega anche da dove scaturisce la sequela di insulti riservati dalla pm. Si parla di un incontro in ascensore durante il quale Creazzo avrebbe manifestato un trasporto decisamente inammissibile verso una giovane e bella collega. Perché il fascicolo a carico di Creazzo viene archiviato? Due ipotesi: o l'accusa si è rivelata inconsistente, o la presunta vittima ha scelto di non sporgere querela. Ma l'archiviazione dell'indagine penale non chiude la pratica davanti al Csm. Perché, querela o non querela, se i fatti sono avvenuti non si può fare finta di niente. Così la Prima commissione dovrà indagare, capire cosa è accaduto davvero, e decidere chi dei due magistrati sia incompatibile con la sua funzione. A meno che la Procura generale della Cassazione giochi d'anticipo, e ne metta uno o due sotto procedimento disciplinare.
Caso Csm-Palamara: per le chat dell'ex pm rischia il posto il procuratore di Firenze Creazzo. Liana Milella su La Repubblica il 16 gennaio 2021. La procura generale della Cassazione ha mandato al Csm l’interrogatorio della pm di Palermo Alessia Sinatra che accusa Creazzo, chiamato “il porco”, per un’avance in ascensore. Sarebbe accaduto 5 anni fa e lei non lo aveva denunciato prima. Lui nega tutto. Al Csm l’imbarazzo è tangibile. Ma il fatto è lì, ormai ha preso forma. Riguarda un magistrato noto come Giuseppe Creazzo, il procuratore di Firenze. Proprio quello che sta indagando su Renzi per via di Open. Che adesso, in ultima battuta, potrebbe rischiare anche una contestazione per incompatibilità ambientale. Ma, prim’ancora di arrivarci, sarà costretto ad affrontare un’inchiesta imbarazzante su una presunta avance che avrebbe fatto a una collega. Cinque anni fa, in un albergo romano. Lei è Alessia Sinatra, pm a Palermo, volto noto per chi frequenta l’Anm, di cui è stata vice presidente per conto di Unicost, la sua corrente da sempre. E proprio quando lui e lei, cinque anni fa, facevano parte dello stesso Comitato direttivo centrale, ed erano a Roma per una riunione, si sarebbe verificato il fattaccio. Che ovviamente lui, il procuratore, smentisce in modo netto, anche se si trincera subito nel silenzio. “Mi hanno consigliato di non parlare” dice con una voce decisamente provata. È lo stesso imbarazzo che si coglie tra i consiglieri del Csm. Un riserbo che sembra celare particolari inediti rispetto a una storia che da mesi ormai è di pubblico dominio, perché di mezzo c’è sempre Luca Palamara con le sue chat. Palamara di Unicost, Sinatra di Unicost, e anche Creazzo di Unicost. Anni di frequentazioni. E uno scambio via chat che il 23 maggio del 2019 inguaia Sinatra, ma pure Creazzo. Perché lei, che è in estrema confidenza con Palamara, parla del “porco” alludendo a Creazzo. Lo qualifica come “un essere immondo e schifoso”, preme perché non venga votato come procuratore di Roma. Palamara la rassicura. Ma lei insiste giudicandolo “porco mille volte”. Una settimana dopo il Gico sequestra il cellulare di Palamara; un anno dopo le chat diventano il libro nero della magistratura; quattro mesi dopo la divulgazione lei finisce sotto inchiesta disciplinare. E qui entriamo nei misteri del caso. Che, per ora, ha un paio di punti fermi. Sinatra è stata interrogata dai procuratori generali che lavorano con Giovanni Salvi nell’ambito di una pre incolpazione disciplinare. Oggi lei si definisce “fiduciosa in una rapida soluzione del caso considerata la correttezza del mio operato”. Assicura di “aver fornito ogni chiarimento” per le presunte avance di Creazzo in ascensore. Perché a questo punto è chiaro che il “porco” di cui si parla è lui. Va da sé che la versione di Creazzo è del tutto opposta. Tra la voglia di dire e non dire, di liberarsi di un peso e il timore di fare un danno, Creazzo non parla tra virgolette. Si può solo capire che non sottoscrive una sola parola di una ricostruzione che lo colpevolizza e gli muove degli addebiti pesanti. Stiamo parlando di eventuali fatti di 5 anni fa, perseguibili a querela, ma che in quel momento non sono stati denunciati. Ma che adesso potrebbero aver preso forma nelle dichiarazioni di Alessia Sinatra davanti ai sostituti procuratori generali della Cassazione. Al punto da sospingere la procura generale di Salvi a mandare tutte le carte al Csm. Il fascicolo è giunto nelle mani del vice presidente David Ermini che ha seguito la procedura ordinaria: inviare subito dopo Natale le carte alla prima commissione che si occupa delle cosiddette incompatibilità ambientali. Ed è chiaro che se si dovesse accertare che Creazzo ha tenuto comportamenti scorretti nei confronti di una sua collega la sua posizione vacillerebbe. L’unico fatto certo è che da Roma, dalla Cassazione, Creazzo non ha ricevuto finora alcuna comunicazione per un approfondimento disciplinare. Ma a questo punto, con l’interrogatorio di Sinatra al Csm, per Creazzo si apre una pagina pesante che rischia di appannare la sua carriera - è stato pm a Reggio Calabria e procuratore a Palmi, autore delle indagini sul delitto Fortugno, nonché vice capo dell’ufficio legislativo di via Arenula - soprattutto in vista di possibili posti futuri visto che ha chiesto di poter fare il procuratore di Bari, oppure il procuratore generale di Catanzaro oppure di Reggio Calabria. I colleghi che hanno lavorato con lui adesso lo descrivono come uno che, anche in una cena tra soli uomini, non si lasciava andare ad apprezzamenti pesanti sulle donne, ma sarà il confronto tra lui e lei a far capire la verità su quei minuti in ascensore, e scrivere la storia di queste due carriere.
La pm: molestie dal procuratore. Ma a finire sotto processo è lei. Alessia Sinatra si rivolse all'ex capo dell'Anm e ora si sfoga: "Vittima di violenza due volte". Liana Milella su La Repubblica il 4/2/2021. "Mi sento violata per la seconda volta. Non si può fare questo alla vittima di una violenza sessuale. Non lo auguro a nessuno. La mia amarezza è sconfinata. Ma domattina vado in udienza lo stesso". Bisogna cominciare da questo sfogo per raccontare l'ennesimo e incredibile capitolo dell'affaire Palamara. Lei è Alessia Sinatra, pm antimafia a Palermo. Alta. Bionda. Sempre elegante. Toga di Unicost. Il 23 maggio 2019, al telefono con il suo amico Luca Palamara, parla del "porco di Firenze ". E giù invettive, "giurami che il porco cade subito". E ancora: "Essere immondo e schifoso". Di più, "porco mille volte". Visto il contesto - il 26 maggio la commissione per gli incarichi direttivi del Csm deve scegliere il procuratore di Roma - si capisce subito che il "porco" è il capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo. Anche lui di Unicost. Quello a cui Palamara si è rivolto contestando una fuga di notizie da Perugia che lo manda a processo per corruzione. Ma quella chat, stavolta, svela un retroscena privatissimo - un episodio di "violenza sessuale " come lo definisce la vittima che però non lo ha denunciato - che ha un epilogo imprevisto, si trasforma in una "nuova violenza" come Sinatra dice a Repubblica. Perché sulla sua testa adesso pende una "incolpazione" disciplinare. La procura generale della Cassazione ha preso in mano la chat, ha convocata la pm a settembre, le ha chiesto perché parlava di un "porco" e perché invitava l'allora potente Palamara a non promuoverlo procuratore di Roma. Lei racconta tutto. La violenza subita - tuttora e senza incertezze la definisce così - in un corridoio di un albergo di Roma, l'hotel Isa di via Cicerone, quando lei e Creazzo erano lì nel 2015 per un convegno. Racconta di averne parlato subito con persone amiche. Ne indica i nomi. Palamara, anche lui di Unicost, era tra queste. Dice che non ha presentato una denuncia "per tutelare l'istituzione, ma è stata la decisione più difficile e sofferta della mia vita professionale". Attende fiduciosa che la procura generale comprenda e archivi tutto. Non finisce così. Ieri il suo avvocato Mario Serio, un ex Csm, ha ricevuto le tre pagine che aprono il procedimento disciplinare. Non ci sono dettagli pruriginosi, ma un'accusa precisa: Sinatra sarebbe colpevole "per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di Creazzo in quanto coinvolgeva Palamara in una missione per condizionare negativamente il Csm". Insomma, quando Sinatra dice a Palamara "giurami che il porco cade subito" gli starebbe chiedendo di alterare il voto per Roma. Ma c'è un'altra frase che sconvolge la pm. Il passaggio in cui è scritto che lei parlava così a Palamara "per soddisfare la necessità di una giustizia riparativa, per ottenere una rivincita morale sul soggetto che nel 2015 aveva posto in essere una condotta abusante e in violazione della sua sfera di libertà sessuale". Sinatra adesso dice: "Mi sono sentita violata per la seconda volta, un trattamento da non riservare mai a nessuna vittima. Mi si sta negando di esprimere la mia sofferenza". Un sentimento che diventerà più forte quando dovrà sedersi davanti ai giudici della disciplinare che vorranno conoscere i particolari. Una violenza che "per senso istituzionale " non ha voluto denunciare. Tant'è che solo dopo la deposizione in Cassazione la storia arriva alla procura di Roma che, in assenza di una querela presentata entro sei mesi dal fatto, non può che archiviare. Adesso lei si augura che anche altre chat con Palamara, "un amico al quale sin da subito ho confidato il mio dolore", siano state recuperate. Il suo linguaggio era aggressivo? "Sono una donna violata, è naturale che parlando di quella persona le mie emozioni vengano sollecitate. Stavo male a incontrarlo, a volte però l'ho anche salutato, ma tutti avevano capito che c'era stato un allontanamento ". Creazzo nega tutto. Per lui non c'è un'azione disciplinare. C'è solo un fascicolo davanti alla prima commissione, quella che si occupa dei trasferimenti per incompatibilità ambientale. Ma poiché si può trasferire una toga solo se ha commesso un atto che compromette il suo lavoro nell'ufficio dove lavora, è improbabile che la storia possa avere conseguenze.
Luca Palamara, la chat con la pm Alessia Sinatra: "Giurami che il porco cade subito, essere immondo e schifoso". Libero Quotidiano il 04 febbraio 2021. “Mi sento violata per la seconda volta”: a parlare è Alessia Sinatra, pm antimafia a Palermo, e un’altra delle protagoniste dell’affaire Palamara. Per capire meglio di cosa si parla, bisogna fare un salto indietro al 23 maggio 2019. Quel giorno, la Sinatra scrive al suo amico Luca Palamara, parlando del “porco di Firenze”, con tanto di invettive: “Giurami che il porco cade subito. Essere immondo e schifoso, porco mille volte”. Il riferimento è al capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo, in lizza per la procura di Roma. La chat in questione rivela un retroscena molto privato, un episodio di violenza sessuale, come lo ha definito la vittima, che però non lo ha mai denunciato. Sulla testa della Sinatra pende adesso una “incolpazione” disciplinare. La procura generale della Cassazione, infatti, ha analizzato la chat, ha convocato la pm a settembre e le ha chiesto perché parlava di un “porco”, pregando Palamara di non promuoverlo procuratore di Roma. Lei allora ha raccontato tutto: la violenza subita in un hotel di Roma nel 2015. Ha spiegato anche il motivo per cui all’epoca decise di non presentare una denuncia: “Per tutelare l’istituzione, ma è stata la decisione più difficile e sofferta della mia vita professionale”. A quel punto, la Sinatra si aspetta che la procura archivi tutto. E invece non va così. Si apre, anzi, un procedimento disciplinare: Alessia Sinatra sarebbe colpevole “per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di Creazzo in quanto coinvolgeva Palamara in una missione per condizionare negativamente il Csm". Dunque, quando la pm scriveva a Palamara, “giurami che il porco cade subito”, in realtà – secondo gli inquirenti – gli stava chiedendo di alterare il voto per Roma. A sconvolgere la Sinatra è il passaggio in cui è scritto che lei parlava così “per ottenere una rivincita morale sul soggetto che nel 2015 aveva posto in essere una condotta abusante e in violazione della sua sfera di libertà sessuale”. “Mi sono sentita violata per la seconda volta, un trattamento da non riservare mai a nessuna vittima. Mi si sta negando di esprimere la mia sofferenza”, si è sfogata la donna con Repubblica. Creazzo intanto ha negato tutto.
Il caso Sinatra-Creazzo. “Creazzo è un porco”, ma a finire sotto processo è la pm che accusava di molestie il procuratore capo di Firenze. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Giudizio disciplinare per Giuseppe Creazzo ma anche per la sua accusatrice, Alessia Sinatra. È la richiesta arrivata dalla Procura generale della Cassazione guidata da Giovanni Salvi. La vicenda riguarda le accuse di molestie sessuali rivolte dal pm di Palermo Sinatra nei confronti del procuratore capo di Firenze Creazzo: un caso risalente al 2015 ed emerso da alcune chat della pm di Palermo con l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, recentemente radiato dal Csm dopo un processo lampo. “Giurami che il porco cade subito”, scrisse la Sinatra, ex vicepresidente dell’Anm ed esponente di primo piano di Unicost in Sicilia, il 23 maggio dello scorso anno a Luca Palamara, l’ex zar delle nomine al Csm ed ex presidente dell’Anm. Il porco, come si capirà nei messaggi successivi, era Giuseppe Creazzo, l’attuale procuratore di Firenze, anch’egli toga di Unicost. L’azione disciplinare nei confronti di Creazzo è stata richiesta “a seguito delle accuse specificamente a lui rivolte dalla dr.ssa Sinatra in sede di interrogatorio disciplinare”, si legge in una nota firmata da Salvi. Quanto alla stessa pm di Palermo, l’azione disciplinare nei suoi confronti nasce invece “non certo per aver denunciato i fatti”, precisa l’ufficio del pg, ma per “l’uso improprio di quei fatti, al fine di ricercare una privata ‘giustizia’, come dalla stessa dottoressa rappresentato. Valuterà la Sezione disciplinare se ciò costituisca condotta scorretta e se, in tal caso, essa possa considerarsi giustificata dagli aspetti personali coinvolti”. Il procedimento contro il sostituto della Dda di Palermo viene accolto con “amarezza e sorpresa” dall’ex consigliere del Csm Mario Serio, difensore della Sinatra. “La procura generale sembra considerare che la partita possa ritenersi chiusa in pareggio con due distinte incolpazioni“, spiega infatti Serio, che evidenzia come si tratti di “posizioni totalmente e sideralmente distanti l’una dall’altra e amareggia che si dica che la dottoressa Sinatra abbia inteso perpetrare una sorta di giustizia privata”. La Sinatra “non ha mai sostenuto questa tesi. Ha solo detto che si trattava di un privato colloquio nel quale risaltava la propria amarezza e il proprio rammarico” e per quanto riguarda i messaggi con Palamara “non ha mai inteso interferire con l’attività del Csm, né avrebbe potuto farlo, parlando con un estraneo al Consiglio superiore, una persona con cui aveva grande confidenza e una delle prime a cui nel passato aveva comunicato l’episodio”. Lo stesso Palamara è intervenuto sulla vicenda, sottolineando all’AdnKronos come pur essendo “l’interlocutore della chat con la Sinatra nella vicenda Creazzo non sia mai stato ascoltato come testimone”.
Liana Milella per "la Repubblica" il 4 febbraio 2021. «Mi sento violata per la seconda volta. Non si può fare questo alla vittima di una violenza sessuale. Non lo auguro a nessuno. La mia amarezza è sconfinata. Ma domattina vado in udienza lo stesso». Bisogna cominciare da questo sfogo per raccontare l'ennesimo e incredibile capitolo dell'affaire Palamara. Lei è Alessia Sinatra, pm antimafia a Palermo. Alta. Bionda. Sempre elegante. Toga di Unicost. Il 23 maggio 2019, al telefono con il suo amico Luca Palamara, parla del «porco di Firenze». E giù invettive, «giurami che il porco cade subito». E ancora: «Essere immondo e schifoso». Di più, «porco mille volte». Visto il contesto - il 26 maggio la commissione per gli incarichi direttivi del Csm deve scegliere il procuratore di Roma - si capisce subito che il "porco" è il capo della procura di Firenze Giuseppe Creazzo. Anche lui di Unicost. Quello a cui Palamara si è rivolto contestando una fuga di notizie da Perugia che lo manda a processo per corruzione. Ma quella chat, stavolta, svela un retroscena privatissimo - un episodio di «violenza sessuale » come lo definisce la vittima che però non lo ha denunciato - che ha un epilogo imprevisto, si trasforma in una «nuova violenza» come Sinatra dice a Repubblica. Perché sulla sua testa adesso pende una "incolpazione" disciplinare. La procura generale della Cassazione ha preso in mano la chat, ha convocato la pm a settembre, le ha chiesto perché parlava di un "porco" e perché invitava l'allora potente Palamara a non promuoverlo procuratore di Roma. Lei racconta tutto. La violenza subita - tuttora e senza incertezze la definisce così - in un corridoio di un albergo di Roma, l'hotel Isa di via Cicerone, quando lei e Creazzo erano lì nel 2015 per un convegno. Racconta di averne parlato subito con persone amiche. Ne indica i nomi. Palamara, anche lui di Unicost, era tra queste. Dice che non ha presentato una denuncia «per tutelare l'istituzione, ma è stata la decisione più difficile e sofferta della mia vita professionale». Attende fiduciosa che la procura generale comprenda e archivi tutto. Non finisce così. Ieri il suo avvocato Mario Serio, un ex Csm, ha ricevuto le tre pagine che aprono il procedimento disciplinare. Non ci sono dettagli pruriginosi, ma un'accusa precisa: Sinatra sarebbe colpevole «per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di Creazzo in quanto coinvolgeva Palamara in una missione per condizionare negativamente il Csm». Insomma, quando Sinatra dice a Palamara «giurami che il porco cade subito» gli starebbe chiedendo di alterare il voto per Roma. Ma c'è un'altra frase che sconvolge la pm. Il passaggio in cui è scritto che lei parlava così a Palamara «per soddisfare la necessità di una giustizia riparativa, per ottenere una rivincita morale sul soggetto che nel 2015 aveva posto in essere una condotta abusante e in violazione della sua sfera di libertà sessuale». Sinatra adesso dice: «Mi sono sentita violata per la seconda volta, un trattamento da non riservare mai a nessuna vittima. Mi si sta negando di esprimere la mia sofferenza». Un sentimento che diventerà più forte quando dovrà sedersi davanti ai giudici della disciplinare che vorranno conoscere i particolari. Una violenza che «per senso istituzionale» non ha voluto denunciare. Tant'è che solo dopo la deposizione in Cassazione la storia arriva alla procura di Roma che, in assenza di una querela presentata entro sei mesi dal fatto, non può che archiviare. Adesso lei si augura che anche altre chat con Palamara, «un amico al quale sin da subito ho confidato il mio dolore», siano state recuperate. Il suo linguaggio era aggressivo «Sono una donna violata, è naturale che parlando di quella persona le mie emozioni vengano sollecitate. Stavo male a incontrarlo, a volte però l'ho anche salutato, ma tutti avevano capito che c'era stato un allontanamento». Creazzo nega tutto. Per lui non c'è un'azione disciplinare. C'è solo un fascicolo davanti alla prima commissione, quella che si occupa dei trasferimenti per incompatibilità ambientale. Ma poiché si può trasferire una toga solo se ha commesso un atto che compromette il suo lavoro nell'ufficio dove lavora, è improbabile che la storia possa avere conseguenze.
(ANSA il 5 febbraio 2021) "I fatti sono stati chiaramente e nettamente denunciati e da essi è nato anche un procedimento penale archiviato sull'unico presupposto che si trattasse di ipotesi delittuosa solo perseguibile a querela e che non ricorressero le condizioni per la procedibilità d'ufficio". Lo sottolinea l'ex consigliere del Csm Mario Serio, legale di Alessia Sinatra, la pm di Palermo che accusa il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo di molestie sessuali. Sia per il procuratore (che nega tutto) sia per la pm la procura generale della Cassazione ha chiesto il giudizio disciplinare davanti al Csm. La ragione dell'intervento del professore Serio, "uno stupefacente commento di stampa" ,che "aggrava le non lenite sofferenze" della sua assistita e in cui , "come spesso accade nelle occasioni in cui la libertà sessuale di una donna è violata, quest'ultima diviene oggetto di sospetti , riserve o addirittura scherno". In quel commento "si rimprovera apertamente Alessia Sinatra di non aver denunciato il fatto così contribuendo allo svilimento della magistratura cui appartiene e indirettamente incoraggiando l'omertà nelle ipotesi di violenza sessuale. Tutto questo è non soltanto frutto di inadeguata informazione - lamenta Serio- ma soprattutto indice dell'incapacità di leggere l'animo , la psicologia, la sensibilità di una donna violata, la quale non solo ha denunciato i fatti nell'occasione appropriata, ma ha ha ampiamente chiarito le ragioni dell'iniziale resistenza emotiva a denunciare, ben consapevole del muro di incredulità che come i fatti odierni purtroppo dimostrano si sarebbe potuto ergere nei suoi confronti anche nell'istituzione in cui opera". "Alessia Sinatra è un simbolo per la magistratura che agisce a difesa dei più deboli e avrebbe immaginato che laddove avesse versato in condizioni di fragilità la solidarietà si sarebbe levata alta e onorevole. Attende con fiducia che questo presto accada. Ed è questa l'unica rivincita che si attende. Non pertanto giustizia privata: l'unica giustizia concepibile per Alessia Sinatra è quella che si celebra giorno dopo giorno nelle aule di giustizia in Italia", sottolinea ancora il suo difensore, riferendosi all'accusa che le viene mossa nel giudizio disciplinare, a cui "con animo provato ma forte della verità, dovrà auspicabilmente tra breve sottoporsi" L'avvocato precisa infine che il teste che la procura generale della Cassazione "dopo averne disposto la citazione ha rinunciato a sentire su circostanze di indiscutibile rilevanza è uno stimato professionista assolutamente estraneo all'ambiente giudiziario". Una sottolineatura per smentire che si tratti di Luca Palamara, come ipotizzato da un quotidiano.
Liana Milella e Luca Serranò per “la Repubblica” il 5 febbraio 2021. «Mi hanno fregato, comunque vada a finire ne esco a pezzi. Ma se il Csm mi darà ragione non escludo una denuncia per calunnia ». Non parla con la stampa, ma inevitabilmente si sfoga con i colleghi Giuseppe Creazzo, il capo della procura di Firenze finito sotto la scure disciplinare del Pg della Cassazione Giovanni Salvi. Perché nel 2015, in un corridoio dell' hotel Isa di via Cicerone a Roma, avrebbe tentato un approccio pesante con la collega di Palermo Alessia Sinatra fino ad aprirle la pelliccia. Lei lo respinge, si precipita in camera, chiama subito Luca Palamara, amico e compagno di Unicost, e gli racconta tutto. Definisce Creazzo, di Unicost pure lui, un «porco», come farà il 23 maggio 2019 via chat invitando lo stesso Palamara a non votarlo per la procura di Roma. E finisce sotto processo disciplinare. Creazzo nega tutto. Affida al procuratore di Siena Salvatore Vitello la sua difesa. Si ritiene vittima di un «complotto». Alla Sinatra non fa sconti: «Parliamo di una donna di cinquanta anni. Un magistrato che si occupava di fasce deboli. Perché non ha fatto denuncia? Perché non è mai successo nulla di quello che dice». Eppure in quell' albergo c' era anche la sorella di lei che sentì le grida in corridoio. E poi i suoi racconti agli amici. Tant' è che Palamara nel suo libro sul "Sistema" scrive: «Io posso dire che Alessia mi aveva confidato, con una ricchezza di particolari tale che è difficile pensare che se lo sia inventato, di aver subito pesanti a vances da Creazzo». Ma il procuratore di Firenze, autore delle inchieste sui genitori di Renzi e su Renzi stesso, vede solo accuse infondate. Dice che i colleghi gli stanno dimostrando «la più ampia solidarietà». A più di uno ha confidato i suoi dubbi, l' idea di essere finito in un giro più grande di lui. Ragiona sui fatti: «Se quello che dice lei fosse vero Palamara lo avrebbe usato contro di me. E invece nelle famose cene sul destino della procura di Roma non se ne parlava». Con i colleghi rivede il film della sua carriera: «Faccio il magistrato da 40 anni, e mai un' ombra. L' inchiesta di Perugia ha dimostrato che faccio il mio dovere seriamente». Ma la sua paura è che, comunque vada, sarà difficilissimo riprendersi. Continua a ripetere «sono nel tritacarne». E ieri mattina lo ha lasciato di stucco che fosse il Pg Salvi in persona, cosa mai accaduta, ad annunciare alla stampa la sua messa in stato di accusa. Dall' altra parte Sinatra conferma tutto, Creazzo fu l' artefice della violenza, lei non denunciò «per non compromettere le istituzioni », l' azione disciplinare contro una vittima è «del tutto inaccettabile ».
E il procuratore Creazzo finì nel tritacarne mediatico. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 6 febbraio 2021. Il magistrato incolpato (con la collega che ne ha fatto il nome) alla vigilia dei ricorsi sulla Procura di Roma. Il processo mediatico, ed i suoi nefasti e deleteri effetti, irrompe nel mondo delle toghe, rendendo il clima incandescente. Il giorno dopo la pubblicazione della notizia che la Procura generale della Cassazione ha chiesto per Giuseppe Creazzo, il procuratore di Firenze, il giudizio a seguito delle accuse formulate nei suoi confronti dalla dottoressa Alessia Sinatra, sostituto presso la Dda di Palermo, si è creato grande sconcerto ed imbarazzo nel Palazzo di Giustizia del capoluogo toscano. La decisione del procuratore generale Giovanni Salvi di diramare un comunicato stampa con i dettagli della vicenda, se da un lato è apprezzabile in un’ottica di trasparenza, dall’altro ha determinato un deficit di legittimazione esterna da parte del capo della Procura, attualmente impegnato in molte indagini delicate. Chi ha sentito in queste ore Creazzo riferisce di aver colto nelle parole del procuratore “grandissima amarezza” per quanto accaduto. Il magistrato, infatti, è accusato di aver fatto delle avances alla pm antimafia di Palermo Alessia Sinatra, anche lei a giudizio disciplinare, durante un convegno a Roma nel dicembre del 2015. La dottoressa Sinatra si era sfogata con Luca Palamara con alcuni messaggi che poi erano finiti su tutti i giornali. «La mia sofferenza voleva e doveva restare privata. Desidero soltanto un po’ di rispetto ed il silenzio», aveva detto la pm siciliana, stigmatizzando il fatto che comunicazioni riservate fossero state poi utilizzate per delle contestazioni disciplinari. Creazzo è anche in attesa della decisione del Tar del Lazio sul ricorso presentato lo scorso anno contro la nomina del procuratore di Roma Michele Prestipino. La pronuncia dovrebbe essere nota entro i prossimi giorni. Certamente il procuratore non immaginava che sarebbe arrivata in un momento simile che sembra essere il secondo capitolo della “battaglia” per la Procura di Roma iniziata a maggio del 2019. Creazzo, comunque, ha in corso anche la domanda per occupare il posto di procuratore generale a Catanzaro, posto lasciato libero lo scorso anno da Otello Lupacchini, trasferito a Torino ed ora sotto disciplinare a Palazzo dei Marescialli per alcune affermazioni nei confronti del procuratore Nicola Gratteri. Anche la presidente del Tribunale di Firenze Marilena Rizzo, sempre a causa delle chat con Palamara, è finita sotto procedimento disciplinare con l’accusa di aver violato i “doveri di correttezza, leale comportamento, equilibrio e riserbo” suggerendo nomine di magistrati a lei vicini. A Firenze, come detto, si stanno conducendo indagini delicate, ad iniziare da quella sulla Fondazione Open. Ma è sulla fuga di notizie sul procedimento di Perugia a carico di Palamara che si rischia di non arrivare in tempo. Il calendario incombe. Ci sono ancora un paio di mesi per poter svolgere accertamenti sui nomi che Palamara avrebbe fatto, il condizionale è d’obbligo, quando è stato sentito dai pm fiorentini nelle scorse settimane. Dopo due anni, infatti, i dati non saranno più disponibili. rendendo impossibile qualsiasi verifica. L’articolo 132 del Codice in materia di protezione dei dati personali prevede che il traffico telefonico venga conservato per un periodo di 24 mesi. Dopo scatta la cancellazione di tutti i dati. Se la Procura di Firenze, "travolta" dalle chat di Palamara, vuole capire chi divulgò prima del tempo le intercettazioni effettuate nei confronti dell’ex presidente dell’Anm deve fare presto. In questo gioco di specchi, la verità rischia di restare fuori.
Luca Palamara rivela: "Non solo Alessia Sinatra. Avances e molestie di molti magistrati". Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. Quello della pm Alessia Sinatra, che ha accusato il magistrato Giuseppe Creazzo di averla molestata a Roma nel 2015, pare non essere un caso isolato. La vicenda è venuta fuori dopo un'intervista della pm a Repubblica: "Mi sono sentita violentata un'altra volta", ha detto riferendosi a un atto di incolpazione pendente sulla sua testa. La Procura generale della Cassazione, infatti, ha esercitato l'azione disciplinare nei suoi confronti. Azione partita dopo che la Guardia di Finanza ha intercettato una chat - risalente al maggio del 2019 - in cui la donna scrive a Luca Palamara, facendo una richiesta ben precisa su Creazzo: "Giurami che il porco cade subito. Essere immondo e schifoso, porco mille volte". In quel periodo infatti Creazzo, a capo della procura di Firenze, era in lizza per la procura di Roma. L'atto di incolpazione, quindi, è arrivato perché la Sinatra sarebbe colpevole di "aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di Creazzo, in quanto coinvolgeva Palamara in una missione per condizionare negativamente il Csm". La pm, quindi, avrebbe pregato Palamara di non promuovere Creazzo procuratore di Roma. Lei, poi, ha confessato di non aver mai denunciato la violenza "per tutelare l’istituzione, ma è stata la decisione più difficile e sofferta della mia vita professionale". Intanto il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ha fatto sapere che l'atto di incolpazione è arrivato anche a Creazzo, che a quanto pare l'ha ricevuto senza dirlo in giro. Palamara, testimone diretto della vicenda, ha dichiarato di non essere stato sentito dalla Procura generale. L'ex pm di Roma, tra l'altro, avrebbe potuto raccontare anche qualcosa in più. "A me è capitato spesso di raccogliere confidenze di colleghe, cancelliere, avvocate e pure giornaliste, ma anche di colleghi, su avances anche spinte ricevute da magistrati in posizioni apicali - ha spiegato nel libro Il Sistema -. In questi casi ho sempre cercato di sminuirne la portata, non perché ne sottovalutassi la gravità, ma per tutelare il buon nome della categoria. Non ho mai denunciato, mi sono limitato a dare consigli di buon senso, come quelli di evitare di trovarsi da sole in determinate stanze e rifiutare inviti a cena".
Non solo il caso Sinatra. Le toghe molestatrici rimangono impunite. Palamara: spesso le colleghe mi hanno raccontato di aver subito avances da giudici. Luca Fazzo, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Bisogna andare indietro di vent'anni, a un presidente di Cassazione finito sotto accusa perché palpava qualunque cancelliera gli capitasse a tiro, per trovare un «faro» acceso dal Consiglio superiore della magistratura sulle molestie sessuali negli uffici giudiziari. Ma erano altri tempi, il #Metoo era di là da venire. Ora il tema riesplode grazie al caso Palamara: ieri il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, annuncia di avere messo sotto procedimento disciplinare il procuratore della Repubblica di Firenze, Giuseppe Creazzo. Un notabile della magistratura italiana, un pezzo pesante di Unicost, la corrente di centro delle toghe, uomo di grandi relazioni e di grandi ambizioni. Che un giorno di dicembre del 2015 a Roma partecipa a un convegno, all'Hotel Isa in via Cicerone. Si parla di giustizia, di diritti, di temi nobili. Ma Creazzo, in una pausa, prende l'ascensore. Ci si trova a tu per tu con una collega di toga e di corrente: Alessia Sinatra, bella e bionda pm siciliana. E le mette le mani addosso. Mercoledì pomeriggio, Salvi fa partire l'atto di incolpazione per Creazzo, il quale lo riceve ma non lo dice in giro. Il problema è che un atto di incolpazione arriva anche alla vittima, la Sinatra. Che va su tutte le furie e ne parla con i giornalisti, «mi sono sentita violentata un'altra volta», dice. Che colpa ha la Sinatra? Essersi confidata con Palamara, dando del «porco» e dell'«essere immondo» a Creazzo, in una chat intercettata dalla Guardia di finanza. Ieri Salvi, di fronte agli articoli che riportano lo sfogo della Sinatra, cerca di metterci una pezza spiegando che anche il molestatore è sotto procedimento disciplinare. Una sorta di par condicio, del tutto inconsueta, nel campo delle aggressioni sessuali: è la prima volta che accusata e accusatore vengono trattati allo stesso modo. Salvi spiega che «è stato chiesto il giudizio anche della dottoressa Sinatra non certo per avere denunciato i fatti: la contestazione è infatti relativa all'uso improprio di quei fatti, al fine di ricercare una privata giustizia"». Parlandone con Palamara, secondo il pg della Cassazione, la Sinatra non si stava solo confidando: voleva vendicarsi impedendo che Creazzo ottenesse la carica di procuratore della Repubblica a Roma. «Giurami che il porco cade subito», chiede effettivamente la pm siciliana a Palamara. Dal punto di vista della Sinatra poteva essere un intervento a fin di bene, per impedire che Creazzo portasse i suoi metodi anche nella Procura di Roma; per la Cassazione, gli insulti a Creazzo sembrano diventare invece parte integrante delle manovre di Palamara intorno alla nomina del nuovo procuratore della Capitale. A valutare se lo sfogo della Sinatra «costituisca condotta scorretta e se, in tal caso, essa possa considerarsi giustificata dagli aspetti personali coinvolti» sarà ora il Csm; che dovrà anche occuparsi della sorte di Creazzo. L'aspetto singolare è che a queste conclusioni la procura generale è arrivata senza sentire il testimone più diretto della vicenda, ovvero Luca Palamara. Il quale oltre che delle confidenze della Sinatra avrebbe potuto dire qualcosa su una piaga ben più diffusa: «A me - spiega nel libro Il Sistema - è capitato spesso di raccogliere confidenze di colleghe, cancelliere, avvocate e pure giornaliste ma anche di colleghi, perché l'omosessualità non è più un tabù neppure nelle aule dei tribunali riguardo a fatti spiacevoli, avance anche spinte ricevute da magistrati in posizioni apicali. In questi casi ho sempre cercato di sminuirne la portata, non perché ne sottovalutassi la gravità, ma per tutelare il buon nome della categoria. Non ho mai denunciato, mi sono limitato a dare consigli di buon senso, come quelli di evitare di trovarsi da sole in determinate stanze e rifiutare inviti a cena».
Quel maresciallo distratto che spiava il deputato. Un maresciallo singolarmente distratto; e una pm con un legame familiare che forse poteva indurla a non occuparsi del caso. Luca Fazzo, Lunedì 18/01/2021 su Il Giornale. Un maresciallo singolarmente distratto; e una pm con un legame familiare che forse poteva indurla a non occuparsi del caso. Intorno al caso Palamara le stranezze continuano a venire a galla: e riguardano in particolare la disinvoltura con cui il Gico della Guardia di finanza ha intercettato col suo trojan le conversazioni di Luca Palamara anche quando avvenivano con Cosimo Ferri, deputato di Italia Viva e come tale coperto dall'immunità parlamentare. Una irregolarità che renderebbe nulle tutte quelle intercettazioni ma che finora i legali di Palamara hanno cercato invano di vedere riconosciuta. Ad andare all'attacco è adesso Luigi Panella, legale di fiducia di Ferri, che ha sporto denuncia per abuso d'ufficio in relazione alla intercettazione della riunione notturna del 9 maggio 2019. Secondo la Procura di Perugia, e anche secondo una sentenza delle sezioni unite della Cassazione, l'intercettazione fu casuale perché era imprevedibile che tra i partecipanti alla riunione ci fosse anche Ferri. La Procura di Roma in seguito alla denuncia di Ferri ha aperto una indagine contro ignoti ma ne ha poi chiesto l'archiviazione. Nei giorni scorsi il deputato renziano si è opposto all'archiviazione dimostrando, dati alla mano, che alle 18,42 dell'8 maggio il maresciallo Gorrea della Guardia di finanza ascoltò la trascrizione (numero 187) di un dialogo tra Palamara e l'allora consigliere del Csm Luigi Spina in cui si preparava la riunione notturna e si diceva chiaramente che avrebbe partecipato anche «Cosimo», che gli investigatori sapevano bene essere Ferri. Gli inquirenti hanno sostenuto che in ogni caso non ci sarebbero stati i tempi tecnici per disattivare il trojan inoculato sul cellulare di Palamara: ma la difesa di Ferri ha dimostrato, tabulati alla mano, che in altre occasioni il sistema era stato «spento» a distanza anche in tempi più brevi. Ora sulla opposizione di Ferri dovrà esprimersi il giudice. Ma la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura presenta un dettaglio curioso: titolare del fascicolo è il pm Rosalia Affinito, moglie dell'ufficiale dei carabinieri Maurizio Graziano. La Affinito nella sua richiesta sottolinea la quantità di contatti intrattenuti da Palamara. Ma dalle chat emerge che anche suo marito, il colonnello Graziano, si era rivolto più di una volta a Palamara.
Cantone contro il Riformista: “Noi cittadini vogliamo sapere”. Sabrina Pignedoli su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. Ci riempiamo la bocca di Stato di Diritto, di libertà di stampa, ma poi quando la stampa scrive articoli “scomodi” allora è meglio che non sia più tanto libera. Al Parlamento Europeo, quando si è parlato di minacce ai giornalisti, ho voluto sollevare un tema che spesso non viene preso in considerazione ed è altrettanto grave: quello delle querele temerarie e delle pressioni che vengono fatte ai giornalisti dal potere. Leggere quindi che la procura di Perugia ha chiesto al Csm la tutela contro gli articoli che in queste settimane ha pubblicato il Riformista mi ha sinceramente sconcertato. Intanto perché sto seguendo con molto interesse la vicenda del caso Palamara e devo dire che solo pochissimi giornali ne stanno scrivendo. I giornaloni, dopo il gradito scoop iniziale, hanno interrotto gli approfondimenti. Io come cittadina, invece, vorrei sapere tutto quello che c’è sotto l’immenso materiale acquisito dal caso Palamara, non solo quello che ha fatto comodo a una parte. Come cittadina voglio sapere, per esempio, perché il trojan è stato attivato anche nelle cene con parlamentari (quando doveva essere disattivato secondo quanto previsto dalle nostre leggi) e non quando Palamara era a cena con l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Lo voglio sapere perché è mio diritto di cittadino. Tanto più che la stampa dovrebbe essere il cane da guardia del potere, non solo quello politico, ma anche gli altri poteri. E la magistratura è uno di questi. Anzi, un magistrato dovrebbe essere grato ai giornali che approfondiscono il caso Palamara, perché stanno emergendo tutti gli intrighi che minano la credibilità di un organo dello Stato tra i più importanti, quello che decide in merito alla vita dei cittadini. Il Csm è l’organo di autogoverno, ma proprio le chat di Palamara hanno mostrato quanto debole e influenzabile sia questo autogoverno che ha visto dimettersi ben sei suoi consiglieri togati. Allora ben vengano le inchieste giornalistiche, anche quando non fanno comodo. Se vengono date informazioni non corrette esiste sempre la possibilità di smentire e non credo che la procura di Perugia non abbia palcoscenici importanti su cui farlo. Senza bisogno di tutela, che oggettivamente è un provvedimento che nulla ha a che vedere con la verità delle notizie che vengono scritte e, pertanto, lascia il tempo che trova.
Palamaragate. Magistratopoli, l’affaire delle indagini incrociate. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. Ricapitolando. La Procura di Roma, nel 2016, indaga alcuni professionisti che hanno legami molto stretti con diversi magistrati. Fra loro c’è l’avvocato Pietro Amara, uno dei principali protagonisti del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e avvocati finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi, e l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Quest’ultimo, grande organizzatore di eventi formativi per le toghe, viene accusato di aver messo a libro paga Luca Palamara: in cambio di viaggi e cene l’ex presidente dell’Anm sarebbe stato a disposizione per nomine ed incarichi al Csm. I pm di Roma trasmettono per competenza a maggio del 2018 il fascicolo a Perugia. Perugia iscrive Palamara per corruzione. Secondo una testimonianza avrebbe ricevuto 40mila euro per nominare Giancarlo Longo procuratore di Gela. La nomina non avverrà, l’accusa finirà nel cestino, ma tanto basta per intercettarlo con il trojan. Nel frattempo il pm romano Stefano Rocco Fava, a marzo del 2019, presenta un esposto al Csm per il modo in cui alcuni fascicoli vengono trattati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Paolo Ielo. Si parla di mancate astensioni. Una fuga di notizie fa saltare l’indagine di Perugia e la nomina del nuovo procuratore di Roma, votata in Commissione per gli incarichi direttivi il 23 maggio 2019, di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze. Viola viene votato anche da Piercamillo Davigo che poi cambierà idea. Il 29 maggio successivo, Repubblica, Corriere e Messaggero aprono sull’inchiesta di Perugia a carico di Palamara con tre pezzi identici: Repubblica titola: “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”; il Corriere: “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”; il Messaggero: “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”. Il seguente sequestro del telefono di Palamara permette la conoscenza del contenuto delle ormai celebri chat: centinaia di magistrati che chiedevano nomine e favori di ogni genere. Palamara viene espulso dalla magistratura dopo un turbo processo, sei consiglieri si dimettono, i rapporti di forza fra le correnti al Csm cambiano. Abbandonato dai suoi ex fedelissimi, Palamara si rivolge alla Procura di Firenze per far luce sulla fuga di notizie dell’indagine di Perugia. La fuga è avvenuta quando le indagini erano in corso. Saranno chiuse, infatti, solo l’anno dopo. Il procuratore di Firenze, competente per gli illeciti eventualmente commessi dai colleghi di Perugia, però, finisce a sua volta sotto inchiesta. Giuseppe Creazzo, che sta conducendo in questo periodo una delle indagini più importanti, quella sulla fondazione Open che vede indagato tutto il Giglio magico, da Matteo Renzi a Maria Elena Boschi, è oggetto di una segnalazione da parte della pm della Dda di Palermo Alessia Sinatra. Finita nelle chat, la dottoressa Sinatra aveva scritto a Palamara che Creazzo era un “porco”. Interrogata avrebbe affermato di essere stata oggetto di avances da parte del numero uno della Procura toscana mentre si trovava con lui in un ascensore. La magistrata non aveva sporto querela ma il comportamento tenuto da Creazzo sarebbe comunque oggetto di valutazione da parte del Csm e della Procura generale della Cassazione. Tutto ciò avviene a pochi giorni dalle decisione del Tar del Lazio sul ricorso contro la nomina di Michele Prestipino a procuratore di Roma, presentato da Creazzo, Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo e “prima scelta” di Pignatone come suo successore, e Viola. Le perplessità su alcune modalità di conduzione delle indagini di Perugia da parte del Riformista hanno spinto la scorsa settimana Raffaele Cantone, capo della Procura umbra, a richiedere al Csm una pratica a tutela. Sul fronte nomine al Csm proseguono le note dinamiche correntizie ed il giudice amministrativo continua con gli annullamenti. L’ultimo caso clamoroso riguarda i componenti della Scuola superiore della magistratura. E per concludere, sempre dal fronte Csm, dopo oltre un anno e mezzo dallo scoppio del Palamaragate, non risultano esserci ancora criteri univoci per valutare le condotte dei magistrati che chattavano con Palamara. In questo caos totale, la prossima settimana si inaugura l’anno giudiziario 2021 in Cassazione alla presenza del capo dello Stato.
Dagospia il 5 febbraio 2021. Estratto da “Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura”, di Alessandro Sallusti e Luca Palamara (Rizzoli).
Lei sta disegnando un quadro che assomiglia più a una guerra tra bande che al luogo dove si amministra la giustizia. Per questo, fare un po’ di pulizia ogni tanto potrebbe essere cosa buona.
«Se parliamo della cupola del «Sistema», che non è e non rappresenta tutto il sistema giudiziario, la risposta è sì; come tutte le cupole, vive e si muove in un perenne stato di guerra, e in guerra non si va per il sottile. Lo dico oggi che non ho più il cappello di magistrato, con il quale dicevo che è tutto regolare. È un meccanismo che travolge, io ne sono stato parte ma alla fine ha travolto anche me. La magistratura è una bolla impenetrabile, ma all’interno ci sono le stesse dinamiche a volte opache e gli stessi vizi del mondo esterno, nessuno escluso».
Me ne dica almeno uno. Parlo dei vizi.
«Siamo in una stagione in cui c’è grande attenzione, anche giudiziaria, alla sfera privata e al rispetto delle donne, in sintesi alla lotta a qualunque forma di sessismo. Ebbene, a me è capitato spesso di raccogliere confidenze di colleghe, cancelliere, avvocate e pure giornaliste – ma anche di colleghi, perché l’omosessualità non è più un tabù neppure nelle aule dei tribunali – riguardo a fatti spiacevoli, avances anche spinte ricevute da magistrati in posizioni apicali. In questi casi ho sempre cercato di sminuirne la portata, non perché ne sottovalutassi la gravità, ma per tutelare il buon nome della categoria. Non ho mai denunciato, mi sono limitato a dare consigli di buon senso, come quelli di evitare di trovarsi da sole in determinate stanze e rifiutare inviti a cena. Ma queste cose a volte sfuggono di mano, e allora sono guai, com’è successo nella vicenda tra la procuratrice della direzione antimafia di Palermo, Alessia Sinatra, e Giuseppe Creazzo, il procuratore di Firenze che è stato in corsa per prendere il posto di Pignatone a Roma».
Risulta dalle sue chat. Sinatra sosteneva con lei di essere stata molestata da Creazzo, e per questo è stata poi ascoltata dai colleghi romani. Il procuratore generale Salvi ha fatto un atto di contestazione nei suoi confronti, che è già una sentenza: «Comportamento gravemente scorretto nei confronti di Creazzo», dando per scontato ancora prima di un processo che la signora si sia inventata tutto. Come sono andate le cose?
«Allo stato attuale io non so dire chi tra i due sia stato scorretto. Io posso dire che Alessia Sinatra già da tempo mi aveva confidato, con una ricchezza di particolari tale che è difficile pensare che se lo sia inventato, di aver subito pesanti avances da Creazzo nel corridoio di un albergo di Roma, l’Hotel Isa in via Cicerone, dove i due nel dicembre del 2015 si trovavano per un convegno. Lo stesso racconto la magistrata lo ha ripetuto davanti ad altre persone, con me presente, in occasione di una sua venuta a Roma. E quando Creazzo si candida alla procura di Roma, lei mi manda una serie di messaggini, tra i quali: «Giurami che il porco cade subito», «Il porco ha parlato con te?», minacciando di porre ufficialmente il problema se Creaz zo fosse stato promosso».
Per molto meno in altri ambiti, pensiamo al mondo dello spettacolo e delle aziende private, su fatti simili sono scattate inchieste giudiziarie e campagne mediatiche.
«Nella magistratura non funziona così. Io stesso, devo ammetterlo, non ho denunciato né spinto la collega a farlo, in quel momento ancora dovevo difendere il «Sistema». Una cosa però, dopo le pressioni della Sinatra, mi è chiara: Creazzo è bruciato, non si può puntare su un nuovo procuratore di Roma che, a torto o a ragione, se nominato sarebbe stato coinvolto, cosa che io sapevo con certezza, in una vicenda di molestie. Per questo, non perché lo chiedeva Luca Lotti, sulla successione a Pignatone mi schierai a favore di Viola e non di Creaz zo, con il quale in verità mi sono incontrato riservatamente».
Creazzo, titolare delle indagini sui genitori di Renzi, ha chiesto il suo aiuto per passare dalla procura di Firenze a quella di Roma?
«E immagino che ben sapesse due cose: dei miei ottimi rapporti con Luca Lotti, e del fatto che io fossi sotto indagine della procura di Perugia. L’8 febbraio 2019 – c’è uno scambio di messaggi in tal senso sul mio telefonino – su sua richiesta mi incontro con lui al ristorante Da Mimmo nel centro di Firenze. Mi parla della sua intenzione di candidarsi per la procura di Roma lasciata libera da Pignatone. Io, sapendo della storia delle molestie, mi tengo sul vago, gli spiego che il suo problema non sono io ma la corrente di sinistra Area, che non lo vede di buon occhio. Gli dico anche che mi risulta che il suo nome sia sostenuto dal ministro Bonafede, lui nega di averlo incontrato».
Dell’inchiesta sui genitori di Renzi non parlate?
«Ne parliamo durante la passeggiata tra il ristorante e la stazione ferroviaria. Gli dico che per quello che mi riguarda le sue indagini sui genitori di Renzi, se condotte con buon senso ed equilibrio, non sono un ostacolo insormontabile per avere il mio consenso alla nomina. Ma dal tono imbarazzato della sua risposta, falsamente tranquillizzante, capisco che non mi ascolterà, che ormai su quella vicenda il suo ufficio si era spinto molto avanti».
Una settimana dopo il vostro incontro, il 18 febbraio, Creazzo e il suo braccio destro Luca Turco firmano la richiesta di arresti domiciliari per Tiziano Renzi e sua moglie Laura Bovoli.
«Lo apprendo da una telefonata che mi raggiunge allo stadio Olimpico, si giocava Roma-Bologna. È la prova che tra me e lui – a differenza di quanto qualcuno ipotizzava in quei giorni – non c’è stato nessun patto indicibile, niente scambi di favori».
Quel «qualcuno» potrebbe sostenere che lei, mandato in avanscoperta da Lotti, abbia provato a fermare o ammorbidire quell’inchiesta sui coniugi Renzi, ma che le sia andata buca.
«Dall’esame delle mie chat risulta in modo inequivocabile che sia Creaz zo a cercare insistentemente me, non l’inverso. Se qualcuno stava cercando un favore, questo era lui, non io».
Per la procura di Roma, oltre a Viola e Creazzo, c’è un terzo candidato, Francesco Lo Voi, in quel momento procuratore di Palermo. Perché, bruciato Creazzo, andare su Viola e non su di lui?
«Anche Lo Voi, a mio avviso, era un candidato a rischio cecchino. Non so da chi lo abbia potuto apprendere, ma a Roma c’era chi era pronto a tirare fuori la storia dell’incontro tra Pignatone e il giudice del Consiglio di Stato Virgilio, di poco precedente alla bocciatura del ricorso di Guido Lo Forte contro la nomina di Francesco Lo Voi alla procura di Palermo. Io ritenni che questa situazione avrebbe potuto sensibilmente indebolire la figura di Lo Voi all’interno della procura di Roma e renderlo in qualche modo ostaggio di chi era a conoscenza di questo incontro. Era un rischio da non correre».
La lettera. Caro Cantone, ostacolare i cronisti non fa bene alla democrazia. Ottavio Lucarelli su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Il recente assalto a Capitol Hill ci ha insegnato, o quantomeno ricordato, che la libertà, ogni libertà, va difesa quotidianamente perché, come ogni conquista, è fragile e a rischio. La salute di una democrazia costituzionale di uno Stato si valuta sul grado di libertà e l’unità di misura è oggi più che mai la libertà di informazione. Ogni anno si stilano varie graduatorie internazionali e l’Italia occupa ormai stabilmente da tempo posizioni di retrovia in tema di libertà di stampa. Molteplici le ragioni, dalle minacce ai cronisti al bavaglio ai giornali. Ed è questo il terreno sul quale l’Ordine dei giornalisti si impegna quotidianamente: difesa della libertà di stampa e deontologia.
A questo proposito ha sorpreso, avendolo conosciuto e invitato più volte a corsi di aggiornamento professionale dei giornalisti della Campania, la posizione presa dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone. Da lui non ce lo saremmo aspettato anche perché un conto è difendere il lavoro dei propri magistrati, come avvenuto nell’inchiesta sulla “laurea facile” al calciatore Suarez, e un’altra è ridimensionare la libertà di informazione. L’ex presidente dell’Anticorruzione ha infatti chiesto al Consiglio superiore della magistratura di aprire una pratica a tutela dei pm nei riguardi del Riformista che ha denunciato alcuni aspetti della vicenda Palamara su cui indaga la Procura di Perugia. Raffaele Cantone ha sempre avuto un buon rapporto con il mondo dell’informazione e si è spesso esercitato nel ruolo di opinionista. Sorprende perciò davvero che un’iniziativa di questo tipo arrivi proprio da lui. Perché questi atti complicano il lavoro dei cronisti e contribuiscono a far scivolare l’Italia nelle graduatorie sulla libertà di informazione. Noi giornalisti siamo ben consapevoli degli errori che commettiamo. La nostra autocritica è costante, ma queste azioni della magistratura sono altra cosa. Complicano e ostacolano un lavoro che è al servizio dell’opinione pubblica e alla base di una democrazia.
La polemica. Cantone contro il Riformista, criticato dai colleghi: “Non si mette il bavaglio alla stampa”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. C’è chi parla della libertà di stampa come «valore da difendere sempre e comunque» e chi stigmatizza iniziative che restituiscono «l’immagine di una magistratura intoccabile». Certo è che l’ultima mossa di Perugia Raffaele Cantone ha suscitato più di qualche perplessità tra le toghe napoletane. I fatti sono noti. L’ex presidente dell’Anac e attuale procuratore di Perugia ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei magistrati della sua città. Una pratica a tutela dei pm dal nostro giornale che, nelle scorse settimane, ha denunciato alcuni aspetti della vicenda di Luca Palamara, al centro delle “trattative” tra le diverse correnti della magistratura per le nomine negli uffici giudiziari: il fatto che le chat estratte dal suo telefono a giugno 2019 siano state trasmesse al Csm con 11 mesi di ritardo e che il trojan inoculato nel suo cellulare sia stato disattivato in concomitanza della cena con l’ex procuratore romano Giuseppe Pignatone. Tanto è bastato perché Cantone, capo della Procura che indaga su Palamara, attivasse la procedura finalizzata a ottenere una manifestazione di solidarietà pubblica dall’organo di autogoverno della magistratura. L’iniziativa, però, non è condivisa da tutti i giudici. Perplesso è Raffaele Marino, già procuratore di Torre Annunziata e oggi sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Napoli: «Le pratiche a tutela si sono diffuse all’epoca di Craxi prima e Berlusconi poi, quando si avvertì l’esigenza di tutelare i titolari di inchieste scottanti dagli attacchi della politica. Oggi, davanti ai presunti attacchi della stampa e in un momento in cui il prestigio della magistratura vive una fase di appannamento dovuta a pratiche non commendevoli, invocare l’apertura di una pratica a tutela rischia di essere inopportuno o addirittura controproducente perché afferma l’idea di una magistratura intoccabile». Insomma, l’idea che tutti i cittadini possano essere criticati eccezion fatta per i magistrati va respinta. Di qui il discorso si sposta sulla libertà di stampa che, a giudicare dall’iniziativa assunta da Cantone, qualcuno vorrebbe limitare. «È un valore che va riaffermato e difeso – prosegue Marino – D’altro canto, delle chat di Palamara si è saputo poco attraverso gli atti del procedimento disciplinare e della vicenda penale. Il resto non si conosce se non attraverso il servizio reso dalla stampa. E, in questa fase, è bene che tutti, cittadini comuni e magistrati, conoscano certe dinamiche che caratterizzano il potere giudiziario». Il parere di Marino è ancora più significativo se si pensa che il sostituto procuratore generale di Napoli è tra i circa 50 magistrati che hanno chiesto a Palamara di rendere noto il contenuto di messaggi sui quali vige ancora il massimo riserbo. Segno che, in alcuni settori della magistratura, l’esigenza di trasparenza è avvertita con particolare forza. Sulla vicenda interviene anche Tullio Morello, magistrato in forza alla sezione penale del Tribunale di Napoli che per anni ha ricoperto il ruolo di giudice per le indagini preliminari: «Libertà di stampa ed esigenza di riservatezza delle indagini sono valori che non di rado confliggono, ma tra i quali bisogna trovare un equilibrio all’interno di quel percorso spesso tortuoso e complesso come le indagini». Ciò significa che il lavoro dei giornalisti non può e non deve ostacolare quello dei magistrati e viceversa. «La libertà di stampa è un valore importante – conclude Morello – Certo, non deve in alcun modo pregiudicare le indagini, ma ciò non esclude che un giornalista possa e debba svolgere il proprio lavoro in modo efficace ed esaustivo, magari cercando il classico scoop, o rivolgere critiche a pm e giudici».
Cosa è successo a Perugia nell’estate del 2019? Cantone vuole censurare il Riformista: “La libertà di stampa ha un limite”.
Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Il Procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha chiesto al Csm di aprire una “pratica a tutela” dei magistrati della sua città. Perché e contro di chi? Contro il Riformista che nei giorni scorsi ha riferito, sul celebre Palamaragate, notizie che non piacciono a Cantone. E cioè ha raccontato come le chat estratte dal telefono di Luca Palamara ai primi di giugno del 2019 furono mandate al Csm con 11 mesi di ritardo. Solo dopo che il Csm, senza conoscere le chat e i nomi dei magistrati implicati, aveva deciso un bel giro di nuove nomine nelle Procure e nei tribunali. E poi il Riformista ha anche spiegato come e perché fu silenziato il trojan di Palamara in occasione della cena che lui ebbe con l’ex procuratore di Roma Pignatone e con altri alti magistrati, cena il cui piatto forte, molto probabilmente, fu la nomina del nuovo procuratore di Roma. (Il trojan è quel marchingegno che permette di trasformare un cellulare in un telefono spia che trasmette tutto ciò che avviene attorno a lui). E infine il Riformista ha chiesto conto anche degli Sms che stavano nel telefono di Palamara (e anche quelli furono estratti dal Gico della Guardia di Finanza) e che pare non siano stati inseriti nel fascicolo a carico di Palamara. Cantone sostiene invece che gli Sms furono tutti consegnati e inseriti, però non ci ha detto (ne lo ha detto a Palamara) dove siano. Siccome noi abbiamo scritto queste notizie, e siccome non risulta che su questi fatti sia stata aperta nessuna inchiesta giudiziaria, Cantone ha chiesto al Csm questa famosa pratica a tutela. Cosa sia una pratica a tutela non si sa bene. Potrebbe essere una semplice dichiarazione di “intoccabilità” che vada ad arricchire il curriculum dei magistrati ritenuti responsabili delle mancanze investigative che noi abbiamo segnalato, oppure forse di qualche iniziativa più forte che possa ottenere il risultato di silenziare i giornali indisciplinati, cioè il Riformista. Naturalmente si tratta di un attacco violento e diretto alla libertà di stampa, e dunque anche alla Costituzione, che non credo abbia molti precedenti. E io immagino che l’Ordine dei Giornalisti vorrà intervenire a difesa del principio costituzionale e a difesa del diritto ad informare nostro o di altri giornali ai quali venisse voglia di ficcare il naso sul Palamaragate (senza scottarsi). Se passasse l’idea che in Italia è persino formalmente proibito ai giornali di criticare la magistratura, e addirittura è vietato dare notizie relative al lavoro dei Pm, diventerebbe molto difficile parlare del nostro paese come di un grande paese a democrazia liberale. Capisco l’obiezione: in realtà è già così. Si contano sulla punta di una mano i giornali che si sono occupati del “palamaragate”, dal momento in cui si è capito che era uno scandalo che coinvolge centinaia, o forse anche migliaia di magistrati, e che getta un’ombra di fango molto larga sull’istituzione magistratura. Ma questa non è un’obiezione seria. Il fatto che in Italia quasi tutti i giornali abbiano accettato una sudditanza e giurato obbedienza alle Procure (non alla magistratura: alle Procure) non ci autorizza ad accettare che il divieto di critica alle Procure diventi un divieto formale sancito dalla giurisprudenza. In Italia, nell’ultimo secolo e mezzo, almeno, solo il fascismo ha imposto la censura ai giornali, cioè quella che viene chiesta oggi nei nostri confronti. Nei giorni scorsi vi ho elencato i nomi dei magistrati o ex magistrati, che mi hanno querelato, o hanno querelato il mio editore, perché innervositi dalle critiche ricevute. Tutti nomi altisonanti: l’ultimo è stato Gian Carlo Caselli (col quale, oltretutto, avevo avuto in passato un rapporto quasi di amicizia) prima di lui Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Gratteri, Davigo, Esposito (2: padre e figlio) e qualcun altro che ora non mi viene in mente (e mi scuso per l’eventuale omissione). Adesso si aggiunge Cantone. Dei nomi di grido mi mancano – a occhio – solo Ingroia, Greco, Prestipino e Melillo. Credo che l’iniziativa di Cantone vada interpretata nello stesso modo nel quale ho interpretato le querele: un sistema per intimidire il giornalista, metterlo in guardia, spingerlo a mollare la presa. Il problema per me è complicato: personalmente sono molto favorevole all’idea di lasciarmi intimidire e mollare la presa. Sempre. Io tendo a privilegiare il primum vivere a valori francamente molto vaghi ed effimeri, e inutili forse, come il coraggio. Il coraggio a me pare estetica. Il problema è che essendo il Riformista l’unico quotidiano cartaceo (radio radicale è una radio) che si occupa costantemente e criticamente delle vicende della magistratura, e che non concede mai nessuno sconto al partito dei Pm ( e alla loro rappresentanza parlamentare, che in questa fase è il dominus del governo) non possiamo permetterci il lusso di lasciarci intimidire. Se sparissimo anche noi, cosa resterebbe della libertà di stampa? Per finire vorrei fare due domande a Cantone e ai suoi colleghi. Noi abbiamo denunciato dei fatti gravi. Compreso il silenziamento intenzionale del trojan di Luca Palamara (un atto evidente di intralcio alle indagini). Quantomeno su questo fatto e sul ritardo nella consegna degli whatsapp di Palamara non abbiamo ricevuto nessuna smentita. Qualcuno, nelle Procure, ha aperto un’inchiesta, magari piccola piccola, magari ben strutturata allo scopo di farsi archiviare al più presto, ma almeno una inchiestuccia? A me non risulta. E invece risulta che nel corpo della magistratura ci sono molti malumori. Migliaia di magistrati, che lavorano sodo e correttamente, sono un po’ indignati per il modo nel quale il Palamaragate viene messo sotto il tappeto. Qualche giorno fa una cinquantina di magistrati hanno scritto a Palamara per chiedergli di renderli noti lui gli Sms, visto che la magistratura non li rende noti. E’ abbastanza grave, no? Gli stessi magistrati non si fidano più della magistratura e cercano le verità per vie private. Gli piace questa cosa a Raffaele Cantone? Seconda domanda, questa rivolta alla procura di Firenze, che è quella designata a indagare sulla procura di Perugia. Capisco che il vostro organico, al momento, è impegnato nella caccia a Renzi e che è una caccia difficilissima perché non si trova uno straccio di indizio per nessun reato. E oltretutto Renzi rema contro. Però almeno un sostituto – magari il più giovane – non potrebbe essere distaccato, anche solo per una settimana, per cercare di capire che è successo a Perugia nell’estate del 2019?
La vicenda. Cantone vuole il bavaglio per il Riformista: “La magistratura è intoccabile”. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Il direttore del Riformista Piero Sansonetti ha pubblicato un video editoriale in cui racconta che “Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela dei magistrati della sua città. Questo si fa quando un magistrato è sotto tiro da parte di qualcuno e bisogna proteggerlo. In genere è una procedura di vantaggio per la carriera del magistrato poiché va a fare curriculum. Cantone l’ha aperta contro il Riformista, perché con gli articoli di Paolo Comi abbiamo riferito di alcune cose che non funzionano nel Palamaragate“. Secondo Sansonetti i motivi sono tre: “Primo: tutti i Whatsapp sono arrivato al Csm con un anno di ritardo, e nel frattempo erano state fatte molte nomine e questi nomi non sono arrivati al Csm. Secondo: a noi risulta che nel fascicolo a carico di Palamara non ci siano gli sms. Cantone contesta questo. Noi sappiamo che gli sms non sono stati scaricati nel fascicolo, e anche Palamara non ha notizia in merito a questo aspetto. Cantone ci dovrà dire dove li hanno messi visto che nel fascicolo non ci sono. Terzo: abbiamo scoperto che il trojan nel cellulare di Palamara che funzionava tutte le sere dalle 19 in poi, una sola sera non ha funzionato quando Palamara è stato a cena con Pignatone e altri magistrati importanti per discutere della nomina a nuovo procuratore di Roma. Da chi fu spento e come? Noi abbiamo detto da chi fu spento e come fu spento e provato che fu spento intenzionalmente intralciando le indagini“. “Invece di aprire una inchiesta sulla nostra denuncia – sottolinea Sansonetti – Cantone ha chiesto che intervenga il Csm per censurare il Riformista. Sono ormai gli stessi magistrati a ribellarsi. Recentemente oltre 50 magistrati hanno chiesto a Palamara di rendere noti i messaggi visto che la procura non lo fa. C’è una sfiducia addirittura degli stessi magistrati, figuriamoci dei cittadini nei confronti della magistratura che viene ritenuta non credibile, non attendibile“. “Cantone ha preso questa iniziativa di chiedere che si attacchi il Riformista, cioè che si affermi il principio che la libertà di stampa deve avere un limite: si possono criticare tutti ma non i magistrati. Si possono dare notizie di ogni genere ma non sulla magistratura. Questo è il principio che vorrebbe affermare Cantone, probabilmente anche con una riforma costituzionale. Mi aspetto che l’Ordine dei Giornalisti – conclude Sansonetti – intervenga visto questo attacco violentissimo alla libertà di stampa, credo con pochissimi precedenti forse negli anni ’80. Quale è lo scopo di questa iniziativa? L’unico mi sembra quello di intimidirci, così come viene fatto attraverso le querele. Voglio dire a Cantone che io per carattere tenderei a farmi intimidiere, non ho mai pensato che la grande dote sia il coraggio, non tendo più a don Abbondio. Ma in Italia c’è un solo quotidiano che critica la magistratura quindi non posso permettermi il lusso di farmi intimidire se no si crea una situazione di regime, una cosa simile a quanto successo durante il fascismo“.
Le risposte degli uomini del Gico al legale di Palamara. Il giallo del trojan spento, resta un mistero la cena tra Palamara e Pignatone. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Gennaio 2021. «Se mi dice che non c’è, non c’è». Così rispose il colonnello Gerardo Mastrodomenico, l’ufficiale del Gico della guardia di finanza che aveva condotto le indagini nei confronti di Luca Palamara, alla domanda sul perché non fosse stato effettuato l’ascolto, tramite il trojan, di quanto avvenuto la sera del 9 maggio del 2019. Quel giorno l’ex presidente dell’Anm si era incontrato a cena al ristorante romano Mamma Angelina con il procuratore Giuseppe Pignatone (in pensione dal giorno prima, ndr) e altri due importanti magistrati di piazzale Clodio. Il trojan inserito nel cellulare di Palamara, come appurato dagli atti, era stato inizialmente programmato per coprire tutta la serata del 9 maggio, dalle ore 18 alla mezzanotte. La mattina del 9 maggio, però, un operatore dalla sigla “gorrea” aveva deciso di annullare tale programmazione, non permettendo così di sapere cosa si sarebbero detti Palamara e Pignatone alla vigilia della nomina del successore di quest’ultimo. Il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, che assisteva Palamara nel procedimento disciplinare al Csm, ha cercato, senza riuscirci, di scoprire l’arcano. Come già ricordato, gli ascolti con il trojan erano stati programmati “la mattina presto, l’ora di pranzo e le ore serali”. Considerato lo «stile di vita di Palamara (in quel periodo pm a Roma, ndr), se vogliamo prendere eventuali incontri con terzi soggetti cerco di evitare l’ufficio di Procura durante l’orario di lavoro e lo metto fino a tarda sera…», aveva precisato il maggiore Fabio Di Bella, uno dei più stretti collaboratori di Mastrodomenico. Sugli orari c’era stata «una scelta concorde con l’autorità giudiziaria di Perugia», con cui avvenivano «interlocuzioni quotidiane anche più volte al giorno». Premessa. Una volta avviata la registrazione con il trojan non era più possibile interromperla. Bisognava intervenire prima che fosse partito l’ascolto. Ma veniamo, dunque, alla sera del 9 maggio, ripercorrendo le domande poste da Guizzi ai finanzieri del Gico, ad iniziare proprio da Di Bella.
«Nella notte tra il 9 e il 10 maggio avevate programmato ascolti in orario notturno?», esordisce Guizzi.
«Devo verificarlo. Mi ero preparato sulle intercettazioni dei parlamentari, quindi 9 e 10 maggio non ricordo se abbiamo programmato la registrazione», risponde Di Bella, stoppando subito le altre domande di Guizzi.
È il turno dell’appuntato Fabio Del Prete. «Si ricorda le modalità di programmazione delle intercettazioni del giorno 9; mi riferisco dalla mattina fino eventualmente la sera e oltre», la prima domanda di Guizzi. «Le modalità venivano fatte in base agli ordini che mi venivano impartiti. Io comunque davo conto al mio comandante di sezione, risponde Del Prete.
Guizzi: «Mi ricorda chi è?».
Risposta: «Il luogotenente Binotti e il mio comandante di sezione maggiore Di Bella».
Si passa al maresciallo Gianluca Burattini.
Guizzi: «Sa per quale motivo l’ascolto non ha riguardato la fascia notturna, cioè la notte tra il 9 e il 10? Le furono date indicazioni?».
Burattini: «Conoscenza diretta del motivo no, io ricordo quella giornata perché lo programmai nella fascia oraria comprensiva del pranzo.
«Solo del pranzo?», aggiunge Guizzi.
«Io personalmente si», risponde Burattini.
E torniamo a Mastrodomenico, dopo questa indagine promosso comandante provinciale a Messina.
«Ricorda se furono date disposizioni di effettuare intercettazioni anche in quella giornata e fino a che ora?», domanda Guizzi.
«Se me lo ricollega a fatti specifici, perché così… un’indicazione specifica in tal senso, come le ho detto, non è mai intervenuta… adesso le programmazioni dei singoli giorni non le ricordo e quindi non sono in grado. Se non la ricollego ad un fatto specifico non sono in grado di poter comprendere …», la prima risposta del colonnello.
«Quindi non ci può confermare se la notte tra il 9 ed il 10 maggio non furono effettuate intercettazioni mediante captatore?», insiste Guizzi.
E Mastrodomenico: «Ritengo che comunque sia facilmente rilevabile dagli atti. Ci sono tutte le programmazioni registrate tracciabili. Se lei mi dice che non c’è, non c’è».
Guizzi non demorde. E punta l’ingegnere Duilio Bianchi della Rcs, la società che ha fornito il trojan.
«Veniva informato della programmazione?», prima domanda di Guizzi.
«No, assolutamente», la risposta di Bianchi.
Guizzi: «Quindi lei non mi sa riferire per quale ragione nel pomeriggio del 9 maggio….»
«Ha già risposto il teste. Ha già detto di no», lo blocca subito l’avvocato generale Pietro Gaeta che rappresentava l’accusa nel processo disciplinare contro Palamara.
Chi diede l’ordine di spegnere il trojan la sera del 9 maggio è rimasto un mistero.
Cantone dice che non ci sono gli sms di Palamara, ma gli basta chiedere al Gico… [IL DOCUMENTO] Paolo Comi su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Gli sms (short message service, da 160 caratteri, senza bisogno di traffico dati, ndr) «sono stati regolarmente acquisiti e depositati agli atti del procedimento in corso davanti al gup di Perugia». Raffaele Cantone, ex numero uno dell’Anac e ora procuratore di Perugia, lo scorso fine settimana ha risposto così a chi gli chiedeva chiarimenti su che fine avessero fatto gli sms contenuti nel cellulare di Luca Palamara ed estrapolati dal Gico della guardia di finanza il 31 maggio 2019. Era stato il Riformista a dare la notizia che agli atti del procedimento a carico dell’ex presidente dell’Anm non c’era traccia dei “messaggini” che egli negli anni aveva inviato a colleghi e ad alti esponenti delle Istituzioni. Sono «falsità ed illazioni», aveva replicato Cantone, preannunciando l’invio di una relazione al procuratore generale di Perugia, a quello della Cassazione e al Csm, e riservandosi di presentare querele o proporre azioni civili. Non avendo motivi per dubitare di quanto affermato da Cantone, e quindi che gli sms sono stati depositati al gup, dobbiamo allora confessare di essere stati “depistati” da quanto riportato dalla guardia di finanza in un nota datata 6 febbraio 2020 ed indirizzata ai pm Gemma Miliani e Mario Formisano, titolari del fascicolo. La nota (affogliato n. 6527, ndr) è a doppia firma: quella del comandante del Nucleo di polizia economico-finanziaria, il colonnello Gavino Putzu, e quella dal comandante del Gico, il tenente colonnello Marco Sorrentino. Nella nota viene precisato che «come richiesto per le vie brevi, si trasmette n. 1 hard disk, ove è stata riversata la messaggistica istantanea, intrattenuta attraverso gli applicativi WhatsApp, iMessage di Apple e Messenger di Facebook, così come estrapolata dalla Smartphone Modello Apple XS (…) sottoposto a sequestro (il 30 maggio 2019, ndr) nei confronti di Luca Palamara». «Al fine di consentire – prosegue la nota – una puntuale disamina del materiale informatico, sul citato supporto, risultano presenti, come richiesto, 6 file formato excel, denominati lista contatti (tipologia chat), distinti per ciascuna tipologia di messaggistica istantanea, WhatsApp, iMessage di Apple e Messenger di Facebook, ove le singole chat sono state rinominate inserendo il nominativo dell’interlocutore accanto al numero». Nessun cenno, dunque, agli sms. Le tre modalità di messaggistica citate dalla finanza necessitano, come noto, di una connessione dati wi-fi o cellulare. Gli iMessage, in particolare, sono testi o foto inviati ad un altro iPhone o device Apple. Per poter inviare un iMessage è necessario attivare l’apposita funzione sul proprio Iphone. Per inviare gli sms, invece, non essendo legati al traffico dati, è necessario un piano tariffario dedicato. Oltre alla nota della guardia di finanza, abbiamo effettuato un ulteriore riscontro, controllando gli atti che erano stati depositati sul Tiap dai pm di Perugia al momento della notifica a Palamara del 415bis, l’avviso di chiusura delle indagini, avvenuto il 20 aprile 2020. Il Tiap (trattamento informatizzato atti processuali) è l’applicativo utilizzato per la gestione informatizzata degli atti dei fascicoli penali (dibattimento, ufficio gip, riesame, misure di prevenzione). Questo applicativo, di fatto un archivio informatizzato, consente l’inserimento e la fruizione (visione ed estrazione di copia) degli atti in formato pdf del processo penale. A seconda delle fasi processuali, colui che implementa l’applicativo è il pm, il gip-gup, il giudice del dibattimento. Nella fase delle indagini preliminari è il pm che deve inserire tutti gli atti di indagine compiuti. Con la notifica della chiusura delle indagini il pm deve porre disposizione dell’indagato e dei difensori tutti – nessuno escluso – gli atti di indagine. Con la richiesta di rinvio a giudizio la possibilità e l’onere dell’inserimento degli atti passa al gip il quale, nel contempo, fruisce degli atti inseriti dal pm nella fase delle indagini. Pertanto se il pm non ha inserito alcuni atti il gup non può fruirne, e così gli indagati ed i loro difensori. Con il decreto che dispone il giudizio l’inserimento degli atti passa al giudice del dibattimento il quale, a sua volta, fruisce degli atti inseriti dal pm e dal gup. Bene, questa lunga premessa era necessaria in quanto non siamo stati in grado di recuperare le trascrizioni degli sms di Palamara sul Tiap. Cantone vorrà perdonarci.
Palamara a cena con Pignatone, ma la Finanza decise di spegnere il trojan…Paolo Comi su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Non ci fu alcun malfunzionamento: il trojan venne spento dai finanzieri del Gico la sera che Luca Palamara incontrò a cena Giuseppe Pignatone. La clamorosa rivelazione è emersa solo adesso con la lettura degli atti d’indagine depositati dalla Procura di Perugia. La storia è nota. Il telefono cellulare di Palamara, indagato per corruzione nel capoluogo umbro, venne, dal 3 al 31 maggio del 2019, sottoposto a intercettazione mediante l’utilizzo del “trojan”, il virus spia che trasforma l’apparato in un microfono. Come più volte ricordato, il trojan deve essere programmato. Utilizzando molta energia, è necessario indicare le fasce orarie in cui accendersi. Normalmente non si devono superare le sei o otto ore al giorno, proprio per evitare che l’intercettato, notando un consumo anomalo della batteria, possa insospettirsi. Nel caso di Palamara, conoscendo le sue abitudini, i finanzieri alle dipendenze del colonnello Gerardo Mastrodomenico e del maggiore Fabio Di Bella, decisero che, durante l’arco della giornata, le ore serali sarebbero state quelle più interessanti dal punto di vista investigativo. E questo perché il magistrato romano era solito cenare quasi sempre fuori casa “intrattenendosi con svariati soggetti”. Mastrodomenico e Di Bella, come disse Palamara parlando un giorno con il dem Luca Lotti, erano gli uomini di fiducia del “I”, alias Pignatone. L’avvio della registrazione avveniva all’orario programmato per ogni giornata in maniera automatica e solo quando lo schermo del terminale era spento, interrompendosi quando lo schermo si fosse acceso per qualsiasi motivo.
Leggendo, come detto, l’annotazione relativa alle operazioni di intercettazione della società milanese Rcs (che ha fornito il captatore e il supporto tecnico alla Procura di Perugia, ndr) datata 29 luglio 2019 e depositata dai pm lo scorso 20 aprile, risulta, però, una circostanza clamorosa. Come si può leggere nelle tabelle che pubblichiamo , l’8 maggio del 2019, alle ore 1:33:53 del pomeriggio, il maresciallo Roberto D’Acunto (sigla rdacunto, ndr) effettua la prevista programmazione, indicata con il termine “add” per il giorno successivo. L’orario in cui il trojan si accenderà sarà dalle 6:00:00 del pomeriggio alle successive 11:59:59. Di ogni operazione effettuata rimane traccia, indicata dal programma con un numero identificativo (id), in questo caso 1557315151. La mattina successiva, il collega dalla sigla “gorrea”, alle ore 11:45:13 della mattina modifica la programmazione, indicata con il termine “replace”, inserendo un nuovo orario: 2:00:00 della mattina. Si tratta di un orario antecedente al momento in cui “gorrea” sta effettuando l’operazione. Tale modifica, di circa dieci ore prima, ha l’effetto di far “impazzire” il software che viene pertanto “sprogrammato”, cancellando l’inserimento fatto da D’Acunto. La conseguenza dell’operazione di “gorrea” sarà quella che il trojan, inizialmente programmato per coprire tutta la serata del 9 maggio, dalle ore 18 alla mezzanotte, non intercetterà cosa si diranno a cena al ristorante dei Parioli “Mamma Angelina” Palamara, Pignatone, e altri importanti giudici della Capitale. Il trojan ripartirà, come da programmazione, solo il giorno dopo, il 10 maggio, alle 9.18 del mattino. Il cellulare di Palamara, ed è un dato molto importante, era sottoposto anche alle intercettazioni telefoniche “tradizionali”. Intercettazioni che, a differenza di quelle effettuate con il trojan affidate alla mano del maresciallo, non possono essere interrotte senza la preventiva autorizzazione del pm. Ed infatti registreranno le telefonate che Palamara effettuerà la mattina del 9 maggio, in cui confermava l’appuntamento a cena con i suoi illustri ospiti, e quelle durante la cena stessa. Come mai, allora, “gorrea” decise di cambiare la programmazione dell’apparato la mattina del 9 maggio 2019? C’è qualche legame con la cena? Leggendo gli atti depositati non è stata trovata alcuna annotazione per capire il motivo per il quale i finanzieri decisero di intervenire, modificando la programmazione del trojan. E non è stata trovata nessuna richiesta di spiegazioni da parte dei pm. La selezione degli intervalli d’ascolto era decisa sotto la supervisione dei pm di Perugia con i quali “ci sentivamo anche due o tre volte al giorno”, dissero i finanzieri davanti alla sezione disciplinare del Csm nel procedimento che ha disposto la radiazione di Palamara dalla magistratura lo scorso ottobre. In questo giallo, vale infine la pena ricordare che la sera prima, l’8 maggio, Palamara aveva incontrato all’hotel Champagne i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, oltre a cinque consiglieri (poi costretti alle dimissioni) del Csm. Tema della serata la nomina del nuovo procuratore di Roma. L’incontro, in quel caso, venne registrato integralmente fino a notte fonda, alle due del mattino per la precisione. Il motivo? Palamara, spiegarono i finanzieri, aveva concordato di vedersi con Claudio Lotito (presidente della Lazio).
“Il metodo Palamara funziona anche a Napoli”, l’accusa del Pm Raffaele Marino. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. «Lo scenario è angosciante se si pensa non solo alla spartizione degli incarichi tra le varie correnti in base a logiche che poco hanno a che vedere col merito, ma soprattutto alla tendenza a eliminare per via giudiziaria i concorrenti del magistrato destinato a un certo ufficio. Anch’io sono vittima di certi metodi, a riprova del fatto che Napoli rientra a pieno titolo in questa organizzazione». Raffaele Marino ha appena finito di leggere Il Sistema, il libro-intervista in cui l’ex pm Luca Palamara descrive gli scandali che agitano la magistratura italiana, quando accetta di svolgere alcune riflessioni sulla situazione delle toghe napoletane. Per anni icona della lotta alla camorra e procuratore aggiunto a Torre Annunziata, Marino è oggi sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Napoli, quindi conosce bene le dinamiche della magistratura descritte da Palamara. La prima è senza dubbio la lottizzazione degli incarichi realizzata attraverso “nomine a pacchetto” e accordi di cartello tra le varie correnti che animano il Csm. Per quanto riguarda questo aspetto, tra i vari casi di nomine votate all’unanimità sulla base di precedenti accordi Palamara cita quello dei procuratori generali di Milano, Roma e Napoli. Senza dimenticare che, almeno secondo quanto si legge ne Il Sistema, le correnti non si sarebbero risparmiate reciproci colpi bassi anche per quanto riguarda la nomina dei vertici della Procura di Napoli e della Direzione nazionale antimafia. Segno che certe logiche sembrano aver attecchito anche nel capoluogo campano in tempi non sospetti. «Ciò che più inquieta – osserva Marino, in passato leader partenopeo di MD – non è il gioco delle correnti che si svolge da sempre, quanto la tendenza a estromettere i concorrenti del collega già individuato per ricoprire un certo incarico». Proprio di questo metodo Marino si ritiene vittima. In passato, infatti, il pm era tra i più autorevoli aspiranti al ruolo di procuratore aggiunto di Napoli. La sua esperienza in materia di lotta alla criminalità organizzata lo collocava in pole-position tra i magistrati che ambivano a quella funzione e, soprattutto, alla guida del Direzione distrettuale antimafia. A pochi giorni dalla decisione del Csm, ecco l’amara sorpresa: Marino, all’epoca aggiunto a Torre Annunziata, finì sotto inchiesta per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravati dalla collusione con la camorra nell’ambito di un’inchiesta sui rapporti tra un carabiniere, suo ex collaboratore, e un imprenditore. «Ci sono indizi gravi, seri e concordanti per ritenere che a qualcuno non andasse giù che fossi io a ricoprire la casella di aggiunto a Napoli», riflette il pm a distanza di dieci anni. A questa vicenda, nel suo libro, Palamara non fa alcun riferimento pur conoscendola bene: era lui il relatore della pratica sulla base della quale il Csm avrebbe dovuto restituire le funzioni direttive a Marino, nel frattempo assolto in sede penale e disciplinare, assegnandogli il ruolo di aggiunto a Napoli o a Torre Annunziata. Così non è andata, tanto che il sostituto procuratore generale partenopeo si è rivolto al Tar che dovrebbe esprimersi a marzo. Ma c’è un’altro caso con contorni simili: quello di Paolo Mancuso, magistrato in pensione e oggi presidente del Partito democratico napoletano. «Mancuso, anni fa, era procuratore di Nola e in corsa per succedere a Lepore alla guida dei pm di Napoli – racconta Marino – All’improvviso, però, spuntò l’intercettazione di un sms dal quale si sarebbe dedotto che Paolo avrebbe chiesto una raccomandazione. Successivamente la vicenda si sgonfiò e Mancuso fu scagionato in tutte le sedi. Fatto sta che l’incarico al quale poteva tranquillamente ambire, in virtù della sua esperienza e dei suoi titoli, non gli fu assegnato». In certi casi, secondo quanto rivelato da Palamara e confermato da Marino, il metodo preferito dal Sistema sarebbe «l’omicidio del concorrente», per giunta «perpetrato con l’arma giudiziaria». «Uno scenario simile scoraggia quei magistrati che legittimamente nutrono delle ambizioni professionali e che, alla luce di certi episodi, preferiscono non esporsi al rischio di azioni giudiziarie – evidenzia Marino – In questo modo l’amministrazione della giustizia viene affidata non ai candidati migliori, ma solo a quelli in grado di preservare certi equilibri politici». La conseguenza più grave, tuttavia, è la compromissione dell’immagine della magistratura non solo a Roma, città dove Palamara si muoveva con particolare disinvoltura, ma anche nel resto d’Italia: «Certe dinamiche non sono semplicemente deprecabili – conclude Marino – ma sono la morte della nostra categoria: con quale credibilità si continua ad amministrare la giustizia alla luce di vicende così gravi?»
Gli scandali che agitano la magistratura. Caso Palamara, Napoli è coinvolta ma troppi non parlano. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Le cose stanno più o meno così. C’è un libro, intitolato Il Sistema, in cui l’ex pm Luca Palamara traccia un quadro impietoso della magistratura italiana e getta più di un’ombra anche sulle toghe napoletane. Logica vorrebbe che non solo qualche addetto ai lavori, ma anche cittadini comuni e associazioni si mobilitassero per chiedere a chi di dovere di fare chiarezza. Non fosse altro perché la magistratura è uno dei poteri dello Stato e perché pm e giudici “maneggiano” quotidianamente la libertà, il patrimonio, la carriera (la vita, per farla breve) di tutti. E invece niente. Al netto di qualche sparuta voce, a Napoli non c’è nessuno o quasi che batta i pugni sul tavolo per sollecitare nient’altro che un’operazione-verità su quanto raccontato da Palamara nel suo libro. Eppure lo scenario che emerge da quelle pagine è a dir poco inquietante. Si parla di lottizzazione degli uffici giudiziari, assegnati in base ad accordi di carattere politico tra le varie correnti della magistratura. Si parla di uno spietato killeraggio ai danni di giudici “colpevoli” soltanto di ambire a cariche già destinate ad altri. Si parla di inchieste a orologeria e di linciaggi condotti con la collaborazione di alcuni organi di stampa. E c’è persino chi, al netto di quanto si legge nel libro, si dice convinto del fatto che tante altre vite e carriere siano state devastate dai giochi di potere all’interno della magistratura. È il caso del sostituto procuratore generale napoletano Raffaele Marino, a suo tempo accusato di collusione con la camorra proprio mentre sembrava in pole-position per il ruolo di procuratore aggiunto di Napoli. E c’è anche chi, come il giudice Eduardo Savarese, sollecita dal suo ufficio partenopeo l’istituzione di una commissione d’inchiesta che faccia chiarezza sulle pericolose dinamiche descritte da Palamara. Al netto di due “eretici” come Marino e Savarese, intervenuti nei giorni scorsi su queste pagine, nessuno sembra interessato alle modalità con cui la giustizia viene amministrata a Napoli e dintorni. Pochi si sarebbero aspettati una presa di posizione da parte di altri magistrati o di organismi rappresentativi della categoria, ai quali la delicata fase in corso deve aver suggerito una particolare prudenza. In compenso, però, sarebbe stato comprensibile un invito alla trasparenza da parte dell’avvocatura partenopea, sempre in prima linea per la difesa dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Qualcuno ricorda il Libro bianco con il quale i penalisti napoletani, negli anni Novanta, misero sotto accusa le modalità con cui la Procura conduceva le indagini? Oggi il problema è di portata ben più ampia, eppure nessuno invoca chiarezza o coglie l’occasione per sollecitare una radicale riforma della giustizia. Silenzio tombale pure da parte di associazioni e movimenti civici che, nei mesi scorsi, hanno fatto una “benefica irruzione” nel dibattito su Napoli e sul prossimo sindaco. Possibile che certe questioni non interessino a questi gruppi? Nemmeno a quelli che, al loro interno, vantano la presenza di alti magistrati? Nemmeno in una fase in cui è a repentaglio la credibilità di un’istituzione che a Napoli, martoriata dalla criminalità, dovrebbe essere ancora più solida? Sarebbe ora che, su questi temi, qualcuno facesse un passo avanti. Con coraggio, senza paura. Perché quella per la giustizia è e resta la madre di tutte le battaglie.
Il metodo Palamara anche a Napoli? Non minimizzare e fare chiarezza. Eduardo Savarese su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Non partire dal libro Il Sistema, vergato da Luca Palamara e Alessandro Sallusti, per osservare oggi la magistratura italiana, la sua storia, i suoi assetti e le sue prospettive, sarebbe come farci un’idea della democrazia ateniese dopo i Trenta Tiranni senza leggere l’Apologia di Socrate: e non perché Palamara sia Socrate, oppure il suo libro valga l’Apologia, intendiamoci. Uso quest’iperbole per dire un’ovvietà: quando vuole giudicarsi (dal tribunale della storia, da quello politico e anche da quello giudiziario) un periodo o una fase, privarsi della testimonianza scritta di uno dei suoi protagonisti, per quanto parziale e inaffidabile quel testimone sia, è un’operazione insensata. Il libro, dunque. Esso ci consegna tre livelli di criticità molto diversi. Il primo attiene alla degenerazione delle correnti in cui si articola la magistratura associata, in quanto veicoli di spartizione dei posti di rilievo dentro l’organizzazione della magistratura (che sia la nomina a Procuratore di Roma, la scelta dei componenti del direttivo della Scuola Superiore, oppure il conferimento della presidenza di sezione del Tribunale di Locri). Questo processo ha modificato e modifica l’assetto costituzionale formale (articolo 107 della Costituzione: «I magistrati si distinguono soltanto per funzione») e realizza un modello sempre più burocratico e gerarchico, asservito com’è a logiche di puro potere. Non che il merito non conti nulla, sarebbe falso sostenerlo, ma di certo il merito da solo non basta, posto che occorre il sostegno di un gruppo associativo. Il secondo livello di criticità riguarda in termini generali la contiguità tra magistratura e politica, e non tanto tra questo o quel magistrato e questo o quel politico, ma, piuttosto, nella dinamica dei rapporti tra poteri costituzionali: la magistratura esprime opzioni politiche, spesso contrarie a una certa parte politica. Il terzo – e più grave – livello di criticità vede il vero e proprio attentato, perpetrato grazie alla complicità tra la politica e alcuni organi costituzionali, tra cui lo stesso organo di autogoverno della magistratura (il Csm), alle garanzie di indipendenza della magistratura tutta nella persona del singolo magistrato: qui – cito i casi riportati nel libro dei magistrati Robledo, Forleo e Nuzzi – i poteri previsti a tutela dell’ordine giudiziario e, quindi, dell’ordinamento repubblicano nella sua interezza, sono stati piegati in modo abusivo al perseguimento di interessi personali e/o politici. Di fronte a questi tre livelli di criticità emergenti dalla lettura del libro che reazione è in atto e cosa potrà accadere? Partiamo dalla reazione della politica e della società civile: mi pare che essa sia semplice, riassumendosi nella domanda se sia vero ciò che il libro testimonia e nell’affermazione che, per sostenerlo, occorre effettuare tutte le verifiche necessarie (alcune a livello politico: l’evocata commissione parlamentare d’inchiesta; altre a livello giudiziario, quando ipotesi specifiche di responsabilità sembrino stagliarsi nitidamente). Di certo, la società civile nelle sue varie articolazioni sta mostrandosi stupefatta e anche sconcertata che la magistratura tardi a reagire. Poi c’è, appunto, la reazione della magistratura: sconfortata, smarrita, indignata, addolorata, la magistratura italiana sta cercando una via e una voce per reagire. Obiettivamente, non è facile. Ma tutto si può fare, ripeto, fuorché ignorare o minimizzare quel libro. Che fare, allora? Cercherò di esprimere il mio pensiero, ripercorrendo i tre livelli di criticità sopra segnalati. Degenerazione o strapotere delle correnti: esso si nutre dei processi di designazione ed elezione dei componenti togati del Csm, da un lato, del potere di assegnare singoli magistrati a posti di rilievo, dall’altro, della discrezionalità di cui l’organo di autogoverno gode nell’esercizio di quel potere, dall’altro ancora. Ma esso si nutre anche della grande illusione – inalata dalla magistratura italiana e dalla società nel suo insieme come un assenzio stordente – che, con le riforme Castelli-Mastella, si sia finalmente introdotta la meritocrazia nella magistratura. Questo è falso, perché il merito è passato per le maglie delle scelte correntizie. Ed è falso ancora più a monte, perché i magistrati si distinguono per funzione, secondo la Costituzione (il che vuol dire che il presidente di tribunale è un collega dei suoi giudici, che coordina il lavoro di tutti per un buon esercizio della giurisdizione a tutela dei cittadini). Allora: il primo livello di criticità si affronta ripensando radicalmente l’ordinamento giudiziario, riducendo largamente la discrezionalità del Csm nelle nomine, introducendo la rotazione negli incarichi direttivi e semidirettivi, valorizzando l’anzianità senza demerito e il costante, umile esercizio della giurisdizione. E naturalmente, rifondando i modi in cui i magistrati debbono scegliere i propri rappresentanti al Csm (ad esempio introducendo il sorteggio temperato o favorendo meccanismi elettorali capaci di supportare una scelta libera dei magistrati in direzione dei colleghi più stimati nei vari distretti di corte d’appello). Il secondo livello di criticità, ovvero della politicizzazione della magistratura: esso attiene ad una seria analisi autocritica del passato anche recente dell’Associazione Nazionale Magistrati, improntata a una domanda serena e onesta: la magistratura ha agito e/o agisce anche come soggetto politico? E se sì, in che senso? Su questo aspetto, la magistratura italiana oggi è molto divisa, sicché l’invocata unitarietà mi pare ridursi a mantra retorico di auto-rassicurazione. Propenderei per una netta presa di distanza da modelli di militanza politica, anche se spacciata per militanza culturalcostituzionale. A ciò si collega, d’altra parte, la necessità di regole certe sulla collocazione fuori ruolo dei magistrati per chiamata politica e sulla stessa partecipazione dei magistrati alla vita politica mediante loro candidatura in competizioni elettorali. Infine, il terzo livello di criticità: sugli aspetti gravissimi che emergono dal libro, non può esserci che analisi storica, politica e giuridica, rigorosa e immediata. Ogni magistrato deve sapere, nei prossimi mesi, e non nei prossimi decenni, se i fatti specifici narrati nel libro corrispondono o meno a verità. Non so se la commissione parlamentare sia il rimedio giusto; forse, giunti a questo punto, è necessaria. Ma la magistratura che lavora ogni giorno sui processi – questo deve essere chiaro – è scottata dagli interventi politici che partorirono la riforma dell’ordinamento giudiziario. Quella visione si è rivelata miope e perniciosa, sicché verso una politica sostanzialmente indifferente alle radici dei mali della giustizia quotidiana alligna in noi magistrati un buon grado di diffidenza. Tuttavia, vada come vada con le scelte parlamentari, è certo che il diritto alla verità ce l’hanno i magistrati forse prima ancora che i cittadini. Questo, oggi, deve diventare la priorità dell’organo di autogoverno e di ogni forma di risposta sistemica, fuori e dentro l’Associazione nazionale magistrati poco importa, che la magistratura intenderà proporre, e anche opporre, al dibattito della società civile e, in specie, ai poteri legislativo e esecutivo. E, si badi, non per un redde rationem interno, non perché qualcuno debba innalzarsi a vittima in cerca di vendicatori angelici, non perché bisogna cacciare i cattivi e prendersi i buoni. Ciò che non può essere eluso è un impegno totalmente volto a constatare ciò che è avvenuto e cercarne le ragioni: solo l’autorevolezza pacata con la quale la magistratura saprà affrontare l’evidenza dei fatti e delineare le misure più utili a che non si ripetano in futuro, farà elevare il vero controcanto al racconto di Palamara e Sallusti capace di ridare piena credibilità all’operato della magistratura. In questo, la magistratura napoletana potrà rivelarsi cruciale. Altrimenti il controcanto lo intoneranno altri, che potranno non essere animati dall’unica intenzione da non violentare: il diritto di tutti al giudice indipendente e imparziale.
La successione nella procura fortino di Md. Gratteri procuratore a Milano sarebbe perfetto, ecco perché. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Lo vedrei bene Nicola Gratteri seduto nel luminoso ufficio là in fondo al corridoio del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano. Procuratore capo. Successore di Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Edmondo Bruti Liberati, Francesco Greco. Sarebbe una variabile impazzita, e ne farebbe andar fuori di testa parecchi, se il Csm avesse la forza e la voglia di dimostrare che i metodi del “Sistema” denunciati da Luca Palamara sono davvero ormai superati. E se si decidesse, dopo tante trasgressioni, ad applicare il principio per cui solo chi è già stato procuratore capo, magari in una piccola città, possa ambire allo stesso ruolo in una metropoli come Roma o Milano. La scadenza è vicina: Francesco Greco, che occupa quel ruolo da cinque anni, è nato nel 1951, a novembre compirà settant’anni, la data del suo pensionamento. Gli anni passano, e uno dei più giovani “pulcini”, o “aquilotti” (come lui li chiamava) di Saverio Borrelli, dovrà lasciare. Il quarto piano del palazzaccio di Milano è da tempo immemorabile feudo sicuro di Magistratura democratica. È sempre stato un dato di fatto, accettato non solo tra i membri del Csm, anche quelli laici, ma anche dai leader di partito e Presidenti del consiglio i quali, compreso Berlusconi, hanno dato il loro assenso alla promozione di ciascuno di loro nel corso degli anni. Ma tutto questo accadeva prima della bufera Palamara. Anche l’ultima volta, nel 2016, gli outsider sapevano di non avere nessuna possibilità di espugnare Milano. Tra loro c’era anche Nicola Gratteri, che fu subito dirottato su Catanzaro. Le conseguenze di quella nomina sono sotto gli occhi di tutti: un pm all’americana, una sorta di sceriffo che deve ogni giorno guadagnare punti sul territorio per farsi riconfermare. Anche a costo di pagare con una serie di insuccessi che cancellano tanti dei suoi arresti. Ma poiché ne ottiene dai giudici qualche centinaio alla volta, non si pone il problema. E tira diritto, da un “Rinascita Scott” all’altro. Nicola Gratteri è forse il procuratore meno politico che ci sia in circolazione. È molto individualista e ignora le correnti del sindacato dei magistrati. Per questo sarebbe perfetto per Milano. La sua elezione sarebbe una vera discontinuità per la procura più politica d’Italia. Quella dove l’arroganza fin dagli anni novanta ha consentito una certa indifferenza nei confronti di principi costituzionali come l’obbligatorietà dell’azione penale, difesa con le unghie e i denti se si propone di abrogarla, ma ignorata ogni volta in cui il fine giustifica i mezzi. Sono tanti gli esempi, che hanno creato disparità di trattamento tra indagati e imputati: perché per esempio, durante tangentopoli, fu consentito a Cesare Romiti di cavarsela con un memoriale, ma lo stesso trattamento non fu riservato a Raul Gardini? E in epoca successiva: per quale motivo il presidente del consiglio Matteo Renzi ringraziò il procuratore Bruti Liberati per la “sensibilità” dimostrata nei confronti di Expo? Forse per l’atteggiamento della procura nei confronti di Beppe Sala? E Bruti non era lo stesso procuratore che dimenticò in cassaforte degli atti giudiziari mentre era in corso una gara d’appalto per la vendita della Sea, la società degli aeroporti milanesi, che andò in un certo modo, come tutti avevano previsto? La corrente della magistratura che era stata la più ideologica ma anche, almeno nella sua parte più radicale, garantista in modo puntiglioso (si ricordano ancora, in procura, i dissensi di Francesco Greco nei confronti di Armando Spataro e dell’uso del “pentitismo” nei processi di terrorismo), era poi diventata abilissima nel giocare le proprie pedine. C’è sempre di mezzo il principio della (finta) obbligatorietà dell’azione penale e di un certo modo di condurre le indagini se una persona considerata molto corretta come Saverio Borrelli si spingerà a dichiarare: «È così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto risultati positivi nella ricerca della verità?» E se lo stesso, molti anni dopo la fine di Tangentopoli non si rammaricò del fatto che non fosse valsa la pena mettere in piedi tutte quelle inchieste per arrivare al risultato della vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche del 1994. Si, è proprio la procura della repubblica più politica d’Italia. Luca Palamara, nel libro-intervista con Alessandro Sallusti, la cita come esempio importante, il più famoso, sul funzionamento del “Sistema”. Ricorda come nel 2014 le inchieste contro Berlusconi improvvisamente accelerassero e quelle sull’Expo giacessero su un binario morto, come i fatti che riguardavano Roberto Formigoni andassero in turbo e le carte sulla Sea dormissero in cassaforte. Ricorda come un intervento del presidente Giorgio Napolitano, il cui nome può tranquillamente essere scritto sulla lavagna dei “cattivi”, gli uomini del “Sistema”, salvò il procuratore Bruti Liberati nella guerra infinita con il suo aggiunto Robledo, sacrificato e distrutto sulla tomba dello Stato di diritto. Il ringraziamento, un anno dopo, da parte di Renzi che cosa significava, si dice nel libro, se non “grazie per aver allentato le indagini” sul sindaco Sala e su Expo? È proprio questa la cosa più raccapricciante del racconto di Luca Palamara, il sospetto di una giurisdizione avvelenata dalle ideologie, dalle carriere, dagli intrighi di Palazzo. Sarebbe bastato aver letto meglio, nel 1998, il libro di Francesco Misiani e Carlo Bonini (Toga rossa) in cui si racconta di quando Francesco Greco disse al suo ex maestro che l’importante non era quale fosse la competenza territoriale per certe indagini, ma individuare chi, cioè la procura di Milano, potesse farle. E sulla base di questa logica, completamente fuori legge, gli uomini di Borrelli avevano sbattuto in galera due innocenti quali l’ex ministro della giustizia Clelio Darida e l’ex presidente dell’Iri Franco Nobili. Poi scarcerati e assolti a Roma, una volta riportata sui giusti binari la competenza nel luogo dove si erano svolti i fatti. Se Edmondo Bruti Liberati, il penultimo procuratore capo di Milano, viene definito “uomo cardine” del “Sistema”, Francesco Greco, l’ultimo, non ne è mai stato estraneo. Anche se lo ricordiamo molto rigoroso nel 2018, durante un convegno di celebrazione del sessantesimo compleanno dell’organo di autogoverno, mentre sentenziava che «Il Csm deve essere un palazzo di vetro. Non ci possiamo più permettere vie clientelari di accesso al Csm». Giustissimo. Supponiamo che il procuratore di Milano sia contrario alle vie clientelari anche nelle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari. E a tal proposito, non so se abbia già querelato Luca Palamara per quel che scrive nel suo libro. È un ricordo del 2016, proprio i giorni in cui, dopo il pensionamento di Bruti Liberati, il Csm deve scegliere il successore. I voti di Palamara sono determinanti e Greco, designato da Magistratura democratica, lo sa. I due si incontrano a Roma all’hotel Montemartini. «Ci intendiamo subito e gli garantisco il mio appoggio», scrive quello che fu il magistrato più potente del Csm. Ma deve essere falso, perché il procuratore di Milano è contrario alle clientele. Non avrebbe mai accettato un pacchetto di voti. Tanto che, quando nel 2019 è scoppiato lo scandalo che ha riguardato l’autore del libro sul “Sistema”, ha parlato delle «umilianti logiche romane che sovrintendono al Csm». Perché stupirsi di questo dietrofront? Francesco Greco non era lo stesso che aveva denunciato al Csm il suo amico Misiani solo per una banale informazione che questi gli aveva chiesto su un’inchiesta?
Comunque il procuratore ha ragione, le logiche milanesi sono diverse da quelle romane. Ma basta prendere un treno per trasformarsi. E non è detto che uno di quelli che vanno in senso contrario, da sud a nord, non si trovi a prenderlo nei prossimi mesi proprio Nicola Gratteri. La Calabria ringrazierebbe. E la Lombardia si libererebbe del “Sistema”.
Il caso. Il flop di Geremia, promosso e diventato braccio destro di Gratteri: 10 anni di gogna, ma erano tutti innocenti. Paolo Comi su Il Riformista il 30 Marzo 2021. «Ma quale soddisfazione? Questa è una presa in giro bella e buona, degna di un Paese che ha messo da tempo sotto i piedi lo Stato di diritto», dichiara furente Giovanni Paolo Bernini, ex assessore al personale di Forza Italia a Parma, coinvolto nel 2010 in “dirigentopoli”, la maxi inchiesta sulle presunte assunzioni clientelari di dirigenti nel comune ducale. La Corte d’Appello di Bologna ha stabilito la scorsa settimana nei confronti di Bernini e degli altri ex indagati un risarcimento per violazione della legge Pinto dai 2000 ai 4000 euro. I finanzieri, coordinati dalla pm di Parma Paola Dal Monte, indagarono a inizio del 2010 per il reato di abuso d’ufficio tutti i vertici dell’amministrazione di centrodestra, quindi sindaco, assessore al personale, direttore generale, segretario generale. Del fascicolo, dopo gli iniziali fuochi d’artificio sui giornali e una proroga a ottobre del 2010, si persero però le tracce: la maxi inchiesta tornò in auge solo a febbraio del 2020 con una richiesta di archiviazione da parte della stessa Procura. «Il criterio previsto dalla legge per l’assunzione appare del tutto rispettato e non può essere invocata la violazione», aveva scritto dopo dieci anni il pm Dal Monte in poco più di una pagina di richiesta di archiviazione. «Gli investigatori – prosegue la pm – sono incorsi in alcuni errori di valutazione che hanno determinato il contenuto della Cnr (comunicazione di notizia di reato, ndr) da cui è scaturita l’iscrizione». L’ipotesi di danno erariale per le casse comunali era stata stimata addirittura in 3 milioni di euro. Boom. Archiviazione accolta, poi, per intervenuta prescrizione da parte del gip Mattia Fiorentini. «L’indennizzo stabilito dal legislatore è ridicolo, un’elemosina, ma quello che è ancora peggio è il fatto che a pagare gli errori dei magistrati e degli inquirenti siano sempre i contribuenti», prosegue Bernini. Eh già. Guido Mario Geremia, l’allora comandante provinciale della guardia di Finanza che condusse le indagini, dopo aver ricevuto un encomio per la brillante attività svolta, era stato promosso generale e destinato al prestigioso incarico di comandante regionale della Calabria. Adesso è anche uno dei più importanti collaboratori del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Fra le ultime indagini, “Basso profilo”, quella che ha terremotato l’Udc calabrese. Molti gli indagati già scagionati. «Ma quale errore di valutazione, questa è scarsa conoscenza delle norme che regolano gli Enti locali», aggiunge ancora Bernini, ricordando che «in un comune l’assessore al personale non ha competenza sui dirigenti: dieci anni di indagini per capire che si trattava di assunzioni che non potevo fare per legge: è semplice ignoranza investigativa!». Sul fronte delle “tempistiche” decennali, nei mesi scorsi l’onorevole Pierantonio Zanettin, capogruppo forzista in Commissione giustizia alla Camera, aveva presentato una interrogazione chiedendo l’intervento del Guardasigilli, Alfonso Bonafede. «Non appare sussistere alcun allarmante o comunque anomalo stallo investigativo-procedurale tale da giustificare l’esercizio dei poteri ispettivi e di promozione dell’azione disciplinare di titolarità del Ministero della Giustizia, considerato che allo stato non si rinviene alcun profilo di responsabilità da parte dei magistrati di Parma», avevano prontamente risposto dal governo. Fra i motivi, «l’immane impegno investigativo» della Procura di Parma per affrontare circa cinque procedimenti per reati contro la Pa. Procedimenti, come si appurò, tranne alcuni posizioni definite con il patteggiamento in sede di indagini preliminari, dei quali nessuno ancora giunto a una pronuncia definitiva. Ricapitolando, i finanzieri commettono errori di valutazione e sono promossi, il pm viene giustificato dal ministro per le tempistiche a due cifre con cui chiude i fascicoli, gli indagati, dopo un decennio di stress e gogna mediatica, vengono risarciti con un obolo. Questa giustizia metterebbe i brividi anche a Luca Palamara.
Bernini a Quarta Repubblica su Mescolini: Tinelli annuncia azioni legali. Da reggionline.com il 16 febbraio 2021. “Non sono mai stata iscritta al Pd né ad altri partiti politici”, dichiara seccamente l’ex presidente dell’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia. L’avvocato reggiano Celestina Tinelli annuncia azioni legali in riferimento alle parole pronunciate ieri sera nel corso della trasmissione tv di Rete4 “Quarta Repubblica”, condotta da Nicola Porro, da parte dell’esponente di Forza Italia Giovanni Paolo Bernini.
Bernini, che fu coinvolto nell’inchiesta Aemilia con l’accusa di corruzione elettorale, venendo tuttavia prosciolto per intervenuta prescrizione, ha accusato la Tinelli di avere “sostenuto” e addirittura “imposto”, per conto del Pd la nomina di Marco Mescolini a Procuratore Capo di Reggio nel 2018. “Non sono mai stata iscritta al Pd né ad altri partiti politici”, dichiara seccamente Celestina Tinelli, ex presidente dell’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia.
Bernini fa il nome di chi avrebbe “imposto” Mescolini a capo della Procura di Reggio Emilia. L’Avv. Tinelli annuncia azioni legali. Da nextstopreggio.it il 16 Febbraio 2021. Ospite dal giornalista Nicola Porro nella puntata di ieri sera di Quarta Repubblica, l’ex assessore forzista di Parma Giovanni Paolo Bernini, finito nell’inchiesta Aemilia e poi assolto, ha creato suspence per alcuni minuti durante la trasmissione dicendo di sapere chi avrebbe fatto pressioni per avere Marco Mescolini a capo della Procura di Reggio Emilia. L’ex politico di Forza Italia era un fiume in piena: evidenziando ripetutamente il rapporto con l’ex togato Palamara e le rivelazioni che lo stesso gli avrebbe fatto, denunciava a gran voce intrighi e commistioni fra politica e magistratura italiana. Incalzato dal giornalista Nicola Porro sul nome misterioso che avrebbe portato alla nomina di Mescolini, Bernini ad un certo punto ha dichiarato serafico: “Palamara mi ha detto che Celestina Tinelli fu l’esponente politico a nome del Partito Democratico che impose lui e non altri. Voi devete chiedervi perchè lui e non altri….Mescolini nel processo Aemilia ha tralasciato un fiume di intercettazioni ambientali e telefoniche che investono esponenti del PD”. Non si è fatta attendere la replica della diretta interessata, Celestina Tinelli, che riportiamo integralmente. “Ieri sera durante la trasmissione televisiva Quarta Repubblica andata in onda su Rete 4, condotta dal giornalista Nicola Porro, trasmissione cui non partecipavo, sono stata inopinatamente citata dal sig. GiovanniPaolo Bernini, che non mi conosce, come l’ “esponente del PD”, che a suo dire, per conto del partito avrebbe “fortemente sostenuto” ed anzi di più “imposto” la nomina del Procuratore Marco Mescolini a Reggio Emilia. Ciò ha affermato, con particolare enfasi, dopo avere riferito di avere più volte invitato il PD a uscire allo scoperto e citando Luca Palamara quale fonte di tale asserzione. E’ noto che il sig. Bernini, politico parmense, conduce da mesi contro il dott. Mescolini una campagna mediatica, che a Reggio Emilia ha trovato un certo ascolto e risalto e che, evidentemente, abbisogna di sempre nuova linfa, di cui non intendo fare parte. Non sono mai stata iscritta al PD né ad altri partiti politici. Non sono componente di Enti del Comune di Reggio Emilia. Non ho nulla da nascondere; non ho mai esercitato una funzione contraria a legge e ordine pubblico e non ho in alcun modo alterato i procedimenti diretti a nominare i superiori rappresentanti della magistratura. Sono sempre stata al mio posto e se richiesta ho formulato delle osservazioni di ordine tecnico. Non mi sono mai fatta portatrice presso il dott. Palamara o altri esponenti del CSM di interessi di alcun partito. Ho lavorato sempre per l’avvocatura e in generale per la giustizia, sfido chiunque a dire che ne ho avuto vantaggi indebiti. Siccome si è proceduto inaudita altera parte, voglio sperare che come tardiva emenda da parte vostra cessi qualsiasi chiachiericcio sul mio conto. Quanto alla figura del dott. Marco Mescolini, nessuna città che fosse consapevole della portata delle attività che hanno condotto al maxiprocesso contro la ndrangheta, sarebbe stata meno che onorata dall’averlo quale Procuratore e attorno a ciò, in un paese normale, non dovrebbe costruirsi alcuno scenario illecito, a meno che non si voglia delegittimarlo e indebolirlo, come tristemente avvenuto ad altri magistrati scomodi. Ciò detto, poiché il danno nei miei confronti è stato perpetrato, anticipo che è mia intenzione promuovere azione civile nei confronti dei responsabili”. Celestina Tinelli
Mescolini e i suoi nemici: l’approfondimento di Tg Reggio. Gabriele Franzini su reggionline.com il 6 febbraio 2021. Il Consiglio superiore della magistratura sta valutando la posizione del procuratore capo di Reggio, oggetto di un procedimento per incompatibilità ambientale. Come e perché si è arrivati a questo punto.
Prima puntata. Il Consiglio superiore della magistratura sta valutando la posizione del procuratore capo di Reggio Marco Mescolini. Sul conto del magistrato c’è un procedimento per presunta incompatibilità ambientale, in cui è confluito anche l’esposto presentato da quattro sostituti procuratori. Questa sera cominciamo un approfondimento di TG Reggio per cercare di capire come e perché si è arrivati a questa situazione. 26 settembre 2018, Tribunale di Reggio: cerimonia di insediamento di Marco Mescolini nell’incarico di procuratore capo. La nomina da parte del Csm, con un voto pressoché plebiscitario, risale al 4 luglio, quasi tre mesi prima. Tutti sembrano contenti: Mescolini, naturalmente, ma anche i vertici del Tribunale, i rappresentanti delle istituzioni, delle forze dell’ordine, gli avvocati e i colleghi del nuovo procuratore capo. Da quel giorno sembra passato tanto tempo. Ma in quell’inizio autunno di due anni e mezzo fa, Mescolini è l’eroe dell’inchiesta Aemilia. 52 anni, originario di Cesena, in magistratura dal ’96, Mescolini è approdato alla Direzione distrettuale antimafia nell’aprile 2010, e subito, sotto l’impulso e il coordinamento del procuratore di Bologna Roberto Alfonso, ha condotto un’inchiesta sul radicamento della criminalità organizzata in Emilia. Un’inchiesta destinata a fare storia e culminata il 15 gennaio 2015 in un’ordinanza del gip di Bologna Alberto Ziroldi nei confronti di 203 persone, 68 delle quali accusate di associazione mafiosa. L’indagine ha svelato l’esistenza di una cosca di ‘ndrangheta con base a Reggio, ne ha individuato i capi e i ‘soldati semplici’, ha alzato il velo sui patrimoni accumulati illegalmente e sulle complicità nel mondo degli affari, delle professioni e delle forze dell’ordine, ha messo in luce i rapporti con alcuni politici. Un mese dopo l’insediamento di Mescolini, il 24 ottobre 2018, la Cassazione mette il sigillo al processo Aemilia celebrato con rito abbreviato a Bologna. E una settimana più tardi i giudici Caruso, Beretti e Rat emettono la sentenza di primo grado del processo che si è tenuto a Reggio con rito ordinario, in cui Mescolini ha rappresentato l’accusa in aula insieme alla collega Beatrice Ronchi. Quaranta persone condannate nel primo caso, 116 nel secondo per oltre 1.200 anni di carcere. E’ il punto più alto della parabola del magistrato romagnolo. Poi le cose impercettibilmente cominciano a cambiare.
Mescolini e i suoi nemici: le inchieste e i rapporti con i sostituti in Procura. Gabriele Franzini su reggionline.com il 7 febbraio 2021. Dopo la nomina a procuratore capo e le sentenze sui diversi tronconi del processo Aemilia, nell’ottobre del 2018, il magistrato è sugli scudi. Ma lo scenario inizia a cambiare.
Seconda puntata. Il primo anno di Marco Mescolini alla guida della Procura di Reggio è intenso. Il 5 novembre 2018 Francesco Amato, condannato nel processo Aemilia ma resosi latitante, tiene in ostaggio per un’intera giornata i dipendenti dell’ufficio postale di Pieve Modolena. Il 9 febbraio 2019 i tre figli di Amato vengono fermati con l’accusa di essere gli autori degli spari contro diversi ristoranti a fine di estorsione. Sempre in febbraio diventa di dominio pubblico un’inchiesta sull’assegnazione di incarichi da parte del Comune di Reggio che coinvolge alcuni dirigenti ed ex dirigenti dell’amministrazione locale. Il 13 giugno circa 70 agenti della Guardia di finanza perquisiscono il municipio alla ricerca di documenti su alcuni appalti, di cui si sospetta l’irregolarità: 15 gli avvisi di garanzia, che raggiungono tra gli altri il vicensindaco Matteo Sassi a l’assessore Mirko Tutino. Due settimane dopo, il 27 giugno, esplode la bomba delle indagini sugli affidi in Val d’Enza: il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti finisce ai domiciliari. Un’attività frenetica, insomma. E’ proprio in questi frangenti, però, che in Procura si verificano attriti sempre più frequenti tra il procuratore capo e alcuni sostituti. Il clima cambia, i rapporti cominciano a logorarsi, le divergenze si acuiscono. Scelte, tempistiche, considerazioni di opportunità, dichiarazioni pubbliche sul significato delle indagini dividono alcuni magistrati da Mescolini. Su questo scenario si innesta un elemento imprevisto: la pubblicazione, a fine maggio 2020, sul Resto del Carlino, degli scambi di messaggi via WhatsApp tra Mescolini e Luca Palamara. Messaggi che risalgono a due anni prima, nei quali Mescolini, all’epoca in corsa per la guida della Procura di Reggio, chiede lumi Palamara, consigliere del Csm, sugli ostacoli che incontra la sua nomina e gli chiede di darsi da fare per rimuoverli. Le chat con Palamara offrono lo spunto, nell’agosto 2020, per una serie di articoli pubblicati da Il Riformista. Il quotidiano ripesca un’informativa dei Carabinieri del 2010 e la tristemente famosa velina dei Servizi segreti del 2012. Si tratta di documenti di cui hanno già ampiamente riferito i mezzi d’informazione reggiani più di quattro anni prima, all’inizio del 2016, contenenti accuse prive di riscontri a Luca Vecchi, alla moglie, la dirigente comunale Maria Sergio, e all’ex assessore Ugo Ferrari. Queste carte, infarcite di falsi grossolani, diventano lo strumento per minare la credibilità di Mescolini. L’artefice della più importante inchiesta sulla ‘ndrangheta al Nord viene accusato per paradosso di avere insabbiato le indagini sulle cosche. Perché l’avrebbe fatto? E’ quello che vedremo in un prossimo servizio.
Mescolini e i suoi nemici: l’estate calda del 2020 e l’attacco del centrodestra. Gabriele Franzini su reggionline.com il 9 febbraio 2021. L’affondo di Maurizio Gasparri e di altri 12 senatori di Forza Italia, prima ancora quello del piacentino Tommaso Foti (deputato di Fratelli d’Italia), ma l’offensiva più insidiosa non arriverà da ambienti politici.
Terza puntata. Nella seconda puntata del nostro approfondimento sulle vicende interne alla Procura siamo arrivati all’estate del 2020, quando il centrodestra sferra il proprio attacco al procuratore capo. Il 20 agosto 2020 13 senatori di Forza Italia, guidati da Maurizio Gasparri, annunciano un’interrogazione su Mescolini al Ministro della Giustizia. Già più di un anno prima, il 18 giugno 2019, Tommaso Foti, deputato piacentino di Fratelli d’Italia, aveva presentato un’interrogazione per chiedere l’invio di ispettori alla Procura di Reggio. Stavolta però Forza Italia chiede senza giri di parole l’avvio di un’azione disciplinare nei confronti di Mescolini, “il cui operato – scrivono i firmatari dell’interrogazione – sta recando danno evidente alla reputazione della magistratura”. Se si pensa che l’indagine sulla ‘ndrangheta in Emilia condotta da Mescolini viene portata ad esempio in tutta Italia, l’attacco appare paradossale. Ma di cosa viene accusato Mescolini? In sostanza, di avere indagato esponenti del centrodestra come Giuseppe Pagliani e Giovanni Paolo Bernini, ma di aver evitato di fare altrettanto con esponenti del Pd. In altre parole, il magistrato agirebbe in base a pregiudiziali politiche. Gran parte delle argomentazioni contro l’artefice dell’inchiesta Aemilia arriva da un libro di Giovanni Paolo Bernini. Esponente di Forza Italia, ex presidente del Consiglio comunale di Parma, Bernini si considera una vittima di Mescolini. Nell’inchiesta Aemilia Bernini fu accusato inizialmente di concorso esterno in associazione mafiosa. In seguito il reato fu derubricato in corruzione elettorale. Nel 2016 il gup del Tribunale di Bologna Francesca Zavaglia giudicò provato un versamento di denaro da parte di Bernini allo ‘ndranghetista Romolo Villirillo in cambio del suo sostegno nella campagna elettorale del 2007. Ma il reato fu dichiarato estinto per prescrizione. Nel maggio 2019, alla vigilia delle Europee, la Commissione parlamentare antimafia, sulla base della segnalazione della Procura di Parma, indicò Bernini tra i “candidati impresentabili”, in seguito alla condanna per corruzione emessa nel marzo dello stesso anno dalla Corte d’appello di Bologna per una mazzetta incassata su un appalto comunale. Ma mentre Mescolini è nel mirino del centrodestra, contro il magistrato prende forma un’operazione ben più insidiosa. Un’operazione che non nasce in ambito politico, ma nei corridoi della Procura.
Mescolini e i suoi nemici: i contenuti dell’esposto al Csm e la politica. Gabriele Franzini su reggionline.com il 10 febbraio 2021. Al centro soprattutto la gestione dell’inchiesta sugli appalti in Comune e il numero di indagati, la scelta di fare la perquisizione dopo il ballottaggio per l’elezione del sindaco e non dopo.
Quarta puntata. Cosa c’è scritto nell’esposto contro il procuratore Mescolini presentato al Csm da quattro sostituti? Questa domanda è al centro della quarta puntata del nostro approfondimento sulla situazione interna alla Procura. Il 14 agosto 2020 Luciano Varotti, ex giudice della sezione fallimentare di Reggio, passato al Tribunale di Bologna, pubblica su internet un intervento nel quale sostiene che i magistrati che si scambiavano messagi con Palamara minano la credibilità della magistratura. Mescolini non viene nominato, ma il riferimento è evidente. Varotti non si limita alle valutazioni generali, ma passa in rassegna gli strumenti tecnici per rimuovere il procuratore capo, a partire dalla norme sul trasferimento d’ufficio per incompatibilità. Ed è proprio questo che accade: in procura a Reggio prende forma un esposto al Csm contro Mescolini. Lo firmano quattro sostituti: Isabella Chiesi, Valentina Salvi, Giulia Stignani e Maria Rita Pantani, compagna nella vita del giudice Varotti. I contenuti dell’esposto sono segreti. Chi ha potuto leggerlo, racconta che lo scambio di messaggi con Palamara vi ha un ruolo marginale. Le quattro firmatarie rileggerebbero alcuni atti di Mescolini in chiave politica. Al procuratore capo verrebbe contestata ad esempio l’assenza a una riunione di lavoro per partecipare a un’iniziativa pubblica con Stefano Bonaccini, un paio di settimane prima delle elezioni regionali del 2020. Quel giorno, il 7 gennaio, Mescolini si trovava effettivamente nello stesso posto di Bonaccini, al Teatro Valli, ma per partecipare alle celebrazioni del Tricolore, ospite d’onore il presidente del Parlamento Europeo. Il cuore dell’esposto sembra essere però la gestione dell’inchiesta sugli appalti del Comune di Reggio. Le autrici muoverebbero rilievi sui reati contestati e sul numero delle persone indagate, che a loro giudizio avrebbe dovuto essere maggiore, coinvolgendo altri esponenti della Giunta oltre al vicesindaco Sassi e all’assessore Tutino. Anche la perquisizione in Comune per acquisire documenti, per le firmatarie dell’esposto, avrebbe dovuto essere fatta prima del ballottaggio del 9 giugno 2019. Vinse la linea del procuratore capo: gli indagati furono 15 e la perquisizione si svolse quattro giorni dopo il ballottaggio. Ma Chiesi, Pantani, Salvi e Stignani, nell’esposto, avanzerebbero il dubbio che le scelte di Mescolini possano essere state condizionate da considerazioni politiche. Se queste sono le tesi alla base della richiesta di trasferimento, è possibile valutare il fondamento delle accuse? E’ quello che proveremo a fare nella prossima puntata.
Mescolini e i suoi nemici: procura divisa sull’inchiesta appalti in Comune. Gabriele Franzini su reggionline.com l'11 febbraio 2021. La vicenda che ha fatto da detonatore ai contrasti fra il procuratore capo Mescolini e quattro sostituti è stata la gestione dell’indagine e la scelta di eseguire la perquisizione dopo il ballottaggio elettorale.
Quinta puntata. Nell’autunno del 2018, non appena insediatosi come procuratore capo, Marco Mescolini chiese ai colleghi quali fossero le indagini più importanti su cui stavano lavorando. Tra le altre, gliene fu indicata una su alcuni bandi del Comune di Reggio, che secondo la Guardia di Finanza erano congegnati su misura per il vincitore predestinato. L’inchiesta era iniziata nel 2016, ma due anni dopo era di fatto ferma. Il nuovo procuratore chiese di riprenderla in mano e, per rafforzare il pool investigativo, chiamò come consulente tecnico l’ingegner Domenico Romaniello, che già aveva lavorato con lui nell’inchiesta Aemilia. La Procura aveva fatto uso di intercettazioni telefoniche e ambientali, ma dal punto di vista delle procedure amministrative la Guardia di Finanza aveva semplicemente scaricato i documenti dal sito internet del Comune. Il consulente chiamato da Mescolini fece presente la necessità di acquisire gli originali, insieme ad appunti, bozze e così via. Proprio sulla perquisizione in Municipio si consumò una frattura all’interno della Procura. Le due pm titolari delle indagini, Valentina Salvi e Giulia Stignani, che un anno dopo saranno tra le firmatarie dell’esposto al Csm contro Mescolini, volevano agire subito. Ma si era nel giugno 2019, alla vigilia del ballottaggio per il Comune, e il procuratore capo ritenne che non vi fosse l’elemento dell’urgenza: perché mandare 70 finanzieri in Comune pochi giorni prima del voto per un’indagine vecchia di tre anni? La perquisizione si svolse dunque il 13 giugno 2019, quattro giorni dopo il ballottaggio. In Procura c’erano idee diverse anche su altri aspetti dell’inchiesta. Le pm Salvi e Stignani pensavano che si dovessero contestare ulteriori ipotesi di reato, indagando un maggior numero di persone, magari prosciogliendone alcune in una fase successiva. Mescolini fu di avviso diverso. In prima battuta gli indagati furono 15. Nel luglio 2020, con l’avviso di conclusione delle indagini, il numero delle persone coinvolte salì a 26, dei quali 7 tra dirigenti e funzionari del Comune. Nel tempo si è però attenuata la portata dell’inchiesta. Inizialmente il vicesindaco Sassi, l’assessore Tutino e il presidente della Asp Leoni erano stati accusati di turbativa d’asta. La posizione del primo è stata archiviata, per Tutino resta solo la presunta rivelazione di segreto d’ufficio, per Leoni il falso ideologico.
Mescolini e i suoi nemici: la politica e la ‘ndrangheta. Gabriele Franzini su reggionline.com il 12 febbraio 2021. Nuova puntata dell’approfondimento di Tg Reggio sugli attacchi al procuratore capo di Reggio Emilia. La genesi delle inchieste della Dda su Pagliani e Bernini e il giudizio dei tribunali.
Sesta puntata. Il centrodestra accusa il procuratore capo Mescolini di aver messo sotto inchiesta senza motivo Giuseppe Pagliani e Giovanni Paolo Bernini, ma di non aver sviluppato gli indizi e gli spunti investigativi che, nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta, chiamavano in causa esponenti del centrosinistra. Ci sono elementi per ritenere fondata questa tesi? Quanto al primo aspetto – cioè il coinvolgimento di Pagliani e Bernini, visto come una persecuzione giudiziaria – l’affermazione non tiene conto di un fatto essenziale. La Dda non indagava su Pagliani: la Dda “inciampò” in Pagliani intercettando Alfonso Paolini, poi condannato per associazione mafiosa. Pagliani aveva contatti telefonici con Paolini, incontrava i fratelli Sarcone e Pasquale Brescia ed è per questo che finì nell’indagine. Allo stesso modo Bernini, ex assessore ed ex presidente del Consiglio comunale di Parma, finì nell’inchiesta non perché la Dda di Bologna lo intercettava. La Dda di Bologna ricevette da quella di Catanzaro intercettazioni dello ‘ndranghetista Romolo Villirillo nelle quali quest’ultimo diceva che Bernini gli aveva promesso soldi in cambio di appoggio elettorale. Il centrodestra però argomenta anche che Mescolini avrebbe trascurato gli atti dell’inchiesta che porterebbero al Pd. Mescolini non indagava da solo, ma faceva parte di un pool di quattro magistrati coordinato dal procuratore generale di Bologna, Roberto Alfonso. Il lavoro di questo pool, solo per limitarsi al troncone principale del processo Aemilia, ha superato ormai l’esame di quattro processi e della Cassazione. Cinque corti, decine di giudici. Alcune sentenze indicano ulteriori spunti di indagine, altre – come quella emessa dei giudici Caruso, Beretti e Rat – stigmatizzano la “passività e inconsapevolezza” di alcuni politici e amministratori. Ma nessuna di queste sentenze dice che l’accusa ha indagato in una sola direzione o che ha trascurato notizie di reato. C’è di più: già nel 2016, Bernini presentò esposti dello stesso tenore al Csm e al procuratore generale della Cassazione: né l’uno né l’altro hanno ritenuto che vi fossero elementi per trasmettere l’esposto alle Procure competenti per nuove indagini.
Tinelli: "Azioni legali contro chi mi accusa". L’ex presidente dell’Ordine degli Avvocati: "Non mi sono mai fatta portatrice verso Palamara di interessi di alcun partito". Pubblicato il 17 febbraio 2021 da Alessandra Codeluppi su ilrestodelcarlino.it. "Poiché il danno nei miei confronti è stato perpetrato, anticipo che è mia intenzione promuovere azione civile nei confronti dei responsabili". Celestina Tinelli, ex presidente dell’Ordine degli Avvocati di Reggio, reagisce duramente alle accuse lanciate da Giovanni Paolo Bernini di Forza Italia: "Non mi sono mai fatta portatrice verso Palamara o altri esponenti del Csm di interessi di alcun partito", ribadisce la Tinelli. Lo scontro nasce dall’attacco lanciato da Bernini durante una puntata di "Quarta Repubblica" su Retequattro. "Questo nome, Celestina Tinelli, è certificato da Luca Palamara - ha detto Bernini -. Lui mi disse che Tinelli, a nome del Pd, impose Mescolini e non altri come procuratore capo di Reggio. Come mai? Perché Mescolini in "Aemilia" tralasciò un fiume di intercettazioni ambientali e telefoniche che investono esponenti Pd, prendendo invece due di Forza Italia". Bernini, ex assessore di Parma di Forza Italia, prosciolto in ‘Aemilia’, lancia gravi accuse anche contro Mescolini, sul quale la Prima commissione del Csm ha dichiarato l’incompatibilità ambientale, parere che sarà sottoposto al vaglio del plenum. Nella trasmissione tv tra gli ospiti c’era Alessandro Sallusti, autore del libro ‘Il sistema’, lunga intervista all’ex togato romano, al centro dello scandalo delle nomine pilotate dei magistrati. Nel volume di Sallusti, Palamara dice: "La nomina di Mescolini fu fortemente sostenuta dal Pd locale". Su questo punto, Sallusti ha svelato in tv un retroscena: "Nella prima stesura del libro Reggio non era neanche entrata. Poi Palamara ha insistito perché mettessi il caso Parma legato a Reggio, dicendo che era un caso politico enorme, il più emblematico delle interferenze del Pd sul Csm per avere un procuratore piuttosto di un altro". Tinelli preannuncia battaglia legale: "È noto che Bernini conduce da mesi contro Mescolini una campagna mediatica che a Reggio ha trovato un certo ascolto e risalto che, evidentemente, abbisogna di sempre nuova linfa e di cui non intendo fare parte". Sull’appartenza politica, scrive: "Non sono mai stata iscritta al Pd nè ad altri partiti. Non sono componente di enti del Comune di Reggio". E ancora: "Non ho nulla da nascondere e non ho alterato i procedimenti diretti a nominare i superiori membri della magistratura". Respinge le illazioni: "Ho sempre lavorato per l’avvocatura e in generale per la giustizia: sfido chiunque a dire che ho avuto vantaggi indebiti". E difende Mescolini: "Nessuna città che fosse consapevole della portata delle attività che hanno portato al maxiprocesso contro la ‘ndrangheta, sarebbe stata meno che onorata dall’averlo quale procuratore. Attorno a ciò, in un Paese normale non dovrebbe costruirsi alcuno scenario illecito, a meno che non si voglia delegittimarlo e indebolirlo, come tristemente avvenuto ad altri magistrati scomodi".
La “bomba” deflagra a Quarta Repubblica. Chi impose Mescolini a Reggio per conto del Pd? Bernini fa il nome di Celestina Tinelli. Da reggioreport.it il 16/2/2021 – Alla fine Bernini il nome lo ha fatto. Ha aspettato due settimane perchè il Pd reggiano trovasse il coraggio di compiere un “passo avanti” e lo pronunciassero i suoi dirigenti, quel nome. Ma l’attesa è stata inutile e così ieri sera dopo le 23 su Rete 4 Giovanni Paolo Bernini, ex assessore di Parma ed esponente di primo piano di Forza Italia nella città ducale , tritato ben bene nel processo Aemilia ma assolto “ben cinque volte”, nello studio di Quarta Repubblica, ospite di Nicola Porro insieme all’ex magistrato Carlo Nordio, al direttore del Riformista Piero Sansonetti e in collegamento con Alessandro Sallusti (direttore del giornale e autore del libro intervista a Palamara “Il Sistema”), dunque Bernini ha fatto il nome dell’avvocato Celestina Tinelli come longa mano del Partito Democratico che avrebbe imposto per conto del partito il nome del dottor Marco Mescolini a capo delle Procura di Reggio Emilia. “Il nome me lo ha fatto Palamara, col quale oggi intendo combattere insieme una battaglia di verità e di giustizia”, ha aggiunto. Battaglia contro il rapporto perverso tra vertici della magistratura e politica che da decenni condiziona la democrazia italiana, con magistrati piazzati al posto giusto per colpire gli avversari politici. Sarà certamente una minoranza, però il Sistema è questo. Così il famoso nome, su cui a Reggio si era creata una notevole attesa (e buona parte della città ieri sera era incollata su Rete 4), è saltato fuori poche ore dopo che la Prima commissione del Csm aveva votato la proposta di trasferimento per incompatibilità ambientale del procuratore Mescolini, sui cui dovrà pronunciarsi il plenum di palazzo dei Marescialli. E in una puntata decisamente calda – anzi rovente, perchè mai come ieri sera si era messo in tv il dito della piaga del potere dei clan politici sulla magistratura – Bernini ha snocciolato il curriculum di Celestina Tinelli, ex membro del Csm voluta da Piero Fassino, organica al Pd, membro di consigli di amministrazione di secondo grado del comune di Reggio (si riferiva alla nomina del cda della fondazione Manodori), e “in stretto rapporto col sindaco di Reggio”, Luca Vecchi. Si è tuttavia dimenticato che Tinelli sino a gennaio è stata presidente dell’ordine degli Avvocati di Reggio Emilia, oggi commissariato a norma di legge, e fatta decadere dalle dimissioni della maggioranza dei membri del consiglio. Dimissioni generate soprattutto, anche se non solo, dall’audizione di Tinelli al Csm proprio nel procedimento Mescolini, di cui il Consiglio era venuto a conoscenza praticamente per caso. Incalzato dalle domande di Nicola Porro, e dopo che erano passato un audio con i messaggi whatsapp tra Mescolini e Palamara (compreso il famoso “Reggio è importante per tutto“) Bernini ha rivelato il nome di Tinelli dopo aver illustrato brevemente la propria vicenda giudiziaria e aver spiegato come nel suo libretto del 2019 avesse anticipato quella riga “che tutti hanno letto” a pagina 132 de Il Sistema: “La nomina del procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini, fortemente sostenuto dal Pd locale“. Sallusti ha sottolineato che la “versione è molto verosimile”, aggiungendo un particolare illuminante: “Nella prima stesura del libro, quel passaggio su Mescolini non era previsto, ma Palamara ha insistito molto per inserire la vicenda delle nomine tra Parma e Reggio, come uno dei casi più emblematici di interferenza verso il Csm“. E Sansonetti: “Conosco Celestina Tinelli, e la stimo. Ma per quello che so la storia di Bernini è vera: è un perseguitato”. Era stato il Riformista del resto a pubblicare l’intervista al magistrato Pennisi che lasciò la Dda di Bologna in aperto contrasto con Mescolini sulle conclusioni dell’inchiesta Aemilia. E Sansonetti spara a palle incatenate: “I magistrati sono di fatto incontrollati e inattaccabili. C’è il sospetto di un sistema eversivo al vertice, e l’Anm è illegale”. La sostanza – ripete Bernini – è che nell’inchiesta Aemilia Mescolini ha colpito due avversari politici, innocenti, ma non ha tenuto conto della massa enorme di intercettazioni che attestano i rapporti tra esponenti e amministratori del Pd con il clan ndranghetista. Ma il vaso di Pandora ora è aperto. Be Sociable, Share!
Tour elettorali e strani affari coi boss. Quando l'inchiesta Aemilia sfiorò il Pd. Delrio "informato dei fatti" fu sentito dai pm ma non indagato. Il suo braccio destro prese casa da un prestanome delle cosche. Felice Manti - Lun, 22/02/2021 - su Il Giornale. «Adesso bisogna riaprire l'inchiesta Aemilia sulle connessioni fra la 'ndrangheta e la sinistra in Emilia. Ci sono fiumi di intercettazioni sul rapporto opaco fra le famiglie della criminalità e il Pd. Una valanga di carte rimasta in un cassetto». La denuncia al Giornale dell'azzurro Giovanni Paolo Bernini, vittima di un abbaglio giudiziario, non può restare lettera morta. Soprattutto adesso che il Csm ha chiesto che il procuratore di Reggio Emilia Marco Mescolini venga cacciato perché avrebbe rallentato delle indagini per non mettere in imbarazzo il Pd. Ma che c'entra il Pd con Aemilia, la maxi inchiesta sulle infilatrazioni della malavita calabrese in Emilia-Romagna? Bisogna fare un po' d'ordine e leggere le carte della monumentale immagine che si è spezzata in tre filoni processuali (Aemilia ordinario, Aemilia abbreviato e Aemilia/2). Nella sentenza di condanna del processo in abbreviato la Corte tira le orecchie al Pd e a quei «candidati sindaco di Reggio Emilia» che andarono «a fare campagna elettorale a Cutro, in provincia di Crotone, feudo della cosca Grande Aracri, perché «si resero protagonisti di comportamenti che hanno rafforzato l'associazione». Secondo un pentito la città era è «il bancomat delle ndrine crotonesi». Siamo nel 2009, e tra quei politici c'era anche l'allora sindaco Pd poi rieletto Graziano Delrio. Si vociferò di sue foto con i boss, ma erano chiacchiere de relato. Nelle 5mila pagine di sentenza la 'ndrangheta calabrese viene considerata «egemone sul piano criminale fino al punto da diventare rilevante se non dominante in numerosi segmenti dell'economia». C'erano politici eletti coi voti del boss? Sì, le ndrine contavano su «consiglieri comunali eletti col voto della comunità calabrese sia nella maggioranza sia all'opposizione che volevano indebolire e isolare il prefetto dell'epoca», impegnato a stanare le imprese della zona in mano alla mafia calabrese. Reggio Emilia come Reggio Calabria, insomma. Tanto che persino la rossa Brescello, la terra di Don Camillo e Peppone, venne sciolta per infiltrazioni mafiose. In tutto questo tempo il Pd, che in teoria nella regione rossa per eccellenza controlla anche i sassi cosa faceva? Guardava e non capiva? Già. Basterebbe pensare a cosa disse lo stesso Delrio quando l'allora procuratore capo di Bologna Roberto Alfonso ammise che Delrio era stato sentito come «persona informata sui fatti» nel corso dell'inchiesta AEmilia. I grillini chiesero che l'esponente dem riferisse alla commissione Antimafia, lui glissò ritenendo la richiesta «bizzarra». Già. Si infuriò persino l'allora procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: «Se vai a fare campagna elettorale in Calabria, vuol dire che sai che l'elezione non dipende dall'Emilia». Al posto di Delrio venne eletto Luca Vecchi, suo braccio destro. La moglie Maria Sergio («È nata a Cutro? Non lo sapevo», dira Delrio agli inquirenti), funzionaria dell'ufficio Edilizia con qualche pratica chiacchierata, commise la leggerezza di acquistare nel 2012 la casa da un personaggio poi arrestato nella maxinchiesta Aemilia sulla ndrangheta, Francesco Macrì, accusato di essere un prestanome del capoclan Nicolino Grande Aracri. Chissà che cosa ne pensa oggi Roberti, europarlamentare Pd.
"C'è il sistema di sinistra dietro il Sistema in toga". L'azzurro abbattuto per via giudiziaria con l'inchiesta Aemilia: "Ora si indaghi sui dem". Stefano Zurlo - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale. C'era un sistema Palamara, ma probabilmente c'era anche, fatte le debite proporzioni, un sistema Reggio Emilia. Giovanni Paolo Bernini, uomo forte di Forza Italia abbattuto per via giudiziaria, l'aveva già descritto nel sui libro «Storie di ordinaria ingiustizia», uscito nel 2019 con nomi, cognomi e molti punti di domanda orfani di risposta. Ora la cacciata del procuratore Marco Mescolini per incompatibilità ambientale alza il sipario su quella realtà. «Io non mi accontento di quel risultato pure storico perché è la prima volta che il Csm manda via un procuratore la cui nomina, secondo Luca Palamara e non solo il sottoscritto fu fortemente sostenuta dal Pd locale».
Adesso, qual è l'obiettivo?
«Adesso bisogna riaprire l'inchiesta Aemilia sulle connessioni fra la ndrangheta e la sinistra in Emilia. Ci sono fiumi di intercettazioni sul rapporto opaco fra le famiglie della criminalità e il Pd. Non dico che ci fossero le prove, ma quantomeno sospetti e indizi di manovre e connivenze sottobanco. Bene, quella valanga di carte è sempre rimasta in un cassetto».
Lei, invece?
«Io invece nel 2015 vengo inquisito dalla procura di Mescolini sulla base di un'unica intercettazione in cui un malavitoso parla con un suo familiare di un fantomatico bonifico da 50 mila euro. Soldi che gli avrei dato per accaparrarmi, attenzione, 200 preferenze. Io non so perché quel signore abbia detto una frase così palesemente fuori dal mondo, senza capo nè coda. Io nel 2007 a Parma, la mia città, valevo 1500-2000 preferenze, ero il presidente del consiglio comunale ed ero in grande ascesa: infatti subito dopo ero diventato assessore nella giunta di Pietro Vignali e consigliere del ministro Pietro Lunardi».
Che cosa accade nel 2015?
«Apprendo direttamente dal Tg di essere coinvolto nella maxi-inchiesta sulla ndrangheta. La mia casa viene perquisita. Sulla base di quella intercettazione strampalata, senza alcun riscontro, senza niente di niente, la procura formula nei miei confronti non uno ma due capi d'accisa: il concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso e il voto di scambio. Capisce: mi pare obiettivamente difficile sostenere che io sia stato vittima di un errore. Questa è stata una persecuzione che è tutta un'altra cosa».
Lei però non viene arrestato.
«Certo, ma la procura aveva chiesto per me le manette. Per fortuna il gip dice no all'ordine di custodia e lo stesso fa il tribunale del riesame, ma la procura insiste, insiste, insiste. Sempre sulla base di quelle parole. La storia del mio caso è ancora lunga e va avanti anche dopo l'assoluzione di primo grado, per sgonfiarsi solo in appello con la caduta del contesto mafioso, la derubricazione del voto di scambio e la prescrizione in sentenza».
Ma perché non si accontenta di esserne uscito?
«La mia carriera politica è stata stroncata, la mia vita è stata violata e io voglio sapere perché tutto questo è accaduto».
Lei che lettura dà nel suo libro?
«La chiave è il Sistema: la connessione fra la sinistra del Pd e la sinistra in toga. Ho presentato un esposto al Csm che però mi ha rimbalzato, ma non mi sono arreso. Sono andato a Perugia, sede dell'inchiesta su Luca Palamara, e qui sono stato ascoltato due volte. Io spero che si vada fino in fondo e che si smascheri quello che per me era il Sistema Reggio Emilia».
Guido Berardis: “sconcertato dal sistema e dalla presunzione di colpevolezza alla Piercamillo Davigo”. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Quarta Repubblica di lunedì 15 gennaio ha gettato un ulteriore sasso nello stagno limaccioso del “sistema”. Quello della governance della magistratura italiana descritta da Luca Palamara. Nell’omonimo libro intervista-confessione a firma di Alessandro Sallusti. Facile prevedere riflessi sul CSM dopo le rivelazioni dell’esponente parmigiano di FI Giovanni Paolo Bernini. Che Palamara ha confessato essere stato perseguitato dalla magistratura. Il direttore de Il Riformista, Piero Sansonetti, ospite della trasmissione di Nicola Porro, confortato dalle testimonianze del magistrato Carlo Nordio e di Alessandro Sallusti, ha ripetuto il suo appello. Il “sistema” è molto più grave della P2. E c’è l’assoluta e urgente necessità della costituzione di una Commissione Parlamentare d’inchiesta. Con gli stessi poteri coercitivi e d’indagine dell’Autorità giudiziaria. Compreso l’utilizzo della polizia giudiziaria. Che dovrà fare luce sui fatti denunciati oltre dieci anni fa anche da Francesco Cossiga (che definì l’ANM un’ “associazione eversiva di tipo mafioso”) e pubblicamente confessati oggi da Palamara. Ho voluto parlare del “sistema” dal punto di vista dello stato di diritto, che è uno dei pilastri dell’Unione Europea. E l’ho fatto con l’ex Presidente di Sezione e Giudice emerito del Tribunale dell’Unione Europea, Guido Berardis. Uno dei maggiori esperti italiani di diritto dell’Unione Europea. Già Direttore alla Direzione Generale del Mercato Interno presso la Commissione Europea, ma anche membro del gabinetto dell’allora commissario europeo alla Concorrenza Mario Monti. Berardis, oggi in pensione, nel suo percorso professionale conta anche un’esperienza quale ufficiale di complemento della Guardia di Finanza. Dopo quanto emerso dal libro di Alessandro Sallusti sulla confessione-intervista di Palamara, come si può rispondere alla domanda “Quis custodiet ipsos custodes?” Questa citazione, tratta dalle Satire di Giovenale, pur nata in un contesto ben diverso e anche giocoso, racchiude tutta la questione dell’ormai indispensabile riforma della magistratura, nel nostro paese come in altri. Se i giudici fossero Arcangeli, il problema non si porrebbe nemmeno, il Signore, nella sua onniscienza e onnipotenza, saprebbe bene cosa fare. Ma così non è. Come diceva un celebre giudice della Corte Suprema americana, «Non si è giudici perché si è infallibili. Si è infallibili, perché si è nominati giudici». Osservazione molto sottile, che conduce ad interrogarsi su uno dei miti delle democrazie moderne, quello della fede infinita nella magistratura, unico potere sacro e intoccabile. Al punto che, se anche Dio intervenisse, Gli verrebbe detto di farsi i fatti suoi. Quindi non si può più avere fede nella giustizia? Si deve certo avere fede nella Giustizia, concetto irrinunciabile in ogni società. Non se ne deve avere per forza in chi la amministra. Già in epoca romana, esisteva l’istituto della provocatio, che dava diritto a qualsiasi civis romanus di provocare ad populum il magistrato che volesse infliggergli una sanzione. Un tribunus interveniva per portare la questione davanti ad una assemblea legislativa o al collegio dei tribuni. È vero che il magistratus romano disponeva di una più ampia gamma di poteri, anche politici. Più tardi, l’introduzione dell’Habeas Corpus rispondeva a questo medesimo tipo di preoccupazione, per controbilanciare il potere anche politico di chi poteva decidere di imprigionare qualcun altro. Ulteriore passaggio, la codificazione illuministica della triade «Potere legislativo», «Potere esecutivo» e «Potere giudiziario» e della loro indipendenza reciproca, nella Francia pre-rivoluzione. Triade che, in Italia, sembra essere completamente saltata da almeno tre decenni. Purtroppo. Anche se tengo a precisare che ho l’intima convinzione che, nel nostro paese, la stragrande maggioranza dei magistrati facciano il loro lavoro secondo scienza e coscienza, spesso in condizioni deprecabili e non raramente a rischio della vita. Non possiamo però negare l’esistenza di derive che sembrano incontrollabili. Il concetto di indipendenza e di autonomia è progressivamente scivolato verso l’idea della magistratura come entità assiomaticamente superiore, sostituibile a qualunque altro potere. Una sorta di nuova religione, di casta non eletta e autoreferenziale, totalmente immune, insindacabile e sovrana. Ora, anche ad un osservatore distratto, l’esperienza italiana degli ultimi decenni mostra chiaramente tutte le derive di una magistratura vittima di un vero e proprio delirio di onnipotenza. Un delirio di onnipotenza che possiamo quantificare in 60 milioni di presunti colpevoli? Le statistiche parlano di più di 27.000 errori giudiziari dal 1990 in poi, senza che nessun magistrato sia stato chiamato a risponderne. Sono sotto gli occhi di tutti le numerose e continue entrate a gamba tesa della magistratura nella vita politica italiana. Si badi bene, che la magistratura tenga d’occhio comportamenti dei politici è, di per sé, cosa buona e giusta. Ma sono davvero troppi i casi in cui l’accusato, per di più dopo lunghi anni di processi, è stato alla fine assolto per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato. Che si sappia, nemmeno un richiamo all’ordine per i PM responsabili, malgrado gli ingenti e spesso irreparabili danni provocati agli ingiustamente accusati. Lei è stato un giudice del Tribunale dell’Ue, noto per il suo grande equilibrio. Cosa pensa della deriva giustizialista del “sistema” confessato da Palamara? Che rimango scandalizzato quando un giudice come Pier Camillo Davigo si permette di dire in televisione che «non esistono innocenti, ma soltanto colpevoli su cui non sono state ancora raccolte prove. Tutti quelli che in questo paese dicono di essere garantisti, pensano soltanto a garantire i diritti dei delinquenti», e nessuno, dico nessuno, ha avuto nulla da ridire, pur essendosi toccato il fondo, e anche oltre… Il problema essenziale della giustizia in Italia è la totale assenza di veri contrappesi al potere dei magistrati.