Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

LA GIUSTIZIA

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le condanne.

Cucchi e gli altri.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Massimo Bossetti è innocente?

Il DNA.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Colpevoli per sempre.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Morire di TSO.

Parliamo di Bibbiano.

Nelle more di un divorzio.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

L’alienazione parentale.

La Pedofilia e la Pedopornografia.

Gli Stalker.

Scomparsi.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?

La Giustizia non è di questo Mondo.

Magistratura. L’anomalia italiana…

Il Diritto di Difesa vale meno…

Figli di Trojan: Le Intercettazioni.

A proposito della Prescrizione.

La giustizia lumaca e la Legge Pinto.

A Proposito di Assoluzioni.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Verità dei Ris

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Le Mie Prigioni.

I responsabili dei suicidi in carcere.

I non imputabili. I Vizi della Volontà.

Gli scherzi della memoria.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

La responsabilità professionale delle toghe.

Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Adolfo Meciani.

Alessandro Limaccio.

Daniela Poggiali.

Domenico Morrone.

Francesca Picilli.

Francesco Casillo.

Franco Bernardini.

Gennaro Oliviero.

Gianni Alemanno.

Giosi Ferrandino.

Giovanni Bazoli.

Giovanni Novi.

Giovanni Paolo Bernini.

Giuseppe Gulotta. 

Jonella Ligresti.

Leandra D'Angelo.

Luciano Cantone.

Marcello Dell’Utri.

Mario Marino.

Mario Tirozzi.

Massimo Luca Guarischi.

Michael Giffoni.

Nunzia De Girolamo.

Pierdomenico Garrone.

Pietro Paolo Melis.

Raffaele Chiummariello.

Raffaele Fedocci.

Rocco Femia.

Sergio De Gregorio.

Simone Uggetti.

Ugo de Flaviis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’uso politico della giustizia.

Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.

Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".

I Giustizialisti.

I Garantisti.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Avvocati specializzati.

Le Toghe Candidate.

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Le Intimidazioni.

Palamaragate.

Figli di Trojan.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Magistratopoli.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giornalistopoli.

Le Toghe Comuniste.

Le Toghe Criminali.

I Colletti Bianchi.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della Moby Prince.

Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.

L’affaire Modigliani.

L’omicidio di Milena Sutter.

La Vicenda di Sabrina Beccalli.

Il Mistero della morte di Christa Wanninger.

Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.

Il Mistero di Marta Russo.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero delle Bestie di Satana.

Il Mistero di Charles Sobhraj.

Il Mistero di Manson.

Il Caso Morrone.

Il Caso Pipitone.

Il Caso di Marco Valerio Corini.

Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.

Il Caso Claps.

Il Caso Mattei.

Il Mistero di Roberto Calvi.

Il Mistero di Paola Landini.

Il Mistero di Pietro Beggi.

Il Mistero della Uno Bianca.

Il Mistero di Novi Ligure.

Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.

Il mistero del delitto del Morrone.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Mistero del Mostro di Milano.

Il Mistero del Mostro di Udine.

Il Mistero del Mostro di Bolzano.

Il Mistero della morte di Luigi Tenco.

Il Giallo di Attilio Manca.

Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.

Il Mistero dell’omicidio Varani.

Il Mistero di Mario Biondo.

Il Mistero di Viviana Parisi.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il Mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Cranio Randagio.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.

Il Mistero di Saman Abbas.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.

Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.

Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.

Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.

Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.

Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.

Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.

Il Mistero di Roberto Straccia.

Il Mistero di Carlotta Benusiglio.

Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.

Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.

Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.

Il Giallo di Sebastiano Bianchi.

Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.

Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il Mistero della "Signora in rosso".

Il Mistero di Polina Kochelenko.

Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.

Il Mistero di Giulia Maccaroni.

Il Mistero di Tatiana Tulissi.

Il Mistero delle sorelle Viceconte.

Il Mistero di Marco Perini.

Il Mistero di Emanuele Scieri.

Il Mistero di Massimo Manni.

Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.

Il Mistero di Bruna Bovino.

Il Mistero di Serena Fasan.

Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.

Il Mistero della morte di Vittorio Carità.

Il Mistero della morte di Massimo Melluso.

Il Mistero di Francesco Pantaleo.

Il Mistero di Laura Ziliani.

Il Mistero di Roberta Martucci.

Il Mistero di Mauro Romano.

Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo. 

Il Mistero di Wilma Montesi.

Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.

Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.

Il Mistero di Maurizio Gucci.

Il Mistero di Maria Chindamo.

Il Mistero di Dora Lagreca.

Il Mistero di Martina Rossi.

Il Mistero di Emanuela Orlandi.

Il Mistero di Gloria Rosboch.

Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".

Il Mistero del delitto di Garlasco.

Il Mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.

Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.

Il giallo di Stefano Ansaldi.

Il Giallo di Mithun.

Il Mistero di Stefano Barilli.

Il Mistero di Biagio Carabellò.

Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.

Il Caso Imane.

Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Simonetta Cesaroni.

Il Mistero di Serena Mollicone.

Il Mistero di Teodosio Losito.

Il Caso di Antonio Natale.

Il Mistero di Barbara Corvi.

Il Mistero di Roberta Ragusa.

Il Mistero di Roberta Siragusa.

Il Caso di Niccolò Ciatti.

Il Caso del massacro del Circeo.

Il Caso Antonio De Marco.

Il Giallo Mattarelli.

Il Giallo di Bolzano.

Il Mistero di Luca Ventre.

Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.

Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.

Il Mistero di Federico Tedeschi.

Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.

Il Mistero di Gianmarco Pozzi.

Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero della strage di Bologna.

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

SECONDA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Verità dei Ris

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 2 febbraio 2021. Ci sono due frasi di Arthur Conan Doyle, lo scrittore e drammaturgo britannico creatore di Sherlock Holmes, che riecheggiano nella mia memoria quando penso a quanto siano cambiate le indagini investigative negli ultimi anni: «Nella matassa incolore della vita scorre il filo rosso del delitto, e il nostro compito sta nel dipanarlo, nell'isolarlo, nell'esporne ogni pollice». Ci fa comprendere quanto sia importante l'attenzione al particolare, al dettaglio. Se poi viene seguita da quest'altra frase, «… il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare», rimarca come spesso la soluzione dei casi sia sotto i nostri occhi, o meglio, nel luogo del crimine. Di questo parliamo con Luciano Garofano, biologo e generale in congedo dell'arma dei Carabinieri, colui che ha comandato il famoso Ris di Parma - il Reparto Investigazioni Scientifiche dell'Arma - facendolo diventare un riferimento nazionale per le indagini scientifiche.

Da quando lei iniziò molte cose nelle indagini sono cambiate e si sono evolute a livello scientifico?

«Credo che siamo in un periodo in cui la scienza ha consentito una vera e propria rivoluzione dal punto di vista delle possibilità di analisi. Sono nati test che ci permettono di vedere tracce invisibili ad occhio nudo. Se ci pensate, fino a poco tempo fa non avevamo né la possibilità di analizzare il Dna, né avevamo a disposizione microscopi analitici che permettono di vedere e esaminare l'invisibile. Questo lo dico perché una volta si analizzava solo ciò che l'occhio vedeva».

Uno dei primi casi che lei ha affrontato è stato quello della strage di Capaci. Vuole raccontare questa sua esperienza?

«È stato il mio primo grande caso, anche se ricordo con emozione pure la strage di Bologna. Insieme al dottor Aldo Spinella, all'epoca responsabile del Laboratorio di biologia della polizia di Stato, e grazie all'amicizia e alle relazioni che lo stesso Falcone aveva con l'Fbi, siamo riusciti a dare un contributo decisivo al caso. Le indagini sui famosi mozziconi di sigaretta avevano contribuito ad individuare i soggetti responsabili di quella efferata strage. In seguito uno di loro divenne collaboratore di giustizia, e credo che fu anche grazie ai miei modi di interloquire con lui che poi si pentì».

Pochi ricordano che l'autista di Falcone si salvò perché non guidava. Pensa che se fossero stati seduti dietro, il giudice e la moglie si sarebbero salvati?

«Non posso dirlo, e credo che questo faccia parte di casualità e destino. La logica direbbe che visto che Costanza, l'autista che si era seduto dietro lasciando Falcone e la Morvillo davanti, si salvò, lo stesso sarebbe potuto accadere anche al contrario. Però, mi creda, con un esplosivo così elevato, cento chili, è difficile, anzi impossibile, fare ipotesi. La mafia aveva organizzato per ammazzare tutti».

Quest'anno è scomparso Donato Bilancia, il killer delle prostitute. Come si riuscì a prendere?

«È stato il trionfo della collaborazione tra indagini tradizionali e nuova scienza fatta di Dna e balistica. La scienza analizzava, ma parallelamente sul terreno, localmente, si cercava di stringere attorno a qualcuno che avesse caratteristiche compatibili. Se da una parte noi avevamo un residuo di Dna, questo sarebbe rimasto privo di valore senza la modalità classica di investigazione. Se ci penso abbiamo arrestato, in quaranta giorni, un killer che aveva commesso in sei mesi diciassette omicidi. Di questo devo ringraziare l'intuito investigativo dell'allora colonnello Filippo Ricciarelli e dei suoi uomini. Devo dire che siamo stati premiati perché tutta la parte tecnica si è fondata, dal punto di vista logistico, su un unico laboratorio. I reperti, infatti, approdavano a Parma, e questo ha consentito di dire che era la stessa mano che si macchiava dei tanti delitti».

Che personalità aveva Donato Bilancia?

«Era un istrionico che uccideva perché si sentiva vessato dalle persone che frequentavano assieme a lui le bische clandestine. Uccideva per vendetta e frustrazione. Bilancia è stato per me il serial killer più atipico del mondo; era mosso da una vera e propria furia omicida e per lui uccidere divenne una sfida».

A cosa portarono le indagini tradizionali?

«Alle somiglianze tra le vittime. Queste frequentavano le bische clandestine. Inoltre alcune testimonianze come quella decisiva del trans che si finse morto».

Un delitto che fece diventare mediatica la cronaca nera fu quello di Cogne. Perché, secondo lei, molti ancora credono nella innocenza della Franzoni?

«Come in tanti casi accade, a chi non legge le risultanze processuali, di rimanere vittima di pregiudizi o suggestioni. Oggi, spesso, l'opinione pubblica segue l'emotività e non è obiettiva sui dati. Le faccio un esempio...».

Mi dica.

«Noi abbiamo seguito l'ipotesi di una terza persona quando abbiamo rilevato tracce diverse di sangue nel garage, ma poi si sono verificate essere di un animale. Quella di Cogne fu un'indagine incredibile, avevamo a Parma costruito una stanza apposta che ci facesse fare le prove di come si erano distribuite le macchie di sangue sul pigiama, sul piumone e sul muro».

E siete così arrivato alla mamma?

«Non noi, il giudice. L'esperto non dà il nome dell'assassino, ma ne fa emergere le caratteristiche utili affinché il giudice possa decidere».

Però molti altri casi nella storia del crimine sono rimasti irrisolti: perché?

«Spesso quello che non è recuperabile è l'attività sulla scena del crimine. Ciò che tu perdi e contamini alla fine non recuperi e tendenzialmente rende difficile ogni ricostruzione. Spesso c'è poca organizzazione e ritengo che sarebbe urgente e necessario una adeguata formazione».

Mi faccia un esempio.

«Spesso c'è arroganza tra chi arriva e decreta, ad esempio, un suicidio. L'esempio di Tiziana Cantone, a cui nessuno ha mai fatto una autopsia, è solo l'ultimo di una lunga lista».

Altri esempi?

«L'omicidio di Chiara Poggi. I primi interventi - i Ris vennero dopo - sono stati fatti in modo superficiale. Inoltre anche le testimonianze dovrebbero tutte essere video registrate. Un giudice, sempre, si trova a decidere senza vedere le prime sit (sommarie informazione testimoniali) che spesso potrebbero divenire decisive. In questo modo la testimonianza perde di valore».

Cos'altro manca per rendere più giusta l'investigazione?

«Avvalersi di tecniche psicologiche da attuare durante l'interrogatorio. Sarebbe importante arricchirsi di queste competenze».

Un altro delitto che mostra crepe investigative è quello di Erba.

«Noi, i Ris, non abbiamo trovato niente per quello che sono stati i nostri accertamenti (né nel camper né nell'appartamento) che potesse avere un nesso causale dell’omicidio. Altri hanno trovato una traccia che è servita per l'incriminazione di Rosa e Olindo».

Sul caso dell'omicidio di via Poma a Simonetta Cesaroni?

«Ho grande rispetto per una sentenza passata in giudicato e quindi Busco deve essere considerato innocente. Da parte mia, non sono d'accordo sulle analisi delle tracce su reggiseno e corpetto che, secondo me, dimostrano una responsabilità chiara».

E cosa dire di tanti "suicidi" imperfetti, da David Rossi a Mario Biondo?

«I suicidi sono molto insidiosi. Ci si appiattisce sull'ipotesi del suicidio perché apparentemente accontenta tutti: così è stato per molti casi e, mi creda, meriterebbero più attenzione e protocolli condivisi».

Tra tutti i casi che lei ha seguito, ce n'è uno che le è rimasto impresso? Perché?

«Anche se cerchi di distaccarti dagli aspetti emotivi, spesso non ci riesci. Così l'omicidio di Novi Ligure compiuto da Erika e Omar mi sconvolse; forse anche perché avevo io figli della stessa età dei protagonisti. Mai compreso e mai dato spiegazione a come una sorella sia riuscita a compiere un delitto così efferato nei confronti del fratellino dodicenne».

Insomma, c'è più scienza ma meno certezza di prendere l'assassino. Come mai? Ci manca il saggio "commissario Nardone"?

«Credo che abbiamo tutti gli strumenti per arrivare alle soluzioni dei casi senza pregiudizi e credendo al valore di ogni ruolo. Forse a volte manca l'umiltà».

·        Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.

Ecco come nascono. Cosa sono le regole di Nelson Mandela, adottate nel 2015 dall’Onu. Daniela De Robert su Il Riformista il  23 Marzo 2021. Sono dedicate proprio a lui, Nelson Mandela, le Regole delle Nazioni Unite che stabiliscono gli standard minimi delle condizioni di detenzione. Lo ha deciso l’Assemblea generale Onu nel dicembre del 2015 quando le ha adottate dopo anni di lavoro. Il primo testo, infatti, risale al 1955, quando ancora le ferite della Seconda guerra mondiale erano aperte e il ricordo delle violazioni dei diritti delle persone private della libertà, dei trattamenti crudeli, inumani e degradanti era vivo e doloroso. Le 95 regole adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento degli autori di reati definivano le norme minime universalmente riconosciute per la gestione delle strutture detentive e per il trattamento delle persone detenute. Stabilivano cioè gli standard minimi, al di sotto dei quali nessun Paese doveva mai scendere. I principi fondamentali erano due: il rifiuto della discriminazione sulla base dell’origine etnica, del colore, del sesso, del linguaggio, della religione, della politica o di altre opinioni, della nazionalità o contesto sociale, della proprietà, della nascita o di altri status; e il rispetto del credo religioso e dei precetti morali della comunità a cui la persona detenuta appartiene. Le regole saranno approvate dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite con una prima risoluzione del 1957 e saranno poi rivedute con una successiva risoluzione nel 1977. Ma bisognerà aspettare il 2011 perché l’Assemblea generale istituisca un gruppo di esperti intergovernativi con il compito di rivedere e aggiornare il testo, e altri quattro anni perché si raggiunga un documento condiviso. Si arriva così al 2015 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta gli Standard minimi delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti, scegliendo di chiamarli Nelson Mandela Rules, per onorare la memoria del Presidente sudafricano che trascorse 27 anni della sua vita in un carcere. Cinque principi di base, a cominciare dal diritto di ognuno a essere trattato con il rispetto dovuto alla propria intrinseca dignità e valore come essere umano, per un totale di 122 regole suddivise in diverse aree tematiche. Come le precedenti, queste regole non vogliono descrivere un modello di istituzione penale, ma si limitano a definire ciò che è generalmente accettato come buoni principi e pratiche nel trattamento delle persone detenute e nella gestione delle carceri. Ma se la sorella maggiore del 1955, si limitava a definire la soglia minima di accettabilità al di sotto della quale un determinato aspetto rischiava di configurarsi come trattamento inumano o degradante, con una sorta di obiettivo al ribasso, le Nelson Mandela Rules puntano più in alto, invitando gli Stati a considerare gli Standard minimi come un punto di partenza, come uno stimolo verso un impegno costante a innalzare i livelli di tutela delle persone private della libertà. Essi indicano cioè obiettivi accessibili, seppur nella differenza dei contesti culturali e politici dei vari Paesi, e nello stesso tempo in grado di far evolvere una situazione verso un suo progressivo miglioramento, in una prospettiva, per così dire, generativa. Le Nelson Mandela Rules delle Nazioni Unite, insieme alle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2006 e aggiornate recentemente nel luglio 2020, e agli Standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definiti sulla base delle visite che il Comitato effettua ogni anno, costituiscono un insieme di soft law, cioè di norme non giuridicamente vincolanti. Qualcuno per questo motivo considera quell’aggettivo soft sinonimo di debolezza se non di inefficacia. Ma così non è. Sempre più le soft law condizionano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Sempre più sono recepite come riferimenti forti, seppur non obbliganti. Sempre più la loro forza giuridica attenuata presenta una legittimità internazionale che difficilmente può essere negata. La loro efficacia si basa su una logica diversa: non sul dover fare, ma sulla condivisione e sul cambiamento della cultura, che è alla base delle scelte e delle azioni. Il recente richiamo alle Nelson Mandela Rules fatto dalla Ministra della giustizia, Marta Cartabia, al quattordicesimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine è un segnale importante in questa direzione. Queste regole, non vincolanti sotto il profilo giuridico, non possono e non devono essere ignorate, anzi devono fare da guida a cambiamenti normativi e culturali tesi al miglioramento delle condizioni di vita delle persone private della libertà e dell’effettività dei loro diritti, memori del contesto in cui tali regole sono nate: all’indomani, cioè, di un periodo in cui l’integrità psicofisica e la dignità delle persone non era considerata un bene inviolabile, in cui parlare di diritti delle persone detenute appariva un nonsenso, in cui la discriminazione aveva seminato morte e violenza. Il richiamo della Ministra è, dunque, un invito anche al nostro stesso Paese non solo a rispettare tutti gli standard minimi di detenzione, ma ad andare in quella direzione che le Nelson Mandela Rules indicano: il superamento, cioè, di una logica minimale. Una direzione perseguita anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, attraverso le Raccomandazioni contenute nei Rapporti sulle sue visite. Le Nelson Mandela Rules, dunque, segnano una svolta verso un cambiamento possibile, come possibile e reale è stato il superamento non violento del regime dell’Apartheid in Sudafrica. Nei prossimi giorni sul Riformista torneremo a parlare di Nelson Mandela, dell’iniziativa di riconciliazione e pacificazione che portò avanti in Sudafrica dopo la fine del regime dell’apartheid. Pubblicheremo anche alcune delle “Mandela Rules”, come quelle sull’isolamento: ignorate per chi in Italia è detenuto in regime di 41bis.

La polvere sotto il tappeto. Ergastolo ostativo il club dei forcaioli ignora la Consulta e irride il diritto. Otello Lupacchini su Il Riformista l'8 Dicembre 2021. La pazienza del cupo ottimista, il quale sa da sempre di vivere in tempi calamitosi, diversamente dal pessimista che se ne accorge, invece, ogni mattina, viene messa a dura prova da quanti, con supponenza intollerabile, non perdono occasione di ribadire che il «“pacchetto antimafia” post stragi (che ha funzionato e funziona) rischia di essere fortemente indebolito per alcune aperture dell’ergastolo ostativo ai mafiosi non pentiti, con evidenti ripercussioni sullo stesso pentimento, che – in quanto non più indispensabile per ottenere i benefici – risulta ridimensionato sia come rilevanza in sé sia come potenzialità favorevole al collaborante». Contestualizziamo. Correva l’anno 1992, all’indomani della strage di Capaci, quando nacque il regime cosiddetto dell’«ergastolo ostativo», per escludere dai benefici della liberazione anticipata, dei permessi premio, del lavoro all’esterno, della semilibertà, della liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena, i condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, che rifiutano di collaborare con la Giustizia: se per l’ergastolo comune resta possibile un progressivo miglioramento del trattamento penitenziario, che va di pari passo con la crescita dell’opera di rieducazione del reo, solo la volontà di collaborare, per contro, comproverebbe il distacco del condannato dai legami con l’associazione delinquentesca. La illegittimità costituzionale della normativa in questione è stata reiteratamente percepita come pure ne è stata denunciata l’eterodossia rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma il percorso per rimuovere il discutibile automatismo istituito tra la collaborazione processuale del condannato e la concessione dei benefici, lungo e variamente accidentato, è ancora lontano dall’essere concluso. In particolare. La questione di costituzionalità, portata all’attenzione della Corte Costituzionale nell’anno 2003, venne respinta, sostenendo i Giudici che gli ergastolani che rifiutavano di collaborare con la giustizia, esercitavano una propria «scelta» e non erano dunque esclusi definitivamente dai benefici. Nessun automatismo: bastava in fondo che il condannato decidesse di cambiare «idea» sulla volontà di collaborare con la giustizia. Analoga affermazione si ritrova, dopo dieci anni, nella sentenza n. 135 del 2013. Quando, tuttavia, con sentenza n. 149 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 58 quater dell’Ordinamento penitenziario che escludeva dai benefici gli ergastolani condannati per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione da cui fosse derivata la morte della vittima, si aprì, per quanto concerne l’ergastolo ostativo, una prima crepa nel consolidato orientamento della Corte di legittimità delle leggi al riguardo, essendo state riconosciute, altresì, tanto l’irragionevole disparità di trattamento con gli ergastolani condannati per altri reati, quanto l’illegittimità del meccanismo automatico di preclusione previsto dalla legge, senza alcuna valutazione del giudice sul percorso individuale del detenuto. È stata successivamente la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’affaire Marcello Viola vs. Italia, nel 2019, a ritenere che la legislazione nazionale in tema di ergastolo ostativo viola l’art. 3 della Cedu, per un verso, affermando che la pena deve sempre mirare alla rieducazione del reo e che vietare a un condannato di reinserirsi nella società lede il principio di dignità umana e, per l’altro, censurando proprio la presunzione di pericolosità del condannato che non collabora con la Giustizia, spiegando che la mancata collaborazione ben può dipendere dal timore di ritorsioni sulla propria vita e sui propri cari e non sempre vale a dimostrare la persistenza dei legami criminali. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2019, ha quindi dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non consentiva ai condannati all’ergastolo ostativo di avvalersi dei permessi premio, pur in presenza di elementi per escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo del loro ripristino, così minando irreversibilmente la presunzione assoluta di pericolosità del reo che rifiuta di collaborare con la giustizia e aprendo, dunque, alla possibilità che il giudice compia una valutazione caso per caso. Investita, finalmente della questione se l’esclusione del beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la Giustizia, sia contraria all’art. 27 della Costituzione e all’art. 3 della Cedu, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 97 del 2021, rispettosa sul piano del dialogo istituzionale ed equilibrata nel salvaguardare le esigenze di tutela della collettività, evitando di indebolire il sistema di contrasto della mafia, ha scelto di rinviare la decisione, per dare tempo al Parlamento di porre mano a una riforma, che sappia tener conto della particolare natura dei reati mafiosi, e della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia. È qui che s’inserisce il «testo base» per la riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di ergastolo ostativo licenziato dalla commissione Giustizia alla Camera lo scorso 17 novembre, maldestro tentativo di neutralizzare le spinte riformatrici della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo: i detenuti condannati all’ergastolo potranno accedere ai benefici penitenziari (come l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio o le misure alternative alla detenzione), anche senza collaborare con la giustizia, «purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento»; al contempo, tuttavia, servirà l’accertamento di «congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso», compreso il «pericolo di ripristino» dei contatti. Sic stantibus rebus, fingendo di non notare che, col «testo base» in discussione si prospetta, a tacer d’altro, l’innalzamento della soglia di certezza della prova, anche negativa, diabolica e inarrivabile per il recluso, in chiaro conflitto con il senso delle misure premiali ancorate a un giudizio prognostico impossibile da cristallizzare in verità assoluta, gli archimaestri del coté degli addetti alla repressione, con la proposizione da cui si son prese le mosse, enunciano un dogma che urta contro la logica e contro i fatti, dunque da dover essere imposto come motivo di fede e via della salvezza. Un dogma che tradisce un luogo dell’anima, a chiamare così situazioni radicate nel cervello e nelle midolla, sopravvissuto ai cambiamenti, dalle lingue all’ambiente geologico, avvenuti negli ultimi secoli sul continente europeo: il «metodo inquisitorio». Al fondo di esso, infatti, risuona l’eco del pensiero dell’abate di Vayrac, secondo cui l’imputato è libero di «confessare la propria colpa, chiedere perdono e sottomettersi a certe espiazioni religiose (…) digiuna, prega, si mortifica, anziché andare al supplizio recita dei salmi, confessa i peccati, sente la messa, lo scusano, lo assolvono, lo restituiscono alla famiglia e alla società. Se il delitto è enorme, se il colpevole si ostina, se bisogna versare del sangue, il prete si ritira e non riappare che per consolare la vittima sul patibolo» (J. De Maistre, Oeuvres complètes, Lyon Paris, 1931, 3, p. 325 s.). Insomma, è duro a morire l’assioma gnoseologico, colpevole o innocente, l’imputato sa quanto basta; bisogna che lo dica e non essendo più esperibili tecniche brutali ad eruendam veritatem, opportunamente stimolato con compensi allettanti, fino all’impunità, commisurati agli apporti, tanto più svela tanto meglio esce.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

“Riformate l’ergastolo ostativo”, Strasburgo striglia l’Italia. Angela Stella su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Il tema dell’ergastolo torna al centro del dibattito politico: ieri, nell0 stesso giorno in cui il Consiglio d’Europa ha chiesto all’Italia di adottare quanto prima una legge sul carcere a vita, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, ascoltata dalla Commissione Antimafia, si è appellata al Parlamento affinché «non perda l’occasione per riscrivere la norma» sul fine pena mai. Ha indicato anche una possibile strada come quella di «prevedere, sempre a titolo esemplificativo, specifiche prescrizioni che governino il periodo di libertà vigilata, anche regolandone diversamente la durata». Dunque due moniti importanti – uno dall’Europa, l’altro dalla Guardasigilli – arrivano alla politica chiamata a trovare la quadra entro maggio 2022, come richiesto dalla Corte Costituzionale in una recentissima decisione che, pur dichiarando l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, ha dato un anno di tempo al Parlamento per originare una legge che bilanci il diritto alla speranza dei detenuti e le esigenze di sicurezza e lotta alla criminalità organizzata. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa questa settimana ha esaminato i passi compiuti dall’Italia dopo la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sul caso di Marcello Viola, pronunciata nel 2019. L’uomo, sempre proclamatosi innocente, fu condannato all’ergastolo ostativo in via definitiva per associazione di stampo mafioso, oltre che per altri delitti, quali l’omicidio. In carcere dagli anni ‘90, aveva chiesto ai magistrati di sorveglianza di poter accedere ai benefici – permessi premio e liberazione condizionale – , dopo 26 anni di reclusione. Richieste più volte respinte a causa della mancata collaborazione con le autorità. Da lì il ricorso alla Cedu che con una sentenza del 2019 condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione (nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti) a causa dell’impossibilità per un detenuto, condannato per uno dei reati previsti dall’articolo 4 bis comma 1 della legge sull’amministrazione penitenziaria, di poter accedere ai benefici penitenziari in assenza di utile collaborazione con la giustizia. Nonostante siano passati tre anni, il Comitato dei Ministri da un lato «ha preso atto con preoccupazione che il ricorrente non può accedere alla liberazione condizionale» e dall’altro ha rilevato che è necessaria «l’adozione di misure legislative per garantire la possibilità per i tribunali nazionali» di valutare il percorso rieducativo del detenuto al fine di ottenere la liberazione condizionale, pur in assenza di collaborazione. Di conseguenza «preso atto con soddisfazione» della sentenza 97/2021 della Consulta, il Comitato dei Ministri «ha sottolineato l’urgenza di porre fine alla violazione subita dal ricorrente e di garantire la non reiterazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione, disposizione che non consente alcuna eccezione o deroga; ha pertanto invitato le autorità ad adottare senza ulteriori ritardi le misure legislative necessarie per rendere l’attuale quadro legislativo conforme ai requisiti della Convenzione». L’avvocato Antonella Mascia, legale di Viola, accoglie con «soddisfazione» questo monito europeo. Tuttavia ci racconta che, nonostante la sentenza Cedu e quella della Consulta sui permessi premio, «le nostre richieste per ottenere almeno un permesso premio per concedere qualche ora di libertà a Viola con i figli fuori dal carcere sono state respinte con diverse motivazioni, tra cui un parere negativo della DNA e il fatto di non aver richiesto la revisione del processo, visto che Viola si ritiene innocente. Eppure noi abbiamo portato all’attenzione dei giudici di sorveglianza diverse relazioni che dimostrano che l’interessato ha una condotta esemplare, lavora in carcere, aiuta gli altri detenuti, si è separato dalla moglie con la quale non ha più contatti dal 2013 perché ancora legata ad un contesto criminale». La conclusione per l’avvocato Mascia è che «il legislatore dovrebbe comprendere che occorre guardare al percorso rieducativo del detenuto e non considerarlo pregiudizialmente parte di un tutto, ossia di una categoria di uomini mafiosi irrecuperabili. Dopo tanti anni di detenzione gli uomini possono cambiare e non possono quindi rimanere incatenati per sempre alla loro condanna. E’ giunto ora il momento che il giudice esamini in concreto il percorso riabilitativo intrapreso dal detenuto, nel pieno rispetto della nostra Costituzione e della Convenzione». Angela Stella

Il monito del presidente emerito della Corte costituzionale. “Il 4 bis è incostituzionale, la Consulta doveva intervenire”, l’accusa di Onida. Angela Stella su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Nel collegio difensivo di Marcello Viola alla Cedu c’era anche l’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida che ci spiega: «Quando siamo intervenuti dinanzi ai giudici di Strasburgo abbiamo fatto riferimento all’impossibilità per il signor Viola di poter accedere alla liberazione condizionale, perché all’epoca era applicabile l’art. 4-bis che escludeva i benefici; e anche la liberazione condizionale, in mancanza della collaborazione con la giustizia, era preclusa. Oggi (ieri, ndr) il Consiglio di Europa non ha detto che occorre concedere tale beneficio al detenuto, ma semplicemente che l’Italia, adeguandosi anche alla recente ordinanza della Corte Costituzionale (n. 97 del 2021), deve dotarsi di una legge che escluda l’attuale automatismo tra assenza di collaborazione e divieto di concessione della liberazione condizionale». Tuttavia, nonostante la sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 ha escluso che la collaborazione con la giustizia sia condicio sine qua non per la concessione dei permessi premi ai condannati ostativi, Marcello Viola non ha ottenuto neanche un permesso premio: «Questo – spiega Onida – è un altro discorso. L’automatismo tra mancata collaborazione e divieto di concessione dei permessi premio è già caduto e non occorre attendere una legge per decidere su di essi. Se non gli è stato concesso, evidentemente ci sono valutazioni della magistratura di sorveglianza contrarie alla concessione: ma si tratta di vedere se le motivazioni sono plausibili (per esempio, il fatto che un parente o una sua ex moglie, in ipotesi, abbia tuttora rapporti con la mafia, non potrebbe essere motivo sufficiente di per sé per ritenere che anche per Viola questi rapporti sussistano tuttora)». Chiediamo al Presidente Onida come dovrebbe comportarsi la magistratura di sorveglianza in attesa che il Parlamento faccia una legge entro maggio 2022 sull’ergastolo ostativo: «Attualmente il Tribunale di Sorveglianza che viene investito di una richiesta di liberazione condizionale da parte di un detenuto “ostativo” non potrebbe appoggiarsi, per respingere la richiesta, sulla circostanza che la norma del 4-bis è ancora in vigore nel testo attuale. Anzi, dovrebbe sospendere la decisione e sollevare un nuovo dubbio di legittimità costituzionale (stante la sua evidente non manifesta infondatezza), in attesa dell’intervento del legislatore o della decisione futura della Corte costituzionale sulla questione ora rinviata al 10 maggio 2022». Anche se l’incostituzionalità è accertata, dovendo attendere una legge del Parlamento, i detenuti che in teoria potrebbero accedere alla liberazione condizionale rimangono sospesi in un limbo, in una situazione di privazione della libertà personale: «Senza dubbio rappresenta una anomalia il fatto che una norma sia stata ritenuta incostituzionale ma resti ancora in vigore. Per questo il giudice di sorveglianza non potrebbe respingere le richieste in nome dell’articolo 4-bis motivando con l’assenza di collaborazione». Però, nonostante la fermezza delle sue argomentazioni, facciamo presente al presidente Onida che la scarcerazione di Giovanni Brusca ha riaperto la discussione sull’ergastolo ostativo e molti parenti di vittime di mafia e diverse forze politiche chiedono la riforma della legge nella direzione di chiusura ai benefici. La cornice però l’ha data già la Consulta e non si può tornare indietro: «Certamente, lei ha ragione. Manca ancora una legge che, accogliendo l’impostazione della Corte Costituzionale, regoli l’ipotesi di liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi in un modo conforme alla Costituzione. Il minimo, ripeto, è che i giudici non possono applicare semplicemente il 4-bis così com’è, per cui se non c’è collaborazione niente liberazione condizionale. Nel frattempo però questi ergastolani potrebbero chiedere e ottenere altri benefici come i permessi premio, già sganciati dalla condizione della collaborazione ad opera della sentenza n. 253 del 2019». In ultimo chiediamo al presidente Onida se la decisione della Consulta era la migliore possibile o si poteva evitare il rinvio al Parlamento: «Probabilmente, dinanzi a una palese incostituzionalità, la cosa migliore sarebbe stata quella di adottare una decisione dichiarativa di questa incostituzionalità. Eventualmente con quei tipi di sentenze – manipolative, additive, additive di principio – che tante volte la Corte ha pronunciato intervenendo direttamente sulla legge. In ogni modo la norma denunciata non può più essere applicata». Angela Stella

41 bis, no della Cassazione al ricorso di Graviano: dissociazione priva di effetto e sarà sempre così. La Suprema Corte con questa sentenza smentisce la fake news sul rischio di riconoscere benefici a chi si dissocia senza collaborare: infatti non è questo l’unico “parametro” di valutazione. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 10 novembre 2021. La dissociazione dei cosiddetti “irriducibili” detenuti mafiosi al 41 bis viene interpretata da taluni detrattori della sentenza della Corte Europea e della Consulta sull’ergastolo ostativo, come una strategia efficace per ottenere un “tana libera tutti”. Si incute quindi il timore che con la fine della preclusione assoluta dei benefici per chi non collabora con la giustizia, la dissociazione diventa un fattore decisivo per ottenere la libertà. Niente di più falso. Tutto ciò viene smentito dalla sentenza numero 39868 della Cassazione, appena depositata, che ha respinto il ricorso di Filippo Graviano contro la decisione della proroga del 41 bis.

Martedì sarà votato il testo base sull’ergastolo ostativo

A proposito dell’ergastolo ostativo il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio e relatore del provvedimento, Mario Perantoni del Movimento 5Stelle, fa sapere che martedì prossimo sarà votato il testo base sulla riforma dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. «Sono soddisfatto dichiara Perantoni – che vi sia stata ampia convergenza sulla proposta di testo base che, tra l’altro, prevede che i condannati all’ergastolo ostativo non possano accedere ai benefici penitenziari se non vi è certezza della inesistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata o del pericolo di un loro ripristino, oltre alla condizione dell’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato». Perantoni spiega che «il boss mafioso non collaborante non potrà accedere ai benefici penitenziari secondo i criteri ordinari: questo resta un punto fermo in piena coerenza con gli orientamenti della Consulta».

Filippo Graviano aveva chiesto l’annullamento della proroga del 41 bis

Per quanto riguarda Filippo Graviano il suo difensore aveva chiesto l’annullamento del provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza di Roma il 3 dicembre 2020, recante il rigetto del reclamo proposto avverso il decreto emesso dal ministro della Giustizia, concernente la proroga del 41 bis. Nel ricorso per Cassazione si deduce erronea l’applicazione del carcere duro, nonché vizio di motivazione. Come spiega la Corte Suprema il 41 bis stabilisce che i provvedimenti applicativi del regime di detenzione differenziato sono prorogabili nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni, quando «risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno».

Per la Cassazione il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva proceduto correttamente

Ma veniamo al punto. Nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha proceduto – sottolinea la Cassazione – «con corretta interpretazione ed esatta applicazione dei principi di diritto in materia», alla verifica della permanenza dei dati indicativi della capacità di collegamento di Filippo Graviano con la criminalità organizzata, valorizzando gli elementi sui quali ha fondato la valutazione della pericolosità del medesimo e della legittimità e fondatezza della proroga della misura in oggetto. In particolare, il Tribunale di sorveglianza ha evidenziato la correttezza del decreto ministeriale, alla luce: del ruolo di vertice rivestito dal Graviano nel gruppo mafioso di appartenenza; dell’irrilevanza della circostanza che prevalentemente si occupasse della gestione finanziaria dei crimini; dell’inidoneità del percorso di studi universitari compiuti dal detenuto a recidere il vincolo associativo; della circostanza – che la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo ha valutato come priva di qualsiasi effettività la dichiarazione di dissociazione resa dal Graviano il 6 maggio 2010; del fatto che lo stesso è indicato, nelle note degli inquirenti, come attualmente inserito nel clan di appartenenza; dell’attuale operatività di quest’ultimo; dell’assenza di elementi sintomatici dell’acquisizione di valori di legalità da parte del ricorrente.

La dissociazione non è l’unico parametro di valutazione

Quindi, nonostante la dissociazione resa nel 2010, tutti questi elementi elencati sono stati ritenuti idonei a dimostrare il pericolo di una ripresa di contatti, da parte del ricorrente, con il clan di appartenenza, e sono stati – sottolinea la Cassazione – «pertanto valorizzati, secondo un ragionamento logico e nel rispetto della disciplina di riferimento, al fine di giustificare le ulteriori restrizioni trattamentali». In conclusione, per la Cassazione, il ricorso di Filippo Graviano deve essere dichiarato inammissibile. Cosa significa tutto ciò? Che c’è il rischio di riconoscere benefici o sconti di pena a chi si dissocia senza collaborare con la giustizia, è una fake news. La dissociazione, che tra l’altro non è normata per i detenuti condannati per mafia, non è l’unico parametro di valutazione per concedere o meno i benefici. Figuriamoci per gli ex boss condannati per le stragi.

Così si omologa la misura di sicurezza alla pena detentiva. 41bis per gli internati, la Consulta dice sì: “Ma devono poter lavorare”. Angela Stella su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. È legittima la disciplina che consente di applicare il regime del carcere duro (41 bis) agli internati in casa di lavoro? La Corte Costituzionale ha risposto ieri di sì con la sentenza n. 197 ma ponendo una condizione. Ribadendo che le speciali restrizioni previste dall’art 41 bis sono «applicabili anche agli internati, cioè alle persone considerate socialmente pericolose e, in quanto tali, soggette, dopo l’espiazione della pena in carcere, alla misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione a una casa di lavoro», tuttavia ha precisato che, proprio in considerazione della specifica natura di quest’ultima misura, «e alla luce dei principi costituzionali di ragionevolezza e di finalità rieducativa, il trattamento differenziale previsto dall’articolo 41 bis deve adattarsi alla condizione dell’internato e consentirgli di svolgere effettivamente un’attività lavorativa». A sollevare il dubbio di legittimità costituzionale era stata nel 2020 la Cassazione, investita da un ricorso proposto da una persona assoggettata alla misura di sicurezza della casa di lavoro, già condannata per gravi delitti di criminalità organizzata, contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che aveva confermato la legittimità del decreto ministeriale di proroga del 41bis nei suoi confronti, in considerazione della perdurante pericolosità criminale dell’interessato. Qual è il problema: per gli internati il trattamento previsto consiste in misure risocializzanti realizzate attraverso interventi finalizzati alla rieducazione da parte degli educatori che operano nelle case di lavoro, sperimentazione di reingresso sociale, interventi di sostegno esterno sul contesto familiare e socio-lavorativo. Tuttavia, quando la casa di lavoro è vissuta con la contemporanea sottoposizione al 41bis, si assiste, secondo la Cassazione, «ad una fortissima compressione delle regole ordinarie trattamentali, con sostanziale omologazione della misura di sicurezza alla pena detentiva, determinando un regime sostanzialmente identico tra internati e detenuti». Invece, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le censure sollevate dalla Cassazione «a condizione che all’articolo 41 bis, in quanto riferito agli internati, sia data una lettura costituzionalmente conforme», che consenta l’applicazione agli internati delle sole restrizioni proporzionate e congrue alla condizione del soggetto cui il regime differenziale di volta in volta si riferisce: «trattandosi di un internato assegnato ad una casa di lavoro, le restrizioni derivanti dalla sua soggezione all’articolo 41 bis devono adattarsi, nei limiti del possibile, alla necessità di organizzare un programma di lavoro, e, a sua volta, l’organizzazione del lavoro deve adattarsi alle restrizioni (quelle necessarie) della socialità e della possibilità di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere identificate attività professionali compatibili con gli effettivi spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale, modulando opportunamente l’applicazione a costoro della limitazione della permanenza all’aperto disposta dalla lettera f) del comma 2-quater del citato articolo 41 bis». In definitiva, secondo l’interpretazione affermata dalla sentenza, gli internati in regime differenziale restano esclusi dall’accesso alla semilibertà e alle licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità e ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare. Angela Stella

Ergastolo ostativo: da cosa nasce e perché non va abolito. Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale si riaccende il dibattito su una misura che nel campo della lotta alla mafia fu varata come risposta alle stragi. Stefania Pellegrini su L'Espresso il 19 aprile 2021. A pochi mesi dalla precedente pronuncia, nella quale si mettevano in discussione i principi fondanti l’ergastolo ostativo, la Corte Costituzionale si è nuovamente espressa ritenendo che il regime carcerario disciplinato dall’art. 41 bis ord. pen. sia in contrasto con il principio di rieducazione della pena (art. 27 Cost.), con quello di eguaglianza (art. 3 Cost.) e con il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu). Nello specifico, viene messa in discussione la preclusione assoluta a chi non abbia collaborato con la giustizia, di accedere alla libertà condizionale, anche quando il ravvedimento è sicuro. Appare evidente come la Suprema Corte ritenga che il ravvedimento del mafioso possa essere desunto anche da elementi non necessariamente sfocianti in una collaborazione di giustizia e che il regime carcerario speciale riservato ai condannati per reati di mafia c.d. irriducibili debba sottostare ai principi che la carta costituzionale riserva alla carcerazione tradizionale, e quindi finalizzato alla rieducazione degli stessi. Con questo ulteriore intervento dell’Alta Corte, il timore è che si sia inesorabilmente innescato un processo di affievolimento di uno strumento di lotta alla criminalità organizzata che ha già ampiamente dimostrato la sua efficacia. Per comprendere la portata di questa svolta epocale è necessario attivare un dibattito che prenda in considerazione una serie di elementi dai quali non si può prescindere.

Specificità del reato di mafia. Considerare la mafia alla stregua di un sistema criminale comune è del tutto erroneo e pericoloso, poiché, in quanto cultura si impone come identità totalizzante. Si tratta di un “fondamentalismo”, un tipo di pensiero che è dentro la persona, ma non consente la soggettività: non è il soggetto che decide e pensa, ma è la realtà sovrapersonale in cui è inserito. L’associato di mafia non è un criminale comune, ma è un soggetto che, nel momento in cui commette un delitto fine dell’associazione, ne ha già condiviso pienamente, non solo la fase realizzativa, ma anche quella della gestione post delictum. Il mafioso aderisce consapevolmente ad una associazione che ha come elemento identitario e di forza quello di resistere all’intervento statale anche mediante il mantenimento del vincolo tra l’associazione e l’associato, perfino quando questo si trovi sottoposto ad una carcerazione perpetua. Il legame che unisce gli affiliati affonda le proprie radici in una cultura del comparaggio e della fedeltà, in cui il silenzio funziona come segno di riconoscimento. Un silenzio manifestazione di quella omertà che porta il mafioso al rifiuto incondizionato ed assoluto a collaborare con gli organi dello Stato. Una scelta assunta, non solo per timore di vendette, ma anche per proteggere la consorteria alla quale si appartiene e per disconoscere ogni legittimazione allo Stato. Di fatto, il cemento che lega tra loro gli associati, più che dal timore e dalla soggezione, è costituito dalla comune adesione ad una specifica subcultura che il regime carcerario tradizionale non è in grado di affievolire. Solo una forma detentiva differenziata ed idonea ad interrompere la comunicazione operativa tra il detenuto e l’associazione di appartenenza può recidere quel vincolo che lega indissolubilmente i consociati ad un sistema di valori.

Isolare non educare. Il regime del 41 bis nasce in specifiche circostanze storiche. Siamo all’indomani della strage di via d’Amelio. La notizia venne accolta con disperazione da parte di tutta la popolazione, ma festeggiata con un brindisi dai mafiosi incarcerati all’Ucciardone. Ulteriori indagini rivelarono che lo champagne venne condotto in carcere in concomitanza con la preparazione dell’attentato, avvalorando l’ipotesi che i capi mafia detenuti fossero a conoscenza del progetto criminale e che celebrarono la  strage stappando le bottiglie. Divenne urgente introdurre un provvedimento finalizzato ad assicurare la recisione dei legami esistenti tra le associazioni criminali e i soggetti detenuti, riducendo e filtrando i contatti tra i boss detenuti e gli affiliati all’esterno. Una misura non volta ad impedire la materiale commissione dei delitti, piuttosto orientata ad ostacolare che l’ideazione e la programmazione di crimini si realizzasse all’interno del carcere. Emerse chiara la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un singolare fenomeno criminale che necessitava di interventi specifici, in grado di recidere la fitta rete di comunicazioni non ostacolata dalle mura carcerarie. Proprio tale singolarità ha consentito al nostro legislatore di stabilire una diversa graduazione tra le molteplici funzioni della pena, riducendo lo “spazio educativo” a favore della finalità generalpreventiva che impegnerebbe lo Stato a tutelare i diritti fondamentali, prima che gli stessi siano offesi.

Il valore della collaborazione. Il regime carcerario speciale trova la sua ragione nelle lapidarie parole del suo ideatore. Giovanni Falcone asserì come la mafia non fosse «una semplice organizzazione criminale, ma un’ideologia che, per quanto distorta, ha elementi comuni con tutta il resto della società - una sorta di subcultura dalla quale - non è possibile staccarsene, spogliarsene come si smettesse un abito». La decisione di non collaborare conferma l’adesione ad un credo irrinunciabile. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente. Per contro, la valutazione di collaborare ha insita la consapevolezza che fuoriuscire dal mondo mafioso vuol dire affidarsi totalmente alla capacità di protezione dello Stato: quello che prima rappresentava il nemico da fronteggiare, diventa l’amico con cui cooperare. In molti casi, è proprio l’esperienza del carcere che porta il detenuto verso la collaborazione. Le  lunghissime giornate di isolamento, hanno spesso portato a sviluppare un’introspezione sul senso delle proprie scelte di vita. Nell’universo culturale mafioso la collaborazione con la giustizia rappresenta l’unica vera dimostrazione che l’affiliato ha rescisso i suoi legami con l’organizzazione.  Non si tratta di una semplice volontà di “emenda del condannato”, ma assume un valore profondo nel senso che collaborare significa tranciare di netto un cordone ombelicale che fino a quel momento ha garantito un’identità forte e robusta, ancorché dogmatica e ripetitiva. Di fatto, solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa, i boss continueranno ad essere capi rispettati, ai quali si deve obbedienza, rappresentando un modello “positivo” che per essere scardinato necessita di misure straordinarie e adatte ad intervenire su di una struttura fondamentalista e paranoica. I boss sono equiparabili a figure mitologiche, invincibili ed il regime dell’isolamento, può provocare il crollo della loro onnipotenza. Anche quando la scelta non è conseguenza di un ravvedimento profondo, ma determinata da un calcolo utilitaristico di vantaggi e benefici, la decisione di fornire informazioni rilevanti comporta l’indebolimento della struttura che viene fiaccata anche dalla presa di distanza pubblica ed inequivocabile di un consociato. Per contro, il ravvedimento del detenuto per mafia non può essere desunto dal suo comportamento. È notorio come il mafioso, vesta gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale potrebbe essere del tutto fuorviante. Il magistrato di sorveglianza incaricato dovrebbe vagliare l’animo dell’ergastolano, assumendo un incarico estremamente delicato e, sulla base di “elementi” non meglio definiti, valutare caso per caso se i boss detenuti siano ancora pericolosi, soprattutto quando non si siano mai distaccati dall’organizzazione, mantenendo quel “silenzio” che rappresenta un potentissimo collante per mantenere saldi i legami associativi. È facile pensare come questa attività possa facilmente esporre a ritorsioni, andando così a mettere a rischio la serenità della verifica. Si torna quindi ad affermare come solo attraverso la collaborazione l’affiliato possa dimostrare di avere effettuato un percorso, più o meno intimo ed interiore, di distacco dal sistema criminale e culturale dal quale proveniva. Solo questo può essere un chiaro segnale di un avvio di un percorso di rieducazione che potrà poi essere implementato e sostenuto con una serie di progetti atti a ricollocare il soggetto in una dimensione sociale ben diversa da quella di provenienza. L’art. 27 della Costituzione riconosce la finalità rieducativa della pena. Una rieducazione che deve tendere ad abbracciare e rispettare i valori fondamentali del vivere democratico. Esattamente quei valori che il sistema mafioso calpesta e disprezza. Ora, come si può ritenere che un mafioso che non vuole discostarsi da un sistema di disvalori, rifiutandosi di collaborare, possa compiere un percorso di rieducazione verso quegli stessi principi che il proprio sistema di appartenenza rifiuta e rinnega? Da ultimo, preme ricordare come il collaboratore, con le sue dichiarazioni, non si limiti a descrivere episodi o fatti, ma delinei una societas con le sue strutture fondanti, le sue gerarchie di valori. Attraverso le sue narrazioni, quindi, aumentiamo anche la conoscenza di un fenomeno, giungendo a comprendere le dinamiche criminali che sottendono alla commissione di tanti delitti. Conforta la decisione della Corte di rimandare l’accoglimento del ricorso ad un momento successivo, dando la possibilità al legislatore di intervenire in modo sistematico sulla normativa. I giudici  richiamano l’attenzione sulla peculiarità dei reati di mafia e sulla necessità di preservare il valore che in questi casi riveste la collaborazione con la giustizia. La riforma che si sollecita sarà estremamente complessa e delicata. Il rischio che si corre sarebbe quello di indebolire, sino al totale svilimento, uno degli strumenti più efficaci di lotta alla criminalità organizzata. Procedere verso lo sgretolamento del regime penitenziario differenziato equivarrebbe ad abdicare al nostro stardard di efficienza nella lotta alla criminalità organizzata, un unicum a livello internazionale. Riuscirà il Parlamento, oberato nel proporre interventi che permettano al Paese di emergere dalla crisi economica e sociale nella quale la pandemia lo ha gettato, a raccogliere questo testimone, senza tradire lo spirito che ha pervaso colui che fermamente ha voluto il regime del 41 bis? Sarà all’altezza di misurarsi con una simile prova nell’arco di un solo anno? La sorte, la beffa o una congiunzione astrale favorevole o contraria, ha indotto la Corte a stabilire un limite temporale a questo intervento legislativo. La trattazione è stata rimandata al maggio del 2022.  I rappresentanti istituzionali che presenzieranno alla commemorazione del 30ismo anniversario della strage di Capaci avranno la responsabilità di guardare quelle steli dell’autostrada, quel groviglio di lamiere appartenenti alla Quarto Savona 15, specchiarsi negli occhi dei parenti delle vittime e dichiarare di aver mantenuto fede al sacrificio di chi ha lottato anche perché il 41 bis diventasse legge.

L’autrice è ordinaria di Sociologia del diritto e Mafie e Antimafia all’Università di Bologna.

La lesione dello Stato di diritto. L’ingiusta censura del 41 bis: vietata la corrispondenza tra difensore e prigioniero. Guido Camera su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Il 1° dicembre la Corte costituzionale è chiamata a decidere se una parte dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario – cioè la norma che disciplina il regime di detenzione speciale del c.d. “carcere duro” – è compatibile con i principi costituzionali che tutelano il diritto di difesa e il diritto ad avere un giusto processo. ItaliaStatoDiDiritto, come già aveva fatto in relazione alle questioni di costituzionalità sollevate sulla disciplina emergenziale della sospensione della prescrizione, ha deciso di produrre a sostegno della fondatezza della questione una propria opinione scritta alla Consulta (integralmente scaricabile su italiastatodidiritto.it), che è stata ammessa nel giudizio costituzionale con decreto del Presidente della Corte dello scorso 21 ottobre. Come noto, il regime del “carcere duro” colpisce i detenuti il cui legame con le associazioni criminali di appartenenza sia ritenuto tale da non poter essere spezzato senza il ricorso a misure speciali che riducano drasticamente le occasioni di contatto con l’esterno. Tra le numerose limitazioni vi è anche la censura della corrispondenza tra il detenuto e il proprio difensore. Questa è la parte dell’articolo 41 bis della cui costituzionalità è chiamata a decidere la Consulta il 1° dicembre. La questione di legittimità è stata sollevata dalla 1 sezione penale della Corte di Cassazione lo scorso 19 marzo: l’ordinanza di rimessione ha efficacemente sviluppato il proprio ragionamento muovendo dai principi sanciti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 143/2013, che ha riconosciuto «il diritto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata, connaturato alla difesa tecnica che rientra nella garanzia ex art. 24 Cost. ed appartiene al novero dei requisiti basilari dell’equo processo». In passato, la Corte costituzionale ha ricordato che detto diritto è inviolabile e deve potersi esplicare non solo in un procedimento già instaurato, ma altresì in relazione a qualsiasi possibile procedimento suscettibile di essere instaurato per la tutela delle posizioni garantite, e dunque anche in relazione alla necessità di preventiva conoscenza e valutazione – tecnicamente assistita – degli istituti e rimedi apprestati allo scopo dall’ordinamento (sent. n. 212/1997). Il passaggio è cruciale, visto che il carcere duro può essere applicato sia a detenuti in attesa di giudizio, sia a quelli che hanno riportato condanne definitive. ItaliaStatoDiDiritto, nella propria opinione scritta, ha chiesto che venga dichiarata illegittima la norma censurata perché la grave compressione dei diritti costituzionali che essa determina è fondata sulla presunzione che il difensore sia un soggetto potenzialmente pericoloso. Si tratta di una presunzione inaccettabile, visto che l’esercizio della professione forense è l’unica garanzia per l’effettiva tutela del diritto costituzionale di difesa; una professione regolata da precise norme deontologiche, nonché esposta a gravi e specifiche sanzioni penali, come il favoreggiamento. La censura della corrispondenza con il difensore, peraltro, non riguarda altre figure non dotate delle stringenti prescrizioni deontologiche e requisiti di professionalità della categoria forense: il riferimento, in particolare, va ai “membri del Parlamento”, per i quali il visto di censura non opera. Pur riconoscendo l’alto ruolo di controllo rispetto al trattamento dei diritti umani in ambito penitenziario che possono avere i parlamentari, va osservato che non si può aprioristicamente escludere che ci possa essere un uso distorto, nel singolo caso, della deroga al visto di censura. Inoltre, la corrispondenza tra il detenuto e il parlamentare non è preordinata all’esercizio della difesa tecnica, nel cui contesto, come visto, la confidenzialità delle informazioni scambiate tra avvocato e parte assistita in ordine alle strategie processuali è condizione essenziale perché si possa compiutamente dire garantito il diritto di difesa all’interno del giusto processo previsto dalla legge. In definitiva, la presunzione assoluta di pericolosità dell’esercizio della funzione difensiva forense che caratterizza il visto di censura previsto dall’articolo 41 bis è una manifestazione distonica rispetto allo statuto delle garanzie costituzionali, che non può essere in alcun modo giustificata, in una prospettiva di ragionevole bilanciamento tra il diritto di difesa e altri interessi contrapposti di pari rilevanza costituzionale, anche se legati alla protezione dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini nei confronti della criminalità organizzata. Manifestazione distonica che – tra le altre cose – mortifica la valenza solenne del giuramento forense, in forza del quale tutti i nuovi avvocati si impegnano “ad osservare con lealtà, onore, e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”. Guido Camera

La commemorazione del giudice. Ergastolo e pentiti: di Giovanni Falcone avete capito zero! Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Il modo peggiore di ricordare Giovanni Falcone, nell’anniversario della strage di Capaci, è quello di non rispettarlo, proprio come avevano fatto, quando lui era in vita, coloro che lo descrivevano diverso da come era. Quelli che lo accusavamo di tenere le carte nel cassetto perché lui non si accontentava della parola del “pentito” (è solo l’apriscatole, diceva), o di essere traditore e carrierista perché era andato a Roma a dirigere la Direzione Affari Penali al Ministero. Così è offensivo, ancora oggi, a ventinove anni dalla strage con cui Cosa Nostra ha eliminato colui che per primo “aveva capito”, insultare la sua intelligenza come se Giovanni Falcone fosse stato solo un confessore di collaboratori di giustizia. Che cosa vuol dire –come fa oggi il consigliere del Csm Nino Di Matteo in un’intervista a Fq Millennium– buttare lì, nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci, frasi come «oggi stanno cominciando a realizzarsi alcuni degli scopi che Cosa Nostra intendeva perseguire…»? E citare esplicitamente le recenti sentenze della Corte Costituzionale e della Cedu sull’ergastolo ostativo come tentativi di «smantellamento del sistema di norme concepite da Falcone» e «approvate solo dopo la strage di Capaci»? Le cose non stanno proprio così. Prima di tutto perché il famoso decreto Scotti-Martelli, che aveva determinato lo sciopero degli avvocati e che non piaceva alla sinistra, fu convertito in legge dal Parlamento non subito dopo la morta di Falcone, ma dopo la strage di via D’Amelio, cioè tre mesi dopo. Le date non sono irrilevanti, perché senza l’uccisione di Paolo Borsellino quelle norme non sarebbero mai state approvate. Ma soprattutto non è secondario il fatto che Giovanni Falcone, che pure aveva lavorato a quell’impianto normativo, non avrebbe mai introdotto principi incostituzionali come quello dell’inversione dell’onere della prova, lasciando nelle mani del detenuto il compito di dimostrare con la collaborazione il proprio distacco dall’organizzazione mafiosa. Il principio ispiratore era un altro. Falcone non aveva mai legato l’accesso ai benefici penitenziari previsti dalla legge penitenziaria del 1975 al “pentimento” del detenuto, ma semplicemente alla necessità che fossero acquisiti elementi per escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Giovanni Falcone la pensava esattamente come i giudici della Corte Costituzionale che hanno pronunciato le due sentenze del 2019 e di un mese fa e come i pronunciamenti della Cedu. Per questo forse il modo migliore per ricordarlo non è quello del consigliere Di Matteo. Il quale racconta di aver indossato per la prima volta la toga proprio quando aveva appena vinto il concorso in magistratura e aveva preso parte al picchetto d’onore alla bara di Falcone. Bel ricordo, ma Di Matteo sa chi era quel magistrato? Ne ha capito davvero il pensiero e l’intelligenza? È pur vero che le toghe non sono tutte uguali, come finalmente ha capito anche l’opinione pubblica che non sta più dando loro la propria fiducia. Così, proprio mentre alcuni ricordano il giudice assassinato a Capaci facendo torto alla sua intelligenza, un lumicino si accende nelle stanze della Corte di Cassazione. È datata 21 maggio l’ordinanza numero 20338 con cui la prima sezione penale solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41 bis nella parte in cui prevede la necessità di sottoporre al visto di censura della corrispondenza tra il detenuto e il proprio difensore. Sembra incredibile, ma è così: gli uomini-ombra non hanno diritto neanche alla riservatezza nella relazione epistolare tra imputato e avvocato. E questo nonostante proprio una sentenza della Corte Costituzionale del 2013 già avesse riconosciuto “il diritto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata”. I giudici della Cassazione pongono la questione di costituzionalità sotto tre profili, quello più scontato del diritto inviolabile alla libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 della Costituzione), ma anche al diritto alla difesa e a quello al giusto processo previsto dell’articolo 111. Un’altra piccola bomba. Non crediamo che i sospetti del dottor Di Matteo si spingerebbero fino a ritenere che anche i giudici della cassazione stiano tentando di realizzare gli scopi di Cosa Nostra. Ma il fatto che il giudice delle leggi, così come la Corte europea dei diritti dell’uomo, mettano mano, pur se tardivamente e quasi trent’anni dopo, a togliere qualche mattoncino a un apparato disumano e incostituzionale dovrebbe essere nell’interesse di tutti. Non c’entrano i programmi di Cosa Nostra. Che peraltro, nella struttura e nelle modalità operative di un tempo, non esiste neanche più. Basterebbe solo per esempio leggere qualche libro di quelli scritti di recente da ex direttori di carceri come Luigi Pagano e Giacinto Siciliano. Quest’ultimo in particolare racconta quasi con commozione la sua esperienza nel carcere di Opera, dove ha potuto partecipare a cambiamenti radicali di detenuti al 41 bis per fatti di mafia non “pentiti” in senso giudiziario, ma molto pentiti e cambiati in senso letterale. Ex mafiosi e assassini che sarebbero pronti a una nuova vita, se non avessero condanne ostative. Nell’anniversario della strage di Capaci c’è stato anche un confronto su Rai storia tra il ministro Marta Cartabia e Maria Falcone, sorella del magistrato assassinato dalla mafia. Hanno parlato anche dell’ergastolo ostativo e delle sentenze della Corte Costituzionale. Si sono confrontate non solo due opposte opinioni, ma, purtroppo, proprio due culture, non solo giuridiche. Colpisce che Maria Falcone citi da principio Tommaso Buscetta per confermare le sue parole e poi Cesare Beccaria per contraddirlo. Che cosa diceva di fondamentale il “pentito dei due mondi”? Sosteneva che il mafioso non esce dall’organizzazione se non con la morte o con il “pentimento”. E che cosa non funzionava nelle parole di Beccaria? Il fatto che il carcere sia un momento per arrivare alla riabilitazione, diceva lui. Ma non per un mafioso, dice Maria Falcone. Parole lapidarie. La ministra Cartabia si affanna, in modo un po’ didascalico, a spiegare la sentenza dell’Alta Corte del 2019 sui permessi premio. E poi quella più recente, di cui cita testualmente le parole usate: «La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento». Così come non è escluso, dice ancora la Corte, che «la dissociazione dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia». È la storia di ogni giorno, la storia che conosce chi sa ascoltare le voci provenienti dalle carceri. Ma pare difficile che riescano a incontrarsi questi due mondi. Quello che vede in Giovanni Falcone il “lottatore”, quello che ha portato a giudizio ed è riuscito a fare condannare il vertice di Cosa Nostra. E quello del magistrato lungimirante e riformatore che non aveva fiducia cieca nei “pentiti” e incoraggiava la separazione delle carriere tra pm e giudici. Infatti a Maria Falcone della sentenza della Corte Costituzionale interessa soprattutto la parte più politica e meno coraggiosa, il rinvio di un anno e il compito al Parlamento di riformare l’ergastolo ostativo. È con un sospiro di sollievo che la sorella del magistrato ucciso dalla mafia si dice speranzosa in un’attività per così dire contro-riformatrice delle Camere. E conclude: io sono fiduciosa che quando c’è un interesse collettivo, deve avere la prevalenza sull’interesse soggettivo. E sicura che Giovanni la pensasse proprio così?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Lasciate in pace Falcone: il suo ergastolo ostativo non vietava i benefici. Nella proposta di legge dei 5s sulla liberazione condizionale ai non collaboranti si vorrebbero accentrare le decisioni al tribunale di sorveglianza di Roma, snaturando il principio del giudice naturale. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 maggio 2021. Giovanni Falcone viene tirato puntualmente per la giacchetta. Lo si fa quando si parla di “terzo livello”, laddove il giudice in realtà ne stigmatizzò la teoria, parlando di una mafia che non si fa eterodirigere. Così come lo si fa quando si parla dell’ergastolo ostativo: Falcone aveva previsto la possibilità di concedere i benefici penitenziari anche al detenuto che decide di non collaborare con la giustizia. Falcone viene tirato nuovamente in ballo dai parlamentari del M5S, in particolare dal deputato e ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, dal capogruppo in commissione Eugenio Saitta e dal senatore dell’Antimafia Marco Pellegrini. Lo hanno citato per presentare la loro proposta di legge sulla concessione della liberazione condizionale ai non collaboranti, dopo che la Consulta ha dato un anno di tempo affinché il Parlamento intervenga per ridisegnare l’ergastolo ostativo, premettendo che la preclusione assoluta ai benefici è incostituzionale. L’ex guardasigilli Alfonso Bonafede ha così esordito: «Non possiamo permetterci che l’impianto normativo fortemente voluto da Giovanni Falcone per contrastare l’azione delle mafie venga gravemente indebolito». In realtà, le recenti sentenze della Consulta hanno esattamente riportato l’ergastolo ostativo proprio vicino all’intuizione di Falcone. Se si vuole onorare la sua memoria, bisogna evitare di manipolare il suo pensiero e le sue azioni. Basterebbe approfondire il decreto legge ideato da Falcone quando, appunto, è stato introdotto per la prima volta il 4 bis nell’ordinamento penitenziario. Nella prima formulazione, quella di Falcone, l’articolo 4 bis prevedeva una semplice differenziazione del regime probatorio per accedere ai benefici penitenziari. Esso, infatti, raggruppava i delitti in “due distinte fasce”: nella prima rientravano i delitti ritenuti di certa riferibilità al crimine organizzato; nella seconda, invece, quelli di elevata gravità, ma non direttamente riferibili a tale genere criminale. Nel primo caso si poteva accedere alle misure alternative soltanto se fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Viceversa, per i delitti di seconda fascia, l’accesso alle misure alternative e ai benefici penitenziari era condizionato al semplice rilievo oggettivo dell’assenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata.

I paletti per l’ergastolo ostativo ci sono e sono rigidissimi. Ora i grillini, in nome di Falcone, vorrebbero arginare la sentenza della Consulta introducendo dei paletti. In realtà ci sono già e sono rigidissimi. Basterebbe osservare che la concessione dei permessi premio per i non collaboranti, sono numeri da prefisso telefonico. Attualmente, per concedere benefici ai non collaboranti, non si valuta solo la semplice buona condotta penitenziaria, visto che si tratta di un prerequisito minimo per ogni detenuto per qualunque reato. Nei confronti dei detenuti ostativi si effettua una osservazione che deve riguardare invece la riflessione critica sui fatti di reato, il suo atteggiamento verso le vittime e verso lo stile di vita che a suo tempo aveva abbracciato. La stessa nozione di buona condotta deve comprendere un focus sui comportamenti specificamente tenuti: ad esempio l’abbandono nel tempo di atteggiamenti prevaricatori o di pressione su detenuti che abbiano magari un livello criminale più basso. O il mantenimento di uno stile di vita ancora rappresentativo di quegli approcci: ad esempio il rifiuto di lavori semplici e umili, come quelli spesso disponibili in carcere.

Vengono già fatte delle valutazioni serie e scrupolose. Diventa inoltre importante valutare le rimesse in denaro che arrivano dai famigliari e gli acquisti che si fanno al sopravvitto. Si può verificare cosa succede alle famiglie sui territori, cioè se vi siano ancora degli stili di vita incompatibili con i redditi dichiarati. Naturalmente a questo poi si aggiunge una valutazione particolarmente seria, che riguarda i profili di pericolosità sul territorio, attraverso le informazioni che arrivano sull’operatività dei gruppi criminali di riferimento.

L’accentrare le decisioni fa venire meno il principio del giudice naturale. Forse il Movimento 5Stelle dovrebbe aggiornarsi, magari sentire i magistrati di sorveglianza per informarsi e proporre con cognizione di causa una legge. Invece, nella loro proposta di legge, vogliono accentrare tutte le decisioni al tribunale di sorveglianza di Roma. Senza rendersi conto, non solo delegittimano i magistrati di sorveglianza, ma la previsione di un accentramento confligge con il principio costituzionale del giudice naturale. Per altro allontanerebbe il giudice dalla conoscenza della persona, che è invece fondamentale per apprezzarne le evoluzioni nel tempo.

Bruti Liberati: «Le mafie si sconfiggono con la forza del Diritto». Ergastolo ostativo, l'intervento dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati: il segnale di civiltà offerto dalla sentenza della Consulta è una sfida al crimine. Edmondo Bruti Liberati su Il Dubbio il 13 maggio 2021. La Corte Costituzionale lo scorso 15 aprile ha ritenuto che la attuale disciplina che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione ai condannati all’ergastolo ostativo per accedere alla liberazione condizionale è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma ha deciso di rinviare il giudizio al 10 maggio 2022, così da garantire al legislatore il tempo necessario per affrontare la materia. La motivazione della ordinanza depositata l’11 maggio consente, a mio avviso, di superare allarmi e preoccupazioni da più parti avanzati. La Corte si è data carico del fatto che un intervento meramente “demolitorio” avrebbe potuto produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della disciplina dell’ergastolo ostativo, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa. Ha riconosciuto il rilievo della collaborazione con la giustizia, ma ha giustamente rilevato che «non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali». La scelta della Corte è stata criticata da punti di vista opposti. Si è proposto l’allarme per il cedimento che si determinerebbe nel contrasto alla criminalità mafiosa; all’opposto si è rilevata la incongruenza di mantenere in vita per un anno una disciplina ritenuta incostituzionale, con il rischio che nel frattempo il legislatore non intervenga. Occorre ricordare che nella sentenza Cedu del 13.6.2019 nel caso Viola contro Italia si legge: “La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’art.3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Attenendosi a questa indicazione la nostra Corte ha inteso rimettere al legislatore la elaborazione delle condizioni che, eliminata la presunzione assoluta della non collaborazione, consentirebbero l’accesso alla liberazione condizionale: tra queste “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. Oltre un anno addietro con la sentenza n.253/2019 la Corte aveva dichiarato direttamente la incostituzionalità della preclusione assoluta limitatamente alla concessione dei permessi premio. Una grande responsabilità veniva assegnata alla magistratura di sorveglianza, non maggiore peraltro di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. È una responsabilità che la magistratura di sorveglianza affronta da quasi mezzo secolo, da quando il Parlamento ebbe il coraggio nel 1975, pur nel clima di allarme per la criminalità organizzata e per il terrorismo, di adottare la riforma penitenziaria. Nel 1975, nominato magistrato di sorveglianza a Milano, ho avuto modo, per la prima volta nella storia della Repubblica, di applicare questo istituto: il primo passo per la rottura della tradizionale immutabilità della pena inflitta, l’opposto della logica del “buttiamo la chiave della cella” e del “lasciamoli marcire in carcere”. La Corte con la sentenza n.253/2019 sottolineava che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato “un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia” . È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia che “devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata” e non limitarsi, aggiungo io, a pigre formulette “ non si può peraltro escludere che…”. Ed inoltre sarà necessario rendere più incisivi i controlli richiesti dal regime di libertà vigilata. È un mutamento culturale e organizzativo che si richiede anche alle forze di polizia. Il percorso di reinserimento dei condannati nella società, i dati statistici lo dimostrano, è un efficace, anche se ovviamente non risolutivo, antidoto alla recidiva. Tutt’altro che “buonismo” , ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza. Gli allarmi lanciati come reazione alla sentenza della Corte sui permessi sono stati smentiti dai fatti. I permessi concessi ad ergastolani ostativi si contano sulle dita di una mano e non hanno posto problemi. I detenuti in regime di ergastolo ostativo oltre 1200. Cosa ci dicono questi dati? Anzitutto che i magistrati di sorveglianza sono stati oculati e prudenti della concessione dei permessi. Inoltre si deve considerare che la concessione della liberazione condizionale (così come della altre misure alternative) è sempre la conclusione di un percorso che prevede l’esito positivo di una pluralità di permessi. Sembra dunque eccessiva la critica secondo la quale il rinvio precluderebbe la concessione della liberazione condizionale, che comunque presuppone la positiva esperienza dei permessi per un congruo periodo. Per altro verso il rinvio disposto dalla Corte consentirà di sperimentare questi percorsi ed offrirà al legislatore concreti elementi di fatto sui quali modellare la nuova disciplina. Queste sono considerazioni di mero fatto, ma ogni tanto fare i conti con i dati di fatto anche su grandi questioni di principio non è inutile. Penso che la decisione della Corte sia stata, sotto i diversi punti di vista, una saggia decisione. Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose ma di ricordare che in carcere non ci sono “organizzazioni”, ma persone. L’offrire una prospettiva di “uscita” dal carcere e di “rientro nella società” andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose e non è illusorio pensare che forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, di consolidate appartenenze. 

“O collabori o rimarrai dietro le sbarre”. Ergastolo ostativo, quella scelta tragica al di fuori della Costituzione. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 13 Maggio 2021. 1. È stato depositato il testo dell’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale, in tema di ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, già sinteticamente anticipata per linee essenziali dal comunicato stampa di Palazzo della Consulta del 15 aprile scorso. Commentandolo, su questo giornale si è scritto che quella decisione rappresentava «un punto di non ritorno» per l’ergastolo ostativo (Il Riformista, 17 aprile 2021). L’ergastolo senza scampo, costituzionalmente, non aveva più scampo. È veramente così? 2. Da qui è bene partire, per non confondere forma e sostanza. È vero, infatti, che quella depositata è un’ordinanza, cioè una decisione interlocutoria che si limita a disporre il rinvio del giudizio in corso, fissando la data del 10 maggio 2022 per una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale. Ma è altresì vero che, nel merito, l’incostituzionalità della disciplina oggi in vigore è già stata acclarata. Su ciò, la lettura dell’ordinanza toglie ogni dubbio residuo. L’attuale disciplina dell’ergastolo ostativo preclude l’accesso alla liberazione condizionale per il condannato che, pur potendo, non collabora utilmente con la giustizia. Ciò in forza di un automatismo legislativo (mancata collaborazione, dunque perdurante pericolosità sociale, quindi impossibilità di concessione di qualsiasi misura extramurale) che «mette in tensione» i princìpi costituzionali e della Cedu elaborati dalle rispettive Corti. Princìpi secondo i quali una pena perpetua è legittima a condizione che l’ergastolano possa riacquistare la libertà proprio attraverso il beneficio della liberazione condizionale, se e quando meritata. Diversamente, «la pena perpetua de iure si trasformerebbe, così, in una pena perpetua anche de facto»: dunque inumana e degradante (secondo la Corte di Strasburgo) e contraria al suo necessario finalismo rieducativo (secondo la Corte costituzionale). È questo l’approdo sia dell’evoluzione legislativa in materia, sia della giurisprudenza delle due Corti, entrambe efficacemente riepilogate nell’ordinanza. Ecco perché «è necessario che la presunzione in esame diventi relativa», cioè superabile sulla base dell’acquisizione di altri specifici elementi diversi dalla sola collaborazione. Così com’è – si legge nell’ordinanza – l’ergastolo ostativo «pone un problema strutturale» che va risolto «alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata». 3. O collabori o rimarrai dietro le sbarre fino alla fine della tua pena: in breve, questo è lo scambio che la legge impone in caso di condanna per reati ostativi contenuti nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, ord. penit. È una condizione opprimente per la libertà di autodeterminazione, che fa tutt’uno con la dignità di ogni persona, anche se criminale certificato. La Corte cerca e trova le parole per dirlo. Laddove svela come quello scambio possa assumere «una portata drammatica» per il condannato all’ergastolo, obbligato «a scegliere tra la possibilità di riacquistare la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine». Un’alternativa che può farsi «scelta tragica» tra una collaborazione necessaria alla «propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia ad essa, per preservarli da pericoli». Alternativa drammatica. Scelta tragica. Per tali parole la Corte (scommettiamo?) sarà populisticamente messa in croce, inchiodata dalle travagliate accuse di smemoratezza verso chi i propri cari li ha persi – drammaticamente, tragicamente – proprio per mano mafiosa. Sono invece espressioni costituzionalmente giustificate, e non solo perché l’esecuzione penale riguarda singole persone, non organizzazioni criminali. Infatti, secondo il diritto penale liberale incapsulato nella Costituzione italiana, la collaborazione con la giustizia può essere premiata, non coercita, e la si può pretendere soltanto se «naturalisticamente e giuridicamente possibile» (sent. n. 89/1999), non sotto ricatto. Passa anche da qui la capacità di uno Stato di diritto di combattere la criminalità organizzata, che invece usa indiscriminatamente contro le proprie vittime proprio la coercizione psico-fisica e la minaccia della morte in assenza di collaborazione. 4. Dunque, l’ergastolo ostativo è «incompatibile con la Costituzione», come recitava correttamente il comunicato stampa del 15 aprile: oggi sappiamo perché. Se così è, che cosa ha precluso alla Corte di pronunciare una formale sentenza di annullamento di una disciplina penitenziaria così severamente censurata? Ad impedirlo è stata la radicalità della «posta in gioco», misurabile su piani diversi ma sovrapposti. Il piano ordinamentale, essendo in questione «le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione». Il piano esistenziale, essendo in discussione per il condannato «la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena». Il piano sanzionatorio, essendo sospettati di incostituzionalità «aspetti centrali e, per così dire, “apicali”» della normativa di contrasto al crimine organizzato, quanto alle fattispecie di reato (di contesto mafioso), all’entità della pena (l’ergastolo) e al beneficio avuto di mira (la liberazione condizionale). Il piano, infine, della coerenza normativa, considerato che un accoglimento immediato delle questioni proposte potrebbe comportare «effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame», analiticamente illustrati nell’ordinanza. Ciò che era stato possibile quando in gioco era l’ostatività al permesso premio (sent. n. 253/2019) si rivela, per ora, impraticabile. In quel caso, la Corte non si era limitata ad accogliere la quaestio riguardante l’accesso al beneficio penitenziario che segna l’inizio del percorso di risocializzazione, ma ne aveva esteso gli effetti a chiunque avesse subìto una condanna (perpetua o temporanea) per qualsiasi reato ostativo. Rispetto a quel precedente, ora «la posta in gioco è ancora più radicale» e chiama in causa scelte di politica criminale che eccedono i poteri della Corte perché «non costituzionalmente vincolate nei contenuti». I giudici costituzionali decidono così di fermarsi: «esigenze di collaborazione istituzionale» impongono il rinvio della causa a data certa, «dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia». 5. Fa bene Giovanni Guzzetta (Il Riformista, 12 maggio 2021) a sottolineare l’occasione così offerta alle Camere di dimostrare, anche in quest’ambito, una centralità faticosamente ritrovata. E tuttavia, pare adulterata la narrazione dell’ord. n. 97 laddove accredita l’immagine di un legislatore che si sarebbe già attivato in direzione di «una disciplina di “assestamento”» del regime ostativo applicato all’ergastolo. La realtà è diversa. Come in un gioco delle parti, i lavori della richiamata Commissione parlamentare antimafia si sono deliberatamente fermati, senza produrre iniziative legislative, in attesa del pronunciamento della Corte. La sola proposta di legge citata (AC n. 1951) è stata presentata in Commissione Giustizia il 2 luglio 2019 e mai discussa. Quanto all’esecuzione della sentenza Viola c. Italia n°2, il problema strutturale rilevato dalla Corte di Strasburgo – checché ne dica il Governo presso il Consiglio d’Europa – non è stato ancora affrontato né tantomeno risolto con alcuna misura di carattere generale. 6. La liberazione condizionale è una misura intrinsecamente penale, e la materia penale è dalla Costituzione riservata alla legge parlamentare. Spetta, in primo luogo, al legislatore «ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo»: il ritorno alla politica, dunque, si giustifica e rappresenta – illuministicamente – la soluzione preferibile e più coerente dal punto di vista ordinamentale. Ma c’è un limite non valicabile oltre il quale il rispetto della discrezionalità legislativa cede alla ragione fondamentale della giurisdizione costituzionale, e quel limite è già segnato sul calendario: 10 maggio 2022. Allora, sarà compito della Corte «verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte». O non assunte. Andrea Pugiotto

Le motivazioni e gli interventi. Ergastolo ostativo, le motivazioni della Consulta lezione a chi ha diviso i detenuti in buoni e cattivi. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Il deposito delle motivazioni dell’ordinanza della Corte costituzionale 97/2021 sul cosiddetto ergastolo ostativo fa giustizia di troppo affrettate interpretazioni del comunicato stampa con cui essa era stata annunciata qualche settimana fa. E pone il legislatore di fronte alla responsabilità di un intervento equilibrato, libero dai condizionamenti del fazionismo urlato che, in queste materie, impera. È un’occasione da non perdere per più di una ragione. Innanzitutto perché dopo mesi di marginalizzazione, dovuta anche alle vicende della pandemia, il Parlamento è chiamato a dimostrare di essere un organo vitale capace di assumersi le proprie responsabilità. L’abbandono dell’ubriacatura da Dpcm, il recupero dello strumento del decreto-legge (che il Parlamento deve convertire controllando così l’azione del governo), i compiti che a esso sono affidati nel quadro delle politiche di attuazione del Pnrr, restituiscono all’organo rappresentativo una centralità importante, seppur nella distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione. Si tratta di dimostrare che l’ubriacatura giacobina inneggiante alla democrazia della rete, da un lato, e la passiva subalternità a forzature operate con i poteri di ordinanza, dall’altro, non sono un ineluttabile destino per le nostre affaticate istituzioni. Inoltre il Parlamento è chiamato a dimostrare la propria capacità di interloquire autorevolmente con l’organo di suprema garanzia costituzionale che ha, per la terza volta negli ultimi anni, scelto un’apertura molto significativa alla leale collaborazione istituzionale con il potere politico. La decisione di sospendere il giudizio di legittimità sull’ergastolo ostativo consentendo al Parlamento di intervenire, calibrando una disciplina che rientra nella sua discrezionalità, è un’ulteriore mano tesa al legislatore, malgrado la pessima prestazione nel precedente del caso Cappato. Anche in quell’occasione la Corte aveva dato tempo alle Camere, ma alla fine dovette decidere comunque, avendo preso atto «di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza». Il terzo motivo per il quale l’occasione è importante attiene al merito della questione. Siamo in un’epoca in cui sulla giustizia grava il cielo plumbeo di una crisi fatta di scandali, di sospetti e di drammatiche preoccupazioni per la tenuta di un sistema affetto ormai da mali endemici. Di fronte a questa situazione, la politica, peraltro pesantemente coinvolta in molte vicende della giustizia, è tentata di proseguire in quella guerra di religione che ormai dura da decenni. Il fazionismo, le contrapposizioni ideologiche, le tifoserie dei talebani impazzano, esasperando conflitti che richiederebbero invece il rasoio di Occam per la delicatezza e la drammaticità di questioni che, in ultima istanza, si scaricano sulla carne viva dei cittadini. E le prime reazioni alla decisione della Corte, prima che ne fossero conosciuti i dettagli, non lasciavano ben sperare. Al contrario le motivazioni del giudice delle leggi fanno ragione delle posizioni più oltranziste, siano esse perdoniste o colpevoliste. Anzi, si può, in una battuta, dire che la Corte ha deciso di offrire una chance al Parlamento proprio in considerazione della delicatezza della materia, della complessità delle decisioni possibili, che richiederanno anche valutazioni di merito politico in relazione alle varie possibili alternative. Una forma di deferenza verso la rappresentanza popolare che spetta al legislatore dimostrare di meritare. Il problema è complesso proprio perché non può ridursi al semplice annullamento delle norme sull’ergastolo ostativo. La questione è nota e si risolve nella domanda: chi non ha collaborato con la giustizia può meritare di essere liberato (in via condizionale e poi, eventualmente, definitiva)? E la risposta della Corte parte da un approccio laico, in cui si fa strame di un doppio tabù. Quello per cui chi collabora possa dirsi per definizione “ravveduto” e quello per cui chi non collabora sia, per definizione, “pericoloso”. Il giudice delle leggi dà una lezione di cultura giuridica, rinunciando a una visione paternalistica e moralistica della politica criminale, ma cogliendone gli aspetti realistici e la necessità di distinguere. Non ci sono automatismi discendenti dall’avvenuta o mancata collaborazione: “La condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali». Ciò non significa squalificare il ruolo di chi collabora, ma significa guardarlo senza retorica in funzione dell’utilità per lo Stato. Chi non collabora dal canto suo, non può essere inappellabilmente tacciato di conservare legami criminali, anche ciò non vuol dire che la mancata collaborazione non possa suscitare sospetti che vanno dissipati attraverso un rigoroso e specifico scrutinio. Non è dunque un “liberi tutti”, ma, al contrario, il riconoscimento della necessità che siano adottate procedure, prima e dopo l’eventuale liberazione condizionale, volte ad accertare in concreto, con modalità severe e tranquillizzanti per la comunità, che il percorso di ravvedimento, malgrado la mancata collaborazione, possa dirsi effettivamente provato. Per questo sarebbe più che opportuno l’intervento del Parlamento. Perché la calibratura di queste misure implica scelte discrezionali importanti nell’equilibrio tra principi costituzionali come l’interesse alla sicurezza dei cittadini e quello alla rieducazione dei condannati. Piuttosto che esultare o rammaricarsi per la decisione, la politica dovrebbe adesso dimostrarsi all’altezza della sua responsabilità. Giovanni Guzzetta

Non sono boss di mafia, continuano a mandarli al 41 bis, ma la Consulta lo ha vietato. Lo ha detto in Antimafia il segretario Uilpa De Fazio e la Consulta nel 1997 ha ribadito che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 aprile 2021. Si ricorre troppo spesso al 41 bis, con il rischio di rinchiudere anche persone che dovrebbero stare in alta sicurezza. Il rischio? «Paradossalmente, inflazionando l’assegnazione ai predetti circuiti si finisca per immettervi soggetti estranei alla criminalità organizzata e che, da un lato, potrebbero essere da quest’ultima “arruolati”, dall’altro, sviliscano lo scopo di ridurre i contatti e le possibilità di comunicazione dei boss». A dirlo innanzi alla commissione nazionale Antimafia è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Ciò che ha osservato in commissione il segretario della Uilpa è di particolare rilievo. Il 41 bis, ricordiamo, nasce per rinchiudere i boss mafiosi, quelli che potenzialmente possono dare ordini all’esterno indirizzati al proprio gruppo di appartenenza. L’alta sicurezza, invece, è una sezione del carcere in cui sono riuniti tutti i condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga, etc.), che sono sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni. «Sempre più spesso, del resto, – ha osservato De Fazio in commissione – si ha la sensazione che si ricorra all’applicazione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario proprio perché l’Alta Sicurezza non offre sufficienti garanzie». Appare quindi che la magistratura abbia questo tipo di percezione e per questo ricorre sempre più spesso al 41 bis. Ma se così fosse, viene meno la ratio del carcere duro che non può essere dato con estrema facilità visto il suo carattere – almeno sulla carta – eccezionale. Eppure, l’alta sicurezza è un regime certamente non morbido. Il rapporto tematico redatto dal garante nazionale delle persone private della libertà, ci aiuta a capire di che cosa stiamo parlando. Si apprende che le sezioni del circuito di Alta sicurezza (As) sono state istituite con il «compito di gestire i detenuti e gli internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio interno, tre differenti sotto-circuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali». Esse sono definite con un Atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto-circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella citata circolare, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza”, da quel momento sostituito dal circuito dell’Alta sicurezza.

La Consulta, già nel 1997, ha chiarito che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati». Ciò che ha denunciato De Fazio, se fosse vero, è grave. Va contro alcune sentenze della Corte costituzionale. La Consulta, nella sua sentenza n. 376 del 1997, ha espressamente detto che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza». Poiché – afferma la Corte – «da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell’imputazione, ma sull’effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa; dall’altro lato, le restrizioni apportate rispetto all’ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza. Non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in base al titolo di reato, sottoposti a un regime differenziato: ma solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata, che l’amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di sorveglianza, in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività, e che per questa ragione sottopone – sempre motivatamente e col controllo giurisdizionale – a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero dall’applicazione del normale regime penitenziario».

Il dibattito sull'ergastolo ostativo. Gli italiani sono per la pena di morte, ecco perché. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Abbiate il coraggio di dirlo, se volete seppellire in un buco nero quel vecchio che un giorno fu ragazzo crudele. Se volete condannarlo alla morte sociale senza tenere in nessun conto il suo cambiamento, allora siete per la pena di morte. È così. In Italia c’è una parte della classe politica e della magistratura favorevole alla pena capitale. Non lo dicono, ma lo pensano. Vogliono eliminare dalla società civile coloro che hanno commesso gravi delitti o che comunque per reati di mafia o terrorismo siano stati condannati. Li vogliono togliere di mezzo, nasconderli dietro l’ergastolo ostativo e non vederli più, cancellarli, annientarli. Esprimono una forma di ferocia vendicativa, anche se ben nascosta, nel momento in cui negano alla persona l’esistenza come individuo e fanno coincidere il reo con il reato. Per questi soggetti – esponenti politici o pubblici ministeri che siano – non esistono il mafioso o il terrorista, ma solo la mafia e il terrorismo. Chiudendo le porte del carcere con il “fine pena mai”, hanno così chiuso la vita stessa del condannato. Mi ha colpito l’intervista (Sole 24 ore, 18 aprile) alla dottoressa Alessandra Dolci, coordinatrice della Dda di Milano da quando è andata in pensione Ilda Boccassini. Un magistrato che, ne sono certa, si considera di sicura fede democratica e contraria alla pena di morte. E anche, persino, a un eccessivo uso delle manette. Tanto da dire che «in un mondo ideale sarei pure d’accordo nel destinare il carcere solo a pochi criminali a elevatissimo tasso di pericolosità. Purtroppo però non viviamo in un mondo ideale». Anche perché, in un mondo “ideale”, o forse anche soltanto in una società liberale, dovrebbe essere soprattutto il concetto di prigione come unica forma di pena, a essere messa in discussione, prima ancora che il numero di persone da catturare. E tralasciamo una questioncina piccola piccola, che è quella del carcere preventivo, cioè quella custodia cautelare che riempie le carceri del 40% del totale dei detenuti e che è semplicemente una forma di pena anticipata, nei confronti di colpevoli e innocenti. Ma guardiamo alla qualità della detenzione. Non è ammissibile che magistrati ed esponenti politici ignorino due riforme essenziali dell’ordinamento penitenziario del passato, quella del 1975 e la Gozzini del 1986. Cui andrebbe aggiunta quella che ha cambiato radicalmente nel 1989 il codice di procedura penale. Stiamo parlando di cose del secolo scorso, certo. Ma se hai vinto un concorso per entrare in magistratura o se hai vinto le elezioni e sei entrato in Parlamento non puoi ignorarle. Proprio come siamo tutti obbligati, dal momento che abbiamo almeno il diploma della scuola dell’obbligo, a saper leggere scrivere e far di conto. Ma pare non essere così. È vero che nel corso degli anni nessun Parlamento ha avuto il coraggio di abolire l’ergastolo come era stata abolita (per due volte, dopo che il fascismo l’aveva ripristinata) la pena di morte, ma l’insieme delle riforme del secolo scorso l’aveva nei fatti reso inoffensivo, fissando allo scadere dei 26 anni di carcere il momento per poter chiedere l’accesso alla liberazione condizionale. E le mura dei penitenziari erano state rese valicabili anche dalle misure alternative. Questi importanti cambi di passo erano stati una vera rivoluzione copernicana, che metteva al centro il detenuto, prima del reato. Il “trattamento” è l’apriscatole per il percorso di cambiamento della persona. Il reato è lì, fermo e immutabile, fa parte della storia da cui non si può tornare indietro. Ma l’individuo cambia. Nel suo discorso programmatico alle Commissioni giustizia di Camera e Senato la ministra Marta Cartabia ha messo l’accento con particolare passione sulla necessità che nel processo penale entri la “giustizia riparativa”, punto di incontro tra chi ha rotto il patto con la comunità e chi ne è rimasto vittima. L’opposto del concetto di pena eterna, di carcere senza speranza. Un inno al cambiamento. Vorrei chiedere ai vari Salvini o Meloni (tralasciamo per un attimo la banda dei Cinquestelle) o Grasso, o ad altri di sinistra, piuttosto che alla dottoressa Dolci e a tutti i suoi colleghi “antimafia”, se riescono a volgere i propri occhi all’indietro per un attimo e a guardare se stessi come erano dieci o venti o trent’anni fa. Che cosa vedete, quale persona vedete rispetto a quel che siete oggi? Rispondete con sincerità e poi riflettete. Quando nel nostro ordinamento furono introdotti l’ergastolo ostativo e l’articolo 41-bis, erano appena stati ammazzati dalla mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il che determinò (cosa che non dovrebbe mai accadere) una reazione emotiva da parte del Parlamento e la conseguente approvazione di norme incostituzionali. Cosa che l’Alta Corte non ha mai fino a poco tempo fa voluto constatare. Ma i tanti piccoli passi cui ci sta conducendo oggi, insieme a una serie di sentenze della corte di cassazione, dovrebbero servire a far aprire gli occhi anche a chi finora non ha voluto vedere. Per esempio, quando vengono sbloccati il divieto di saluto tra detenuti, o l’impossibilità di tenere cibo o di leggere un giornale o di sottoporsi alla fisioterapia se si è gravemente malati, mi domando, quanti leader politici che straparlano di buttare la chiave, conoscevano l’esistenza di questi divieti vessatori? O c’è ancora qualcuno che pensa che il carcere speciale, o anche quello normale, siano hotel di lusso? La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte l’Italia per i suo trattamenti inumani e degradanti nelle carceri. Tra questi c’è il “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo. Oso dire che la gran parte dei detenuti al carcere a vita è profondamente cambiato. Non è l’intuizione di un’ottimista sognatrice, è la realtà scritta nero su bianco da decine e decine di operatori e volontari che ogni giorno si dedicano al “trattamento” dei detenuti. E anche da tanti giudici di sorveglianza, categoria di magistrati spesso sottovalutata. Vede, dottoressa Dolci ( e con lei i tanti suoi colleghi “antimafia”), quando lei dice “in assenza di elementi di collaborazione, come è possibile arrivare a dire con esattezza che il detenuto ha rescisso i legami con l’associazione criminale di provenienza?” è a questo mondo carcerario che dovrebbe chiedere. A persone che trattano con altre persone. Con quei detenuti che non sono la fotografia di quel che ciascuno di loro era alla data in cui hanno commesso il delitto, ma che sono i protagonisti di un film che si è evoluto nel corso del tempo. Se lei, se voi, guardate solo quell’immagine fissa, se volete seppellire in un buco nero quel vecchio che un giorno fu ragazzo crudele, allora dite chiaramente che volete la condanna a morte. Siate sinceri e ditelo, almeno.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il carcere come strumento di pressione. Ergastolo ostativo, la sentenza della Consulta infrange il teorema o pentito o mafioso. Alberto Cisterna su Il Riformista il 20 Aprile 2021. La decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo ha suscitato contrapposte prese di posizione, e prevale tra quanti si attendevano una decisione definitiva l’impressione che la Consulta abbia voluto guadagnare tempo e riservarsi l’ultima parola sul punto solo se costretta (chiare le parole di V. Zagrebelsky, “Se la Corte sceglie di non decidere”, su La Stampa del 16 aprile). Dar tempo al Legislatore, come insegna la vicenda Cappato, è in gran parte inutile in questo paese e l’ostinazione con cui la Corte applica un rigido self-restraint in casi come questo è il segno che anche questa partizione della Costituzione dovrebbe essere ampiamente rimaneggiata per conferire all’Alto consesso i poteri di intervento che la modernità e il consolidarsi di una legislazione multilivello (regionale, nazionale, europea, sovranazionale) esigerebbero ormai. Certo la presenza di un ministro della Giustizia di altissimo spessore induce, questa volta, a qualche speranza. Se non fosse che l’oculato e misurato comunicato stampa della Consulta evoca scenari tutt’altro che rassicuranti circa la possibilità di una reale riforma; soprattutto in presenza di una legislatura al suo secondo quadrante e con una maggioranza eterogenea e fortemente contrapposta sui temi della giustizia. Veniamo al pronunciamento della Corte, o meglio, all’anticipazione delle motivazioni a sostegno della dilazione temporale concessa al Parlamento (maggio 2022). Poche righe che, per un verso, hanno dato forza alle tesi abolizioniste e, per altro, hanno lasciato un barlume di speranza ai teorici dell’oltranzismo sanzionatorio. Una scelta, certo, non casuale che concede al legislatore poche opzioni sul versante dell’ergastolo ostativo, ma che gli lascia mano ampia sul crinale della collaborazione di giustizia. Il regime attuale è chiaro: se sei mafioso e non collabori non puoi accedere alla liberazione condizionale. Questo regime è, secondo il giudizio già anticipato dalla Corte, incostituzionale perché «…tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Punto e a capo. Sennonché la Consulta non si è limitata a questo rilievo sulla singola norma – con un contegno per così dire ortodosso e in linea con le sue funzioni – ma è andata oltre constatando che «… l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Ragione per cui si deve «consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Qui la questione si complica, e non di poco. Si prefigura una sorta horror vacui, ossia il timore che – rimuovendo il divieto per i condannati per mafia – si possa aprire una falla nell’intero sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Una valutazione di scenario certamente politica, anche se non irrituale nella giurisprudenza della Corte. Veniamo alla parole. Il tema della «peculiare natura» del delitto di mafia introduce argomenti e suggerisce riflessioni molto ampie che, in questa sede, possono essere solo menzionate. È chiaro che, negli ultimi tre decenni, si è costruito non solo un binario sanzionatorio, processuale e penitenziario alternativo a quello applicato ai reati ordinari, ma si sono anche poste le basi per una più profonda classificazione dei detenuti distinguendoli non sulla scorta della loro personalità, ma delle condotte di cui rispondono. Un approccio antropologico radicale ed esclusivo fondato su una sorta di teorema per cui il mafioso non si rieduca mai, almeno che non diventi un pentito. Secondo questo pensiero solo la collaborazione di giustizia può smentire la presunzione assoluta che avvinghia il condannato per mafia, poiché l’umanità del mafioso non è emendabile in alcun modo e ogni atteggiamento remissivo durante la sua detenzione è una mera finzione. Libri di basso conio, film, serie televisive, interviste, dichiarazioni di asseriti esperti hanno alimentato e sostenuto questa presunzione conseguendone la inevitabile implementazione normativa; proprio quel radicamento legislativo con cui le Corti nazionali ed europea sono ora chiamate a fare in conti tra mille dubbi e cautele. Per sviluppare un dibattito sul punto che coinvolge l’etica del legislatore, la sua capacità di costruire un sistema normativo scevro da suggestioni, campagne di stampa e connessi carrierismi, occorrerebbe trovare un punto di riflessione in comune. Punto di riflessione che, al momento, semplicemente non esiste. Talmente sedimentata è la convinzione che semel mafioso semper mafioso – ossia che la mafia sia innanzitutto una scelta esistenziale e interiore irretrattabile e non uno dei modi (neppure il più conveniente) per arricchirsi illecitamente – che in questa impostazione è impossibile ritenere che il carcere possa davvero emendare, correggere, purgare, risollevare. Solo se ti penti e collabori, solo allora lo Stato può fidarsi di te, perché compi una scelta incompatibile con il tuo status interiore, rinnegandolo. Uno stereotipo vetero-antropologico, ovviamente, ma ampiamente e agguerritamente sostenuto da un manipolo di agitatori più o meno interessati. Ecco la Corte, con le poche parole di quel comunicato, sembra voler infrangere definitivamente il muro di questo teorema e riportare al centro della discussione l’idea, democratica e costituzionale, che non si possono creare correlazioni tra pena e pentimento o generalizzazioni tra mafia e collaborazione di giustizia. Eppure il punto di crisi dell’assolutismo carcerario sarebbe abbastanza evidente: se la detenzione non corregge e non rieduca di per sé, ci si dovrebbe chiedere il pentimento così auspicato da quali pulsioni interiori deriva. Se il trattamento non aiuta l’emenda interiore, perché la delazione dovrebbe meritare una così decisa considerazione. In fondo sono, sono state quasi sempre, scelte di mero interesse. L’ergastolano collabora, quasi sempre, perché soffre la detenzione e la sua durezza. Ma questo cosa abbia a che vedere con la Costituzione e con la funzione rieducativa della pena, non è chiaro. Certo si può e si deve conservare l’importanza della collaborazione di giustizia in tema di mafia che, però, già l’ordinamento (dal 1991) favorisce e incoraggia. Impedire la concessione personalizzata e motivata dei benefici carcerari da parte del giudice di sorveglianza sino a quando non si collabori è un modo per ammettere che il carcere è uno strumento di pressione e di coercizione e non il luogo della rieducazione. Ecco chi sostiene le ragioni infrante dalla Corte costituzionale dovrebbe uscire dalla penombra dei giudizi morali e delle valutazioni antropologiche e dire la verità sul punto. Certo non guasterebbe prima aver letto qualcosa di serio e proveniente da ambienti scientifici non contaminati dal sospetto, a esempio Frederick Schauer, Di ogni erba un fascio. Generalizzazioni, profili, stereotipi nel mondo della giustizia, Cambrigde Mass., 2003, tra.it. 2008. Ma per troppi è chiedere troppo. Alberto Cisterna

Perché è anacronistico il “fine pena mai” nato durante l’emergenza mafiosa. Dopo la strage di Capaci è stato inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 aprile 2021. L’ ergastolo, pena perpetua, fu introdotto nell’ordinamento italiano con il Codice Zanardelli nel 1890 che, all’art. 12, prevedeva per i condannati a tale sanzione, la segregazione cellulare continua con obbligo di lavoro per i primi 7 anni, successivamente l’ammissione al lavoro insieme ad altri condannati, con obbligo del silenzio, pur sussistendo la misura della segregazione cellulare notturna. In seguito, con il Codice Rocco, venne riformata la disciplina dell’ ergastolo che fu spogliato del carattere intensamente afflittivo previsto dal precedente Codice mediante l’abolizione della segregazione cellulare continua. Prevedeva che i condannati scontassero la pena in uno stabilimento ad hoc, l’obbligo del lavoro, l’isolamento notturno e solo dopo l’espiazione di almeno 3 anni di pena l’accesso al lavoro all’aperto. Con la legge n. 1634/1962 venne introdotta una modifica mediante l’inclusione dei condannati all’ ergastolo tra i soggetti ammissibili alla liberazione condizionale, qualora avessero effettivamente scontato 28 anni di pena, in seguito ridotti a 26 anni con la legge n. 663/1986, nota come legge Gozzini. La stessa legge ha introdotto delle ipotesi in cui il detenuto potesse uscire temporaneamente dal carcere, tenuto conto dell’andamento del percorso rieducativo, per lo svolgimento di lavoro all’esterno e per permessi premio dopo aver espiato 10 anni di pena mentre, trascorsi 20 anni, poteva essere disposto l’accesso alla semilibertà. Sempre la Legge Gozzini ha ammesso che l’ergastolano che avesse dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione potesse fruire, come riconoscimento di detta partecipazione, di una detrazione di pena di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata con conseguente riduzione dei termini per l’ammissione ai benefici penitenziari.Ma poi arriva l’emergenza mafiosa che oggi non esiste più. I corleonesi trucidarono carabinieri, magistrati, gente comune, figli piccoli dei mafiosi per vendetta. Grazie a Falcone, nel 1991 il legislatore ha introdotto l’art. 4 bis, norma che detta la disciplina di accesso ai benefici penitenziari, con la quale si sono individuate due categorie di detenuti: quelli di prima fascia, condannati per delitti particolarmente gravi quali quelli di associazione di tipo mafioso, terrorismo ed eversione; quelli di seconda fascia, invece, rientravano gli autori di delitti che facevano presumere una minore pericolosità sociale del condannato, per i quali era richiesta l’assenza di elementi che facessero ritenere ancora sussistente il collegamento con la criminalità organizzata. Per entrambi le fasce, non c’era alcuna preclusione assoluta ai benefici penitenziari. A seguito della strage di Capaci, hanno inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. Venne fato in nome dell’emergenza stragista. Lo Stato vinse, l’emergenza finì, ma la legge è rimasta. C’è voluto l’intervento della Consulta affinché si ritorni sui binari dettati dalla Costituzione.

Trattazione rinviata a maggio 2022. Ergastolo ostativo, per la Consulta è incostituzionale: “Intervenga il Parlamento”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Aprile 2021. L’ergastolo ostativo è incostituzionale. Dovranno farsene una ragione i forcaioli e i manettari. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, riunita oggi in Camera di Consiglio, esaminando le questioni di legittimità sollevate dalla Corte di Cassazione sul regime applicabile ai condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia e di contesto mafioso che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. La Corte ha tuttavia stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022. La Consulta ha rilevato che “la vigente disciplina del cosiddetto Ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo“. Gli articoli 3 e 27 della Costituzione recitano, rispettivamente, che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” e “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo detta che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Perché allora la Corte ha deciso per rinviare tutto a maggio 2022? L’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata, secondo la Consulta. Una sollecitazione dunque al legislatore a intervenire, tenendo conto “sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. L’ordinanza sarà depositata nelle prossime settimane. Bicchiere mezzo vuoto per l’esponente del Partito Radicale e Presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. “Mi viene in mente la battuta sulla ragazza un po’ incinta. Se la norma è incostituzionale, allora la Corte Costituzionale avrebbe dovuto avere il coraggio di dirlo, non di aspettare un anno che il parlamento la rimuova e la renda costituzionale – ha detto ad AdnKronos – La Consulta si è comportata un po’ come ha fatto con la sentenza Cappato sull’eutanasia, però lì non c’era una legge, qui siamo in presenza di una norma esistente che produce i suoi effetti nefasti. Perché aspettare un anno? Se tu Consulta scopri la violazione di una norma della Costituzione, beh, c’è l’obbligo di rimuovere subito quella norma, non di aspettare un anno. E se poi il parlamento non legifera? La Consulta non ha avuto il coraggio di prendere una decisione”. Stato d’allerta invece sul fronte opposto: “perplessi” i parlamentari della del Movimento 5 Stelle della Commissione Antimafia; “per mafiosi e assassini l’ergastolo non si tocca, dicano quello che vogliono. E basta”, il tweet del senatore e segretario della Lega Matteo Salvini.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il Parlamento ha 12 mesi per legiferare. Ergastolo ostativo, le motivazioni della Consulta: collaborazione non può essere unica via per uscire dal carcere. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Dodici mesi di tempo, col giudizio rinviato al 10 maggio 2022 per una nuova discussione, così da garantire al legislatore tempo necessario per affrontare la materia. Quest’ultima, spinosissima, riguarda l’ergastolo ostativo, tema su cui deve intervenire il Parlamento cui spetta modificare l’aspetto della disciplina. A scriverlo è Nicolò Zanon, il giudice che ha redatto le motivazioni dell’ordinanza numero 97 della Corte Costituzionale depositata oggi, e anticipata in una nota lo scorso 15 aprile. La ‘palla’ passa dunque al Parlamento perché un intervento meramente “demolitorio” della Consulta potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio di tale disciplina, “compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa”, si legge nelle motivazioni. Secondo la Corte appartiene infatti alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale. Fra queste scelte “potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione”. L’intervento di modifica di questi essenziali aspetti deve essere, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa, la Corte ha concluso che “esigenze di collaborazione istituzionale” impongono di disporre il rinvio del giudizio in corso. 

LA CHIAVE DELLA COLLABORAZIONE – Attualmente per il condannato all’ergastolo ostativo l’unica strada per accedere al procedimento che potrebbe portarlo alla liberazione condizionale è quella della collaborazione con la giustizia, con l’accesso ad un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Ma secondo la Consulta “la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali”. Al beneficio della restituzione alla libertà possono accedere, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia. Ed è questo il punto chiave dell’ordinanza della Consulta, che spiega come “in base alla giurisprudenza costituzionale, è proprio l’effettiva possibilità di conseguire la libertà condizionale a rendere compatibile la pena perpetua con la Costituzione; se questa possibilità fosse preclusa in via assoluta, l’ergastolo sarebbe invece in contrasto con la finalità rieducativa della pena”, previsto dall’articolo 27 della Costituzione. L’attuale disciplina ostativa metterà però “in tensione” questo principio. Secondo la Consulta “da una parte eleva l’utile collaborazione con la giustizia a presupposto indefettibile per l’accesso alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico dell’ergastolano non collaborante, una presunzione assoluta di perdurante pericolosità. Assoluta appunto perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa, e che non consente in radice l’accesso a nessun beneficio”. L’incompatibilità con la Costituzione per i giudici della Corte “deriva dal carattere assoluto della presunzione, che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada a disposizione dell’ergastolano per accedere alla valutazione della magistratura di sorveglianza da cui dipende la sua restituzione alla libertà”. Altro punto chiave dell’ordinanza riguarda ancora una volta il fattore collaborazione dei detenuti: può essere dubbio, si legge nella motivazione, che questa “sia frutto di una scelta sempre libera”. Pur non essendo in discussione “il rilievo e l’utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale”, l’ordinanza sottolinea che l’attuale disciplina prefigura una sorta di “scambio” tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità di accedere ai benefici penitenziari. Per l’ergastolano ostativo che aspira alla libertà condizionale, questo scambio può assumere “una portata drammatica allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine”. “In casi limite – scrive la Corte – può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Ergastolo ostativo incostituzionale, ma decida il Parlamento. La Consulta non decide sulla liberazione condizionale, senza aver collaborato con la giustizia, per chi è detenuto all'ergastolo ostativo. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 aprile 2021. L’ergastolo ostativo è incostituzionale, ma ci dovrà pensare il Parlamento a varare una legge. La Corte costituzionale non decide sulle questioni di legittimità sollevate dalla Cassazione in merito all’ergastolo ostativo, in particolare a chi chiede l’accesso alla liberazione condizionale senza aver collaborato con la giustizia. A differenza della sentenza del 2019 che ha dichiarato incostituzionale la preclusione assoluta del permesso premio a chi non collabora, questa volta i giudici delle leggi hanno preferito attendere un intervento legislativo nel merito.

Per la Consulta la disciplina ostativa è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Cedu. Nel contempo, però, la Corte ha osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, sottolinea la Consulta, «l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Quindi, nonostante che le questioni sollevate trovino accoglimento, la Corte preferisce rinviare la trattazione a maggio 2022 per consentire al legislatore «gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Quello che appare, a differenza della decisione di un anno e mezzo fa, è la prevalenza della ragione politica sulla ragione giuridica. Dopo due settimane di attesa, alla fine la Consulta ha preferito dare un altro anno di tempo al Parlamento. Eppure, ricordiamo, c’è stata già una chiara condanna di quasi due anni fa da parte della Cedu proprio sulla preclusione assoluta della libertà condizionale per chi non collabora con la giustizia. Ma il Parlamento ha preferito non assumersi la responsabilità per adeguare la legge secondo l’indicazione dettata della Corte europea.

L’ergastolo ostativo impedisce di beneficiare della liberazione condizionale a meno che non si collabori. Ricordiamo di cosa si tratta. L’ergastolo ostativo, di cui all’art. 4 bis ordinamento penitenziario, impedisce al condannato in via definitiva per reati particolarmente gravi (tra i quali associazione mafiosa) di beneficiare della liberazione condizionale e degli altri istituti “premiali” penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, a meno che lo stesso – oltre ad avere buona condotta, partecipare a programmi di reinserimento, dare prova di resipiscenza – non collabori per prevenire la commissione di ulteriori reati ovvero facilitare l’accertamento e la identificazione degli autori di quelli già commessi, salvo che tale collaborazione non sia impossibile o inesigibile. La Corte Europea dei diritti dell’uomo si è occupata della tematica dell’ergastolo ostativo in riferimento al caso Viola contro Italia. Marcello Viola è stato un boss di ‘ndrangheta condannato all’ergastolo ostativo fin dagli anni 2000 che aveva presentato al Tribunale di sorveglianza, almeno in due occasioni la concessione di permessi premio, entrambi rigettati per la mancanza del requisito della collaborazione. Nel marzo 2015 il ricorrente chiedeva la concessione della liberazione condizionale, che veniva rigettata sia dal Tribunale di Sorveglianza che dalla Corte di Cassazione perché, secondo il Tribunale, la condizione specifica della cessazione dei vincoli con l’organizzazione di appartenenza si doveva necessariamente esprimere attraverso una attività di collaborazione con la giustizia; in particolare, la sentenza della Suprema Corte evidenziava l’irrilevanza della dichiarazione di innocenza del ricorrente, che avrebbe potuto essere valutata solo in sede di revisione. Nei sei mesi dal rigetto della condizionale, Viola ha proposto ricorso alla Corte europea lamentando plurime violazioni: violazione dell’art. 3 della Convenzione, in quanto l’ergastolo ostativo sarebbe pena non comprimibile, con violazione del principio di proporzionalità e del principio di reinserimento sociale; violazione dell’art. 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale in quanto la sola dichiarazione di inammissibilità dell’istanza ha impedito una vera valutazione del merito della stessa e per il mancato accesso a generiche “risultanze istruttorie” alle quali le pronunce interne avevano fatto riferimento; violazione dell’art. 5 par. 4 della Convenzione perché l’ordinamento interno non garantirebbe il ricorso finalizzato alla verifica delle condizioni procedurali e sostanziali di legittimità della misura restrittiva; violazione dell’art. 6 par. 2 in materia di presunzione di innocenza e del principio del nemo tenetur se detegere anche in fase esecutiva; violazione dell’art. 8 intesa come coercizione alla collaborazione di chi si proclama innocente, con esposizione a grave rischio del ricorrente e dei propri familiari.

Per la Cedu serve una riforma dell’ergastolo. La Corte Europea, esaminando la richiesta solo sotto l’aspetto dell’art 3, con sentenza del 13 giugno 2019 ha condannato l’Italia, specificando che l’ergastolo ostativo limita la prospettiva di un mutamento futuro dell’interessato e la possibilità di revisione della pena, in violazione dell’art. 3 Cedu: «La Corte considera che la pena perpetua alla quale è soggetto il ricorrente, in virtù dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ossia il cd. “ergastolo ostativo”, limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena. Pertanto, questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte rigetta in tal modo l’eccezione del governo, riguardante la qualificazione di vittima del ricorrente e conclude che in questo ambito le esigenze dell’articolo 3 della Convenzione non sono state rispettate». Ed ancora: «La natura della violazione accertata ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di attuare, di preferenza per iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo, che garantisca la possibilità di riesame della pena; cosa che permetterebbe alle autorità di determinare se, nel corso dell’esecuzione della pena, vi è stata una evoluzione del detenuto e se è progredito nel percorso di cambiamento, al punto che nessun motivo legittimo di ordine penologico giustifichi più la detenzione. Inoltre, la riforma deve garantire la possibilità per il condannato di beneficiare del diritto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili. La Corte, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione” dall’ambiente mafioso, considera che questa rottura possa esprimersi con strumenti diversi dalla collaborazione con la giustizia e dall’automatismo legislativo attualmente in vigore».Nonostante la condanna della Corte Europea sulla preclusione della libertà condizionale e la successiva sentenza della Consulta sul solo permesso premio, il Parlamento ha preferito non adeguarsi al dettato di diritto internazionale. Ricordiamo che i giudici delle leggi avrebbero dovuto trattare la questione di illegittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione per la libertà condizionale dell’ergastolano ostativo Francesco Pezzino. Ora se ne parla a maggio del 2022, in attesa che il Parlamento intervenga con una legge. Quindi, tra la condanna della Cedu e la trattazione della questione rinviata a maggio dell’anno prossimo, c’è il rischio che passino tre anni di limbo giuridico.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 16 aprile 2021. L'ergastolo ostativo, che impedisce ai condannati per reati moto gravi di ottenere i benefici di legge in caso di mancata collaborazione con la giustizia, è incompatibile con la Costituzione. Il varco si potrebbe aprire per criminali del calibro di Giovanni Riina, figlio del capo dei capi di Cosa Nostra, e tra qualche anno per Nadia Desdemona Lioce, esponente delle nuove Br e condannata per gli omicidi di Massimo D' Antona e Marco Biagi, e Giovanni Strangio, ndranghetista organizzatore ed esecutore della strage di Duisburg. Ma la Consulta non esaminerà la questione prima di maggio del 2022: i mafiosi, che abbiano scontato almeno 26 anni, non potranno chiedere sin da oggi di ottenere la libertà condizionale, perché il Parlamento dovrà prima fare una legge. La Corte, attraverso una nota, anticipa l' ordinanza che sarà depositata nelle prossime settimane. Rileva che la preclusione assoluta ai benefici, anche quando il ravvedimento risulti sicuro, è incostituzionale, ma sottolinea che la bocciatura, senza un intervento normativo, rischierebbe di pregiudicare e condizionare il contrasto alla criminalità organizzata. Per questo la Consulta dà un anno al Parlamento per una nuova legge, ma sembra chiaro che, se il legislatore non provvederà nei tempi previsti, la norma sarà cancellata.

INCOSTITUZIONALITÀ. Secondo i giudici, vincolare alla sola collaborazione, come unica via, il recupero della libertà contrasta con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l' articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell' uomo. Ossia il principio di eguaglianza tra tutti i cittadini, il divieto di pene disumane e il postulato che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Era stata la Cassazione a sollevare la questione di legittimità sul regime applicabile ai condannati all' ergastolo per reati di mafia, di contesto mafioso e di terrorismo, che non abbiano collaborato con la giustizia e chiedano l' accesso alla liberazione condizionale.

UN ANNO. «Tuttavia, l' accoglimento immediato delle questioni - si legge in una nota dell' ufficio stampa che anticipa l' ordinanza - rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell' attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». La Corte ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, «per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi».

MAFIOSI E TERRORISTI. Di fatto la questione riguarda per la maggior parte detenuti per reati di mafia. La legge, entrata in vigore, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, è stata estesa ai reati di terrorismo nel 2002, all' indomani dell' omicidio del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle nuove Br. L' ergastolo ostativo non riguarda quindi i condannati per stragi o agguati degli anni di piombo. Attualmente su circa 1.700 detenuti, che scontano in carcere l' ergastolo, sono 1.271 le persone che, per non avere collaborato, si vedono negare i benefici. Tutti condannati per reati particolarmente gravi, come i sequestri di persona a scopo di estorsione. Tra loro ci sono Giovanni Riina, figlio del capo dei capi di Costa Nostra e Leoluca Bagarella, finito in carcere nel 1995. Ma anche Michele Zagaria, capo clan dei Casalesi e Giovanni Strangio, affiliato alla ndrangheta e arrestato nel 2009. Dei pochi terroristi fanno invece parte Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma scontano una pena ostativa, proprio per l' omicidio Biagi e per quello dell' agente Emanuele Petri, ucciso nel 2003 al momento dell' arresto della Lioce. Ma per loro, che difficilmente chiederebbero di accedere ai benefici, non sono maturi neanche i tempi.

LA POLEMICA. La questione, però, divide già la maggioranza di governo. «Per mafiosi e assassini l' ergastolo non si tocca», attacca il leader della Lega Matteo Salvini. In trincea anche i parlamentari M5S della commissioni Antimafia e Giustizia (nessun «passo indietro» sull' ergastolo ostativo, chiedono). Mentre il Pd apprezza la «scelta saggia» della Consulta di dar tempo al Parlamento di intervenire, già compiuta in due altre occasioni, sul suicidio assistito cioè sul caso del Dj Fabo, e sul carcere per i giornalisti condannati per diffamazione. Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni, si augura che il legislatore intervenga «presto» ma «in modo da non pregiudicare l' efficacia di una normativa antimafia costata la vita a tanti uomini delle istituzioni». Per Antigone invece «l' incostituzionalità è accertata e non si potrà tornare indietro». La decisione critica della Consulta sull' ergastolo ostativo non giunge però inaspettata: anche in due pareri resi dall' ufficio legislativo del ministero della Giustizia, quando ancora a guidarlo era Alfonso Bonafede, si evidenziavano le «notevoli possibilità» che la questione di costituzionalità fosse accolta.

La decisione e le reazioni. Perché l’ergastolo ostativo è incostituzionale, la decisione della Consulta. Angela Stella su Il Riformista il 16 Aprile 2021. L’ergastolo ostativo è incompatibile con la Costituzione, ma serve una legge che il Parlamento emani entro un anno: così ieri la Corte Costituzionale chiamata a valutare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario in riferimento agli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione e all’articolo 3 della Convenzione edu. La Corte, come spiega una nota, «ha anzitutto rilevato che la vigente disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo preclude in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro. Ha quindi osservato che tale disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Tuttavia – prosegue – «l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Per questo i giudici costituzionali hanno stabilito «di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». A sollevare il dubbio di legittimità era stata la Cassazione sul caso di Salvatore Pezzino, il cui legale Giovanna Araniti dice: «sicuramente è positivo che abbiano dichiarato l’incostituzionalità in maniera chiara, spezzando l’equazione tra collaborazione e ravvedimento. Ora spetterà alla politica fornire le regole su come operare in futuro. Spiegherò tutto al mio assistito che, tra detenzione effettiva e riduzione di pena a titolo di liberazione anticipata, aveva fin qui espiato oltre 27 anni di carcere con un percorso rieducativo esemplare. Si tratta di una norma incostituzionale che incide sulla libertà personale delle persone: mi auguro quindi che la politica non aspetti fino a maggio 2022 per ripristinare lo Stato di Diritto. Attendiamo comunque le motivazioni». Per Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza e Presidente di Magistratura democratica: «il dato più importante è il fatto che la Corte ha messo nero su bianco che la disciplina dell’ergastolo ostativo è in contrasto sia con la Costituzione che con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di una conquista importante perché segna sulla carta la fine dell’ergastolo ostativo. Ci sono altri due elementi significativi. Primo: si è stabilito che il ravvedimento di un mafioso può risultare sicuro anche quando non abbia utilmente collaborato con la giustizia. Secondo: rispetto a quanto auspicato da alcuni commentatori, l’Italia non può essere un’isola in Europa; oltre al rispetto della Costituzione siamo chiamati a rispettare anche la Convenzione europea, come richiesto dalla sentenza Viola. Ora la politica non ricostruisca il meccanismo in altre forme». Per Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino, « il fatto rilevante è che la Corte Costituzionale ha considerato l’ergastolo ostativo contrario alla Costituzione italiana e alla Convenzione edu. La parola è rimessa ora al Parlamento. La sfida è chiara: è stato stabilito un luogo e un tempo per trovare un compromesso impossibile tra una questione di diritto in linea di principio già risolta – l’ergastolo ostativo è incostituzionale! – e una questione di politica criminale – il contrasto alla criminalità organizzata – che i professionisti della lotta alla mafia vorrebbero risolvere ‘more solito’ con la terribilità di leggi speciali e misure di emergenza, pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi». Secondo Gianpaolo Catanzariti, co-responsabile Osservatorio carcere Ucpi, «la decisione è diversa da quella Cappato sul fine vita: qua la norma esiste ed è incompatibile con la Costituzione e con la Cedu. Affermare che una decisione di incostituzionalità possa compromettere il contrasto alle mafie fa paura. È la certificazione che dinanzi ad un delitto particolare, quello mafioso, si possa sospendere la Costituzione e lo Stato di diritto e non va bene». L’associazione Antigone, intervenuta con un amicus curiae, promette: «lavoreremo incessantemente affinché il legislatore superi gli automatismi preclusivi alla reintegrazione in società. Il percorso individuale va sempre esaminato caso per caso dal magistrato». Per quanto concerne la politica: per Salvini «l’ergastolo non si tocca»; la sentenza «lascia perplessi» i parlamentari M5S della commissione Antimafia, mentre il Pd con Ceccanti, Bazoli e Mirabelli chiede che il Parlamento dia seguito alla decisione della Consulta. Per il come occorre attendere le motivazioni. Una maggioranza alquanto disunita. Angela Stella

Ergastolo ostativo, Meloni contro la Consulta che vuole abolirlo: «Oltraggio alle vittime della mafia». Redazione venerdì 16 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Una «sentenza scandalosa». Non usa mezzi termini Giorgia Meloni per commentare la decisione della Consulta che ha definito l’ergastolo ostativo «incompatibile con la Costituzione». Un giudizio innescato da una questione di legittimità sollevate dalla Cassazione sul regime applicabile ai condannati all’ergastolo per reati di mafia che non abbiano collaborato con la giustizia e che chiedano l’accesso alla liberazione condizionale. La disciplina in vigore (ancora per poco, alla luce dell’ordinanza, che sarà depositata nelle prossime settimane) esclude in maniera categorica che un boss mafioso che non abbia collaborato con la giustizia possa richiedere la liberazione condizionale. E questo anche quando il suo ravvedimento risulta sicuro. Sembrerebbe una norma di buon senso. Per la Consulta, invece, «è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». E questo perché fa della collaborazione «l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà». Com’è tipico delle cose italiane, dopo l’acceleratore arriva subito il colpetto di freno. «Tuttavia – si legge infatti nella nota dell’Ufficio stampa – l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Ma tu guarda… «La Corte – prosegue la nota – ha perciò stabilito di rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022». Da qui l’esigenza di mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa. Toccherà dunque al Parlamento armonizzare il contrasto alla criminalità organizzata con la «necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Un coacervo di buone intenzioni che finirà solo per indebolire la lotta alla Piovra. Nel frattempo, il fronte politico è già in ebollizione. «Fratelli d’Italia – ha aggiunto la Meloni – lavorerà fin da subito in Parlamento per scongiurare che questa norma sia considerata incompatibile con il nostro ordinamento. Mi auguro che tutte le forze politiche siano al nostro fianco per impedire questo oltraggio senza precedenti alle vittime di mafia. E ai tanti servitori dello Stato caduti nella guerra alla criminalità organizzata».

Ergastolo ostativo, Meloni chiama a raccolta. Ma risponde il Pd: «Basta propaganda». Si apre lo scontro Pd-FdI. La senatrice dem Rossomando: «È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra». Il Dubbio il 18 aprile 2021. «Fratelli d’Italia rivolge un appello a tutte le forze politiche: difendiamo insieme la legittimità dell’ergastolo ostativo, una norma sacrosanta e fondamentale per combattere la criminalità organizzata. Siamo già al lavoro per presentare una proposta di legge, senza escludere la possibilità di una modifica costituzionale, per mantenere intatto uno dei pilastri della normativa antimafia, da sempre combattuto e osteggiato dai boss. Il Parlamento deve parlare con una voce sola e condurre unito questa battaglia di legalità e civiltà». A lanciare l’appello è la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, dopo la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato «illegittimo» l’ergastolo ostativo e ha dato dato tempo un anno al Parlamento per legiferare. «Non possiamo cedere e consegnare alla mafia la vittoria su quella che da sempre considera la madre di tutte le battaglie che consentirebbe ai peggiori boss di usufruire di diversi benefici penitenziari o di uscire di prigione. Sarebbe la resa totale dello Stato», ha aggiunto Meloni. «Le forze politiche raccolgano l’appello di Giorgia Meloni affinché l’ergastolo ostativo non sia cancellato dal nostro Ordinamento», scrivono in una nota il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato e componente della Commissione Antimafia, Luca Ciriani, il capogruppo di FdI in Commissione Antimafia, Antonio Iannone e il segretario della Commissione Antimafia, Wanda Ferro, deputato di FdI. «La recente decisione della Consulta impone al Parlamento di intervenire ma questo va fatto rispettando quei tantissimi servitori dello Stato che hanno sacrificato la loro vita nella lotta alla mafia. Infatti, l’ergastolo ostativo è un baluardo nell’azione di contrasto alla mafia, uno strumento decisivo nelle mani dei magistrati e adesso sarebbe assurdo e inaccettabile che questo fosse messo da parte. Senza considerare che rappresenterebbe un pessimo segnale, se non di resa ma senza dubbio di minore intensità, nell’azione di contrasto alla mafia. Una mafia, e i recenti arresti lo confermano, che continua ad essere una minaccia per la nostra Nazione. Per questo non si può rimanere a guardare, l’istituto dell’ergastolo ostativo va sostenuto e difeso nella sua legittimità», concludono i deputati di FdI. «È più forte di loro, provare a cambiare le tutele costituzionali sembra un chiodo fisso della destra. Su ergastolo ostativo assicuriamo a Giorgia Meloni che il Parlamento sarà in grado di difendere la legalità ma coerentemente con i principi costituzionali», replica su Twitter la senatrice Pd e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando. «La proposta della Meloni è irricevibile. Per noi non devono essere contrapposti il rispetto dei principi costituzionali e la lotta alla mafia», aggiunge il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori dem e capogruppo del Pd nella Commissione Antimafia. «La stessa Corte Costituzionale invita il Parlamento a pensare a una nuova norma, che escluda la possibilità per i mafiosi condannati di tornare ad avere rapporti con le organizzazioni criminali, senza violare i principi costituzionali sulle finalità delle pene. È possibile farlo e il Parlamento deve impegnarsi per questo», scrive Mirabelli. «Meloni – conclude il senatore – preferisce fare propaganda e addirittura prefigurare pericolose modifiche costituzionali, ma non è così che troveremo le soluzioni per continuare a combattere le mafie». «Quando la Corte Costituzionale accerta l’illegittimità del carcere ostativo e la ministra della Giustizia riconduce alla Costituzione i principi di giustizia e brevità della funzione giurisdizionale, i tempi sono maturi per fare un passo avanti verso una società orizzontale in cui lo Stato garantisce diritti, doveri e libertà di tutti», scrivono invece Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, segretario e tesoriera di Radicali Italiani. «A chi, spesso fregiandosi del tricolore, rivendica il fine pena mai e l’assoggettabilità a indagini e processi sempiterni, rispondiamo con i principi che da sempre fanno parte del nostro patrimonio costituzionale. È arrivato il momento di rompere gli indugi e rendere vivi quei principi. Lo Stato che uccide di carcere colpisce una persona diversa da quella che ha commesso un reato e quindi è anch’esso un omicida. Lo Stato che non si preoccupa di conformare l’amministrazione della giustizia al concetto di giustizia tratta i suoi cittadini da sudditi. Uno Stato così deve essere cambiato. Bisogna farlo oggi in un momento in cui gli equilibri sociali sono tanto instabili. È necessario edificare sui valori di una società più giusta in cui chi nessuno è perduto per sempre e la divisione tra buoni e cattivi è una semplificazione irresponsabile che prima o poi colpisce tutti. Siamo con Cartabia se avrà il coraggio di andare fino in fondo», concludono i Radicali.

Risorto l’asse giallo-verde. L’ergastolo ostativo riunisce Salvini e 5 Stelle. La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Lega e Movimento 5 Stelle tornano a marciare insieme contro la modifica della norma. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 18 aprile 2021. La Consulta spacca la maggioranza e ridisegna la geografia delle alleanze. Almeno su un tema, quello dell’ergastolo ostativo, su cui la Corte costituzionale ha concesso al Parlamento un anno di tempo per rimettere mano alle norme in vigore, considerate incostituzionali. E così, nel governo di tutti e di nessuno i partiti si posizionano liberamente sull’argomento in base alle proprie sensibilità: sull’ergastolo ostativo non c’è ragionamento di opportunità politica che tenga. L’alleanza tra Pd e M5S, ad esempio, può anche andare in malora, la differenza tra dem e grillini su argomenti legati alla giustizia è troppo profonda per essere colmata in pochi mesi: convinti della necessità di assecondare la Corte i primi, mossi dalla fede nella pena severa i secondi. Così, potere della Consulta, risbocciano all’improvviso vecchi amori che il rancore sembrava aver sepolto, come quello tra Lega e Movimento, i coniugi del primo governo Conte finiti a scagliarsi l’argenteria addosso dopo il “tradimento” del Papeete. L’ergastolo ostativo potrebbe ridistendere gli animi. O così sembra ad ascoltare il punto di vista intransigente dei vecchi alleati. Anche se con sfumature e toni diversi, salviniani e contiani si schierano sulla stessa parte della barricata: l’ergastolo ostativo non si tocca. «La nostra legislazione antimafia è la migliore al mondo, ed è stata scritta con il contributo di persone che hanno sacrificato la loro vita per servire il Paese», dice l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, prima di annunciare: «Subito dopo il deposito delle motivazioni della decisione della Corte costituzionale, il Movimento cinque stelle presenterà una proposta di legge per proteggere e salvaguardare quell’impianto normativo che ha consentito di fare passi avanti enormi nella lotta alle mafie». Bonafede è sicuro che in Parlamento il M5S riuscirà a trovare ampia convergenza sulla proposta pentastellata «in quanto la battaglia contro la criminalità organizzata di stampo mafioso è patrimonio comune a tutte le forze politiche». L’ampia convergenza auspicata dall’ex Guardasigilli, al momento si esaurisce però alle forze della destra. E neanche tutta, visto che Forza Italia esprime una posizione molto diversa dagli alleati. Salvini in compenso è perentorio: «Per mafiosi e assassini l’ergastolo non si toca, dicano quello che vogliono. E basta», twitta senza giri di parole il leader della Lega. La Corte costituzionale, in altre parole, può dire ciò che vuole, con chi non collabora bisogna buttare la chiave, è il messaggio neanche troppo velato dei sostenitori della galera fino alla morte. «Le indicazioni della Consulta vanno tenute nel doveroso conto ma con altrettanta chiarezza va riaffermato che la lotta senza quartiere a mafie e criminalità organizzate non può tradire incertezze o passi indietro», scrivono in una nota i parlamentari in commissione Antimafia del Carroccio. «Chi sceglie la via dell’illegalità e non sente alcuna necessità di pentimento, non può vedersi riconosciuti benefici», aggiungono, assicurando il contributo della Lega per rispondere alla Consulta, senza però mettere in discussione le proprie convinzioni: nessuno «spazio o ambiguità verso chi delinque impunemente». Parole che sembrano rubate di bocca ai colleghi del Movimento impegnati in commissione Giustizia alla Camera, che a loro volta scrivono: «L’unico modo che il mafioso ha per ravvedersi è collaborare con la giustizia». Dare invece «la possibilità di accedere a benefici penitenziari e liberazione condizionale, in assenza di collaborazione, significa indebolire principi e capisaldi nella lotta alle mafie voluti, tra gli altri, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino». L’intransigenza pentastellata si scontra però con l’atteggiamento “laico” del Pd, convinto che non si possano ignorare le indicazioni della Corte costituzionale su un tema così delicato. «Il Parlamento non può rimanere ostaggio di chi pensa di dovere affrontare una questione così delicata con frasi superficiali del tipo “l’ergastolo non si tocca” o “la sentenza è una vergoga”», dice il deputato dem Carmelo Miceli, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia. Bisogna invece trovare il «giusto bilanciamento tra la funzione emendativa della pena e l’aspettativa di giustizia delle vittime, tra la tutela del principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e la necessità di interrompere la pericolosità sociale che deriva dal carattere permanente del vincolo associativo mafioso», aggiunge Miceli. Tutto questo si può fare, concluce l’esponente Pd, «basta avere il coraggio e la determinazione di affrontare il dibattito senza cedere alla demagogia spicciola e al populismo sconsiderato».

Il dibattito. Caro Caselli, quel doppio binario ci porta dritti allo stato di eccezione. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 19 Novembre 2020.

1. Giunge inatteso il dibattito sulle criticità del 41-bis avviato dal procuratore Henry J. Woodcock sulle pagine del Fatto Quotidiano (6 novembre). Così inatteso – per firma, tema e tribuna – da strappare un plauso ai direttori del Foglio (7 novembre) e di questo giornale (10 novembre). Come insegna il vangelo, «oportet ut scandala eveniant», specialmente quando squarciano il velo dell’apparenza rivelando la realtà delle cose. È questo il caso, grazie anche ai successivi interventi dell’ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli (8 novembre) e del pm Luca Tescaroli (13 novembre), ospitati sul quotidiano di Marco Travaglio.

2. Woodcock sospetta che il 41-bis sia un regime punitivo inteso a fabbricare pentiti. Lo nega invece Tescaroli: la ratio dell’istituto è tutelare la collettività, interrompendo le comunicazioni con l’esterno di capimafia finalmente dietro le sbarre. Che cosa prevede il 41-bis? «La facoltà di sospendere, in tutto o in parte», e solo temporaneamente, talune regole del trattamento penitenziario, all’unico fine di «impedire i collegamenti» tra il dentro e il fuori. È davvero così? Verifichiamolo empiricamente. Accade di rado, ma accade che un tribunale di sorveglianza revochi a un detenuto il regime del 41-bis. La notizia non passa mai inosservata: la stampa amplifica lo sconcerto dell’opinione pubblica, alimentato da sponde parlamentari e sdegnate arene televisive. Eppure, se il magistrato ha così deciso è perché ha verificato, nel caso concreto, che non ricorrono più i presupposti per l’applicazione del regime speciale: cioè che il cordone ombelicale tra quel detenuto e il sodalizio criminale esterno è stato reciso. Il 41-bis ha, dunque, raggiunto il suo fine (dichiarato). Il magistrato si trova, così, nel tritacarne mediatico avendo semplicemente applicato la legge per ciò che essa espressamente prevede. È un paradosso che scaturisce, svelandola, da una premessa normativa fasulla. Simili grida, infatti, rivelano l’autentico fine del 41-bis: indurre alla collaborazione con la giustizia o punire chi non collabora, attraverso un regime aspramente afflittivo mascherato da misura di prevenzione.

3. Questa (mal)celata finalità emerge anche dalla difficoltà di ottenere la revoca del 41-bis in modo diverso dalla collaborazione. Il regime speciale ha durata pari a quattro anni, prorogabile per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. A giustificarlo è la circostanza che «vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti» tra l’associazione criminale e il detenuto. Spetta a lui dimostrare il contrario, ma come? Per legge, il mero decorso del tempo – lustri, se non decenni, trascorsi isolati in “carcere duro” – non costituisce, di per sé, elemento sufficiente. Gli indizi su cui può fare leva il ministro di Giustizia nel disporre la proroga (dal profilo criminale del reo al suo ruolo apicale, dal tenore di vita dei familiari alla perdurante operatività dell’associazione a delinquere) sono vere e proprie presunzioni legali. Finisce così per gravare sul detenuto la pretesa dimostrazione dell’inesistenza di suoi legami con l’esterno. Una prova negativa, dunque. Ma la prova negativa di qualcosa che non esiste appartiene alla sfera della teologia, non del diritto processuale. Si spiega così la serialità stereotipata dei rinnovi del regime speciale, giustificati con un inespugnabile condizionale: «potrebbe ancora…». Si può dire anche così (cfr. Commissione Antimafia, 9 luglio 2002): «Le motivazioni delle proroghe appartengono a quella categoria di cose che si firmano previa bendatura degli occhi»; l’opposizione a tali proroghe «è quasi una probatio diabolica»; «l’inversione dell’onere della prova è una questione sempre molto borderline, se non oltre il borderline». Così si esprimeva l’allora sottosegretario alla Giustizia, e già membro del pool palermitano antimafia, Giuseppe Ayala, alla vigilia della legge n. 279 del 2002 che stabilizzerà nell’ordinamento il 41-bis, trasformandolo da misura emergenziale a strumento ordinario di politica criminale. Gli oltre 600 detenuti in 41-bis (e gli oltre 1.000 pentiti sottoposti a speciale regime di protezione) sono lì a dimostrarlo: su ciò, Woodcock ha ragione.

4. Dal dato normativo, invece, Caselli prescinde del tutto. Ad esso antepone convinzioni maturate «sul campo» della lotta alla mafia, espresse con parole di rara ferocia nella loro inappellabilità: pentimento «significa solo confessione» e «confessione significa delazione», poiché l’affiliazione mafiosa «può cessare solo col pentimento/confessione o con la morte». Testuale. Il presupposto di tale ragionamento è che per i membri della criminalità organizzata non è possibile alcuna prospettiva di recupero, perché è un dato storicamente e culturalmente certo che mafiosi non si diventa per scelta: mafiosi si nasce. Da qui la «regola» – conclamata anche da Tescaroli – per cui da Cosa nostra non si può uscire «se non con la morte o il tradimento». È un argomento ontologico che riveste assunti sociologici da verità fattuali incontrovertibili. Soprattutto, evita di fare i conti con la Costituzione secondo cui nessuno è mai perso per sempre: parlando di risocializzazione del «condannato», infatti, il 3° comma dell’art. 27 usa deliberatamente la forma singolare. Perché l’esecuzione penale riguarda singole persone, e non organizzazioni criminali. Perché – come si legge nella sent. n. 148/2019 della Corte costituzionale – «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento». Da giuristi, Caselli e Tescaroli non possono ignorare il principio costituzionale «della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» (così, ancora la sent. n. 148/2019).

5. Conosco l’obiezione: davanti a mostruose biografie criminali, l’orizzonte di una risocializzazione è colpevolmente irenico. Anche in questi casi, però, resta fermo il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità: è un limite negativo che il regime differenziato del 41-bis travalica? Lo adombra Woodcock, cui Caselli contrappone l’alternativa di un progressivo ritorno al passato, quando in carcere comandavano i mafiosi, giustificando una modulazione della detenzione sulla caratura criminale del reo: «in breve, il 41-bis “punisce” la maggior pericolosità dei mafiosi irriducibili». Senonché, a dispetto della sua denominazione gergale, il “carcere duro” non è – né può diventare – una pena ulteriore, di specie diversa, più afflittiva delle altre, neutralizzatrice, riservata a determinati detenuti. Qui il dato normativo recupera tutta la sua cogenza: le misure penitenziarie legittimate dal 41-bis devono essere finalizzate all’unico scopo di interrompere la catena di comando tra chi è in galera e chi è fuori. Diversamente, la misura applicata è illegittima perché «puramente afflittiva» (sent. n. 351/1996 della Corte costituzionale). Che così debba essere lo ammette persino Tescaroli («il 41-bis non è una ulteriore pena afflittiva»), denunciando il problema della carenza di spazi detentivi «rispondenti a esigenze di umanità, idonei ad assicurare l’isolamento effettivo». Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra, sottaciuta, è l’applicazione di uno stillicidio di misure – dettagliate da severissime circolari ministeriali – che vanno a comporre un trattamento degradante per la dignità di detenuti i quali, ancorché irredimibili, restano esseri umani. È questa la preoccupazione che percorre, come un filo conduttore, le principali indagini sul regime del 41-bis: la relazione della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani nella scorsa legislatura, il report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura all’indomani della visita in Italia nel marzo 2019, il rapporto del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, reso noto nel febbraio 2019 dopo aver visitato tutte le sezioni per detenuti in 41-bis. Non si spiegano altrimenti le numerose questioni di costituzionalità promosse dalla magistratura di sorveglianza sul 41-bis, come pure le non poche pronunce contro l’Italia della Corte europea dei diritti umani, pronunciate in relazione a specifiche applicazioni del regime speciale.

6. L’art. 41-bis esprime, de jure e de facto, la tendenza normativa a configurare i detenuti per “tipi di autore”, individuati sulla base del titolo astratto del reato commesso, e per i quali opera di default un regime ad hoc (processuale, penitenziario, premiale, giurisdizionale). Nei loro confronti il momento dell’esecuzione penale, invece di guardare (come dovrebbe) a un futuro possibile, risponde a esigenze investigative e di difesa sociale. Costi quel che costi. Magistrati di grande esperienza e preparazione, la cui biografia fa tutt’uno con il rispetto sacrale della legalità, dovrebbero ben sapere che questo “doppio binario” rischia di condurre, progressivamente, sul binario morto dello stato d’eccezione e del diritto penale del nemico, cui non vanno riconosciuti né diritti né garanzie. Chi teme questa deriva, ritiene che il contrasto alla criminalità organizzata non debba essere impermeabile alle regole e ai limiti imposti dal costituzionalismo, italiano ed europeo. Perché non è vero che il fine giustifica i mezzi. È semmai vero il contrario: in una democrazia costituzionale, sono i mezzi a prefigurare i fini. Ecco perché certi mezzi sono fatti oggetto di divieto assoluto e incondizionato, anche in caso di «pericolo pubblico che minacci la vita della nazione» (art. 15 CEDU). Il divieto di trattamenti inumani e degradanti è esattamente uno di questi.

7. Il dibattito è destinato ad allargarsi: il 24 marzo 2021, infatti, è calendarizzata a Palazzo della Consulta la quaestio sul divieto di concessione della liberazione condizionale all’ergastolano non collaborante, condannato per un reato associativo incluso nella blacklist dell’art. 4-bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario. Se ne è già parlato su queste pagine (Il Riformista, 9 luglio). L’augurio è che si sviluppi una discussione laica e razionale. Non una fatwa pronunciata da chi esibisce al petto lo stemma dell’antimafia contro chi non lo sarebbe abbastanza. Se tanto mi dà tanto, temo non andrà così. Accetto scommesse. Andrea Pugiotto

«Sull’ergastolo ostativo scelta inedita: il giudice delle leggi si è spinto oltre i limiti, più che sul fine vita». Intervista al presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick a proposito della decisione della Consulta sulla legittimità costituzionale dell'ergastolo ostativo. Errico Novi su Il Dubbio il 16 aprile 2021. «Guardi, mi trovo in una duplice difficoltà, di fronte alla scelta compiuta dalla Corte costituzionale. Da una parte la Corte dichiara l’incostituzionalità della norma che, per gli ergastolani ostativi, consente la liberazione condizionale solo se collaborano, ma lo dichiara senza perfezionare la decisione perché ritiene che il Parlamento debba predisporre una legge ordinaria in modo da non compromettere contrasto alla mafia e premialità per chi si pente. E già qui si tratta di una pronuncia senza precedenti, solo in parte assimilabile alla decisione sul fine vita. Dall’altra parte, è veramente problematico commentare non un’ordinanza ma un comunicato stampa. Che per forza di cose deve essere sintetico. E che dunque non può soddisfare tutti gli interrogativi né eliminare alcune perplessità». Giovanni Maria Flick è schietto nell’esprimere una valutazione non del tutto entusiastica della notizia venuta da Palazzo della Consulta. L’ergastolo ostativo senza possibilità di liberazione, neppure di fronte alla certezza del ravvedimento, è giudicato chiaramente illegittimo, eppure la Corte ritiene di non poter rendere, almeno per un anno, efficace tale pronuncia prima che il legislatore abbia preparato una pista d’atterraggio sicura.

È una sentenza inedita?

È solo in parte assimilabile alla scelta con cui nell’ottobre 2018 la Corte concesse un anno di tempo al Parlamento per disciplinare il fine vita. Scelta che, vista l’inerzia legislativa, fu seguita dalla declaratoria di parziale illegittimità arrivata esattamente un anno dopo. C’è l’analogia del termine imposto al legislatore ma, come chiarì definitivamente la sentenza del 2019, in quel caso la pur complessa opzione era legata alla necessità di dichiarare non punibile l’aiuto al suicidio in determinati casi senza negare, nello stesso tempo, la tutela di soggetti più deboli in generale. Allora si disse che la Corte si era spinta un po’ oltre i propri confini. Nella decisione appena sintetizzata dal comunicato, sembra si vada ancora un po’ più oltre. Soprattutto perché viene indicato un necessario intervento per legge ordinaria, un precauzionale argine normativo a possibili ricadute sulla lotta alla mafia e sulle collaborazioni. Sembra si vada al di là del perimetro che la Costituzione alla Consulta.

La valutazione della Corte sui necessari interventi per legge ordinaria complica le cose?

Può complicarle nella misura in cui non sappiamo cosa accade se il Parlamento, come avvenne per il fine vita, resta inerte. Dato che la Corte ritiene necessario preservare sia ogni forma di contrasto della criminalità sia l’efficacia dei meccanismi premiali per chi collabora, quale sarà la strada percorribile se il Parlamento non dovesse piantare quei paletti?

Se negare il diritto alla liberazione condizionale è illegittimo, vuol dire che la Corte, nel riconoscere tale illegittimità, accetta anche che quel diritto resti sospeso per un altro anno ancora: è così?

È una delle ragioni che mi inducono a dirmi perplesso. Una norma o è incostituzionale o non lo è. Oltretutto, dal comunicato la Corte sembra chiarissima nell’indicare quali principi sono violati: l’articolo 3 della Costituzione, dunque l’uguaglianza e la ragionevolezza, e l’articolo 27, secondo cui fine della pena deve essere rieducativo ed esiste perciò un diritto alla speranza per qualsiasi condannato. Subordinare la liberazione condizionale ad unico presupposto immodificabile, salvo eccezioni, vale a dire la collaborazione, è inoltre, secondo la Corte, in contrasto con l’articolo 3 della Convenzione europea. Eppure, di fronte a una illegittimità cosi chiara e cosi chiaramente affermata, non si perfeziona la decisione. O almeno così sembra. Parliamo pur sempre di un comunicato stampa, non di un’ordinanza.

Qualora un ergastolano ostativo che non si è pentito, ma del quale il giudice abbia già apprezzato l’effettivo e sicuro ravvedimento, nell’attesa che il legislatore eventualmente introduca le precauzioni invocate dovesse morire, ci troveremmo di fronte a una persona che non ha potuto beneficiare di un diritto nonostante la stessa Corte ne avesse accertato l’intangibilità. Come la mettiamo?

È una situazione che non piace. Nelle poche parole che inevitabilmente la Corte poteva affidare a un comunicato, si ricorda come detto la necessità di non compromettere gli effetti premiali della collaborazione. Il che è giustissimo. Si inserisce esattamente nel discorso già proposto dalla Corte stessa secondo cui è necessario premiare chi collabora, ma non è possibile punire chi non collabora. Ripeto, oltre a tutte le conseguenze problematiche che possono derivare da un regime di sospensione, da una pronuncia che congela gli effetti di quanto afferma, c’è quell’interrogativo molto pratico: cosa avviene se il Parlamento non agisce, o se ribadisce la propria contrarietà all’abolizione o alla modifica dell’ergastolo? Ne sapremo di più, forse, quando leggeremo l’ordinanza. La sospensione è tanto più problematica se si pensa alla rilevanza del pregiudizio di cui si discute. Come è stato più volte detto in passato, l’ergastolo è da considerarsi una “pena di morte” civile. E in quanto tale, nella sua definizione, è una pena in contrasto con la Carta. Non lo è nella sua attuazione soltanto perché la liberazione condizionale fa in modo che quella morte civile, a determinate condizioni, possa essere scongiurata. L’ostatività è un’eccezione evidentemente non sopportabile. La Corte lo dice con estrema chiarezza. Sul merito, la valutazione della Consulta è coerente con i principi appena richiamati. Solo che la Corte fa un passo in più e almeno per un anno non se ne avranno conseguenze. Non c’è una contraddizione in tutto questo? La Corte è chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi, non sul loro inserimento in modo adeguato nel sistema di contrasto alla criminalità.

Presidente, la Corte legittima lo stato d’eccezione di fronte ai reati di mafia?

No, per la chiarezza sopra ricordata con cui afferma che è incostituzionale subordinare alla collaborazione la liberazione condizionale dell’ergastolano ostativo. Non vedo un pericolo di sdoganamento dello stato d’eccezione. Casomai c’è un ulteriore piccolo passo oltre i confini della Consulta quando si parla di compatibilità con il quadro delle leggi ordinarie in materia. È del tutto inconsueto. La Corte non può entrare nel campo d’azione del legislatore.

Già la maggioranza è divisa, sulla giustizia. Adesso il quadro sarà ancora più complicato, anche per la guardasigilli Cartabia.

Non riesco a immaginare uno sconvolgimento politico considerato anche il tempo ormai breve che separa il Parlamento dalla fine della legislatura. Ma a me le valutazioni politiche non interessano e soprattutto non competono. Sta di fatto che con la decisione appena comunicata, la Corte costituzionale ha compiuto un passo inedito, perché nel passato ha più volte ripetuto i cosiddetti moniti al legislatore, ma non li ha collegati a una affermazione esplicita di incostituzionalità nei casi in cui ha ritenuto inammissibile la domanda che le si rivolgeva, ancorché fondata nel merito.

E' una pena di morte sociale. Ergastolo ostativo, la Consulta decide di non decidere e 1.750 detenuti finiscono in un buco nero. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Aprile 2021. L’ergastolo ostativo, cioè l’unica forma vera di carcere a vita esistente nel nostro ordinamento, è sicuramente in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, oltre che con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo afferma senza ombra di dubbio la Corte Costituzionale, riunita ieri per decidere su stimolo della cassazione. Un’incostituzionalità palese di cui sono convinti i giudici dell’Alta Corte e quelli della Corte suprema, cioè i vertici massimi della giustizia. Ne sono convinti però non emettono una sentenza, ma rimbalzano al Parlamento, dando un anno di tempo per decidere di sbloccare con una legge la situazione di 1.750 detenuti che stanno scontando nel frattempo la pena di morte sociale. Cacciati come sono in fondo a un buco nero da cui non possono uscire, benché abbiano spesso scontato la pena massima, se non si trasformano in “pentiti”. Non pentiti nel senso letterale, cioè prigionieri di quel moto dell’animo che induce a prendere le distanze da un comportamento del passato, ma delatori sui comportamenti altrui. Succede così che molti di questi detenuti non siano in grado di raccontare niente di nuovo al magistrato, magari perché sono innocenti (capita persino questo) o perché degli episodi di cui sono stati protagonisti gli inquirenti sanno già tutto, o semplicemente perché nel percorso di cambiamento che hanno vissuto in tanti anni di carcere non rientrano la delazione e magari la calunnia. Ma ai magistrati pare non interessare molto dei progressi fatti dal detenuto attraverso il famoso “trattamento” individuale in carcere, vogliono solo la collaborazione processuale. E questo benché la storia di qualche decennio, da Contorno a Scarantino, mostri quanto poco attendibili siano spesso i famosi “pentiti”. Ma il problema è che chi non collabora è sempre considerato mafioso, tutta la vita, anche quando il cambiamento lo ha dimostrato giorno dopo giorno. Il punto è che, come ha ben ricordato nei giorni scorsi Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, è proprio il concetto stesso di ergastolo, cioè di pena a vita, a essere contrario ai principi costituzionali. È vero che ci sono state due importanti riforme, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, quella del 1975 e la legge Gozzini del 1986, che avevano demolito il principio del “fine pena mai”, aprendo numerosi spiragli su permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, liberazione anticipata e libertà condizionale, prevista per tutti i detenuti che avessero scontato 26 anni di pena. L’introduzione del “trattamento penitenziario” con al centro la personalità e il progetto di cambiamento del detenuto condannato (riforma del 1975), e la conquista delle misure alternative al carcere (legge Gozzini), avevano portato l’Italia a un clima culturale di grande civiltà giuridica. Dopo essersi liberato per la seconda volta dopo il fascismo della pena di morte (che nell’ordinamento militare rimase però fino al 1994), il nostro Paese eliminava nei fatti anche la condanna alla morte sociale. Consentendo a chiunque avesse spezzato il patto con la comunità, di attuare in seguito un percorso diverso, con la speranza di poter ricostruire il patto sociale. Saranno poi l’aggressione feroce della mafia e in particolare l’assassinio di Giovanni Falcone (e subito dopo quello di Paolo Borsellino) a far perdere il lume della ragione e i principi dello stato di diritto a governi imbelli ormai agli sgoccioli della prima repubblica. L’ergastolo ostativo, insieme all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, l’inversione dell’onere della prova sulla persistenza dei rapporti tra il detenuto e la criminalità organizzata, nascono di lì. Non dalla mente di Falcone, ma dopo la morte del magistrato. La legge numero 306 del 1992 ebbe un’accelerazione improvvisa dopo il 19 luglio, quando la mafia fece saltare in aria l’auto di Paolo Borsellino. Sono passati trent’anni, e almeno se ne discute. Ma ci saremmo aspettati più coraggio dalla Corte Costituzionale. Si tratta di sanare un’ingiustizia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Ergastolo ostativo, Consulta: incompatibile con la Costituzione. Cambiare è possibile? Le iene News il 16 aprile 2021. La Corte costituzionale ha deciso che l’ergastolo ostativo, ossia il regime carcerario durissimo destinato a terroristi e mafiosi che nega una serie di benefici carcerari, è incompatibile con la Costituzione. Il Parlamento ha un anno per modificare la legge. Il nostro Antonino Monteleone aveva incontrato Carmelo Musumeci, il primo condannato all’ergastolo ostativo. L'ergastolo ostativo è "incompatibile" con la Costituzione italiana. A stabilirlo è stata la Corte costituzionale, secondo cui la pena è in contrasto con i principi di uguaglianza e di funzione rieducativa della pena, dettati dagli articoli 3 e 27 della Costituzione, e con il divieto di pene degradanti sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani. L’ergastolo ostativo è quella forma particolare di ergastolo che nega una serie di benefici penitenziari, come ad esempio il lavoro all'esterno, i permessi premio, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale. È stato introdotto nel nostro ordinamento all’inizio degli anni ’90 per combattere lo stragismo mafioso. È riservato a pochissimi casi di reati particolarmente gravi. La Corte costituzionale in particolare ha bocciato la disciplina che "preclude in modo assoluto", per chi è condannato all'ergastolo per delitti di mafia e "non abbia utilmente collaborato con la giustizia la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”. La Consulta non ha comunque immediatamente accolto la questione di legittimità, perché “rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Insomma, la norma per adesso rimane in vigore ma il Parlamento ha un anno di tempo per intervenire e sanare l’incompatibilità rilevata dalla Corte. Del tema dell’ergastolo ostativo noi de Le Iene ci siamo occupati con Antonino Monteleone. La Iena nel 2019, all’indomani di un pronunciamento analogo della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha incontrato Carmelo Musumeci, criminale siciliano classe 1955, il primo a cui è stato applicato l’ergastolo ostativo: condannato per vari reati tra cui omicidio. La fine della sua pena è prevista il 31 dicembre 9999: tra 7.978 anni. Condannato all’ergastolo, mentre è in isolamento decide di studiare e diventa scrittore. Oggi ha una voce su Wikipedia, dove viene descritto come “scrittore e criminale”. Prima scrittore, poi criminale. “Sono entrato in carcere con la quinta elementare, ora ho tre lauree”, racconta con orgoglio. Da quando si è istruito, ha fatto parlare molto di se e in tanti gli hanno offerto sostegno. Dopo 27 anni ha ottenuto la libertà condizionale con una sentenza storica del tribunale di Perugia e vive in un convento dove fa volontariato. 

Il dibattito sul fine pena mai. Giancarlo Caselli sbaglia, l’ergastolo ostativo non è da Paese civile. Riccardo Polidoro su Il Riformista l'8 Aprile 2021. L’attesa per la decisione della Corte Costituzionale sulla legittimità dell’ergastolo ostativo ha indotto i media a occuparsi del cosiddetto “fine pena mai”, vigente nel nostro Paese nonostante sia stata abolita la pena di morte e la stessa condanna a vita. L’istituto “estraneo”, per chi non lo conoscesse, consente di tenere ristretta in carcere una persona per sempre, senza alcuna speranza che un giorno possa uscire. Unica possibilità è collaborare con la Giustizia, augurandosi che si abbia qualcosa da riferire. Ove ciò non avvenga, non vi è più alcun futuro se non quello di “marcire”, fino alla morte, in uno stato detentivo privato di qualsiasi prospettiva di rieducazione. È la più macroscopica eccezione ai principi a cui dovrebbe essere informato il nostro sistema penitenziario, così come descritto nell’Ordinamento e nella stessa Costituzione. In questi giorni leggiamo, pertanto, i pareri di chi vorrebbe la sua eliminazione e di chi, invece, propende per la sua permanenza in nome di una difesa dello Stato dall’attacco mafioso. Dovrebbe essere una contesa in punto di diritto, ma spesso si vola basso e ci si chiede cosa sia più utile alla comunità, dimenticando che della collettività fanno parte anche le persone destinatarie dell’atroce misura: autori di altrettanto atroci delitti, ma puniti dall’Autorità giudiziaria, in nome di una legge “del taglione” che non fa onore a uno Stato civile. Tra i difensori dell’ergastolo ostativo vi è Giancarlo Caselli che, sulle pagine del Corriere della Sera, ha spiegato che «non c’è alcun motivo di smantellare quel che funziona» perché «la mafia è viva e vegeta». A chi legge non può sfuggire l’evidente contraddizione di quanto affermato. L’istituto, inserito nella nostra legislazione nel 1992, quindi circa 30 anni fa, «funziona», ma la mafia è ancora «viva e vegeta». Se l’ergastolo ostativo fosse un veleno – e in parte lo è – chiunque se ne sarebbe già liberato, non producendo alcun effetto concreto.  Il magistrato afferma poi che se è vero che la Corte europea dei diritti dell’uomo «ha già demolito l’ergastolo ostativo con una sentenza del 2019», non è detto che la Consulta «debba – sempre e comunque – prestare incondizionato ossequio alla giustizia Europea»: una sorprendente dichiarazione che ci fa pensare ai sostenitori dell’Italexit che vogliono liberare il nostro Paese dalla “gabbia” dell’Unione europea. In tal caso, l’obiettivo sarebbe lasciare “in gabbia” a vita i condannati per alcuni delitti. Insomma, usciamo dall’Europa, ovvero ci restiamo a intermittenza, solo un po’, quando ci conviene. Non vi è dubbio che la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta rappresentino il nemico da combattere, ma siamo certi che la strada seguita, non indicata dalla Costituzione ma da una legislazione emergenziale divenuta poi definitiva, sia quella giusta? Può uno Stato essere in continua emergenza? Oppure ha il dovere di praticare altre strade? È meglio sospendere il trattamento o intensificarlo verso coloro che si sono macchiati di gravi delitti? Giova davvero annientare la personalità del detenuto, quale deterrente per altri a non seguire la stessa strada? E non è questa una modalità del tutto contraria ai principi della nostra Costituzione e a quelli che ispirarono il legislatore del 1975 quando emanò l’Ordinamento penitenziario? Oggi sono più di 1.750 i detenuti condannati all’ergastolo in tutta Italia. In Campania sono 69. Le statistiche ci dicono che, in tutti questi anni, i numeri sono in costante aumento. Dato, quest’ultimo, che deve ancora di più far riflettere: la strada intrapresa è quella sbagliata. Sono altre le modalità per sconfiggere – davvero e definitivamente – la criminalità organizzata ai membri della quale quale vanno tolte le etichette, dal sapore “vintage”, di «mafiosi», «camorristi» e «‘ndranghetisti» in un mondo in cui tutto è globale, compresa la delinquenza. Contrariamente a quanto sostenuto da Giancarlo Caselli, non abbiamo l’esclusiva della malavita di alto livello, ben conosciuta anche in altri Paesi, che la combattono con altri mezzi. Occorre uno Stato sociale che possa intervenire sui territori, mentre la Giustizia dovrà fare la sua parte superando finalmente la legislazione dell’emergenza, dimenticando qualsiasi istinto vendicativo e garantendo sempre e dovunque la legalità, anche nella condanna per i delitti più atroci. I dibattiti – forse inopportuni alla vigilia di un’importante decisione della Corte Costituzionale – proseguiranno anche dopo l’esito tanto atteso. Non ci saranno vinti né vincitori, ma sempre e solo una strada da seguire: quella indicata, sin dal 1948, da coloro che abolirono la pena di morte e che certamente non volevano una pena fino alla morte.

Il 41bis nega la vita. L’ergastolo ostativo educa il detenuto a morire. Domenico Bilotti su Il Riformista l'8 Aprile 2021. Ho sempre avvertito una certa difficoltà a spiegare agli studenti il meccanismo dell’ostatività. È una difficoltà che avvertono direttamente loro, senza la mediazione di alcuna sovrastruttura mentale. Per afferrare la nozione di ergastolo ostativo devi dare per acquisiti quattro precedenti passaggi logici che tutto sono fuorché logici, quattro forzature che rendono l’ergastolo ostativo un vestito troppo stretto o troppo largo secondo dove lo tiri. Bisogna innanzitutto ammettere che in un sistema costituzionale come quello italiano, fondato sull’umanità della pena e sulla sua funzione rieducativa, possano esistere pene perpetue. E cosa sarebbe allora questa rieducazione? Formazione permanente e continuativa all’evento di morire? Se la mia educazione è nel rapporto con l’altro, solo in me stesso vita natural durante, a cosa mi sto educando? Alla misura di una bara. Seconda forzatura che accettiamo solo per convenzione, e non per ragione. Essere detenuti non significa, o non dovrebbe significare, finire in cella con la chiave seppellita in un fosso. Se da detenuto scompaio al tuo sguardo, non scompaio come persona: che sia colpevole o innocente. In ogni momento posso interrogare un giudice (ne ho diritto) e in ogni momento un giudice avrà da rispondermi (ne ha dovere). Potrei star male e non essere più in grado di sopportare la detenzione; potrei accedere a un sistema meno rigoroso perché sto rigando dritto e ho voglia di lavorare, anche in modo gratuito o semigratuito, per impegnarmi. Potrei dopo molto tempo pensare addirittura di meritare la scarcerazione, certo dovendo far verificare che non mi dedicherò al crimine e dovendo far ritorno in prigione se invece riprenderò a delinquere. Al detenuto ostativo non viene applicato questo elementare principio democratico: non può chiedere al giudice che dovrebbe valutare come sta eseguendo la pena di arrivare a nuove condizioni, di accedere a un diverso trattamento, di far esaminare se quel trattamento può (o deve!) cambiare. Terza stranezza: noi parliamo di “ergastolo ostativo”. Pensiamo a un “fine pena mai” per reati gravissimi, che non può essere alleggerito per ragioni né di spazio, né di tempo, né di condotta. E già ci suona illogico per tutte le considerazioni che abbiamo già fatto. Eppure ormai l’ostatività si applica per una serie di ipotesi di reato che non riguardano solo mafiosi e serial killer (in Italia gli uni e gli altri sono assai meno di quello che siamo soliti pensare). L’ostatività sta diventando una struttura della pena, un’illusione comoda: questo detenuto ostativo non potrà “chiedere” nulla. Lo mettiamo in cella: vada come vada; se uscirà, vedremo. In carcere non importa se continuerà a pianificare affari illeciti, soffrirà o vorrà davvero cambiare vita. Nessuno, chiusi i cancelli e lette le sentenze definitive, potrà mai più esaminare cosa gli stia accadendo. Tutti indistintamente tutti ingabbiati alla stessa maniera. Infine, ultima medaglia della contraddizione suprema. Noi spieghiamo alle ragazze e ai ragazzi che seguono i nostri corsi che gli ostativi non accedono ai “benefici”. Usiamo un termine equivoco. A volte qualcuno crede che i benefici siano la liberazione, l’impunità, la latitanza, i biglietti della lotteria o il pernottamento nei resort. Cose che abbiamo visto fare al più ad alcuni parlamentari della Repubblica, e nemmeno sempre. Il mondo è pieno di lavatrici che funzionano male e di rubinetti che perdono e saponi che stingono: non per questo possiamo rinunciare a lavare i vestiti… Comunque, questi famosi “benefici” non sono né scorciatoie né villaggi vacanze: sono ore di fatica mal retribuita, ritorni in carcere ad orario (guai a sbagliare!), periodi di intervallo tra pezzi di pena e pezzi di processo. L’ostativo non è qualcuno cui impediamo di giocare al lotto: è qualcuno cui impediamo di vivere e rivivere (anche quando è un ostativo che non ha ucciso nessuno). Gli studenti si sbalordiscono. Chiedono se abolire l’ergastolo ostativo o l’ergastolo in quanto tale farà tornare in vita boss di mafia sepolti da decenni -si deve insegnare di più e più approfonditamente la storia della mafia; chiedono se significa liberare qualcuno che non lo meriterebbe. E allora bisogna dire che abolire l’ergastolo, in special modo quello ostativo, non significa affatto liberare chicchessia. Significa semmai vivere in uno Stato sereno e maturo che concede la seconda opportunità non perché sia stupido, ma perché sa proteggere tutti i cittadini: quelli che dopo anni o decenni di detenzione non torneranno a guidare clan veri e presunti e potranno dimostrare di essere e fare altro; quelli che quel male hanno subito e mai più dovranno subire. Se torturi chi ha sbagliato per prima, non impedisci a nessuno di fare anche molto, molto, peggio dopo. Se tratti il peggiore, il peggiore per eccellenza, con civiltà… hai un’opportunità irripetibile. La civiltà che dici di avere, puoi metterla in campo. Gliela puoi insegnare.

Altro che Guantanamo, in Italia 759 persone seppellite al 41 bis: il report infernale. Claudio Paterniti Martello su il Riformista il 12 Marzo 2021. Nelle carceri italiane ci sono oggi 759 prigionieri in regime di 41 bis, cioè di carcere duro. Pensate che nel momento di massimo allarme antiterrorismo, mentre erano in corso le guerre di Iraq e di Afghanistan, e Bush aveva scelto la linea dura, repressiva – condannata da moltissimi governi e da tutte le organizzazioni di difesa dei diritti umani – nella famigerata Guantanamo, carcere duro per eccellenza, erano stati rinchiusi, secondo le stime più sfavorevoli, circa 500 detenuti sospettati di terrorismo internazionale. Il 41 bis è un regime carcerario, italiano, sicuramente in contrasto con la Costituzione e con le norme internazionali, previsto allo scopo di impedire ai capi della mafia (o ai sospetti) di comunicare con l’esterno. Per ottenere questo risultato, molto spesso, si impedisce ai detenuti al 41 bis di vestirsi come vogliono, e di cucinare i propri cibi, di leggere quel che gli interessa, di avere alcun contatto fisico coi propri familiari, di parlare con altri detenuti o con altre persone umane, escluse le guardie carcerarie. Domanda: possibile che i capimafia siano addirittura 759? Se lo è chiesto persino un esponente politico del Pd molto moderato come Franco Mirabelli. Chissà se gli daranno qualche risposta. Del resto è stata proprio la ministra Cartabia che l’altra sera, parlando a un convegno internazionale, ha invocato il rispetto delle norme scritte nelle cosiddette “Mandela Rules”, che proibiscono il 41 bis per una durata superiore ai 15 giorni (oggi il 41 bis dura un numero imprecisato di anni: anche più di 20). Questi dati sul 41 bis vengono dal rapporto annuale dell’associazione Antigone sulla situazione nelle carceri. Dal rapporto risulta anche che ci sono in prigione 851 persone sopra i 70 anni (la legge prevede che possano essere mandate a casa) 500 in più rispetto al 2005. Nel 2005 forse la criminalità era meno pericolosa? No, oggi è molto meno pericolosa. Gli omicidi sono scesi sotto la soglia dei 300 all’anno, (erano più di 2000 alla fi ne del secolo scorso), tutti in costante diminuzione tranne i femminicidi. Anche gli ergastolani sono in aumento, 1784 (500 più del 2005). Ci sono 9000 persone nelle celle di massima sicurezza. I suicidi sono in aumento (61: circa 10 volte sopra la media nazionale). Il XVII rapporto di Antigone arriva a un anno esatto dall’inizio della pandemia. Racconta un sistema penitenziario sovraffollato, che al 28 febbraio ospitava 53.697 detenuti a fronte di 50.931 posti disponibili (di cui 4.000 in realtà sono inagibili, e dunque chiusi). Il tasso di affollamento è del 115%. Gli istituti in cui è più alto sono Taranto (196,4%), Brescia (191,9%), Lodi (184,4%) e Lucca (182,3%). La popolazione detenuta è comunque in calo rispetto a 12 mesi fa, quando i detenuti erano 7.533 in più. Un calo dovuto più all’attivismo della magistratura di sorveglianza (che ha concesso più misure alternative) che agli interventi del legislatore. Ma non basta: siamo in piena pandemia, servono più spazi, e servono adesso. I dati dicono che in carcere è più facile contrarre il Covid. A febbraio i detenuti positivi erano in media 91 ogni 10.000. Fuori erano 68,3. Non è vero dunque che il carcere è un posto sicuro. I morti per Covid sono stati 18 tra i detenuti e 10 tra gli agenti. Per fortuna la campagna vaccinale è partita in diverse regioni (Friuli, Abruzzo, Sicilia, Calabria, Emilia Romagna, Marche), e nelle altre sta per iniziare. Al 10 marzo erano stati vaccinati 1005 detenuti. L’anno trascorso è stato durissimo, per la paura del contagio e per il vuoto in cui è trascorso. Lo testimonia il più tragico fra i dati, quello sui suicidi, che è il più alto degli ultimi 20 anni. Nel 2020 si sono tolte la vita 61 persone. Avevano un’età media di 39,6 anni. 8 avevano tra i 20 e i 25 anni. In carcere ci si ammazza 10 volte di più che all’esterno. E lo testimonia anche il numero di atti di autolesionismo: 24 ogni 100 persone detenute. Un dato che è più alto negli istituti più sovraffollati. Sono ben 19.040 detenuti i detenuti a cui restano da scontare meno di 3 anni, e che dunque avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative (tranne quelli a cui il reato preclude questa possibilità). Se solo la metà di loro uscisse il problema del sovraffollamento sarebbe risolto. La popolazione detenuta è composta per il 32,5% da stranieri. Nel 2009 erano 6.700 in più e rappresentavano il 37,5% del totale. Si assiste dunque a un calo. Gli stranieri sono il 3,5% dei detenuti per reati legati all’associazione di stampo mafioso e ben il 34,5% dei detenuti per violazione della legge sulle droghe. È chiaro che si tratta dell’anello debole della catena criminale. Debole e discriminato, in quanto subisce più degli italiani la custodia cautelare e beneficia meno delle opportunità di reinserimento. Solo il 18% delle persone in carico agli uffici per l’esecuzione penale esterna era composto da stranieri (che dunque accedono meno alle misure alternative). Il carcere è un luogo di poveri. Le regioni che forniscono più detenuti sono la Calabria (19,2 ogni 10.000 residenti), la Campania (15,7), la Sicilia (14) e la Puglia (11). Poveri e con basso tasso di istruzione: solo un detenuto su 10 ha un diploma. Uno degli aspetti più tragici di quest’anno penitenziario è stato dato dall’assenza della scuola. Che è la più importante delle attività, in quanto occupa un detenuto su 3 per 4-5 ore al giorno. Da febbraio a giugno 2020 è stato fornito solo il 4% delle ore previste. A gennaio 2021 invece, quando la scuola di fuori si era bene o male organizzata, in metà degli istituti non si faceva scuola in presenza. E tra questi solo in 1 su 4 si faceva didattica a distanza. Conseguenza anche del divario tecnologico che separa il carcere dalla società libera, per colmare il quale sarebbe bene usare i fondi del Recovery Fund. Fondi con i quali va rinnovato il sistema penitenziario, investendo di più sul personale, e non costruendo nuove carceri. Se la politica non ha il coraggio di adottare misure deflazionistiche serie è anche per la sovrarappresentazione nell’immaginario legato al carcere dei detenuti affiliati alla criminalità organizzata. Che in realtà sono solo un quinto della popolazione detenuta (9.000 in Alta Sicurezza e poco meno di 1.000 quelli al 41-bis). Da tempo diciamo che bisogna agire sul fronte della depenalizzazione. Un detenuto su 3 è in carcere per reati legati alle droghe. E il carcere costa: per la precisione il 35% del bilancio della Giustizia. Ogni detenuto costa in media 143 euro al giorno. Mentre una persona in misura alternativa ne costa 12, e ha tassi di recidiva di gran lunga più bassi. Il carcere non è un grande investimento. Sarebbe l’ora di guardare altrove.

Ha creato il “pentitificio” e il regime di tortura del 41-bis. Ergastolo ostativo, ecco perché Falcone non l’avrebbe mai voluto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Sarà prima di Pasqua o sarà dopo Pasqua, ma una cosa è certa. Che l’ergastolo ostativo, quello del “fine pena mai” debba essere dichiarato incostituzionale. E che i tempi sono ormai maturi perché si spazzi via l’intera legge voluta nel 1992 dal governo Andreotti dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, quella destinata a creare il “pentitificio” e anche il regime di tortura del 41-bis. Quella normativa che il giudice assassinato, contrariamente a quanto affermano oggi i magistrati “antimafia”, non avrebbe mai voluto. All’interno della legge che aveva creato l’ergastolo ostativo del “fine pena mai” e che nasceva da un decreto dei ministri Scotti (interno) e Martelli (giustizia), oltre alla modifica dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, c’era anche la nascita del 41-bis, quello che creava il carcere impermeabile e che isolava una serie di detenuti dal resto del mondo trasformandoli in uomini-ombra. La morte di Falcone non solo aveva creato un grande lutto nel Paese, ma aveva letteralmente fatto saltare i nervi a un governo ormai agli sgoccioli insieme alla Prima Repubblica, incapace di catturare i principali boss di Cosa Nostra, tutti ancora latitanti, ma anche di attenersi a quelle basi dello stato di diritto cui il magistrato assassinato si era sempre ispirato. A coloro, dal consigliere del Csm Nino Di Matteo fino al leader della Lega Matteo Salvini, che minacciano “giù le mani dal 4-bis di Falcone” occorre un breve ripasso. Il provvedimento del magistrato non ha mai legato l’accesso ai benefici previsti dalla riforma del 1975 al “pentimento” del detenuto, ma semplicemente alla necessità che fossero acquisiti elementi per escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Non c’erano quindi criteri oggettivi e neppure l’inversione dell’onere della prova. Era compito del giudice di sorveglianza accertare la mancanza di rapporti tra il mafioso in carcere e l’organizzazione esterna. Filosofia opposta quella del decreto Scotti-Martelli dell’8 giugno 1992, che attribuiva al detenuto il compito di dimostrare, solo e soltanto attraverso la collaborazione con i pubblici ministeri, di non essere più organico alle cosche. Va ricordato che quel decreto aveva suscitato non solo l’immediato sciopero degli avvocati, ma anche la ferma opposizione in Parlamento di tutta la sinistra, quando ancora era in gran parte garantista. Dalla parte del governo si schierò poi, in un certo senso, proprio la mafia, che il 19 luglio fece saltare in aria l’auto di Paolo Borsellino. Vinsero loro, e fecero crollare lo Stato di diritto e gli ultimi barlumi di civiltà giuridica. Così la legge fu votata. Sono passati quasi trent’anni. E si deve arrivare al 2019 perché la Corte Costituzionale presieduta da Giorgio Lattanzi e di cui era componente anche Marta Cartabia, cominci a mettere lo sguardo, anche fisicamente, dentro le carceri e scopra l’esistenza degli uomini-ombra del 41-bis, quelli che non possono neanche scambiare tra loro una mela o un libro. E a notare che anche persone in carcere da trent’anni, quindi oltre il limite previsto dal codice per aprire le porte anche agli ergastolani, non potevano godere neppure di brevi permessi-premio. Nasce così la sentenza numero 253 che, se pur su un tema limitato, scavalca le legge del 1992 e ritorna ai principi del provvedimento di Falcone, riaffidando ai giudici di sorveglianza il dovere di verificare caso per caso se il detenuto merita di andare in permesso. Quasi in contemporanea, il 13 giugno del 2019, una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia (processo Viola) per l’incompatibilità tra l’ergastolo ostativo e l’articolo 3 della Convenzione. La strada è aperta. Si arriva così alla sentenza della corte di cassazione su un caso specifico, quello del detenuto Salvatore Francesco Pezzino, che più volte aveva avanzato richieste di libertà condizionale denunciando la propria impossibilità a collaborare con i magistrati. La cassazione prende di mira finalmente l’incostituzionalità dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, proprio perché con i suoi automatismi impedisce al giudice la verifica sul comportamento e la possibilità di reinserimento. Concetti cui si è allineato due giorni fa l’Avvocato generale dello Stato, cioè il rappresentante del Governo, che non è più il governo Conte con il ministro Bonafede, ma quello di Draghi e Cartabia. Cui chiediamo di dare un’occhiata anche agli uomini ombra del 41-bis, quell’articolo dell’Ordinamento penitenziario che la Direzione nazionale antimafia, nella sua relazione annuale di un mese fa, ha chiesto venga “potenziato” e “mai attenuato”. Un buon motivo per riformarlo, o magari abolirlo. Ricordando che le emergenze del 2021 non sono proprio le stesse del 1992.

Caro Caselli, l’ergastolo ostativo era dettato dall’emergenza delle stragi mafiose del ’92. L'ergastolo ostativo venne adottato sull’onda delle emozioni e dell’allarme sociale suscitato dalla morte di Giovanni Falcone. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 marzo 2021. Alcuni magistrati antimafia sono ancora rimasti fermi ai primi anni 90. Eppure, lo stragismo della mafia corleonese è stato sconfitto quasi 30 anni fa con il sacrificio dei giudici trucidati dal tritolo e di tutti quei carabinieri e poliziotti uccisi perché davano la caccia ai boss corleonesi e messo mano ai loro affari miliardari. L’ergastolo ostativo, in particolare il 4 bis che preclude i benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia, ha avuto un senso quando lo Stato ha rischiato di piegarsi al ferocissimo attacco mafioso. Lo Stato, quindi, ha reagito forzando la nostra Costituzione. Sull’onda delle emozioni e dell’allarme sociale suscitato dalla morte di Giovanni Falcone, venne adottato il decreto legge dell’8 giugno 1992, numero 306, secondo il quale i condannati per i delitti mafiosi e terroristici potessero essere ammessi ai benefici premiali solo se avessero collaborato con la giustizia.

Giovanni Falcone aveva pensato un 4 bis diverso. Non è stato un decreto voluto da Falcone, il quale ha ideato un 4 bis diverso e che non precludeva i benefici ai non collaboranti: parliamo di un decreto inasprito a causa della sua uccisione. Un attentato senza precedenti nei confronti di un giudice. Alle 17:58, al chilometro 5 della A29, nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, il mafioso – poi collaboratore di giustizia – Giovanni Brusca ha azionato una carica di cinque quintali di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio. Non è un caso che, dopo l’indicibile strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, l’allora guardasigilli Claudio Martelli ha convinto il Parlamento ad approvare di fretta e furia il 41 bis. Come lui stesso testimonia, ha firmato – addirittura sul cofano della macchina – una serie di decreti per spedire diverse centinaia di detenuti al carcere duro.

Si prorogò in automatico il carcere duro per tutti. Ribadiamolo. C’era una emergenza, la sensazione che lo Stato rischiasse di mettersi in ginocchio era palpabile. Il risultato è che finirono al 41 bis diverse centinaia di detenuti che mafiosi non erano: in automatico si prorogava il carcere duro per tutti. Pe questo motivo, nel 1993, grazie ai magistrati di sorveglianza che sollevarono la questione, è dovuta intervenire la Corte Costituzionale ordinando allo Stato di valutare caso per caso. Ed è stato l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso a non prorogare il 41 bis per circa 300 detenuti. Tutti mafiosi? Ebbene no, perché – come già detto – sull’onda dello stragismo, non si è avuto tempo per essere equilibrati. Infatti, a differenza di cosa dice la tesi giudiziaria sulla presunta trattativa Stato-mafia, i fatti ci dicono che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo del 41 bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo. A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo un ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41 bis? Assolutamente no. Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell’ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Nulla di oscuro, se non l’ulteriore dimostrazione che durante l’emergenza era facilissimo cadere in errore e non badare ai principi della costituzione italiana.

La mafia stragista è stata sconfitta. Per questo, a distanza di 30 anni, il 4 bis, varato sull’onda emergenziale, non ha più giustificazione alcuna. Può rimanere benissimo quel 4 bis voluto da Falcone, nome evocato a sproposito questi giorni. Cosa prevedeva il 4 bis originario? Nessuna preclusione assoluta ai benefici, ma se uno collabora con la giustizia non è costretto ad aspettare più di 26 anni. Si premia chi collabora, ma non si preclude la speranza in chi non lo fa. Lo Stato di Diritto non può compiere estorsioni, altrimenti il confine tra il metodo mafioso e quello “legale” diventa labile, quasi del tutto inesistente.

Lo Stato e la criminalità. Perché il 41 bis oggi non è più legittimo. Alberto Cisterna su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Era il 1986. Il 10 febbraio a Palermo iniziava lo storico maxiprocesso a “cosa nostra”. A fine anno venne inserito nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41-bis. Poche righe destinate ad arginare le rivolte nelle carceri, pensate soprattutto per tenere a bada soprattutto i terroristi più irriducibili. La norma prevedeva che «in casi eccezionali di rivolta» o in «altre gravi situazioni di emergenza», il Ministro della giustizia potesse sospendere l’applicazione delle regole di trattamento dei detenuti. Con una limitazione fondamentale, tuttavia: la sospensione doveva avere «la durata strettamente necessaria» al fine di «ripristinare l’ordine e la sicurezza». Insomma, si trattava di gestire in via eccezionale situazioni carcerarie fuori controllo. Da allora sono trascorsi 35 anni. Un’eternità nel frullatore impazzito della modernità. Quella norma è ancora lì, anche se è rimasta praticamente inutilizzata. Eppure, la regola a qualcosa è servita. Messo in piedi lo “stato d’eccezione”, a quell’unico comma, se ne sono aggiunti nel tempo altri dieci che hanno regolato minutamente il cosiddetto regime speciale di detenzione per come lo conosciamo. Aperta una breccia nel trattamento eguale dei detenuti e scardinato l’orientamento della pena verso la rieducazione, i carcerati sono stati distinti non più secondo la loro personalità, ma per classi di reati. Da una parte i detenuti ordinari dall’altra quelli speciali perché sono quelli che rispondono di reati speciali. La discussione sul cosiddetto carcere duro è sempre stata al calor bianco. Gli scontri sulla severità delle restrizioni, sull’inumanità di taluni vincoli, sull’asprezza delle condizioni detentive hanno impegnato settori non marginali della pubblica opinione e hanno registrato l’intervento, a più riprese, della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale preoccupate di mitigare alcune evidenti esagerazioni. Non è questo però, o meglio non solo questo, il prisma attraverso cui occorre guardare a questo fenomeno che non può dirsi trascurabile perché mette in fibrillazione le istituzioni e la società civile in quella terra di confine in cui più precario è l’equilibrio tra la funzione rieducativa della pena (per i condannati), la presunzione di innocenza (per i tanti sottoposti a regime speciale, ma in attesa di giudizio) e il divieto di irrogare «trattamenti contrari al senso di umanità» (articolo 27 della Costituzione). Comunque mettiamo pure da parte le singole prescrizioni e le piccole vessazioni su cui in tanti si accapigliano a torto o a ragione. Mettiamo in conto che vada tutto bene e che tutto sia non solo legittimo, ma finanche giusto. Il punto è un altro. Per un attimo non occupiamoci delle minute proibizioni e sforziamoci di osservare lo scenario come fosse decantato dalle grida d’allarme dei supporter della carcerazione dura, sempre pronti a segnalare minacce incombenti che, si dice, qualunque attenuazione del carcere speciale non farebbe altro che accrescere. Per cogliere questa diversa prospettiva non è necessario avere pregiudiziali ideologiche, basta tornare all’ odierno articolo 41-bis per come si è innestato su quel piccolo virgulto del 1986: «quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica … il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti … in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento .. che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». In tanti guardano al dito e trascurano la luna, anche se riluce sotto il riflettore di parole chiare. Perché il carcere duro sia legittimo è indispensabile che «ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica». Occorre cioè che il paese o parti di esso versino in una condizione di insicurezza e di disordine generalizzati. C’è da chiedersi chi sia disposto a fare una simile affermazione quanto meno a partire dagli inizi di questo nuovo secolo e a portare solide argomentazioni a riprova di quanto sostiene. La domanda a cui occorrerebbe dare una risposta equilibrata e fondata su dati oggettivi è se davvero la situazione della criminalità in Italia sia tale da mettere in stato di pericolo l’ordine e la sicurezza collettiva e, per giunta, in modo grave. Sia chiaro non è una conclusione che può trarsi a cuor leggero prendendo in prestito le periodiche denunce di sacerdoti e vestali di una certa antimafia ampiamente screditata da manigoldi di vario genere e che non può neppure essere affidata alle valutazioni di soggetti più o meno interessati al mantenimento dello stato d’emergenza per ragioni a occhio e croce poco commendevoli. È indiscutibile che negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso associazioni, donne, uomini, case editrici e produttori televisivi hanno svolto, a prezzo carissimo, un ruolo essenziale nel denunciare connivenze, debolezze, assenze dello Stato nella lotta alle mafie. Ma questo, decenni dopo, non può essere il termometro con cui lo Stato definisce uno snodo così fondamentale della propria azione nella materia vitale della sicurezza e dell’ordine pubblico. Qualunque osservatore esterno, volgendo lo sguardo al nostro sistema penitenziario e penale, ne ricaverebbe l’impressione di un paese in stato d’assedio, in cui la vita dei cittadini è resa precaria da orde di criminali invincibili, e soprattutto nel Mezzogiorno. Per carità, può darsi che sia così, ma certo manca da sempre una pacata riflessione sulla giustificazione stessa dell’articolo 41-bis ossia se davvero la condizione della sicurezza e dell’ordine pubblico sia oggi gravemente compromessa dalle mafie oppure se si possa convenire sul fatto che centinaia di arresti e di confische hanno fiaccato e indebolito i clan un po’ dappertutto con capi storici che muoiono in cella. Declaring Victory si è solito dire quando una guerra volge irrimediabilmente in favore di uno dei belligeranti. Lo hanno fatto gli Alleati nel 1943 quando mancava ancora tanto per battere le forze dell’Asse. Alla vigilia dell’arrivo di oltre 200 miliardi di euro dai paesi del nord Europa il tema è cruciale. È chiaro che si debba fare il massimo sforzo per impedire che anche un solo centesimo finisca nelle mani delle cosche e dei sodalizi illegali. Quel che non dovrebbe essere consentito, però, è che il solito circuito mediatico-giudiziario scaldi i motori e attraversi in lungo e in largo la penisola e il continente denunciando infiltrazioni, malversazioni, accaparramenti di cui non si abbia prova concreta e per cui non si disponga di evidenze inoppugnabili. Lo si sta facendo persino con i vaccini, da stoccare a meno 80 gradi. Tanto, come diceva un vecchio cronista, finché le mafie non si danno un ufficio stampa non possono smentire. È indiscutibile che i boss siano alla continua ricerca di contatti con l’esterno. È indiscutibile che gli stessi boss intendano riallacciare contatti con i propri affiliati per continuare i propri affari. Quel che, tuttavia, non deve andare smarrito è che una Nazione ha il dovere di chiarire se questi comportamenti, comuni invero a tutte le carceri del mondo, possano giustificare lo stato d’eccezione ovvero se il Paese ha ormai la forza per reprimere ogni devianza, senza necessità di creare tante piccole Guantanamo.

Rinchiudere i mafiosi al 41 bis aiuterà pure la lotta ai clan ma rade al suolo lo Stato di diritto. Davide Varì su Il Dubbio il 23 Feb 2021.  È bastata una sola settimana e l’eterno ricorso a una sorta di “ragion di Stato” per convincere Giuseppe Pignatone ad archiviare la lezione di Leonardo Sciascia sui diritti. È bastata una sola settimana e l’eterno ricorso a una sorta di “ragion di Stato” per convincere Giuseppe Pignatone ad archiviare la lezione di Leonardo Sciascia sui diritti. In un bellissimo articolo di qualche giorno fa l’ex procuratore di Roma aveva infatti citato uno dei pensieri più limpidi e netti di Sciascia il quale, sulla lotta alla mafia, aveva le idee assai chiare: per nessun motivo la battaglia contro le organizzazioni criminali deve scalfire diritti e garanzie dell’imputato. Di ogni imputato.

«La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, `ndrangheta e camorra», aveva scritto Pignatone citando Sciascia. E ancora: «La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo». Come dire: c’è una linea, la linea tracciata dal nostro Stato di diritto, che non va superata neanche in nome della lotta alle mafie. Ma nell’editoriale uscito su La Repubblica di ieri, l’ex magistrato sembra tornare sui suoi passi. La “pietra d’inciampo” è il 41bis, l’istituto del “carcere duro” che il nostro Paese riserva a boss – talvolta solo presunti boss – e affini. Una misura contestatissima dagli altri stati europei e più volte bocciata e liquidata come tortura proprio così: tortura – dalla Corte europea dei diritti umani. Pignatone, come molti altri magistrati antimafia, insinua il dubbio, o meglio la convinzione, che il 41bis sia uno strumento indispensabile per la lotta alle mafie perché impedisce le comunicazioni tra il carcere e l’esterno: «un flusso vitale per i mafiosi che solo così possono mantenere il controllo sui loro affari e il loro ruolo nell’organizzazione». E a suffragio del suo ragionamento Pignatone porta l’esempio di un mafioso che, potendo beneficiare di nuovi spazi di libertà, si era riavvicinato all’organizzazione criminale. E in effetti non c’è alcun dubbio che isolare una persona per 23 ore al giorno in una cella di 10 metri quadrati, consentirgli l’ora d’aria solo quando gli altri detenuti sono rinchiusi e proibirgli la visita di figli, mogli e nipoti, di certo rende difficile qualsiasi attività criminale. Ma una democrazia moderna deve sempre chiedersi: è legittimo tutto questo? Chiudere le nostre Guantanamo rischia di indebolire la lotta alla mafia, ma indebolire il nostro Stato di diritto forse è ancora più rischioso.

L’avvocata di Provenzano replica a Pignatone: «Il 41 bis è una vergogna incostituzionale». Il Dubbio il 22 Feb 2021. Rosalba Di Gregorio commenta l’editoriale di Repubblica in cui l’ex procuratore difende il carcere duro per i mafiosi. «Il 41 bis, instaurando di fatto una discriminazione fra detenuti e derogando al regime ordinario, è di per sé incostituzionale. Nasce come “reazione” alle stragi del 1992 e, dopo un periodo di vergognosa applicazione, basti pensare alla tortura di Pianosa, ha finito con essere “mantenuta” per finalità che non sono chiarissime». A dirlo, in una intervista all’Adnkronos, è l’avvocato Rosalba Di Gregorio, legale del capomafia Bernardo Provenzano fino alla morte del boss nel luglio 2016. Commentando l’editoriale di Giuseppe Pignatone, su Repubblica, in cui l’ex Procuratore di Roma ribadisce che il carcere duro per i boss non va cancellato. E che «tra le questioni più delicate che la nuova titolare del ministero della Giustizia dovrà ben presto affrontare c’è quella relativa al trattamento dei detenuti per reati di mafia», il legale spiega: «La vicenda dell’avvocatessa che, secondo l’accusa, faceva riunioni di soggetti, evidentemente liberi, o veicolava messaggi ai detenuti, non c’entra nulla con il 41 bis». «Lo stesso dottor Pignatone ammette la necessità di attenzionare posizioni di soggetti, detenuti da anni e anni, per cui andrebbero rivalutate le condizioni di applicabilità, con ciò ammettendo, correttamente, che l’automatismo nella applicazione di tale trattamento è la regola e che i decreti applicativi non sono, di fatto, motivati!». «Si va da soggetti, abbondantemente sostituiti sul territorio nei loro ruoli, cui si rinnova il 41 bis perché la associazione di cui 30 anni fa faceva parte, è ancora viva!». «È chiaro che se è viva è perché ha operato fregandosene dei pareri del detenuto. Se il 41 bis ha funzionato, infatti , dalle gabbie del 41 non è uscito alcun messaggio – prosegue l’avvocato Di Gregorio – Ma il tema diventa inquietante, laddove si mantiene il 41bis a soggetti privi di capacità intellettive. Ricordo Provenzano, leggo di Cutolo…». «Se incapaci addirittura di formulare pensieri, perché è stato lasciato loro il regime speciale, così dimostrandone palesemente la totale incostituzionalità? Bel tema per il nuovo Ministro». «Quelli vecchi, i ministri intendo, proprio sul punto dei “morti” lasciati in 41 bis non hanno certo brillato per preparazione», conclude Rosalba Di Gregorio.

Quante persone al 41 bis ci sono in Italia? Rossella Grasso su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Il 41 bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano che prevede un particolare regime carcerario. È detto anche “carcere duro” ed è destinato agli autori dei reati ritenuti più gravi, per lo più legati alla criminalità organizzata. In Italia sono 759 i detenuti sottoposti a questo particolare regime carcerario. Sono 22 gli istituti penitenziari che prevedono il regime del carcere duro, dislocati su tutto il territorio nazionale. Secondo i dati del Ministero della Giustizia nella relazione annuale 2020, all’Aquila c’è la concentrazione maggiore con 152 detenuti di questo tipo. A Opera ne sono 100, a Sassari 91 e a Spoleto 81. Sono 304 quelli che hanno ricevuto la sentenza di ergastolo, di cui 204 con una sentenza definitiva. Il carcere duro fu pensato in funzione preventiva: l’isolamento avrebbe impedito ai detenuti di comunicare con l’esterno e continuare a svolgere o almeno a comandare le attività criminose all’esterno. Per questo motivo tra le persone al 41 bis ci sono soprattutto appartenenti alle organizzazioni mafiose. I più numerosi sono gli appartenenti alla Camorra che sono il 35% del totale. Seguono gli appartenenti a Cosa Nostra, che sono 203 e alla ‘Ndrangheta, che sono 210. Ci sono anche 3 detenuti al 41 bis per motivi di terrorismo, in particolare islamico. La condanna al 41 bis comporta particolari e rigide disposizioni. In primis l’isolamento dagli altri detenuti, anche nell’ora d’aria, la limitazione dei colloqui con i familiari, solo uno al mese della durata di un’ora, e dietro un vetro. Le autorità carcerarie controllano la posta in uscita ed entrata, la riduzione del numero e del tipo di oggetti che si possono detenere in cella, che è ovviamente singola. Riduce al minimo sia i contatti tra il detenuto e l’esterno (con i familiari e gli avvocati) sia con gli altri detenuti e anche con le guardie penitenziarie. Insomma si tratta di una condizione di totale isolamento. L’estrema durezza del 41 bis ha aperto molte volte un dibattito circa la sua legittimità: se è vero che la Costituzione stessa ammette un particolare regime detentivo per criminali altamente pericolosi è anche vero che in alcuni casi il 41 bis si traduce in una vera e propria privazione dei diritti umani. L’estrema durezza del 41 bis ha richiamato più volte l’attenzione della Corte dei Diritti Umani di Strasburgo che ha sanzionato l’Italia in diverse occasioni.

La regola feroce. Come funziona il 41 bis, il carcere duro che umilia il detenuto. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 20 Febbraio 2021. Lo intitolammo Barriere di vetro il libro che la Camera Penale di Roma pubblicò nel 2002 sul 41 bis. Nella quarta di copertina scrivemmo «questo libro non è imparziale: la tesi che propugna è che tutto questo non dovrebbe avere cittadinanza in una società democratica». Il “tutto” che veniva raccontato nel libro erano le storie che avevamo raccolto nei mesi precedenti direttamente dai detenuti allora sottoposti al regime speciale: le condizioni di vita, la segregazione totale, le limitazioni alla socialità, la difficoltà nelle cure mediche, l’impedimento ad ogni sia pur minima manifestazione della personalità, l’impossibilità degli incontri con i familiari. Barriere di vetro erano, e sono, le massicce lastre di vetro antisfondamento che impediscono, negli incontri con i familiari, ogni sia pur minimo contatto fisico; una misura di sicurezza volta ad impedire la trasmissione di messaggi, è la giustificazione ufficiale, un simbolo dell’isolamento totale che si impone affinché non passi, a quegli uomini detenuti, neppure un briciolo di umanità. All’epoca dietro a quel vetro stavano anche i figli piccolissimi, poi la pelosa carità legislativa ha permesso, nel periodo successivo, che fino ai dodici anni possano toccare i genitori; compiuti i dodici anni fine della concessione, nessun contatto fisico. Quando leggemmo quei racconti ci trovammo di fronte alla natura vera, e cruda, del 41 bis, quella di un trattamento disumano, volto a piegare il detenuto al fine di farne un collaboratore; cosa che lo Stato italiano confessò impudicamente quando la questione finì di fronte alla Cedu. Quello che colpiva, nei racconti di gente che pure era ritenuta responsabile di fatti gravissimi, erano i particolari, le vessazioni inutili, i divieti assurdi ed arbitrari, che meglio di qualsiasi altra cosa dimostravano che la sicurezza, totem avvolgente che avrebbe dovuto esserne la giustificazione, in larga misura non era in discussione. C’era quello che ti diceva che nel carcere dove si trovava, al nord, in nome della sicurezza, erano vietati i cappelli di lana, oppure quello che ti raccontava l’assurda selezione dei cibi ammessi e di quelli vietati. «Perché non mi posso cucinare pasta e ceci?» ci chiedeva uno. Roba che non si è modificata, da allora, se anche negli ultimi tempi, uno dei temi affrontati – da quel vero e proprio Tribunale speciale che ha sede a Roma con competenza nazionale sul 41 bis – è stata il divieto di acquisto di un certo tipo di cibo perché dimostrerebbe, di fronte non si sa bene a chi visto che campano in reparti isolati, un supposto ruolo “dominante” all’interno del carcere. La logica del 41 bis è feroce, simbolica e allo stesso tempo infantile: se mangi bene rivendichi il tuo ruolo di boss, persino se leggi libri e giornali la cosa diventa sospetta. Del resto ogni forma disumana di detenzione è fondata su di una idea infantilmente rozza della pena. È inutile a fare distinzioni: il 41 bis serve a far star male il detenuto, ad umiliarlo, è una forma di vessazione legalizzata, chi dice il contrario sa bene di mentire. Tra cento anni starà sui libri di storia come un arnese di cui anche la magistratura si vergognerà; oppure come l’antesignano della galera del futuro per i cattivi, e i suoi apologeti celebrati come salvatori dell’umanità. Dipende da quanto sarà incattivita la società del futuro. Per ora registriamo che i grandi criminali, anche se ridotti a larva umana come Provenzano, anche se incapaci di riconoscere i propri familiari dietro a quella sbarra di vetro, come Cutolo, devono crepare al 41 bis. In caso contrario qualche jena manettara, che campa in televisione e in parlamento di populismo giudiziario, inizierebbe la solita danza macabra al cui rituale i sinceri democratici non si possono sottrarre perché hanno paura di quella pubblica opinione, ancor più feroce, che loro stessi hanno creato. La sicurezza c’entra poco, si può tutelare in altra maniera, il 41 bis è un totem simbolico, la bandiera del volto duro che lo Stato non può ammainare senza perdere la faccia. Il 41 bis è una contraddizione dello Stato di diritto ma una società democratica dovrebbe saper fare i conti con le sue contraddizioni. Tempo fa sono stato all’Asinara, carcere oramai chiuso che si mostra ai turisti come un sito archeologico. Arrivati in uno dei padiglioni la guida ci ha spiegato che lì vigeva la regola del silenzio: ai detenuti non era permesso parlare. Ognuno poteva immaginare cosa comportasse la violazione della regola. Poi ci ha illustrato le meraviglie di un altro padiglione, chiamato all’epoca la discoteca, che doveva il suo nome al fatto che era illuminato giorno e notte da enormi fari così da impedire ai detenuti di distinguere l’uno dall’altra. Lo raccontava col sorriso sulle labbra, senza alcun imbarazzo: eppure quelle erano torture, secondo la definizione delle convenzioni internazionali già nel ‘900. In nome della lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, persino al contrasto del fenomeno dei sequestri di persona, la società italiana, il mondo giuridico, la magistratura, permisero quelle pratiche per decenni. In pochi si opposero, i soliti radicali e qualche altra anima bella. La grande stampa no. Nessuno fece pubblicamente i conti con quella stagione neppure dopo, anche quando i casi di Triaca, o quelli che avevano riguardato la vicenda Dozier, avevano dimostrato che in Italia lo Stato torturava nel senso vero e proprio del termine. Nessuno, anche quando il rischio era passato, come invece succede nelle altre grandi democrazie. Oggi si fa lo stesso col 41 bis e la lettura dei grandi giornali di informazione, l’ascolto dei tg lo conferma. È morto il Boss, ci dicono, magari qualcuno ci racconta come era ridotto, niente di più. Nessuno che dica, per come è morto, che non c’era senso a tenerlo al 41 bis se non quello simbolico della deterrenza. Tra qualche anno i nostri figli andranno a visitare vecchi carceri e reparti 41 bis, vedranno le telecamere e i microfoni accesi ventiquattrore al giorno, i cortili angusti con le grate ad oscurare il cielo, oppure scenderanno qualche piano sottoterra senza aria né luce. E ci sarà una guida che col sorriso sulle labbra racconterà che lì è morto un grande boss ridotto talmente male da non riconoscere la propria figlia; quello che non dirà è che, assieme a lui, a quei tempi, in Italia era morta la pietà. Tra le lettere di quel libro semiclandestino che pubblicammo venti anni fa, ce ne era una che mi colpì. Narrava che in carcere girava la notizia che un magistrato di sorveglianza aveva permesso al cane di un detenuto per reati comuni di far visita al padrone per avere una carezza, perché il cane stava morendo di dolore per il distacco. «Vorrei che mio figlio fosse trattato come quel cane» si concluse quella lettera. Penso che lo stesso pensiero sia venuto anche alla figlia di Cutolo.

Al 41 bis è vietato anche compilare il proprio testamento biologico. Maria Brucale su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. La legge “in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, n. 219/2017, entra in vigore dal 31.01.2018. Nel rispetto dei princìpi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.” Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. È un approdo importante che si nutre delle battaglie storiche di Marco Pannella e di quanti, come l’Associazione Luca Coscioni, fondata da Luca Coscioni nel 2002, hanno posto la libertà di scelta individuale, in particolare per quel che concerne il fine vita (ma ogni libertà di scelta, dall’inizio alla fine della vita, per tutti) al centro della propria azione politica. Un cammino ancora incompiuto, una materia certamente difficile che raccoglie in sé l’evoluzione del sentire collettivo rispetto al concetto della dignità della vita e della dignità della morte e, soprattutto, alla lenta affermazione del principio che le scelte sulla propria vita sono personalissime e che c’è, nella malattia, una soglia del dolore tanto insopportabile da mutare la stessa semantica della parola suicidio che diventa fine di una non vita. Accade allora che un detenuto in 41 bis immagini di contrarre il virus in tempo di pandemia e decida di depositare il proprio testamento biologico. I familiari, allora, su sua richiesta, gli mandano i moduli dell’Associazione Luca Coscioni. La corrispondenza è soggetta, come sempre, a censura ma dovrebbe essere legale un modello del tutto asettico da compilare con le proprie disposizioni, ai sensi della legge 219/2017. Già, perché è per tutti “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”. Anche per i detenuti, perfino per i ristretti nel luogo di silenzio trattamentale ed emozionale del 41 bis. E invece no! Perché un magistrato di sorveglianza di Roma decide di non consegnare la corrispondenza al ristretto. La motivazione è che, ritenuto ancora di alto spessore criminale (in 41 bis da 24 anni!) “attraverso eventuali interpolazioni del testo, lo stesso potrebbe veicolare messaggi illeciti.” […] “Occorre contemperare il principio dell’efficienza dell’attività amministrativa con le esigenze poste alla base della sicurezza interna ed esterna che si concretizza attraverso la puntuale verifica di contenuti criptici eventualmente inseriti mediante la possibilità di interpolare i documenti inviati”. Non c’è (ovviamente) nulla di criptico, indebito, fraintendibile nel modulo che non viene consegnato, ma nel compilarlo il recluso potrebbe veicolare messaggi criminali. È surreale, abominevole, tanto assurdamente in violazione di legge da sembrare una burla. E, invece, è proprio scritto, nero su bianco. È una censura all’ipotesi di intenzione, una aberrazione del sospetto sulla eventuale e futuribile possibilità che la persona detenuta, per comunicare un volere delittuoso all’esterno, si faccia mandare un modulo per le disposizioni anticipate di trattamento e nel compilarlo introduca indicazioni per i sodali che saranno sempre filtrate dall’ufficio censura del carcere che ogni scritto, in entrata o in uscita, capillarmente analizza. Oltre alla feroce violazione di un diritto garantito a tutti dalla legge che involge principi fondamentali di rango costituzionale – la libertà, la salute, la vita – si trova nell’assurdo provvedimento, la negazione per il ristretto di scrivere alcunché restando aperta la possibilità che trasmetta il proprio comando oltre le sbarre. Vietato pensare, sperare, desiderare. Perfino scegliere come morire.

Chi è al 41 bis non può acquistare il cibo come fanno i detenuti comuni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 Feb 2021. La Cassazione ha accolto il ricorso dell’amministrazione penitenziaria che si era opposta alla decisione del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila. Per la Cassazione, il detenuto al 41 bis non può acquistare il cibo che è invece consentito ai detenuti comuni. Il Magistrato di sorveglianza de L’Aquila ha accolto il reclamo presentato da Carlo Greco, sottoposto nella Casa circondariale de L’Aquila al regime del 41 bis, avente ad oggetto il mancato inserimento nel “modello 72” di una serie di prodotti alimentari che sono invece consentiti ai detenuti non sottoposti al regime differenziato e la previsione di determinate fasce orarie in cui ai detenuti sottoposti al predetto regime penitenziario era consentito cucinare. Per questo ha disposto che la Direzione di quell’Istituto consentisse al reclamante di acquistare al “modello 72” gli stessi cibi acquistabili presso le altre sezioni del carcere e di cucinare cibi senza la previsione di fasce orarie.Con successiva ordinanza il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha rigettato il reclamo proposto dall’Amministrazione, rilevando, preliminarmente, come la Corte costituzionale, con sentenza n. 186 del 2018, avesse ritenuto che il divieto di cuocere cibi al 41 bis, costituisse una limitazione, non contemplata per i detenuti comuni, contraria al senso di umanità della pena e costituente una deroga ingiustificata all’ordinario regime carcerario in quanto estranea alle finalità proprie del regime differenziato e, dunque, dalla valenza meramente e ulteriormente afflittiva. Per tale ragione, doveva garantirsi che i detenuti in regime duro fossero assimilati, sotto l’aspetto relativo all’alimentazione, ai detenuti delle sezioni comuni e di Alta Sicurezza: per questo, secondo il tribunale di sorveglianza, in assenza di ragioni di sicurezza per un trattamento diverso, non c’è alcuna giustificazione una restrizione dell’orario in cui i detenuti potevano dedicarsi alla cottura dei cibi; così come la mancata omologazione dei generi alimentari presenti nel “modello 72” dei detenuti appartenenti ai vari circuiti configura una ingiustificata disparità di trattamento, con la sottoposizione dei soggetti al 41 bis un trattamento ulteriormente afflittivo privo di qualunque giustificazione, trattandosi di beni non di lusso.L’amministrazione penitenziaria a quel punto ha fatto ricorso in Cassazione che è stato accolto, con la sentenza numero 4031, con la premessa che l’acquisto di cibi pregiati diventa una possibile dimostrazione di potere, annullando l’ordinanza, ma con rinvio al tribunale per un nuovo giudizio. Perché? La Cassazione ritiene necessario sollecitare, da parte dei giudici di merito, un ulteriore sforzo motivazionale, volto a chiarire di quali beni si sia chiesta l’inclusione nel “modello 72”, in modo da poter verificare la ragionevolezza o meno della scelta in rapporto alle finalità proprie del regime differenziato.

Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni. Maria Brucale su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Sono passati quasi trent’anni da quando la feroce uccisione dei Giudici Falcone e Borsellino portò una società stordita dalla violenza di quelle morti ad accettare una legislazione di emergenza che si annunciava già palesemente incostituzionale: l’introduzione del regime “41 bis”, una carcerazione sostanzialmente sottratta alla tensione rieducativa della pena per chi fosse accusato di essere al vertice di un sodalizio mafioso. Con una riforma del 2002 l’emergenza si è tradotta in immanenza in un solco sempre più profondo di insicurezza sociale e di giustizialismo e quella norma che impedisce alla carcerazione di proiettare il ristretto alla restituzione in società è entrata definitivamente nel nostro ordinamento. Dal 2009, poi, il 41 bis ha subito una ulteriore stretta con una modifica che individua nel tribunale di sorveglianza di Roma il solo giudice deputato a decidere sui reclami avverso la detenzione di rigore. Una violazione vistosa del criterio di prossimità connaturato all’esistenza stessa della figura del magistrato di sorveglianza, vicino al detenuto, che ne conosce il percorso e le progressioni ma, soprattutto, la creazione di un monolite giurisprudenziale attestato sulla pressoché fideistica approvazione dei decreti ministeriali. Così ci sono persone che dal 1992 si trovano diuturnamente in 41 bis. Alcune ci sono morte. Quasi trent’anni, appunto, di “carcere duro” che si fa sempre più espressione di una spinta esasperatamente punitiva. Numerosi i segnali della giurisprudenza di merito e di legittimità di una carcerazione che vuole i ristretti non più uomini. Con una recentissima pronuncia la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la sanzione di 15 giorni di isolamento inflitta a un detenuto in 41 bis per avere affermato, in una sua lettera, di essere stato deportato in un lager (il carcere in cui si trova) dove molti elementari diritti vengono negati. La Cassazione rileva «l’atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell’istituto per ragioni del loro ufficio o per visita. Non può essere revocato in dubbio – secondo i giudici di legittimità – senza che possa invocarsi il diritto alla manifestazione del pensiero, che la definizione del carcere di Rebibbia come lager, ove si sarebbe ristretti per “deportazione”, implica giocoforza una offesa alla professionalità di quanti in quella struttura operano, perché il loro lavoro e il loro impegno viene automaticamente oltraggiato con la riconduzione al ruolo di aguzzini e torturatori». Eppure la censura della corrispondenza dovrebbe essere ammessa soltanto per impedire la veicolazione di messaggi potenzialmente criminogeni. Non è lecito utilizzarla per menomare un recluso della possibilità di sfogare, in una comunicazione che resta privata (seppure letta dal censore) il proprio strazio, la propria sofferenza, anche con toni accesi, iperbolici, perfino rabbiosi. Ancora, dalla suprema Corte: il detenuto non può comunicare ad altro ristretto, con cui è in contatto epistolare, il suo trasferimento in altro istituto di pena. Viola le disposizioni di sicurezza del regime. Non può condividere con altri reclusi un modello di reclamo avverso provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ciò lo porrebbe, secondo i giudici di legittimità, in un rapporto di supremazia e gli darebbe una indebita autorevolezza. Contro ogni logica, contro ogni umanità, lo si priva del conforto di una corrispondenza soggetta a censura e gli si impedisce di condividere la propria esperienza e di offrire aiuto a una persona che si trova nella sua stessa condizione. Dalla magistratura di sorveglianza, invece, arrivano provvedimenti di divieto di acquistare libri, pur di alto contenuto formativo, a firma della Presidente emerita della Corte Costituzionale, Marta Cartabia e del Prof. Adolfo Ceretti, perché, dice il pm: «il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti e aumenterebbe il carisma criminale» e, conferma il giudice: «il possesso del libro determinerebbe una posizione di privilegio rispetto agli altri detenuti». Conoscere, migliorarsi, dunque, determina supremazia. Ancora. Trattenuta dal magistrato di sorveglianza la lettera di un avvocato al proprio assistito perché contiene un’ordinanza relativa ad altro ristretto, il cui nome è omissato, utile alla sua difesa perché «attraverso eventuali interpolazioni del testo, potrebbe veicolare messaggi illeciti». Insomma si ipotizza che l’avvocato abbia manipolato il provvedimento per trasmettere al detenuto contenuti criminogeni. La suggestione esplicita, dunque, che il difensore sia correo o, quantomeno, favoreggiatore del clan e la palese violazione di legge perpetrata nel bloccare la corrispondenza, peraltro con il difensore, in virtù di una vaga, inconcludente e calunniosa ipotesi di sospetto. Divieto di pensare, di conoscere, di migliorarsi. Per l’amministrazione penitenziaria anche di desiderare. Vietata la fantasia sessuale. No alle riviste porno, un mero interesse del ristretto, secondo il DAP, non un diritto per poter dare vita, almeno nel sogno, nell’astrazione, nel totale isolamento di una condizione di totale privazione, all’istinto che appartiene a tutti, che è connaturato alla persona, che non può essere soppresso, pena la mutilazione della essenza di uomo. Ma sembra ormai tutto lecito per i dannati di quel mondo, il 41 bis, di sterile agonia, di silenzio della mente, delle coscienze.

·        Le Mie Prigioni.

La svolta delle carceri.  Chi sconta la pena all’esterno supera il numero dei reclusi. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l'11 dicembre 2021. Tra i sette provvedimenti di clemenza firmati nei giorni scorsi dal presidente della Repubblica — probabilmente gli ultimi del suo settennato — ci sono tre grazie parziali che hanno ridotto le pene di circa un anno ad altrettanti detenuti, i quali potranno così finire di scontare le rispettive condanne fuori dal carcere. Entrando nel sistema della «esecuzione penale esterna», i cui numeri hanno superato quelli della popolazione penitenziaria. A fronte di 54.593 reclusi (dati aggiornati al 30 novembre) di cui il 30 per cento in attesa di giudizio definitivo, ci sono (rilevazione del 31 ottobre) 67.792 persone che usufruiscono di misure alternative o sostitutive della pena detentiva, o della «messa alla prova» che sospende il processo. In sostanza, ci sono più imputati e condannati fuori che dentro le prigioni; un modo per allentare la morsa del sovraffollamento carcerario ma — soprattutto — per applicare la Costituzione che, ricorda spesso la ministra della Giustizia Marta Cartabia, «non parla di carcere ma di valenza rieducativa della pena». E aprire le porte dei penitenziari favorisce il recupero delle persone più che tenerle chiuse. Lo dimostrano non solo i numeri dell’esecuzione esterna, ma anche delle revoche per violazione delle prescrizioni o altri motivi: poche e in costante diminuzione.

I dati

All’interno della popolazione non detenuta, la quota maggiore (30.591 persone, poco meno della metà) è quella di chi sconta la pena con misure alternative: affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà. Si tratta per lo più di affidamenti in prova (18.612) che per due terzi (11.731) hanno evitato il carcere. Sono condannati a pene inferiori ai quattro anni (limite previsto dalla legge per accedere a questa misura); gli altri (6.881) hanno invece trascorso la prima parte in cella o ai domiciliari e, giunti sulla soglia residua dei quattro anni sono potuti uscire. La maggior parte delle sentenze scontate in questo modo riguarda reati contro il patrimonio (29 per cento) e contro l’incolumità pubblica (16,3 per cento); solo l’8,3 per cento è relativo a delitti contro la persona, e ancor meno (3,8 per cento) contro la famiglia, la pubblica morale e il buon costume. Il dieci per cento di questa categoria comprende le donne: una quota molto più alta della percentuale di detenute rispetto ai maschi, ferma al 4 per cento. Facendo una distinzione per nazionalità si scopre che il 16 per cento sono cittadini stranieri, che invece rappresentano più del 30 per cento della popolazione detenuta. Ciò significa che per i non italiani c’è una maggiore oggettiva difficoltà a evitare il carcere. La seconda grande fetta dell’esecuzione esterna è quella della «messa alla prova», composta da 23.888 persone. Si tratta di un percorso riparatorio e risarcitorio consentito a imputati di reati di scarsa entità che sospende il processo e, se va a buon fine, estingue il reato. In questo modo le persone possono ricominciare a vivere senza passare da una condanna, quindi senza ipoteche penali. Si tratta di provvedimenti che hanno visto una crescita esponenziale negli ultimi anni, passando dai 511 del 2014 ai 23.492 nel 2017 fino al picco di 34.931 nel 2020, e che per la metà riguardano persone con meno di quarant’anni. È dunque ai più giovani che si cerca di evitare di entrare nel circuito penale, e fra loro il reato più frequente nel quale sono incorsi riguarda violazioni del codice della strada. Quanto alle tipologie di lavoro svolte, per il 74 per cento sono impieghi «in attività socio-assistenziali e socio-sanitarie», e l’analisi dei dati fa ritenere agli esperti del ministero della Giustizia che «la messa alla prova può effettivamente svolgere una funzione di prevenzione della devianza».

Le convenzioni

Anche per questo la Guardasigilli Cartabia sta dando ulteriore impulso ad accordi e convenzioni con tutti gli enti disponibili per incrementare questa misura; da ultimo quello con il ministero della Cultura per cento posti distribuiti in tutta Italia tra musei, parchi archeologici e biblioteche. Tra chi invece è passato da processi e condanne, ci sono 8.685 persone ammesse a sanzioni sostitutive della pena accordate dal giudice al momento del verdetto (quasi tutte per violazioni del codice della strada, e una minima quota per droga). Quella più importante comprende i «lavori socialmente utili», prestazioni gratuite solitamente presso enti pubblici o associazioni di volontariato. Infine, nella popolazione dei condannati non detenuti vanno conteggiati anche i 4.516 in libertà vigilata, e i 112 che usufruiscono della semidetenzione o della libertà controllata.

Parla la giovane che ha partorito da sola a Rebibbia: «Mi dicevano: “chiudi le gambe”». Il racconto di Amra in un'intervista a Repubblica: «Parlo affinché non capiti a nessun'altra». Il Dubbio il 29 novembre 2021. «Mi dicevano di chiudere le gambe». Amra, 24 anni, quattro figli, una vita nel campo nomadi di Castel Romano, è la donna che lo scorso 31 agosto ha partorito una bambina nel penitenziario di Rebibbia a Roma, grazie all’aiuto della compagna di cella Marinella. La giovane ha raccontato quei momenti di paura in un’intervista a Repubblica. «Questa cosa la faccio solo perché nessuno deve vivere ciò che ho vissuto io, nessuna donna dovrebbe partorire in carcere», ha spiegato Amra, assistita dall’avvocato Valerio Vitale. «Sono stata arrestata il 22 giugno. Ero incinta di sei mesi e mi hanno portata in ospedale. I poliziotti erano gentili e in commissariato ci hanno dato da bere e mangiare. Il giorno dopo però mi hanno accompagnata in tribunale e dopo la decisione del giudice sono arrivati i poliziotti vestiti di blu e mi hanno portata in carcere, nel reparto cellulare, dove ci sono piccole celle». La donna è stata ricoverata in ospedale per alcune perdite e poi di nuovo trasferita a Rebibbia, questa volta in infermeria. «Avrei preferito 6 mesi negli altri reparti piuttosto che un giorno in infermeria. Ero da sola in cella, le altre urlavano, una ragazza sbatteva la testa contro il muro, un’altra si strappava i peli e li mangiava. Una donna diceva che avrebbe ucciso mia figlia non appena fosse nata. Io piangevo sempre. Poi il 9 luglio è finito l’isolamento covid e hanno portato la mia amica Marinella, era stata arrestata con me». La sera del 31 agosto, dopo giorni di contrazioni, Amra comincia a stare male. «Avevo mal di testa e di pancia, mi hanno dato una tachipirina. Era passata anche l’assistente, le avevo detto che stavo male ma è andata via. Non ho mai pianto così tanto, avevo paura per la mia bambina. Avevo troppo dolore. Marinella allora ha iniziato a suonare. L’assistente ha detto: “Chi è che suona a quest’ora? cosa volete? Ora arrivo”. Era tutto buio, l’assistente è arrivata fuori dalla cella ma non mi credeva, voleva andare via. Marinella ha urlato: “Non ci lasciare”. Mi dicevano di chiudere le gambe, ma Marinella mi ha detto di non farlo perché il bambino poteva soffocare. Poi ho messo la mano sotto e ho sentito la testa, avevo paura cadesse per terra e mi sono sdraiata. È nata da sola e non piangeva». È stata la compagna di cella a pulire il viso della bambina dalla placenta a mani nude, consentendo così alla piccola di piangere e respirare. Dopo il parto, la giovane è stata trasferita in ospedale e ora sconta la condanna a casa. «Non ho sogni – ha detto – desidero solo che i miei figli abbiano un futuro diverso dal mio». 

La replica della ragazza: "Falso, poteva mandare l'infermiere". Donna partorisce in carcere da sola, il medico prova a salvare la faccia: “Ero al telefono con il 118”. Andrea Lagatta su Il Riformista il 29 Novembre 2021. Ci sono ancora troppi dubbi e molte domande sulla vicenda di Amra, la giovane detenuta 20enne che lo scorso 31 agosto è stata costretta a partorire nella cella del carcere di Rebibbia. Innanzitutto: perché la ragazza ha fatto nascere da sola suo figlio in un’angusta cella dell’istituto peniteziario? E, soprattutto, dov’era il medico che avrebbe dovuto soccorrerla? Secondo quanto raccontato a Repubblica, il dottore era al telefono con il 118. Per questo motivo, per la Asl Roma 2, Amra ha partorito da sola, aiutata dalla sua compagna di cella. Ma la versione contrasta con quanto ha raccontato la ragazza alla commissione carceri della Camera Penale di Roma: “Secondo voi è credibile che un medico sia andato a chiamare l’ambulanza? Casomai mandava un’infermiera”, domanda Amra, italiana di origine bosniaca, residente nel campo rom di Castel Romano. La ragazza, quando è stata arrestata lo scorso 22 giugno, era incinta di sei mesi. Già in passato, durante le precedenti gravidanze, aveva avuto minacce di aborto.

Il parto

A distanza di settimane ancora non si è giunti a una risposta sul perché Amra abbia partorito da sola. “Alle ore 01.32 circa il medico di guardia giunge nella Sezione Infermeria e si dirige immediatamente verso la cella della detenuta, ove l’infermiera sta assistendo la stessa, constatando condizioni generali discrete e la detenuta vigile e lucida”, si legge in un documento inviato dall’azienda ospedaliera alla Regione Lazio dopo la richiesta di “chiarimenti sulla gestione delle donne detenute in stato di gravidanza”.

La notte tra il 31 agosto e il 1° settembre scorso inizia il calvario di Amra. Verso le ore 01.31 la ragazza ha un forte dolore e Marinella, la sua compagna di cella, chiama aiuto. Arriva un’infermiera: “Diceva di chiudere le gambe, ma Marinella mi ha detto di non farlo, il bambino poteva soffocare. Ho messo la mano sotto e ho sentito la testa, mi sono messa a letto ed è nata. Non piangeva. Aveva la placenta in faccia. L’ha levata lei con le mani e la bambina ha respirato. Poi è arrivato il dottore”, dice Amra.

Dall’altra parte, però, c’è una storia completamente diversa. L’Asl e il dottore sostengono che il medico avesse considerato il ricovero per la giovane partoriente. Per questo il dottore è andato “nella medicheria di sezione al fine di contattare il 118”. E dopo soli 3 minuti da quando ha visto per la prima volta Amra, “alle ore 01,35 circa, terminata la telefonata con gli operatori di 118”, è rientrato nella cella “costatando che il periodo espulsivo del parto si era concluso in presenza di due infermieri”.

Mentre si cerca di fare chiarezza sul caso, la Garante dei detenuti di Roma, Garbiella Stramaccioni, non ha dubbi: le donne incinte e i bambini non devono entrare in carcere. Per loro deve essere prevista una soluzione alternativa, come l’ingresso in una struttura comunale oppure l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari. “I bambini non devono entrare in carcere, così come le donne incinte – ha affermato Stramaccioni al Riformista – La detenzione preventiva nei penitenziari deve essere presa in considerazione come extrema ratio, solo per i casi di conclamata pericolosità sociale”. Amra, infatti, è stata arrestata la scorsa estate per un furto.

La vicenda

A denunciare la storia lo scorso settembre è stata la Garante dei detenuti di Roma, che, dopo essersi recata in carcere il 14 agosto, si è attivata affinché per la donna, così come per la sua compagna di cella, venisse valutata una detenzione alternativa.

Stramaccioni ha incontrato Amra nell’infermeria dell’istituto penitenziario, dove era ricoverata insieme ad altre due rom incinte e ai pazienti psichiatrici. Come ha raccontato al Riformista, Stramaccioni ha scritto al magistrato competente il 17 agosto scorso per chiedere una soluzione alternativa alla detenzione cautelare imposta alle due donne incinte, di 20 e 25 anni. Per esempio, aveva proposto la Garante, una soluzione per le due giovani donne sarebbe stata la Casa di Leda, una struttura protetta aperta dal marzo del 2017 per la tutela delle detenute con figli minori: può ospitare fino a sei persone e otto figli da zero a 10 anni. La sollecitazione non ha però ricevuto risposta. Forse, sottolinea il Garante, per il periodo di ferie osservato da molti.

E’ necessario fare chiarezza sul caso, così come è fondamentale svuotare il nido di Rebibbia: attualmente la struttura, su input della Garante dei Detenuti, è vuota. Andrea Lagatta

Chi è Michele Nardi, il magistrato accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e al falso. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2021. Michele Nardi, dopo aver lavorato come giudice a Trani, ha prestato servizio all’Ispettorato del Ministero della giustizia e quindi alla Procura di Roma come pm. Nel 2016 è stato indagato dalla Procura di Lecce con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e al falso. Dal 14 gennaio 2019 al 24 giugno del 2020 è stato sottoposto alla custodia cautelare in carcere. La Cassazione, per tre volte, ha annullato il provvedimento di carcerazione preventiva. L’anno scorso è stato condannato in primo grado 16 anni e 9 mesi di reclusione. Attualmente è sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Questa settimana ha chiesto al Csm di poter tornare in servizio. Si è sempre proclamato innocente ed ha depositato a Palazzo dei Marescialli un dossier sul modo in cui sono state condotte le indagini ed il processo. Alla base delle accuse vi fu la testimonianza dell’imprenditore pugliese Flavio D’Introno. Quando Nardi venne arrestato era titolare di importanti fascicoli su esponenti politici di primo piano. Pubblichiamo  la lettera che Michele Nardi ha inviato al presidente Mattarella in occasione della scorsa Pasqua, direttamente dal carcere di Matera.

La lettera dal carcere. L’appello di un magistrato ex detenuto a Mattarella: “Mai più prigioni, sono inumane”. Michele Nardi su Il Riformista il 27 Novembre 2021.  Signor Presidente, sono e mi chiamo Michele Nardi, nato a Pavia nel 1966 magistrato da circa 30 anni, ma le scrivo come detenuto del carcere di Matera, in stato di custodia cautelare da 15 mesi. Ho sempre servito il mio Paese e la giustizia al meglio delle mie capacità. Ma è bastata l’accusa di concorso morale in corruzione in atti giudiziari, fondata sulle sole accuse di un soggetto condannato per usura e privo di qualsiasi credibilità, per essere trascinato dalla Procura di Lecce in questo inferno. Non avendo ammesso le mie colpe — che non ho — mi hanno lasciato in carcere, mentre coloro che hanno posto in essere gli atti giudiziari oggetto di scambio corruttivo e lo stesso corruttore, sono liberi o ai domiciliari da più di un anno per aver ammesso, non potendo fare altro, le proprie responsabilità. Un metodo antico di torturare gli imputati ed ottenere confessioni! Mentre sono relegato in carcere e processato, il presunto corruttore non è stato nemmeno rinviato a giudizio! Nonostante la Suprema Corte di Cassazione abbia annullato quattro mesi fa la mia misura custodiale per carenza di esigenze cautelari, la misura carceraria è stata riconfermata dal Tribunale della Libertà. Ma non Le scrivo, per tediarla con le mie vicende giudiziarie. Le posso solo dire che sono pronto a giurare sulla mia vita e dinanzi a Dio di essere innocente. Mi permetto di scriverle perché provo l’esigenza di esprimerle la mia delusione e quella dei tanti rinchiusi con me in questo girone infernale. Ieri sera abbiano seguito in silenzio e speranza il suo messaggio di auguri. La sua formazione cristiana, che condivido, avrebbe dovuto portarla a spendere una parola, in queste ore difficili, per la condizione dei detenuti. In queste settimane lei ha avuto bellissime parole di incoraggiamento per tutti ma non l’ho mai sentita parlare delle carceri, dei detenuti, degli ultimi della società, quali noi siamo. E il suo silenzio è ancora più assordante visto che il ministro della Giustizia, che lei ha riconfermato in ben due governi, alla prima rivolta carceraria, dopo aver dispensato mediaticamente minacce di ritorsioni e proclami di fermezza, è sparito dai radar della comunicazione. Il decreto legge che avrebbe dovuto alleggerire la presenza dei detenuti nelle carceri è stato, come prevedibile da una semplice lettura del testo, un autentico flop. Lo stesso Csm lo aveva sottolineato spiegandone la assoluta inadeguatezza. Di fatto quel decreto ha ristretto le maglie già strette della normativa preesistente. Altro che decreto “svuotacarceri”. Ma lei, signor Presidente, ha promulgato quel decreto legge. A quella disperata rivolta di schiavi non è stata data alcuna risposta. Nessuno ha nemmeno cercato di capire le ragioni di quelle rivolte. Lei sa come sono state sedate le rivolte nelle carceri? Lei sa che ancora adesso esistono, nella civilissima Italia, le celle di punizione? Sa cos’è una cella di punizione? L’ha mai visitata? Riesce a comprendere e ad immaginare come si possa vivere in uno stato costante di sovraffollamento, nella scarsa igiene, in spazi angusti anche per un animale, senza che sia mai stato distribuito alla popolazione carceraria alcun presidio sanitario minimo come mascherine, gel igienizzanti, guanti? E tutto questo mentre in televisione non fanno altro che bombardarci con messaggi come “distanza sociale”, igiene, utilizzo di mascherine! Tutte cose che a noi sono negate. Delle mascherine, preannunciate dal ministro della Giustizia in Parlamento all’indomani delle rivolte carcerarie, non ne abbiamo vista nemmeno una! E immagina quale possa essere l’angoscia che, in questo luogo infernale, si possa provare per la sorte dei propri familiari che ormai non vediamo da due mesi e che possiamo sentire, per telefono e per pochi minuti, uno o due volte alla settimana? Mia moglie, da cui sfortunatamente sono separato, è una degli eroi che fronteggia il covid-19, un medico gettato nel fuoco della prima linea. E sulle sue spalle ci sono due figli da incoraggiare e portare avanti, ancora storditi dalla carcerazione del padre, colpiti dall’isolamento sociale e dai disprezzo che una immonda campagna stampa nei miei confronti, come nei confronti ormai di chiunque venga raggiunto anche solo dal sospetto ha riversato su tutti i miei familiari. Sui social i miei figli vengono minacciati di morte, di essere bruciati vivi in casa per il solo fatto di essere miei figli. Non vedo e non sento mia madre dal momento della mia carcerazione. Forse non la rivedrò più viva. Le sue precarie condizioni di salute non le consentono di venirmi a trovare e telefonarle significherebbe spendere quei pochi minuti di telefono che ci vengono concessi settimanalmente e sottrarli ai miei figli, così provati dalla mia assenza e dalla mia rovina. Nessuno di voi, lei, signor Presidente e il ministro della Giustizia, potete comprendere cosa significhi vivere in un carcere, mescolarsi a quei corpi disumanizzati che la giustizia ha deciso di eliminare dal consesso sociale, a volte a ragione ma tante volte a torto, precipitati nella Geenna dove “è solo dolore e stridor di denti”, nel fosso più profondo dove anche la tua voce, le tue grida di sofferenza, non arrivano all’esterno. Nelle celle delle carceri ci si ammala, si soffre e si muore, ma nessuno parla di noi a parte il Santo Pontefice. Occorre una altissima caratura morale, come quella del Pontefice, per chinarsi verso il basso e guardare nella gola infernale dello scarto sociale per occuparsi degli ultimi di questa umanità dolente. Per questo mi sarei aspettato dal lei, signor Presidente, un intervento deciso per indirizzare il governo ad adottare serie misure di sfoltimento delle carceri, l’adozione automatica e su larga scala di misure alternative alla detenzione, come fatto persino in Paesi che consideriamo meno civili di noi, al fine di allentare il pericolo di contagio e ridare speranza a questa umanità reietta. Nessuno di voi conosce lo stato delle carceri italiane, vecchie, luride, prive di manutenzione. Nessuno di voi ha mangiato il disgustoso rancio del carcere. Nessuno di voi conosce l’umiliazione di essere spiato e controllato anche quando sei in bagno e il dover implorare per esercitare i propri piccoli diritti, come farsi visitare se stai male o poter inviare una istanza alla Autorità giudiziaria o ricevere la visita di un avvocato. Se non fosse per la pietas dei nostri compagni di sventura e del personale penitenziario di ogni ordine e grado, anche loro dannati con noi in questo girone dantesco, non saremmo in grado di terminare la giornata. E questa situazione già cosi intollerabile per un Paese che si ritiene civile, è aggravata dalla situazione dalla pandemia mondiale di covid-19. Come pensa che ci si possa sentire a vedere gli agenti di polizia dotati di mascherine e guanti quando a noi non viene fornito nulla? È l’ennesima sottolineatura che siamo solo spazzatura da nascondere sotto il tappeto. Ringrazio Dio, mi creda, per avermi fatto vivere questa tragica esperienza. Per trent’anni ho spedito centinaia di persone in prigione l’ho fatto con coscienza e cercando di essere giusto, ma non potevo immaginare l’inferno a cui li condannavo perché il carcere per conoscerlo, occorre viverlo, non andarci in visita passando dagli uffici della direzione, dove tutto è tranquillo e pulito, ma immergersi negli odori nauseabondi delle celle, nella disperazione dei compagni di prigionia, nella loro rabbiosa prepotenza, nella ristrettezza degli spazi che rende difficile qualsiasi movimento. Si impara, stando qui, che le carceri sono piene di persone che dovrebbero stare piuttosto in un ospedale psichiatrico o ricoverati in reparti ospedalieri o, semplicemente, dovrebbero essere liberi perché innocenti o perché, anche se colpevoli, il carcere assomiglia ad una vendetta consumata nei loro confronti e non ad uno strumento di rieducazione come prescritto dalla Costituzione. Disperati spinti al margine della società e delle possibilità esistenziali, finiti inevitabilmente nelle maglie della giustizia, mischiati a criminali veri e nuovamente vittime, anche qui in carcere. Ci sono malati di cancro allo stato terminale rispetto ai quali il giudice competente non ha avuto la compassione di adottare provvedimenti alternativi e poveracci che devono scontare dieci anni per una serie di piccoli furti di natura alimentare. Ho conosciuto ragazzi di vent’anni che hanno tentato dì impiccarsi ed altri guardarti spauriti, gettare i loro occhi nei tuoi occhi, ancora increduli dell’inverno esistenziale che avvolgeva la loro sorte, come per cercare, nel fondo della tua anima un briciolo di compassione, di comprensione, per sentirsi ancora vivi, riconosciuti, degni di un futuro, di sogni e di speranze. Il carcere invece, aumenta solo la rabbia e la collera, la sensazione della esclusione e del biasimo collettivo e spinge ancora di più a condotte antisociali. Nessuno uscirà di qui migliorato, rieducato, risocializzato. Il carcere è una istituzione arcaica, inutile, dannosa, costosa, dolorosa, brutale, utile solo per neutralizzare temporaneamente i violenti. Alla luce dell’attuale livello tecnologico come è possibile non prevedere gli arresti domiciliari con controllo da remoto, la forma ordinaria di custodia e detenzione? Nello sprofondo di questo inferno, dove sei fortunato se stai in una cella con un bagno in cui riesci a sederti, o farti una doccia con un minimo di privacy, vi sono uomini che marciscono sospesi nel tempo fermo e sospeso del carcere e che stanno soffrendo più di quanto dovrebbero o meriterebbero, per via della attuale situazione e, fra loro, tanti innocenti. Già, perché nelle carceri, spesso si dimentica questo, ci sono anche degli innocenti in attesa di giudizio, ma le stimmate della galera imprimono un marchio di colpa sulla fronte di chiunque varchi il cancello che ci separa dagli altri, da quelli che giudicano e si sentono buoni cittadini. Ma un imputato assolto, dopo anni di sofferenza, non è un colpevole che è riuscito furbamente o fortunosamente a scamparsela, come qualcuno, che siede dove non meriterebbe, ha pubblicamente affermato, ma una sconfitta per l’intero consesso sociale, per il sistema giudiziario, e non perché non sia riuscito a condannarlo, ma perché ha inflitto sofferenza ad un innocente.

Il diritto penale, il processo, anche negli attuali ordinamenti civili, mantiene una carica di violenza e brutalità difficile da giustificare sul piano morale. Questa lezione fondamentale di garantismo sembra del tutto dimenticata dalla classe politica, di governo e di opposizione, oltre che, purtroppo, anche da gran parte della magistratura, inevitabile figlia di questa società incattivita e impaurita da continui e ingiustificati allarmismi. Lei, signor Presidente, rischia di diventare, inconsapevolmente, il volto credibile e perbene della sanguinaria ondata giustizialista che ha travolto le radici garantiste della nostra cultura giuridica. Ma con la sua storia personale e familiare, la sua cultura e la formazione giuridica, la profonda conoscenza dei diritti fondamentali dell’uomo “riconosciuti” dalla Costituzione repubblicana, avrebbe dovuto indicare la strada, essere di ispirazione, richiamare tutti al rispetto degli alti principi di civiltà giuridica che l’Italia – il nostro Paese di cui essere orgogliosi e fieri testimoni – sin dai tempi di Cesare Beccaria ha insegnato al mondo intero. Ci saremmo aspettati una sua parola, un piccolo pensiero anche per noi. Forse avremmo evitato rivolte e manganellate, di sicuro saremmo stati risparmiati dall’amarezza e dalla delusione e, con noi, le nostre famiglie provate dal nostro dolore, dalla nostra mancanza. Forse non avremmo ricevuto niente di concreto ma almeno avremmo avuto l’illusione di avere ancore il rispetto e la considerazione del Presidente della Repubblica, delle Istituzioni, della società civile, rispetto e considerazione che sostanziano la dignità umana, quella che sembra non spettarci più per il solo fatto di essere qui, in questo mondo a parte, dove sembra che non basti privarci della libertà, ma occorre spogliarci della dignità umana, degli affetti della dimensione vitale che rende uomini, perché solo considerandoci più tali, ma scarti di cui liberarsi, si può moralmente indifferenti alle nostre disumane condizioni di detenzione e, persino, al pericolo concreto di farci ammalare e morire di Coronavirus. Il processo non è una pratica da smaltire, un risultato aziendale da inserire in una statistica di produttività, ma un pozzo nero di umanità nei quale occorre immergersi, sporcandosi, perché solo cosi si può diventare davvero giudici di uomini, titolari legittimi del destino altrui. Perché la giustizia vive in quella sottile e sfumata linea dell’orizzonte dove il mare delle vicende umane incontra il cielo delle regole e del diritto e il compito del giudice è leggere la corretta. Decisione su quell’impalpabile confine, dove quelle due realtà, quella umana, concreta e dolorosa e quella astratta e perfetta della norma, si incontrano come per confondersi una nell’altra. Per quanto mi riguarda posso dirle di aver trovato più umanità qui, compassione, vicinanza, fra detenuti e personale penitenziario, di quanto ne abbia mai sperimentato nella vita precedente. Come la vedova che getta nel tesoro del Tempio la sua ultima moneta, così i detenuti di Matera hanno rinunciato, in alcuni casi, anche ad acquistare il sopravvitto per il giorno di Pasqua per donare i pochi spiccioli del loro peculio carcerario alla Caritas, perché aiuti le famiglie in difficoltà economica! Gli ultimi della terra che insegnano a tutti la solidarietà concreta, e non solo a parole. Verso un Paese in ginocchio, gemente e disperato. Ecco perché, di fronte a questo spettacolo di umanità dolente, di cui faccio pienamente parte, ringrazio il Signore che, Crocifisso e reietto, mi ha mostrato, attraverso questa via crucis, che sono stato chiamato a vivere per caso come l’ignaro Cireneo, il Suo volto Santo attraverso quello dei miei Compagni di sventura. Noi, crocifissi accanto a Lui, crocifissi in Lui. Mi creda, signor presidente, di fronte a tutto questo dolore e mestizia che mi circondano passa in secondo ordine anche il mio destino processuale. La vita qui ha trovato la sua vocazione: essere la loro voce, la voce degli ultimi che nessuno ascolta, che nessuno vuole ascoltare. È il modo più alto per essere magistrato della Repubblica: reclamare, con tutta la voce che ho, i diritti inalienabili della parte più debole del mio Paese! La prego, per tanto, dal basso della mia condizione, dai fondo della mia umiliazione, di voler considerare l’opportunità di sollecitare il governo ad adottare misure legislative adeguate per rendere anche questo “mondo a parte” degno di un Paese civile, quale orgogliosamente deve essere e rimanere sempre la nostra amata Italia.

Buona Pasqua, signor Presidente, Michele Nardi

Riflettori puntati sul mondo penitenziario. Carceri a pezzi, tra detenuti che si danno fuoco e agenti indagati è emergenza. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Novembre 2021. Un dramma sfiorato in una cella della casa circondariale di Poggioreale e un’indagine della Procura che scatena un nuovo temporale giudiziario sulla polizia penitenziaria. Il tema carcere torna sotto i riflettori a Napoli. Si parte da Poggioreale, reparto Salerno. Il dramma è sfiorato questa volta, sventato in extremis da alcuni agenti della polizia penitenziaria. Un detenuto arrivato dalla Calabria ha rischiato di morire nell’incendio che aveva appiccato nella camera di pernottamento. Lo hanno salvato gli agenti attirati dal fumo e dall’odore acre che le fiamme avevano sprigionato. Questione di attimi e si sarebbe contato in carcere un nuovo morto, un atto di autolesionismo in più da aggiungere alla triste lista dei gesti estremi commessi in cella, nel mondo di chi vive dietro le sbarre. Un mondo, purtroppo, ancora troppo lontano da quello fuori che lo circonda. Al punto che anche gli agenti della polizia penitenziaria arrivano a invocare attenzione e aiuti. Il vice segretario regionale dell’Osapp Campania, Luigi Castaldo, ha commentato l’episodio sottolineando la “pericolosità del lavoro svolto dai poliziotti penitenziari” e la “complessità del carcere di Poggioreale che conta oltre 2200 detenuti a fronte di una capienza massima di 1600”. E giù con le criticità di sempre, dalle questioni strutturali (“Ci sono vari reparti inagibili, in attesa di ristrutturazione, e questo – sottolinea Castaldo – non fa altro che creare ulteriori disagi”) alle mai risolte carenze di personale (mancano più di 200 unità non solo tra gli addetti alla sicurezza e al controllo ma anche e soprattutto tra gli educatori, gli psicologi e altre professionalità essenziali per garantire un carcere più civile ed umano). E proprio il nodo “personale” è finito al centro di un’inchiesta della Procura su una presunta corruzione che conta 14 indagati per episodi avvenuti tra gennaio e giugno scorsi. Due agenti della polizia penitenziaria (uno dei quali già in stato di custodia cautelare in carcere da luglio scorso per accuse analoghe) sono sospettati di essere stati il perno del meccanismo con cui si promettevano e assicurano (dietro compenso, anche 8mila euro) aiuti per superare le prove psico-attitudinali per entrare a far parte di corpi delle forze armate, tra esercito, carabinieri e aeronautica militare, nonché nella polizia penitenziaria. I provvedimenti cautelari riguardano anche pubblici ufficiali, tra cui un assistente capo della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere, un vigile urbano del Comune di Caivano, un caporal maggiore dell’esercito in servizio presso la caserma Maddaloni, tutti sospettati di aver fatto da intermediari tra gli aspiranti militari e i colleghi ritenuti in grado di oleare i meccanismi delle prove ai concorsi. Tra gli indagati ci sono anche due agenti della penitenziaria che avevano un ruolo nelle sigle sindacali della categoria e tra le ipotesi su cui si dovrà lavorare c’è anche quella di un presunto scambio proposto a una collega: la possibilità di conseguire un’aspettativa sindacale non retribuita in cambio di 60/70 tessere sindacali o il loro equivalente in euro, cioè tra 5 e 6mila euro. Il quadro accusatorio per gli inquirenti è di «estrema gravità» ma ovviamente si è in una fase in cui si è in attesa di conferme a tutte le ricostruzioni accusatorie, l’inchiesta è ancora in corso. Ora la parola passa alla difesa. Intanto dalle carte spuntano anche nomi anche di persone non indagate ed episodi o stralci di conversazioni intercettate che spingono a sbattere il mostro in prima pagina. Bisogna attendere che l’inchiesta faccia il suo corso, che le ricostruzioni investigative superino il vaglio dei giudici nel contraddittorio con le tesi difensive. Resta una considerazione finale da fare: lavorare nel corpo delle forze armate richiede attitudini che non possono essere un dettaglio irrilevante o da considerare merce di scambio. La cronaca ce lo ha ricordato, i drammi che si consumano nel mondo del carcere lo dimostrano.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Sì alla giustizia riparativa, la catena dell’odio va spezzata. Catello Romano su Il Riformista il 12 Novembre 2021. «Mai, invero, si placano quaggiù gli odi con l’odiare: con il non odiare si placano, questa è Legge Eterna». Movendo dal verso posto qui in epigrafe – così squisitamente buddhista nella forma quanto universale nella sostanza – vorremmo parlare di ciò che assai colpevolmente si affaccia nel nostro Paese parecchio tardivamente, una realtà che va sotto la denominazione di «giustizia riparativa» e di cui si è sentita l’eco nella recente riforma del processo penale fortemente voluta da Marta Cartabia. Dalla sola definizione sorgono legittimi alcuni interrogativi, quali: «ma la giustizia, di per sé, non è già riparativa? Non è intrinseco alla nozione stessa di giustizia lo scopo – come si suol dire anche colloquialmente – di “raddrizzare il torto”, “restituire il maltolto”, “pareggiare i conti”, “fare giustizia”, per l’appunto!?». Perché, dunque, questo apparente pleonasmo? Domande nient’affatto peregrine, e una risposta a esse esiste e tenteremo di darla. Se c’è una cosa nella quale noi esseri umani eccelliamo – oltre che nel trovare giustificazioni per tutto – è certamente quella di dimenticare e di farlo in fretta; abbiamo una memoria sì corta (quando ci conviene) da poter affermare senza esagerazioni che se vi è qualcosa che la Storia insegni è che essa non insegna nulla. Il che, paradossalmente, è comunque qualcosa. Dopo millenni di esecuzioni capitali (che tutt’ora sussistono in numerosi paesi), di lavori forzati, delle più disparate e fantasiose sevizie fisiche e psicologiche, dell’istituzione di veri e propri «cimiteri per vivi» (F. Turati) – ove si lasciano letteralmente languire sino al termine della loro esistenza esseri che smettono di essere umani e che sopravvivranno di vane speranze, ineluttabilmente trasformantisi in disperazione – l’umanità ha imparato ben poco, a voler essere buoni, e certamente il crimine non è diminuito e men che meno scomparso, ovviamente, ammesso che fosse realmente questo l’obiettivo prefissatosi ogni volta con l’utilizzo di tali mezzi “deterrenti” (sic!). Anzi, sotto questo riguardo, si è certamente fallito nella maniera più assoluta. A ben guardare, pare che ormai intorno a noi non ci sia altro che violenza e malvagità delle più gratuite, beote e ripugnanti, come mai viste prima. Si ha l’impressione che il «male» l’abbia avuta vinta e che la barriera che conteneva le famose orde di Gog e Magog sia totalmente crollata e che queste vaghino liberamente su tutta la terra, la quale appare come pervasa e avvolta da un velo d’oscurità dei più asfissianti, quasi a voler soffocare quelle poche realtà ancora spiritualmente vive atte al riscatto e alla salvezza dell’anima umana che ancora vi aspiri. Che non si leggano, però, tali considerazioni come un’abdicazione pessimistica di fronte al mondo “malato” e da rifuggire, tutt’altro! Il nostro non è che un sano e sereno realismo dinanzi ai fatti, anche perché viviamo con la ferma certezza che «porta inferi non prevalebunt». Tornando alla memoria, questa ci fa così “difetto” che abbiamo sentito il bisogno e la necessità d’istituire le Giornate della Memoria per rammentarci di tutto, anche di quelle cose che dovrebbero essere le più scontate all’animo realmente umano. Così abbiamo quella per ricordare la barbarie della Shoah e contro l’antisemitismo; quella per Hiroshima e Nagasaki; quella per le vittime delle Foibe; per il genocidio degli Armeni… La lista è lunghissima e, ahinoi, non mancherà di accrescersi vista la poca capacità che abbiamo a imparar dai nostri delitti passati. Pertanto ci sentiamo di poter abbozzare una risposta almeno parziale alle domande con cui abbiamo aperto queste considerazioni e dire che era più che logico dover sentire prima o poi la ineludibile necessità di apporre la qualifica di «riparativa» a una forma e un percorso di giustizia che non pretende affatto di sostituirsi – per il momento, almeno – a ciò che ci è familiare sotto questo nome, ma sovrapporvisi semmai per soddisfare l’esigenza di restituire al concetto di giustizia il suo significato primevo e l’originario ruolo, ossia quello di bilanciare nei limiti delle possibilità umane uno squilibrio qualsiasi e dunque restaurarla nella sua propria funzione. Purtroppo, infatti, assai sovente questa funzione riparativa della giustizia è totalmente elusa e disattesa, tradendo de facto la sua stessa essenza, in quanto pressoché sempre – magari pensando di far del “bene” – la concezione che ci ritroviamo applicata in una sentenza è quella meramente punitivo-retributiva, senza avvedersi che proprio in tal modo d’operare si finisce per eccedere nel catalizzare tutta la “cura” sull’autore del delitto, trascurando bellamente la vittima di esso – una vera e propria inversione dei fini. È da questo punto di vista, dunque, che la cosiddetta «giustizia riparativa» (o «riconciliativa», «rigeneratrice», restorative justice in inglese) si pone come realmente rivoluzionaria – etimologicamente parlando, da re-volvere –, in quanto si prefigge di riportare al «principio» e al suo senso autentico il concetto di giustizia, senza per questo voler escludere il lato sanzionatorio che con la pena (d’una qualsiasi specie) vada a soddisfare, in un certo qual modo, il desiderio di vendetta di cui tutti, a diversi gradi, siamo normalmente portatori poiché, come ha magistralmente rilevato il Dott. Bouchard – rievocando la ben nota tragedia eschilea – l’istituzione dei tribunali fu voluta dalla Dea Atena «non perché la vendetta [fosse] ingiusta di per sé, perché se proporzionata contiene un’idea di giustizia, di civiltà. Ma […] perché [volle] impedire la ripetizione all’infinito del meccanismo vendicativo, che è una prospettiva profondamente diversa».

Catello Romano Detenuto nel carcere di Catanzaro

Meno di un caffè. Ogni detenuto costa 154 euro al giorno, per rieducarli "investiti" 35 cent…Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Novembre 2021. «Un recente studio della Bocconi ha messo in evidenza che ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei per il mantenimento del detenuto, appena 35 centesimi per la sua rieducazione, prevista dalla Costituzione italiana. I soldi degli italiani che lo Stato spende non mirano all’attuazione di uno principio costituzionale. Non rieducare significa incrementare la recidiva che in Italia, come sottolinea lo stesso studio, è del 68%, dato che scende al 19% quando si applicano misure alternative come la semilibertà e le forme di inserimento lavorativo». Queste sono le dichiarazioni che il sindaco di Firenze Dario Nardella ha rilasciato al Riformista l’altro giorno, commentando la drammatica condizione del carcere di Sollicciano. Abbiamo provato a fare i conti per capire come si traduce questo nella realtà penitenziaria della nostra regione. A Poggioreale, per esempio, dove sono reclusi circa 2mila detenuti, considerando i parametri dello studio della Bocconi, si calcolano 700 euro spesi al giorno per la rieducazione di oltre 2mila detenuti a fronte di un totale di 308mila euro spesi ogni giorno per la popolazione carceraria, 12mila dei quali spesi per il mantenimento dei reclusi e il resto destinato a sostenere tutta la macchina amministrativa e strutturale del sistema carcere. Ma come si può pensare, a conti fatti, di risollevare la pena alla funzione rieducativa che le attribuisce la Costituzione destinando risorse così limitate alla rieducazione? E come viene impiegato il resto dei soldi che lo Stato destina al mondo penitenziario? Non certo per rimodernare le carceri, non certo per adeguare le strutture a standard più umani di reclusione. La rieducazione dovrebbe essere il nervo centrale della reclusione, il faro dei percorsi attivati in carcere per chi deve scontare una condanna. Scoprire che è l’ultima voce su cui investire lascia pensare. Da sempre si discute dell’importanza secondaria che viene riconosciuta al dibattito sul carcere e del ruolo marginale in cui è relegato il mondo penitenziario sul piano politico e sociale. Come se fosse un mondo a parte. Come Nardella ha fatto per Sollicciano, ci aspettiamo che anche il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, trovi il tempo per sollevare una voce sul dramma delle nostre carceri. Del resto Napoli ospita due grandi penitenziari, Secondigliano e Poggioreale, che è il più grande d’Italia e sorge nel cuore della città. Quanti progetti, quante dichiarazioni, quanti futuri sono stati immaginati negli anni. Nel 2018, con la mini-riforma, ci si illuse che qualcosa fosse sul punto di cambiare. Gli Stati gnerali dell’esecuzione penale promossi dal ministro Orlando diedero la sensazione di un cambiamento finalmente possibile per poi piombare nella triste staticità di sempre. Dal 2020 la pandemia ha imposto nuove rotte, nuovi criteri di gestione. «Il sistema penitenziario del futuro non potrà tornare a essere quello del passato come se la pandemia fosse una nuvola passeggera» è stato sottolineato nella recente conferenza dei garanti territoriali per dare un contributo ai lavori della Commissione ministeriale. Sì, perché al Ministero della Giustizia è al lavoro da un paio di mesi la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario che ha il compito di studiare le soluzioni migliori per il carcere del futuro. Ci riuscirà? Come al solito ci si ritrova a parlare della necessità di interventi di sistema. «Tra le priorità di un nuovo sistema penitenziario vi è la necessità di tornare a un’idea di diritto penale minimo, liberale e garantista, e del carcere come extrema ratio – hanno sostenuto i garanti -. Questo significa non solo che andranno sostenuti i progetti di misure alternative, ma anche quei progetti di depenalizzazione di condotte con minima o nulla offensività, a partire da quelli in materia di droghe, come previsto dalla proposta di legge Magi e altri attualmente all’esame della Commissione giustizia della Camera».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La battaglia contro la pena capitale e l'ergastolo. Lo Stato Caino ha fallito, basta carcere e basta forca. Sergio D'Elia su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Per gentile concessione della casa editrice Vallecchi Firenze, pubblichiamo la postfazione al romanzo di Cinzia Tani “L’ultimo boia – Storia di un pubblico giustiziere pentito” firmata da Sergio D’Elia.

Nel suo capolavoro letterario Passaggio in Ombra, Mariateresa Di Lascia, una delle fondatrici di Nessuno tocchi Caino, scrive che «bisogna essere molto ciechi per aggiungere nuove sofferenze all’eredità di dolore di chi è passato prima di noi».

Nessuno tocchi Caino nasce a Bruxelles nel 1993 con l’obiettivo di condurre una campagna internazionale per il superamento della pena di morte, di quella concezione primordiale della giustizia secondo la quale «chi ha ucciso, deve essere ucciso». Già da subito, nella scelta del nome, ci rendiamo conto che il ragionamento possa andare oltre la pena di morte, abbracciando il superamento della pena fino alla morte e della morte per pena. Il passo della Genesi, normalmente tradotto con «nessuno uccida Caino», desta delle perplessità e allora chiediamo a Erri De Luca di tradurlo dall’ebraico. Ne viene fuori una scoperta straordinaria: «Il signore pose su Caino un segno perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato». La nuova traduzione, che mette al centro il segno della intangibilità e della tutela della vita e della dignità della persona, colpire e non solo uccidere, è considerata da Monsignor Gianfranco Ravasi e, nel 1995, con l’enciclica Evangelium Vitae di Papa Wojtyla, compare nei testi biblici.

Nel segno della storia di Caino, che diviene costruttore di città, le battaglie di Nessuno tocchi Caino contribuiscono al raggiungimento di un passaggio epocale: la Moratoria universale delle esecuzioni capitali, approvata dalle Nazioni Unite, nel 2007. La suprema assemblea del mondo considera ormai la pena di morte un ferro vecchio della storia dell’umanità. Cosa fare ancora per abolire la pena di morte? È un ferro arrugginito e perciò – non solo in Italia, anche nel mondo – tutti stanno attenti a maneggiarlo: tantissimi Stati hanno cancellato del tutto la pena di morte, alcuni non la usano più da decenni, altri si vergognano a usarla e la praticano in segreto, altri ancora l’hanno mascherata con il fine pena mai, l’ergastolo senza via d’uscita.

Per Nessuno tocchi Caino la nuova frontiera da superare diventa allora quella della pena fino alla morte. La lotta politica nonviolenta è ispirata alla ferma convinzione che la pena non debba essere dannazione eterna, ma riscatto, rinascita. Nel 2015, quindi, inizia il viaggio della speranza dei condannati alla pena senza speranza, il viaggio di spes contra spem, la speranza come spes, non come spem, come soggetto e non come oggetto, come materia viva e non fatalistica attesa di un domani migliore.

La grande lezione di Paolo di Tarso, rivissuta da Marco Pannella in comunione con Papa Francesco, anima i Laboratori del cambiamento denominati Spes contra spem, nelle sezioni di alta sicurezza delle carceri di Opera, Parma, Voghera, Rebibbia e Secondigliano, e libera nei detenuti nuovi livelli di coscienza. Alcuni di loro, condannati al fine pena mai, diventano protagonisti del docufilm Spes contra spem – Liberi dentro di Ambrogio Crespi, nel quale mettono a nudo la loro umanità, la loro luce interiore trionfa sul buio di una cella senza via di fuga. Così accade che dai detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, il viaggio della speranza abbia raggiunto nel 2019 Strasburgo e i giudici supremi europei, che creano un nuovo diritto umano: il diritto alla speranza. La via della nonviolenza e del Diritto conduce poi a Roma, innanzi ai massimi magistrati della Corte Costituzionale, che aprono una breccia nel muro di cinta del fine pena mai e illuminano i volti degli uomini-ombra che, per la prima volta, non si alienano nello stigma del proprio reato.

Dopo la fine della pena di morte e del fine pena mai, non finisce il viaggio della speranza di Nessuno tocchi Caino. Continua e corre ora verso una nuova frontiera, quella invocata da Aldo Moro: la ricerca non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale.

Siamo convinti che la morte per pena possa esser superata solo facendo leva sulla forza della parola, del dialogo, dell’amore, vero principio attivo della nonviolenza.

Nella lotta nonviolenta non si tratta infatti di mostrare i muscoli, di abbattere fisicamente il nemico, ma di con-vincere, vincere con, trasferire al potere la convinzione che lo Stato di Diritto, lo stato della vita, non possa nel nome di Abele divenire esso stesso Caino.

Crediamo che il mondo debba superare quella idea meccanicistica, rettiliana, secondo la quale al male, si risponde con il male e si debba vivere sotto il peso schiacciante dei confini chiusi, delle separazioni, della cultura dell’anti, del carcere. Il carcere va superato, nel nome di un diritto della tutela e del miglioramento, di una vita eraclitea nella quale tutto scorre come un fiume e non ci si bagna mai nella stessa acqua, ove non si sia vittime di una maledizione erinnica ma immersi nell’armonia.

Occorre non essere diabolici, manichei, portati a separare, a porre in mezzo ostacoli. Occorre essere religiosi, capaci di unire, tenere insieme, pensare che, essendo uomini, tutto ciò che umano non è a noi estraneo. L’unica risposta creativa, che ci eleva tutti al livello della coscienza orientata ai valori umani universali, è parlare al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza.

Questo vuol dire Nessuno tocchi Caino.

Sergio D'Elia

L'emergenza dietro le sbarre. Boom di carcerazioni preventive, finisce l’effetto pandemia: dentro i presunti innocenti. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Novembre 2021. La pandemia da Covid ha avuto un impatto devastante sulla società, ma ha generato anche dei contraccolpi che i sarebbero potuti definire «positivi» se fossero stati davvero finalizzati non solo a contenere la diffusione del virus all’interno degli istituti di pena per fronteggiare l’emergenza sanitaria ma a limitare e contenere le carcerazioni «inutili», quelle preventive, le misure cautelari a carico di persone sospettate di un reato, presunte innocenti secondo la Costituzione e la legge, in attesa di giudizio secondo i formalismi della burocrazia giudiziaria. Se si leggono i dati diffusi dal ministero della Giustizia e relativi ai detenuti in attesa di giudizio aggiornati al 31 ottobre 2021, ci si rende conto che i numeri sono impietosi e che la Campania indossa la maglia nera. Sono 1.288 i reclusi in attesa di primo giudizio nelle strutture di pena su una popolazione totale di 6.668 persone. Al secondo e terzo gradino del podio, dietro la nostra regione, ci sono la Sicilia, con 1.182 e la Lombardia con 1.084. Vuol dire che ci sono 1.288 vite sospese, presunti innocenti, persone che restano in cella senza che un giudice abbia pronunciato una sentenza di condanna. Possibile che siano tutti pericolosissimi criminali? Il garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha da tempo lanciato l’allarme sulle carcerazioni preventive che, se si considera che circa il 40% delle indagini si risolve in archiviazioni o assoluzioni, rischiano di rivelarsi una sorta di condanna preventiva, inaccettabile per uno Stato di diritto. La Campania è prima anche per numero di imputati che hanno chiesto un giudizio d’Appello, 588, e che intanto continuano a rimanere in cella. I condannati in primo grado, quindi non definitivi sono 1.220, mentre i definitivi sono 4.097. Non solo. In Campania c’è anche il maggior numero di detenuti in strutture alternative, come case lavoro, colonie agricole o altro. Complessivamente 54, a fronte dei 286 presenti sull’intero territorio nazionale. Numeri impietosi, dicevamo, che erano già emersi nel bilancio semestrale dello stato di salute delle carceri stilato dall’associazione Antigone. Secondo i dati, al 30 giugno, il 15,5% dei detenuti in Italia era recluso in attesa di primo giudizio, il 14,5% era condannato ma non ancora definitivo e il 69,4% stava scontando invece una condanna definitiva. Rispetto ai condannati non definitivi, il 48,4% risultava ancora in attesa del verdetto d’Appello, mentre il 39,2% aspettava la pronuncia della Corte di Cassazione. Poi ci sono i detenuti che vengono chiamati misti, ovvero quelli che hanno più procedimenti a carico, ma tutti aperti, cioè senza condanne definitive. In tutto Il 12,4%. Negli ultimi due anni le cose sono andate gradatamente peggio. I reclusi in via definitiva, al 31 dicembre 2019, costituivano il 68,3% del totale, mentre a giugno 2020 erano scesi al 66,9%. Sei mesi dopo il bilancio è tornato a salire fino al 67,8%, poi c’è stato il picco del 69,4% di giugno. Senza parlare del cosiddetto affollamento reale che, nei primi sei mesi dell’anno, si è attestato al 113,1%. Secondo Antigone il 36% dei reclusi deve scontare meno di tre anni, mentre uno su sei è in attesa del primo giudizio. Il sovraffollamento è il comune denominatore dei penitenziari italiani. Sono 54 le carceri che hanno un affollamento fra il 100% e il 120%, 52 tra il 120% e il 150% e infine 11 istituti hanno un affollamento superiore al 150%. Con dati aggiornati a fine giugno, risultavano essere 7.147 le persone detenute in Italia a cui era stata inflitta una pena inferiore ai 3 anni (per 1.238 inferiore all’anno, per 2.180 compresa tra 1 e 2 anni e per 3.729 tra i 2 e i 3 anni). Oltre 8.200 reclusi hanno una pena inflitta compresa tra i 3 e i 5 anni, 11.008 tra i 5 e i 10 anni, 6.546 tra i 10 e i 20 anni e a 2.470 superiore ai 20 anni. E gli ergastolani? Sono oltre 1.800. Per quanto riguarda invece il residuo pena, al 30 giugno a 2.238 detenuti restavano da scontare più di 20 anni; a 2.427 tra 10 e 20 anni, a 5.986 tra 10 e 5 anni, a 7.281 tra 5 e 3 anni mentre a 19.271 reclusi, il 36% del totale, meno di 3 anni. Questi ultimi, se si eccettuano i condannati per reati ostativi, avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative. «Se solo la metà vi accedesse il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto», sottolinea Antigone. La chiave sembra essere sempre quella. Puntare sulle misure alternative per cercare di risolvere il problema delle carceri che scoppiano. Ma la coperta appare sempre corta e in cella ci resta anche chi, di fatto, non ha condanne.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La storia dal carcere di Parma. Sbattuto al carcere duro per fare compagnia al boss, l’appello di un detenuto in isolamento senza motivo. Rita Bernardini su Il Riformista il 5 Novembre 2021. Ricevo (con i relativi timbri della prevista censura) la lettera di un detenuto dell’area riservata del 41-bis di Parma. A.T. ha 56 anni e da tre anni si trova in questo regime di carcere duro all’ennesima potenza non perché sia un “capo dei capi”, ma perché l’Amministrazione penitenziaria ha l’esigenza di offrire una “compagnia” a un altro detenuto ritenuto ai vertici dell’organizzazione mafiosa. Senza questa “compagnia” per l’ora d’aria, la detenzione del “boss” sarebbe infatti totalmente illegittima. Precisato che nemmeno al “boss” possono essere negati i diritti umani fondamentali, mi chiedo: ma A.T. che c’entra? Tanto più che il 21 aprile scorso è stato assolto dal reato (416-bis) che lo ha portato al 41-bis e che sta aspettando da allora la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma circa la revoca del regime detentivo speciale. Gentile A.T., mi chiedi di venirti a trovare, ma io non posso perché il DAP non me lo consente. Quel che posso fare, e lo farò, è portare alla conoscenza di mute e sorde istituzioni quelli che sono i tuoi diritti incomprimibili.

Gentilissima Rita Bernardini, sono sottoposto al regime differenziato dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario dal 27 gennaio del 2018 presso il carcere di Parma. Dopo alcuni mesi, passati insieme ai detenuti del 41-bis, sono stato trasferito nella cosiddetta “area riservata”, contro la mia volontà e senza alcuna giustificazione. Non mi è stata fornita alcuna spiegazione della ragione per cui sono stato costretto con la forza a soffrire un regime detentivo ancora più duro di quello che mi è imposto nel generico decreto di applicazione del 41-bis. La legge prevede che io possa fare due ore d’aria in gruppi di socialità formati fino a un massimo di 4 persone. Questi signori si permettono di non rispettare la legge, visto che mi tengono in area riservata dove sono in isolamento senza che nessuna autorità lo abbia deciso: mi hanno portato in questo reparto per fare compagnia a un solo detenuto senza chiedermi prima se io volessi fargli compagnia. Un inganno che subisco da 3 anni e 7 mesi. Sono stato costretto a fare lo sciopero della fame per 20 giorni solo per chiedere il rispetto dei miei diritti. Ho perso 10 kg di peso e da allora non mi sono più ripreso. Mentre facevo lo sciopero, nessuno della direzione del carcere mi ha chiamato. Mentre rischiavo di morire un ispettore ha avuto il coraggio di dire che la direzione non si sarebbe fatta intimidire… Ma come? Io metto a rischio la mia vita e loro si sentono intimiditi? Sono loro che hanno intimidito me! Un mese fa ho parlato con un altro ispettore per dirgli che non voglio stare in questo reparto perché sono sempre da solo, che l’amministrazione doveva rispettare quello che è scritto nel decreto del 41 bis, che stavano esagerando e che dopo aver sopportato così a lungo avrei fatto un casino. L’ispettore mi ha risposto che avrei potuto essere spostato in un reparto peggiore e di avere pazienza perché stanno cercando di risolvere il problema. Una presa in giro, se penso che il direttore che mi aveva risposto nello stesso modo. Ho parlato anche con il Garante nazionale dei detenuti che è venuto a trovarmi e sa tutto di quello che sto patendo. Anche lui mi ha risposto “stiamo vedendo di trovare una soluzione” … Ma che soluzione si sta cercando di trovare? Devono solo applicare la legge che stanno violando! Ho scritto diverse volte all’ex Ministro Bonafede e anche alla Ministra Cartabia senza ricevere risposta. Non so quante lettere ho mandato al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, diverse con richiesta di colloquio: nessuna risposta. Stesso silenzio è stato riservato alle denunce che ho presentato in Procura per sequestro di persona, violenza, tortura e abuso di potere…Il 27 aprile del 2021 sono stato assolto dal 416 bis dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, proprio quel 416 bis per il quale mi hanno applicato il 41 bis, ma come lei sa i tempi della giustizia sono lunghi e sto aspettando la camera di consiglio al Tribunale di Sorveglianza di Roma per discutere la revoca. La mia posizione giuridica e i miei profili soggettivi non legittimano l’attuale allocazione detentiva e anche a volere ipotizzare che ciò sia stato determinato dall’opportunità di garantire una compagnia o una assistenza a un detenuto speciale, di fatto da oltre tre anni nessuno fa compagnia a me stesso. Solo in poche occasioni e per periodi di tempo brevi ho potuto condividere le ore d’aria e socialità con un solo ristretto in area riservata; da oltre tre anni e sette mesi sono costretto a soffrire illegittimamente la carcerazione in stato di totale isolamento. A ciò si aggiunga la mancanza di igiene della cella infestata da scarafaggi e altri insetti. A circa 1 metro dalla finestra c’è un grande contenitore così che la mia vista non può spaziare. Tale inumana condizione di detenzione ha determinato l’insorgere di una grave forma depressiva; da mesi non sono in grado di alimentarmi e presento un allarmante calo ponderale che ha come conseguenza un inarrestabile deperimento fisico e psichico incompatibile con l’umanità della pena e il divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Rita Bernardini

Parla la presidente di Nessuno Tocchi Caino. “Nell’inferno della carceri lo Stato si comporta da criminale”, intervista a Rita Bernardini. Angela Stella su Il Riformista il 19 Agosto 2021. Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino e Consigliere generale del Partito Radicale, in questi giorni è impegnata, come ogni anno da anni, con le visite in alcuni istituti di pena del sud Italia (Siracusa, Vibo Valentia, Catanzaro) e anche nella raccolta firme per i referendum “Giustizia Giusta” e “Eutanasia Legale”.

Ci stiamo lamentando da settimane per il forte caldo ma abbiamo strumenti e vie di fuga per trovare refrigerio. Invece che succede in carcere?

In tre giornate ci siamo fatti quasi un giorno di galera perché, come sempre, le nostre visite non si limitano a un passaggio veloce ma puntano alla conoscenza vera e approfondita delle condizioni di detenzione che, a nostro avviso, sono inscindibili dalle condizioni di lavoro delle varie professionalità che in carcere prestano la propria opera. Ecco, se parliamo di caldo, le nostre 20 ore divise in tre giornate ci hanno letteralmente sfiancato. Io, in diversi momenti, ho pensato di collassare, figuratevi chi il caldo se lo sorbisce tutto di giorno e di notte in celle roventi. Forse tanti cittadini non lo sanno ma in molte carceri manca l’acqua per lavarsi e per bere e non ci sono ventilatori e condizionatori. A questo si aggiunge che in molte celle sono stipati più detenuti di quanto dovrebbero esserci e quindi la qualità di vita è davvero poco dignitosa.

Grazie a Lei, il Dap ha emanato il 30 giugno una circolare avente ad oggetto: “Avvento della stagione estiva. Tutela della salute e della vita delle persone detenute ed internate”. È stata applicata?

Cinque giorni fa ho scritto al Presidente del Dap Bernardo Petralia denunciando che le lodevoli note sul caldo e sulla ripresa dei colloqui in presenza sono totalmente disattese. Che senso ha emanare circolari che poi non sono rispettate? Ogni carcere è una repubblica a sé, le uniche circolari che sono applicate sono quelle repressive, quelle che rendono ancora più invivibile la vita detentiva. La nota prevedeva che l’ora d’aria fosse spostata in orari meno caldi: niente da fare, dappertutto l’orario è rimasto quello di sempre, dalle 13 alle 15, quando il sole è a picco. Lo sa perché? Perché non ci sono agenti a sufficienza! Alle 16 in tutte le carceri italiane non c’è più nessuno del personale, tranne qualche sporadico agente. Quel poco che si muove di giorno si ferma: tutti chiusi in cella aspettando che passino le 15 ore che li porteranno alle 7 del mattino.

Che altro diceva la circolare?

Prevedeva anche l’apertura delle aree verdi per i colloqui con i bambini. Ecco a Torino, che ho visitato il 2 agosto, l’area verde c’è ma non è stata mai aperta, lo stesso a Siracusa per mancanza di agenti; a Vibo è disponibile solo una volta al mese, mentre a Catanzaro è fruibile solo dai detenuti della media sicurezza, come se i figli di quelli in Alta Sicurezza fossero figli di un Dio minore. I punti doccia nei passeggi, che pure eravamo riusciti ad ottenere quando al Dap c’era Santi Consolo, non ci sono. La possibilità di avere frigoriferi e ventilatori in cella, seppure prevista, non è possibile perché l’energia elettrica non sopporterebbe il carico. L’unica cosa che circola un po’ sono i ventilatori cinesi, che però richiedono una spesa di pile non indifferente. A questo quadro deprimente c’è da aggiungere la forte carenza idrica. A Vibo e Catanzaro l’acqua è razionata. A Vibo, in particolare, dal rubinetto esce acqua marrone così che la direzione regala due litri di acqua minerale ad ogni detenuto che però con l’acqua immonda che esce dai rubinetti deve farsi la doccia e cucinare gli spaghetti.

Qual è dunque il bilancio delle visite?

Disastroso. Ho trovato direttori e comandanti eccellenti costretti a fare i conti con risorse, sia umane che materiali, risibili. Come ripete spesso Sergio D’Elia, è assurdo andare alla ricerca del carcere migliore; occorre, invece, concepire qualcosa di meglio del carcere. Le risorse del carcere finalizzate al trattamento dei detenuti per la loro rieducazione sono state nel corso degli anni via via spolpate. Alle Vallette di Torino fino a pochi anni fa c’era un direttore con 8 vicedirettori per gestire un carcere di oltre 1.300 detenuti. Oggi la direttrice è rimasta da sola. La stessa cosa è accaduta a Catanzaro-Siano: sono spariti i due vicedirettori e la direttrice è da sola. Per non parlare delle decine di istituti penitenziari che non hanno un direttore titolare. Gli agenti della Polizia Penitenziaria effettivamente assegnati nei 189 istituti penitenziari sono in tutto 32.225 a fronte di un organico previsto di 41.595 unità. La carenza di agenti determina una riduzione delle attività trattamentali che richiedono organizzazione e controlli. Vero è che in tutto il periodo della pandemia le attività di studio, lavoro, sport e cultura si sono pressoché azzerate, riducendo la vita in carcere alla poco rieducativa condizione di branda-tv-ora d’aria. Ma ora occorre riprendere!

La carenza di personale quali altri settori tocca?

Il dato degli educatori è letteralmente scandaloso: abbiamo 722 educatori effettivamente assegnati a fronte di una pianta organica già indegnamente carente che ne prevede solo 999. Ci sono decine di istituti dove 1 educatore ha in carico più di 100 detenuti, con i casi clamorosi di Busto Arsizio (382), Foggia (170), Bari e Regina Coeli (148), Sollicciano (162), Treviso (195), Poggioreale (171), Melfi (151), Castrovillari (159), Taranto (160), Santa Maria Capua Vetere (192), Sulmona (181), Siracusa (149), Velletri (228), Lucera (149), Rebibbia Nuovo Complesso (156). Situazioni analoghe di spaventose carenze di personale riguardano assistenti sociali, mediatori culturali, psicologi. Se a questa fotografia aggiungiamo le menomate dotazioni della magistratura di sorveglianza e la totale inefficienza dell’area sanitaria, chiunque comprenderebbe la débâcle del sistema, incapace di assicurare una pena legale. Dobbiamo ripetere, perché è plasticamente vero, quel che affermava Pannella: abbiamo una Stato che si comporta peggio dei peggiori criminali che incarcera. A volte ci prendono letteralmente per il culo come se avessimo tutti l’anello al naso. Vuole un esempio emblematico? Il Dap spedisce decine di detenuti a Catanzaro perché in quel carcere c’è il Sai, Servizio di assistenza intensificata. I posti nel Sai sono 24, ma i detenuti tradotti da mezza Italia a Catanzaro sono un’ottantina; detenuti che se ne stanno belli belli in sezione (per di più lontani centinaia di chilometri dalla famiglia) senza ricevere le cure per cui sono stati trasferiti. Clamoroso è il caso della piscina. Già perché quello di Siano è l’unico istituto d’Italia dotato di piscina per l’idrochinesiterapia. Così se a un detenuto di Pordenone gli viene prescritta l’idrochinesiterapia questo viene mandato a Catanzaro. Fantastico, solo che la piscina costruita anni fa non è mai entrata in funzione, neppure per un giorno. Noi l’abbiamo vista riempita a metà perché dopo vari lavori stanno verificando che non perda. Abbiamo tutti pensato che rospi e ranocchie farebbero festa a poter godere di quel fondale pieno di muschio.

I colloqui in carcere sono ripresi?

Sì, ma ci sono istituti che mettono il vetro divisorio anche se detenuti e familiari a colloquio sono tutti vaccinati o dotati di greenpass. Le videochiamate – che secondo la circolare avrebbero dovuto essere mantenute pur con la ripresa dei colloqui in presenza – sono rimaste solo come sostitutivo del colloquio visivo.

Dall’inizio dell’anno 34 suicidi in carcere. Qual è il suo pensiero su questo?

Nella situazione che ho descritto, disperazione, autolesionismo, suicidi sono all’ordine del giorno. Me lo disse tanti anni fa uno psichiatra del carcere di Padova: se io fossi sbattuto in una realtà come questa, la prima cosa alla quale penserei è il suicidio. Se il carcere non diviene l’extrema ratio come prevede la nostra Costituzione che parla di pene al plurale esaltandone la funzione rieducativa e socializzante, è impossibile uscire da questa pena di morte mascherata che sono i suicidi in carcere.

Che appello fare alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia?

Occorre che convinca – sfidandoli – governo e parlamento a emanare subito leggi che ristorino la popolazione detenuta diminuendo il sovraffollamento che non si può proprio tollerare in epoca di pandemia e dopo ciò che hanno patito i carcerati per un anno e mezzo. Si può immediatamente ripristinare la liberazione anticipata speciale di 75 giorni ogni semestre (anziché 45) come fu fatto all’epoca della sentenza Torreggiani. È la proposta che il Partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino ha potuto presentare grazie al deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Proprio su questa proposta è in corso un’iniziativa nonviolenta delle detenute di Torino.

Che bilancio fare dei referendum promossi dal Partito Radicale e dalla Lega sul versante giustizia, e dall’Associazione Coscioni per la legalizzazione dell’eutanasia? Cosa ha percepito nelle persone che venivano a firmare?

Il bilancio è positivo e voglio pubblicamente ringraziare la Lega di Salvini che si è fatta coinvolgere dal Partito Radicale. Ho riscontrato la convinzione diffusa che solo attraverso l’opzione referendaria è possibile cominciare a riformare l’incancrenito sistema giudiziario italiano. E anche che una buona fetta della popolazione è stata ferita dal malfunzionamento della giustizia. Se sui referendum riguardanti la giustizia i cittadini di tutte le età chiedono più informazioni sui quesiti, sull’eutanasia vengono sparati al tavolo chiedendo di firmare: sono soprattutto giovanissimi colpiti dai casi che sono venuti alla luce grazie alle disobbedienze civili di Marco Cappato. Angela Stella

Il dramma sovraffollamento. L’allarme del garante: “In cella con pene brevi, detenuti in aumento”. Angela Stella su Il Riformista il 31 Ottobre 2021. «Aumenta, ormai con costanza, il numero dei detenuti. Oggi (ieri, ndr) sono 54.240, con un aumento di 310 presenze soltanto negli ultimi 28 giorni. Un ritmo che suscita preoccupazione»: è questo l’allarme lanciato ieri con una nota dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. La capienza regolamentare è invece di 50 mila 857 posti. Ma non sappiamo al momento quante siano le celle inagibili, quindi lo scarto tra posti disponibili e popolazione detenuta potrebbe essere maggiore. Tale scenario rappresenta per il Garante «un segnale in controtendenza rispetto alla riduzione che si era avuta nel 2020, anche a seguito dell’emergenza sanitaria. Allora i detenuti erano scesi da oltre 61mila di marzo 2020 a 53.387 alla fine di maggio». L’aumento riguarda anche «le persone ristrette per pene inflitte (non residue) molto brevi, inferiori a 3 anni: oggi sono detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1211 persone, altre 5967 per una pena da uno a tre anni. Un dato numerico che da solo risponde a coloro che affermano che in Italia nessuno è in carcere per pene così brevi», critica fortemente il Garante. Com’è noto, con il Decreto “Cura Italia” si erano adottate alcune prime misure deflattive come le licenze straordinarie per i semiliberi e la concessione dei domiciliari per pene residue inferiori a 18 mesi, pur con l’esclusione dei detenuti per reati ostativi ex art. 4-bis. Purtroppo la mancata e pronta disponibilità di braccialetti elettronici aveva depotenziato molto la misura. Poi ci fu la famosa circolare del Dap del 21 marzo 2020 che sollecitava alle strutture penitenziarie la segnalazione all’autorità giudiziaria di ultra 70enni o di portatori di gravi patologie per il differimento dell’esecuzione della pena. «L’effetto combinato di queste misure – si legge nel rapporto sullo Stato dei diritti elaborato da A buon Diritto – ha determinato una riduzione non irrilevante della popolazione detenuta, che a fine aprile 2020 raggiungeva la quota di 53.904, scesa poi a luglio a 53.619, con un tasso di affollamento del 106,1%». Tale situazione, conclude l’ufficio del Garante, «chiama a una riflessione attori diversi: da quelli territoriali alla magistratura sia di cognizione che di sorveglianza nonché chi ha responsabilità politica e amministrativa affinché vi siano volontà, rapidità nelle procedure e risorse che permettano di affrontare con modalità alternative – e certamente socialmente più utili – pene di così lieve entità». Infatti pochi giorni fa pure la Ministra Cartabia in un convegno a Padova era intervenuta mostrando preoccupazioni simili: «Ci sono ancora tanti troppi problemi come l’uso della custodia cautelare in carcere già oggetto di una riflessione molto attenta nell’ultimo Consiglio dei ministri d’Europa. Quante detenzioni in carcere ci sono per pene brevi in cui di fatto le persone vengono esposte a una criminalità per cui si rischia di ottenere effetti contrari a quello della rieducazione?». E allora concretamente che fare? Presso il Ministero della Giustizia è stata istituita la commissione per “l’innovazione del sistema penitenziario” che però è concentrata ad individuare possibili interventi per migliorare la qualità della vita della comunità penitenziaria. Poi ieri lo stesso Ministero ha reso noto di aver costituito cinque gruppi di lavoro per l’attuazione della legge delega di riforma della giustizia penale. Tra questi uno dedicato alla riforma del sistema sanzionatorio, che potrebbe almeno evitare nuovi ingressi in carcere, ma i tempi non sono brevi. Le circostanze attuali invece necessitano di risposte urgenti come ci dice Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino: «Il carcere continua ad essere una discarica sociale. Un luogo immondo che con il passare del tempo peggiora. Abbandonato, nascosto agli occhi dei più. Illegale, anti-costituzionale. Bisogna fare subito qualcosa per ripristinare lo Stato di Diritto. Quello che noi proponiamo da tanto è la concessione della liberazione anticipata speciale di 75 giorni ogni semestre (anziché 45) di sconto di pena per chi in carcere ha avuto un buon comportamento». È polemica anche sulla legge di bilancio: Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA, ha criticato il fatto «che nel disegno di legge di bilancio approvato dal Consiglio dei Ministri le carceri e il Corpo di polizia penitenziaria vengono totalmente ignorati. In particolare, niente è previsto per i detenuti affetti da patologie psichiatriche, nessuna risorsa viene stanziata per le infrastrutture e il lavoro carcerario, nulla di nulla viene appostato per l’ordinamento, gli organici e gli equipaggiamenti della Polizia penitenziaria. Tutto questo è inaccettabile». Angela Stella

La sessualità proibita. Nelle carceri l’amore è proibito, ma anche l’autoerotismo. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. 

1. Come spesso accade, ha ragione Luigi Manconi (la Repubblica, 20 ottobre) a richiamare l’attenzione sulla recente sentenza di Cassazione (Sez. I penale, 8 giugno 2021, n. 36865) che ha confermato il divieto d’ingresso di una rivista hard richiesta da un detenuto in 41-bis, il c.d. carcere duro. Entrando nel merito (extragiuridico) del nesso tra immagini pornografiche e onanismo, i giudici ammettono con riserva che l’autoerotismo sia «un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata». E scrivono poi che «la fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile».

L’abbonamento – a spese del detenuto – ad una rivista per adulti, dunque, è stato legittimamente proibito dalla direzione del carcere, anche a prevenire il pericolo di comunicazioni criptate con l’esterno, capaci di eludere la censura penitenziaria. Azzerando così la diversa decisione del Tribunale di sorveglianza di Roma, la Cassazione accoglie il ricorso del DAP secondo cui «la visione di immagini pornografiche non appariva essenziale all’integrità della sfera sessuale e all’equilibrio psicofisico della persona» ristretta.

2. Scrivono i giudici che «l’autoerotismo non è impedito – di per sé – dallo stato detentivo». Davvero? I detenuti raccontano altro (cfr. N. Valentino, L’ergastolo. Dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, 2009, pp. 51-52). Ti dicono che «spesso avere un attimo di intimità in carcere è più difficile che fare una rapina», dovendo pianificare ogni dettaglio. L’orario, da calcolare in relazione ai turni della guardia che passa e dell’infermiere che porta la terapia. Lo spioncino del bagno, sempre aperto per i controlli. L’assenza di riservatezza, in una cella condivisa con più persone. L’inibente imbarazzo, perché ti senti osservato o immaginato da agenti e compagni. «La lotta titanica» tra il desiderio di concentrarsi e la paura di essere colto sul fatto. Ecco perché «è esperienza comune che gli atti migliori d’amore sono quando sei in punizione, in isolamento». Su tutto questo il diritto rincarava la dose: masturbarsi in cella, infatti, configura il reato di atto osceno in luogo pubblico, perché pubblico è lo spazio del carcere. Oggi depenalizzato, la violazione dell’art. 527 c.p., poteva essere sanzionata con la pena da 3 mesi a 3 anni (dato che l’onanismo è una condotta dolosa). Puoi comunque essere punito con la sottrazione di un semestre dal calcolo della liberazione anticipata, e sono così 45 giorni di galera in più. Si sa, le seghe servono alla fuga. Perché permettono di tagliare le sbarre alla finestra della cella. Oppure perché permettono – per un breve fazzoletto di tempo – di immaginare di essere altrove, con la persona desiderata. Servono per evadere. Ecco perché sono vietate in carcere.

3. A suo modo, la sentenza della Cassazione è una finestra chiusa su un tema rimosso: la sessualità in prigione. Altrove, il problema non è stato ignorato. Come ha ricordato Angela Stella su queste pagine (Il Riformista, 21 settembre), sono 31 i Paesi europei (ma è così anche in India, Messico, Israele, Canada) che prevedono la possibilità per i detenuti di usufruire, in carcere, di spazi in cui trattenersi con persone cui sono legate affettivamente, al riparo dal controllo visivo degli agenti penitenziari. Il riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’affettività inframuraria è anche l’approdo raccomandato da atti del Consiglio d’Europa, del Parlamento europeo e da sentenze della Corte di Strasburgo. Da noi, invece, non esiste alcuna norma legislativa o regolamentare che disciplini la materia: sul punto, infatti, tace la Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti (d.m. 5 dicembre 2012). Su questa anomia si è sedimentata un’indulgente narrazione: le relazioni affettivo-familiari sarebbero garantite attraverso molteplici previsioni normative (corrispondenza epistolare, periodiche telefonate ora anche in video-chiamata, permessi di necessità, detenzione – di regola – in un carcere prossimo alla residenza familiare). Quanto ai colloqui, elementari ragioni di sicurezza impongono il controllo a vista da parte degli agenti di custodia. Vale anche per le visite negli appositi spazi di socialità del carcere: l’intimità sarà maggiore, ma mai completa e compiuta. Inevitabilmente sacrificato, il diritto alla sessualità del detenuto troverebbe comunque satisfattiva compensazione nel beneficio extramurario dei permessi-premio.

4. Dunque, i corpi carcerati sono inesorabilmente esposti allo sguardo altrui. Uno sguardo che li accompagna sempre e ovunque, anche nelle azioni fisiologicamente più intime. Uno sguardo che non conosce pause, intermittenza, eclissi. L’incapacità del detenuto di sottrarsi a questo controllo molto ci racconta della proibizione sessuale inframuraria. Un corpo perennemente guardato, infatti, non appartiene più soltanto a chi lo abita. Fatto oggetto di continua e forzata esibizione, vive il paradosso di essere un corpo sempre “nudo” pur non potendo mai essere realmente nudo. E poiché «l’erotizzazione del corpo necessita la sua velatura» (M. Recalcati, I tabù del mondo, Einaudi, 2017, 94), la vita sessuale che occasionalmente e clandestinamente si consuma dietro le sbarre non può che ricalcare le forme della pornografia: «qui dentro l’amore è un atto osceno», testimonia – non a caso – il detenuto intervistato (G. Bolino-A. De Deo, Il sesso nelle carceri italiane, Feltrinelli, 1970, 25).

5. In realtà, l’anomia dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) sul diritto alla sessualità intramuraria è solo apparente. Nella concretezza della sua applicazione, cela un operante dispositivo proibizionista che non lo ignora semplicemente, né lo nega soltanto. Proibendolo, lo reprime. Si spiega così il parere negativo espresso dal Consiglio di Stato sulla norma del regolamento penitenziario del 2000 (sostitutivo di quello fascista del 1931) che introduceva la possibilità di visite fino a 24 ore consecutive in apposite unità abitative interne al carcere, sorvegliate all’esterno dagli agenti, legittimati a controllarne l’interno solo in casi di comprovata emergenza. La previsione venne stralciata perché considerata contra legem. Non a caso, dal 1975 ad oggi, mai l’amministrazione penitenziaria o la magistratura di sorveglianza ha autorizzato un detenuto di un qualsiasi istituto penitenziario ad avere relazioni sessuali con il proprio partner. Ciò in ragione di un orientamento giurisprudenziale che riduce la castrazione del suo diritto alla sessualità in un mero pregiudizio di fatto, derivante dallo stato di reclusione, come tale giuridicamente non apprezzabile. La stessa apparente eccezione alla regola – i permessi premio – conferma che solo in occasione di eventuali parentesi extrapenitenziarie può esercitarsi il diritto alla sessualità del detenuto, non anche dietro le sbarre, e solo dopo molti anni di detenzione e per un numero limitato di volte, come «una caramella da assaggiare per quarantacinque giorni all’anno (al massimo)» (N. Valentino, op. cit., 47). L’operatività di un dispositivo proibizionista intramurario ne esce confermata appieno e trova la propria sineddoche normativa nel formalismo legale dei matrimoni bianchi in carcere (art. 44, legge n. 354 del 1975), celebrati ma non consumati. Per la Cassazione – secondo un ragionamento che si avvita su sé stesso – essi non giustificano la concessione di un breve permesso premio, neppure di necessità, poiché tra gli eventi di particolare gravità che ne sono il presupposto normativo «non può rientrare il diritto ad avere rapporti sessuali, che per sua natura, non ha alcun carattere di eccezionalità» (Sez. I penale, 26 novembre 2008, n. 48165). Vale per tutte le persone, è vero, purché non detenute.

6. L’operatività di questo dispositivo proibizionista pone un serio problema di costituzionalità, come ha avvisato la Consulta. La sua sentenza n. 301/2012 riconosce che il diritto alla sessualità inframuraria è compatibile con lo stato di reclusione, annoverandolo così tra quei residui di libertà personale di cui il detenuto conserva titolarità. Considera il superamento della persistente anomia come doveroso, tracciandone le linee-guida. Certifica l’insufficienza dei permessi-premio a rimedio del problema perché larga parte della popolazione carceraria, de jure o de facto, non può beneficiarne. Eppure, colpito da sospetta ipoacusia, il legislatore ha finto di non sentire.

Ora qualcosa si è mosso. Giace in Senato una proposta di legge del Consiglio regionale toscano e analoga iniziativa intende assumere anche il Consiglio regionale del Lazio. In attesa di esserne normato l’uso, è stato realizzato nell’istituto Rebibbia femminile il Modulo per l’Affettività e la Maternità (M.O.M.A.): uno spazio abitativo di 28 mq per incontri tra detenute e familiari, replicabile altrove. Tocca al Parlamento fare la propria parte, aiutato da una Guardasigilli che sa bene come quello in gioco non sia un lusso, ma un bene primario. Parallelamente, bisognerà tornare a Palazzo della Consulta, perché al suo monito – inascoltato da nove anni – seguano finalmente decisioni coerenti. Andrea Pugiotto

Il film di Leonardo Di Costanzo. I detenuti non sono numeri ma persone, Ariaferma ce lo ricorda. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. È stato definito un «film necessario» (Goffredo Fofi) ed è un giudizio da condividere. Ariaferma di Leonardo Di Costanzo descrive la vita di 12 detenuti e di alcuni agenti di polizia penitenziaria in una casa circondariale che sta per essere chiusa. Dall’istituto sono andati via tutti e loro sono costretti a restare, in attesa che la nuova destinazione dei reclusi sia pronta a riceverli. Il ritardo nel trasferimento rende il rapporto tra detenuti e agenti del tutto diverso. I primi non sono più numeri da tenere rinchiusi, ma persone con le quali – in un contesto dove è palese il disinteresse dello Stato – si è costretti a convivere. La situazione di emergenza li rende uguali, pur nei loro rispettivi ruoli. Tant’è che il detenuto Carmine Lagioia (interpretato da Silvio Orlando), rivolto all’ispettore Gaetano Gargiulo (alias Toni Servillo), gli dice «È tosto stare in galera, eh!», e alla risposta «Tu stai in galera, io no», replica «Ah si! Non me ero accorto». Un film sulla condizione umana, che indaga sul labile confine tra il bene e il male e sui rapporti interpersonali, dove non esistono buoni e cattivi e l’imprevisto innesca nuove e forse insospettabili emozioni. Dopo la proiezione, il pensiero va inevitabilmente alla realtà, alle nostre carceri. Ieri il Riformista ha ripreso l’ennesima denuncia sulle drammatiche condizioni della casa circondariale di Poggioreale lanciata, questa volta, da parte di un sindacato della polizia penitenziaria. Il numero di detenuti sta aumentando di giorno in giorno, con circa 100 nuovi ingressi a settimana. Le attuali, già ingestibili, presenze di quasi 2.200 ristretti sono dunque destinate a lievitare. «Una pentola a pressione pronta a scoppiare», ecco l’allarme del segretario del Sappe Donato Capece. Il pericolo è che la situazione invivibile esasperi gli animi spianando la strada a manifestazioni di insofferenza da parte dei detenuti e a reazioni non proprio ortodosse da parte del personale. Una situazione, dunque, disperata che vede come vittime detenuti e agenti e che, a volte, degenera in atti d’inqualificabile violenza da parte di questi ultimi. Sono ancora – incancellabili – dinanzi ai nostri occhi le drammatiche sequenze dei video della mattanza di Santa Maria Capua Vetere. E la possibilità che oggi, o in un vicinissimo futuro, ciò possa di nuovo avvenire, o che comunque sia già avvenuto in altri istituti, senza che all’esterno di quelle mura ve ne sia notizia, non è affatto remota. Il pensiero, allora, ritorna al film. In quel carcere fatiscente che sta per essere chiuso, i detenuti protestano prima con la battitura, percuotendo le sbarre con oggetti di metallo, poi con lo sciopero della fame. La contestazione è dovuta alla sospensione dei colloqui con i familiari, all’interruzione di qualsiasi attività rieducativa, alla qualità scadente del cibo, all’assenza di notizie sulla data del trasferimento in altro istituto. Stanno vivendo un’emergenza burocratica – l’assenza di un luogo dove andare – che è molto simile a quell’emergenza sanitaria vissuta, nella realtà, dai detenuti con l’arrivo del Covid. Sullo schermo tutto lascia pensare a una protesta destinata a crescere di scena in scena e si attende la reazione violenta degli agenti. Ma l’illuminato ispettore Gargiulo prende – inaspettatamente anche per lui – delle decisioni non condivise dai suoi uomini e risolve la situazione dialogando con i detenuti. Accoglie la loro richiesta di rinunciare al fetido cibo offerto dalla ditta esterna e di riaprire la cucina dell’istituto per consentire a un detenuto di cucinare per tutti. E così Lagioia si mette ai fornelli ed è genovese e ragù per tutti, detenuti e agenti. I dialoghi tra i due attori, tra pentole, cipolle, carote e altro sono minimi ma significativi, come allusivi sono i loro sguardi che lasciano comprendere la medesima estrazione sociale, ma con un percorso di vita del tutto diverso. Un film che lascia un segnale importante: il detenuto non è un numero, ma una persona. È ora che qualcuno “lassù” lo comprenda. Riccardo Polidoro

Il caso Ivrea, da incidente a opportunità. A cosa servono i garanti comunali, tra poche risorse e tanta incertezza. Stefano Anastasia su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Ha suscitato un comprensibile sconcerto il post con cui Paola Perinetto, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Ivrea, ha paragonato il Presidente del Consiglio Mario Draghi a Cesare Battisti, condannato in esecuzione penale per reati gravi contro la persona. Anzi, a onor del vero, il paragone serviva alla collega addirittura per additare nel Presidente del Consiglio – tra i due – il vero criminale. Parole evidentemente offensive nei confronti del Presidente del Consiglio, della persona e della carica, che trascendono la libertà di manifestazione del pensiero e che chi riveste un incarico istituzionale non può e non deve pronunciare. Il tutto nasce dalle convinte posizioni no-vax e no-green pass di Perinetto, che recentemente aveva sospeso i suoi ingressi in carcere in ragione del proprio rifiuto di produrre il green pass (ma, assicura il Garante regionale Bruno Mellano, con l’impegno a continuare a distanza i contatti con i detenuti del carcere eporediese). Il Garante nazionale, venuto a sapere della cosa (del post su facebook, non delle legittime quanto discutibili posizioni di Perinetto, che erano note e risolte come si è detto), ha sollecitato il Sindaco alla rimozione dalla carica della Garante che – evidentemente, con il suo comportamento – aveva contravvenuto alla prescrizione secondo cui «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore» (art. 54 Cost.). Il Sindaco, dal canto suo, ha messo all’ordine del giorno del primo Consiglio comunale utile la revoca dell’incarico a Paola Perinetto. Il caso potrebbe chiudersi qui, peraltro con una rara prova di concordia e di efficienza istituzionale che, grazie al regolamento comunale istitutivo del Garante, ne consente la revoca per «gravi inosservanze dei doveri discendenti dal proprio ufficio». Ma l’incidente, della cui gravità non si discute, è diventata l’occasione per nuove prese di posizione sui garanti comunali delle persone private della libertà e il loro incerto statuto normativo. Prese di posizione che già in passato hanno causato la esclusione della facoltà di colloquio dei garanti comunali con i detenuti sottoposti in regime di 41bis e che, di fatto, hanno contribuito a impedire la sottoscrizione di un protocollo d’intesa tra la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, che rappresenta tutti i garanti nominati dalle Regioni, dalle Province, dalle Aree metropolitane e dai Comuni, e le articolazioni del Ministero della giustizia che si occupano di esecuzione penale detentiva, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Dipartimento dell’Esecuzione penale esterna e della giustizia minorile. Dietro queste prese di posizione ci sono, come spesso accade, buone e cattive intenzioni: le buone intenzioni di chi ritiene che i garanti comunali vadano rafforzati nel loro status, nella loro autonomia e nelle loro funzioni, e quelle cattive di chi non gradisce l’attività dei garanti delle persone private della libertà, a partire proprio dai garanti comunali, così prossimi, così presenti e, forse, in qualche caso, così fastidiosi a una gestione burocratica e chiusa degli istituti penitenziari, fatta e coperta al riparo delle mura di cinta. Alle cattive intenzioni si può rispondere non solo formalmente, richiamando l’articolo 27 della Costituzione e le sue prescrizioni, ma anche raccontando le innumerevoli occasioni – frequenti anche durante la pandemia e i suoi momenti più duri – in cui i garanti, e quelli comunali innanzitutto, sono stati essenziali al buon funzionamento degli istituti penitenziari, non solo nell’interesse dei detenuti e delle detenute, ma anche in quello del personale che si sacrifica oltre il dovuto per fare bene il proprio mestiere. Le buone intenzioni, invece, meritano di essere condivise e specificate, se non altro per distinguerle dalla pelosa solidarietà delle cattive. Nonostante una prestigiosa storia (sono stati garanti comunali personalità come Luigi Manconi e Gianfranco Spadaccia, lo sono attualmente l’ex-presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna Franco Maisto e l’ex-sottosegretario alla giustizia Franco Corleone), effettivamente i garanti comunali vivono di un incerto statuto normativo e soprattutto di uno status inadeguato alle funzioni che esercitano. Requisiti e modalità di nomina, durata e strumenti per l’esercizio delle proprie funzioni sono non solo molto diversi tra loro, ma spesso anche inadeguati. Non è il caso di Ivrea, dove il Garante è nominato dal Consiglio comunale, a seguito di un bando pubblico, «fra persone di indiscusso prestigio e di comprovata esperienza che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di responsabilità e di rilievo nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli istituiti di prevenzione e pena e negli uffici di esecuzione penale esterna, o che si siano comunque distinte in attività di impegno sociale» (art. 2 del regolamento, approvato con delibera n. 88/2012 dal Consiglio comunale). Il mandato è quinquennale e indipendente da quello del Consiglio che lo elegge. Non sempre è così, ma il caso di Ivrea dimostra che i requisiti di indipendenza e di professionalità richiesti dal Garante nazionale a margine della sua censura del comportamento di Paola Perinetto non solo possono essere disciplinati dalla normativa locale, ma in qualche caso effettivamente lo sono. Del resto la stessa revoca dimostra che il sistema ha i suoi anticorpi, anche nei casi più gravi. Se proprio si vuole trovare una mancanza nel regolamento comunale con cui è stata istituita la figura del garante a Ivrea, bisognerà piuttosto guardare alle risorse umane, finanziarie e strumentali con cui esercita le sue funzioni (una sede, un generico supporto e 300 euro l’anno di rimborso spese). Come Conferenza dei garanti territoriali, su iniziativa di un gruppo di garanti comunali coordinato dalla collega di Torino, Monica Gallo, abbiamo promosso un’indagine sugli atti istitutivi e le prassi dei garanti comunali e abbiamo avanzato all’ANCI delle proposte per qualificarne e rafforzarne lo status. Così, forse, un grave incidente può essere rovesciato in un’ottima occasione per rafforzare il sistema di garanzie delle persone private della libertà a partire da quel terminale sensibile costituito dalla rete dei garanti comunali. Stefano Anastasia

Ma quale sovraffollamento, per Davigo le prigioni sono un Club Med! Piercamillo Davigo nega che ci sia un problema carceri in Italia. "Hanno più metri quadrati che in Europa". Il Dubbio il 26 ottobre 2021. Ma chi lo dice che le carceri italiane sono sovraffollate? Facendo strame di decine di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle centinaia di denunce di associazioni  e sindacati – comprese quelle della polizia penitenziaria – Piercamillo Davigo bacchetta la ministra della giustizia Cartabia colpevole di aver detto che bisogna far tornare le nostre carceri nell’alveo della legalità e dell’umanità. Ovvero, meno detenuti, meno custodia cautelare in carcere e meno leggi punitive: “Il potere di punire, tanto terribile quanto necessario, ha assunto dimensioni esorbitanti non solo in Italia: un panpenalismo fatto di abuso e invasività del diritto penale per cui creare aggravanti o innalzare le pene è la scorciatoia”, ha infatti ribadito Cartabia. Ma la parte più interessante e indicativa del Davigo-pensiero arriva quando l’ex magistrato del pool passa all’analisi dei metri quadrati a disposizione di ogni detenuto. A dir la verità, ed è questa la parte più sconcertante, sembra quasi che Dvigo non parli di persone, di cittadini detenuti, ma di capi di bestiame: “Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (consultabili da chiunque in Internet) al 30 settembre 2021 in Italia vi erano 53.930 detenuti in carcere a fronte di 50.857 posti dichiarati. Però lo stesso sito del Dap: ricorda che quei posti sono calcolati sulla base di una superficie per detenuti così calcolata: 9 metri quadrati per il primo occupante e 5 metri quadrati per ogni occupante ulteriore (cioè la superficie per l’abitabilità delle case di civile abitazione), mentre la media europea è di 4 metri quadrati a detenuto”. Insomma, il solito Davigo, forse, semplicemente, dovremmo smettere di rispondergli e lasciarlo a godersi la meritata pensione nel suo mondo immaginario…

Elena Ceravolo per "Il Messaggero" il 25 ottobre 2021. È evaso da casa, dove era ristretto agli arresti domiciliari, per andare alla tenenza dei carabinieri di Guidonia a chiedere aiuto: «Meglio in carcere che nello stesso appartamento con mia moglie», ha detto. Un piano calcolato da un trentenne albanese per cui la punizione più grande era diventata proprio l'ambiente familiare. In arresto era finito per questioni di droga. Ma già dopo pochi giorni la voglia di evadere aveva cominciato a farsi strada. Non riusciva ad evitare i continui litigi con la consorte. Tanto che in quella abitazione - ha detto aggiungendo tutti i dettagli possibili - si era creata una situazione esplosiva, per di più davanti ai due figli della coppia. Sapeva benissimo che quella passeggiata a norma di codice gli sarebbe costata la galera. Ma il tragitto da casa alla caserma lo ha fatto senza esitazioni, ormai era deciso. Il militare di servizio alla tenenza di largo Centroni che si è visto arrivare l'uomo con la strana richiesta, a metà pomeriggio di sabato, ha creduto, per un attimo, di essere vittima di uno scherzo. «Sono evaso, vi prego, accompagnatemi in carcere», ha detto appena entrato. Poi davanti ai militari della compagnia di Tivoli, diretti dal capitano Francesco Giacomo Ferrante, ha anche spiegato la sua versione della convivenza forzata a casa: la sua impossibile vita casalinga, a suo dire a causa del caratteraccio della moglie, e anche le possibili conseguenze che temeva. «È un inferno - si è sfogato con i carabinieri di Guidonia -. Ho paura di perdere la testa. Se non volete che succeda qualcosa di brutto arrestatemi». Il 30enne ha spiegato ai militari di non essere più in grado di reggere lo stress e, quindi, esasperato, chiedeva di scontare la sua pena dietro alle sbarre. I carabinieri hanno esaudito il suo desiderio, arrestandolo con l'accusa di evasione e informando il pubblico ministero di turno della procura di Tivoli, Giuseppe Mimmo, che ne ha disposto il trasferimento in carcere. L'uomo ora si trova in una cella dell'istituto penitenziario di Rebibbia. Intanto la sua situazione giudiziaria comunque si è complicata: dovrà essere giudicato anche per il reato di evasione. Spetterà ora al giudice valutare eventuali attenuanti visto l'accurato appello. Non è la prima volta che in tribunale finiscono casi come questo. Un altro, recente, è di gennaio scorso: a Crotone un uomo agli arresti domiciliari si è presentato in caserma con la stessa richiesta, esasperati dalla convivenza con la moglie. È stato condannato per l'evasione con due mesi e 20 giorni di carcere aggiuntivo, ma la Cassazione ha ribaltato la sentenza, annullandola. Motivo: «Non punibile per tenuità del fatto». A influire sulla decisione anche il fatto, a quanto pare, che l'uomo non avesse fatto deviazioni una volta uscito di casa: era andato direttamente in caserma ad autodenunciarsi. Stesso motivo per cui non era stato condannato un quarantanovenne romano, ai domiciliari, che due anni fa aveva avuto la stessa idea per sottrarsi al pressing della moglie, a suo dire troppo invadente e pretenziosa anche sui lavori domestici. «Faccio tutte le faccende di casa ma dà sempre la colpa a me su tutto, ed è un litigio continuo», ha detto chiedendo il carcere agli agenti del commissariato Colombo dove si era presentato evadendo dal doppio carcere casalingo. È stata però accolta alla fine la sua richiesta di non scontare comunque la pena precedente presso la propria abitazione, ma in una associazione onlus.

Hassan, il Regeni egiziano ucciso nelle nostre prigioni. Luca Fazzo il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. È morto suicida a 20 anni dopo giorni di vessazioni e botte in carcere. Ma i giudici ora vogliono archiviare. Si avvicina alle sbarre, protende le braccia verso le guardie. Si taglia, ripetutamente, tra l'indifferenza delle guardie. Pochi minuti dopo, un agente di custodia entra in cella e lo colpisce al volto, con violenza. Le telecamere immortalano tutto. Sono le ultime immagini di Hassan Sharaf, 20 anni, vivo. La telecamera del carcere di Viterbo segna le 14,02 del 23 luglio 2018: 40 minuti dopo, gli agenti di custodia tornano davanti alla cella del giovane egiziano. Le immagini li ritraggono mentre guardano in alto, verso l'inferriata della finestra: lì c'è appeso il ragazzo che agonizza. Nessuno interviene, nessuno si lancia per salvarlo. Ora quelle immagini sono al centro di un caso drammatico e spinoso, che inevitabilmente ne evoca un altro: quello di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano assassinato in Egitto da uomini dello Stato cinque anni fa. Qua le parti si invertono: a morire è un giovane egiziano, in un carcere italiano dove non doveva trovarsi. E lo Stato italiano, che giustamente pretende (invano, per ora) che il governo egiziano faccia la sua parte per assicurare alla giustizia gli assassini di Regeni, non fa nulla per allontanare le ombre che gravano sulla morte di Hassan. Il segno più chiaro dell'ostruzionismo è il provvedimento del giudice di Viterbo che rinvia alle calende greche l'udienza che dovrebbe riaprire l'inchiesta frettolosamente chiusa dalla Procura locale. Davanti all'opposizione di una associazione egiziana per i diritti umani, il provvedimento del magistrato ha spostato l'udienza dal 2019 al marzo 2024. Un rinvio di cinque anni. Possibile? Eppure di cose da capire, nella morte di Hassan Sharaf ce ne sarebbero tante. É la storia di un ragazzo arrivato in Italia con i barconi, e finito come tanti altri nel giro della piccola delinquenza. Una condanna per furto, un altra per dieci euro di hashish. Quando lo arrestano per eseguire la pena, Hassan dovrebbe andare - lo dice l'ordine della Procura - in un carcere per minorenni. Invece lo portano prima a Regina Coeli poi, «per opportunità penitenziaria», in uno dei carceri più malfamati d'Italia, il «Mammagialla» di Viterbo, già teatro di pestaggi e di morti, ed investito di recente, tanto per dare una idea, da una indagine su un giro di spaccio di droga all'interno per cui vengono incriminati sia detenuti che agenti della polizia penitenziaria. Hassan arriva al «Mammagialla» il 21 luglio 2017, accompagnato da una cartella clinica che attesta il suo stato di «deficit cognitivo» e di dipendenza, certificato da numerose visite dei medici del carcere romano. Ma a Viterbo viene sostanzialmente abbandonato a se stesso, vede il primo psichiatra dopo dieci mesi dal suo ingresso, a gennaio. In compenso finisce nel mirino degli agenti di custodia. Dopo una soffiata, gli perquisiscono la cella: viene, dice il verbale «afferrato per le braccia» e «reso innocuo». Il giorno dopo Saraf invece racconta ai medici di essere stato picchiato ripetutamente. Risposta del consiglio di disciplina, decisa il 9 aprile: quindici giorni di isolamento. E qui la cosa si fa quasi incredibile. Per cinque mesi la sanzione non viene eseguita. Nel frattempo al «Mammagialla» entra il Garante dei detenuti, raccoglie racconti di altri prigionieri che parlano di pestaggi sistematici. Il 23 luglio, non si sa perchè e nemmeno chi, qualcuno decide di eseguire la sanzione e portare il ragazzo in isolamento. Il medico di turno, Elena Ninashvili, attesta che il detenuto è in grado di affrontare l'isolamento. Dirà poi di non averlo nemmeno visitato, e che il certificato le è stato portato già compilato dalle guardie. «Era tranquillo e collaborativo», scrivono gli agenti. Invece i filmati mostrano un ragazzo agitato e disperato. Eppure la Procura di Viterbo chiede di archiviare tutto, liquidando come «abuso di mezzi di correzione» il ceffone al ragazzo. E neanche i magistrati che dovevano farlo togliere dall'inferno di Viterbo non rispondono di nulla.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Da ilmattino.it il 18 ottobre 2021. Un uomo di 54 anni è finito in carcere dodici anni dopo essere stato fermato mentre guidava ed era risultato positivo all'alcol test, a Carate Brianza (Monza). L'avvocato si era dimenticato di chiedere la sospensione della pena. Sabato sera i carabinieri gli hanno notificato il provvedimento di esecuzione mentre era in un bar di Giussano (Monza). Stupefatto, quando i militari lo hanno accompagnato in caserma, ha appreso di essere destinato ad espiare 6 mesi di reclusione, oltre a 3 mila euro di multa, dato che nessuno aveva mai avanzato alcuna richiesta di sospensione della pena, il suo avvocato se ne era evidentemente dimenticato. Così ha dovuto seguire i carabinieri in carcere, a Monza.

Si continua a morire dietro le sbarre. Detenuto morto a Poggioreale, le ultime parole al giudice: “Ho la flebite, non riesco a stare in piedi”. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. Quale valore ha la vita di un detenuto? E quale quella di un detenuto tossicodipendente? Viene da chiederselo a sentire la storia di Antonio Alfieri, 51 anni, tossicodipendente, detenuto nel carcere di Poggioreale e morto al pronto soccorso del Cardarelli dove era arrivato venerdì scorso in condizioni disperate. In attesa di capire le reali cause del decesso, resta l’amarezza per quanto racconta il suo difensore che proprio ieri si era recato in carcere per il colloquio con il suo assistito scoprendo che Alfieri era morto, e che era morto da giorni. Arrestato a marzo scorso a Pianura per il possesso di due pistole nascoste in uno stereo all’interno di uno scantinato, Antonio Alfieri era finito in cella per detenzione e ricettazione di armi. «Non si reggeva in piedi e aveva bisogno di cure specialistiche che il carcere non poteva garantirgli», racconta l’avvocato Mottola che aveva avanzato una prima istanza, rigettata dal giudice, e ci aveva riprovato all’ultima udienza del 28 settembre scorso, riuscendo anche a convincere il suo assistito a fare uno sforzo ed essere presente in udienza pur collegato in videoconferenza, immaginando che il magistrato, vedendolo con i propri occhi, si sarebbe reso conto delle condizioni fisiche in cui versava. Del resto anche il SerD del carcere aveva scritto che il ricovero del detenuto in comunità era urgente, ma ogni speranza era stata vanificata senza nemmeno volgere lo sguardo al detenuto. L’avvocato Mottola ricostruisce quell’ultima udienza con dolore, parlando direttamente al suo assistito in una lettera pubblicata sui social: «Il giudice mi interrompe – racconta l’avvocato tornando indietro nel tempo di qualche settimana – e mi dice: avvocato, ma ho già rigettato analoga richiesta tre mesi fa. Io ribatto, dico al giudice che la reitero perché se alza lo sguardo verso il monitor vede con i suoi occhi la sofferenza di un uomo, tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia, vedovo da pochi mesi. Ma niente, Antonio, non eri degno dello sguardo di chi ti stava giudicando. Poi l’ultimo schiaffo, ti interroga per sapere se rinunci al prosieguo dell’udienza e tu lanci l’ultimo grido di aiuto: “Ho la flebite, non riesco a stare in piedi”. Lui taglia: “Sì, vabbè, allora rinuncia”». Nelle parole dell’avvocato Mottola c’è tutta l’impotenza di fronte alla freddezza della burocrazia giudiziaria. «Scusa, Antonio, ti avevo promesso che ti avrei portato in comunità ma tu, di fronte all’ennesimo freddo diniego, hai deciso che questo mondo non era più per te – aggiunge il legale – Ci siamo sentiti al telefono: “Antonio, stai tranquillo, ricorriamo al Riesame, vengo in settimana in carcere a trovarti”. “Speriamo, avvoca’, almeno voi non mi abbandonate”». Ieri, poi, il tragico epilogo: «Alle 13 io e Antonio dovevamo incontrarci ma Antonio ha deciso di non venire, ha preferito lasciare questo mondo in cui non c’è spazio per gli ultimi. Antonio, so che la mia parola per te conta poco ma credimi che ce l’ho messa tutta». L’amarezza del giovane penalista apre una riflessione sulla rigidità della burocrazia giudiziaria, sull’atteggiamento di alcuni giudici di fronte ai casi da trattare, sulla difficoltà (più volte denunciata da avvocati, garanti, associazioni) di garantire anche a chi è in carcere la dignità della vita e la tutela dei diritti fondamentali, quello della salute innanzitutto. E così un altro fascicolo viene archiviato e un altro nome si aggiunge all’elenco dei detenuti morti in carcere.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso. Giovanni Marandino trattato come Cutolo: muore a 84 anni in carcere, è giustizia o tortura? Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. «Cronaca di una morte annunciata», tuona il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Giovanni Marandino, 84 anni, è morto all’ospedale Cardarelli. Chi si indigna? Si conteranno sulle dita di qualche mano quelli che di fronte a questa notizia eviteranno di fare spallucce visto che Marandino era un detenuto con il marchio di aver fatto parte della Nco, la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. In meno di una settimana è il secondo detenuto che muore in carcere perché sulla valutazione dello stato di salute si lascia prevalere la rigida burocrazia giudiziaria. Qualche giorno fa era toccato a un detenuto 50enne, Antonio Alfieri, a cui era stato negato il trasferimento in una comunità per tossicodipendenti nonostante il parere favorevole del SerD del carcere e del pm. Ieri la morte di Marandino. «Era una persona anziana con precedenti penali – spiega il garante Ciambriello – ma questo giustifica il fatto che da febbraio di quest’anno sia stato fatto morire nell’assoluta solitudine?». La morte del detenuto ultraottantenne riaccende il dibattito sulla tutela della salute in carcere e sulla pena che non può diventare accanimento o tortura. «La tutela della salute, della vita e dell’età avanzata sono prioritarie rispetto alle misure cautelari? – continua Ciambriello – Credo che sia questa la domanda da porci, non solo per una questione di umanità, che negli ultimi tempi pare sia diventata merce rara, ma anche per misurare l’efficienza e l’efficacia di un sistema penale e detentivo che rimuove ogni problema trincerandosi dietro vincoli burocratici in un gioco a rimpiattino sulle diverse competenze di magistratura, sanità penitenziaria e periti». Il caso porta all’attenzione anche il tema dei detenuti anziani. «Da mesi, più volte interpellato dai familiari, ho seguito il caso di Giovanni in carcere e sono andato domenica scorsa a trovarlo in ospedale al Cardarelli – racconta il garante -. Davanti a me ho visto un vecchio in fin di vita, non in grado di intendere e volere. Tra l’altro in cella a Poggioreale era recentemente caduto, spezzandosi il femore e subendo un’operazione; non poteva nemmeno usufruire dell’ora d’aria e, considerate le sue patologie, gli era stato assegnato un piantone». Il caso di Marandino era apparso sin dal suo arresto un caso particolare: 84enne, sulla sedia a rotelle, con il catetere, affetto da demenza senile con un principio di Alzheimer e apnee notturne, oltre che cardiopatico e diabetico. In casa viveva allettato per cui, quando a febbraio il gip del Tribunale di Salerno ha disposto per lui la custodia cautelare in carcere, è stato necessario portarlo da Paestum a Poggioreale in ambulanza. Poche settimane dopo l’arresto, Giovanni Marandino (per tutti “Ninuccio”), coinvolto assieme ad alcuni familiari in un giro di usura, ha avuto un malore ed è stato portato in ospedale e poi di nuovo in cella. La stessa cella dalla quale è uscito giorni fa per essere trasportato in condizioni critiche da Poggioreale al Cardarelli. Davvero non c’era una diversa possibilità di gestire il suo caso? «Una persona anziana arriva in carcere in ambulanza e ne esce nella bara – denuncia Ciambriello – Questo è accanimento giudiziario».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Non è capace di intendere e di volere ma per il giudice doveva stare in carcere. Sbattuto in cella a 85 anni, Giovanni torna libero: la fine di un calvario inutile per il detenuto più anziano d’Italia. Rossella Grasso su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Giovanni C., 85enne, è il detenuto più anziano d’Italia. O meglio lo era fino a ieri quando nella tarda serata è stato scarcerato da Poggioreale dove era recluso da 4 mesi per maltrattamenti in famiglia. Affetto da decadimento cognitivo globale ad evoluzione cronica senza margini di miglioramento, il Detenuto necessitava e necessita a tutt’ oggi di un monitoraggio clinico e terapeutico costante, stante anche la sua veneranda età. Il garante dei detenuti Samuele Ciambriello per mesi aveva seguito l’assurda vicenda. È andato spesso a trovarlo in carcere e ha scritto alla direzione sanitaria del carcere data la complessità nonchè la gravità delle sue condizioni di salute psico- fisica. “Giovanni, 85 anni, credo sia il detenuto più anziano d’Italia, non è capace di intendere e di volere ma è dentro per maltrattamenti in famiglia – aveva raccontato Ciambriello su Facebook – Da quattro mesi non riceve visite né telefonate, niente. Non so che dire: si può continuare a utilizzare il carcere come luogo di sicurezza sociale anche in questo caso?”. “Lo dico – aggiunge – perché ho visto con i miei occhi l’amore, la bontà, l’attenzione degli agenti di polizia penitenziaria, che sono un front-office: devono fare da psicologi, psichiatri, da assistente, da medico, da familiari”. Insomma una situazione ormai fuori controllo, con Dap da una parte e politici e magistratura dall’altra che hanno dimostrato di non essere in grado e di non volere risolvere il problema carcere. Dalla maggiore assistenza richiesta all’interno a pene alternative per evitare di rinchiudere persone anziane o malati. Poi finalmente la lieta notizia che Giovanni può uscire dal carcere. ‘’Esprimo il mio apprezzamento per la professionalità e la responsabilità per l’avvocato d’ufficio Maria Elena Riccardi che ha profuso notevole impegno per la soluzione del caso. Apprezzo il provvedimento del GIP, non di meno dobbiamo stigmatizzare alcune posizioni della magistratura, troppo frequenti, per l’utilizzo della custodia cautelare. Molte volte in evidenti casi di assenza di esigenze cautelari, assolutamente incompatibili con talune situazioni patologiche come nel caso di Giovanni. Il nostro auspicio, come Garante, non può non essere quello di risparmiare lunghi periodi di carcerazione quando già sia la situazione sanitaria, l’età avanzata o altro, manifestano profili di incompatibilità con il carcere e la nostra Carta Costituzionale”. Ma come c’è finito in carcere Giovanni? Aveva un residuo di pena per il reato di maltrattamenti in famiglia. Per qualche motivo la detenzione in carcere è stata preferita a quella alternativa, come avrebbe potuto essere quella domiciliare, e si è generata l’aberrazione. Sì, perché se il carcere, tra i suoi principi, ha anche quello di una funzione rieducativa e di recupero, resta un mistero come un soggetto che non è in grado di intendere e di volere possa essere recuperato o rieducato. Soprattutto se ha 85 anni. Certo, sulla carta le cose dovrebbero essere diverse. Risale allo scorso aprile la decisione della Consulta che, di fatto, ha escluso la detenzione in cella per gli ultrasettantenni. Tutto ruota attorno all’articolo 27 della Costituzione che sancisce il principio di umanità della pena. Un principio su cui, secondo la Corte Costituzionale, la Sorveglianza dovrà esprimersi valutando caso per caso. Sul piatto della bilancia, tra le altre cose da valutare, c’è l’eventuale pericolosità sociale del soggetto.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

E' deceduto al Cardarelli, familiari e legale avvertiti dopo 72 ore. Istanze sempre rigettate da giudice. “Avvocà tenete un colloquio con un detenuto morto”: orrore a Poggioreale, Antonio Alfieri “non si reggeva in piedi”. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'11 Ottobre 2021. “Avvocà ma che tenete un colloquio con un detenuto morto“. E’ questa la risposta ricevuta da Luca Mottola, legale di Antonio Alfieri, 51enne tossicodipendente recluso nel carcere di Poggioreale e deceduto venerdì scorso, 8 ottobre, al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli dove è arrivato in condizioni disperate. La notizia della dipartita di Alfieri è stata però data oggi, lunedì 11 ottobre, ben tre giorni dopo il decesso. Sia i familiari che l’avvocato Mottola non ne sapevano nulla. “Venerdì scorso avevo prenotato il colloquio con il mio assistito per oggi alle 13” spiega il legale. “Quando sono arrivato in carcere mi è stata comunicata la notizia del decesso, da tempo chiedevamo il trasferimento in comunità per Alfieri che era gravemente malato”. Al momento la salma del 51enne è stata trasferita presso il Secondo Policlinico Federico II di Napoli dove nelle prossime ore verrà effettuata l’autopsia su disposizione dell’autorità giudiziaria che ha aperto un fascicolo su quanto accaduto. Non è chiaro se Alfieri sia morto per cause naturali o in seguito all’assunzione di medicinali. Il 28 ottobre scorso c’è stata l’ultima udienza del processo che vedeva imputato Alfieri per per porto, detenzione e ricettazione di armi da sparo clandestine con la richiesta del pm che era stata di due anni di reclusione. Lo scorso marzo è stato arrestato dalla polizia a Pianura, periferia occidentale di Napoli, perché trovato in possesso di due pistole, nascoste in uno stereo all’interno di uno scantinato in via Gentileschi. Etichettato come elemento di spicco del gruppo Calone-Esposito, in guerra da mesi contro i Carillo-Perfetto, Alfieri è stato sbattuto in cella nonostante le sue precarie condizioni fisiche. Vedovo da pochi mesi e abbandonato dagli stessi familiari, a seguirlo l’avvocato Mottola. “Non si reggeva in piedi, aveva bisogno di cure specializzate che il carcere non era in grado di fornirgli. Più volte abbiamo fatto istanza di scarcerazione, in accordo con il Ser.d del carcere, puntualmente rigettata dal giudice”, nonostante il parere favorevole anche del pubblico ministero Luciano D’Angelo. L’ultima udienza, quella dello scorso 28 settembre, dieci giorni prima del decesso, è stata raccapricciante. Racconta Mottola: “Gli avevo chiesto di venire in udienza, rassicurandolo. Vedrai – gli dissi – che il giudice questa volta vedendoti capirà che stai male e ti manderà in comunità”. Ma “il giudice Fabrizio Finamore mi interrompe dicendo di aver già rigettato la richiesta tre mesi fa. Io ribatto chiedendo di alzare lo sguardo verso il monitor (Alfieri era in videoconferenza, ndr)” perché “vedrà con i suoi occhi la sofferenza di un uomo, tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia, vedovo da pochi mesi. Ma niente. Antonio non era degno dello sguardo di chi lo stava giudicando”. Poi “l’ultimo schiaffo: Antonio viene interrogato per sapere se rinuncia al prosieguo dell’udienza e lui lancia l’ultimo grido di aiuto. ‘Ho la flebite non riesco a stare in piedi’ ma il giudice taglia corto e accoglie favorevolmente la rinuncia”. Mottola ha sentito l’ultima volta Alfieri il 2 ottobre scorso assicurandogli di “stare tranquillo” perché “ricorriamo al Riesame”. Poi l’incontro in programma oggi, alle 13, e la tragica notizia ricevuta dal personale del carcere: “Avvocà ma che tenete un colloquio con un detenuto morto”. Il tutto comunicato quasi 72 ore dopo. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista. 

Aveva 76 anni. Invalido muore in carcere, la Garante: “Non doveva essere nell’istituto penitenziario”. Redazione su Il Riformista l'11 Ottobre 2021. Non doveva essere portato in carcere. Questo è un altro caso di inadempienza del magistrato“. Commenta così il Garante dei Detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni il caso del 76enne di Pomezia, affetto da gravi patologie e con un’invalidità del 100 per cento, morto all’Ospedale di Roma Sandro Pertini dopo qualche ora di detenzione nel carcere di Regina Coeli. A riportare la vicenda è Il Corriere della Città, che racconta come l’uomo, che soffriva di Alzheimer, demenza cronica, incontinenza urinaria, afasia e disfagia, sia entrato nell’istituto penitenziario nonostante i familiari avessero implorato medici e poliziotti di adottare una misura alternativa.

La detenzione

L’uomo, che prima di ammalarsi gravemente faceva il commercialista, è stato giudicato colpevole di falsa fatturazione. Nell’esercizio delle sue funzioni, infatti, aveva posto la sua firma su documenti per quello che si è rivelato un crack finanziario, avente come protagonista un noto costruttore della zona. Ma quanto è accaduto molti anni fa, si è rivelato decisivo e fatale per il 76enne. Il 30 agosto di quest’anno, l’uomo, raggiunto dagli agenti di polizia, riceve un mandato di arresto, per la pena residua di un anno e due mesi di carcere. Da quel momento parte un lungo calvario per la famiglia del 76enne, a cui era stato riconosciuto dall’apposita Commissione ASL un’invalidità del 100 per cento con il sostegno dell’accompagno, ai sensi della legge 104/92. Dopo aver ricevuto la notifica dell’arresto, la figlia dell’uomo ha spiegato la situazione sanitaria del padre agli agenti, mostrando anche una voluminosa documentazione rilasciata dall’ASL di zona per avvalorare la tesi che la detenzione carceraria non è assolutamente compatibile con lo stato di salute del genitore.

I controlli in ospedale

Gli agenti, che hanno spiegato alla figlia la necessità di presentare una dichiarazione medica con la quale attestare lo stato di salute dell’uomo, sono stati poi costretti a chiedere l’intervento di un’ambulanza per trasferire l’uomo in un ospedale, dove viene visitato alle 17:00 del 30 agosto. Nell’arco di diverse ore, l’uomo è stato rimbalzato da un nosocomio all’altro per fare i dovuti controlli. Il 76enne, durante i trasferimenti nei diversi ospedali, è sempre stato scortato dai poliziotti e non è mai stato perso di vista da sua figlia, preoccupata e intimorita per il padre, che dalla mattina non aveva né mangiato e bevuto, né seguito le cure necessarie. Solo a fine giornata, alle 23.00 del 30 agosto, la famiglia dell’uomo viene a sapere che il medico di turno ha riconosciuto al 76enne “esito favorevole” per il trasporto in cella: secondo il dottore, lo stato di salute dell’uomo è compatibile con il regime carcerario.

E si dimostrano quindi inutili le implorazioni e le preghiere della figlia dell’uomo affinché il medico riveda la sua decisione: il 76ennne viene preso dai poliziotti e trasferito al Commissariato di Ostia per formalizzare la pratica di arresto. La figlia raggiunge il Commissariato, dove riesce a vedere il padre per qualche minuto, prima di salutarlo per quella che sarà l’ultima volta. La donna si raccomanda con tutti di riferire al personale del carcere dei gravi problemi di salute del padre, in particolar modo di evidenziare la patologia della disfagia, per cui non può ingerire cibi solidi.

L’arresto e il decesso

Dopo la convalida dell’arresto, l’uomo viene portato nella notte tra il 30 e il 31 agosto in carcere a Regina Coeli. Nella giornata del 1° settembre, attraverso una comunicazione della casa di reclusione Rebibbia, la figlia viene a sapere che il padre ha lasciato il penitenziario ed è stato inviato con urgenza al Pronto Soccorso dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Nell’arco di poche ore, viene ufficializzato il decesso: il 76enne muore la sera del 1° settembre per un intasamento alimentare. L’uomo, infatti, nell’istituto penitenziario avrebbe mangiato cibi solidi, che gli sono risultati fatali. La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti. Il Garante dei Detenuti di Roma Stramaccioni giovedì sarà al Regina Coeli per accertare la causa del decesso e per comprendere come mai il 76enne sia finito in carcere, nonostante la sua invalidità.

Ha 76 anni, da quasi 45 è in carcere. La storia di Domenico Papalia, l’ex generale della ‘ndrangheta in carcere mezzo secolo: “E’ malato, graziatelo”. Antonio Coniglio su Il Riformista l'8 Ottobre 2021. Quando Domenico Papalia varcò per la prima volta i portoni impietosi delle patrie galere del nostro paese era il 1977. Le televisioni trasmettevano ancora il “carosello” in bianco e nero, Presidente della Repubblica era Giovanni Leone, sul soglio di San Pietro sedeva Paolo VI, e gli indiani metropolitani contestavano Luciano Lama alla Sapienza. Era un altro mondo: un salto indietro di due generazioni. Tutti i protagonisti di allora ci hanno lasciato, gli “indiani” si sono estinti, ma Papalia rimane ancora dentro quelle quattro mura, in una “riserva” senza spazio e senza tempo. Mezzo secolo di carcere che non è un avamposto della legge, un sagrato del diritto, ma assurge a quella che Leonardo Sciascia indicava come un’ispezione di terribilità: lo stato che, mentre pensa di combattere la mafia, si specchia, ne mutua i mezzi, finisce per rassomigliare a essa. Nella Ndrangheta esistono i “fiori”, le “doti”, a guisa dei gradi dell’esercito. Papalia era considerato un generale: un “mammasantissima”. Se era, non è. Perché, in questi quarantacinque anni di galera, ha studiato, ha esplorato sé stesso, ha raggiunto un livello diverso di elevazione della sua coscienza. Anche nel dolore più sordo, la perdita di un figlio, è divenuto portatore di vita, attraverso un gesto generoso, estremo: la donazione degli organi. A chiedere la grazia per lui sono stati uomini come lo storico sindacalistica della Cgil Francesco Catanzariti e il giudice Ferdinando Imposimato. Oggi, a reiterare questa richiesta al Presidente Mattarella sono i compagni di Nessuno tocchi Caino. Lo fa quel mondo radicale della nonviolenza a cui Papalia ha aderito senza nulla chiedere in cambio, se non amore e una nuova educazione sentimentale. Che Stato è quello che tiene un uomo prigioniero quarantacinque anni attendendo che il suo corpo inerte ritorni nella polvere? Che giustizia è quella che ammazza i prigionieri? Non ci è stato forse insegnato come in carcere entri l’uomo, non il reato? In questa vicenda, si assiste, attoniti e sgomenti, al parossismo di un ribaltamento costituzionale: in carcere entra il reato a cui restare attaccati per sempre. È un paradosso, la stessa logica funerea che Buscetta indicò a Giovanni Falcone: «Non dimentichi, signor giudice, che il suo conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai». Oggi Domenico Papalia è gravemente malato, “con un cancro alla prostata con in più metastasi ossee”, secondo il clinico che lo ha visitato. I suoi avvocati hanno chiesto il differimento della pena, sulla base dell’art. 147 del codice penale. Si tratta di una norma partorita nella temperie di un regime: finanche, negli anni del fascismo, di Alfredo Rocco, ci si poneva il problema di non tenere in carcere gli ammalati e i moribondi. Se i giudici di sorveglianza dovessero rigettare questa istanza, vorrebbe dire che lo stato liberale e democratico è più illiberale e liberticida di una stagione di negazione della libertà. Quale mafia si combatte tenendo in galera Papalia? Quale monopolio legittimo della forza si esercita? Quando è stato incarcerato quest’uomo di Platì – un paese della Calabria segnato dal marchio di Caino – il presidente degli Stati Uniti era Jimmy Carter e, in Cecoslovacchia, duecento intellettuali firmavano la Charta 77. C’era ancora il muro di Berlino, l’Urss e Breznev. Oggi, di tutta questa narrazione, è rimasto solo Domenico Papalia. Ristretto in quel luogo anacronistico, fuori dalla storia, che si chiama carcere, ove gli orologi sono rotti e si infligge soltanto sofferenza. Come dice Sergio D’Elia, il carcere è diventato un manicomio, un nosocomio, un lazzaretto: si perde la testa, la vista, l’udito, finanche i denti. Nulla a che vedere con la sicurezza sociale che imporrebbe una restrizione breve, limitata al tempo in cui si è pericolosi. Il carcere è proprio un luogo di pena, nel quale ci si ammala, si muore. Troppo semplice dire «Chi sta lì ha sbagliato: è giusto che paghi». È questa la prima regola della mafia, il suo statuto ontologico, non dello Stato. Noi Le chiediamo, Presidente Mattarella, la grazia per Domenico Papalia. Grazia è benevolenza, bellezza, diritto. La chiediamo a Lei perché è il garante di quel principio di umanità e di cambiamento sancito dalla nostra Costituzione. Perché, di quelli del ‘77, di quel mondo che non esiste più, è rimasto solo Papalia. Non ha munizioni, doti, gradi. È malato, disarmato, inerme. Solgenitsin diceva che «un petto inerme può resistere anche ai carri armati, se al suo interno batte un cuore puro». Sarebbe triste se il cuore di Papalia, convertito alla nonviolenza, allontanatosi dalla mafia, resistesse a tutto. Eccetto ai “carri armati” del nostro regime penitenziario.

Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per "la Repubblica" il 23 settembre 2021. Ci sono giorni in cui il carcere di Frosinone sembra un aeroporto di provincia: sei, sette voli di droni ronzanti che recapitano alle mani protese dalle finestre coltelli, microtelefonini, eroina. Domenica scorsa una semiautomatica calibro 7.65. Il detenuto Alessio Peluso detto "o' niro", 28 anni, ritenuto essere l'esattore del clan Lo Russo, ha afferrato la pistola attraverso una rete di protezione sgangherata. Prima l'ha puntata contro un poliziotto per farsi consegnare le chiavi di due celle che non è riuscito ad aprire. Poi, attraverso la feritoia, ha sparato all'interno contro tre uomini (un albanese e due campani, tra cui Gennaro Esposito, figura emergente dei trafficanti di droga sulla piazza di Roma e vicino a "Diabolik" Fabrizio Piscitelli) che lo avevano picchiato qualche giorno prima. Infine, come se tutto fosse normale, ha estratto dalla tasca un cellulare. «Avvocato, ho sparato a quei tre. Sono venute le guardie. Ora che faccio?».

La scia di episodi. È la prima volta che una rivoltella piove dal cielo dentro un penitenziario, e se non siamo qui a raccontare una strage è solo perché Peluso ha qualche problema con le serrature. Ma nessuno può sostenere che quanto accaduto nella casa circondariale di Frosinone (513 posti, 526 detenuti) non fosse prevedibile e, dunque, evitabile. Repubblica ha consultato documenti del ministero della Giustizia dai quali viene fuori che da almeno cinque anni negli uffici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) si accumulano allarmi e segnalazioni di droni-corriere. Eppure - con l'esclusione di un progetto sperimentale di "contraerea" a Rovigo - dal 2016 niente di concreto è stato fatto per bloccare un fenomeno che, stando a quanto denunciano magistrati antimafia e gli stessi sindacati della Penitenziaria, è diventato un'emergenza. Che affligge, al pari del sovraffollamento e dell'organico ridotto (mancano 17.000 agenti), il sistema carcerario italiano.

Telefonini nei salami. Quest'anno nelle celle e nelle sezioni di isolamento sono stati trovati quasi 200 cellulari al mese, 6 al giorno. Nel 2020 i poliziotti ne avevano sequestrati 1.761, nel 2019 1.206, una trentina nel 2018. Numeri che disegnano la preoccupante parabola ascendente. Chi pilota i droni utilizza talvolta dei diversivi per evitare di essere intercettato, come si è visto a Taranto nell'ottobre di due anni fa: mentre venivano trasportati dei microtelefonini e dei wurstel infarciti di droga in una stanza al terzo piano del carcere, i complici facevano esplodere fuochi d'artificio all'esterno delle mura. A Poggioreale hanno fermato un drone con sei cellulari appesi. Ma è niente rispetto al clamore che ha suscitato, nel novembre del 2019, la scoperta che Giuseppe Gallo detto Peppe "o' pazzo", boss di camorra, usava serenamente tre smartphone nella sua cella di massima sicurezza in regime di 41 bis nel carcere di Parma. Non era mai accaduto prima. Se un capoclan può comunicare con il mondo dei liberi, è come se non fosse detenuto. L'indagine sulla modalità con cui sono stati introdotti i tre telefoni è quasi conclusa. La lunga teoria di episodi simili, però, fa pensare a canali diversi rispetto ai colloqui con i familiari o a qualche agente della Penitenziaria colluso. I droni, appunto.

A Frosinone sfiorata la tragedia: detenuto ingoia sim del cellulare. Pistola e spari in carcere, drone "buca" agenti e telecamere: altro flop del Dap. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Doveva vendicare un violento pestaggio subito nei giorni scorsi e si è fatto recapitare una pistola direttamente in cella, attraverso un drone che è arrivato come un uccellino sulla finestra esterna. Il tutto immortalato dalle telecamere presenti nel carcere di Frosinone senza però che gli agenti della polizia penitenziaria, che da tempo lamentano carenza di personale, intervenissero in tempo. Poi ha chiamato la guardia penitenziaria chiedendo di andare a fare la doccia. Una volta nel corridoio, ha puntato l’arma contro l’agente, sfilandogli le chiavi delle celle confinanti con la sua e, pur senza utilizzarle, si è avvicinato ad alcune stanze sparando da una calibro 765 con matricola abrasa diversi colpi d’arma da fuoco, in totale cinque, contro i detenuti presenti all’interno. Poteva essere una strage ma, per fortuna, il bilancio è di un ferito di striscio alla coscia secondo quanto riporta l’agenzia Agi (zero secondo il Dap). Protagonista un detenuto napoletano di 28 anni, Alessio Peluso, ritenuto dagli investigatori affiliato a uno dei clan di Miano, periferia nord di Napoli, che da anni si contendono l’eredità lasciata dalla storia organizzazione malavitosa dei ‘Capitoni’, i Lo Russo. Peluso, recluso in regime di isolamento nel reparto di alta sicurezza (quello riservato agli affiliati alle organizzazioni criminali) voleva vendicare il pestaggio subito nei giorni precedenti da due detenuti campani e da un altro di nazionalità albanese. Così ha chiesto e ottenuto l’arma, entrata indisturbata nel penitenziario laziale nonostante la presenza delle telecamere. Dopo gli spari, ha chiamato il suo avvocato che lo ha convinto ha consegnare la pistola al personale di Polizia Penitenziaria. L’episodio è avvenuto nel pomeriggio di domenica 19 settembre. Stesso in serata il 28enne, trovato in possesso anche di un cellulare (ma ha ingoiato la sim per evitare ulteriori controlli sui complici) è stato trasferito in un altro penitenziario e adesso dovrà difendersi dall’accusa di tentato omicidio nell’ambito delle indagini coordinate della procura di Frosinone e dagli investigatori della Squadra Mobile locale. Il giorno dopo nell’istituto di Frosinone, che da anni versa in condizioni critiche tra evasioni ed episodi continui di violenza, c’è stata la visita del provveditore delle carceri del Lazio Carmelo Cantone e del capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, inviato d’urgenza dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Lo stesso Cantone ha confermato l’ingresso in carcere della pistola attraverso un drone grazie alla presenza delle telecamere dalle quali “si è visto il momento in cui preleva l’arma attraverso la finestra”. Il drone era stato comunque già avvistato “fuori dai reparti e immediatamente erano state fatte le segnalazioni alla forza di polizia all’esterno, tant’è che è intervenuta subito una pattuglia”. Intervento tuttavia poco tempestivo perché, intanto, Peluso aveva già avuto accesso al corridoio sparando ben cinque volte.  Un ritardo di comunicazione tra i vari reparti che poteva costare caro. “Il problema dei droni è ben presente al Dap”, ha dichiarato Petralia al termine del suo sopralluogo. “Tutto quello che si può fare, come impiego di personale e di risorse, lo faremo fin da domani”, ha aggiunto. “Controlleremo – ha annunciato – quello che il mercato offre con un apposito gruppo che si è già interessato dei telefonini e adesso si interesserà anche di questo. Ci siamo già resi conti che è possibile adottare dei sistemi tecnologicamente avanzati come già abbiamo fatto, sperimentando uno di questi molto sofisticato in un carcere del Sud. Sappiamo perfettamente, la ministra” della Giustizia, Marta Cartabia, “è perfettamente a conoscenza. C’è un filo diretto continuo e su questo investiremo tutte le risorse possibili. E mi sento di poter dire ragionevolmente che come me anche la ministra e, devo ritenere anche il Governo, si impegnerà sulle risorse che possono servire per contrastare questo fenomeno”. “Le criticità del carcere di Frosinone sono quelle di molte realtà penitenziarie”. Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, intervistato da LaPresse, smorza i toni. Criticità che non devono diventare “un pretesto per mettere genericamente sotto processo l’istituto, l’amministrazione penitenziaria o la solita sorveglianza dinamica, sempre oggetto di polemiche più o meno pretestuose”, prosegue Anastasia. “La mancanza di organico è un dato di fatto. Ma – puntualizza il Garante – è una situazione comune a tutto il sistema penitenziario che non deve diventare un alibi per le cose che non funzionano. Aspettiamo l’esito delle indagini penali e amministrative in corso e vediamo quali saranno le indicazioni dell’Amministrazione penitenziaria per prevenire episodi di questa gravità”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Pierangelo Sapegno per “la Stampa” il 18 settembre 2021. Anche l'altra notte, l'ultima volta che l'hanno preso, a Bolzano, ha provato a scappare. Ma a 62 anni, mezzo sciancato, il fisico pieno di acciacchi, non è andato troppo lontano. Max Leitner, una carriera di rapine, ma soprattutto di fughe, diceva sempre: «Non mi prenderanno vivo, piuttosto la faccio finita. E di certo non tornerò in carcere». Invece c'è sempre tornato. L'ha fregato una donna, questa volta, una nigeriana, di cui s' era invaghito, mica tanto corrisposto però. L'hanno chiamato «il Re delle evasioni», Max, un soprannome un po' letterario, perché ha passato buona parte della sua vita sempre cercando di fuggire. Sin dall'inizio, nel 1990, quando lo fermarono in Austria dopo una rapina a un portavalori. Sparatoria e fuga, un suo classico. Poi carcere e prima evasione. Riparò in Italia e si consegnò a Bolzano, fermandosi in cella solo qualche settimana. Scappò calandosi dalla finestra con le lenzuola, il metodo che devono aver vagheggiato almeno una volta tutti i carcerati. Il primo ad adoperarlo fu un ladro magro e ribelle della Londra del 1700, Jack Sheppard, che cercò di dileguarsi così fra i topi e le fogne. Visse poco, Jack, 22 anni appena, giusto il tempo di entrare nella storia delle grandi evasioni. Max è ancora vivo, a inseguire la volta buona. Viene sempre preso, però. Dopo Bolzano, Padova, un'altra rapina, sparatoria e ancora fuga, poi carcere a Bergamo, solita evasione, l'arresto a Rabat, la prigione di Asti e di nuovo da capo. Convince il cappellano a portarlo a pregare sulla tomba del padre, ma arrivato al cimitero riesce a dileguarsi fra quelle lapidi e i cipressi. Lo ribeccano e si fa 10 anni in silenzio. Quando esce è libertà vera fino all'altra notte. Per quelli come lui, o come Graziano Mesina, l'altro re delle evasioni, è una specie di dannazione. Anche Graziano cercò di scappare la prima volta che lo arrestarono. Era accusato di tentato omicidio, perché aveva aggredito il vicino che gli aveva ucciso la cagna. «Mi ha rubato l'uva», si era scusato quello. Allora Mesina aveva squartato il cane per vedere se aveva davvero mangiato l'uva, e siccome non aveva trovato niente gli era saltato addosso per rendergli la pariglia. Quando lo beccarono, scappò liberandosi delle manette e saltò sul primo treno che passava alla stazione. Lo consegnarono alla polizia i ferrovieri. Da allora tentò di evadere 22 volte, e molte ci riuscì, come l'11 settembre 1966 quando scappò con Miguel Atienza scalando un muro del carcere alto 7 metri. Con quella latitanza cominciò la crudele stagione dei sequestri. Diventò la primula rossa, entrando e scappando dalle prigioni. La realtà è leggenda, con un po' di esagerazione magari. Prendete Henry Charrière, Papillon, che fuggì dall'isola del Diavolo con una barca costruita da lui con noci di cocco. Ha scritto un libro, ne hanno fatto un film, ma i suoi compagni di carcere dissero che raccontava un mucchio di palle. Perché la verità è sempre più strana di quello che sembra, può essere anche una storia senza la parola fine. L'11 gennaio 1962, Frank Morris e i fratelli John e Clarence Anglin scapparono da Alcatraz dopo aver lavorato un anno a scavare un tunnel, coprendo il buco con i giornali e lasciando dei manichini sotto le lenzuola. Salirono su una zattera improvvisata, sparendo nel nulla fra le acque gelide della baia di San Francisco. Non si seppe più niente di loro, e l'Fbi disse che erano morti. Chissà se è vero. Bill Hayes invece ce l'ha fatta. Arrestato per droga a Istanbul e condannato a 30 anni, si nascose in una costruzione di cemento, riuscendo poi a rubare un gommone con il quale raggiunse la Grecia nel mare in tempesta. Ma sono pochi quelli che la sfangano, la maggior parte sono tutti ripresi. Renato Vallanzasca scappò due volte, la seconda dall'oblò di un traghetto che lo portava all'Asinara, e fu beccato perché cercò una donna. Felice Maniero fuggì da Fossombrone, fu riacciuffato e tentò di corrompere due guardie con 80 milioni a testa senza riuscirci. Lo liberò la sua banda, fu arrestato di nuovo e allora decise di pentirsi. Pascal Payet l'hanno bloccato quando ormai era convinto che non l'avrebbero più trovato. Si era fatto prelevare da un elicottero sul tetto del carcere di Luyes, nel 2001. Due anni dopo aveva liberato tre suoi compagni con lo stesso sistema, guidando lui l'elicottero. Tutti ripresi. Nel 2007 scappò di nuovo, sempre dalla porta del cielo. Si fece una plastica facciale per non essere riconosciuto. Lo catturarono lo stesso a Barcellona. La verità è che la cosa più difficile è il dopo, è farla franca. La fuga è uno sberleffo, un atto sfrontato di fantasia. John Dillinger scappò dal carcere della contea di Crown Point minacciando le guardie con un pezzo di legno a forma di pistola e una saponetta e per allontanarsi rubò la macchina del direttore. Ma 4 mesi dopo fu ucciso con 5 colpi dagli agenti dell'Fbi all'uscita di un cinema di Chicago, mentre aspettava le sue amiche, Polly e Ana. Davano un film poliziesco con Clark Gable, Le due strade. Era stata proprio Ana a tradirlo. C'è sempre una strada sbagliata in una fuga.

Lettera al Presidente della Repubblica. La detenzione è una cicatrice, ma spesso è lo Stato a ferire le persone. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 14 Settembre 2021. La visita del capo dello Stato Sergio Mattarella e della ministra della Giustizia Marta Cartabia a Nisida conferma l’impegno del Governo per un carcere finalmente allineato ai principi costituzionali e alle norme dell’ordinamento penitenziario. Nessun ministro ha mostrato, sin dal suo insediamento, tanto interesse per l’esecuzione penale. È tempo ora che dalle parole si passi a effettivi provvedimenti operativi, come dare esecuzione a quella riforma dell’ordinamento penitenziario pronta ma bloccata per interessi politici che nulla hanno a che fare con il bene della nazione. Fatta questa premessa, le parole del presidente Mattarella ai ragazzi detenuti non possono essere lasciate senza una risposta e, pertanto, immaginiamo che almeno uno degli ospiti dell’“isola che non c’è” abbia avuto la forza di replicare. «La detenzione non dev’essere una macchia indelebile, ma una ferita che si rimargina. Non è impossibile reinserirsi con successo nella vita. Non sono cose che succedono solo nei film»: con queste parole Mattarella ha voluto invitare i giovani ad avere speranza e ha ribadito che la prospettiva del reinserimento «va garantita non a parole: non bastano le parole del Capo dello Stato, occorrono interventi, iniziative, scelte e fiducia sociale». Signor presidente, in tutti questi anni di buone intenzioni ne abbiamo ascoltate poche e quasi mai a queste sono poi seguiti fatti concreti. Lei paragona i nostri errori a ferite, ma quante ferite i detenuti sopportano ogni giorno? Non ci riferiamo a noi che viviamo comunque una situazione privilegiata, ma all’intero mondo penitenziario dove vengono inferte “coltellate” a cittadini indifesi e privati ingiustamente dei loro diritti. Sono “tagli” che difficilmente si rimarginano e che lasciano cicatrici profonde  e capaci di segnare il corpo e la mente per tutta la vita. Oggi la possibilità di reinserimento, per un detenuto, è inimmaginabile e davvero rappresenta la sceneggiatura di un bel film, mentre lo spettacolo che quotidianamente si replica dentro le mura, a volte, supera l’immaginazione di una pellicola dell’orrore.

Caro presidente, quanto accaduto recentemente nell’istituto di Rebibbia – dove una donna è stata lasciata sola a partorire, come se il “lieto evento” fosse imprevedibile – è qualcosa di raccapricciante e fa comprendere l’assoluto abbandono in cui vivono le carceri nel nostro Paese e come le persone detenute non siano altro che numeri, privi di fisicità, ai quali non va prestata alcuna attenzione. Far nascere un bambino in carcere, amato Presidente, rappresenta una ferita a morte per un Paese civile. Non vi possono essere scuse! È irrimediabilmente vergognoso! Come lo è consentire la presenza di bambini negli istituti di pena. Oggi ve ne sono 26 e 14 – dunque più della metà – sono “detenuti” in Campania. Eppure molti politici e anche ministri avevano assicurato “mai più bambini in carcere”. Sono passati anni, ma nulla è stato fatto. Lei – e la ringraziamo – pensa che possiamo vedere rimarginate le nostre ferite, ma ciò non sarà possibile realmente se non vi sarà un intervento chirurgico complesso e di ampio respiro sul corpo straziato di una nazione in cui gli ultimi sono invisibili dentro e fuori il carcere. Condividiamo le sue parole: occorrono interventi, iniziative, scelte e fiducia sociale. Ma quando si comincia? Riccardo Polidoro

Serenella Bettin per “il Giornale” il 17 ottobre 2021. Quando incontriamo Giampaolo Manca è in lacrime sulla porta di un albergo di Venezia. Sta parlando con la regista Rebecca Basso che gli sta dando indicazioni su come girare le scene del trailer del suo film. Giampaolo Manca è stato un esponente di spicco della Mala del Brenta. L'organizzazione criminale che dagli anni 70 ai 90 terrorizzò il Nordest. Rapine, sequestri, omicidi anche di persone innocenti, traffico di droga. Giampaolo Manca ha 67 anni.  Di cui quasi 37 li ha passati in carcere. Dodici in isolamento. Entrato nel carcere minorile per la prima volta nel 1970 perché sorpreso a rubare in una famiglia nobile di Venezia, da lì è tutto un andirivieni nelle carceri di massima sicurezza. L'ultima parte del periodo carcerario l'ha passato in una comunità di Rimini. Poi tornato in carcere per un po' di tempo ha iniziato a scrivere. A buttare fuori, nero su bianco quello che lo martoriava e continua a martoriarlo dentro. Ha scritto più di 4mila pagine. Come un fiume in piena che non arresta la corsa. Una terapia la sua insieme alla lettura che l'ha aiutato. «Dall'inferno e ritorno», il suo primo libro, da lui edito. Quando quel giorno le sbarre del carcere si sono aperte, al cancello c'erano la moglie Manuela e il figlio Armando. Manuela l'ha aspettato per 37 anni. Si sono conosciuti quando lei di anni ne aveva 16. Anche lei compare in questo docufilm. La casa produttrice è la Emera Film. Una squadra di ragazzi in gamba sotto la guida di Rebecca che non si perde in chiacchiere. A terra ci sono luci, cavi, macchine da presa, microfoni. Azione. Stop. Rifacciamo.  

Le riprese durano a lungo. C'è anche il nipotino di nove mesi, il figlio di Armando. Ma cosa l'ha cambiato? 

«Un giorno in carcere accadde una cosa molto dolorosa. Mia moglie mi chiama e mi dice: «Tuo padre è in coma. Ha un tumore. È stato operato. Chiamo il sacerdote e gli dico se mi poteva aiutare».  

Da lì parte il suo percorso. Giampaolo chiede aiuto al Padre anche per il fratello. Poi il 13 maggio dell'anno scorso, il giorno del compleanno del figlio, scopre di diventare nonno. 

«A 67 anni Dio ha deciso che diventassi nonno. Ero pronto. Anche questo è un altro dono. Io so che lui mi ha perdonato. Ma sono io che non mi perdono».  

Ma perché lo faceva? 

«All'inizio era un gioco. Mio padre era un violento. Io ho fatto la quinta elementare. Sono cresciuto ribelle. Andavo nelle chiese a rubare i quadri. Mi chiamavano il Doge. Poi da un gioco divenne un lavoro. Prendevo un sacco di soldi. Per il male che ho fatto anche se mi avessero dato 50 anni andava bene lo stesso». 

Giampaolo non ha voluto sconti. Collaborazioni. Tradito dal numero uno della Mala, faccia d'angelo, Felice Maniero. Ora Giampaolo con questo film per cui si cercano fondi e con i libri che ha scritto, in uscita il terzo «Il mio tour carcerario», ha deciso di aiutare i bambini in difficoltà.  Costruirà una struttura per ragazze madri e per bambini autistici. «Porto questo messaggio alle nuove generazioni. Vado nelle scuole. Nelle chiese. Nelle università. Per dire ai ragazzi, vi prego, le strade per essere migliori non sono di certo quelle che ho percorso io. Andate a scuola. Nella vita non si può ottenere tutto subito. Devi lavorare. Impegnarti. Ci sono sacrifici da fare». 

Quando è uscito di galera quel giorno ha chiesto un vassoio di croissant. «Il 4 marzo 2018 sono diventato un uomo libero. Alle otto di sera a casa. Non sapevo nemmeno fare le scale. Però potevo farmi la doccia senza chiedere il permesso».

"Costretti alla malavita ma adesso siamo rinati". La storia di Ramon D’Andrea: dalla prigione al red carpet, il racconto dell’addio al crimine. Francesca Sabella su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Nasce a Piscinola, in una famiglia dove una donna sola cerca di sopravvivere con tre figli piccoli. Lì le istituzioni sono quasi del tutto assenti: Ramon inizia a commettere rapine, poi a spacciare, alla fine viene rinchiuso in un istituto minorile e, a 18 anni, nel carcere di Poggioreale. Passerà sette anni in cella, cambiando diversi penitenziari. Poi il riscatto, dal carcere di Secondigliano al red carpet di Venezia: è la storia di Ramon D’Andrea.

Ramon, partiamo dall’inizio: com’è finito in carcere?

«Sono nato in una delle periferie di Napoli. Mia madre non aveva i soldi per fare la spesa. Non aveva due euro in tasca per metterci un piatto di pasta a tavola. Andavo a mangiare dai miei parenti, per un anno siamo stati in una casa senza corrente elettrica. È iniziato tutto così: un ragazzino che non può mangiare, se non ha alternative, inizia a delinquere. Non è una giustificazione, ma la realtà dei fatti».

Le istituzioni non vi hanno mai aiutato?

«No, mia madre ha chiesto aiuto. A volte arrivavano degli assegni, ma di fatto siamo stati lasciati soli. Ed è in quei vuoti lasciati dalla politica che si inserisce il malaffare».

Oggi si discute di un patto educativo per salvare i ragazzi dalla criminalità. Che cosa si deve fare?

«Creare alternative e opportunità. Le istituzioni devono essere più presenti. Nel mio quartiere ci sono teatri, campetti di calcio e cinema completamente abbandonati. Nessuno se ne occupa. Se non indichiamo ai ragazzi un’altra strada, sono spacciati. Da quando sono uscito dal carcere cerco di insegnare loro che un’altra vita è possibile e che la strada della criminalità non conduce a nulla di buono. Li porto con me a fare a teatro, li propongo come comparse nei film che si girano a Napoli. Quando vedono prospettive diverse dallo spaccio e dalle rapine, sono entusiasti. Magari non li salveremo tutti, ma anche salvarne uno su cento è una vittoria. La politica, però, deve fare la sua parte ed essere presente, soprattutto aiutando economicamente le famiglie in difficoltà. E poi deve cambiare il sistema carcerario».

Che cosa va cambiato nelle carceri?

«Oggi le prigioni non sono luoghi di rieducazione, ma scuole di criminalità. Io sono stato letteralmente buttato in carcere a 18 anni e lì dentro, per sopravvivere, se non sei un criminale, lo diventi per forza. Ero detenuto nel padiglione Napoli, tra gli autori di omicidi, rapine e truffe. A 18 anni sei una spugna: impari da chi ti sta accanto. Senza dimenticare gli abusi degli agenti della polizia penitenziaria che portavano a casa la pasta, il sale, l’olio che i nostri familiari ci spedivano: un inferno».

Poi è arrivata la svolta…

«Sì, sono stato trasferito nel carcere di Campobasso e lì ho preso decine di diplomi. Ho finito la scuola media e conseguito il diploma all’istituto alberghiero. Ho partecipato a laboratori di teatro e sono diventato un “detenuto modello”. Poi ho finito di scontare la mia pena nel carcere di Secondigliano e nel 2016 sono uscito. Nel 2017 ho recitato nel film L’equilibrio di Vincenzo Marra e ho persino sfilato sul red carpet del Festival del cinema di Venezia. Io, che quelle immagini le guardavo da una cella, ero lì: sembra impossibile, eppure ce l’ho fatta».

Che cosa direbbe ai ragazzini che sono già impigliati nelle maglie della criminalità?

«Quello che avrei voluto sentirmi dire io da bambino: un’altra vita è possibile, la delinquenza non porta da nessuna parte. E alle istituzioni dico: siate presenti».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Condannati all'inferno: l'oscuro lavoro nelle galere. Lorenzo Vita il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. I rematori sono stati per secoli un elemento fondamentale delle flotte europee e turche. Ma chi erano questi "motori umani" delle galere? Prigioni di legno in cui il sudore si mescolava alla salsedine e all'acqua del mare, con le urla degli aguzzini a scandire le loro giornate. Ma sempre meglio di un carcere sulla terraferma, di una condanna a morte o di una terribile punizione corporale che veniva esclusa solo per una richiesta: finire a remare nelle galere. La storia, è noto, è scritta dai vincitori. Ed è altrettanto noto che si ricordano solo i nomi dei personaggi illustri, eroi, traditori, comandanti, santi, sovrani, filosofi e donne e uomini di potere. Nessuno ricorda nome e cognome di chi era solo una parte minuscola di un immenso ingranaggio a sua volta parte del meccanismo di uno Stato. Eppure anche questi uomini comuni hanno scritto pagine di Storia: come collettività, senza ricordare il nome del singolo ma tralasciando ai posteri il nome dell'intera categoria di cui facevano parte. Come avvenuto per i galeotti, i rematori delle galere, che sono diventati il termine con cui ancora oggi si definiscono le persone che finiscono in prigione. Ma chi erano questi protagonisti anonimi e essenziali della guerra in mare? Per lungo tempo i galeotti non sono stati affatto solo criminali. L'immagine che a noi viene più naturale - in larga parte derivata dai film e dai romanzi - è quello del prigioniero condannato ai remi, con una catena che lo teneva legato alla sua postazione e un uomo dell'equipaggio iroso e violento che con urla, frustate o al ritmo di un tamburo batteva la velocità dei remi. Eppure tanti (non tutti), fino all'età moderna, erano sorprendentemente uomini liberi, che sceglievano di imbarcarsi per anni nei bastimenti. Naturalmente non si può dire che fosse un lavoro ricercato: le galere erano uno dei luoghi più difficili del mondo, con un livello di igiene scarsissimo, alto tasso di mortalità e con le persone costrette a rimanere piegate per ore sul proprio legno e con turni massacranti di lavoro. Tuttavia, appunto, c'era chi andava lì per sua volontà, quelli che erano chiamati i "buonavoglia". Gente molto umile, spesso disperata, che nel tempo passò da volontaria a costretta in assenza di prospettive o sotto la minaccia del carcere per diversi motivi. Nel corso dei secoli però i buonavoglia, che erano presenti in molti Paesi europei, divennero sempre meno. Così, mentre i liberi rimasero come zoccolo duro di rematori ben addestrato e in grado di combattere contro ogni nemico, la maggior parte dei compagni di nave iniziò a essere composta da condannati ai lavori forzati e schiavi. In molti Paesi era sempre più difficile reclutare rematori liberi, in altri, invece, si iniziò a fare largo uso della condanna alla galera. Sia per l'aumento del numero di navi per contrastare i turchi, sia per l'aumento delle flotte nemiche in generale, sia per bilanciare un costo sempre più alto per mantenere le flotte. A Venezia si provvide addirittura a creare un apposito comandante, il Governatore de' condannati, che aveva autorità sulle cosiddette "galee sforzate". In Spagna, il quotidiano Abc racconta che nel Museo navale esiste un'enorme quantità di documenti che fotografano il reclutamento di questi detenuti, racchiusi nei "Libros de Galeras". Documenti che rivelano non solo l'identità dei condannati ai remi, ma anche perché arrivavano nelle galere: molti erano ladri, qualcuno anche un assassino, molti gli indebitati o semplicemente i vagabondi. Spesso si trattava di condannarti direttamente alle galere, ma di persone che per evitare torture o amputazioni sceglievano il male minore. E anche in Francia si iniziò a fare largo uso dei condannati al carcere per rinfoltire le file dei rematori. A questi cittadini delle nazioni che armavano le flotte, si deve poi aggiungere una buona minoranza di rematori composta da schiavi. Per le flotte cristiane, erano musulmani catturati durante le guerre con i barbareschi e gli ottomani. Nelle flotte turche e dei corsari erano invece in larga parte schiavi europei o anche di altre parti dell'impero o di altri regni limitrofi. Qualcuno poteva sognare la libertà una volta vinta una battaglia, come avveniva per i forzati. Ma tanti potevano solo sperare in un miracolo: quello di sopravvivere a una vita di fatiche, ferite e nel fetore che appestava queste prigioni galleggianti che dominavano il Mediterraneo.

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta

L'agonia per un mix di farmaci. John Marion Grant, gli ultimi minuti di vita del condannato a morte: vomito, convulsioni e urla. Carmine Di Niro su Il Riformista il 30 Ottobre 2021. Una lenta agonia, 15 minuti trascorsi tra urla, disperazione, conati di vomito e convulsioni. È morto così John Marion Grant, condannato a morte con una sentenza del 2000 nello Stato dell’Oklahoma, negli Stati Uniti, e giustiziato lo scorso 28 ottobre. A raccontare gli ultimi momenti di vita di Grant sono stati diversi testimoni che hanno assistito all’esecuzione della pena di morte: familiari, giornalista e legali del condannato. Grant, 60 anni, è stato giustiziato con l’iniezione di un cocktail letale di farmaci, il Midazolam su tutti. Una condanna per l’omicidio avvenuto nel 1998 di un dipendente di una caffetteria del carcere in cui si trovava per aver commesso alcune rapine. Inutili i tentativi di ottenere la grazia, respinta due volte, così come gli appelli di Papa Francesco di non eseguire l’esecuzione. I suoi familiari e legali avevano inoltre denunciato come l’uomo non avesse ricevuto negli anni i prigione  l’assistenza psicologica e le cure mentali di cui avrebbe avuto bisogno. Il 60enne afroamericano è stato giustiziato poche ore dopo la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di revocare la sospensione della pratica per Grant e per un altro detenuto, Julius Jones. Negli Usa si riaccende così il dibattito sulla pena di morte con mix di farmaci, una pratica che il presidente Joe Biden ha promesso di abolire: in Oklahoma era stata fermata nel 2015 dopo testimonianze sulle sofferenze disumane di alcuni detenuti sottoposti alla pena di morte col mix di farmaci. Quanto a Grant, le testimonianze dei presenti fanno impressione: le convulsioni avute dal 60enne dopo la prima somministrazione dei farmaci sono state così violente da far quasi cedere i lacci che lo tenevano legato al lettino. Poi l’uomo ha vomitato almeno venti volte prima di perdere i sensi: solo a quel punto il ‘boia’ ha somministrato gli altri due farmaci previsti dal protocollo, che hanno portato allo stop delle funzioni cardiache e respiratorie.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da repubblica.it il 29 ottobre 2021. Un detenuto nel braccio della morte è stato scosso da vomito e convulsioni durante la sua esecuzione nello stato americano dell'Oklahoma, dove è stato usato un cocktail letale sul quale c'era il sospetto che potesse causare un dolore atroce. John Grant, un afroamericano di 60 anni, è stato condannato a morte nel 2000 per l'omicidio di un dipendente della prigione. Dopo aver ricevuto il via libera dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, le autorità carcerarie dello stato del sud gli hanno iniettato le tre sostanze ed è stato dichiarato morto alle 16:21 (23:21 in Italia). Questo protocollo era già stato applicato nel 2014 e nel 2015, ma l'evidente sofferenza dei detenuti ha portato lo stato a dichiarare una moratoria sulle esecuzioni. John Grant "ha iniziato a tremare poco dopo la prima iniezione", ha detto il reporter dell'AP Sean Murphy, che ha assistito alla scena. Ha avuto circa 20 convulsioni e ha vomitato diverse volte prima di svenire. "Ho visto 14 esecuzioni, non ho mai visto niente del genere", ha detto. Il suo calvario ha immediatamente scatenato forti critiche. "L'Oklahoma aveva bloccato i suoi ultimi tre tentativi di esecuzione prima della sua pausa di sei anni, ma apparentemente non ha imparato nulla da quell'esperienza", ha commentato Robert Dunham, che gestisce il Death Penalty Information Center (DPIC). Qualche giorno fa, i servizi penitenziari dell'Oklahoma avevano tuttavia affermato in un comunicato stampa che il loro protocollo era "umano ed efficace" e che le esecuzioni potevano riprendere. L'avvocato di alcuni detenuti, Dale Baich, ha detto che ci sono ancora "serie domande" sul dolore causato dal cocktail letale e la sua conformità con la Costituzione degli Stati Uniti, che vieta "punizioni crudeli e insolite". "Un processo su questa particolare questione dovrebbe iniziare a febbraio e le esecuzioni non dovrebbero riprendere prima di allora", ha detto. Mercoledì una corte d'appello gli ha dato ragione e ha sospeso l'esecuzione. Ma le autorità dell'Oklahoma si sono immediatamente appellate alla Corte Suprema degli Stati Uniti per ribaltare la decisione. Senza spiegare le sue ragioni, l'Alta corte ha infine dato il via libera all'esecuzione in extremis. I tre giudici progressisti, tuttavia, hanno chiarito che non erano d'accordo con la maggioranza conservatrice. Il protocollo contestato combina un sedativo, il midazolam, e un anestetico, destinato a prevenire il dolore prima dell'iniezione di cloruro di potassio a dose letale. E' stato usato nel 2014 per giustiziare Clayton Lockett, ma il condannato è morto in apparente agonia per 43 minuti. Nel 2015, un altro condannato, Charles Warner, si lamentò che il suo "corpo stava bruciando" prima di morire, poichè i boia avevano usato il prodotto sbagliato. Lo stesso errore si è quasi ripetuto nel settembre 2015 e un'esecuzione è stata rinviata all'ultimo minuto. In seguito a questi fallimenti, un gran giurì ha avviato un'indagine e le autorità hanno accettato di sospendere l'applicazione della pena di morte. Nel 2020, è stato messo a punto un nuovo protocollo e sono state fissate diverse date di esecuzione nel 2021, a cominciare da quella di John Grant. L'Oklahoma prevede anche di giustiziare Julius Jones, un uomo afroamericano di 41 anni che è stato condannato a morte nel 2002 per l'omicidio di un uomo d'affari bianco, che ha sempre negato. Il suo caso è stato oggetto di una serie di documentari e di un podcast, ed è sostenuto da numerose associazioni e personalità come Kim Kardashian, che sono convinte della sua innocenza. Ha perso tutti i suoi appelli legali, ma il Board of Pardons dell'Oklahoma ha raccomandato che la sua sentenza sia commutata in ergastolo. Il governatore non ha ancora preso una decisione.

Dagotraduzione dal Sun il 29 ottobre 2021. Il numero di condanne a morte è diminuito drasticamente negli ultimi due decenni, ma le esecuzioni sono ancora legali in 27 Stati e, nella maggior parte di questi, ai condannati viene offerto un ultimo pasto. In Florida, l’ultima cena deve avere un prezzo massimo di 40 dollari e deve poter essere preparata localmente. Ma cosa hanno chiesto di mangiare i detenuti prima di morire? James Edward Smith, ex prete, condannato per aver ucciso il cassiere di una banca durante una rapina nel 1983, poco prima di andare a morire, nel 1990, chiese un pezzo di terra come pasto finale, il rhaeakunda dirt, spesso associata a rituali vudù. La richiesta fu rifiutata e il condannato si accontentò di una tazza di yogurt. Victor Feguer, vagabondo originario del Michigan, nel 1960 scelse dalle pagine gialle un medico perché gli insegnasse a produrre droghe, lo rapì e, al suo rifiuto, gli sparò un colpo in testa. Condannato a morte, chiese alle guardie una sola oliva con il nocciolo dentro come ultimo pasto, nella speranza che sulla sua tomba germogliasse un ulivo. Quando la sentenza fu eseguita, le guardie trovarono l’oliva nelle tasche del defunto. Thomas J. Grasso fu condannato per l’omicidio di due anziani. Come ultimo pasto chiese due dozzine di cozze al vapore, due di vongole, un doppio cheeseburger da Burger King, una mezza dozzina di costine alla brace, due frappè alla fragola, mezza torta di zucca con panna montata, fragole a cubetti e SpaghettiOs. Ricevette solo spaghetti troppo caldi e se ne lamentò. Timothy McVeigh, il terrorista americano responsabile dell’attentato di Oklahoma City del 1995, che costò la vita a 168 persone, tra cui 19 bambini, fu giustiziato all’età di 33 anni con un’iniezione letale. Prima di andare a morire gli furono servite due pinte di gelato alla menta con gocce di ciocciolato di Ben & Herry’s. Philip Ray Workman fu condannato a morte perché nel 1982, scappando dopo una rapina andata male, uccise un agente di polizia. Workman si rifiutò di ordinare un ultimo pasto per sé stesso, e chiese invece che fosse consegnata ad un senza tetto una grande pizza vegetariana. Al rifiuto del carcere, andò a morire digiuno. Ma il giorno della sua esecuzione, migliaia di persone inviarono ai rifugi per senza tetto pizze vegetariane per onorare la sua richiesta. Lawrence Russell Brewer era un suprematista bianco, che, insieme a due complici, rapì un uomo di colore, lo portò in una remota strada di campagna del Texas, e qui prima lo picchiò duramente, poi gli dipinse la faccia con lo spray, gli urinò e defecò addosso, e infine lo incatenò per le caviglie al pick-up e lo trascinò per tre miglia. Prima di morire chiese di poter mangiare due bistecche di pollo fritte ricoperte di salsa con cipolle affettate, un cheeseburger con tripla carne e bacon, una frittata al formaggio con carne macinata, pomodori, cipolle, peperoni e jalapeños, una grande ciotola di okra fritto con ketchup, una libbra di barbecue con mezza pagnotta di pane bianco, tre fajitas, una pizza per gli amanti della carne, tre root-birre, una pinta di gelato alla vaniglia Blue Bell e una fetta di fondente al burro di arachidi con arachidi tritate. Ricevuto il sontuoso pasto, Brewer non toccò nulla: non aveva fame. E il Texas, da allora, vietò le richieste. Christopher Eugene Brooks violentò e poi uccise con un manubrio una ragazza che aveva conosciuto in un campo estivo. Per il suo ultimo pasto chiese di mangiare tazze di burro d’arachidi e una Dr. Pepper. 

La direttiva ministeriale a Tokyo. Stop ai colori nel braccio della morte, in Giappone vietati pastelli e temperamatite. Sergio D'Elia su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Un quadretto raffigura l’incontro di tre pesci in una bolla di vetro, uno rosso, uno bianco e nero, uno marrone. I tratti sottili disegnati da punte di matita di colore diverso creano un’immagine un po’ infantile ma significativa di uno stato d’animo. Forme di vita sospese in uno spazio senza orizzonte, in un tempo senza futuro. È forse questo il suo disegno più autobiografico. Akihiro Okumoto ha 33 anni ed è nel braccio della morte del centro di detenzione di Fukuoka. Aveva 22 anni quando ha ucciso con un coltello e un martello la moglie di 24 e la suocera di 50 nella sua casa nella città di Miyazaki nel marzo 2010. Ha anche ucciso suo figlio di 5 mesi strangolandolo e annegandolo in una vasca da bagno, seppellendo poi il suo corpo in un cortile vicino. Un disegno dedicato alla pace mostra proprio un bimbo piccolo che prova a prendere due farfalle, una azzurra e una più scura: ha gli occhi grandi neri, le gote rosa e veste un pannolino a pois e calzini verdi. Coltello e martello, le armi del delitto, sono ormai sotto chiave in un cassetto dei reperti di reato del tribunale che lo ha condannato a morte. Per dieci anni Okumoto ha usato armi diverse, leggere, colorate: le sue mani nude e le sue amate, inseparabili matite a colori, per lui vitali per disegnare animali e piante della città natale, il ricordo delle feste della semina del riso, gli uccelli variopinti, i ciliegi rosa in fiore in un mare di verde, le colline e altri paesaggi. Un disegno illustra un ciuffolotto maschio dal piumaggio rosa, celeste e nero, posato su un ramo di fiori di ciliegio. Un’altra immagine mostra due girasoli in un cielo azzurro: c’è il giallo oro dei petali che sfuma nell’arancio scuro della parte centrale, c’è il verde del fusto e delle ampie foglie. Il girasole è il fiore del cambiamento, della vita che volge, tramonta alla fine del giorno e rinasce ogni volta alla luce del sole. Col tempo anche i sentimenti dei famigliari di Akihiro Okumoto verso la sua punizione sono cambiati dopo che la sua condanna a morte è diventata definitiva nel 2014. Nell’aprile del 2017, un membro della famiglia delle vittime ha avanzato una richiesta di clemenza e chiesto un nuovo processo perché ora vuole che Okumoto espii i suoi crimini vivendo piuttosto che morendo. Per anni, il condannato a morte per omicidio ha disegnato immagini usando un set di matite a 24 colori, ha venduto i suoi disegni tramite i suoi sostenitori e ha inviato i profitti ai membri della famiglia in lutto. Ma un giorno, nell’ottobre 2020, il Ministero della Giustizia, nell’ambito di una “una revisione generale delle regole relative alla sicurezza”, ha rivisto la direttiva che stabilisce quali oggetti possono usare i condannati a morte. Così, le matite colorate e i temperamatite personali sono stati vietati. I colori dominanti nei bracci della morte sono ritornati a essere quelli monotoni, grigi e plumbei dei corridoi, delle celle, delle sbarre. Akihiro Okumoto, per riavere le sue matite e, con esse, i colori della sua nuova vita, ha intentato una causa al governo nazionale. Ha chiesto al governo di revocare la riforma delle direttive carcerarie che vietano l’uso di matite colorate, perché la nuova direttiva viola la sua libertà di espressione garantita dalla Costituzione giapponese. La prima udienza del processo avviato da Okumoto si è tenuta presso il tribunale distrettuale di Tokyo il 7 ottobre scorso. Il governo ha chiesto alla corte di archiviare il caso in quanto le direttive sono “ordini di servizio all’interno di un’organizzazione amministrativa e pertanto non devono essere oggetto di un ricorso giurisdizionale”. Rispetto alle matite meccaniche e ad altri strumenti di scrittura consentiti nei centri di detenzione, il rischio che uno faccia del male a se stesso o ad altri con matite colorate non può dirsi eccezionalmente alto. Per Okumoto, quindi, vietare totalmente l’acquisto delle matite è una restrizione crudele e insensata. Per lui, condannato a stare nel braccio della morte fino al giorno dell’esecuzione, disegnare immagini usando matite colorate significa riflettere sulla gravità del delitto commesso ed “evadere” dal rigore del castigo inflitto. Per lui significa anche, per quanto umanamente possibile, riparare il danno arrecato alle famiglie che hanno perso i loro cari. Lasciate a Okumoto, detenuto nel braccio della morte, almeno la facoltà di immaginare una vita a colori. Lasciatelo disegnare girasoli nel cielo azzurro e seguire con loro i raggi del sole. Per lui sarebbe un modo di sentirsi vivo anche nel luogo dove la vita è stata condannata a morte. Sergio D'Elia

Come e quando è nata. Pena di morte, storia della legislazione in Italia. Pasquale Hamel su Il Riformista il 17 Settembre 2021. La legislazione italiana sulla pena di morte costituisce – nel periodo a cavallo fra l’ultimo quarto del XIX e la prima metà del XX secolo – un autentico e ininterrotto laboratorio politico che, a dispetto della profonda arretratezza del Paese, lo ha collocato all’avanguardia rispetto alle grandi democrazie europee. L’unificazione dello Stato, culminata con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, fin dall’inizio pose alla nuova entità istituzionale tutta una serie di problemi, in gran parte di difficile soluzione e, fra questi, l’avvertita necessità di darsi una legislazione unitaria per l’intero territorio. Non è, infatti, un caso che un illustre giurista – Vincenzo Miglietti guardasigilli del governo guidato da Benedetto Ricasoli del 1861 – avesse più volte affermato che «le libertà non allignano nel tronco del disordine: l’unità nazionale si cementa e si consolida con l’unità delle leggi». Ma l’unificazione della legislazione si presentava come operazione ardua e densa di rischi, anche perché comportava la difficile operazione di comporre anche quello che, all’apparenza, era incomponibile. Un caso eclatante, in questo senso, riguardava proprio il tema della pena capitale che, dopo la buriana napoleonica, era stata reintrodotta o confermata, con modulazioni diverse – in Piemonte, ad esempio, la legislazione del 1857 ne aveva fortemente limitato i casi in cui era considerata applicabile – in quasi tutti gli ex stati preunitari, con la felice eccezione del Granducato di Toscana, dove era stata abolita il 30 aprile del 1859 richiamando la riforma del 1786, voluta da un principe illuminato come lo fu il granduca Pietro Leopoldo. Il mantenimento o meno della pena di morte fu quindi al centro di un vasto dibattito animato, soprattutto, da giuristi come Pietro Ellero, Francesco Carrara, promotori del “Giornale per l’abolizione della pena di morte” e Pasquale Stanislao Mancini che ne chiedevano, senza tuttavia successo, l’abolizione. La decisione finale fu dunque di confermare nell’ordinamento del nuovo Stato la pena di morte ma, con una decisione salomonica, come scrive il giurista Giovanni Tessitore che all’argomento ha dedicato uno dei suoi studi più importanti, si fece della Toscana un’isola giuridica privilegiata al cui interno, a differenza che nel resto d’Italia, la pena capitale, continuò a non essere prevista. Ma proprio l’anomalia Toscana sarà il tallone d’Achille dei fautori della abolizione della pena capitale. Gli abolizionisti ne faranno infatti un esempio affermando che, dati alla mano, in Toscana l’assenza di tale strumento repressivo piuttosto che incentivare i reati li aveva addirittura ridotti. Negli anni che seguirono, le condanne alla pena capitale comminate dai tribunali del Regno ammontarono a 392 ma quest’altissimo numero venne ridimensionato dai provvedimenti di clemenza sovrana che interessarono 351 casi, per cui il totale delle esecuzioni si ridusse, alla fine, a sole 41. Naturalmente la scelta operata dopo il 1861 non riuscì a spegnere il vivace dibattito che continuò ad essere animato dagli abolizionisti e che vide, sempre in prima fila, il già citato Pasquale Stanislao Mancini e un altro giurista e protagonista del Risorgimento come Giuseppe Pisanelli. I tempi erano tuttavia maturi per un ripensamento e un primo passo avanti in direzione dell’abolizione coincise – dopo la morte del padre della patria, così era stato consacrato alla storia re Vittorio Emanuele II – con l’ascesa al trono del di lui figlio, Umberto I. Nel 1876, venne infatti emanato un provvedimento di clemenza che riguardò ben 55 condannati a morte e, seppur in maniera tacita ad esso seguì una sorta di moratoria nella applicazione della pena di morte. Da quel momento, infatti, non vennero eseguite più condanne alla pena capitale anche se di espungere definitivamente dall’ordinamento detta pena non se ne parlò e questo perché in Parlamento era presente una consistente e bellicosa opposizione. Pasquale Hamel

Il regime zittisce gli abolizionisti. Storia della pena capitale, con Rocco torna la forca. Pasquale Hamel su Il Riformista il 24 Settembre 2021. La tacita moratoria da un lato e le pressioni sempre più forti del movimento abolizionista che richiamava la lezione del Beccaria apparecchiavano un esito quasi naturale. E la svolta avvenne il primo gennaio 1890, quando il guardasigilli Giuseppe Zanardelli, promotore della nuova codificazione penale, riuscì a fare approvare, e con voto unanime della Camera dei deputati, l’abolizione di questo istituto arcaico per i reati comuni commessi da civili sul territorio metropolitano. La pena di morte restava, tuttavia, in vigore nei codici militari e coloniali e se ne sarebbe fatto largo uso nel corso del primo conflitto mondiale. Tornando al codice Zanardelli c’è da ricordare come esso fosse stato salutato come prodotto addirittura rivoluzionario e additato a esempio di illuminata civiltà giuridica. D’altra parte, era evidente che, con l’adozione del nuovo codice, la legislazione italiana in materia si collocasse all’avanguardia rispetto ad altri ordinamenti considerati più avanzati, Francia e Inghilterra compresi, che al contrario mantenevano la sanzione capitale nei loro codici. A favorire la scelta abolizionista contribuì un clima generale sostanzialmente favorevole, tanto è vero che, come sottolinea Tessitore, nonostante negli oltre trent’anni da quella decisione si fossero verificati delitti di una certa gravità e tali da scuotere l’opinione pubblica – come, ad esempio, il regicidio perpetrato dall’anarchico Gaetano Bresci – a nessuno passò per la mente l’idea che fosse necessario tornare indietro neppure a seguito dell’avvento dello stesso fascismo. Furono infatti i falliti attentati a Benito Mussolini – a cominciare da quelli di cui furono autori il giovane Anteo Zamboni e l’inglese Violet Gibson – che riportarono all’ordine del giorno dell’agenda politica il tema della reintroduzione nel nostro ordinamento della pena di morte. Infatti, dopo alcune perplessità – dalle quali lo stesso Duce non fu immune – il governo decise di reintrodurre, nel contesto della famigerata e liberticida legge n° 2008 del 1926, Provvedimenti per la difesa dello Stato, e limitatamente ai soli reati politici, la pena capitale. Bisogna per correttezza aggiungere che, oltre al favore dell’opinione pubblica, a sostegno della decisione concorse il raffronto con la legislazione di altri stati europei. La sanzione capitale paradossalmente era infatti presente in gran parte degli ordinamenti più avanzati d’Europa. Aperto quel solco fu, poi, facile la sua estensione anche ai reati comuni. La nuova codificazione penale d’impronta autoritaria – il codice Rocco del 1930 – ripristinò dopo 40 anni la pena di morte anche per i reati comuni. Contro la decisione non si levarono molte voci e alquanto isolata fu quella del professor Alfredo De Marsico. L’illustre giurista rilevò, infatti, come l’opinione pubblica si fosse assuefatta “alla violenza legalizzata e all’omicidio di Stato” e questo anche per le migliaia di condanne a morte che erano state comminate, diciamo noi con grande leggerezza, dai tribunali militari nel corso della prima guerra mondiale, fatti che avevano portato a una vera e propria “svalutazione del valore della vita”. Eppure, nonostante il clima favorevole, l’idea del ripristino della sanzione capitale non fu del tutto indolore al punto da indurre lo stesso ministro proponente, il guardasigilli Alfredo Rocco, a conclusione del suo intervento in Senato, quasi volesse cercare una giustificazione per una scelta che lui stesso forse considerava poco coerente con quel senso di civiltà che avrebbe dovuto informare l’apparato punitivo dello Stato, ad affermare che «se la pena capitale può avere come effetto di risparmiare molte vite di persone che sarebbero state vittime di quanti in sua assenza sarebbero stati indotti ad attentarvi, non dev’essere dubbia la scelta. E sarà opera buona l’applicazione della pena capitale, per quanto sia, anche questa cosa, ripugnante e dolorosa». In poche parole, la scelta operata veniva legittimata dall’interesse alla difesa della sicurezza dei singoli cittadini e la pena di morte veniva considerata un opportuno deterrente nei confronti di chi aveva intenzione di attentare a tale sicurezza. Per quanto riguarda gli effetti della reintroduzione della pena capitale per il decennio 1930-1940 si contarono ben 118 condanne ma ne furono eseguite meno della metà, per essere precisi ci furono solo 61 esecuzioni. La conseguenza di quella scelta si rifletté sul dibattito abolizionista che dal regime venne violentemente tacitato tanto che per parlare nuovamente di abolizione si sarebbe dovuto aspettare la caduta del fascismo. Pasquale Hamel

La pena capitale nel nostro Paese. Pena di morte, nel 2007 l’Italia scrive la parola fine. Pasquale Hamel su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Già immediatamente dopo la liquidazione del duce e l’ascesa del generale Pietro Badoglio al vertice del governo del Paese il dibattito sul mantenimento o meno della pena di morte tornò, prepotentemente, all’ordine del giorno. La decisione in merito, tuttavia, tardò a essere assunta per le notevoli resistenze che erano subito emerse all’interno della compagine governativa. Per superare l’impasse, visto che il governo non decideva, la magistratura adottò motu proprio una sorta di moratoria in attesa che venisse emanata la norma abrogativa. Le resistenze in sede di governo erano motivate dalle preoccupazioni per le conseguenze che la cancellazione della pena capitale potevano avere sulla già precaria condizione dell’ordine pubblico. C’era, tuttavia, da tenere conto dell’idea che l’Italia del dopoguerra dovesse necessariamente voltare pagina rispetto alle scelte del precedente regime e se dunque il fascismo aveva reintrodotto la pena di morte il ritorno della democrazia non poteva sfuggire all’imperativo categorico dell’abolizione. Nonostante fosse convinzione generale che la pena capitale dovesse essere cancellata, il governo Bonomi approvava però una normativa che contraddiceva quest’indirizzo. Si trattava della cosiddetta legge fondamentale n.159 del 27 luglio del 1944 che prevedeva la fucilazione per i gerarchi fascisti e per i collaborazionisti dei nazi-fascisti. Un fatto eccezionale dettato dalla congiuntura che il Paese stava vivendo. E tuttavia, poche settimane dopo, su proposta del democristiano Umberto Tupini – uno dei fautori del ritorno al codice Zanardelli – il 10 agosto 1944 veniva emanato il decreto luogotenenziale n.244 che prevedeva, per tutti i reati per i quali era prevista nel codice penale vigente, la sostituzione della pena capitale con l’ergastolo con l’eccezione dei codici militari e della sopracitata legge 159. Ed arriviamo alla Costituente. Seppure il riferimento alla nobile tradizione giuridico-filosofica abolizionista, che risaliva al Beccaria, fosse argomento prevalente del dibattito alla Costituente, la decisione di dare un taglio netto col passato non fu così semplice. Si temeva, infatti, che una decisione non adeguatamente ponderata accrescesse le difficoltà nell’azione di repressione del crimine. Animarono quella discussione grandi giuristi come Giovanni Leone, Giuseppe Bettiol, Girolamo Bellavista, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro e Amerigo Crispo, alcuni dei quali, pur affermando in linea di principio la tesi abolizionista, concentrarono la loro attenzione sulla possibilità, in casi eccezionali, di consentirne il ripristino. Ma l’avere accettato il principio che la pena non dovesse rispondere all’idea di vendetta quanto piuttosto tendere alla rieducazione tagliava ogni possibilità di concionare ulteriormente sull’argomento, almeno per quanto riguardava i delitti comuni, tanto da far apparire perfino pleonastico lo stesso quarto comma dell’art. 27 della Costituzione il quale, appunto, disponeva che nel nostro ordinamento “non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari e di guerra”. Con l’entrata in vigore della Costituzione la lunga storia del processo abolizionista non si fermò. Il 4° comma dello stesso articolo 27 continuava infatti a prevedere quell’eccezione che mal si conciliava con il disegno complessivo offerto dall’architettura costituzionale. In forza proprio di quell’inciso i codici militari continuarono legittimamente a prevedere la pena capitale. Si dovette così aspettare fino al 1994 perché con la legge 13 ottobre n. 589 si disponesse anche per i codici militari la commutazione della pena di morte con l’ergastolo. Ma detta norma di abolizione, in assenza della modifica costituzionale, prestava il fianco alla possibilità di reintroduzione della pena capitale. E non era un pericolo peregrino visto che un democratico come Ugo La Malfa, in occasione del rapimento Moro, aveva apertamente parlato di ripristino della pena di morte e che il Movimento sociale aveva addirittura promosso nel 1982 una petizione popolare – firmata perfino dal figlio di Giacomo Matteotti – per la sua reintroduzione nei casi di terrorismo. Per sanare l’aporia si dovette procedere a modificare il dettato del 4° comma dell’art.27 della Costituzione. Infatti la legge costituzionale n°1 del 2007 cancellò dall’art.27 l’inciso che ne consentiva l’applicazione relativamente alle leggi militari e di guerra. In questo lungo e accidentato cammino, conclusosi appunto nel 2007, restava tuttavia la soddisfazione nel sottolineare che, proprio la legislazione italiana con le sue scelte abolizioniste, ancora una volta si poneva all’avanguardia anche in considerazione del fatto che gli ordinamenti delle grandi democrazie europee, Inghilterra e Francia in testa, continuarono ancora per molti decenni, a contemplare nei loro ordinamenti la pena capitale. Il Regno Unito abolì infatti la pena di morte solo il 18 dicembre 1969, mentre in Francia si dovette attendere addirittura il 9 ottobre del 1981. Pasquale Hamel

Breve storia delle carceri. Le prigioni sono nate con la modernità, ma oggi sono molto antiche. David Romoli su Il Riformista il 5 Settembre 2021. Il carcere è un’invenzione recente, all’opposto di quel che suggerisce il senso comune. Appena due secoli fa la privazione della libertà non si era ancora davvero affermata come strumento punitivo eminente, e in molti Paesi unico, diffuso ovunque, a ogni latitudine e longitudine. Per la detenzione il discorso è diverso: quella in una certa misura c’è davvero sempre stata ma con funzioni diverse da quella punitiva. La prigione era un “luogo di transito” nel quale il condannato aspettava l’espiazione della pena corporale o pecuniaria, oppure dell’esilio e della “galera” propriamente detta, cioè l’imbarco forzato con funzioni di rematore. Essendo lo scopo della pena essenzialmente vendicativo ed essendo la stessa, a differenza che nell’antichità romana, decisa dal signore feudale, la spettacolarizzazione del supplizio, la messa in scena della punizione applicata con crudeltà teatrale sul corpo del condannato svolgevano una funzione essenziale. La prigione era tutt’al più necessaria, in coppia con la tortura, per estorcere una confessione considerata necessaria per la condanna. A metà del ‘500 l’avvio della Rivoluzione industriale innesca il lunghissimo processo di cambiamento che, nell’arco di tre secoli, porterà al dominio incontrastato dell’istituzione penitenziaria nell’amministrazione della giustizia. L’immenso esercito di vagabondi, mendicanti, briganti e senza tetto, le cui file si andavano ingrossando in seguito alla trasformazione dei processi produttivi, diventa oggetto di una vera persecuzione che dall’Inghilterra si allarga all’intera Europa occidentale. Perché, dunque, non rendere produttiva questa massa indocile che andava scoraggiata dalle abitudini vagabonde, rieducata ma anche adoperata? Nasce così nel 1557, nel palazzo di Bridewell, gentilmente concesso dal sovrano inglese, la prima Workhouse, nella quale vengono concentrati e messi al lavoro vagabondi, poveri e ragazzi abbandonati. La workhouse è il primo esperimento che apre la strada al moderno modello carcerario e trova la più compiuta applicazione nell’Olanda del XVIII secolo, non a caso la nazione nella quale il capitalismo era allora più moderno e sviluppato. L’evoluzione del sistema carcerario e quella del sistema capitalista industriale da un lato, della grande cultura illuminista borghese dall’altro, procedono con lo stesso passo. Si intrecciano, si potenziano vicendevolmente, rinviano di continuo l’una all’altra. Il modello delle workhouse è il convento, da cui riprende l’isolamento nelle celle e la parcellizzazione precisa e metodica dello spazio e del tempo. In Italia, infatti, la prima istituzione del genere nasce nel 1704 su ordine dello stesso pontefice Clemente XI, nella casa di correzione del San Michele di Roma. Ma il passo più gigantesco verso la nascita del carcere viene mosso all’altra parte dell’Atlantico, negli Usa, alla fine del XVIII secolo. La definizione del moderno sistema penitenziario si realizza qui attraverso il confronto e lo scontro tra modelli diversi. Il sistema della “vita in comune”, basato sulla convinzione che solo tenendo insieme tutti i detenuti, in modo da sorvegliarli tutti e castigarli appena necessario, si potesse davvero controllarli. Quello opposto, detto “di Philadelphia”, perché nato nel carcere di quella città, che implicava l’isolamento costante del detenuto, che doveva pregare e lavorare in solitudine dal momento che ogni contatto tra elementi pericolosi e devianti avrebbe portato a un potenziamento reciproco delle perniciose tendenze. Il problema era qui l’alto numero di impazzimenti dovuti al totale isolamento, che portò allo sviluppo di un sistema alternativo in un certo senso a metà tra i due estremi, sperimentato nel carcere di Auburn, nei pressi di New York City. Il metodo “auburniano” prevedeva l’isolamento notturno, nei pasti e nelle ore di riposo mentre il lavoro era svolto in comune ma con il divieto di comunicare. Il primo istituto di pena costruito in Europa su modello americano fu quello inglese di Pentonville, nel 1842, e si avvicinava maggiormente al sistema “philadelphiano”. Ogni contatto tra detenuti era proibito, i pasti venivano distribuiti singolarmente, i detenuti dovevano indossare una maschera quando lasciavano le celle. In generale, però, in Europa i sistemi americani vennero intrecciati e diversamente coniugati a seconda dei singoli Paesi e delle specifiche carceri. L’istituzione del carcere riflette la trasformazione di un’intera concezione della pena e della sua funzione, veicolata dalla rivoluzione borghese e dall’Illuminismo, che trova la sua compiuta espressione con il Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, del 1764. Non si tratta più di esercitare la vendetta del signore o del sovrano ma di mettere il corpo sociale al riparo dall’aggressione del reo, dunque di punirlo ma anche di correggerlo in modo che non rappresenti più una minaccia. L’oggetto della punizione non è più il corpo del condannato, che anzi secondo la nuova morale borghese dovrebbe essere preservato e difeso, ma la sua anima, che deve essere trasformata e rieducata dalla pena stessa. Il Panopticon di Jeremy Bentham, del 1791, assolve a questa funzione: un modello architettonico (che lo stesso Bentham sperimenterà tre anni dopo concretamente nella sua fabbrica facendoci lavorare proprio carcerati) nel quale un solo sorvegliante doveva essere in grado di controllare tutte le celle e tutti i detenuti, senza però essere visto da loro. Il compito di tenere sotto pressione, condizionare e rieducare non è più affidato al terrore dello scempio del corpo ma alla percezione di una sorveglianza permanente e non controllabile. Anche la visibilità della pena slitta. Non più esempio da ostentare per spaventare e avvertire, da mostrare per ammonire, ma sgradevole necessità da nascondere dietro mura spesse e quanto più invalicabili possibile. Con la prigione si afferma, nella teoria se non nella pratica, il principio della proporzionalità della pena al reato, che però già da subito si estende anche alla disponibilità del prigioniero a lasciarsi rieducare. Il comportamento in carcere diventa così misura che determina sia le condizioni della detenzione che la sua durata, in un percorso che viene coronato dalla legislazione premiale, dalla distribuzione oculata delle misure alternative. A partire dal 1872, i giuristi iniziano a porsi il problema del diritto penale applicato alle prigioni. Nel 1890 viene istituita una Commissione penitenziaria internazionale che sarà seguita nel 1929 da una seconda Commissione internazionale penale e penitenziaria. Si occupano, entrambe, di definire un compiuto e codificato “diritto penitenziario”. Il modello che si costruisce sostanzialmente nel XIX secolo non verrà più modificato negli elementi costitutivi. Il problema della riforma delle carceri, che secondo Foucault nasce con l’istituzione stessa delle carceri, non riguarda, o non ha riguardato sinora, la natura o la finalità dell’istituto penitenziario ma solo la sua adesione a quel modello teorico essendo la realtà delle galere molto diversa, ancora oggi e tanto più nei due secoli scorsi, dalla teoria. Ma l’ipotesi di non adoperare più la privazione della libertà come misura della pena quella ha appena cominciato, molto timidamente, ad affacciarsi. David Romoli

La lezione di Turati, nessuno sa nulla delle carceri: “I cimiteri dei vivi”. La casa editrice “Il Papavero” ha ripubblicato il saggio del leader socialista, Filippo Turati, che ispirò Pietro Calamandrei nel suo “Bisogna aver visto” del 1948. Il Dubbio il 4 ottobre 2021. La casa editrice Il Papavero ha ripubblicato “I cimiteri dei vivi” di Filippo Turati (Prefazione di Stefania Craxi, introduzione di Giuseppe Gargani). Pubblichiamo di seguito un estratto della postfazione a cura del magistrato Giuseppe Cricenti, Consigliere di Cassazione. Filippo Turati trascorse un relativamente lungo periodo in carcere. La sua indignazione per l’inefficienza e la violenza del sistema carcerario del suo tempo in gran parte deriva dalla esperienza fatta in quel luogo, ed infatti egli è il primo a denunciare che l’indifferenza verso quel sistema è basata sulla inesperienza dei fatti, “perché nessuno ne sa nulla, perché non vi è comunicazione alcuna tra il nostro mondo e quei cimiteri di vivi che sono le carceri”. Così che l’insensibilità dei più, anche del se del ceto intellettuale e degli stessi rappresentanti politici, deriva dalla ignoranza di quel mondo: “provatevi a vivere là dentro e poi sappiatemi dire se tutto non vi è da riformare”. Più tardi, nel 1948, sarà Calamandrei a ribadire questa ragione: “in Italia il pubblico non sa abbastanza – e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di sperimentare la prigionia, non sanno – che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”. Sia Turati, prima, che Calamandrei poi, propongono di conseguenza l’istituzione di una Commissione d’inchiesta, un modo per far luce su una realtà altrimenti ignota agli stessi rappresentanti politici. Essi ritengono che sapere di più su quel mondo può servire a cambiarlo in meglio: entrambi invitano i rispettivi ministri del tempo, a fare visita per averne migliore idea. Sembrano tempi lontani, ed in un certo senso lo sono, ma chi per l’appunto, abbia oggi una qualche idea del sistema carcerario italiano, sa che quasi nulla è cambiato da allora. Anche oggi il carcere è un ambiente del tutto ignoto agli italiani ed è questa condizione che alimenta l’atteggiamento, che sembra insuperabile, di populismo che si registra verso i problemi dei detenuti, e la istituzione carceraria nel suo complesso. Ma non è solo questo. L’analisi di Turati individua storture del sistema carcerario che, non solo permangono oggi, ma sembrano essere, perciò stesso, strutturali, e dunque costitutive del sistema in sé. Intanto, il fallimento della funzione rieducativa: “tutta la parte, invece, che rispecchia il dovere dello Stato di provvedere alla redenzione del colpevole, garantendo al tempo stesso la sicurezza pubblica contro le recidive, tutto questo è lasciato completamente da parte, è rimasto lettera morta”. Poi, la solitudine dei reclusi, le poche occasioni che essi hanno di comunicare non solo con l’esterno ma con gli stessi organi di gestione del carcere, le condizioni delle strutture e dei luoghi di reclusione, la spietata violenza delle guardie. Tutte queste cose, anche se non sommate, ma singolarmente prese, testimoniano il fallimento di una istituzione in sé e per sé, e non solo in un dato momento storico. V’è allora da chiedersi, prima di ogni altra riflessione, perché il carcere, che pure ha fallito in pressoché ogni suo scopo, ancora oggi è di fatto l’unica risposta al reato che la società moderna sappia esprimere: per quale motivo, pur non riuscendo a soddisfare le finalità che gli sono proprie, l’istituzione carceraria sopravvive, e ciò nonostante, vengano destinate ingenti risorse per farlo funzionare: ai tempi di Turati, 30 milioni, quasi la metà dell’intero bilancio. I dati attuali, ricavabili dal bilancio del Dap, e dalla Ragioneria Generale, indicano che lo Stato italiano spende complessivamente una media di 3 miliardi l’anno per il sistema carcerario, complessivamente. Il risultato di questa spesa è che, sempre secondo dati del Dap, il 68,7 % dei detenuti è recidivo: rimesso in libertà, delinque nuovamente. È dunque, una spesa se non inutile, di certo inefficiente. Viene da chiedersi, allora, perché questa istituzione non solo sopravvive, ma continua ad essere la risposta quasi esclusiva ai reati. Negli ultimi anni il legislatore ha aumentato le pene, ha in particolare aumentato il massimo edittale per molti reati, ma non per esigenze di politica criminale, ossia per rispondere con il carcere ad un maggiore allarme sociale, piuttosto per esigenze pratiche, che non si sa o non si vuole affrontare direttamente: si innalzano le pene edittali per evitare la prescrizione, anziché agire sui tempi del processo o fare direttamente una riforma della prescrizione stessa; si aumentano le pene edittali per consentire l’applicazione di misure cautelari o una loro maggiore durata; pene più elevate per consentire le intercettazioni. Una prassi scriteriata che oltre che fondare politiche del diritto penale sbagliate allontana sempre di più la possibilità di fare del carcere una risposta non esclusiva al reato, ed impedisce di ammettere un numero sempre maggiore di condannati a sistemi alternativi alla detenzione. Se si considera che dalla stessa riforma del 1975, che aveva l’intenzione di sviluppare risposte alternative al carcere, per rendere la detenzione se non eccezionale, perlomeno di minore frequenza; se si considera che da quella riforma sono passati quasi cinquanta anni senza che il sistema penitenziario abbia perso invece la sua assoluta centralità e soprattutto senza che i problemi costitutivi che abbiamo visto in precedenza siano venuti meno; se si pensa a tutto ciò, si intuisce come la gestione legislativa del sistema penitenziario abbia ceduto il posto all’intervento dei giudici, e segnatamente alla Corte europea per i diritti dell’uomo: è da Strasburgo che vengono ora le indicazioni di maggiore rilievo.

Storia infame dei regimi carcerari. Nemmeno i partigiani riformarono la prigione. David Romoli su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. Lo stato delle carceri in Italia non è una vergogna recente. È antica quanto l’Italia unita. Una storia costellata, nell’arco di 160 anni, da tentativi di riforma per lo più timidi, da bruschi arretramenti ed eterne fasi di stagnazione. Una parabola segnata sempre dalla dimensione di “universo a parte”, nel quale leggi e diritti non valgono, che è sempre stata propria del carcere nella storia d’Italia. “La storia delle istituzioni penitenziarie nell’Italia moderna sembra correre lungo binari dotati di una logica esclusiva e autonoma, del tutto avulsa dagli avvenimenti politici e sociali del ‘mondo libero’ “, scriveva nel 1975 Guido Neppi Modona. L’universo carcerario italiano fu istituito, con cinque regi decreti successivi, in due anni, dal settembre 1860 al novembre 1862. Era una mappa variegata: c’erano i bagni penali, inizialmente dipendenti dal ministero della Marina e passati poi, nel 1865, a quello degli Interni; le carceri giudiziarie, dove erano rinchiusi i detenuti in attesa di giudizio o quelli condannati a pene lievi; le case di pena, per i condannati alla reclusione; le case di forza, per le donne; le case penali di custodia, per i giovani; le case di relegazione, per i crimini contro la sicurezza dello Stato. Regole e condizioni di detenzione diversificati ma con alcuni elementi comuni: l’isolamento notturno, il lavoro in comune durante il giorno ma con l’obbligo del silenzio. Sin dall’inizio furono istituite le commissioni di controllo, che avrebbero dovuto vigilare sullo stato delle patrie galere, e la Direzione generale delle carceri, dipendente dal ministero degli Interni, con il compito di dirigere e gestire l’intero settore. Il primo serio tentativo di riforma complessiva arrivò a cavallo tra gli anni ‘80 e i ‘90 del XIX secolo: un combinato tra il nuovo codice penale Zanardelli, la prima legge sull’edilizia carceraria, il nuovo ed enciclopedico Regolamento carcerario, forte di ben 891 articoli. Nell’occasione fu abolita la pena di morte, sostituita dall’ergastolo, e furono fissate le dimensioni delle celle: m 2,10 x 4 quelle normali, m. 1,40x 2,40 i cosiddetti “cubicoli”. Il regolamento prevedeva anche una dettagliata e per l’epoca decisamente moderna casistica dei vari e molto differenziati modelli di prigione che si sarebbero dovuti edificare. Il tutto rimase solo sula carta: lo stanziamento di 15 mln di lire sul quale poggiava per intero il progetto fu prima tagliato, poi abolito. Qualche cambiamento reale arrivò solo una decina d’anni più tardi, nei primi anni del XX secolo, con i decreti dell’età giolittiana che abolivano la catena al piede dei condannati ai lavori forzati e sopprimevano alcune delle sanzioni più feroci: i ferri, la camicia di forza, la detenzione nelle “celle oscure”, al buio totale. Poi, per una ventina d’anni, con la guerra di mezzo, si susseguirono solo infiniti dibattiti, denunce, ipotesi di riforma che non portarono però a nulla di fatto sino ai primi anni ‘20, quando una ventata riformista investì la Direzione generale. Si tradusse in enunciazioni di principio, per cui gli strumenti di coercizione dovevano essere privi “di ogni senso di rappresaglia o di punizione” e venir adoperati “come mezzo esclusivo di valore sanitario e non disciplinare”: il “maluso o abuso” di quegli strumenti implicava “responsabilità morali e penali”. Dal principio teorico derivavano una serie di allentamenti delle norme carcerarie, veicolati da circolari ministeriali che confluirono poi, nel febbraio 1922, in un testo di riforma che interveniva sulla disciplina interna, sui colloqui, sulla corrispondenza, sul lavoro interno. Può sembrare poca cosa ma è il primo vero tentativo di riforma penitenziaria, siglato anche dallo spostamento della gestione delle carceri dal ministero degli Interni a quello della Giustizia. Durò pochissimo. L’avvento del fascismo riportò subito indietro le lancette sino a sedimentarsi nel nuovo Regolamento, varato dal ministro Rocco nel 1931, un anno dopo la definizione del suo codice penale destinato a dettare legge sino al 1975. Rocco divise l’arcipelago penitenziario in tre grandi gruppi: gli istituti per la detenzione preventiva, quelli per le pene ordinarie e quelli per le pene straordinarie. I cardini del nuovo regolamento, che in buona misura riprendeva quelli in vigore salvo fantasie riformiste, erano la totale separazione del mondo carcerario da quello esterno, la frammentazione atomizzata della popolazione carceraria, la suddivisione del tempo in tre sole attività: preghiera, lavoro e istruzione. Veniva stabilito anche che il detenuto non potesse essere interpellato per nome ma solo per numero di matricola. La docilità della popolazione detenuta doveva essere mantenuta tramite bilanciamento di punizioni e benefici, questi ultimi consistenti essenzialmente nella “concessione” del lavoro in carcere o nel trasferimento in strutture più aperte e meno rigide. La casistica delle proibizioni e delle relative punizioni era più folta. Vietati il “contegno irrispettoso”, i reclami collettivi, ogni gioco, l’uso di parole blasfeme, il canto, il riposo in branda, la non partecipazione alle funzioni religiose più numerose altre proibizioni, a partire dal possesso di qualsiasi strumento atto a scrivere. Attività, come la lettura, considerata a massimo rischio. Era consentito solo scrivere due lettere al mese, ma non alla stessa persona. I sorveglianti assistevano ai colloqui con i parenti. I detenuti erano tenuti a indossare divise uguali, inclusa quella a righe per i condannati in via definitiva. Il regolamento Rocco è sostanzialmente rimasto in vigore fino alla riforma del 1975, frutto di un ciclo di conflitti e rivolte nelle carceri senza precedenti allora e mai più ripetuto in seguito. Il “vento del nord” partigiano non varcò infatti i muri delle patrie galere. Ci furono alcune rivolte, soprattutto a San Vittore, nell’immediato dopoguerra, la principale il 21 aprile 1946 quando un gruppo di detenuti prese 25 persone in ostaggio. Ma tra i capi della rivolta, oltre ai detenuti comuni, c’erano gli ex fascisti. Bastò e avanzò per provocare le proteste della Federazione milanese del Pci quando il questore provò a trattare con i rivoltosi. Finì con lo scontro armato e con una strage. Nel 1948 fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta sulle carceri, presieduta dal giurista Giovanni Persico. Lavorò due anni, dispensò suggerimenti e consigli nella relazione conclusiva. Qualcosa si mosse. I detenuti tornarono a essere chiamati per nome e cognome, come persone normali. Poterono anche togliersi la divisa e smettere di essere rasati quasi a zero, fu concesso il diritto di leggere e scrivere. Anche in questo caso si trattò uno spiraglio subito richiuso. Nel febbraio 1954, appena tre anni dopo la decisione di dar parzialmente seguito alle raccomandazioni della commissione Persico, il ministro della Giustizia De Pietro si rimangiò quasi tutto con una semplice circolare. Fino al 1960 di intervenire sulle galere non se parlò proprio. In quell’anno il guardasigilli Gonella propose una riforma, che restò al palo per 12 anni per poi finire ingloriosamente sepolta. A smuovere le cose, a partire dalla primavera 1969, furono solo le rivolte. David Romoli

Bruno Bossio: «Le carceri sono lo specchio dei pregiudizi sui meridionali». TAPPA ZERO: TORINO. Roberto incontra la parlamentare dem Enza Bruno Bossio, che lo accompagnerà anche nella tappa finale a Motta Santa Lucia. A proposito delle teorie lombrosiane sulla predisposizione a delinquere, Bruno Bossio spiega come abbiano dato origine ai pregiudizi sui meridionali, maggiormente presenti nelle nostre carceri e spesso detenuti ingiustamente. Il Dubbio il 4 settembre 2021. Il tour “Sui pedali della libertà”, appena iniziato, unisce infatti due luoghi significativi: il museo di Cesare Lombroso a Torino e il paese di provenienza in Calabria di Giuseppe Villella. Il cui teschio, per il fondatore dell’antropologia criminale, dimostrava la correlazione tra le fattezze fisiche e la predisposizione a delinquere. «Devo dire – spiega Bruno Bossio – che purtroppo le teorie lombrosiane segnano l’inizio di un pregiudizio che è rimasto, se è vero come ci dicono le percentuali che la maggioranza della popolazione italiana in carcere – spesso detenuta ingiustamente – è meridionale. Soprattutto quando ci sono esigenze cautelari e non condanne».

«Vi racconto quel pregiudizio sulle mie origini calabresi che mi ha distrutto la vita». Il Dubbio il 5 settembre 2021. Roberto incontra l'ex consigliere regionale della Valle d'Aosta, Marco Sorbara, assolto a fine luglio dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dopo 909 giorni in custodia cautelare. L’incubo giudiziario di Sorbara comincia il 23 gennaio 2019, quando i carabinieri bussano alla sua porta in piena notte per portarlo via assieme ad una decina di persone, tutte coinvolte nell’operazione “Geenna”. A fine luglio è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E, soprattutto, dopo mesi di calvario, aggravati dal voltafaccia dei suoi colleghi, che subito dopo l’arresto lo hanno massacrato. Momenti terribili, tra carcere e domiciliari, compresi 45 giorni in isolamento, racconta oggi Sorbara: «Nella mia cella erano cinque passi per quattro, li contavo. E mi chiedevo tutti i giorni perché. Ma non ho mai trovato risposta».

Il dramma silenzioso tra le sbarre. Carcere, le tante Capua Vetere dimenticate da stampa e tv. Angela Azzaro su Il Riformista il 19 Agosto 2021. Spenti i riflettori sulle violenze del carcere di Santa Maria Capua Vetere è nuovamente calato il silenzio sulle carceri italiane. La violenza con cui lo Stato tratta i detenuti non fa altrettanta notizia, non suscita indignazione, non spinge i direttori dei giornali a fare prime pagine che gridano allo scandalo, né i politici a fare nuovi comunicati stampa. Silenzio. Cala il silenzio su una situazione che è invece drammatica e di violazione costante dei principi costituzionali come dimostra la denuncia dell’esponente radicale Rita Bernardini. La presidente di Nessuno Tocchi Caino, anche quest’anno sta visitando diversi istituti di pena. Il suo racconto è una discesa agli inferi, un colpo allo stomaco per chi ancora crede nello Stato di diritto. «Io stessa – dice nell’intervista di Angela Stella – in diversi momenti ho pensato di collassare, figuratevi chi il caldo lo sorbisce tutto di giorno e di notte in celle roventi. Forse tanti cittadini non lo sanno, ma in molte carceri manca l’acqua per lavarsi e per bere». Tutto questo in celle affollate, dove non c’è sufficiente personale. Anche quello che potrebbe consentire di poter godere dell’ora d’aria quando non c’è il sole a picco. Una circolare del Dap stabiliva che si potesse uscire quando la temperatura è meno alta. Invece, spiega Bernardini, la richiesta è rimasta lettera morta: «Le uniche circolari che sono applicate sono quelle repressive». Quale è dunque il bilancio delle visite? «Disastroso. Ho trovato direttori e comandanti eccellenti costretti a fare i conti con risorse, sia umane che materiali, risibili. Come ripete spesso Sergio D’Elia, è assurdo andare alla ricerca del carcere migliore. Occorre concepire qualcosa di meglio». Ma in Italia, anche a sinistra, per molti la soluzione è costruire nuove carceri.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica. 

Carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Così iniziarono i pestaggi dei detenuti”. Viviana Lanza su Il Riformista il 17 Settembre 2021. «Prima del 6 aprile ci fu una lite tra due detenuti della sesta sezione del reparto Nilo e circa 50 agenti della polizia penitenziaria, muniti di scudi e manganelli, intervennero… Arrivarono e picchiarono indistintamente i detenuti. Se la presero anche con un detenuto che voleva proteggere uno più anziano». È una delle testimonianze finite al centro delle indagini sui pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, un racconto che, a margine dei fatti del 6 aprile 2020 che sono il nucleo centrale delle accuse, vale a descrivere i rapporti che si erano creati tra alcuni gruppi di agenti e alcuni detenuti. Se saranno trovati riscontri a questa testimonianza, vorrà dire che il ricorso alla forza e alla violenza era un metodo che nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non sarebbe stato limitato solo ai fatti del 6 aprile 2020. La testimonianza, infatti, fa riferimento a un episodio avvenuto circa dieci o quindici giorni prima di quel 6 aprile finito al cuore dell’inchiesta sulla «orribile mattanza» di un anno e mezzo fa. Bisogna tornare indietro con la memoria a marzo 2020. Nel reparto Nilo del carcere sammaritano scoppiò una lite tra due detenuti e un gruppo di agenti di polizia penitenziaria, secondo la testimonianza di un detenuto, avrebbe pensato di sedarla con scudi e manganello. Erano addirittura una cinquantina gli agenti contro uno sparuto gruppo di detenuti, picchiati in maniera indiscriminata con l’intento di riportare ordine nel reparto. Quello stesso reparto che di lì a pochi giorni sarebbe diventato teatro di pestaggi di proporzioni mai viste e finiti al centro di un’inchiesta penale, «orribile mattanza» per dirla con le parole usate dal gip nel provvedimento di custodia cautelare firmato a giugno scorso nei confronti di una cinquantina di indagati fra agenti e dirigenti della polizia e dell’amministrazione penitenziaria. Le testimonianze e gli indizi raccolti nel corso delle indagini, indagini che la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha dichiarato concluse e che a breve passeranno al vaglio del giudice dell’udienza preliminare, fanno ipotizzare «un vero e proprio diffuso uso della violenza intesa da molti ufficiali come unico espediente efficace per ottenere completa obbedienza dei detenuti», si legge tra le accuse. Se le violenze avvenute anche prima del 6 aprile trovassero riscontro, si avvalorerebbe l’ipotesi secondo cui «l’uso della violenza viene considerato da ufficiali e agenti come il migliore se non unico espediente per ottenere dai detenuti il rispetto delle regole» e i pestaggi del 6 aprile «non sono frutto dell’estemporanea escandescenza di qualche agente o ufficiale di polizia penitenziaria ma sono stati accuratamente pianificati e svolti con modalità tale da impedire ai detenuti di conoscere i propri aggressori». I reclusi, come emerso anche da alcuni video finiti agli atti, erano picchiati soprattutto alle spalle e costretti a camminare con la testa bassa e con la faccia rivolta verso il muro. E proprio sull’identificazione degli aggressori si giocherà una buona parte del confronto tra le tesi di accusa e difesa. Sarà un processo dai grandi numeri: 85 capi di imputazione contestati, 120 nomi iscritti sul registro degli indagati, 177 detenuti individuati come vittime dei pestaggi. Tra le parti offese ci sono anche il Garante dei detenuti, l’associazione Antigone, che ha raccolto alcune delle testimonianze di detenuti picchiati e con la sua denuncia ha dato impulso alle indagini, e il Carcere Possibile, cioè la onlus della Camera penale di Napoli impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti: sono pronti a costituirsi parte civile al fianco delle vittime dei pestaggi. Ora, intanto, il carcere di Santa Maria Capua Vetere è sotto i riflettori insieme all’intero sistema penitenziario. Perché al di là delle singole presunte responsabilità degli indagati, sulle quali sarà il processo a fare chiarezza, i fatti del 6 aprile 2020 hanno segnato un punto di non ritorno, rendendo più che mai urgente l’attenzione sul mondo penitenziario e sulla necessità di riforme.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Un altro (triste) primato per la Campania. Appena nati e già in carcere: il dramma dei figli delle detenute. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Il più piccolo è nato domenica nell’ospedale di Nola, l’altro un mese fa in quello di Avellino. Entrambi sono condannati a trascorrere i primi mesi o anni della loro vita in una struttura detentiva che sebbene a custodia attenuata equivale comunque a una sorta di reclusione. Qual è la loro colpa? Nessuna. Sono figli di donne arrestate o condannate per reati di furto in un Paese dove ancora non si è riusciti a trovare una vera alternativa per le detenute madri con figli al seguito. A differenza del piccolo nato a Rebibbia qualche giorno fa in circostanze che hanno fatto gridare allo scandalo, i piccoli delle due mamme detenute nell’istituto di Lauro sono nati in una normale sala parto di un ospedale. Ma il prossimo futuro per loro sarà nell’Icam di Lauro, l’istituto a custodia attenuata che si trova nell’Avellinese e rappresenta l’unica struttura nella regione per detenute madri con figli piccoli al seguito. La donna che ha partorito un mese fa è reclusa per un furto da cento euro e il neonato vive con lei in una cella arredata come un piccolo monolocale. Il piccolo venuto alla luce domenica li raggiungerà a breve e presto nell’Icam arriverà un terzo neonato, addirittura, perché c’è un’altra detenuta incinta. Quella dei bambini in cella con le proprie mamme detenute è quindi una realtà che meriterebbe più attenzione. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia e aggiornati al 31 agosto scorso, il numero dei bambini che vivono assieme alle madri detenute è aumentato in Campania: sia arrivati a 12 donne e 14 bambini. È il numero più alto in Italia se si considera che nel Lazio si contano tre detenute e quattro bambini, in Lombardia tre detenute con complessivamente tre figli al seguito, mentre in Piemonte i dati più aggiornati parlano di due detenute e due bambini e in Veneto due detenute con tre figli al seguito. A livello nazionale, dunque, ci sono 26 bambini costretti a vivere i propri anni della loro vita in una cella perché non ci sono alternative per loro né per le loro madri detenute. Le donne con i figli al seguito in tutta Italia sono 22 e colpisce che circa la metà si trovi in Campania. Un’alta percentuale di queste donne, inoltre, è rappresentata da detenute straniere, rom o extracomunitarie, per le quali il carcere diventa paradossalmente una soluzione quasi migliore della vita fuori. L’Icam è infatti una struttura attrezzata per ospitare donne con figli piccoli. Parliamo di bambini da zero a sei anni e, in qualche caso, anche fino a otto anni. Le finestre non hanno le sbarre, le pareti non sono grigie e buie, ogni stanza ha il proprio bagno e un angolo cottura, gli agenti della penitenziaria non indossano la divisa. Tutto questo vale ad attenuare per quel che si può il senso di reclusione che questi bimbi sono costretti a vivere, ma di certo non può essere paragonato alla vita che dovrebbe essere garantita a tutti i bambini. «Siamo arrivati al paradosso che bisogna imprigionare le persone per aiutarle», tuona il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. «Siamo al paradosso che in carcere s’incontra lo Stato», dice parlando delle molte detenute rom o extracomunitarie che prima di essere arrestate vivevano con i propri bambini in condizioni di estremo disagio nelle periferie della città. «Dovremmo fare leggi, fare accoglienza, fare inclusione – sostiene Ciambriello – e mettere al centro i bambini perché con le leggi vigenti i bambini non sono al primo posto». In Campania, su 12 detenute madri presenti nell’Icam di Lauro fino al 31 agosto, nove sono straniere. E dei 14 bambini reclusi, undici sono stranieri. È chiaro che il problema va analizzato e affrontato sotto più aspetti, compreso quello sociale, dell’accoglienza e dell’inclusione. E se si confrontano i dati degli ultimi mesi, si nota che il numero dei bambini costretti a vivere in cella assieme alle proprie madri aumenta con il passare dei mesi anziché diminuire. Che cosa non funziona nel nostro sistema sociale e giudiziario? Bisognerà chiederselo prima o poi. Non serve indignarsi solo quando accade un evento eccezionale, come il caso della detenuta che ha partorito a Rebibbia.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La denuncia del Garante. Partorisce senza medico aiutata dalla compagna di cella incinta: “I giudici erano in ferie”. Serena Console su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Il primo gemito del suo nascituro l’ha sentito dentro la cella del carcere femminile di Rebibbia in cui era rinchiusa. Ad aiutarla nel difficile parto la sua compagna di cella, anche lei incinta. Quando un giorno Amra, 20enne italiana di origine bosniaca, residente nel campo rom di Castel Romano, racconterà a sua figlia come e quando è nata, probabilmente non riuscirà a trovare le parole per spiegarle come mai abbia partorito in un istituto penitenziario. Perché la giovane donna, che deve ancora passare in giudicato per reati di furto, ha ricevuto come misura la custodia cautelare in carcere. Un provvedimento non definitivo che è durato fin quando è nata la bambina di Amra. Però, a causa delle sue condizioni, per la giovane donna doveva essere individuata una sistemazione alternativa. La norma infatti prevede che tale misura cautelare sia disposta per le donne incinte solo per casi di conclamata pericolosità sociale.

La denuncia del Garante. A denunciare la storia è stata Gabriella Stramaccioni, Garante dei detenuti di Roma, che, dopo essersi recata in carcere il 14 agosto, si è attivata affinché per la donna, così come per la sua compagna di cella, venisse valutata una detenzione alternativa. Stramaccioni ha incontrato Amra nell’infermeria dell’istituto penitenziario, dove era ricoverata insieme ad altre due rom incinte e ai pazienti psichiatrici.  Come racconta al Riformista, Stramaccioni ha scritto al magistrato competente il 17 agosto scorso per chiedere una soluzione alternativa alla detenzione cautelare imposta alle due donne incinte, di 20 e 25 anni. Come la Casa di Leda, una struttura protetta aperta dal marzo del 2017 per la tutela delle detenute con figli minori: può ospitare fino a sei persone e otto figli da zero a 10 anni. La sollecitazione non ha però ricevuto risposta. Forse, sottolinea il Garante, per il periodo di ferie osservato da molti. La Garante non ha dubbi. Al di là delle sfortunate coincidenze determinate dal periodo festivo, le donne incinte e i bambini non devono entrare in carcere. Per loro deve essere prevista una soluzione alternativa, come l’ingresso in una struttura comunale oppure l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari. “I bambini non devono entrare in carcere, così come le donne incinte – afferma Stramaccioni al Riformista – La detenzione preventiva nei penitenziari deve essere presa in considerazione come extrema ratio, solo per i casi di conclamata pericolosità sociale”. Ma la Garante tiene a precisare che dietro l’applicazione della misura di custodia cautelare in carcere non ci sia una condotta pregiudizievole o discriminatoria.

L’evoluzione. La giovane Amra ha partorito la notte tra il 2 e il 3 settembre nella sua sua cella. Si è addormentata tranquillamente, senza avvertire alcun dolore che potesse segnalare il parto imminente. La situazione è precipitata nella notte: i dolori, le richieste di aiuto e l’intervento salvifico della sua compagna di stanza, che l’ha aiutata subito. Quando il medico è arrivato in cella, la bambina era già nata. Il giorno dopo per Amra e la sua compagna di cella è arrivato il provvedimento del pm, che ha disposto l’arresto domiciliare. Le due giovani donne sono tornate al campo rom dove abitano. Amra potrà crescere la sua bambina in un ambiente consono; la sua compagna di stanza, la 25enne, potrà invece proseguire con tranquillità la sua gestazione. E’ ora al settimo mese di gravidanza ed è entrata nell’istituto penitenziario di Roma il mese scorso mentre è in attesa di giudizio per furto.

I numeri. Il numero delle detenute incinte o con figli minori non supera le sessanta l’anno, ma l’attenzione resta comunque alta. Per questo, nella legge di Bilancio 2021 è previsto lo stanziamento fino al 2023 di 1.5 milioni di euro l’anno dedicati all’accoglienza delle madri o dei padri con i bambini al seguito nelle strutture già esistenti o da istituire. Serena Console

La denuncia della garante. Partorisce da sola in cella, perché stava in carcere? Angela Stella su Il Riformista l'11 Settembre 2021. Nascere a Rebibbia, in un istituto di pena, nel 2021. È quanto è successo ad una bambina, partorita da Amra, 23 anni, italiana di origine bosniaca. La storia ha un lieto fine ma è stata preceduta da tanta paura, secondo quanto raccontato dalla donna a Repubblica: avrebbe partorito solo con l’aiuto di un’altra detenuta rom, anche lei al quinto mese di gravidanza, in una cella dell’istituto romano di detenzione attenuata, senza assistenza ostetrica, né medica, né infermieristica, come spetterebbe a qualsiasi madre. Quando finalmente il medico è arrivato, allertato dagli agenti della penitenziaria, il parto si era concluso. La donna poi verrà trasportata all’ospedale Pertini dove vi è rimasta per cinque giorni. Diversa la versione del Dap: «Stando alle prime ricostruzioni, nella notte fra il 30 e il 31 agosto la detenuta si trovava nella propria stanza del reparto infermeria dell’istituto penitenziario, assistita dal medico e dall’infermiera in servizio. Al manifestarsi dei primi dolori e constatata l’urgenza di un ricovero, il medico si sarebbe allontanato per contattare l’ospedale e richiedere l’immediato intervento di una ambulanza. Proprio in quel frangente la detenuta avrebbe partorito». Il capo del Dap, Petralia, ha anche detto «che non posso che essere rammaricato per il fatto che una donna abbia dovuto partorire in carcere. Fortunatamente si tratta di una vicenda che si è conclusa senza alcuna criticità e ora sia la mamma che la neonata stanno bene». Quando è stata arrestata il 23 giugno per furto Amra era già in uno stato avanzato di gravidanza; tuttavia il giudice della IV sezione penale del tribunale di Roma ha disposto comunque per lei il carcere. Sempre secondo quanto ricostruito fino ad ora dal Dap «la donna in data 1 agosto aveva presentato una istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare. Il 7 agosto l’Autorità Giudiziaria si riservava di decidere in attesa di una relazione dell’Area sanitaria dell’istituto sulle condizioni di salute della detenuta; richiesta che veniva sollecitata nuovamente il 9 agosto. Il giorno successivo, 10 agosto, l’Area sanitaria inviava la relazione alla quale non ha fatto seguito alcun altro provvedimento dell’Autorità Giudiziaria. Il 18 agosto la detenuta veniva inviata per accertamenti urgenti in ospedale, dal quale rientrava in istituto lo stesso giorno». La vicenda è venuta fuori grazie a Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma che lo scorso 17 agosto, dopo aver fatto visita all’infermeria dell’istituto di pena, aveva scritto al gip affinché Amra fosse scarcerata e tradotta nella Casa di Leda, una struttura protetta per la tutela delle detenute con minori. Il posto c’era ma nessuno ha mai risposto alla richiesta della Garante che ci dice: «Il problema è a monte. Non andava indicata la custodia cautelare in carcere per la ragazza. Lei e la sua amica sono state fermate per un reato di bassa pericolosità sociale e in quel momento erano entrambe incinte. La legge prevede che donne incinte o mamme con bambini piccoli debbano entrare in carcere solo per fatti gravi. Ora Amra e la sua amica sono libere in attesa del processo». In base alle statistiche del Ministero della Giustizia, al 31 agosto 2021 sono 26 i figli al seguito delle madri detenuti, di cui venti stranieri e sei italiani, dislocati in sei istituti: Lauro Icam (provincia di Avellino), Rebibbia (Roma), Bollate e San Vittore (Milano), Le Vallette (Torino), Giudecca (Venezia). Un anno prima i bambini in carcere erano 57. Per i deputati dem Paolo Siani e Walter Verini, rispettivamente primo firmatario e relatore della legge sui minori nelle carceri «l’avvenuta scarcerazione delle due donne arrestate per furto, di cui una diventata mamma proprio in questi giorni e l’altra in procinto di partorire, è una buona notizia. All’interno di tali problematiche che rivestono drammatica urgenza, si colloca anche la questione dei minori in carcere. Una vergogna da cancellare. Per questo chiediamo che si compia ogni sforzo per approvare al più presto la proposta di legge tuttora all’esame della Commissione Giustizia della Camera. Tale approvazione sarebbe un segnale di grande civiltà per l’ Ordinamento Penitenziario e per il nostro Paese». Angela Stella

Il caso della detenuta rom a Rebibbia. Tutti hanno lasciato che un bambino nascesse in prigione. Rita Bernardini su Il Riformista l'11 Settembre 2021. Dieci giorni fa, dopo aver visitato nel corso del mese di agosto 5 istituti penitenziari, avevo scritto alla ministra Marta Cartabia denunciando lo stato di abbandono delle nostre carceri. Stato di abbandono sanitario e trattamentale che si traduce in concrete e sistematiche violazioni dei diritti umani inconcepibili in uno Stato di diritto che si definisce democratico. Quel che è successo ad Amra e al suo bambino è uno dei tanti degradanti esempi di ciò che avviene ogni minuto nei 189 penitenziari del nostro Paese. Penso al Giudice che ha disposto l’arresto di una donna prossima al parto, ai responsabili del carcere che l’hanno messa in una cella, al dirigente sanitario che l’ha presa in carico: tutti sapevano, ma nessuno di loro è intervenuto per evitare l’irreparabile, cioè che un bambino nascesse tra le sbarre senza alcuna assistenza sanitaria per lui e per la madre. L’unica figura istituzionale presente è stata quella della Garante Gabriella Stramaccioni, che però non è stata ascoltata e si è dovuta fermare di fronte ad istituzioni ignave che non si fanno scrupolo di calpestare leggi e regolamenti. Già, perché per legge non può essere disposta la custodia cautelare in carcere di una donna incinta (o madre di prole di età inferiore a tre anni), salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza (art. 275, comma 4, c.p.p). Francamente non mi pare il caso di Amra, accusata di furto, che avrebbe potuto usufruire dei domiciliari in una casa famiglia protetta come aveva proposto la Garante Stramaccioni. E, in carcere, per Amra e il suo piccolo che fine ha fatto la legge dell’Ordinamento Penitenziario che prevede che in ogni carcere femmminile devono essere in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere? Perché la ASL non ha fatto funzionare questi servizi speciali? E perché i Ministeri della Salute e della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non hanno vigilato sulla fruizione dei servizi previsti? C’è però un motivo di vergogna in più in questa vicenda ed è il trattamento riservato ai Rom. Amra lo dice a Repubblica quasi rassegnata «non sono certo la prima e non sarò l’ultima donna rom vittima di questo sistema». Amra non lo sa ma al Governo qualcuno dovrebbe invece forse sapere che l’art. 75 dell’Ordinamento Penitenziario prevede i Consigli di Aiuto Sociale che hanno il compito di aiutare i detenuti a reinserirsi nel contesto sociale. Nelle detenzioni precedenti quante volte Amra è stata raggiunta da questi presidi? Ve lo dico io: MAI. Semplicemente perché non sono stati mai istituiti. Stato fuorilegge insisteva Marco Pannella. Concludo con un proverbio in dialetto romanesco che ripeteva spesso mia madre e che mi sembra si attagli bene al caso in questione: «Nun gode er poveraccio si nun né pe’ disgrazzia». Mi riferisco alle due detenute rom incinte che sono state finalmente scarcerate a seguito del parto di Amra in un giaciglio dietro le sbarre. Rita Bernardini

Il caso della detenuta rom a Rebibbia. Nessun alibi, i rom sono tra gli ultimi. Eraldo Affinati su Il Riformista il 12 Settembre 2021. I bambini più piccoli, costretti a stare in carcere insieme alle madri recluse, assomigliano ai cuccioli dei felini cresciuti in cattività: i loro occhi sono tristi e malinconici. Eppure c’è di peggio: partorire in cella di notte, anziché in una struttura protetta, secondo quanto prevede la norma, potendo contare soltanto sull’aiuto improvvisato della compagna prigioniera, peraltro anche lei incinta, come è successo pochi giorni fa a Roma, nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, a una giovane rom di origine bosniaca, già madre di altri figli, è un evento indegno di un Paese civile: questo lo sanno tutti. Non dovremmo raccontarlo noi. Per spiegarlo possiamo immaginare inciampi burocratici, disattenzioni protocollari, noncuranze e/o negligenze, relative a quella responsabilità settoriale che tanti guasti continua a provocare in ogni ambito della vita sociale ancorando l’operatore al semplice mansionario da svolgere, spesso senza tenere presenti i contesti nei quali si agisce. Potremmo definire il suddetto atteggiamento difensivo alla maniera di un alibi formale: io ho eseguito il mio compito, non spettava a me fare in altro modo. A finire stritolati nei gangli di tali isterie precettistiche, assai frequenti quando si lavora a compartimenti stagni, sono le ultime ruote del carro, i più svantaggiati e sprovveduti, chi non sa come contrapporsi al degrado e all’ingiustizia semplicemente perché ci è nato dentro, ha avuto lì la sua formazione, nell’incuria frutto dell’indifferenza, in mezzo agli inevitabili soprusi, le scandalose promiscuità, le mancate scolarizzazioni, le protervie insanabili, le violenze quotidiane, a cui davvero sembra non ci sia rimedio, come se la vita potesse essere solo così. In particolare i rom mandano a monte ogni nostra ipocrisia egualitaria. Chiunque sia soltanto entrato, almeno una volta, nel campo nomadi di Castel Romano, sulla Pontina, alle porte della capitale, dove la mamma che ha partorito in carcere è cresciuta, e abbia gettato uno sguardo verso quelle casette allineate dietro al recinto, fonte di innumerevoli polemiche, mentre dall’altro lato della strada nei week end fanno quasi sempre la fila le automobili dirette all’adiacente centro commerciale, credo abbia misurato tutto lo scarto fra due universi drammaticamente divisi: quello in cui abitiamo noi e quello della giovane reclusa. Da una parte ci sono i cartelloni pubblicitari delle creazioni esclusive, saldi e coriandoli, dall’altra le stelle di cartapesta schiacciate nel fango. È questa, io penso, la ragione antica, profonda, strutturale, al di là di tutte le risposte tecniche, giuridiche e amministrative, che sta alla base del parto arrischiato e fortunoso avvenuto nella notte del 3 settembre in uno dei più importanti istituti carcerari italiani. Adesso, apprendiamo, la bambina nata dietro alle sbarre sta bene e la madre è tornata a vivere in una casa a Ciampino. Ma finché non riusciremo a trovare il modo di mettere in rapporto i due mondi separati, non stancandoci di predisporre adeguati collegamenti linguistici e culturali, simili eventi non lieti purtroppo continueranno a ripetersi. Eraldo Affinati

Partorisce sola in cella. Bufera sui "pm in ferie". Nino Materi il 12 Settembre 2021 su Il Giornale. Il sindacato di polizia: "Cartabia si vergogni". E lei invia gli ispettori. L'accusa del Garante. Per fortuna i neonati non ricordano l'attimo in cui vedono per la prima volta la luce. Ma forse - un giorno, quando sarà grande - qualcuno dovrà spiegare alla piccola figlia di Amra (Amra è una mamma di 23 anni, italiana di origine bosniaca, che sta scontando la pena a Rebibbia) perché in un Paese, cosiddetto «civile», sua madre l'abbia partorita dietro le sbarre di una cella, da sola, senza l'assistenza di un medico e col solo aiuto di una compagna detenuta, pure lei incinta. A far emergere il caso, la denuncia del Garante dei detenuti che avanza un'ipotesi inquietante, dove però campeggia un «forse» di troppo: «È accaduto perché, forse, i giudici erano tutti in ferie». Accusa pesante. L'autorizzazione per cure adeguate non è arrivata in tempo per il motivo adombrato dal Garante? O la ragione è un'altra? Sta di fatto che una donna ha subìto un trattamento ignobile: umanamente vergognoso e penalmente perseguibile. Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Spp, va giù duro: «Quando finalmente il medico è arrivato, allertato dagli agenti della penitenziaria, il parto si era già concluso. Un episodio che dovrebbe far vergognare la ministra della Giustizia, Maria Cartabia, prima di tutto come donna. Inviare gli ispettori ministeriali dopo quanto è successo è tardivo, inutile e non può servire a salvare la coscienza». Anche il Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria), pur dando una versione diversa dell'accaduto si dichiara «rammaricato per quanto accaduto». Intanto ad Amra, successivamente ricoverata all'ospedale «Pertini» di Roma, nessuno ha spiegato nulla dell'«intoppo burocratico» all'origine del fattaccio (che risale a una decina di giorni fa) né le ha chiesto scusa; l'unica notizia positiva è che ora, sia lei sia la piccola, stanno bene. Un'odissea evitabilissima considerato che, pochi giorni prima del parto, Amra era stata ricoverata al «Pertini» per una minaccia di aborto. Peccato che, dopo una visita di controllo, la detenuta sia stata costretta a tornare in carcere; di lì a poche ore la donna ha quindi partorito in cella in condizioni a dir poco precarie, per poi essere ricondotta nella clinica da cui era appena stata trasferita e dove è rimasta 5 giorni dopo aver dato alla luce la sua quarta bimba. A seguito dei primi accertamenti eseguiti dal Dap risulta che la donna, «in istituto dal 23 giugno scorso, in data 1 agosto aveva presentato una istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare». Segue un iter che dimostra l'estrema farraginosità del sistema: «Il 18 agosto la detenuta veniva inviata per accertamenti urgenti in ospedale, dal quale rientrava in istituto lo stesso giorno». Eccolo il punto-chiave: se la donna era stata ricoverata per «accertamenti urgenti» (leggi minaccia di aborto) che senso ha aver ordinato il suo «immediato rientro in cella»? Sul punto il Dap non risponde, preferendo optare per una linea pilatesca: «Si tiene a precisare che nessuna responsabilità può essere addossata all'istituto penitenziario che si è adoperato per velocizzare al massimo le comunicazioni con l'autorità giudiziaria e le autorità sanitarie competenti». Insomma, poco ci manca che Amra e la figlia debbano anche «ringraziare» per il trattamento ricevuto. Nino Materi

Giulia D'Aleo per la Repubblica l'11 settembre 2021. Nel carcere di Rebibbia, in una totale violazione dei diritti dei detenuti, una ragazza è stata costretta a partorire in cella lo scorso 3 settembre. Oltre che in condizioni sanitarie inadeguate, il parto è avvenuto senza l’assistenza di un’ostetrica o di personale medico. Amra ha 23 anni ed è un’italiana di origine bosniaca, ex residente nel campo rom di Castel Romano. Era stata arrestata per furto a luglio, quando si trovava in uno stato già avanzato della gravidanza. Poco dopo l’incarcerazione, la Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, aveva fatto richiesta al giudice di concederle il rilascio, proponendo di trasferirla, piuttosto, nella Casa di Leda, dedicata alla tutela delle detenute con figli minori. Dal giudice, però, non è mai arrivata alcuna risposta. Le doglie sono arrivate la notte del 3 settembre, e solo le urla della ragazza hanno richiamato l’attenzione degli agenti. All’arrivo del medico di turno e dei sanitari, il parto era già avvenuto in cella. Amra è stata poi rilasciata, in attesa del processo, ed è potuta tornare a casa. In seguito all’episodio altre due detenute incinte sono state liberate dal carcere. Per il Sottosegretario alla Giustizia con delega all'edilizia carceraria, Francesco Paolo Sisto, «l'istituto carcerario non c'entra nulla con quanto accaduto. La detenuta è stata posta in isolamento presso il reparto di infermeria del penitenziario e assistita dal personale sanitario e al parto era presente il medico, opportunamente organizzato per l'emergenza. Per un compiuto esame di quanto accaduto, – continua Sisto – il Ministero ha comunque trasmesso il dossier all'Ispettorato, così da consentire l'accertamento di eventuali responsabilità da parte di uffici diversi da quelli della struttura di reclusione». Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale, definisce invece «una vergogna» la terribile vicenda, di cui «Come istituzioni siamo tutti responsabili, perché non si può far nascere una persona in situazioni di detenzione. Ci troviamo di fronte a uno scaricamento complessivo di responsabilità: dal magistrato che dovrebbe considerare anche la situazione peculiare, al carcere nel momento in cui è in gioco una vita che viene alla luce. Il carcere avrebbe potuto dire che non era in grado di accogliere una persona tanto vicina al parto e chiedere alle istituzioni un'altra soluzione e dal magistrato, tanto più da una donna, ci si aspetterebbe maggiore sensibilità» ha concluso. «Quanto è accaduto – dice Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Spp – dovrebbe far vergognare la Ministra di Grazia e Giustizia Cartabia, prima di tutto come donna. Inviare gli ispettori ministeriali dopo quanto è successo è tardivo, inutile e non può servire a salvare la coscienza». Il sindacalista e la sua organizzazione avevano lanciato da tempo la campagna "nessun bambino in cella". «Che nel 2021 una donna si trovi a partorire da sola in cella è semplicemente inaccettabile» scrive su Facebook la senatrice Monica Cirinnà, responsabile Diritti del Pd. «Non posso fare a meno di ricordare che nella legge di bilancio per il 2021 sono stati stanziati fondi (3,5 milioni di euro in tre anni) per la creazione di nuove case famiglia protette: quelle strutture, cioè, destinate ad accogliere detenute in gravidanza o con figli minori, quando non ci siano elementi di pericolosità e non sia possibile la detenzione domiciliare. Ho depositato una interrogazione alla Ministra Cartabia proprio sul ritardo nell'utilizzo di questi fondi. Mi auguro che questa dolorosa vicenda spinga ad accelerare la creazione di queste strutture protette, affinché mai più un bambino o una bambina debba varcare la soglia di un carcere, o addirittura - come in questo caso - in un carcere nascere, in condizioni del tutto contrarie alla tutela della dignità delle persone». Le strutture protette in Italia sono diverse e distribuite sul territorio. Sono attualmente 22 detenute-madri e 25 bambini a occupare le sezioni nido degli istituti penitenziari e degli istituti a custodia attenuata, specificamente attrezzati per l'accoglienza di madri con prole. Undici di loro sono detenute fra gli istituti di Torino (2 madri e 2 minori), Milano (2 madri e 2 minori) e Venezia (2 madri e 3 minori); due sono nella sezione nido della Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia (dove si trovano anche due minori), mentre in ciascuna delle apposite sezioni nido di Torino, Milano Bollate e Firenze Sollicciano sono ospitate una madre con un minore al seguito. Il numero più alto di presenze si registra all'ICAM di Lauro, in Irpinia, che ospita 11 madri e 13 bimbi. «Purtroppo – continua Di Giacomo – dobbiamo solo registrare che il numero si è dimezzato ma la situazione di autentica barbarie non è stata superata. È anche questo il segnale del disinteresse istituzionale e della politica per i veri problemi del sistema penitenziario italiano mostrando solo interesse per fatti come quelli di Santa Maria Capua Vetere per i quali si continua a dare grande clamore mediatico».

Contro il carcere ha vinto lui. Il miracolo di Gaspare Trigona, il prigioniero che riesce a rieducare se stesso. Sabrina Renna su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Questa è una storia a lieto fine. Un miracolo nel sistema carcerario italiano. Gaspare Trigona, trentasette anni, dodici dei quali trascorsi in carcere, non si è sottratto alle proprie responsabilità, a tal punto da diventare, crescendo, un manifesto vivente dell’eccezione che conferma la regola. La “regola” è che il carcere non funziona rispetto al fine suo proprio della rieducazione. L’eccezione è che il carcerato può “rieducare” sé stesso nonostante tutto, ed essere anche un esempio magistrale per altri. I giovani che sono, oggi, i suoi diretti interlocutori. Nei loro confronti, il monito è incessante: “divertitevi, ma senza sballo”. La sua non è retorica a basso costo, per liquidare con una risata i tempi passati, ma un bilancio onesto del suo vissuto. Nel decennio dell’alba del nuovo millennio, Gaspare era il punto di riferimento delle discoteche della Sicilia ionica. Dalle sue mani sono passati tutti i flussi di cocaina ed ecstasy che contaminavano, purtroppo, le serate da ballo e non solo. Una gioventù, la sua, bruciata da un percorso di devianza intrapreso per gioco e nella fretta di diventare grandi in un’età dove si aveva, ancora, il diritto di rimanere piccoli. Fino a che la via effimera della droga e un potere alimentato a ritmo di musica e pasticche impattano l’arresto, le sbarre, il carcere “fuori e dentro”. In galera, Gaspare non simula comportamenti e prove di buona condotta, non fa mai credere che i propri errori non siano stati commessi. Cambia modo di essere, divora libri, cerca qualcosa di meglio del diritto penale come destino della sua vita. Trova un sincero cambiamento, senza furbizia, autentico. Sorge in lui la speranza come preludio per un confronto appassionato con il mondo delle istituzioni. La storia di Gaspare consente di riflettere sugli strumenti di diritto e di fatto che lo Stato offre al detenuto per recuperarlo moralmente e socialmente. Con emozione, l’uomo usa il binocolo della memoria, ripercorre le esperienze vissute in carcere. Lo definisce un “luogo di perdizione” e di “umanità complessa”, dove paradossalmente “è più facile smarrirsi completamente che essere accompagnato in un’azione costante di rieducazione”. Tante sono le inaccettabili ingiustizie commesse da un sistema che costringe alle cose più impensabili: “le docce fredde, i colloqui senza contatto con i familiari, le perquisizioni con flessioni post-colloquio, le simulazioni di buona condotta fino ad arrivare a doversi reinventare giornalmente per sopravvivere in una dimensione di sovraffollamento e privazione dei diritti essenziali e inviolabili”. Oltre la dimensione ontologica Gaspare rivive “la distruzione psicologica dettata dalla poca attenzione che il mondo esterno riserva ai detenuti, le istanze spesso rigettate, la semplice mancanza di aggiornamento della relazione di sintesi”: l’esercizio di un monopolio della forza delle istituzioni che vede il detenuto sconfitto in partenza. In questa “esperienza di non ritorno”, Gaspare è riuscito però ad andare avanti, non perdendo la forza di tutelare i propri diritti e di costruire una nuova vita. Ciò che gli è stato negato nelle carceri di Catania, Palermo e Agrigento, lo ritrova nel carcere di Rossano, in Calabria, nel quale inizia gli studi in scienze politiche comprendendo che “se e quando lo Stato ti aiuta è più facile cambiare”. Al rancore subentrano la voglia di riscatto, il contatto con la famiglia, devastata dalla esperienza del proprio figlio, così diversa da una lunga tradizione di correttezza e rispetto delle regole. Vive una profonda crisi, scoraggiato dal sistema, dagli operatori sociali e dagli educatori: “pochi in verità accompagnano i detenuti a costruire una occasione ulteriore di vita”. La crudeltà del carcere gli appare un male necessario per comprendere gli errori e per tessere la bandiera del cambiamento. Decisivi gli incontri con il Partito radicale, con Nessuno tocchi Caino, che raccontano l’inutilità del sistema carcerario e delle molteplici forme di detenzione assunte con modi e tempi che distruggono il detenuto “allontanandolo da qualsiasi forma di democrazia”. Gaspare ci ha creduto e si è ricreduto: oggi è fuori, in affidamento ai servizi sociali. Lavora, prepara la tesi, ma rimane in carcere con la mente e il cuore che batte – pannellianamente – all’unisono con quello della comunità penitenziaria, dei detenuti e dei detenenti. Alla oppressione del sistema carcerario Gaspare oppone la sua lotta di liberazione, il successo di una giustizia che ripara che dal carcere di Rossano lo ha portato a diventare da fonte di disperazione testimone di speranza. Sabrina Renna

Matteo Boe, il bandito anarchico che fuggì dall’inferno Asinara. Storia dell’Asinara, l’isola-carcere passata alla storia come l’Alcatraz italiana che ebbe il suo Papillon: Matteo Boe fu l’unico uomo che riuscì ad evadere da quella fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 agosto 2021. «Col tempo mi hanno visto consumarmi poco a poco, ho perso i chili, ho perso i denti, somiglio a un topo ho rosicchiato tutti gli attimi di vita regalati e ho coltivato i miei dolcissimi progetti campati… In aria… nell’aria», dice un brano di Daniele Silvestri. La canzone è agghiacciante, drammatica, di forte impatto emotivo. L’elemento più sconcertante è che il protagonista, in prima persona, è un morto. Si tratta di un ergastolano che alla fine era riuscito ad evadere, ma “in orizzontale”. «Dopo trent’anni carcerato all’Asinara, che vuoi che siano poche ore in una bara». La struggente storia cantata da Silvestri è ambientata, appunto, nell’ex carcere dell’Asinara, un’isoletta del mar Mediterraneo, vicina alla punta della Sardegna. Oggi è un luogo incontaminato dove la natura trova il suo spazio, finalmente libera dalle 11 diramazioni penitenziarie. Pochi sanno l’origine del nome. Il pensiero va subito agli asini, che pur ci sono, ma in realtà tutto nasce dalla leggenda che Ercole afferrò l’estrema propaggine settentrionale della Sardegna e la staccò dalla penisola della Nurra. E la strinse così forte nel pugno da assottigliarne la parte centrale, lasciandole impresse tre profonde insenature dove le possenti dita l’avevano strangolata. Herculis Insula, la chiamarono perciò i romani, e successivamente Sinuaria, per la sinuosità delle sue coste. Da lì, a forza della graduale storpiatura del nome romano, si è arrivati appunto a chiamarla “Asinara”. L’isola fu prima adibita a luogo di quarantena per equipaggi di navi sospette di epidemie a bordo, con annesso lazzaretto, poi nel 1915 divenne campo di prigionia per decine di migliaia di soldati austroungarici, e poi colonia penale agricola. Tra il 1937 e il 1939 vennero trasferiti qui centinaia di prigionieri etiopi. Dal dopoguerra, l’Asinara diventò a tutti gli effetti un’isola- carcere, famigerato suo malgrado negli anni 70 come “speciale” per i fondatori delle Brigate Rosse. Poi, con la sanguinosa rivolta del 2 ottobre 1977 per protestare contro le sistematiche torture, il carcere venne temporaneamente dismesso negli anni 80 per poi riaprire dopo le stragi mafiose ai detenuti in regime di 41 bis. Ma le torture si inasprirono, tanto da ricevere una condanna anche dagli organismi internazionali. Fu lì che venne portato Totò Riina dopo il suo arresto. Precisamente gli venne assegnata la cella di Cala d’Oliva, uno degli undici penitenziari dell’isola. Era soprannominata “la discoteca”, ma non perché si ballava. La cella, senza finestre, era perennemente illuminata dalle lampade che il capo dei capi non poteva spegnere. In poco tempo Totò Riina si rese conto di essere finito in un luogo in cui sarebbe stato davvero isolato e sorvegliato 24 ore su 24. Senza un attimo di intimità, neanche all’interno del bagno. E con la luce sempre accesa, anche di notte. Vi rimase per 4 anni. L’Asinara però riservava l’identico trattamento nei confronti di tutti gli altri detenuti. C’è la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che vi trascorse lunghi anni al 41 bis. «Spesso le guardie arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di merda”. “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità», narra Musumeci. L’isola che ospitò anche Falcone e Borsellino prima del maxi processo (dovettero pagare anche il conto su richiesta dell’allora capo del Dap Nicolò Amato) è passata alla storia come l’Alcatraz italiana. E come ogni storia che si rispetti, ha conosciuto anche lei il suo Papillon. Si chiama Matteo Boe e fu l’unico uomo che riuscì ad evadere da quella fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. Boe è un personaggio da romanzo. È stato un bandito sardo, specificatamente di Lula, un paesino arroccato sui monti del nuorese. Divenne quasi una leggenda, tanto che il suo nome venne associato a una vita non solo di rapimenti, ma anche di attivismo politico visto che combatteva per l’indipendentismo sardo. Infatti, Boe, non riconosce alcuna autorità politica ed etica dello Stato italiano. Durante la detenzione, d’altronde, aveva tradotto in lingua sarda “Dio e lo Stato” di Bakunin e fatto poi stampare da un anarchico sardo. Fu condannato a sedici anni di carcere nel 1983, in seguito al rapimento di una giovanissima toscana, Sara Niccoli. Secondo le indagini ne fu poi il carceriere, quel “Carlos” che – come raccontò la stessa Niccoli – ne rese meno dura la detenzione, denotando perfino una cultura non indifferente nell’offrirle letture di pregio, come “L’idiota” di Dostoevskij e i libri di Franz Kafka. Sara morirà all’età di 30 anni a causa di una malattia autoimmune. Boe fu arrestato e recluso all’Asinara. La permanenza doveva stargli ovviamente stretta, e così decise di evadere dalla fortezza con Salvatore Duras, in carcere per furto. Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto. Dopo aver tramortito un’agente mentre svolgevano un lavoro esterno, i due riescono a raggiungere la costa dove una donna – la moglie di Boe – li aspetta nascosta a bordo di un gommone. La donna, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Boe alla facoltà di Agraria all’università di Bologna e lui era un suo compagno di corso. Un amore immenso, che la spinse ad aiutarlo ad evadere. Duras fu trovato poco tempo dopo. Boe, invece, riuscì a restare latitante per sei anni. Alla fase della latitanza risalgono tutta una serie di altri rapimenti, come quello dell’imprenditore romano Giulio De Angelis, o quello eclatante del piccolo Farouk Kassam, nel 1992, cui fu brutalmente mozzato un orecchio. Il bambino fu lasciato libero dopo 177 giorni di prigionia, nei quali mangiò poco e non si lavò, tanto che i vestiti non gli si staccavano di dosso, come sostengono le cronache dell’epoca. Nello stesso anno Boe fu arrestato in Corsica, dove si trovava per alcuni giorni di vacanza con la moglie e i due figli, e quindi estradato nel 1995, con una condanna – confermata nel ’ 96 – a 25 anni di detenzione. Nel 2003 la tragedia. Una scarica di pallettoni rivolta al balcone della sua casa di Lula uccise Luisa, la figlia quattordicenne, forse scambiata dagli esecutori per la moglie Laura, politicamente molto attiva in paese nella lotta all’istituzione di una normalità amministrativa. «In tutti questi anni disse Matteo Boe dal carcere in una delle rare interviste rilasciate- ho visto mia figlia soltanto attraverso un vetro. Le nostre mani ogni volta erano divise da una parete. Assurdo, me l’hanno uccisa senza darmi la possibilità di abbracciarla». Questa vicenda dolorosa ebbe strascichi giudiziari: Laura accusò l’allora maresciallo dei carabinieri di non aver indagato a sufficienza e andò sotto processo per calunnia, uscendone assolta. Ancora oggi l’uccisione della ragazzina è senza colpevoli. Boe ha finito di scontare la sua pena nel 2017 ed è un uomo libero. Ora ha 61 anni e sta studiando per diventare guida ambientale escursionistica. I detenuti che hanno cercato di fuggire dall’Asinara sono stati tanti. La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto. Invece in tanti sono annegati, recuperati giorni dopo la fuga. È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barca a remi. Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia. Solo Boe, il bandito sardo, ci riuscì.

La denuncia delle Camere penali. Niente acqua, doccia e prezzi triplicati per il cibo: ecco l’inferno delle carceri campane. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 20 Agosto 2021. In cella la temperatura sfiora i 35 gradi. E farsi una doccia non sempre è possibile: a Santa Maria Capua Vetere manca l’acqua potabile perché, a 25 anni di distanza dall’apertura, il carcere non è ancora collegato alla rete idrica. Non va tanto meglio a Bellizzi e ad Ariano Irpino, dove i detenuti devono accontentarsi di una doccia al giorno. E se qualcuno desidera acquistare un po’ di frutta e verdura, deve rassegnarsi all’idea di farlo a prezzi tre o quattro volte più alti di quelli praticati all’esterno del penitenziario. Ecco il dramma dell’estate dietro le sbarre, ecco lo strazio di migliaia di persone che in cella dicono addio non solo alla libertà ma anche alla dignità. Ad alzare il velo su questo scandalo sono i penalisti campani che hanno visitato le prigioni di Santa Maria Capua Vetere, Bellizzi e Ariano Irpino nell’ambito di Ferragosto in carcere, l’iniziativa di sensibilizzazione promossa dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi). La scelta di Santa Maria Capua Vetere non è stata casuale. La casa circondariale Francesco Uccella è nell’occhio del ciclone dalla fine di giugno, quando le forze dell’ordine hanno notificato un’ordinanza cautelare a 52 tra poliziotti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria ritenuti a vario titolo responsabili dei pestaggi sui detenuti del 6 aprile 2020. Nonostante il clamore della vicenda, però, sono altri i disagi riferiti dai detenuti agli avvocati delle Camere penali di Napoli Nord e di Santa Maria Capua Vetere. «Abbiamo scelto il penitenziario sammaritano – spiega Felice Belluomo, presidente dei penalisti di Napoli Nord – per ribadire che le condizioni di operatori e detenuti, in particolare le finalità rieducative e risocializzanti della pena, non vanno dimenticate. E alla fine della visita siamo rimasti colpiti dal senso di abbandono in cui versa la struttura: le celle sono dignitose, ma il personale è sottodimensionato e i detenuti devono fare i conti con troppi disagi». C’è chi deve attendere mesi per una visita medica e chi, nonostante le insistenze, non è stato ancora vaccinato contro il Covid. I prezzi dei beni di prima necessità sono altissimi: non solo gli alimenti, ma anche le bombolette di gas per i fornellini da campeggio costano molto di più rispetto all’esterno del carcere. «E questo è un dramma in una struttura dove manca l’acqua potabile – sottolinea Consiglia Fabbrocini, membro della Camera penale di Nola – Chi vuole bere o lavarsi è costretto ad acquistare l’acqua in bottiglia a prezzi esagerati. E questo è uno sfregio non solo alla Costituzione, ma anche alla dignità dei detenuti». Non va meglio ad Ariano Irpino, dove i reclusi possono farsi la doccia soltanto di mattina causa problemi alla rete idrica. I problemi sono anche altri: la carenza di personale, in questo periodo ridotto all’osso da ferie e malattie, e la mancanza di attività trattamentali, indispensabili per rendere la detenzione meno insopportabile alla vasta platea di giovani. Senza dimenticare i colloqui che avvengono ancora dietro il pannello divisorio in plexiglass, con buona pace di quei ristretti che vorrebbero abbracciare i propri figli all’aria aperta e per più tempo almeno durante l’estate. A Bellizzi, infine, la situazione sanitaria è allarmante: «Mancano medici specialisti – racconta Giovanna Perna, membro della Camera penale Irpina – e molti operatori e detenuti non sono ancora vaccinati». Insomma, come sottolinea il responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi Riccardo Polidoro, «le visite svelano le ingiuste sofferenze patite dai detenuti durante l’estate e confermano la necessità di una cultura della pena finalmente in linea con la Costituzione». La politica lo capirà? Sul punto Francesco Petrillo, presidente della Camera penale di Santa Maria Capua Vetere, è scettico: «Due anni fa, a visitare le prigioni eravamo in pochi. Ora la nostra delegazione è più folta, a dimostrazione della sensibilità dell’avvocatura. Ciò che non è cambiato è il disinteresse della politica che continua a ignorare il dramma delle carceri».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

La denuncia del garante. Prezzi maggiorati e niente sconti, per i detenuti il cibo diventa lusso. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Sapete quanto valgono colazione, pranzo e cena di chi vive dietro le sbarre? Complessivamente, non più di tre euro e 90 centesimi. Ecco la cifra che la ditta affidataria sborsa, in Campania, per i tre pasti quotidiani dei detenuti che, di conseguenza, sono costretti ad acquistare personalmente generi di prima necessità a cifre spesso maggiorate e senza beneficiare di alcuno sconto. A denunciarlo è Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti, che invoca una riforma delle modalità con cui vitto e sopravvitto vengono gestiti nei penitenziari della Campania. «L’appalto ministeriale per il servizio di mantenimento dei detenuti prevede che l’approvvigionamento alimentare sia assegnato in base al costo più basso – spiega Ciambriello – E l’aggiudicatario è tenuto ad assicurare anche il servizio per il sopravvitto. Qui bisogna evidenziare che il valore economico del sopravvitto raggiunge circa il 50% dei volumi complessivi, rappresentando una fetta cospicua di ogni singolo accordo». In altre parole, la gara per assicurare colazione, pranzo e cena ai detenuti è affidata in base al criterio del massimo ribasso. Tanto poi, per chi vive in cella, c’è il sopravvitto. Già, perché i detenuti possono acquistare beni di prima necessità al di fuori del vitto ordinario. Ma spesso sono costretti a farlo a prezzi più alti almeno di 20 centesimi rispetto al costo consueto e senza la possibilità di beneficiare degli sconti spesso previsti per i prodotti a breve scadenza. Senza dimenticare che la gamma di prodotti e marche a disposizione dei reclusi è assai limitata. Ciò si verifica per pasta, acqua, shampoo, dolciumi e bombolette di gas per i fornellini, come denunciato anche dagli avvocati delle Camere penali campane che a Ferragosto hanno visitato le carceri di Santa Maria Capua Vetere, Bellizzi e Ariano Irpino. Questa situazione si traduce immancabilmente in un supplemento di pena per i detenuti. Ciascuno di essi, infatti, dispone di 150 euro a settimana da spendere per il sopravvitto. Se il vitto è scarso e i prezzi per i generi di prima necessità acquistabili sono puntualmente maggiorati, quei 150 euro rischiano di non bastare. Con la conseguenza che sono le famiglie dei detenuti, spesso e volentieri indigenti, a dover sostenere ulteriori spese per garantire gli indispensabili generi di prima necessità ai congiunti che si trovano in cella. Risultato: se si fa una stima economica delle risorse investite dai familiari e dai reclusi nei soli istituti di Poggioreale e Secondigliano, sono addirittura 14 i milioni di euro spesi in un solo anno. «Una circolare, risalente al 1988 ma ancora in vigore, impone costanti, puntuali e penetranti controlli in ordine al servizio del sopravvitto per detenuti con particolare attenzione ai prezzi e di fornire al Comune l’elenco dei generi posti in vendita specificando per ognuno qualità, marca e prezzo – conclude Samuele Ciambriello – Questo, però, non avviene. Se vogliamo assicurare una giustizia equa sia dentro sia fuori dal carcere, i prezzi devono essere adeguati, in tutti gli istituti, a quelli di mercato: solo così si può mettere fine a quella che è un’autentica e inaccettabile speculazione».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Gestire le mense di una prigione può fruttare molto. Quanto costa far mangiare i carcerati, quando i detenuti diventano un business. Mattia Moro su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Da due anni sto seguendo la questione degli appalti del cibo in carcere. Tutto parte da diverse segnalazioni giuntemi da ex detenuti mentre lavoravo a Mediaset nel 2019. Fino ad allora non sapevo niente del vitto (i tre pasti giornalieri completi di colazione, pranzo e cena che l’amministrazione è tenuta a fornire ai detenuti) e del sopravvitto (quello che i detenuti possono acquistare negli spacci interni), e non immaginavo cosa avrei scoperto! Le lamentele riguardavano i prezzi, la quantità e la qualità dei beni venduti in carcere. Il regolamento del DAP prevede che i prezzi di vendita non possano eccedere quelli comunemente praticati dagli esercizi della grande distribuzione nelle vicinanze dell’Istituto e che per offrire anche prodotti di basso costo (vista la condizione di totale povertà che vivono quasi tutti i detenuti) il prezzo si fissa in base a quello degli esercizi hard discount più vicini. Per verificare le segnalazioni, ho raccolto decine di liste della spesa ex modello 72 di vari istituti in cui risultavano diverse irregolarità sui prezzi e la qualità del sopravvitto. Un detenuto poi mi ha raccontato che in tanti anni di detenzione non gli era mai stato possibile acquistare, pagandola a prezzo pieno, carne che non fosse maleodorante. Solo chi è stato in carcere conosce i modi per lavarla con l’aceto per camuffare il sapore. Sul vitto ho filmato testimonianze che raccontano di cibo marcio o di menù dannosi per la salute. Un’ex detenuta mi ha raccontato che per una settimana le hanno dato da mangiare solo uova lesse (“Ma che so matti? Così mi veniva il diabete!”). In ogni carcere è prevista una “Commissione vitto”, composta da tre detenuti scelti a sorte mensilmente per controllare, sotto la supervisione di un incaricato dal direttore, il regolare andamento del servizio, dalla consegna delle derrate alimentari al controllo della qualità e quantità. Spesso capitano persone che non sanno leggere e scrivere o che non sanno parlare italiano o rispetto alle quali si possono nutrire dubbi sulla loro idoneità a denunciare eventuali anomalie del sistema. Per un detenuto è rischioso segnalare irregolarità su vitto e sopravvitto. Ci aveva provato Ismail Latief a denunciare agenti della penitenziaria per furti nelle cucine del carcere di Velletri: ha subito pestaggi e maltrattamenti sia a Velletri, nei giorni successivi alla denuncia, per convincerlo a ritirarla sia a San Vittore, dove era stato trasferito, perché non l’aveva ritirata. Esiste una sorta di consorzio chiamato Associazione nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip) di cui fanno parte aziende attive nel settore da tempo immemorabile. Come la Arturo Berselli & C. SPA che opera dal 1930! Studiando il bilancio di una di queste, la SAEP SPA, società gestita dai fratelli Tarricone, mi sono accorto che l’azienda aveva vinto un appalto facendo un ribasso incredibile a 3,9 euro per colazione, pranzo e cena partendo dalla base d’asta di 5,7 euro per poi contestare che con il prezzo offerto non avrebbero potuto fornire il servizio come previsto dal regolamento, salvo però fare 6 milioni di utili su un fatturato di 24 milioni. Come è possibile? Mi ha aiutato a capire meglio la Corte dei Conti del Lazio che il 7 settembre 2021, su esposto della Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, è intervenuta in riferimento alla Domenico Ventura SPA, gestita dai fratelli Ventura, proprietari anche del circolo canottieri di Napoli, che gestiscono le mense di Lazio, Campania, Abruzzo e Molise. La Corte ha notato che l’aggiudicatario ha offerto un ribasso di quasi il 58 per cento sulla diaria pro capite di 5,7 euro, impegnandosi a consegnare delle derrate alimentari per il vitto di tre pasti giornalieri a un prezzo di 2,39 euro. E ha concluso rilevando l’apparente insostenibilità economica del servizio di vitto ove svincolato dai ricavi del sopravvitto. La Corte ha fatto notare anche come si metta a gara il vitto, lasciando poi alla amministrazione decidere se gestire direttamente gli spacci del sopravvitto o esternalizzare il servizio. Siccome accade sempre che la ditta che vince la gara del vitto poi si aggiudica di fatto anche la gestione del sopravvitto, la Corte ha detto che i due tipi di servizi – vitto e sopravvitto – presentano caratteristiche diverse e ha invitato a diversificare le procedure di gara per garantire la partecipazione del maggior numero di ditte con evidente beneficio della qualità e della economicità del servizio. “Stranamente”, tutte le società che si occupano di forniture di derrate alimentari in carcere hanno un rapporto utile/fatturato altissimo se comparato a una qualunque azienda di mense. Almeno per queste società i detenuti hanno un valore enorme. Sono una fonte inesauribile di guadagno perché sono clienti sicuri, in costante crescita e non si possono neanche lamentare. Oltre il danno la beffa: a fine “soggiorno”, sono tenuti anche a pagare le “spese di mantenimento in carcere”. Mattia Moro

Il tempo divora, sfianca e uccide. Caldo, niente acqua fredda, aria bollente: viaggio nella follia del carcere. Sabrina Renna, Antonio Coniglio su Il Riformista il 20 Agosto 2021. «Un orologio che va male non segna mai l’ora esatta, un orologio fermo la segna due volte al giorno», chiosava Leonardo Sciascia da Racalmuto. Non sappiamo se avesse ragione. Certo è che in carcere gli orologi sono rotti, funzionano male, o non funzionano affatto. Lo abbiamo constatato d’emblée in occasione dell’ultima visita agostana nelle carceri di Siracusa, Vibo Valentia e Catanzaro insieme a Rita Bernardini, Sergio D’Elia e ai compagni di Nessuno tocchi Caino. È stata la prova del nove, un dato materiale che diventa qualcosa che è altro, altrove, un dramma consegnato all’evidenza. In fondo non ha granché senso chiedere che ore sono in in un carcere perché, dentro le mura carcerarie, il tempo proprio non esiste. D’altronde potrebbe mai essere diversamente? Che senso avrebbe contare i secondi, i minuti, le ore in un luogo nel quale al massimo puoi prendere una boccata di caldo feroce in un arido passeggio, soffrire il senso dell’inutilità, della depersonalizzazione, della pena che è morte civile? Come ne La persistenza della memoria di Salvador Dalì, in carcere gli orologi sono molli, quasi liquefatti, un po’ come la vita dei poveri diavoli che non hanno diritto alla ricerca del tempo perduto. Lo ha deciso l’ideologia rettiliana della retribuzione, del taglione, quella concezione diabolica che ha partorito strutture nelle quali si deve patire, stentare, soffrire. A guisa dei “fiori del male” di Baudelaire il tempo che passa, in un penitenziario, divora, sfianca, annichilisce. Un detenuto ha un sogno nel cassetto: un sorso d’acqua fredda. Proprio così: nei frigoriferi (ammesso che esistano) di alcune carceri non puoi mettere una bottiglia d’acqua. Un altro malcapitato vorrebbe un ventilatore nel giorno in cui in Sicilia si sfiorano i 48 gradi; un altro ancora sogna d’inverno una coperta dignitosa o uno spazio di socialità. Forse a questo punto è pure saggio non avere un orologio funzionante sulla parete di un carcere perché diventerebbe soltanto un peso smisurato, un ordigno pronto a esplodere, un nemico. È proprio vacuità, il gusto del nulla. Si discute finanche su quante merendine possa portare un condannato a colloquio con i propri bambini (anche questo si è avuto il coraggio di normare) mentre ammalarsi in galera è la peggiore sventura che possa capitare. Può accadere nelle carceri italiane, come a Vibo Valentia e a Catanzaro, di imbattersi pure in disabili fisici e psichici, in vecchietti di 85 anni che sono in predicato di traslocare altrove ma che noi teniamo lì, in cattività, per mettere sul tavolo tutto il peso della violenza di stato, della terribilità. La verità è presto detta: il nostro è uno stato che, nel nome di Abele, sguazza nella illegalità, nella violazione dei diritti umani fondamentali, diviene esso stesso carnefice. Non ha proprio senso sostituirli gli orologi rotti in carcere: promettiamo di non segnalarlo al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il tempo è tiranno, è nemico: meglio non averne contezza. Ci sono in quei luoghi mortiferi colpevoli che provano a tirarsi da terra sollevandosi per i capelli, a non farsi corrodere dal tarlo della rassegnazione. Faticano, studiano, inventano dolci buonissimi, hanno lo sguardo terso di chi non si bagna nella stessa acqua di un tempo. Restano però lì perché “l’orologio” è “rotto” e il tribunale di sorveglianza di Catanzaro non concepisce misure alternative e benefici penitenziari. Tutto è fuori dal tempo in questa storia di orologi rotti. Lo è il carcere stesso: una struttura anacronistica che non dovrebbe più esistere, un ferro vecchio della storia. Si grida spesso che il carcere andrebbe migliorato, reso più umano. Non si può proprio migliorare uno spazio che nasce strutturalmente per arrecare dolore, nel quale, negli anni, migliaia di detenuti si sono tolti la vita. Lo avevano capito Gustav Radbruch ed Aldo Moro: «Non abbiamo bisogno di un diritto penale migliore ma di qualcosa di meglio del diritto penale». Noi non chiederemo la sostituzione degli orologi rotti. Non c’è nulla da sostituire: il carcere va solo superato. Sabrina Renna, Antonio Coniglio

Il lungo '68 delle carceri: da Torino al violento blitz di Alessandria. Storia delle rivolte in carcere finite nel sangue: la battaglia dei detenuti contro il codice Rocco. David Romoli su Il Riformista il 20 Agosto 2021. Sarà solo una coincidenza se la grande rivolta delle carceri italiane inizia in perfetta sincronia con l’altrettanto imprevista insurrezione operaia, nella primavera del 1969, e nella stessa città, Torino? Forse no. La situazione non era poi troppo diversa. In entrambe le realtà imperava una disciplina ferrea, un comando che non contemplava diritti. Nelle carceri, come nelle fabbriche, la restaurazione operata nella prima metà del decennio precedente non era stata scalfita negli anni 60. Nei penitenziari il timido tentativo di scostarsi dal modello sistematizzato all’inizio degli anni 30 dalla riforma Rocco azzardato all’inizio degli anni 50 era stato sbrigativamente rintuzzato con un ritorno pieno alla concezione esclusivamente afflittiva della pena. Un progetto di riforma si trascinava stancamente dall’inizio dei 60, senza che riuscisse a decollare. Ci sono altre affinità tra la nascita del movimento dei detenuti e l’esplosione di insubordinazione operaia. Come nelle fabbriche, anche nei penitenziari c’erano state avvisaglie precise già nel 1968, innescate dalla rivolta studentesca. All’inizio di luglio c’era stata una protesta molto vigorosa e partecipata nel carcere milanese di San Vittore per chiedere il rispetto della sentenza della Corte costituzionale che bollava come “illegittima” l’inchiesta svolta senza l’assistenza di un difensore per l’imputato. Il 16 luglio gli studenti avevano deciso di portare la loro solidarietà circondando il carcere. Da quel momento in molte città italiane si erano creati legami tra movimento studentesco e detenuti, anche in seguito al passaggio per le prigioni, breve ma frequente, degli studenti che venivano arrestati. Fu poi essenziale, in entrambe quelle realtà, il ricambio generazionale. È noto che nelle fabbriche furono gli operai più giovani, di solito immigrati, quasi sempre dequalificati, a frantumare l’ordine. Anche nelle carceri la gerarchia interna alla popolazione detenuta permetteva all’istituzione di mantenere l’ordine interno instaurando un rapporto privilegiato con i detenuti che, per provenienza, adesione alla criminalità organizzata o caratura criminale, comandavano la massa dei detenuti. I giovani che arrivavano nelle carceri, però, non accettavano più quella gerarchia. Alle Nuove di Torino la protesta esplose l’11 aprile 1969, giorno dello sciopero generale per l’uccisione di due persone negli scontri con la polizia di Battipaglia. I detenuti chiedevano la riforma del sistema penitenziario e fu sin dall’inizio una protesta diversa da quelle che si erano sporadicamente verificate negli anni precedenti, sempre legate a condizioni specifiche della singola prigione. Nei primi due giorni la gestione rimase nelle mani dei “boss” detenuti, poi passò al Comitato di base. I detenuti scelsero di evitare violenze e devastazioni, chiedendo in cambio l’impegno a evitare punizioni e trasferimenti. Non lo ottennero e nell’ultimo giorno della rivolta i detenuti distrussero uno dopo l’altro tutti i simboli dell’ordine carcerario oppressivo: la cappella, gli uffici matricola e personale, l’infermeria, l’impianto fognario, che risaliva al 1857, i macchinari con i quali si lavorava con turni di 8 ore per un compenso di 350 lire al giorno. Dalle Nuove la rivolta si estese a San Vittore. Il 14 aprile i detenuti assunsero il controllo del carcere, presero alcune guardie penitenziarie in ostaggio e ingaggiarono una vera battaglia con la polizia che irruppe all’alba del 16 aprile. Subito dopo fu il turno di Poggioreale, a Napoli. Da quel momento, per alcuni anni, le rivolte delle carceri furono all’ordine del giorno. Ripercorrerne l’elenco significa sfogliare un bollettino di guerra. I rapporti con il movimento che dilagava al di là delle mura delle prigioni si fecero sempre più stretti. Alla fine del ’69 nacquero, sull’onda delle lotte operaie, i principali gruppi della sinistra extraparlamentare. In particolare Lotta continua dedicò grandissima attenzione al movimento nelle prigioni, con un settore apposito e molto attivo, “I dannati della terra”, a cui si aggiunse poi il Soccorso Rosso di Dario Fo e Franca Rame. Nel biennio 1971-72, quello in cui le rivolte furono più frequenti e violente, le carceri furono, con fabbriche, scuole e università, la prima linea dello scontro sociale nel Paese, anche per l’emergere tra i detenuti di alcune figure di leader molto politicizzati, a partire da Sante Notarnicola, ex operaio comunista Fiat, già membro della banda Cavallero. I detenuti si ribellano per episodi specifici, come punizioni o trasferimenti in prigioni troppo lontane dalle famiglie, per le condizioni di vita nelle carceri fatiscenti o sovraffollate, per chiedere la riforma complessiva. Adoperano forme di mobilitazione molto diverse, dal rifiuto di rientrare dopo l’ora d’aria alla protesta sui tetti, dallo sciopero della fame alla vera e propria rivolta. Dal 1971 al 1973 le proteste si moltiplicarono senza che lo Stato si decidesse a varare l’attesa riforma. La tragedia arrivò nel 1974. Il 23 febbraio i detenuti delle Murate, carcere di Firenze, salirono sul tetto, tirando tegole agli agenti che risposero sparando. Un ragazzo di appena vent’anni, in carcere per furto, venne ucciso. Il 9 maggio si arrivò al bagno di sangue di Alessandria. Tre detenuti presero in ostaggio 13 persone, guardie o personale carcerario, si asserragliarono nelle cucine, poi nei bagni. Chiedevano un’auto e la garanzia di non essere seguiti. Non era una situazione inedita, episodi del genere si erano già verificati e di solito si risolvevano con una trattativa, aspettando che i detenuti si arrendessero. Ma in quel 9 maggio si era alla vigilia del referendum sul divorzio: lo Stato decise di dare una dimostrazione di forza. Le trattative, giovedì 9 maggio, furono affidate a tre giornalisti di cui i rivoltosi si fidavano ma all’improvviso la polizia tentò un blitz. Nella sparatoria furono uccisi da proiettili vaganti due ostaggi. Il giorno seguente le trattative ripresero, affidate stavolta a un prete, don Maurilio Guasco, e a un consigliere regionale del Pci. Ma da Botteghe oscure arrivò l’ordine di non immischiarsi e a trattare rimase solo don Guasco. I detenuti e i rivoltosi erano ormai chiusi in una stanzetta, ridotti allo stremo. Il generale Dalla Chiesa ordinò lo stesso il blitz. Si concluse con una strage: altri 3 ostaggi e 2 dei sequestratori morti. Era la vicenda più sanguinosa e tragica nella storia delle carceri italiane e lo sarebbe rimasta fino al 2020, quando a Modena, all’inizio della pandemia, sono stati uccisi nel disinteresse generale 9 detenuti. Il parroco mediatore provò a denunciare il comportamento assurdo dei reparti guidati da Dalla Chiesa. Repubblica rifiutò di pubblicare le sue lettere. Il procuratore di Genova Coco, poi ucciso dalle Br, disse che la testimonianza era “inficiata da animosità verso le forze dell’ordine”. Ci fu comunque un supplemento di indagine. Guasco si presentò quindi dal procuratore di Alessandria che gli chiarì la situazione in modo definitivo: “Lei è coraggioso ma anche un inguaribile ingenuo”. L’impatto della strage fu enorme. Il movimento dei detenuti si radicalizzò e proprio di lì nacque uno dei primi gruppi armati: i Nap, Nuclei armati proletari. Nel 1975 la riforma vide infine la luce. Sostituiva le regole Rocco del 1931. Assegnava alla pena una funzione rieducativa e non afflittiva. Sanciva la fine, almeno sulla carta, dell’isolamento dell’universo penitenziario. Garantiva il diritto al lavoro all’interno e all’esterno del carcere. Prometteva di difendere “la dignità della persona” anche se detenuta. Non corrispondeva in pieno alle richieste del movimento dei detenuti ma era comunque un passo avanti enorme. Che rimase lettera morta: l’emergenza terrorismo congelò tutto per altri 10 anni. David Romoli

I casi di Pianosa e Asinara. Sequestrati e deportati, la vendetta dello Stato su 532 detenuti dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Tragico anniversario quello della notte tre il 20 e il 21 luglio del 1992, ventinove anni fa, quando trecento uomini furono prelevati da diverse carceri, sequestrati e deportati. E poi torturati giorno dopo giorno, notte dopo notte, mentre da 300 erano diventati 532, nei luoghi detenzione speciale delle isole di Pianosa e Asinara, trasformate da colonie agricole a bunker dove consumare la vendetta di Stato. La rabbia e la rappresaglia furono la risposta all’assassinio di Paolo Borsellino. Così quella notte lo Stato indossò il passamontagna della vendetta. Fa una certa impressione, in questo luglio in cui siamo costretti a convivere con le bastonate di Santa Maria Capua Vetere e di chissà quante altre carceri italiane, e poi con il ricordo tragico del G8 del 2001 a Genova, sapere che nella nostra agenda sono segnate con l’inchiostro indelebile non solo le date degli assassinii di Falcone e di Borsellino ma anche quel che ne è seguito. Fino alla notte del 20 luglio. Non erano tutti mafiosi, i 300 che furono deportati nel buio, trascinati per i capelli, con o senza vestiti, fino alle isole che saranno maledette fino al 1998, quando furono di nuovo e finalmente lasciate allo splendore della loro natura e della loro fauna. La gran parte di loro era fatta di ragazzi in attesa di giudizio, pochissimi per reati legati alla mafia. Erano semplicemente i reclusi delle carceri del sud, dall’Ucciardone a Poggioreale. Ma furono spacciati, nelle cronache cieche e sorde allora più di oggi, per i boss che avevano assassinato i due magistrati. Peccato che i capimafia fossero invece tutti latitanti, e solo nel 1993 sarà arrestato Totò Riina. Ma l’importante era il “segnale”. Ecco come si concretizzò la risposta dello Stato, nelle parole di uno di loro, uno che ho incontrato io stessa a Pianosa e che si chiama Matteo Greco. La sua testimonianza è anche riportata nella tesi di laurea di Carmelo Musumeci, uno dei pochissimi condannati all’ergastolo ostativo che sono riusciti a dare un indirizzo diverso alla propria vita. Un percorso nello “stile Cartabia”. Ecco quel che successe a Matteo Greco quella notte. «Ormai da parecchie ore mi sono addormentato, a un tratto mi sveglio di soprassalto, alcuni secondini hanno aperto la porta blindata e il cancello, entrano in cella, circondano la branda e mi dicono: “Alzati, devi partire”. “Per dove?” Un secondino con la mano destra mi prende per i capelli tirandomi fuori dal letto, un altro mi dà un pugno dall’alto verso il basso sul collo. Cerco di difendermi. Mi si buttano tutti e sei addosso con pugni e calci… finché non cado per terra per non avere più la forza di rialzarmi. In faccia sono una maschera di sangue, non ho detto una parola né un lamento, si sono sentite solo le grida dei secondini.. Vengo fatto scendere all’aeroporto militare. Non chiedo dove mi stanno portando e dove sono i miei vestiti. Infatti l’unico vestiario che ho è il pigiama che indosso e un paio di ciabatte di plastica ai piedi. Mi fanno salire su un elicottero militare, un rumore assordante, non mi è stata data la cuffia. Dopo molte ore arrivo sull’isola di Pianosa e lì mi attendono una trentina tra secondini, carabinieri e finanza». Questo è solo l’antipasto. Le testimonianze sono tutte uguali. Ecco che cosa è Pianosa, in quei giorni. «Appena metto i piedi a terra alcuni secondini mi danno pugni e calci… mi sbattono dentro una jeep, batto la testa, mi danno un pugno gridando “abbassa la testa bastardo”. Poi vengo fatto entrare in una cella d’isolamento, tre metri per due, una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro, sopra un rubinetto con acqua salata non potabile». «Mi viene ordinato di spogliarmi… a un tratto si scagliano di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio dura alcuni minuti lunghi come un’eternità! Svengo. Riprendo i sensi con una puntura fattami da una dottoressa, la quale vedendomi esclama “Ma come è ridotta questa persona?”. Il suo lavoro (perché è obbligata) è far finta di nulla, infatti nel certificato per la medicazione scrive “Trattasi di una piccola escoriazione sulla fronte scivolando in cella”». La routine quotidiana, nel racconto di Matteo Greco e in quello degli altri parla di un litro di acqua al giorno (sulle isole in piena estate), di cibo razionatissimo «dove si trova, sia nella pasta sia nel secondo, un po’ di tutto tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi». La notte gli agenti si divertivano, picchiavano un po’ i detenuti, poi andavano a bere. Ancora il racconto: «Pochi erano i secondini non ubriachi, la maggioranza canticchiava la stessa canzone, Faccetta nera». Poi all’aria, «si deve salutare e mettersi di fronte al lato della cella con il viso al muro, mani e braccia aperte, gambe divaricate al massimo come un piccolo ponte con la testa abbassata… e così si arriva al passeggio, il tragitto è pieno di secondini incappucciati che tirano manganellate da tutte le parti». La cosa più grave è che, al contrario di quel che succede oggi, perché comunque i detenuti hanno la possibilità di comunicare con l’esterno, con gli avvocati e i familiari, in quei giorni quei 532 erano letteralmente sequestrati, gli avvocati scoraggiati, una legale disperata dovette rinunciare alle visite dopo che era stata tenuta per ore in attesa sotto il sole e le era stata rifiutata l’acqua, poi spogliata e sottoposta a visita anche interna e privata del suo assorbente igienico. Nessuno doveva sapere quel che succedeva là dentro. Finché un giorno… «… viene a visitare il centro di tortura l’onorevole Tiziana Maiolo, sull’isola, i detenuti da pochi minuti erano stati bastonati. L’onorevole chiede di visitare le sezioni, invece il comandante le vuol far vedere soltanto le strutture. La Maiolo insiste a voler vedere i detenuti, un vice maresciallo come se capitasse lì per caso l’avvisa che fra poco si alza il mare…». «L’indomani l’onorevole Tiziana Maiolo telefona al Ministero per farsi autorizzare a visitare i detenuti, questo a sua volta ordina agli aguzzini di riportarla a Pianosa… a malavoglia viene accompagnata…nota nel viso e negli occhi la paura, sono terrorizzati… alla fine l’onorevole si ferma nella mia cella e mi chiede come sto… “Male, sono bastonato minimo dalle quattro alle otto volte al giorno”, alzo la maglietta e la Maiolo rimane di ghiaccio… il comandante dice che il detenuto è malato al cervello, che gli ematomi se li è procurati da solo. La Maiolo è piena di rabbia, chiede di aprire il cancello, vuole parlare da sola con me. Il capo degli aguzzini si rifiuta categoricamente, la Maiolo urla, lo stesso fa il comandante che la vuole intimorire. Dopo un batti e ribatti il maresciallo cede… e io le racconto tutto». Naturalmente in seguito le botte sono arrivate ancora, ma, a detta di tutti, sono molto diminuite. Rompere l’isolamento era la cosa più importante. Ma il fatto è che a nulla sono valse le interrogazioni e le denunce. L’unica voce “stonata” fu quella di un bravo giudice di sorveglianza di Livorno, Rinaldo Merani, che in una relazione denunciò i pestaggi e le torture subite dai prigionieri. Qualcuno aveva subito persino finte esecuzioni, con tanto di pistola puntata alla tempia. Erano nel frattempo cominciate ad arrivare anche le proteste di qualche familiare, compresa la famosa lettera in cui la moglie di Scarantino denunciava come il marito fosse stato costretto a fare il “pentito”. Falso, come si appurerà solo 15 anni dopo che avrà mandato in galera tanti innocenti. La difficoltà ad avere processi sulle sevizie sui pestaggi, sulle torture, non gioverà quando finalmente due detenuti otterranno alla Cedu sentenze di condanna nei confronti dell’Italia, che sarà sanzionata per non aver saputo porre fine alle violenze, ma non anche per averle messe in atto. Perché a sette-otto anni di distanza era diventato quasi impossibile riconoscere su fotocopie sbiadite dal tempo le facce degli aguzzini né esibire certificati medici inesistenti, visto che a Pianosa e Asinara i detenuti continuavano a procurarsi piccole escoriazioni scivolando sulle scale.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

50 detenuti dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita: l’ultimo a Pavia. L’uomo si è suicidato con un lenzuolo annodato, approfittando proprio del suo stato di solitudine in cella e di un momento di mancanza di sorveglianza. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 novembre 2021. I detenuti continuano a suicidarsi. L’ultimo caso è avvenuto nel carcere Torre del Gallo di Pavia. Parliamo di un 46enne che stava scontando una pena a 5 anni e 4 mesi di reclusione per violenze e maltrattamenti. Si trovava in isolamento nel reparto protetti, dopo essere rientrato nella casa circondariale in seguito a una visita in ospedale. L’uomo si è suicidato con un lenzuolo annodato, approfittando proprio del suo stato di solitudine in cella e di un momento di mancanza di sorveglianza.

È il secondo suicidio dall’inizio del mese a Pavia

Si è trattato del secondo suicidio nel giro di un mese nel carcere pavese: il 25 ottobre scorso si è tolto la vita un detenuto di 36 anni. Anche in quel caso, parliamo di un ragazzo che ha approfittato di un momento di solitudine e di attenuamento della sorveglianza. Il suicidio del detenuto, originario del Torinese, su cui è in corso una inchiesta della procura, è stato il primo episodio più grave tra i diversi gesti di autolesionismo che si stanno verificando tra le sbarre, da diversi mesi, nella casa circondariale di Pavia.

La denuncia della garante provinciale di Pavia Laura Cesaris

«La situazione è molto preoccupante – ha denunciato, in quell’occasione, la garante dei detenuti delle tre strutture provinciali Laura Cesaris, docente di Giurisprudenza all’Università di Pavia –. I gesti di autolesionismo sono frequenti e sono, a mio avviso, la spia di un disagio sempre più diffuso e di un degrado ambientale, oltre che strutturale, che il carcere di Pavia sta vivendo».

Per la garante tra i nodi critici di Torre del Gallo c’è il sovraffollamento. «Questa è una situazione che si trascina da tempo e che va a esasperare altre situazioni, come la presenza alta di detenuti con patologie psichiatriche – ha spiegato Cesaris –. A questo bisogna aggiungere l’assenza di progetti per i detenuti, che possano rappresentare un’alternativa al malessere per la condizione della detenzione, come ad esempio i corsi scolastici, che da quest’anno si sono notevolmente ridotti. Ho scritto anche al ministero e ora aspetto una risposta».

Cinquantesimo suicidio su 124 detenuti deceduti

Con questo tragico episodio, siamo giunti al 50esimo suicidio dall’inizio dell’anno, su un totale di 124 detenuti deceduti. Una ecatombe di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose. Ritornando al carcere di Pavia – esempio che rappresenta le criticità generali delle nostre carceri -, gli episodi di autolesionismo e il sovraffollamento si intrecciano con un altro problema: la carenza di medici. «C’è una totale insufficienza di assistenza sanitaria – ha denunciato sempre la garante dei detenuti Laura Cesaris –. Ci sono pochissimi medici in servizio, costretti a coprire i turni. I bandi purtroppo vanno deserti, perché fare il medico in carcere non riscuote interesse. Bisognerebbe perciò rendere più allettante questi incarichi, sia sul piano economico che dei punteggi. Questa carenza esaspera le situazioni di fragilità. Per quanto riguarda la psichiatria è prevista una copertura di medici fino al 31 dicembre, poi potrebbero restare solo in due. Si rischia il collasso».

Con l’aumento del sovraffollamento i rischi aumentano

Tutte problematiche che ritornano con prepotenza al livello nazionale. Finito l’effetto pandemia che, grazie soprattutto al lavoro della magistratura di sorveglianza, il sovraffollamento era cominciato a scendere, ora si rischia di ritornare ai numeri allarmanti come recentemente denunciato dal Garante nazionale delle persone private della libertà. Tutto questo, nonostante sia stato prorogato il decreto “Ristori” per quanto riguarda il tema di licenze premio, permessi premio e detenzione domiciliare. Evidentemente non bastano, ma servirebbe un decreto ad hoc. Una terapia d’urto che disinneschi il malessere che affligge sia gli operati penitenziari che detenuti e detenute.

Il dramma delle prigioni italiane. Suicida in carcere 4 ore dopo l’arrivo: un morto alla settimana dall’inizio del 2021. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Da mezzanotte alle quattro. Dal buio al buio. Come fosse la luce di prima lo sapremo quando arriveranno altre notizie. Come sarebbe stata la luce prossima non lo sapremo mai. È un detenuto che se ne è andato. Suicidio. Il carcere è quello di Vicenza. Un comunicato scarno del Garante nazionale dei detenuti. Un uomo si è suicidato a quattro ore dalla sua entrata nell’istituto detentivo veneto. La fase iniziale di un’ordinanza di custodia cautelare. Gli attimi, le ore più dure per chi s’incontra con le manette. Un trauma che comunque segnerà la vita per chi lo subisce. A volte l’esistenza la spezzano proprio gli esordi carcerari. L’ultimo detenuto suicidatosi è il trentaquattresimo della trentatreesima settimana dell’anno. Un morto la settimana, con cadenza in aumento. Un essere umano che, forzatamente, affida la propria vita nelle mani dello Stato. Lo Stato, il Custode più prezioso della collettività. Un custode distratto, che almeno una volta alla settimana si dimentica del proprio ruolo. Che spesso, dentro la galera, il ruolo lo svolge male. Così, un affidato nelle mani dello Stato, ritorna alla famiglia giusto il tempo per salutarsi in chiesa e poi rilasciare una tempesta di lacrime al cimitero. Quasi nessuno lo sa, ma una famiglia, ogni settimana, per tutte le settimane dell’anno, scopre che lo Stato è un padre distratto, un cattivo padre. E ogni sette giorni un detenuto entra in carcere col buio, se ne va col buio, si perde nel buio. Chi si toglie la vita non scrive mai un trattato sul proprio dramma esistenziale. Al massimo lascia qualche riga, sulla quale si esercitano le interpretazioni. Il suicidio è sempre un enigma, dovunque avvenga. Quando si realizza fra mura che per quanto buie dovrebbero essere sicure, una parte del giallo si scioglie, perché il carcere italiano può pure essere morte, lo abbiamo visto tante volte. E lo sappiamo: il morto di Vicenza è il trentaquattresimo. La prossima settimana un altro si perderà nel buio.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Sintesi dell’articolo di Clemente Pistilli per “Il Venerdì” pubblicata da “la Verità” il 19 agosto 2021. Un detenuto ha potuto lavorare mentre stava scontando la pena detentiva, ma gli è stato impedito appena scarcerato. Succede a Vincenzo D'Aversa, 53 anni, autotrasportatore di Pontinia (Latina). In un momento di difficoltà economica in famiglia, l'uomo ha accettato di fare il corriere della droga tra l'Olanda e l'Italia, ma nel 2014 è stato arrestato perché trovato con 11 chili di cocaina sul camion. Durante la carcerazione, D'Aversa aveva ottenuto l'affidamento ai servizi sociali e il permesso di tornare alla guida dei camion, sempre sotto il controllo dei carabinieri e senza mai sgarrare. A pochi giorni dal fine pena, però, il prefetto di Latina gli ha ritirato la patente per indegnità morale a causa della condanna. D'Aversa ha fatto ricorso ma dopo due anni il ministero dell'Interno non gli ha ancora risposto. 

Ignorate le direttive del Dap. Ora d’aria nella canicola: così il carcere si trasforma in una tortura. Samuele Ciambriello su Il Riformista il 14 Agosto 2021. Nel corso degli anni, in questo periodo, associazioni, garanti dei detenuti, cappellani hanno sollecitato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel rispetto dell’ordinamento penitenziario, ad adottare misure operative, interventi volti a rendere meno afflittiva la detenzione: docce più frequenti, intensificazione dei colloqui e delle telefonate con i familiari, apertura dei blindati anche nelle ore notturne, disponibilità di borse termiche o di ghiaccio, acquisto di ventilatori a batteria di piccole dimensioni. Interventi che non devono essere limitati alla sola emergenza estiva ma, alla luce del sovraffollamento e della mancanza di spazi di socialità, vanno applicati in maniera stabile e organica. Uno di questi interventi, previsti dalla circolare di giugno del direttore generale del Dap Gianfranco De Gesu recita testualmente: «Si invitano i direttori ad adottare le necessarie misure affinchè la permanenza dei detenuti all’aria aperta sia anticipata o posticipata, se del caso, in orari mattinali e pomeridiani non coincidenti con le fasce orarie nelle quali è sconsigliata per la popolazione l’esposizione al sole diretto». Tradotto in sano realismo: a tutti i detenuti sono consentite due ore d’aria di mattina, dalle 9 alle 11, e altre due nel tardo pomeriggio, quindi non sotto il sole dalle 13 alle 15! Mi chiedo sommessamente: si applica questa disposizione a Poggioreale, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere e in tutti gli altri istituti penitenziari campani? Dalla finestra del mio ufficio al Centro direzionale vedo Poggioreale, per esempio, e non è così! E così in tante altre carceri. Lo so, il mio ritmo è incalzante, la mia è una voce ostinata, un urlo contro il silenzio. Lo so che tanti populisti e giustizialisti mi vorrebbero con loro, con i detenuti, sulla graticola. Una destra pistolera, fascistoide e antidemocratica non vuole rispettare la Costituzione né l’ordinamento penitenziario. Ma gli altri che tacciono e omettono, dimostrando tutta la loro pavidità, mi preoccupano allo stesso modo. Nel carcere, in questo luogo senza tempo, il dettato costituzionale assegna alla pena una funzione rieducativa, non afflittiva o vendicativa. Il carcere è un luogo in cui i sentimenti, le emozioni, le passioni di una persona sono messe a dura prova. Qui gli spazi ricavati tra edifici impersonali, le dotazioni igienico-sanitarie insufficienti nelle celle, i colloqui con familiari e figli non tutelano dignità e affettività dei reclusi. Perchè allora, nelle carceri, non si applicano almeno le circolari del Dap che chiedono di adottare alcune misure per migliorare le condizioni detentive nella stagione estiva? Samuele Ciambriello 

Il violento j’accuse di Calamandrei sulle prigioni italiane: «Luoghi di tortura». Calamandrei in uno dei suoi primi interventi parlamentari del 1948. Non è difficile notare quanto siano attuali le sue parole sulla condizione carceraria. di Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'11 agosto 2021. «Bisogna aver visto!», è la parola d’ordine che dette Piero Calamandrei in uno dei suoi primi interventi parlamentari del 1948. Non è difficile notare quanto siano attuali le sue parole sulla condizione carceraria. Riprese quel suo intervento sulle carceri nell’introduzione al numero 3 del marzo del 1949 della rivista Il Ponte, che titolò “Bisogna aver visto”. Ecco uno stralcio: «Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori». Qui invece riportiamo il passaggio fondamentale del suo lungo intervento: «Onorevoli colleghi, al Senato è stato parlato lungamente delle carceri. È un argomento sul quale, credo che quello che dirò non potrà suscitare opposizione o interruzioni da nessuna parte. Si è parlato lungamente delle carceri e ne hanno parlato soprattutto coloro che più avevano il diritto di parlarne, cioè quelli che vi sono stati lungamente, che vi hanno sofferto e che hanno sperimentato quel che vuol dire esser recluso per dieci o venti anni. Signor Ministro, alle raccomandazioni fatte al Senato sulla necessità di una riforma fondamentale dei metodi carcerari e degli stabilimenti di pena, ella ha risposto dando generiche assicurazioni. Ora, io vorrei che non ci si contentasse di assicurazioni non impegnative, come tutti i Ministri – anche quando sono seri e coscienziosi come ella è – sono disposti a dare, nel rispondere alle osservazioni che si fanno sui loro bilanci. Io vorrei che da questa esperienza di dolore che colleghi di questa Camera e del Senato hanno sofferto, nascesse per l’avvenire un effetto di bene». «Questo mistero inesplicabile della vita umana che è il dolore, si può forse avvicinarsi a spiegarlo, soltanto quando si pensi che il dolore di un uomo possa servire a risparmiare il dolore ad altri uomini; e allora si sente che anche il dolore può avere la sua ragione. Ora, questa esperienza di dolore che i nostri colleghi hanno fatto non deve andare perduta. In Italia il pubblico non sa abbastanza – e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di esperimentare la prigionia, non sanno – che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto». «Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe esser pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima esperimentato quella realtà sulla quale deve sorvegliare. Vedere! questo è il punto essenziale». «Per questo, signor Ministro, ho presentato un ordine del giorno con cui si chiede al Governo di nominare una Commissione d’inchiesta parlamentare fatta di deputati e senatori, fra i quali siano inclusi in gran numero coloro che hanno sperimentato la vita dei reclusori; in modo che gli esperti possano servir di guida agli altri in queste ispezioni che dovrebbero compiersi non con visite solenni e preannunciate, come è accaduto di recente nel carcere di Poggioreale, ma con improvvise sorprese e con i più ampi poteri di interrogare agenti carcerari e reclusi, ad uno ad uno, a tu per tu, da uomo a uomo, senza controlli e senza sorveglianza. Solo così si potrà sapere come veramente si vive nelle carceri italiane. Voi sapete che quel sorprendente opuscolo che costituisce una delle glorie più grandi della civiltà italiana, quel miracoloso li In Gabbia Intervento alla Camera dei Deputati, 27 ottobre 1948. Bisogna aver visto bretto “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, che riuscì ad abolire in pochi anni in Europa la tortura e la pena di morte, è nato, direi quasi, per caso, proprio perché qualcuno aveva visto come si viveva e si soffriva nelle prigioni. Il Beccaria non era un giurista, era un economista: andava la sera in casa degli amici conti Verri, uno dei quali, Alessandro, ricopriva in quegli anni il pietoso ufficio di “protettore dei carcerati”». «La sera Alessandro raccontava agli amici quello che aveva visto nell’esercitar quella sua missione caritatevole: gli orrori di quelle carceri, le sofferenze di quei torturati; e il Beccaria ne rimase talmente turbato che non come un trattato scientifico, ma come un grido di angoscia sentì uscir dal suo cuore quelle poche pagine che bastarono in pochi anni a travolgere in tutta l’Europa i patiboli e gli strumenti di tortura. Ora, onorevoli colleghi, questo bisogna confessar chiaramente: che oggi in tutto il mondo civile, nella mite ed umana Europa, a occidente o a oriente e anche in Italia ( ma forse in Italia meno che in altri Paesi d’Europa) non solo esistono ancora prigioni crudeli come ai tempi di Beccaria, ma esiste ancora, forse peggiore che ai tempi di Beccaria, la tortura. Questi sono argomenti sui quali di solito si ama di non insistere; si preferisce scivolare e cambiar discorso. Eppure bisogna avere il coraggio di fermarcisi. Ai primi di settembre, al congresso dell’Unione parlamentare europea ad Interlaken, al quale intervennero numerosi colleghi che vedo presenti in quest’aula, ci accadde, nel discutere un disegno preliminare di costituzione federale europea, di imbatterci in un articolo, che nella sua semplicità era più terribile di qualsiasi invettiva: “È vietata la tortura”. Nel leggerlo, abbiamo provato un’impressione di terrore: in Europa nel 1948, c’è dunque ancora bisogno di inserire nel progetto di una costituzione federale, da cui potranno essere retti domani gli Stati uniti d’Europa, questa avvertenza?».

Due lauree e un Master in carcere, ma per i giudici è ancora pericoloso. Un detenuto vuole cambiare vita e in carcere si laurea due volte: prima in Giurisprudenza e poi in Economia (oltre al Master). Ma per i giudici di Sorveglianza di Bologna potrebbe «reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico». Il Dubbio il 9 agosto 2021. Prende due lauree in carcere con l’obiettivo di cambiare vita, ma per i giudici del tribunale di Sorveglianza di Bologna, il detenuto (con un passato nei “Casalesi”), condannato a 18 anni per associazione mafiosa e sequestro di persona, non merita di lasciare la casa circondariale in cui è rinchiuso perché «la laurea conseguita in carcere e la frequentazione di un master per giurista di impresa si ritiene possano affinare le indiscusse capacità del ricorrente e dunque gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico».

Ricorso a Strasburgo. La storia, a dir poco allucinante sotto il profilo giuridico, ma soprattutto da un punto di vista sociale e rieducativo, è stata riportata dal Corriere della Sera, in un corsivo a firma di Luigi Ferrarella che, a giusta ragione, critica il provvedimento dei giudici, spiegando che gli avvocati – il professor Giovanni Maria Flick e il legale Francesca Cancellare – faranno ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo.

No ai domiciliari nonostante i problemi di salute. La Dda di Venezia, secondo quanto riportato dal Corsera, aveva dato parere favorevole ad alcuni permessi, stante il distacco dell’imputato dall’organizzazione mafiosa di cui aveva fatto parte. Ma ciò non è bastato per mandarlo ai domiciliari, evidenziando nel ricorso anche i problemi di salute, che non lo rendono compatibile con il sistema carcerario. Insomma, in Italia se un detenuto si laurea per due volte con 110 e lode in Giurisprudenza e Economia e a ciò aggiunge un master per giuristi d’impresa, è considerato, da alcuni giudici, ancora un mafioso pericoloso.

Il caso di un ex affiliato al clan dei casalesi. No ai domiciliari perché in carcere ha preso due lauree: “Ha affinato gli strumenti per reiterare illeciti”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Agosto 2021. Ha studiato in carcere, ha preso due lauree, ha investito il tempo della detenzione come tempo della riabilitazione. Sarebbe potuto diventare un simbolo, un monumento ai percorsi riabilitativi dietro le sbarre, alla risocializzazione che il carcere dovrebbe avere come causa e scopo. E invece: niente arresti domiciliari, e per motivi di salute, anche in virtù degli studi che avrebbero potuto affinare le sue capacità e possibilità criminali. La storia, tra l’incredibile e l’assurdo, l’ha raccontata Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera. Una specie di condanna a prescindere, una recidiva data per scontata se non per aggravata dal percorso intrapreso in cella dal detenuto. Il Tribunale di Sorveglianza seppellisce in una manciata di righe il concetto di riabilitazione in carcere. Il detenuto era legato al clan dei Casalesi, Camorra, egemone nel casertano e con interessi nazionali e internazionali. Condannato a 18 anni per associazione mafiosa e sequestro di persona. La Procura distrettuale antimafia di Venezia ha riconosciuto il suo distacco dall’organizzazione e quindi l’uomo ha usufruito di permessi e investito il tempo in carcere alla formazione, allo studio, all’istruzione. Giurisprudenza: 110 e lode. Economia: anche lì 110 e lode. E quindi un master per giuristi di impresa. Quando lo stesso detenuto ha fatto richiesta, per motivi di salute, della detenzione domiciliare è arrivato il “niet” del Tribunale di Sorveglianza di Bologna. E non solo perché la sua salute sarebbe compatibile con la permanenza dietro le sbarre ma anche in virtù di una psicologia che sarebbe incline a ostentare superiorità e quindi per “la laurea conseguita in carcere e la frequentazione di un master per giurista di imprese si ritiene possano affinare le indiscusse capacità del ricorrente e dunque gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”. Ferrarella, nell’articolo sul quotidiano di via Solferino, riporta le parole del professor Giovanni Maria Flick e dell’avvocato Francesca Cancellare: “Ma così l’istruzione passa da primario strumento del trattamento penitenziario e volano di emancipazione per un futuro oltre la pena (come previsto dalla nostra Costituzione e dalle fonti sovranazionali) a sintomo di pericolosità sociale dei detenuti”. Tutto il contrario di quanto viene propagandato e promesso insomma. La Cassazione, come nel 68% dei casi, ha dichiarato il ricorso inammissibile. L’esperienza dei Poli penitenziari universitari, lo scorso maggio, dopo il primo triennio di vita della Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, ha riportato i dati nei quali gli atenei aderenti con studenti attivi sono passati da 27 nel 2018-’19 a 32 nel 2020-’21 (con un incremento del 18,5%); gli istituti penitenziari che hanno aderito al progetto di rendere i detenuti studenti sono passati da 70 a 82 (+17,1%); il numero di studenti iscritti è passato da 796 a 1.034 (+29,9%). Buone notizie per quanto riguarda la componente femminile: le detenute studentesse erano appena 28 nel 2018-’19 e sono 64 attualmente (con un incremento del 128,6%). Quanto potrebbe incitare allo studio, alla formazione dietro le sbarre questa storia è invece un enigma. Intanto il 68% dei detenuti italiani che espia la propria pena in carcere incorre nella recidiva; il 19% di chi invece accedere a misure alternative della pena. Dei 154 euro che si spendono al giorno per un detenuto, alla rieducazione sono dedicati appena 35 centesimi. Alla faccia della riabilitazione.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

L’Italia e i rischi della radicalizzazione religiosa in carcere. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 19 luglio 2021. Le organizzazioni appartenenti all’internazionale del terrorismo islamista non reclutano soltanto in rete e in spazi semi-aperti come le moschee, i centri culturali e le scuole coraniche, ma anche in teatri chiusi come le carceri. I catechisti del jihadismo possono essere degli agenti insospettabili, come i cappellani col turbante in regolare servizio presso l’istituto penitenziario, ma, molto più spesso, sono dei detenuti per terrorismo che fanno leva sul loro carisma per manipolare i più psicolabili e convertirli all’islam radicale. La questione della radicalizzazione religiosa nelle carceri è un fenomeno pressoché universale. Seppure maggiormente percepito in Europa occidentale, specialmente in Belgio e Francia, il problema avvolge in maniera simile ogni continente, dalle Americhe – in particolare gli Stati Uniti – all’Oceania. E l’Italia, pur essendo la grande mosca bianca del mondo avanzato in materia di terrorismo jihadista, non è esente dalla diffusione perniciosa dell’islam radicale all’interno del sistema carcerario.

I numeri del fenomeno. L’Italia non ha un problema in termini di integrazione paragonabile a quello degli altri attori multiculturali del Vecchio Continente, ma i numeri provenienti dalle carceri segnalano un fenomeno da non sottovalutare: la tendenza alla sovrarappresentazione statistica dei musulmani. Pur rappresentando soltanto il 5% della popolazione totale del Bel Paese, coloro hanno recitato la Shahada costituirebbero il 20% della collettività carceraria. Perché l’islam, secondo quanto appurato dall’Ispi, sarebbe la fede praticata da “più un detenuto su cinque”. Una tendenza preoccupante quella dell’embrionale radicalizzazione religiosa negli istituti penitenziari italiani, perché negli anni recenti ha dimostrato di poter fabbricare terroristi. È noto, ad esempio, che Anis Amri, l’attentatore di Berlino 2016 (12 morti e 56 feriti), fosse stato introdotto all’islam radicale durante una permanenza nelle carceri siciliane. E i servizi segreti, che da anni monitorano il panorama carcerario in chiave preventiva, nelle loro relazioni annuali confermano: le prigioni italiane sono oramai considerabili, a tutti gli effetti, dei luoghi di radicalizzazione. Una situazione, quella dei penitenziari nostrani, che può essere compresa pienamente soltanto dando uno sguardo ai numeri:

I detenuti per terrorismo islamista costituiscono un terzo di tutti i reclusi per reati afferenti al terrorismo (religioso e politico, internazionale e domestico), ovvero 66 su 94 (dati 2018).

I detenuti sorvegliati perché in odore di radicalizzazione religiosa sono 478, dei quali 233 appartenenti alla fascia di rischio più elevata, 103 alla fascia media e 142 alla fascia bassa (dati 2018).

Poco più della metà dei 478 di cui sopra è originario di Tunisia e Marocco, che, insieme, rappresentano la casa del 53,77% di tutti i radicalizzati.

79 i detenuti stranieri che, ritenuti nocivi per la sicurezza nazionale a causa della loro radicalizzazione, sono stati espulsi a pena espiata nel corso del 2018.

Le cifre sono relative all’anno 2018, ma la cronaca recente è ricca di casi utili a ricostruire il panorama della radicalizzazione religiosa nelle carceri italiane. Quest’anno, ad esempio, risaltano per significatività le operazioni che hanno condotto all’interruzione delle attività di proselitismo di un detenuto nel carcere di Cosenza e di un imam in servizio presso il carcere San Michele di Alessandria.

Come agiscono le autorità? La strategia nostrana è basata sul connubio tra prevenzione morbida e azione dura, ovvero tra impiego di imam forniti dall’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII) – sulla base di un’intesa risalente al 2015 – ed espulsioni dei detenuti condannati per terrorismo islamista e/o rei di radicalizzazione religiosa. L’avere una tradizione di lotta (efficace) al terrorismo – che la dirigenza ha saputo adattare al mutamento dei tempi – e l’esistenza di accordi tra le autorità pubbliche e quelle religiose, in breve, rappresentano gli ingredienti principali di quella ricetta che, da anni, sta difendendo la sicurezza nazionale dell’Italia. Le problematiche, però, non mancano: l’organico degli imam in servizio è cronicamente insufficiente – soltanto 13 autorizzati, per un totale di 231 istituti penitenziari –, i piani di reinserimento sociale scarseggiano – considerando che sette detenuti su dieci tornano a delinquere all’atto della scarcerazione, le autorità dovrebbero chiedersi cosa accade a radicalizzati e terroristi che non vengono né espulsi né recuperati – e, come nel caso delle altre nazioni disaminate nel corso della rubrica, non si dovrebbe commettere l’errore di focalizzare l’attenzione sulle carceri trascurando gli altri luoghi di radicalizzazione, in primis le periferie. Perché le carceri non sono il problema: sono una parte del problema. E il problema, in Italia come in Francia, sono i limiti anelastici delle capacità di accoglienza dei sistemi di integrazione, l’errore generalizzato di trasformare i quartieri multiculturali in ghetti monoetnici e il bistrattamento delle minoranze per scopi elettorali. La vera prevenzione, più che dietro le sbarre, va e andrà esperita proprio lì: in tutte quelle realtà territoriali che, per ragioni etno-demografiche, rischiano di trasformarsi in banlieue in salsa italiana.

Una infanzia difficile, i furti e poi il carcere: lì nasce l’amore per il teatro. La storia di Peppe, da delinquente a drammaturgo: “Sono cambiato e ora sono l’uomo più ricco del mondo”. Rossella Grasso su Il Riformista l'8 Luglio 2021. Lo chiamavano “Pepp ‘o Biondo” ed era il terrore delle banche, ne ha rapinate a centinaia. Ora Peppe De Vincentis, napoletano, è uno scrittore, attore e drammaturgo. È come se avesse vissuto due vite: la prima segnata da illegalità e violenza, nella seconda l’arte e il bello hanno trionfato. La sua è stata una vera e propria catarsi. La sua vita è la testimonianza vivente che cambiare si può, soprattutto se vengono date le occasioni per cambiare come è successo a Peppe che in carcere ha trovato la forza e il modo di cambiare vita.

La Storia di Peppe De Vincentis. “Io non sono mai stato un uomo di strada, un criminale – ha raccontato Peppe – Si ho rubato, rubato e rubato ancora. Adesso sono un drammaturgo. Oggi vivo nella più squallida povertà, ma sono talmente ricco che manco lo immaginavo di avere tutte queste cose. I soldi non sono mai serviti. Se lo avessi capito allora, sarei l’uomo più ricco del mondo oggi”. A spingere Peppe a “fare il monello” è stato il morso della fame. “Per mangiare dovevo rubare – continua il suo racconto – All’inizio prendevo gli avanzi da terra, nei cestini, quello che rimaneva sui tavoli nei ristoranti. Ma non bastava. Ero un bambino e ho cominciato a fare piccoli furti. Per vestirmi salivo suoi balconi per rubare gli abiti. Li indossavo che erano ancora bagnati ma almeno erano puliti”. Originario dei quartieri spagnoli, da bambino è stato trapiantato nelle baracche di Cavalleggeri a Fuorigrotta. Aveva 5 anni e in quelle baracche non c’era nulla, nemmeno l’acqua corrente, scuola, chiesa assistenza sociale, “Eravamo abbandonati a noi stessi”, dice. Sua mamma morì che aveva 30 anni. “Non mi sono potuto permettere l’adolescenza, ho iniziato a sognare che ero già anziano, sin da bambino ho avuto solo incubi che mi sono provocato anche da solo”, ricorda, ammettendo di essere stato l’unico artefice delle sue scelte sbagliate. Poi il trasferimento a Secondigliano che all’epoca era un quartiere nuovo e pieno di alberi. Peppe a scuola ci è andato poco e niente. Rimasto con il padre e la sua compagna, a 10 anni lavorava già come barista. “Ma i sodi non bastavano: la compagna di mio padre si prendeva quello che guadagnavo e lui spesso mi picchiava. Non ce l’ho fatta più e sono andato via di casa”. “Ho conosciuto persone sbagliate e ho cominciato a rubare auto, poi nei negozi e man mano anche banche e poste, dove c’erano veramente i soldi – continua il racconto – Non avevo mai avuto soldi e quando arrivano tutti insieme si affoga. Non li sapevo gestire, ne ho fatti tanti ma li buttavo via come se non fossero niente perché non li avevo guadagnati. Dico che sono stato un delinquente ma mai un criminale: non ho mai voluto fare del male a nessuno. Se potevo aiutare, a modo mio, aiutavo”.

L’esperienza in carcere. Peppe è finito in carcere che era ancora un ragazzo. Il suo inizio è stato traumatico. Avevo 19 anni, ero un ragazzino – racconta – un uomo venne accoltellato nella mia cella. Rimasi scioccato. Mi ci vollero diversi mesi per riprendermi. È una situazione a cui poi però ci si abitua. Sono uscito dopo tanto tempo. Pensavo che il carcere mi avesse messo paura e invece ne sono uscito più forgiato ancora”. Per Peppe il carcere è stata un’università del crimine, ci ha trascorso una trentina di anni. Lì ha conosciuto pezzi grossi della criminalità. “L’ultima detenzione che ho fatto, dico, ho detto e dirò sempre di essere innocente. L’unica cosa che dovevo pagare era la mia reticenza, non avrei mai fatto i nomi di chi è stato e ho scontato 12 anni da innocente”. E qui che avviene il suo cambiamento radicale. Peppe ‘o biondo cominciò a lavorare in carcere facendo anche i lavori più umili. “Non ho avuto la metamorfosi per paura – racconta Peppe – Ma una presa di coscienza. Sono anche finito al manicomio e lì ho iniziato a pensare e a capire. Poi le lacrime dei miei figli…era un prezzo troppo grande da pagare”.

“In carcere si può cambiare solo se lo vuoi”. “Il carcere non contribuisce a cambiare la gente – dice con amarezza ma convinzione – Non dà nessuna educazione, forgia solo alla violenza perché è solo restrizione. In qualsiasi carcere c’è anche un solo corrotto è il carcere più vigliacco che c’è. Picchiano i detenuti, io stesso le ho prese. Chi però vuole cambiare in se stesso, deve guardare il carcere non come te lo propongono, ma come io ho voluto guardarlo: il carcere per imparare a studiare, per fare teatro, per uscire dalla malavita. Ma deve essere il detenuto a farlo perché le strutture, le istituzioni, non danno niente per farlo”. Così Peppe in carcere ha cercato e accolto le possibilità come la formazione. Prima con il corso di arte presepiale, dove ha scoperto di avere un vero talento che non si aspettava e poi il teatro. “Andai al corso e me ne innamorai in 10 minuti – continua – Ho cominciato a scrivere copioni. La prima recita è stata a Benevento messi in scena dai docenti che mi insegnavano il teatro. Da allora non mi sono più fermato a scrivere”. Peppe è uscito dal carcere grazie al teatro. È andato a vivere nel teatro dei suoi insegnanti: “Io un delinquente che porta le chiavi del teatro…dove ci sono anche gli incassi…mi fu data fiducia…mi sentiii finalmente fiero di me”.

Le condizioni umane in carcere fa la differenza. A fare la differenza per Peppe probabilmente è stata anche quella umanità dei direttori e degli agenti penitenziari che ha incontrato nella sua ultima detenzione. Peppe ha raccontato la sua storia in un libro dal titolo “Il campo del male” ed è stata raccontata anche nel film documentario “La Conversione” di Giovanni Meola. “Ora amo scrivere e amo fare l’attore e amo anche fare un’altra cosa: davanti ai boss e ai malavitosi ai ragazzi dico "non vi mettete con questa gente, non sono buoni". Se posso scipparne qualcuno alla malavita, e un paio li ho scippati, sono felice. Ora stanno lavorando onestamente, li incontro per strada e ci abbracciamo. Uno di loro si chiama Armando, vive a Secondigliano e oggi fa il pizzaiolo. Prima vendeva la droga. Non la vende più”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

La proposta della Commissione Lattanzi. Messa alla prova, cosa è la proposta che potrebbe svuotare le carceri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Giugno 2021. Se proprio il carcere deve esistere, se proprio si pensa di ricostruire il patto spezzato con la comunità riducendo in cattività il protagonista di quella rottura, si dia almeno dignità alle condizioni di vita dei prigionieri. E ancora non ci siamo, nonostante la presenza al governo di una ministra come Marta Cartabia, dotata di una sensibilità particolare e anche della conoscenza diretta degli istituti penitenziari, visitati durante la sua permanenza alla Corte Costituzionale. Nel corso della relazione presentata al Parlamento da Mauro Palma, che delle carceri e di tutte le altre istituzioni totali è il garante, due giorni fa alla presenza della stessa guardasigilli, e sui giornali di ieri, è passata quasi inosservata l’unica vera notizia: le prigioni italiane sono ancora in grave crisi di sovraffollamento, poco o nulla sembra cambiato dopo l’intervallo che ha obbligato le istituzioni a sfoltirle un po’ per evitare una strage da Covid. I numeri ci dicono poco, in realtà, e poco ci consolano. Intanto perché se lo spazio sufficiente a dare dignità alla detenzione è di 47.000 posti e ce ne mettiamo 53.000, vuol dire che ce ne sono già 6.000 in eccesso. Ma poi, e soprattutto, perché, se da gennaio di quest’anno fino a oggi il ritmo di crescita è tornato a essere quello di prima dell’emergenza sanitaria, vuol dire che non è cambiata la mentalità, che non sono cambiate le abitudini di chi assume la decisione di privare una persona della sua libertà. La custodia cautelare, prima di tutto. Siamo fermi, nella sostanza, alla riforma del 1996 e alle tre condizioni che ne determinano la possibilità, il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Ma soprattutto siamo fermi all’interpretazione largamente estensiva che ne danno i magistrati nell’applicarla. Ricordo bene la discussione che una Commissione giustizia di deputati molto preparati (e molto rimpianti) aveva svolto con puntualità. Mai si sarebbe immaginato che un pubblico ministero, venticinque anni dopo, avrebbe ritenuto di dover mandare in carcere per pericolo di fuga i tre dirigenti della funivia che porta al Mottarone, eventuali responsabili di un reato colposo. Quali erano gli indizi che provavano che i tre stesso scappando? Un programma di fuga carpito da un’intercettazione, una visita a un’agenzia di viaggi? Domande concrete senza risposta. E per fortuna che a Verbania c’era anche una giudice che usava la propria testa al posto del consueto copia-e-incolla. I detenuti in carcere in attesa di processo sono oltre il 30%, un dato che non si alleggerisce mai. E stiamo parlando presunti innocenti, la metà dei quali avrà poi una sentenza di assoluzione. Il referendum del Partito radicale e della Lega, che interviene sul punto della ripetizione di reati “della stessa specie”, qualora determinasse una modifica legislativa potrebbe avere un effetto parzialmente deflattivo. Ma se i pubblici ministeri e i giudici troppo spesso loro amici capissero che quel che è successo durante l’emergenza-covid, con le sospensioni della pena e arresti e detenzione domiciliare, non hanno determinato nessuna conseguenza negativa e potrebbero diventare realtà ordinaria, non solo diminuirebbe il sovraffollamento, ma tutti noi vivremmo in una società più civile e più vicina a quella di uno Stato di diritto. Secondo i dati diffusi da Mauro Palma, tra i condannati reclusi, circa la metà, cioè 26.000, deve scontare una pena inferiore a tre anni, e di questi circa 7000 sono stati condannati a meno di tre anni di carcere. È possibile che non esista la possibilità di una sanzione alternativa? La commissione Lattanzi, istituita dalla ministra Cartabia, propone l’estensione ai reati puniti con il carcere fino a dieci anni l’applicazione dell’istituto della “messa alla prova”. È una buona proposta, e speriamo che venga trasformata presto in emendamento e che non trovi ostacoli alla sua approvazione. Ma il “populismo giudiziario” di quelli che vogliono chiudere le celle e buttare le chiavi è sempre in agguato. Parliamo di politici, ma anche di giornalisti. Difficile dimenticare quel che successe un anno fa, quando l’allora capo del Dap Francesco Basentini fu strattonato a costretto alle dimissioni per aver inviato una circolare di tipo umanitario perché i direttori delle carceri segnalassero i detenuti anziani e malati a rischio contagio da Covid. I suoi successori (la circolare fu subito ritirata) Dino Petralia e Francesco Tartaglia, pm “antimafia”, paiono molto più muscolari di Basentini. E sono ancora lì. La neo-ministra non ha pensato di sostituirli con qualche vero riformatore. Ce ne sono, garantiamo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

“In carcere 26.385 detenuti con una pena inferiore ai tre anni”. Sono i dati della relazione annuale che Mauro Palma, presidente del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, illustrerà lunedì prossimo in Parlamento. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 giugno 2021. Lunedì prossimo, 21 giugno, ci sarà la relazione annuale al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà. Alle ore 11 il saluto del presidente della Camera Roberto Fico, dopodiché verrà presentata la relazione da Mauro Palma, presidente del Garante nazione, infine ci sarà il saluto di chiusura della ministra della Giustizia Marta Cartabia. La relazione si articola in varie sezioni.

La relazione del Garante Mauro Palma, prima parte: il “populismo penale”. La prima parte di divide in diversi capitoli. Nello specifico, il primo riguarda l’analisi del fenomeno del cosiddetto “populismo penale” che secondo il Garante ha trovato espressione nel contrasto alle detenzioni domiciliari concesse per consentire al sistema penitenziario di prevenire il contagio all’interno degli Istituti. Il secondo è quello relativo all’adozione delle navi quarantena per le persone migranti che arrivano irregolarmente in Italia. Il terzo è sulle Residenze sanitarie assistenziali per persone anziane che con il Covid sono divenute manifestamente dei luoghi chiusi. Il quarto capitolo riguarda l’introduzione, in base al decreto-legge 21 ottobre 2020 n. 130, del diritto di reclamo per i migranti trattenuti. Il quinto capitolo dal titolo “Ordine dentro, ordine fuori” è sul rapporto tra le forze di polizia interne agli Istituti penitenziari e quelle che agiscono all’esterno, questione emersa con forza nel dibattito successivo ai gravi disordini scoppiati in carcere nel marzo 2020. Infine si affronta il tema riguardante la designazione in norma primaria del Garante nazionale quale National preventive mechanism (Npm) in base al Protocollo Onu sulla prevenzione della tortura-Opcat e la modifica del nome del Garante nazionale con l’eliminazione del riferimento al termine “detenuti”.

I dati: la popolazione detenuta è in flessione. Veniamo ai dati che riguardano il tema penale. Il Garante nazionale ne anticipa alcuni. Se il 2020 era iniziato con 60.971 presenze negli Istituti penitenziari, il 2021 è iniziato con 53.329. La popolazione detenuta, quindi, ha avuto una flessione. La decrescita, secondo il Garante, ovviamente è dipesa dai minori ingressi dalla libertà e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare (principalmente dovuta a maggiore attività della magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei provvedimenti governativi adottati). Il Garante nazionale sottolinea la pur limitata ripresa della crescita dei numeri che determina l’attuale registrazione di 53.661 (al 7 giugno 2021) persone, anche se il numero di coloro che sono effettivamente presenti è 52.634, usufruendo gli altri della licenza prolungata nella semilibertà. La capienza è di 50.781 posti, di cui effettivamente disponibili 47.445.

La durata delle pene. Il Garante anticipa anche due questioni sulla durata delle pene che possono essere utili al dibattito attuale: 26.385 devono rimanere in carcere per meno di tre anni (di questi, 7.123 hanno avuto una pena inflitta inferiore ai tre anni). Gli ergastolani sono 1.779 di cui ostativi 1.259; la liberazione condizionale di cui molto si dibatte è stata data a un ergastolano (ovviamente non ostativo) nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nel 2021.Degna di nota la quarta parte denominata “Orizzonti”. Lo sguardo è rivolto al futuro e alle linee di azioni che il Garante intende aprire o sviluppare nel dialogo con il Parlamento. Il primo tema riguarda l’intervento legislativo che dovrà seguire nel corso dell’anno la pronuncia della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo; il secondo tratta la nota questione del riconoscimento della cittadinanza delle cosiddette “seconde generazioni”; il terzo è relativo alla necessità di portare a compimento il Regolamento unico dei Centri per il rimpatrio; il quarto concerne l’esigenza di rivedere complessivamente il sistema delle misure di sicurezza e in particolare di superare le problematicità delle Residenze per le misure di sicurezza di tipo psichiatrico (Rems) senza snaturarne le caratteristiche che hanno segnato il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, ciò anche in considerazione dell’imminente pronuncia della Corte europea dei diritti umani. L’ultimo argomento attiene alla necessità di un intervento regolativo che renda effettiva applicazione ai principi della cosiddetta “Legge Zampa” sulla determinazione dell’età dei minori stranieri non accompagnati.

Il rapporto sul 2020 del Garante Nazionale Mauro Palma. L’Italia che butta la chiave: 1.779 ergastolani, il 70% ostativi, solo a 4 la libertà condizionale. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Giugno 2021. Ben oltre due su tre, quasi il 71%, la stragrande maggioranza insomma dei detenuti ergastolani in Italia sono ergastolani ostativi. Ovvero detenuti che non possono accedere ai benefici penitenziari perché non collaborano. La Corte Costituzionale lo scorso maggio si è espressa sulla specificità: entro il maggio 2022 toccherà al Parlamento intervenire e modificare la materia. C’è tempo. E comunque la liberazione condizionale sulla quale si litiga e si dibatte è stata data a quattro ergastolani in tutto nel 2020.  Il dato intanto emerge dalla relazione consegnata in Parlamento dal Garante Nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Il documento si sofferma naturalmente anche sui numeri, sui rimpatriati e sulle conseguenze sugli Istituti di Pena della pandemia da coronavirus – soprattutto a marzo 2020, dopo l’esplosione dell’emergenza, si erano verificati episodi di rivolta, soppressione, anche vittime. Quella dell’ergastolo ostativo è la legge che non concepisce la pena, e quindi la Giustizia, e quindi il tempo uguale per tutti. Agli ostativi sono negati i permessi premio, l’assegnazione del lavoro all’esterno, le misure alternative alla detenzione, l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare e via dicendo. È dedicato specialmente ai condannati per associazione mafiosa, sequestro con estorsione, associazione finalizzata al traffico di droga e altri reati gravi. Il dato del report: sono 1.779 gli ergastolani in Italia, 1.259 dei quali ostativi, il 70,77%. E questo nonostante gli articoli 3 e 27 della Costituzione che dettano rispettivamente come “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” e che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’ergastolo è previsto dall’articolo 22 del codice penale. Nonostante la pena sia perpetua, a vita, dopo i 26 anni il detenuto può richiedere la libertà condizionale per buona condotta. Salvo quell’eccezione. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per l’ergastolo ostativo. Per tornare alla libertà condizionale: è stata accordata a un ergastolano (ovviamente non ostativo) nel 2019, a quattro nel 2020, e a nessun detenuto nel 2021.

Sovraffollamento

Erano 53.329 le persone detenute nelle carceri italiane all’inizio del 2021. La popolazione è scesa rispetto all’inizio del 2020, quando erano 60.971. La flessione è dipesa “dai minori ingressi dalla libertà e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare (principalmente dovuta a maggiore attività della magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei provvedimenti governativi adottati – ha sottolineato il Garante – colpisce la pur limitata ripresa della crescita dei numeri che determina l’attuale registrazione di 53.661 (al 7 giugno 2021) persone”.

Il dato dei detenuti in cella scende se si tiene conto di quelli che usufruiscono della licenza prolungata nella semilibertà, e quindi è paria a 52.634. Niente di tutto ciò risolve il problema del sovraffollamento: il limite massimo degli Istituti è di 50.781 posti, “di cui effettivamente disponibili 47.445”. Il dato sfiora il 111%. Una fetta consistente dei detenuti, 26.385 per l’esattezza, devono rimanere in carcere per meno di tre anni e di questi, 7.123 hanno avuto una pena inflitta inferiore ai tre anni.

Coronavirus

È stato un anno ancora più difficile per le carceri italiane, per i detenuti e anche per i lavoratori degli Istituti, per via della pandemia da coronavirus. Dopo l’esplosione della prima ondata a fine febbraio 2020 le visite sono state bloccate. Sono esplose proteste, anche violente, diversi detenuti sono morti. “Complessivamente il sistema penitenziario ha retto all’impatto del contagio – argomenta comunque il Garante – rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso. Va comunque tenuto presente che in un giorno della seconda ondata si è raggiunto il picco di 849 contagi rispetto a una popolazione di 53.608 il che significa che proporzionato agli oltre 59 milioni di italiani corrisponderebbe avere avuto in una giornata 938 mila contagiati. Vero è che il numero di sintomatici è stato bassissimo“. Procede intanto la campagna vaccinale. Tutti gli Istituti minorili sono stati vaccinati e “si mantiene un tasso di presenza negli Istituti per minori molto basso, pari a 319 con una capienza di 478, a fianco di 13.871 in varie misure alternative”. Rispetto all’istruzione “colpiscono i due dati simmetrici di 858 analfabeti e 1034 iscritti all’università”.

CPR

Il 50,88% delle persone trattenute nei Centri di permanenza per i rimpatri, sono state effettivamente rimpatriate l’anno scorso. “Un dato che pone seri interrogativi circa la legittimità di un trattenimento finalizzato a un obiettivo che si sa in circa nella metà dei casi non raggiungibile”. Complessivamente i rimpatri di migranti nel 2020 sono stati 3.351. Una cifra che deve tenere conto del periodo di lockdown e quindi di chiusura delle frontiere.

Il dato fornito oggi dal Garante non si discosta da quello degli anni precedenti. Il rapporto offre una cronologia degli anni scorsi: 50% nel 2011, 2012 e 2013; 55% nel 2014; 52% nel 2015; 44% nel 2016; 59% nel 2017; 43% nel 2018; 49% nel 2019; 50% nel 2020.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Dagotraduzione dal New York Post il 7 giugno 2021. Per anni hanno portato avanti un macabro hobby: sedurre via posta i serial killer arrestati e collezionare le loro lettere. Barbara e Richie Dickstein, di Yonkers, sposati, hanno avuto l’idea di scrivere la loro prima missiva nel 1992 a David Berkowitz, il serial killer che terrorizzò New York tra il 1976 e il 1977 sparando con una calibro 44 a passanti casuali, anche noto come “il Figlio di Sam”. Volevano scoprire che cosa passasse nella mente di un assassino. Per più di 20 anni hanno scritto ad almeno 100 degli assassini seriali e famosi più feroci del paese, tra cui John Wayne Gacy, Jeffrey Dahmer, Richard Ramirez, Charles Manson, Arthur Shawcross, Edmund Kemper, Karla Faye Tucker , Robert John Bardo e Gerard Schaefer. La loro tecnica era semplice: fingersi spasimanti, inviando foto accattivanti prese da Internet. «Studiando l'infanzia di questi serial killer, abbiamo capito che non hanno mai avuto amore. Penso che con noi abbiano pensato: “Ecco qualcuno disposto a mostrarmi amore”», ha detto Barbara a The Post. La coppia si è divisa i compiti. Richie, che era eterosessuale ed è morto nel 2018, ha convinto Gacy, Dahmer e altri assassini gay che era a sua volta omosessuale. Dahmer, serial killer e cannibale, ha risposto a Richie chiedendo di vedere «ogni centimetro muscoloso nudo di te». Quando il compagno di prigionia di Dahmer, Christopher Scarver, lo uccise nel 1994 schiacciandogli il cranio con una barra di metallo, i Dickstein iniziarono a scrivere a Scarver e lui mandò loro le foto della morte di Dahmer. Richie è riuscito anche a convincere Susan Smith, la mamma della Carolina del Sud condannata per l'omicidio dei suoi due figli piccoli nel 1994, che era innamorato di lei. «Susan Smith era ossessionata da mio marito e Bardo era davvero ossessionato da me», ha detto Barbara, ora in pensione da una carriera nel marketing. Robert John Bardo, che sparò a morte all'attrice Rebecca Schaeffer nel 1989 dopo averla perseguitata per tre anni, ha inviato a Barbara una media di 15 lettere a settimana, alcune lunghe 20 pagine, finché lei non si è stancata e lo ha scaricato. Il tesoro dei Dickstein contiene più di 30.000 lettere. Molti assassini parlano di come hanno fatto a pezzi le loro vittime, le hanno violentate e torturate, e si rallegrano del loro dolore. La raccolta, che include audiocassette con le telefonate ai prigionieri e loro opere d'arte, costituisce la base per un nuovo podcast sul crimine, "Killer's Vault", che  verrà lanciato il 28 giugno. Il podcast sarà ospitato dall'attrice di "Law and Order" Elisabeth Rohm. L'attore Eric Roberts darà voce agli assassini mentre legge le lettere. «Sono rimasto scioccato dal contenuto e dalla quantità di dettagli nelle lettere e dal legame che Barbara e Richie sono riusciti a sviluppare con questi ragazzi», ha detto il produttore Rob Cea, un ex detective della polizia di New York. «Questi assassini mentono a tutti», ha detto Cea. «Mentono agli psicologi, ai giornalisti, ai loro stessi avvocati. Quindi è straordinario vedere come abbassano la guardia in queste lettere. Alcuni di loro hanno raccontato crimini che non avevano mai ammesso prima». La coppia ha sviluppato forti legami platonici anche con alcuni degli assassini, ha detto Barbara. Richie e il figlio di Sam si sono avvicinati così tanto che quando Richie è morto l’assassino ha pianto. La stessa Barbara è rimasta sconvolta quando ha scoperto che una delle sue preferite, Karla Faye Tucker, era stata giustiziata con un'iniezione letale nel 1998. Tucker, un'ex groupie degli Eagles e degli Allman Brothers, uccise due persone con un piccone durante un furto con scasso nel 1983. A Barbara piaceva anche il cosiddetto "Angelo della morte" Richard Angelo, l'infermiera di Long Island condannata per aver ucciso otto dei suoi pazienti e avvelenato altri 26 nel 1989. «Avevamo un'affinità», ha detto Barbara. Ha aggiunto che Richie e Charles Manson si sono scritti per anni, ma le lettere di Manson avevano a malapena senso. «All'inizio mi è piaciuto», ha detto Barbara. «Ma dopo circa cinque anni è diventato più un lavoro».

I numeri-choc del dossier di Ristretti Orizzonti. Carceri campane, strage senza fine: in meno di 20 anni oltre 230 morti.  Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 3 Giugno 2021. C’è chi ha perso la vita a causa di una malattia e chi la vita se l’è tolta in un momento di disperazione incontrollabile. Ma c’è anche chi è stato ucciso, chi è stato stroncato da un’overdose di droga e chi, infine, è stato trovato esanime in circostanze da chiarire. Il “campionario” dei detenuti morti nelle prigioni campane dal primo gennaio 2002 al 30 maggio 2021 è drammaticamente vario. E ancora più allarmante sono i dati contenuti nel dossier Morire di carcere stilato dal centro studi del sito Ristretti Orizzonti: negli ultimi vent’anni, ben 234 persone hanno trovato la morte dietro le sbarre, a una media di quasi 12 ogni 365 giorni. È come se, con un improvviso colpo di spugna, fossero stati cancellati gli ultimi cinque Consigli regionali della Campania o gli ultimi sei Consigli comunali di Napoli con tutti i rispettivi componenti. E i numeri potrebbero essere ancora più consistenti se si pensa che, secondo gli autori del report, un detenuto morto su due sfugge alle cronache passando di fatto “inosservato”. La parte più allarmante del dossier riguarda i suicidi all’interno dei penitenziari. Dal 2002 a oggi sono stati almeno 111, con una media superiore a cinque l’anno. Il gesto estremo di Luca, il 25enne tossicodipendente che sabato scorso si è tolto la vita nel carcere napoletano di Poggioreale, alimenta un trend da tempo in preoccupante ascesa. Accusato di maltrattamenti e lesioni, il giovane era transitato per i reparti Firenze e Roma prima di approdare al Salerno. Pochi giorni prima di togliersi la vita era stato a messa e aveva persino parlato con un cappellano. Tutto inutile. Nessuno è riuscito a intercettare la sua disperazione e a evitare che il suo percorso di rieducazione e reinserimento sociale venisse tragicamente interrotto. Elementi, questi ultimi, che spesso sfuggono alla classe dirigente locale, come sottolineano Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, garanti dei detenuti rispettivamente per conto della Regione Campania e del Comune di Napoli: «Il dolore e la morte sono la grande scuola della vita. A quanto pare, però, i politici continuano a ignorarlo e a considerare il carcere come un mero luogo di custodia». Certo è che, nelle prigioni campane e italiane, ci si toglie la vita con una frequenza circa venti volte superiore a quanto avviene tra le persone libere. I drammi si verificano soprattutto negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente sovraffollate e fatiscenti, con poche attività trattamentali e una scarsa presenza del volontariato. A complicare tutto ci ha pensato poi la pandemia che, oltre a mietere numerose vittime tra personale e ospiti dei 15 penitenziari campani, ha reso più complicati i colloqui e diradato i contatti tra detenuti e familiari con conseguenza psicologiche e affettive facilmente immaginabili. A destare allarme, però, non è solo il numero di suicidi, ma anche quello di morti a causa di malattie pregresse oppure contratte oppure ancora aggravatesi durante la permanenza in una cella. Dal primo gennaio 2002 al 30 maggio 2021 sono stati 76, il che dimostra quanto sia disastrata l’assistenza sanitaria in cella. Un’ulteriore conferma arriva dai dati relativi al personale medico e paramedico. All’inizio del 2020 nei 15 penitenziari della Campania si contavano 108 medici di reparto e 189 infermieri più sette tecnici della riabilitazione, 17 psicologi e 23 psichiatri per un totale di 344 “camici bianchi” chiamati a gestire una popolazione carceraria di circa 6mila e 500 unità. Inutile sottolineare la sproporzione tra i membri del personale sanitario, in quantità nettamente inferiore a quella prevista dalle piante organiche, e il numero dei detenuti, di gran lunga superiore a quello regolamentare e caratterizzato dalla presenza di numerosi casi clinici complessi. Il quadro descritto da Ristretti Orizzonti assume tinte ancora più fosche se si pensa che quasi 50 detenuti in Campania sono morti in circostanze da chiarire, per mano di altri o addirittura per abuso di droghe. Insomma, complessivamente si tratta di oltre 200 persone che in carcere, anziché un’occasione di riscatto e di reinserimento sociale, non hanno trovato altro che abbandono, disperazione e morte. E davanti a tutto ciò la politica – salvo rarissime eccezioni – si mostra del tutto indifferente. «Dall’inizio dell’anno siamo già a tre sucidi nelle carceri campane cui si aggiunge quello di un adolescente in una comunità del Casertano – conclude Ciambriello – Parliamo di uomini che in carcere dovevano ricevere una prestazione rieducativa, invece hanno trovato la morte. È ora che tutti si impegnino per spezzare questa catena di dolore che calpesta il senso di umanità prima ancora che la Costituzione e le leggi dello Stato».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Bortolato: «I magistrati condannano al carcere senza sapere cosa vuol dire vivere in una cella». Il presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze invita a riprendere la lezione della scuola di magistratura francese che "spedisce" i futuri giudici in galera per una settimana. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 giugno 2021. Qualche giorno fa vi abbiamo raccontato che in Francia l’Ècole nationale de la magistrature prevede da anni degli stage penitenziari obbligatori per coloro che vogliono fare i magistrati al fine di misurare e superare lo scarto tra alcune idee preconcette e la realtà delle carceri. E in Italia è previsto tipo di alta formazione? Ne parliamo con il dottor Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, e autore – insieme ad Edoardo Vigna – del libro “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza 2020, pag. 160, euro 14)

Presidente, come giudica questa iniziativa dei francesi?

La giudico molto positivamente. Il magistrato deve calarsi nella realtà in cui opera ed avere ben presente, soprattutto nel momento dell’apprendistato, che anche la funzione afflittiva della pena ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità e ragionevolezza.

Secondo Lei sarebbe utile da proporre anche in Italia?

Non solo sarebbe utile, ma è stato già fatto. Quando Presidente della Scuola Superiore della Magistratura era il professor Valerio Onida, i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla perdendo, a mio avviso, un’occasione unica di crescita professionale ed esperienza umana. Non dimentichiamo che anche la Corte costituzionale, i massimi Giudici dello Stato, hanno fatto il loro viaggio nelle carceri due anni fa, come è noto.

Una giovane procuratrice francese ha detto in un podcast: “Ogni volta che chiediamo la reclusione per un imputato dobbiamo avere chiaro in mente il luogo dove vanno a finire i condannati, mentre vedo che il racconto sociale che si fa della prigione è del tutto distorto, si ha quasi l’impressione che si tratti di un villaggio turistico dove le persone dormono, mangiano e fanno sport”. Lei ha scritto un interessante libro per rispondere ai luoghi comuni dei cittadini sul carcere. Ma, invece, pensando ai magistrati italiani, esiste da parte loro la reale percezione della situazione carceraria italiana quando emettono una decisione?

Non si può certo generalizzare ma l’impressione che ho tratto dopo più di 30 anni di carriera (dei quali più della metà quale giudice della cognizione) è che molti magistrati del penale, ben più di quelli che si possa immaginare, non hanno mai fatto ingresso in un carcere se non nella piccola saletta ove si svolgono gli interrogatori con i detenuti. I cancelli raramente sono stati oltrepassati, anche solo per curiosità. Il problema della percezione è reale e purtroppo non riguarda solo la generalità dei cittadini ma anche gli ‘addetti ai lavori’. Nel libro che ho scritto il tema centrale è proprio quello dei luoghi comuni sul carcere, del racconto sociale deformato e falsificato che descrive una prigione da un lato a ‘cinque stelle’ dove non manca nulla e dall’altro un luogo in cui ‘far marcire la gente’: ora, in carcere o si sta bene o si sta male. È più che opportuno che i magistrati in tirocinio si rendano conto delle reali condizioni delle carceri italiane, anche dei loro aspetti positivi laddove esistenti, perché quello è il luogo ove le pene che infliggeranno saranno espiate. Non ci vedo alcun demagogismo o idealismo ma solo un bisogno di conoscenza che è la base di ogni professione del giudicare.

Forse conoscendo il carcere si eviterebbe l’abuso della carcerazione preventiva. Secondo Lei esiste questo problema? 

Non ho conoscenze sufficienti per esprimere un’opinione su questo perché, come è noto, la Magistratura di sorveglianza si occupa dei condannati definitivi, ma certo i dati degli imputati in carcere sono tra i più alti d’Europa. L’ultimo dato al 31 maggio 2021 è di 16.723 detenuti non definitivi, pari al 31,16 % del totale. Ma quello che qui mi interessa sottolineare è che, a proposito di percezione falsata, i carcerati italiani hanno in media pene più lunghe rispetto ai vicini europei: le condanne fra i 10 e i 20 anni riguardano il 17 per cento dei detenuti con condanna definitiva, sei punti in più della media dei Paesi europei, mentre quelli che hanno una pena fra i cinque e i dieci anni sono il 27 per cento, contro il 18 del resto del continente. Ciò significa che in Italia si rimane in carcere di più. Il che, tradotto nella realtà, significa che le pene sono più de-socializzanti che altrove, tendono cioè a creare più facilmente individui che, scontata la pena, fanno una fatica maggiore per ritrovare un posto nella società. Ecco è questo che i giovani magistrati dovrebbero conoscere andando in carcere, parlando con gli operatori penitenziari e con gli stessi detenuti.

In questo ultimo anno la magistratura di sorveglianza, quella che in realtà ha più conoscenza dell’esecuzione penale, ha subìto dei tentativi di commissariamento dalla politica. L’impressione è che la magistratura di sorveglianza sia una magistratura di serie B, che nel prendere le decisioni ha bisogno ad esempio dei pareri delle procure in particolari circostanze. Non sarebbe il caso di rivendicare con maggiore forza la vostra indipendenza e la vostra autonomia di giudizio?

Gli atti di sfiducia nei confronti della Magistratura di sorveglianza sono molteplici e si sono intensificati negli ultimi anni. Anche qui la percezione che si tratti di una magistratura diversa, marginale, o addirittura poco in sintonia con il sentire comune che vuole il carcere e non le misure alternative al centro del sistema, anche da parte di larghi settori della politica progressista, è alterata da scarsa conoscenza. Ma non voglio lamentarmi, non c’è bisogno di rivendicazioni, posto che ogni magistrato è soggetto solo alla legge e soprattutto alla Costituzione, dove si dice ben altro in tema di funzione della pena. Il modello attuale basato sulla riabilitazione ha certamente dei limiti, ma è il fondamento culturale dell’ordinamento penitenziario che nasce, ispirato dal principio costituzionale dell’art. 27, solo nel 1975, ben dopo 27 anni di vita della Carta. Lo scopo è quello di offrire al condannato il massimo di opportunità per riabilitarsi attraverso gli strumenti del trattamento: il lavoro, l’istruzione, la cultura, i rapporti con la famiglia. E su questo l’opera della Magistratura di sorveglianza, cui si aggiunge quella di tutelare i diritti dei ristretti, è il fondamento giuridico di quell’approccio. Anche per questo io credo che il tirocinio in carcere per i giovani magistrati debba diventare un obbligo.

Parla il magistrato del Tribunale di Napoli. “Se i magistrati vogliono capire cosa è la pena si facciano un giro in cella”, la proposta di Nicola Graziano. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Quanto ne sanno di carcere i magistrati? Quanto conoscono a fondo il mondo in cui finiscono i condannati e molto spesso persino gli indagati, i presunti innocenti, i cittadini in attesa di giudizio? Quanti sono andati oltre la saletta dei colloqui per vedere con i propri occhi come si vive dietro le sbarre, nei luoghi della pena che secondo la Costituzione dovrebbero servire soprattutto a responsabilizzare l’autore di un reato e sostenerlo nel percorso di reinserimento sociale? «Un tirocinio all’interno delle carceri dovrebbe far parte del percorso formativo di ciascun magistrato», spiega Nicola Graziano, magistrato del Tribunale di Napoli e autore di Matricola zero zero uno, un libro con cui ha provato a superare il muro del pregiudizio vivendo 72 ore da detenuto nell’ospedale psichiatrico di Aversa. L’esperienza da infiltrato l’ha fatta per esigenze di studio e letterarie, ma Graziano è convinto che un tirocinio formativo all’interno degli istituti di pena possa arricchire la formazione di un magistrato. «Credo sia un’esperienza formativa molto utile che può sicuramente dare un valore importante. Soprattutto quando si è all’inizio della carriera, si arriva un po’ troppo giovani a funzioni che sono molto importanti. Il magistrato entra nella vita delle persone – sottolinea Graziano – Per questo un tirocinio formativo penitenziario sarebbe da riprendere e incentivare». In Francia, per esempio, l’Ècole nationale de la magistrature prevede stage penitenziari obbligatori per gli aspiranti magistrati: una settimana vissuta all’interno di una prigione assieme agli agenti della penitenziaria osservando con i propri occhi la realtà dietro le sbarre. Vivere il carcere e non limitarsi a sentirne parlare dall’esterno è esperienza che cambia la vita. Quando, nell’ottobre 2014, Nicola Graziano ottenne dal Dap il permesso di vivere da infiltrato nella struttura detentiva di Aversa, sapeva di stare per vivere un’esperienza che avrebbe segnato la sua vita. Soltanto il direttore del carcere e il comandante della polizia penitenziaria sapevano chi fosse in realtà, per tutti gli altri Graziano era uno dei detenuti. «Vivere tre giorni nel carcere psichiatrico è stata un’esperienza che mi ha segnato per la vita», racconta. «Mi ha consentito di vedere la realtà anche da un’altra prospettiva e ha rafforzato in me la considerazione che un detenuto, e comunque tutte le parti del processo, non devono mai avere un nome, perché bisogna sempre essere imparziali, ma non devono neanche avere un numero. E mai bisogna dimenticare che dietro un processo ci sono anime, sofferenze, percorsi di vita». «Ricordo per esempio – aggiunge Graziano – il valore dell’attesa che aveva l’udienza con il magistrato della sorveglianza per la verifica, ogni sei mesi, della pericolosità. Quel tempo per chi è detenuto è un’eternità». «È chiaro tuttavia – sottolinea – che questo non deve condizionare l’esercizio della funzione, perché un giudice deve applicare la legge e ne è soggetto. Però – osserva Graziano – se si riuscisse a portare avanti un’idea di maggiore consapevolezza e maggiore conoscenza degli effetti e delle conseguenze di certe decisioni, sarebbe davvero molto interessante il percorso della formazione anche varcando la soglia del carcere». Attualmente quello penitenziario è un sistema con molte criticità e in cui la pena ha una funzione più afflittiva che rieducativa. E c’è chi vorrebbe ancora più carceri. «Non condivido la proposta di nuove carceri. Penso, piuttosto, che sia importante capire chi davvero in carcere ci deve stare perché davvero merita di stare in cella e chi invece ha la possibilità di scontare la pena con misure alternative». Il carcere, dunque, come extrema ratio. «Qualche anno fa – osserva Graziano – c’è stata una proposta di riforma importante, che poi è stata interrotta, e guardava alle misure alternative e alla possibilità di risocializzazione e reinserimento sociale del condannato. Sono queste le finalità che lo Stato non dovrebbe mai perdere di vista, perché sono un obiettivo fondamentale per la democrazia del nostro Paese».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Quegli “stage carcerari” dei giovani magistrati: l’esempio arriva da Parigi. Sette giorni “in prigione” per capire il senso della pena. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 30 maggio 2021. Quanti francesi credono che, sotto sotto, in prigione non si stia così male e che la vita di un detenuto in fondo sia migliore di quella di un disoccupato? Vent’anni fa erano appena il 18%, nel 2019 il 50%, oggi più della metà come rivela un sondaggio ipsos (il principale istituto statistico transalpino) su come il sistema carcerario viene percepito dall’opinione pubblica. Una deriva che, anche oltre la Alpi, è stata nutrita dai processi mediatici messi continuamente in scena sulle colonne dei giornali e sugli schermi televisivi. Che si tratti di un macabro fatto di cronaca o di un’accusa di corruzione nei confronti del politico di turno, la privazione della libertà è considerata una pena “dolce”. «La gente invoca spesso punizioni esemplari per i criminali, ma in pochi sanno quanto sia orribile la vita in galera», racconta Valentine, giovane procuratrice tra i protagonisti de Le Systeme, una serie di toccanti podcast consacrati al carcere trasmessi online dal sito slate.fr. Per evitare che i futuri magistrati vengano influenzati dalla vox populi o siano del tutto sconnessi dalla realtà, l’Ècole nationale de la magistrature prevede degli stage penitenziari obbligatori. Il corso dura quasi tre anni ma per una settimana gli allievi vivono all’interno di una prigione assieme alle guardie carcerarie, un’immersione che lascia il segno nei futuri magistrati e che sgombra la mente da pregiudizi e stereotipi sulla “comodità” delle carceri. «Vivere come un secondino per sette giorni e sette notti, dormire su una scomoda branda, consumare pasti immangiabili, osservare i detenuti ammassati nelle celle, passare il tempo negli spazi comuni è stata un’esperienza fondamentale, per poter capire il senso del mio mestiere. Ogni volta che chiediamo la reclusione per un imputato dobbiamo avere chiaro in mente il luogo dove vanno a finire i condannati, mentre vedo che il racconto sociale che si fa della prigione è del tutto distorto, si ha quasi l’impressione che si tratti di un villaggio turistico dove le persone dormono, mangiano e fanno sport», continua Valentine che, della sua esperienza, ricorda un aspetto che potrebbe erroneamente sembrare un dettaglio: «La cosa che mi ha colpito di più nella mio stage penitenziario è il rumore, onnipresente, continuo, alienante. In particolare il rumore metallico, quasi un clangore senza sosta di sbarre percosse, di porte che si aprono e chiudono, vivere anni in quel rumore sfibra lo spirito dei detenuti». Un’altra piccola, grande tortura è la luce che per 24 ore al giorno assedia i prigionieri. Come spiega Karim, un ex detenuto che ha deciso di collaborare alla serie di podcast del Systeme, «gli asciugamani sono un bene prezioso, l’unico oggetto autorizzato con cui tentiamo di tappare le finestre per non far penetrare la luce, avere qualche ora di buio è necessario per non diventare pazzi». Comprendere il significato e la portata delle proprie decisioni e uscire dalla torre d’avorio delle procure è un aspetto centrale del lavoro di magistrato e una condizione necessaria per avere, fuor di retorica, una giustizia né vendicativa, né accademica, ma “vicina alle persone”. E ogni allievo uscito dallo stage racconta quanto la sua visione dell’universo carcerario sia stata del tutto sconvolta. L’intreccio ferale tra isolamento e promiscuità, la violenza quotidiana, la solitudine e la rabbia, qualcosa che non puoi capire se non l’hai vissuta. E che, come spiega ancora Valentine, ti fa riflettere sul senso stesso della propria missione: «Qual è la giusta pena, quella che soddisfa la vittima, quella che soddisfa l’imputato o quella che fa brillare gli occhi ai tuoi superiori?».

I detenuti di Rebibbia denunciano presunti abusi dei magistrati di sorveglianza. Un centinaio di detenuti di Rebibbia ha sottoscritto una lettera inviata al presidente della Corte d’appello di Roma, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Csm e ai garanti per denunciare i continui rigetti alle richieste dei benefici. Damiano Aliprandi su Il Dubbio mercoledì 19 maggio 2021. Ci sarebbero stati continui rigetti alle richieste dei benefici, valutazione del differimento pena a distanza da diversi mesi dai primi contagi da Covid, nessuna concessione dei giorni di liberazione anticipata. Un centinaio di detenuti della casa di reclusione di Rebibbia ha sottoscritto una lettera inviata alla presidente della Corte d’appello di Roma, e per conoscenza alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Csm e i garanti. Una denuncia durissima nei confronti dei magistrati di sorveglianza. I detenuti di Rebibbia scrivono nero su bianco che quest’ultimi avrebbero disapplicato l’ordinamento penitenziario, interpretandolo «sempre nel senso più restrittivo – si legge nella missiva -, al limite dell’arbitrio come la mancata concessione dei benefici penitenziari, con le motivazioni più inverosimili e fantasiose possibili».

I detenuti hanno denunciato un clima di insofferenza. La denuncia, ricordiamo, è sottoscritta da un centinaio di detenuti di Rebibbia. La garante del comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, ha ricevuto la segnalazione dell’esistenza di questa lettera dai detenuti stessi, i quali hanno descritto un clima di insofferenza e di ribellione a ciò che secondo loro sono dei «soprusi e umiliazioni» da parte della magistratura di sorveglianza. Nella lettera inviata alle autorità, i detenuti parlano di ultraottantenni o quelli con patologie multiple, in attesa della ex 147 cp (il differimento pena), che sarebbe stata «valutata dopo moltissimi mesi, nonostante la presenza del Covid». La lettera prosegue denunciando l’impossibilità di ottenere un permesso «se non quando il familiare è già deceduto» e ci sarebbero stati numerosi casi «in cui anche far visita alla tomba dopo giorni dal decesso è stato negato». Dal tenore della lettera, si denota molta insofferenza. I detenuti denunciano che si sentono frustati «da un trattamento arbitrario e parziale dei Magistrati che concedono i benefici o pochi giorni dal fine pensa, che inventano ragioni inesistenti alla prova per tabulas di fatti e/o precedenti inverosimili o scuse fantasiose come i permessi premio negati». Aggiungono che diventano «inutili le osservazioni delle relazioni di sintesi redatte dall’equipe incaricata dell’istituto di reclusione, le quali non vengono minimamente apprezzate né valutate».

Per i detenuti i fatti denunciati sarebbero facilmente dimostrabili. I detenuti, rivolgendosi al presidente della Corte d’appello, tengono a specificare che tutti questi fatti sarebbero dimostrabili attraverso «le numerosissime richieste presentate e bocciate che rimangono nelle nostre mani e sono a vostra disposizione, perché siano valutate con equità ed equilibrio, cosa che oggi non è in atti, che l’arbitrio e l’abuso di potere che il Magistrato perpetra costantemente». Non solo. I detenuti aggiungono che l’azione dei magistrati, «svilisce anche il ruolo dei garanti dei detenuti, che nulla possono per i continui casi di prepotenza e iniquità nelle decisioni dei magistrati di sorveglianza». Per tutti questi motivi, i detenuti sono in attesa di un riscontro o di una richiesta di documentazione probatoria che a detta loro, si ripete e rimane a disposizione di chi «voglia assumersi delle responsabilità di fronte ai continui abusi e soprusi dei magistrati di sorveglianza», che a detta dei detenuti, sarebbero «dediti oramai al solo rincorrere di pregiudizi e intolleranza nei confronti di legittime richieste dei detenuti». Ribadiamo che quanto riportato è il contenuto della lettera inviata alle autorità, tra i quali la ministra della Giustizia Cartabia, il Csm e il presidente della Corte d’appello. Saranno loro, con strumenti adeguati, a vagliare la fondatezza di tale denuncia.

Quei bimbi galeotti da tirare fuori dalle carceri. Susanna Turco su L'Espresso il 13 aprile 2021. I figli delle “detenute con prole” vivono dietro le sbarre e sono l’esempio tragicamente perfetto di quanto un Paese che non guarda al futuro non lo faccia in alcun posto. A scuola come in galera, nei grandi numeri come nei piccoli. Lo racconta Annalisa Cuzzocrea in “Che fine hanno fatto i bambini”. Emir ha due anni, quando vuole uscire e non può urla («asi asi», che sta per assistente), quando ha la febbre alta prega. A due anni. Stefan è spaventato dal rumore dei lavori sulle scale ma impossibilitato ad andare altrove, per non sentirli: dice solo «umore, umore», piange. Stanno in carcere, indirettamente condannati dalla condanna delle loro madri, spesso portano dentro traumi che è anche difficile immaginare, corrispondono a una definizione paradossale, che parrebbe impossibile: «Bambini galeotti», li chiamano. Una sorta di peccato originale in versione di Stato, come se un bimbo di uno, due o tre anni potesse mai essere capace di beccarsi una condanna, eppure. Adesso sono 33 in Italia, esiguo il numero quanto pesante il simbolo, quintessenza al cubo dell’invisibilità dei bambini cui Annalisa Cuzzocrea ha dedicato il suo libro “Che fine hanno fatto i bambini” (Piemme), esempio tragicamente perfetto di come la mancanza di volontà politica possa impedire la risoluzione persino di questo. Perché un Paese che non guarda al futuro non lo fa in nessun posto: nelle scuole come nelle carceri, nei grandi numeri come nei piccoli. Non guarda, quindi, tanto più a loro, gli invisibili degli invisibili, i figli delle “detenute con prole”, costretti a vivere dietro le sbarre perché nel loro «preminente interesse di minori» c’è quello di stare vicino alle madri, almeno fino ai 3 anni, per poi - se non ci sono famiglie cui tornare - essere trasferiti negli Icam, Istituti a custodia attenuata, dove comunque la sera si chiude tutto da fuori, come in un carcere. La pandemia ne ha ridotto drasticamente il totale, più che dimezzato il numero medio, grazie a un maggior ricorso alle misure alternative, lasciando però intatto il problema. Che sarebbe, a differenza del solito, persino risolvibile. L’ex senatore e presidente dell’Associazione A buon diritto, Luigi Manconi, intervistato all’interno del libro, rivela infatti che «per risolvere interamente il problema basterebbero un milione e mezzo di euro con i quali costruire cinque case rifugio», oltre alle due che già ci sono, a Roma e a Milano. Non carceri, non Icam, situazioni comunque controllate, come prevede una legge del 2011. «Se il ministero della Giustizia volesse, in un anno il problema sarebbe risolto», spiega Manconi. Chissà se la Guardasigilli Marta Cartabia lo sa.

 (ANSA l'8 aprile 2021) - Le carceri italiane sono le più sovraffollate dell'Unione europea. È quanto indicano i dati contenuti nel rapporto del Consiglio d'Europa 'Space' che fotografa ogni anno la situazione dei sistemi penitenziari nei paesi membri dell'organizzazione paneuropea. Alla fine del gennaio 2020 in Italia c'erano 120 detenuti per ogni 100 posti, anche se il nostro Paese non è l'unico dell'Unione europea ad avere il problema delle carceri sovraffollate. Il record negativo spetta alla Turchia, con 127 carcerati per ogni 100 posti, e dove secondo i dati ci sono in media 11 detenuti per ogni cella, mentre in Italia questa media è del 1,9. A livello Ue nello stesso periodo in Belgio c'erano 117 detenuti per ogni 100 posti, in Francia e Cipro 116, in Ungheria e Romania 113, in Grecia e Slovenia 109. Secondo Marcelo Aebi, professore responsabile per il rapporto Space, se si osservano i trend della popolazione carceraria in Italia dal 2000, il Paese sembra avere due strade per risolvere la questione del sovraffollamento. La prima è "ridurre la durata delle pene", e la seconda è "di costruire più prigioni", anche perché, afferma Aebi, "le amnistie, come quella del 2006, non risolvono il problema".

Celle piene e niente spazio vitale: il vero fuorilegge è il carcere. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Aprile 2021. I dati ministeriali, aggiornati al primo aprile, parlano di 6.458 detenuti presenti nelle carceri della Campania a fronte di una capienza regolamentare di 6.085 posti. Ci sono quindi più di 300 detenuti più di quelli che le strutture penitenziarie possono ospitare, il che finisce per tradursi nella compressione di spazi e diritti. Perché sono inevitabili lo sbilanciamento e l’affaticamento del sistema. Eppure il 16 febbraio scorso le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione sono tornate a ribadire quale deve essere lo spazio minimo disponibile per ciascun detenuto, cioè lo spazio necessario affinché la pena non si trasformi in qualcosa di inumano e degradante. È una sentenza con cui si conferma che lo spazio minimo per ogni detenuto deve essere di tre metri quadrati al netto dello spazio occupato da mobili e strutture tendenzialmente fisse, inclusi i letti a castello e gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita. Una decisione in linea con quanto stabilì nel gennaio 2013 la cosiddetta sentenza Torreggiani, adottata dalla Corte europea per condannare l’Italia per la violazione della Convenzione europea dei diritti umani. Da allora sono trascorsi otto anni ma la realtà penitenziaria è ancora lontana dall’assicurare a ogni detenuto condizioni compatibili con il pieno rispetto della dignità umana. Fino a quando il carcere continuerà a non essere l’extrema ratio e i progetti per il rinnovo dell’edilizia penitenziaria continueranno a rimanere su carta, sarà difficile parlare di spazi adeguati per chi deve scontare una condanna in cella. Basti pensare alle carceri della Campania: nella maggior parte dei casi sorgono in edifici storici e vecchi, dove gli spazi non sono concepiti per la rieducazione, dove si arriva a stare in undici in una stanza (come a Pozzuoli) o anche in 13 (come a Poggioreale). «Un carcere sovraffollato si traduce in spazi ristretti e insalubri, nella mancanza di privacy, nella riduzione delle attività fuori cella, nel sovraccarico dei servizi di assistenza sanitaria – spiegano Marella Santangelo, responsabile del polo universitario penitenziario campano e componente della Commissione per l’architettura penitenziaria istituita a gennaio dal Ministero della Giustizia, e Clelia Iasevoli, docente di Diritto processuale penale all’università Federico II di Napoli- Questo porta spersonalizzazione, tensione crescente, violenza». A otto anni dalla sentenza Torreggiani può ritenersi una conquista il riconoscimento giuridico dello spazio vitale? «In un contesto di emergenzialismo si tende a giustificare una politica criminale proiettata al raggiungimento di risultati di tipo repressivo, oscurando l’opera del giudice delle leggi di disvelamento del volto costituzionale della pena», spiegano Santangelo e Iasevoli. «Nessuna pena può essere indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del soggetto che la subisce e nessuna pena che preveda la privazione della libertà personale può essere indifferente ai luoghi in cui le persone vengono rinchiuse. Lo spazio in carcere ha un ruolo determinante per la protezione della dignità personale dei reclusi». Domani le due docenti inaugureranno un seminario interdipartimentale («Spazi, diritti e cambiamento culturale») con interventi di magistrati, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria e la lectio magistralis del giudice della Corte Costituzionale Nicolò Zanon: un’iniziativa innovativa che ha l’obiettivo di affrontare le tematiche del mondo penitenziario da una prospettiva che consenta di coniugare spazi e diritti. «Significa – precisano Iasevoli e Santangelo – porre le premesse per il cambiamento culturale che parte dallo spazio vitale, perseguendo l’obiettivo del riconoscimento degli spazi necessari all’azione trasformativa del trattamento individualizzante. Da qui il ruolo fondamentale dell’architettura penitenziaria, che va oltre le misure e lo spazio minimo pro capite, che con il progetto può sperimentare la configurazione dello spazio della pena, per uscire dalla concezione del contenitore e immaginare spazi e articolazioni che tengano al centro l’uomo recluso, i suoi bisogni e la sua dignità».

Carcere e diritto alla salute. Giudice infiltrato nell’ex Opg di Aversa, “Vi racconto il dramma dei pazienti psichici in cella”. Nicola Graziano de Il Riformista il 23 Settembre 2021. Ancora sento rimbombare nella mia anima e nel mio stomaco il suono del carcere, che è un misto di silenzio e ossessione, e non mi abbandona l’odore delle celle e il colore verde chiaro che hanno accompagnato i miei giorni di reclusione volontaria e in incognito nell’ospedale psichiatrico-giudiziario di Aversa. Questa sensazione è riemersa durante la lettura dell’articolo di Viviana Lanza apparso ieri sulle pagine di questo stesso quotidiano e che presenta una radiografia in chiaroscuro dei reparti carcerari in cui sono reclusi i malati di mente che, evidentemente, non sono destinati alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. È un elenco grave che denuncia la esiguità dei reparti e soprattutto degli esperti che possono affiancare i detenuti psicotici durante la permanenza in carcere. Ebbene sono passati alcuni anni dalla chiusura definitiva degli opg e molti detenuti sono tornati in carcere in quanto oramai a loro non è più applicabile l’articolo 148 del codice penale per il passaggio in opg e il tema della psichiatria e carcere ha avuto, anche per questo ma non solo, un nuovo vigore. Mi rimetto ai dati gravi già elencati dal garante dei detenuti della Campania e la mia riflessione chiede di andare oltre per indicare una soluzione possibile. L’esperienza mi detta alcuni punti fermi. Che non si immagini nemmeno minimamente di ripensare ai manicomi giudiziari come un rigurgito nostalgico che sacrificherebbe, ancora una volta e come in passato, sull’altare del pregiudizio e dello stigma, una scelta di civiltà giuridica che ha caratterizzato il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, nonostante possa essere ritenuto non ancora del tutto perfetto il sistema delle Rems. Detto ciò, non si può non denunciare il rischio che nelle carceri si possano creare dei mini-manicomi con riferimento alle articolazioni per la salute mentale. E allora il tema centrale è la malattia mentale, la dignità del malato psichiatrico che si trova recluso. Io credo che su questo bisogna investire perché ancora una volta è questo il tema su cui si misura la civiltà di uno Stato democratico, ma soprattutto la sensibilità di un popolo davanti alla diversità. Va ripensato allora il sistema carcerario e l’applicazione delle misure detentive nel caso di infermi di mente. Sul punto mi piace richiamare la definizione contenuta nella proposta di legge a firma del deputato Riccardo Magi che individua, in questo caso, uno stato di salute denominato “condizione delle persone con disabilità psicosociale” sottolineando come, nella nostra società, essa costituisca una condizione di svantaggio, così proponendosi un’attenuazione della gravità delle condotte criminose commesse da queste persone perché di minore disvalore sociale. Questo implica una valutazione chiara ed evidente relativa alla necessità di una revisione della risposta sanzionatoria. Bisogna prevedere misure alternative al carcere come stabilito per altre malattie e – questo è il tema sul quale oggi soffermarsi – se ciò non è possibile bisogna evitare che in concreto le articolazioni per la salute mentale possano perdere di vista il bisogno di cura del malato come obiettivo centrale. Purtroppo ciò non accadeva negli opg perché il carcere era sentito come punizione ingiusta e isolamento posto in essere dalla società civile, col risultato che così si creava una distanza irreparabile che si sentiva sulla pelle, nonostante qualsiasi sforzo di integrazione che pure si attuava. Troppo grave era sentirsi socialmente pericoloso. Nel ripensare alla mia permanenza, credo sia fondamentale immaginare che la cura di questi detenuti “speciali” debba essere garantita dalla presenza del dipartimento della salute mentale in ogni istituto penitenziario e che si debba mettere al centro di ogni considerazione l’uomo con la sua debolezza e i suoi pensieri. Chiudo raccontandovi un breve episodio. Mio involontario compagno di cella nell’ospedale psichiatrico-giudiziario di Aversa era un giovane che, in preda a un raptus, volendo uccidere un adulto, colpì involontariamente la propria figlia che giaceva dormendo nel carrozzino. La colpì al centro della fronte tra i due suoi occhi azzurri facendola sprofondare in un coma poi durato alcuni anni e terminato con la morte. Mi disse piangendo: «Sono stato condannato per omicidio volontario da un giudice che non si è mai chiesto come sia possibile che un padre uccida volontariamente una figlia di pochi mesi. È questa la giustizia? È questa la pena che devo scontare? In questo posto?» All’epoca non seppi rispondere, ma rivolgo questa domanda a chi dovrà necessariamente occuparsi del tema della psichiatria e del carcere affinché rifletta su certe parole che ancora oggi pesano come macigni sulla coscienza di una società che ambisce a definirsi civile. Nicola Graziano

Dovevano essere istituiti dal 1975: che fine hanno fatto i Cas? Interrogazione di Giachetti alla ministra Cartabia, firmata da deputati di tutti i gruppi, tranne i 5 Stelle, per chiedere della mancata costituzione dei Consigli di aiuto sociale. L’unico a Palermo da ottobre. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 ottobre 2021. Fin dal 1975, quando furono varate le norme sull’ordinamento penitenziario, non sono mai stati costituiti i Consigli di aiuto sociale (Cas) che hanno la finalità istituzionale di assistere i detenuti, in particolar modo quelli che finiscono di scontare la pena, aiutandoli a risolvere i problemi familiari. Per la prima volta, dopo aver ascoltato l’intervista su Radio Radicale di Rita Bernardini e dell’avvocato Giuseppe Rossodivita sull’argomento, il neopresidente del Tribunale palermitano Antonio Balsamo (il già presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta che acclarò il depistaggio di Via D’Amelio con la sentenza di primo grado del Borsellino Quater) ha costituito il primo Cas d’Italia a Palermo.

L’istituzione dei Cas è previsto dall’ordinamento penitenziario

Come detto, parliamo dell’unico ente in tutta Italia nonostante sia contemplato – fin dal 1975 – nell’articolo 75 delle norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Proprio per questo motivo, il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva ha depositato una interrogazione parlamentare rivolta alla ministra della Giustizia, per chiedere contezza della mancata costituzione dei Cas.

L’interrogazione di Giachetti firmata da tutti tranne che dai 5Stelle

L’interrogazione è firmata da deputati di tutti i gruppi parlamentari tranne i 5 stelle (Giachetti, Italia Viva – Verini, Pd – Costa, Azione – Basini, Lega – D’Ettore, Coraggio Italia – Mollicone, Fratelli d’Italia – Magi, +Europa – Fratoianni, Liberi e Uguali – Colletti, L’Alternativa c’è – Palazzotto, Liberi e Uguali – Siracusano, Forza Italia) e dà notizia della costituzione del primo Cas a Palermo per volontà, ribadiamolo ancora una volta, del Presidente del tribunale Antonio Balsamo. Nell’interrogazione parlamentare si premette che diversi articoli della legge sull’ordinamento penitenziario, fanno tutti riferimento alla costituzione – presso il capoluogo di ciascun circondario – dei “Consigli di aiuto sociale” ai quali sono affidati una serie di importanti compiti relativi all’assistenza penitenziaria e post – penitenziaria. «Ad avviso dell’interrogante – si legge nell’interrogazione appena depositata – questi enti , dotati di personalità giuridica e sottoposti alla vigilanza del ministero della giustizia, sono fondamentali per corrispondere al dettato costituzionale di cui all’articolo 27 e relativo all’inserimento sociale delle persone detenute e per far fronte al soccorso e all’assistenza delle vittime del delitto».

Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita ne avevano parlato nel 2019 a Rario Radicale

Sempre nell’interrogazione, si evoca l’intervista rilasciata a Radio Radicale del 19 marzo 2019 dell’ex deputata Rita Bernardini e dal presidente della commissione giustizia del Partito Radicale, Giuseppe Rossodivita. I due esponenti radicali hanno lamentato la mancata costituzione e attivazione dei Cas, denunciando l’abrogazione, di fatto, di una parte fondamentale dell’ordinamento penitenziario vigente, «così importante – sottolinea il deputato Giachetti – anche per combattere il fenomeno della recidiva». Dell’argomento si è più volte discusso sul programma Radio Carcere, condotto da Riccardo Arena e con ospite fisso Rita Bernardini.Ecco perché, nell’interrogazione rivolta alla ministra Marta Cartabia, viene chiesto se corrisponde al vero che l’ente promosso su iniziativa del presidente del tribunale Balsamo. Ancora più approfonditamente, alla guardasigilli viene chiesto: «Quale sia la situazione a livello nazionale in merito alla costituzione dei Consigli di aiuto sociale; da quali organismi o enti siano state svolte negli ultimi 5 anni le funzioni attribuite dall’articolo 75 dell’ordinamento penitenziario ai consigli di aiuti sociale» e per finire «quali iniziative di competenza intenda adottare per promuovere urgentemente la costituzione o se intenda adottare iniziative normative per apportare modifiche alla disciplina vigente e attribuire le imprescindibili finalità di altri enti o organismi». Rita Bernardini del Partito Radicale tiene molto a questa interrogazione. Spiega a Il Dubbio i motivi: «Riguarda la mancata costituzione (dal 1975!) dei Consigli di Aiuto Sociale che hanno la finalità istituzionale di assistere i detenuti. In particolar modo i liberandi aiutandoli a risolvere i problemi familiari e, soprattutto, a trovare un lavoro una volta scarcerati. Insomma, parliamo di reinserimento sociale di cui nessuno si occupa veramente».

I detenuti con problemi psichiatrici sono dimenticati nelle case-prigioni. Cancellati i vecchi manicomi giudiziari, le nuove strutture sono ancora inadeguate. Pensate per i casi più gravi, non bastano a soddisfare le richieste. Mancano luoghi di cura alternativi e nelle carceri crescono le liste d’attesa. Marialaura Iazzetti su L'Espresso il 13 ottobre 2021. Gli occhi di Marco sembrano parlare. Con lo sguardo racconta della sua sofferenza, della sua incertezza. Vivere in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) vuol dire vivere senza prospettive. Avverti consapevolmente di portare con te uno stigma: hai infranto la legge e sei un paziente psichiatrico, te l’ha detto il perito quando ti ha visitato, un giudice l’ha confermato in tribunale. Anche chi ti conosce inizia a chiamarti «pazzo», spesso ha paura. In Italia esistono 31 Rems: strutture nate per accogliere persone che, dopo aver commesso un reato, sono considerate incapaci di intendere e di volere, e socialmente pericolose. Secondo l’ultima relazione del Garante nazionale dei detenuti, in Italia in queste realtà sono accolti 577 ospiti. Le Rems nascono nel 2014, dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Il mondo della politica era sconvolto dalle immagini che nel 2010 la Commissione d’inchiesta, presieduta dall’ex senatore Ignazio Marino, aveva acquisito sulla vita all’interno degli Opg. Le condizioni degli edifici erano disastrose. Guardando i video girati all’epoca dai parlamentari, rimane impressa l’immagine di un uomo che, urlando da dietro a una porta, chiedeva «dove fosse finita l’Italia» e per quale motivo «l’avessero chiuso là dentro». L’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlò di «estremo orrore», dopo aver visto quelle immagini. Il governo decise di sopprimere gli Opg e di creare strutture che avessero come fine principale quello della riabilitazione. Doveva essere risolta l’ambiguità degli ospedali psichiatrici: per metà luoghi di cura e per metà luoghi di detenzione. L’obiettivo delle Rems era seguire le indicazioni della legge Basaglia, che nel 1978 aveva sancito la chiusura dei manicomi civili introducendo la cultura della malattia mentale come malattia sociale. Per dimenticare gli orrori degli Opg, il governo presieduto da Matteo Renzi decise nel 2014 di creare strutture più piccole, con al massimo 20 posti, diffuse sul territorio e gestite esclusivamente dal personale sanitario. Per Franco Corleone, che nel 2016 era stato incaricato dal governo di vigilare sul definitivo superamento dei manicomi criminali e che ora si occupa di coordinare i Garanti territoriali dei detenuti, le Rems sono «un primo passo fondamentale». Corleone parla di «rivoluzione gentile». Persistono, però, delle criticità. La legge del 2014 sancì il principio dell’extrema ratio: ancora oggi il ricorso alle misure di sicurezza, e quindi alle Rems, deve avvenire esclusivamente per quei pazienti per cui si considera inadeguata ogni altra soluzione meno restrittiva, come la libertà vigilata in una comunità protetta o in un domicilio. Ma spesso ciò non accade. La maggior parte delle persone considerate incapaci di intendere e di volere vengono ricoverate nelle Rems. Non esistono molti progetti alternativi. «Il problema è che i giudici non hanno a disposizione una mappa dei luoghi di cura intermedi che possano sostituire la permanenza nelle Rems», spiega Gianfranco Rovellini, direttore della Rems veneta di Nogara, in provincia di Verona. Forse anche per questo motivo le strutture sono sempre al completo e le liste di attesa non spariscono. Non è facile capire quante persone attendano effettivamente che si liberi un posto nelle Rems per potervi accedere. Al 30 novembre 2020, il Sistema di monitoraggio per il superamento degli Opg segnalava 175 persone in lista d’attesa (di cui il 31 per cento in carcere); i numeri però potrebbero essere più elevati: il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà parla di 714 persone in attesa di ricovero. «Il problema è che il 38 per cento dei posti letto è occupato da pazienti che stanno scontando una misura provvisoria (aspettano ancora quindi una decisione definitiva da parte di un giudice, ndr)», chiarisce Corleone contestando i dati. La questione delle liste di attesa è arrivata anche all’attenzione della Corte costituzionale. A richiedere l’intervento della Consulta è stato il Tribunale di Tivoli, sottoponendo ai magistrati il caso di un uomo dichiarato incapace di intendere e volere al momento del reato: avrebbe dovuto essere ricoverato in una Rems, ma è finito in carcere perché non ha trovato posto. Il tribunale di Tivoli chiedeva alla Consulta di pronunciarsi sulla costituzionalità di due elementi essenziali nell’organizzazione delle Rems: la gestione sanitaria delle strutture, che lascia in disparte il ministero della Giustizia, e il limite di capienza. Il 24 giugno la Corte costituzionale ha deciso di rinviare di 90 giorni la decisione, chiedendo dati precisi sul funzionamento delle Rems. «Bisognerebbe interrogarsi sul perché esistono così tante persone in lista d’attesa. Siamo sicuri che il principio di extrema ratio venga applicato?». Stefano Pellizzardi, direttore della Rems di Castiglione dello Stivere (in provincia di Mantova), si pone queste domande di continuo. Dal suo ufficio si vede il giardino che circonda e collega le sei unità abitative della struttura. La Rems di Castiglione dello Stivere è la più grande di Italia: divisa in diversi edifici, può ospitare 160 persone (di cui 20 donne). Le prime cinque unità accolgono 20 pazienti ciascuna, come prescrive la legge. L’ultima, la più grande, 60. Da anni, la Regione ha attivato un progetto di riorganizzazione della struttura per far in modo che siano rispettate le indicazioni legislative sulla capienza. I lavori, però, non sono ancora iniziati. «Al tempo l’amministrazione regionale scelse di non costruire una nuova realtà, ma di riorganizzare quella dell’Opg», spiega Pellizzardi. Una decisione che secondo Corleone non rispetta quanto stabilito nel 2014 e rischia di riportare alla luce «logiche contenitive». Tuttavia, nonostante le difficoltà, in questi anni a Castiglione dello Stivere è stato garantito un buon turnover: su 160 pazienti sono stati dimessi in media 70 ospiti all’anno. «Per dimetterli dobbiamo trovare un percorso territoriale terapeutico e di riabilitazione a cui assegnarli», racconta Noemi Panni, coordinatrice e responsabile dell’Area sociale della Rems di Castiglione. Individuare progetti di reinserimento e cura non è semplice: spesso queste persone non hanno nessuno che possa accoglierli o aiutarli. Vorrebbero riprendere in mano la loro vita, iniziare a lavorare, ma si sentono tremendamente soli. Secondo quanto stabilito nel 2014, le Rems devono avere un carattere di transitorietà: essere una delle tappe del percorso riabilitativo. I pazienti non possono essere ospitati nelle strutture per un numero di anni superiori al massimo della pena prevista per il reato commesso. L’intento è garantirgli la possibilità di uscire quanto prima. Chi non è più considerato socialmente pericoloso deve essere dimesso e preso in carico dai Dipartimenti di salute mentale, strutture territoriali per la cura e l’assistenza che sono però poco sviluppate ed efficaci. Si fatica a trovare un percorso alternativo e proprio questa difficoltà sta rendendo più lunga la permanenza nelle Rems. Secondo quanto riportato dall’associazione Antigone, che si occupa di diritti nelle carceri, al 30 novembre 2020 la durata media del ricovero è di 236 giorni, nel 2017 era di 206. «Senza un progetto di cura, il giudice non può permettere le dimissione dell’ospite», aggiunge Panni. Al paziente viene prorogata la misura di sicurezza: rimane dov’è, sperando che prima o poi qualcosa possa cambiare. Queste dinamiche accadono in particolare con i casi più complessi. «Uno dei punti da tenere in considerazione è la trasformazione dei pazienti: prima erano persone di una certa età con fragilità croniche, ora abbiamo molti ragazzi con problemi di tossicodipendenza piuttosto impegnativi da gestire e diversi stranieri senza fissa dimora che sono qui per aver commesso reati, come la resistenza a pubblico ufficiale», evidenzia Pelizzardi. Secondo il direttore di Castiglione dello Stivere, dover trattare pazienti così differenti non aiuta. Nelle residenze ormai arrivano sempre più persone con profili delinquenziali marcati o soggetti che non hanno problemi psichiatrici evidenti e potrebbero essere destinati ad altre realtà. Pellizzardi indica un ragazzo che sta passeggiando nel giardino. «Lui viene dal Gambia, è arrivato in Italia dopo aver trascorso diversi mesi in Libia. È stato mandato a Castiglione per resistenza a pubblico ufficiale. Quando l’abbiamo accolto soffriva di stress post traumatico. Ora sta bene, ma è ancora qui con noi». Dimettere gli stranieri è una delle pratiche più complesse. La difficoltà di individuare percorsi alternativi si sovrappone alle complicazioni legislative. «Devi, in primis, ricostruire la loro storia e poi cercare di regolarizzare la loro posizione. Spesso queste persone non hanno più il permesso di soggiorno o stanno ancora attendendo una risposta per la richiesta di asilo», spiega la coordinatrice Panni. La normativa in materia di immigrazione è molto complessa e richiede una forte collaborazione con le questure. Una strada percorribile è concordare con gli ospiti dei rimpatri volontari e prendere contatti con le ambasciate dei Paesi d’origine. Altre volte ci si affida al mondo del volontariato. A Castiglione adesso ci sono 35 stranieri su 160 ospiti. Pellizzardi continua a chiedersi se non ci sia un luogo più adatto che dia la possibilità a queste persone di scontare la propria pena e, allo stesso tempo, di essere aiutate. Un primo passo potrebbe essere quello di sviluppare le articolazioni che all’interno delle carceri sono state costruite per occuparsi dei detenuti con fragilità mentali. Dovrebbero essere luoghi di cura in cui viene garantita un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo. Ma anche in queste sezioni, come spesso accade nei reparti ordinari delle carceri italiane, prende il sopravvento la logica punitiva. «Questi reparti dovrebbero diventare strutture a carattere sanitario in cui la polizia penitenziaria viene fatta entrare su volontà dei sanitari stessi», ipotizza Rovellini. Qui potrebbero essere accolti i detenuti che attendono di entrare nelle Rems, quelli che presentano fragilità mentali meno complesse e chi ha profili delinquenziali più marcati. «In Italia abbiamo solo 34 articolazioni di salute mentale, che ospitano 200 pazienti, ma davvero pensiamo che i detenuti con fragilità psichiche siano così pochi?», denuncia Rovellini. Per migliorare il sistema delle Rems e far in modo che sia davvero un’extrema ratio, si potrebbe iniziare da qui. La decisione della Corte Costituzionale di arrivare a una sentenza dopo un ulteriore approfondimento dovrebbe aprire un dibattito sulla realtà di queste strutture e sugli aspetti da migliorare. Pellizzardi non sa cosa succederà. Rimane fondamentale continuare a reinventarsi. A breve a Castiglione dello Stivere aprirà anche un servizio di etnopsichiatria.

Viaggio in mondo invisibile, un libro sulla questione psichiatrica in cella. “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” di Luca Sterchele, ricercatore di Sociologia all’Università degli Studi di Padova. Il Dubbio il 21 novembre 2021. Francesco D’Errico, presidente dell’Associazione Extrema Ratio. Il carcere è un luogo chiuso, buio, serrato, inaccessibile e sconosciuto ai più, spinto ai margini delle città, situato lontano dal circuito della cosiddetta normalità, isolato e tenuto a debita distanza dalla comunità. Tra le sue mura si può misurare l’irriducibile distanza tra la previsione formale delle garanzie individuali tutelate dalla Costituzione e la materialità dei corpi quotidianamente incisi dalla reclusione, uno iato che emerge chiaramente ne “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” (Meltemi, 2021) di Luca Sterchele, ricercatore di Sociologia all’Università degli Studi di Padova. Con questa poderosa pubblicazione, servendosi di un metodo di ricerca spiccatamente etnografico, arricchito da una solida analisi teorica, Sterchele ha infatti affrontato il complesso tema della “questione psichiatrica” in carcere, provando anche ad evidenziare l’infondatezza di alcune radicate convinzioni che la riguardano. Il carcere è davvero diventato un “nuovo manicomio” a seguito della chiusura degli OPG? C’è un nesso causale tra la loro abolizione e la diffusione del malessere psichico tra la popolazione detenuta? Secondo l’autore tale retorica è fragile: “appare scivolosa e problematica” e “miope nelle sue articolazioni a prima vista lineari”, oltre ad essere in definitiva dannosa per diverse ragioni. Non consente, innanzitutto, di interrogarsi sul “ruolo del progressivo indebolimento dei servizi di salute mentale e di welfare nell’ostacolare la completa attuazione dei principi contenuti nelle riforme”, individuando, al contrario, nei movimenti abolizionisti il bersaglio da colpire. Vedendo nello svuotamento degli OPG la principale causa del disagio psichico nel penitenziario, inoltre, non si riesce “a dar conto degli effetti disabilizzanti dell’istituzione carceraria stessa, che resta un dispositivo che agisce in via prioritaria sul corpo recluso producendo continuamente sofferenza e incapacitazione”. D’altronde la correlazione non implica la causalità, soprattutto in un’area come quella che interessa la salute mentale e il carcere, così complessa e intricata, rappresentabile come un crocevia di discipline e intersezione di opposte esigenze e relazioni. In tal senso dalla ricerca emerge chiaro un aspetto: nonostante il trasferimento, nel 2008, delle competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria dal Ministero della Giustizia al SSN, si registra ancora uno sbilanciamento a favore della logica del controllo rispetto a quella sanitaria, in un contesto che “pur essendo spesso orientato in un’ottica di collaborazione, comporta il mantenimento di una certa attenzione da parte del gruppo dotato di minor potere – appunto l’area sanitaria che potrebbe vedersi ostacolato nell’espletamento della sua mission istituzionale”. Sullo sfondo si staglia nitida la carenza strutturale di risorse da cui ha origine, tra le altre cose, una “mancanza di attività lavorative – o anche solo ludiche che determina uno stato di noia costante”, il quale a sua volta favorisce l’emersione di stati ansiosi nella popolazione detenuta. È anche per questo che gli psicofarmaci dilagano: “il carrello dei farmaci ha poche cose sopra, quelle che si usano più di frequente: una scatola di guanti usa e getta, due o tre disinfettanti, un termometro auricolare e una boccetta di valium”.

Nelle conclusioni il sociologo non tentenna: il carcere andrebbe abolito. Pur riconoscendo le nobili intenzioni dell’approccio riformista, sia in chiave di umanizzazione che in termini sanitari, Sterchele ricorda che il penitenziario negli anni ha riprodotto e conservato i suoi mali, facendo prevalere su tutto la propria natura repressiva, patologica e marginalizzante. Nella ricerca di alternative future, per non incorrere in pie illusioni, è bene tenere a mente il vero obiettivo: mettere in discussione la carceralità come dispositivo e non disfarsi soltanto del carcere come istituzione.

Ma ai detenuti servono cure. Finalmente chiude il Sestante, il reparto degli orrori del carcere di Torino. Alessio Scandurra su Il Riformista il 26 Novembre 2021. Chiude finalmente il Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica (il nome corretto è Articolazione per la salute mentale), del carcere Le Vallette di Torino. Chiude perché obsoleto, fatiscente, del tutto inadeguato per svolgere quelle attività di osservazione e cura a cui era destinato. Talmente inadeguato che la Procura di Torino, che fino a ieri mandava lì le persone, adesso ha aperto un’indagine per maltrattamenti a danno delle persone lì detenute. Il Sestante dunque chiude adesso, eppure questa situazione era nota da tempo. Antigone, a cui si deve l’ultima denuncia che ha riaperto il caso, pubblicata da Susanna Marietti subito dopo la nostra ultima visita, segnalava questa la situazione da anni. Denunciavamo le condizioni generali del reparto e quanto accaduto in casi individuali, come quello di M., un giovane che sarebbe stato detenuto per mesi al Sestante, un reparto dove si dovrebbe restare per un massimo di 30 giorni, e che sarebbe stato rinchiuso per giorni in una cella “liscia”, priva di tutto, in cui tra l’altro sarebbe stato lasciato senz’acqua e si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del W.C.. Anche il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà denunciava da tempo le condizioni del Sestante, ed in particolare della cella “liscia”, eppure solo adesso il reparto viene finalmente chiuso per essere ristrutturato e le persone che ci stavano vengono finalmente spostate altrove. Ma come è stato possibile tutto questo? Come è potuta una simile vergogna andare avanti per anni sotto gli occhi di tutti? Andiamo per ordine. Le articolazioni per la salute mentale, previste dal regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, sono i luoghi in cui si dovrebbe anzitutto accertare l’esistenza o meno di patologie psichiatriche. Un imputato o un detenuto potrebbero simulare la patologia per evitare la pena o accedere ad alternative alla detenzione, e a questo scopo erano stati istituiti questi reparti, che si chiamavano appunto di osservazione psichiatrica. Basta entrarci una volta per rendersi conto però che il problema in quei luoghi non è certo la simulazione. Si tratta infatti di spazi per lo più dedicati alla gestione della fase acuta della patologia psichiatrica, fase in cui il paziente è di più difficile gestione, a rischio di aggressività e autolesionismo. In questi luoghi le persone vengono contenute, compensate, e successivamente rimandate da dove vengono, perché la fase acuta è passata e non si avviano percorsi di cura, o indirizzate verso percorsi terapeutici che si svolgeranno altrove. In ogni caso dunque luoghi dove si dovrebbe sostare per un breve periodo, al massimo per 30 giorni, ma dove le persone spesso sono detenute assai più a lungo, in un contesto esclusivamente contenitivo, del tutto inadatto alla cura, ma dal quale senza cure non è facile uscire. E non sono pochi i reparti come il Sestante in Italia. Certo più piccoli, spesso in condizioni materiali migliori, ma tutti rischiano di svolgere la stessa funzione. Il luogo per contenere le forme più acute del disagio mentale. Non un luogo di cura, ma di alternativa alla cura. Perché, e questo è un punto fondamentale, in carcere la presenza del disagio psichico non ha paragoni rispetto al fuori. Secondo i nostri dati più recenti, relativi alle 85 visite che abbiamo fatto da settembre 2020 ad oggi, il 39,6% dei detenuti è in terapia psichiatrica. A fronte di questo dato esorbitante, sempre dalle nostre rilevazioni, risulta che in media, per ogni 100 detenuti, ci sono in tutto solo 8,1 ore ore di presenza settimanale degli psichiatri. Credo che questi numeri parlino da soli. Il disagio, e la domanda di cura, sono enormi, le risorse per la cura del tutto inadeguate e, in quella comunità “compressa” e difficile che è il carcere, questo si traduce subito in problemi di ordine e sicurezza. Problemi che reparti come il Sestante sono chiamati a risolvere. Perché, se il Sestante era l’alternativa alla cura, la cura è l’alternativa al Sestante. Alessio Scandurra

Carcere di Torino, la Procura indaga sulla sezione psichiatrica. Il Corriere della Sera il 22 novembre 2021. La Procura di Torino ha aperto un fascicolo contro ignoti per maltrattamenti sui detenuti della sezione psichiatrica Sestante del carcere di Torino. L’inchiesta arriva dopo la lettera-denuncia dei giorni scorsi del presidente nazionale dell’associazione Antigone, Susanna Marietti, che aveva visitato la sezione definendola un «luogo vergognoso in cui si rinuncia a vite umane come se valessero niente».

Sestante, la sezione degli orrori del carcere di Torino che ricorda gli Opg. La relazione di Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, dopo una visita al reparto in cui sono tenuti i detenuti con problemi psichiatrici descrive una situazione di degrado incredibile. Damiano Aliprandi  su Il Dubbio il 23 novembre 2021. Chi viene tenuto al buio in cella, chi non riesce a scaricare le feci da quattro giorni a causa della turca guasta, in un’altra cella c’è un giovane ragazzo che fa fatica ad articolare i suoni perché imbottito di psicofarmaci. Un ragazzo di 25 anni chiede aiuto in lacrime, perché non sa per quale motivo fosse recluso. Poi si è appurato che era in attesa che si liberasse un posto nella residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems).

La drammatica relazione su Sestante di Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone

Scene da terzo mondo, ma siamo in Italia. Precisamente la sezione del carcere di Torino che funge da articolazione psichiatrica. A descrivere questo inferno è Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, dopo che ha appena visitato la sezione della casa circondariale Lorusso e Cutugno in cui sono tenuti i detenuti con problemi psichiatrici. «Al Sestante – ha scritto Marietti- si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio».

“Da quattro giorni il bagno alla turca era guasto”

Oltre alla condizione della struttura, la situazione drammatica è quella del trattamento dei detenuti: «Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio – ha denunciato la coordinatrice di Antigone – Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo».

Il Garante nazionale ha segnalato questa situazione da 5 anni

Un inferno, in realtà, già denunciato da tempo. Ma tutto è rimasto come prima. La prima segnalazione alle autorità competenti è giunta tramite la raccomandazione del Garante nazionale delle persone private della libertà formulata il 29 novembre 2016. Ma nulla da fare. Arriva l’ennesima segnalazione nel 2017, questa volta da parte di Emilia Rossi, componente del collegio del garante nazionale. Ha effettuato una visita al reparto psichiatrico del carcere torinese assieme a Bruno Mellano, Garante Regionale del Piemonte, e della Garante del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo. Durante la visita, la delegazione guidata da Emilia Rossi, ha riscontrato nel Reparto Osservazione che le camere si presentano in condizioni strutturali e igieniche molto scadenti, sporcizia diffusa, prive di doccia e servizi igienici a vista.

Il reparto Il Sestante viene Istituito dalla Asl To 2 Nord, attraverso il Dipartimento sanitario mentale “Giulio Maccacaro”, collocato nel padiglione A. E’ suddiviso in due articolazioni: la Sezione VII che ospita il reparto osservazione, a cui sono destinate persone sottoposte ad osservazione ex art. 112 o pazienti provenienti anche da altri istituti e persone in fase acuta o sub – acuta che richiedono assistenza temporanea non terapica, e la Sezione VIII in cui è stato costituito il reparto trattamentale, destinato ad accogliere persone sofferenti di patologia psichica accertata, anche provenienti dalla settima sezione, ed ove si realizzano percorsi di adattamento alla detenzione ordinaria.

Un detenuto era costretto a bere dallo scarico del wc

Ma nonostante la segnalazione da parte del Garante Nazionale fatta nel 2018, la situazione è rimasta invariata, se non peggiorata visto la descrizione infernale da parte dell’associazione Antigone che vi ha fatto visita di recente. Ma tale sezione è salita recentemente agli onori della cronaca grazie al rapporto di Antigone stesso. La vicenda viene narrata da un familiare che si rivolge all’avvocato Elia De Caro, il Difensore Civico di Antigone. Un caso riportato da Il Dubbio. Un ragazzo avrebbe tentato il suicidio, per questo sarebbe stato trasferito in una cella liscia, denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. Per quest’ultimo motivo, si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del wc. La sua situazione peggiora, si agita, e la prassi sarebbe stata quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedarlo. Parliamo di M., un detenuto di 24 anni che espiava la pena presso il famigerato Il Sestante della Casa Circondariale di Torino.

Nel 2019 un suicidio: con il cappio al collo per dodici interminabili minuti

Nel 2019, sempre nella medesima sezione, è avvenuto un suicidio. Si chiamava Roberto Del Gaudio e doveva essere controllato a vista. È rimasto fermo immobile, con il cappio intorno al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta dodici interminabili minuti, prima che nella cella entri un primo agente della polizia penitenziaria e si renda conto di che cosa è accaduto mentre chi doveva sorvegliare era distratto altrove. La procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio dei tre agenti che erano in servizio quella sera nella settima sezione del reparto psichiatrico Sestante. Sempre la stessa sezione degli orrori.

Il Garante già nel 2016 segnalò la condizione del Sestante. Fin dal novembre 2016 il Garante nazionale ha messo a conoscenza del ministero della Giustizia la situazione del Sestante chiedendo di intervenire. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 novembre 2021. La sezione psichiatrica degli orrori Il Sestante del carcere di Torino è stata, come ribadito nella stessa pagina de Il Dubbio, già messa a conoscenza del ministero della Giustizia fin dal novembre 2016 dal Garante nazionale delle persone private della libertà. A distanza di sei mesi, la componente del Collegio del Garante Emilia Rossi, ha effettuato una visita per vedere se le raccomandazioni hanno dato i loro frutti. Ma nulla da fare. A quel punto, con l’ennesima raccomandazione alle autorità del maggio 2017, il Garante Nazionale ha scritto senza mezzi termini: «La loro ristrutturazione e il ripristino di condizioni di manutenzione che assicurino almeno l’igiene e il decoro si rendono improcrastinabili». Pertanto, Il Garante ha raccomandato alle autorità di provvedere con urgenza ai lavori di ristrutturazione delle stanze di pernottamento prevedendo, oltre al resto, l’eliminazione dei servizi igienici a vista; predisporre, nell’immediato, interventi di risanamento di tutti gli ambienti che mettano fine alle costanti infiltrazioni d’acqua nel soffitto e sulle pareti e alla diffusione della muffa; provvedere alla costante manutenzione delle stanze di pernottamento e al quotidiano mantenimento della pulizia e dell’igiene al loro interno, anche a prescindere dalla collaborazione dell’ospite; provvedere immediatamente alla sostituzione dei materassi scaduti o in condizioni di cattiva manutenzione. Nella medesima raccomandazione di quattro anni fa, il Garante ha evidenziato con serio disappunto la constatazione che a distanza di oltre sei mesi dalla precedente segnalazione e malgrado l’attivazione del Dipartimento e della Direzione Generale detenuti e trattamento, la situazione sia rimasta invariata e sia stata riscontrata la mancanza di lenzuola in 4 delle 16 stanze occupate. Per tale ragione, il Garante nazionale ha ribadito la raccomandazione formulata con rapporto 29 novembre 2016 e, conseguentemente ha raccomandato che nel caso considerato e in tutti gli altri simili nel territorio nazionale, l’Amministrazione penitenziaria provveda a fornire gli Istituti di lenzuola, reperibili in commercio, di materiale idoneo a evitare un uso autolesivo e che nessuna persona detenuta venga tenuta, soprattutto per periodi prolungati, sistemata nella propria camera con il solo materasso e coperta. Siamo quasi nel 2022 e al Sestante nulla e cambiato, visto la descrizione dopo la recente visita effettuata da Susanna Marietti di Antigone.

Giuseppe Legato per "La Stampa" il 22 novembre 2021. Che cosa accade davvero al Sestante, sezione psichiatrica del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, padiglione A, da anni al centro di uno stuolo di denunce, ma sempre lì, funzionante e popolato di ospiti detenuti in condizioni disumane? A leggere le parole di Susanna Marietti, presidente nazionale dell'associazione Antigone, ci si trova in un «luogo vergognoso in cui si rinuncia a vite umane come se valessero niente». Marietti va giù duro in una lunga lettera in cui elenca il resoconto di una visita di pochi giorni fa: «Celle piccole, sporche, letti in metallo scrostato attaccati al pavimento coi chiodi. Ho visto un uomo - scrive - sdraiato con la faccia per terra, al buio, bagni turchi intasati dalle feci da quattro giorni, detenuti con gli occhi a mezz'asta, incapaci anche di parlare e raccontare il proprio disagio. Luoghi indecenti - chiosa - in cui vengono ammassati corpi». Il dato sembra ampiamente riscontrato da altri fatti. Due settimane prima della denuncia di Marietti, ci aveva pensato Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino a scrivere al Provveditore dell'amministrazione penitenziaria del Nord Ovest e all'Asl di competenza. In estrema sintesi, era un grido disperato: «Avevo chiesto che il Sestante venisse chiuso una volta per tutte». La donna lo aveva visitato l'ultima volta 15 giorni fa. «Come posso definirlo? Un luogo inumano e degradante». Nemmeno questa volta si è chiuso nulla, si dice perché sarebbero pronti dei lavori di ristrutturazione rinviati «enne» volte dalla lenta e quasi mai reattiva macchina burocratica dello Stato. E cosi questo settore del penitenziario torinese diviso in due articolazioni - "Osservazione" e "Trattamento" - è rimasto lì. A ospitare scempi che più voci confermano. Tre legali dell'Osservatorio carceri dell'Unione Camere penali stamattina si presenteranno in procura per depositare un esposto. Di più: «Chiederemo che il Sestante venga sequestrato come luogo in cui si consumano reati a danno dei detenuti» precisa Davide Mosso che sta lavorando alla denuncia insieme ai colleghi Alberto De Sanctis e Antonio Genovese. «La questione fondamentale è che le persone che soffrono di patologie psichiatriche non devono stare in carcere ma in un luogo di cura. Come prevede il codice» dice Mosso. E proprio di un caso del genere riferisce Marietti nella sua lettera: «Nell'ultima cella prima dell'uscita c'era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli ho spiegato che non avevo alcun potere in questo senso, ma mi sono fatta dare il numero di telefono della mamma, che lui sapeva a memoria. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l'esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche». In definitiva: «Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c'era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Nessuno le aveva detto dove lo avessero portato». Levata di scudi anche dalla politica. L'assessora torinese Gianna Pentenero, con delega ai Rapporti annuncia una visita in quel reparto. Parla di «situazione inaccettabile, peraltro già denunciata di recente per la quale chiedo alle autorità governative di intervenire con tempestività». E che questo reparto sia stato - anche in un recente passato - foriero di scandali e inchieste non è un mistero. A giugno in tribunale si aprirà il processo contro tre agenti della penitenziaria accusati di omicidio colposo per un suicidio avvenuto al Sestante. Un detenuto si tolse la vita strangolandosi con i pantaloni del pigiama. L'agonia durò 12 minuti e nessuno di coloro che avrebbe dovuto controllarlo a vista si alzò per svolgere il proprio dovere.

“Il Sestante”, la procura indaga e Bernardini accusa la Regione Piemonte. La vicenda de "Il Sestante" è stata sollevata dall'associazione Antigone e denunciata più volte dai Radicali. Le mancate risposte della Regione Piemonte. Ora indaga la procura di Torino. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 24 novembre 2021. La Procura di Torino ha aperto un fascicolo contro ignoti per maltrattamenti sui detenuti della sezione psichiatrica “Il Sestante” del carcere di Torino. L’inchiesta arriva dopo la lettera- denuncia dei giorni scorsi della presidente nazionale dell’associazione Antigone, Susanna Marietti, che aveva visitato la sezione definendola un “luogo vergognoso in cui si rinuncia a vite umane come se valessero niente”. Nel frattempo, Rita Bernardini del Partito Radicale denuncia che hanno un nome e cognome i responsabili della sezione psichiatrica dell’orrore “Il Sestante” del carcere di Torino e sono da ritrovare nella regione Piemonte visto che è lì che ricade la responsabilità della sanità penitenziaria.

“Il Sestante”, la relazione di Antigone

Ricordiamo che il famigerato reparto del carcere di Torino è ritornato alla ribalta grazie all’accurato resoconto di Susanna Marietti di Antigone, reduce della recente visita. Scene che non vi si ritrovano nemmeno più nel cosiddetto “terzo mondo”. Una sezione dove – come ha sempre denunciato Antigone nella relazione di marzo scorso un ragazzo di 24 anni fu costretto a bere l’acqua del water. Dove nel 2019 si è uccisa una persona con il cappio al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta per dodici interminabili minuti prima che un agente entrasse. Eppure doveva essere sorvegliato a vista. Parliamo della stessa sezione che già nell’ottobre del 2017 fu segnalata dal Garante nazionale delle persone private della libertà. Nonostante gli impegni presi dalle Amministrazioni in risposta alle Raccomandazioni formulate e nonostante le continue sollecitazioni, l’ultima visita di giugno aveva confermato le condizioni immutate in una considerevole parte del Reparto. L’unico sostanziale passo avanti è stato la chiusura e disattivazione della “cella liscia”, come richiesto dal Garante nazionale sin dal 2018.

L’attività di Rita Bernardini

Rita Bernardini del Partito Radicale, rende noto che con Sergio Rovasio e Mario Barbaro, dopo aver visitato Le Vallette, il 6 agosto scorso, hanno scritto al presidente della regione Alberto Cirio e all’assessore alla Sanità Luigi Icardi, che però non hanno risposto. «Occorre chiamarli in causa perché sono loro i maggiori responsabili. Oltre al fatto che le Asl devono verificare ogni sei mesi lo stato di salubrità dei luoghi detentivi: non hanno avuto niente da dire e da relazionare? “Il Sestante” del carcere torinese Le Vallette da quanto tempo non lo controllano?», denuncia pubblicamente Rita Bernardini.

Caso “Il Sestante”, l’ispezione del 6 agosto

Durante la visita del 6 agosto, erano presenti anche i Garanti dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano e del comune di Torino, Monica Gallo. Nella lettera hanno denunciato che in ambito sanitario sono stati riscontrati gravi problemi acuitisi negli ultimi due tre anni, e precisamente: assenza quasi totale di medici specialisti con grave carenza strutturale delle attività specialistiche, tra tutte la cardiologia, con costante aumento di traduzione delle persone detenute negli ospedali cittadini; le sezioni “Il Sestante” e “Filtro” con particolari situazioni critiche sanitarie anche dal punto strutturale, compreso il reparto “Servizio Assistenza Intensivo”; vi sono persone detenute con gravi problemi psichiatrici in reparti non adeguati, in particolare vi sono due celle con persone in gravi difficoltà in aree di detenzione comune con altri detenuti nel reparto femminile ubicato al primo piano.

Le mancate risposte della Regione Piemonte

Non solo. Sempre nella lettera inviata alla Regione Piemonte, relativamente all’osservazione di donne detenute con disturbi comportamentali gravi, si osserva che nell’ultimo anno si è registrato un aumento di casi per via della consolidata procedura di invio in osservazione psichiatrica al cosiddetto “Sestantino” di donne provenienti anche da altri Istituti. «È grave – ha scritto Rita Bernardini nella lettera – che le camere di pernottamento adibite all’ospitalità delle donne con disturbi, sono situate al primo piano della seconda sezione dell’Istituto in convivenza con altre donne detenute che svolgono attività scolastiche, formative e/ o lavorative».

Sempre nella lettera, vengono denunciate le condizioni igieniche carenti «dovute a scarsa/ inesistente manutenzione, in particolare per mancanza di adeguata disinfestazione di tutte le aree con ambienti degradati e spazi inadeguati sotto il profilo igienico- sanitario e conseguente presenza costante di blatte, scarafaggi e topi». La lettera conclude con l’augurio che si intervenga con la massima urgenza per limitare il più possibile le gravi carenze indicate. Ma nessuna risposta dalla Regione.

Detenuti con problemi mentali: pochi reparti e senza psicologi non vengono curati. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Settembre 2021. Quello dei detenuti con problemi psichiatrici è un dramma nel dramma. La storia di Mariano Cannio, il 38enne in carcere con l’accusa di aver preso in braccio il piccolo Samuele Gargiulo per poi lasciarlo cadere nel vuoto dal balcone della casa dove lavorava come domestico, riaccende i fari su una questione delicata e ancora poco discussa. Da lunedì Cannio è in cella, sarà in isolamento per i primi dieci giorni come prevede la normativa anti-Covid per poi essere recluso assieme ad altri detenuti. Per lui inquirenti e difensore stanno valutando un incidente probatorio e una perizia psichiatrica per valutare le condizioni di salute mentale e il grado di capacità di intendere e di volere. Nel carcere di Poggioreale, però, non c’è un’articolazione specifica per detenuti con problemi di salute mentale. Eppure dalla relazione annuale del garante regionale dei detenuti emerge che ogni anno, nel carcere cittadino, transitano o restano reclusi centinaia di detenuti coinvolti in percorsi psicologici o seguiti, prima della carcerazione, da servizi di salute mentale. Come nel caso di Mariano Cannio, in cura, secondo la testimonianza che ha fornito agli inquirenti, presso il centro di Santa Maria Antesaecula e ora al centro di un caso giudiziario e mediatico per via di un reato terribile, la morte di un bambino. Caso giudiziario, perché ci sono indagini in corso e si cerca di risalire al movente dell’omicidio, e caso mediatico, perché il clamore creatosi attorno alla tragedia ha fatto sentire schiacciati non solo Cannio ma anche la famiglia della vittima e i residenti nella zona della tragedia che sono arrivati a chiedere «per pietà» di smetterla con foto e video. Il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello parla di «populismo penale e politico» pur riconoscendo la assoluta gravità di un reato come l’omicidio. Il garante conosce bene i drammi e le criticità del mondo penitenziario, soprattutto quando si affronta il tema della salute mentale. «In tutte le carceri della Campania – afferma – ci sono decine e decine di detenuti di cui sappiamo poi che erano in cura presso dipartimenti di salute mentale. Ma non in tutte le carceri ci sono articolazioni dedicate alla salute mentale». Ed ecco che il cortocircuito, la criticità, il dramma è dietro l’angolo. Pensiamo a Poggioreale, il più grande carcere cittadino. Dalla relazione annuale del garante risulta che nel 2020 ha ospitato 170 detenuti coinvolti in percorsi psicologici e 168 detenuti che prima della detenzione erano in cura presso un centro di igiene mentale, ma conta appena 12 psicologi nell’organico del personale penitenziario. C’è una sproporzione nei numeri evidente. In Campania, inoltre, di istituti di pena con un’articolazione appositamente attrezzata per la gestione di detenuti con patologie psichiatriche ce n’è uno per ogni provincia: il carcere di Secondigliano, quello di Santa Maria Capua Vetere, quello di Benevento, e Sant’Angelo dei Lombardi e Salerno. Cinque in tutto, su un totale di quindici strutture penitenziarie presenti nella regione e una popolazione detenuta, al 31 agosto, di 6.432 persone. E pensare che secondo le statistiche più recenti i disturbi mentali e le sindromi ansiose in carcere sono aumentati. Nell’ultimo report redatto dal garante campano sullo stato delle carceri regionali si sottolinea che il 4% dei detenuti risulta affetto da disturbi psicotici, contro l’1% della popolazione generale, e che la depressione colpisce il 10% dei reclusi, mentre il 65% convive con un disturbo della personalità. Nel 2020, inoltre, la percentuale di psicofarmaci somministrati ai detenuti risulta aumentata e rappresenta il 43% dell’utilizzo complessivo di farmaci.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Giulia Sorrentino per “Libero quotidiano” il 5 aprile 2021. Il caso di Fabrizio Corona continua a tenere banco, sia per le novità legate alla presunta sospensione del suo sciopero della fame (su supplica delle persone a lui più vicine) sia per quanto riguarda il suo disturbo psichiatrico severo. Ma quanti sono i detenuti con questi disagi? Secondo i dati forniti da Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale e conduttrice radiofonica della rubrica "Lo stato del diritto", i detenuti affetti da disturbi psichici si aggirano attorno al 41,3% di cui il 27% è in terapia psichiatrica ed il 14% è in trattamento per dipendenze, su un totale di 53.697 carcerati (febbraio 2021). Ma in quali condizioni versano? E quali sono i pericoli maggiori? Secondo i dati dell'associazione Antigone, sui 98 istituti visitati, solo in 59 penitenziari c'è la presenza medica della durata di 24 ore, e solo 57 istituti contemplano almeno 8 ore d'aria; 29 non garantiscono sempre adeguata areazione e accesso alla luce del giorno nelle celle, in 45 non è costantemente presente acqua calda nella stanza di pernottamento, 25 non garantiscono almeno 3 metri quadrati a detenuto. Condizioni precarie per chiunque, figuriamoci per chi ha dei disturbi così importanti. In questo senso, è lo stesso Istituto Superiore di Sanità a stabilire quanto sia importante la condizione ambientale nello sviluppo della malattia mentale: «Sulla salute mentale agiscono sia fattori genetici che esposizioni ambientali concomitanti i cui effetti possono modificarsi reciprocamente in modo complesso», scrive l'Iss. «L'ambiente può infatti influenzare attraverso modifiche chimiche il modo in cui il Dna viene letto e trascritto. Quando gli effetti genetici sono modulati da fattori esogeni, ad esempio stili di vita, esistono opportunità di prevenzione e di promozione della salute mentale». «Sotto questo punto di vista, c'è una scarsissima tutela della malattia mentale e non si tiene conto di in un ambiente ostile come il carcere nel progredire della malattia», spiega Irene Testa. Ne è convinto anche il Professor Paolo Capri, presidente dell'Associazione Italiana di Psicologia Giuridica: «Siamo di fronte a pazienti con una sofferenza importantissima che vanno inevitabilmente curati. Nelle carceri italiane si contano 53.697 detenuti. Di questi, il 67,5% risulta essere affetto da una o più patologie. Mentre il 41,3% presenta disturbi che hanno a che fare con la sfera della psiche. Nel 2018 il numero dei suicidi registrati all'interno degli istituti penitenziari è stato di 11,4 ogni 10mila detenuti contro una media di 0,65 ogni 10mila abitanti tra la popolazione italiana non detenuta (dati Antogone). vo non può che peggiorare una situazione del genere. Non rimane neutrale il paziente, ma sta peggio». Il diritto alla salute e alla vita sono principi cardine della nostra Costituzione. Non esiste nella giustizia una centralità delle neuroscienze, della neurologia e della psichiatria. E manca spesso un riesame della detenzione alla luce del peggioramento della condizione psicofisica. I disturbi di personalità di varia natura e tipologia, il disturbo bipolare o le psicosi alterano molto spesso le scelte che l'individuo compie e il suo senso della realtà. «Apparentemente i soggetti in questione possono sembrare solo instabili o affetti da problematiche affettive», dice il professore Capri. «Ma non è un problema solo di affettività perché queste persone hanno proprio un problema di gravi scompensi che si avvicinano al quadro psicotico, ovvero una situazione in cui si possono presentare gravi dissociazioni. È per questo che l'aspetto psichiatrico e psicologico andrebbe seguito con estrema cautela ed attenzione. Non può mai essere tralasciato». La punizione secondo gli psichiatri dovrebbe essere modulata sulla base della malattia, non solo della legge che non può più camminare da sola. Ci dovrebbe essere un lavoro di equipe che prevenga i suicidi, la cui stima è di 11.4 ogni 10.000 detenuti (Antigone), o i casi di autolesionismo che solo nel 2018 hanno riguardato 10.368. È in virtù dell'amore per la scienza, della protezione dell'intera popolazione penitenziaria e del profondo senso di umanità che dovrebbe accompagnare le vicende giuridiche che Irene Testa sta promuovendo un appello del partito radicale (sottoscritto da personaggi di spicco come Vittorio Feltri, Maurizio Costanzo, Annamaria Bernardini De Pace, l'ex Guardasigilli Claudio Martelli e molti altri, oltre che da chi scrive) sul tema del disagio mentale in carcere, rivolto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e al Ministro della Salute Roberto Speranza: «Il problema della salute mentale in carcere», recita l'incipit dell'appello «oggi rilanciato dalla vicenda che riguarda Fabrizio Corona, e che coinvolge da ben prima di lui migliaia di altri cittadini, esige una vostra urgente e concreta risposta».

Salute mentale in carcere e l’alternativa: l’urgenza della riforma penitenziaria. L’attuale regolamento prevede per la salute mentale la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni special. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 16 marzo 2021. Il tema dell’assistenza psichiatrica nelle carceri è stato del tutto omesso dalla semi riforma dell’ordinamento penitenziario. Addirittura, nei primi decreti attuativi si è persino cancellato il riferimento allo psichiatra nell’art. 11 dell’Ordinamento Penitenziario, né sono state accolte le proposte avanzate dalla Commissione Pelissero sulle attività per la prevenzione dei suicidi e sulle funzioni delle Articolazioni per la tutela della Salute Mentale. Una linea che ha rimosso in modo del tutto ingiustificato il tema della salute mentale come segnalato da studiosi del diritto e purtroppo dai dati sui suicidi e il disagio di detenuti e polizia penitenziaria.

I malati mentali imputabili devono scontare la pena in carcere. Per i malati mentali risultati imputabili, la pena deve essere scontata in carcere e al contempo però devono essere assicurate cure adeguate. Il vigente ordinamento penitenziario, nello specifico il regolamento di esecuzione D.P.R 230/2000 agli artt.111 e 112, prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, oggi denominate “articolazioni per la salute mentale”, volte a garantire servizi di assistenza rafforzata per rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichiatrici. In tali reparti si prevede che la permanenza nelle suddette sezioni non debba essere superiore a trenta giorni. Lo scopo formale è quello di garantire a questi soggetti un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo in maniera continuativa e individualizzata. Tuttavia – come si legge nell’ultimo rapporto di Antigone -, «le criticità che si riscontrano all’interno di queste sezioni, in molti casi del tutto sprovviste di adeguati percorsi trattamentali e risocializzanti, finiscono per rendere nulle le intenzioni di cura che il legislatore si era posto come fine ultimo, diventando terreno fertile per il peggioramento delle patologie dei soggetti che ne vengono ristretti». Questo è un aspetto. Ma poi ne subentra un altro.

La Corte costituzionale ha equiparato la salute fisica a quella mentale. Grazie alla sentenza della Corte costituzionale del 2019, equiparando la salute fisica con quella mentale, anche i detenuti con patologie psichiatriche sopraggiunte durante la detenzione, posso fare finalmente istanza per richiedere misure alternative. Infatti, si legge nella sentenza della Consulta – «la Corte ritiene in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l’assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità». Ma per rendere operative le alternative alla detenzione occorrono soluzioni concrete. E le indicazioni provengono dalle proposte avanzate dal Tavolo 10 (presidente Francesco Maisto, ora garante di Milano) degli Stati Generali per l’Esecuzione della Pena e poi sostanzialmente riprese dalla Commissione Pelissero (art. 47 septies) le quali indicavano un percorso nel quale «l’interessato può chiedere in ogni momento di essere affida1to in prova ai sensi delle disposizioni di questo articolo per proseguire o intraprendere un programma terapeutico e di assistenza psichiatrica in libertà concordato con il dipartimento di salute mentale dell’azienda unità sanitaria locale o con una struttura privata accreditata». Risulta quindi essenziale la presa in cura congiunta, ciascuno per le proprie competenze. Ma tutto questo, e non solo, non deve essere a spesa zero. Come ha detto recentemente il Garante nazionale Mauro Palma, durante la presentazione del rapporto di Antigone, bisogna proporre le misure alternative indicando strutture e soldi. Altrimenti sono solo parole.

Rapporto Antigone: in quasi tutte le carceri niente spazi per i culti diversi da quello cattolico. Nel XVII rapporto dell’associazione Antigone uno dei capitoli è dedicato proprio agli istituti dove non vi sono luoghi per i riti dei culti non cattolici.  Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 marzo 2021. Negli 79,5% degli istituti monitorati da Antigone nel corso dell’ultimo anno non era presente alcuno spazio dedicato esclusivamente alla celebrazione di culti diversi da quello cattolico. In tutti gli istituti visitati (e anche in quelli non visitati) erano invece presenti degli spazi appositi per la celebrazione del culto cattolico. Ciò avviene nonostante l’ultimo censimento sulle appartenenze religiose delle persone detenute pubblicato dall’Amministrazione penitenziaria (risalente al 2016) mostri come “solo” il 54% della popolazione detenuta sia cattolica (almeno nel 2016). Parliamo di uno dei capitoli del XVII rapporto dell’associazione Antigone sulle carceri dal nome “Oltre il virus”. Si apprende che, laddove non vi sono luoghi per i riti dei culti non cattolici, nella maggior parte le preghiere si svolgono in cella. Alcuni istituti trovano soluzioni alternative: all’istituto “Panzera” di Reggio Calabria, ad esempio, i detenuti di fedi diverse da quella cattolica si riuniscono nelle aule scolastiche o in quelle dedicate ad altre attività trattamentali. A Cassino si ritrovano in un’aula dedicata ai colloqui, mentre a Frosinone nelle stanze in cui si svolgono i colloqui con i difensori e gli operatori. A Perugia i detenuti musulmani pregano a volte nello spazio antistante al cortile, mentre a Verona lo fanno nella cappella cattolica. A Ravenna ciò avviene nel corridoio adiacente alle aule scolastiche, mentre a Belluno nella sala polivalente. A Spoleto, ultimo esempio citato nel rapporto di Antigone, viene messa a disposizione la biblioteca, ma solo per le pratiche buddiste.

Nel 68% degli istituti presenti ministri di culto diversi. La situazione è migliore se si guarda alla presenza dei ministri di culto. Nel 68% degli istituti visitati da Antigone erano infatti presenti ministri di culto diversi da quello cattolico. I cappellani cattolici (i quali sono dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria) erano presenti in tutti gli istituti visitati (secondo gli ultimi dati pubblicati dal Dap sono 314, distribuiti tra i circa 190 istituti penitenziari). Se i cappellani dipendono direttamente dal Dap, gli altri ministri di culto entrano in istituto in virtù di convenzioni apposite (come il protocollo siglato dall’Amministrazione con l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane) o in quanto volontari, senza alcuna remunerazione e spesso su esplicita richiesta dei detenuti. Quella di Antigone è una fotografia che mostra come sia necessario da un lato prevedere maggiori spazi per i detenuti dei culti non cattolici, e dall’altro implementare la presenza di altri ministri di culto, di cui andrebbe rafforzato lo statuto.

Detenute in Italia, la reclusione pensata al maschile. Le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. In Italia solo 4 istituti sono per le recluse: Pozzuoli, Trani, Rebibbia, Venezia Giudecca. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'8 marzo 2021. Le detenute in Italia si trovano nella stragrande maggioranza in sezioni ricavate all’interno degli istituti maschili in una condizione di minoranza numerica che ne compromette l’equità nell’acceso alle opportunità trattamentali. In Italia esistono solo 4 istituti dedicati esclusivamente alle recluse: Pozzuoli, Trani, Rebibbia, Venezia Giudecca. La dispersione delle donne in 63 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili e in solo cinque istituti interamente femminili risolve il problema della vicinanza territoriale ai propri affetti prevista dall’Ordinamento penitenziario a scapito di una vita detentiva estremamente trascurata dalle istituzioni per quanto riguarda le donne in piccole sezioni. Quello che manca, è la riorganizzazione della mappa stessa degli Istituti penitenziari, prevedendone uno femminile per regione.

Le detenute sono tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria. Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza si trova dunque in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica, parliamo di una percentuale che oscilla sempre tra il 4% e il 4,5% sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica si trasforma in causa di discriminazione. La discriminazione non nasce da una consapevole volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero che consideri la differenza di genere. Nella società sono solitamente le donne a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. All’interno di penitenziari, la questione si amplifica. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che contavano su di lei e che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere. Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia.

Il retaggio delle definizioni lombrosiane. Se le donne portano tuttora questo peso, ciò è da ritrovarsi nella sottocultura del passato. Infatti, vi è stata nel tempo una persistente difficoltà culturale ad affrontare la problematica della donna-delinquente-detenuta, in quanto, storicamente, la donna deviante, che cioè contravveniva alle regole che la società (maschile) si era data, non è mai stata considerata, in ragione della sua inferiorità biologica e psichica, come portatrice cosciente di ribellione, ma o una “posseduta” (ad esempio strega) o una malata di mente (ad esempio isterica). Questo perché non si poteva ammettere, culturalmente, che la donna potesse coscientemente desiderare, con autonomia di scelta di uscire dal perimetro delle regole. Infatti già Cesare Lombroso scriveva nel suo testo del 1893 intitolato “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”: «Se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini».

In carcere le donne sono soggetti vulnerabili. Inoltre, la donna delinquente, la donna colpevole, è sempre stata anche considerata macchiata dalle stigmate di aver abiurato, commettendo il reato, alla propria natura femminile tradizionalmente dedita alla maternità e alla cura; colpevole dunque, non soltanto di fronte alla legge scritta dagli uomini, ma anche verso quella di natura. Nella società libera non è corretto – riferendosi alle donne – parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega molto il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà relativo all’anno 2019. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché «il carcere – si legge nel rapporto – è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi, con regole definite attorno a tale pensiero e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere». Alcuni anni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato all’interno della sua struttura organizzativa un apposito settore dedicato alla riflessione sul tema della detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia in anni recenti e purtroppo il Garante nazionale si è trovato di fronte ad alcune situazioni limite in cui, per esempio, quattro donne erano ristrette in un Istituto di ben più di centocinquanta uomini. Qualche passo in avanti c’è stato, ma ancora molta strada deve essere fatta.

«Diceva Cardinal Martini, ogni uomo è un’infinita possibilità: anche i criminali». Il Dubbio il 17 Febbraio 2021. Pubblichiamo un estratto del libro “Un’altra storia inizia qui” che la nuova ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha scritto insieme ad Adolfo Ceretti. E così il percorso imprevedibile dei pensieri coraggiosi e lungimiranti di Carlo Maria Martini – descritti dall’amico Adolfo Ceretti in questo volume in modo raffinatissimo – ha raggiunto anche me. Quel pensiero profondo e innovativo sulla giustizia, sul male, sulla colpa, sulla pena, sul carcere, sulla riconciliazione mi ha raggiunta ora, anche se, inevitabilmente, mi ha lambita sin dagli anni della sua presenza a Milano: quelli sono anche gli anni dei miei studi giuridici e dei miei primi passi nella carriera accademica nel capoluogo lombardo, ma in quella fase i miei interessi erano rivolti altrove, professionalmente concentrati su altri rami del diritto. Non è sufficiente essere esposti a riflessioni pro fonde per esserne perturbati; occorre che il terreno sia preparato perché una parola, un’idea, un pensiero, pur sublimi, si radi chino e si accendano in chi ascolta. E per comprendere una riflessione sulla realtà dei delitti e delle pene “bisogna aver visto”, come osservava Piero Calamandrei in un celebre intervento sulla situazione del carcere pubblicato sulla rivista Il Ponte nel 1949 (CALAMANDREI, 1949). Anche per Carlo Maria Martini è iniziato così, dall’aver visto. Anzi: dall’aver visitato. Noto studioso e biblista, uomo di pensiero e di riflessione, Martini inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore, per il risuonare in lui Vangelo secondo Matteo che tante volte ha ripetuto nei suoi scritti e nei suoi interventi: «Ero in carcere e mi avete visitato». «Venendo a Milano, ho voluto iniziare la visita pastorale alla città e alla Diocesi cominciando proprio dal carcere di San Vittore, quale segno emblematico delle contraddizioni e delle sofferenze della società. Mi urgevano e mi urgono dentro le parole di Gesù: “Ero in carcere e mi avete visitato» (cfr. Matteo 25, 43). L’azione del visitare nel pensiero di Carlo Maria Martini ha una valenza umana e religiosa profondissima: lungi dalla formalità dell’atto di cortesia che talvolta il linguaggio comune evoca, descrive un rapporto coin volgente, come quello biblico di Dio che visita il suo popolo. «Il termine “visitare” va compreso naturalmente nel suo profondo e ricco significato biblico: Dio “visita” il suo popolo perché lo vuole incontrare, vuole stare con lui e condividerne la vita, vuole provvedere ai suoi bisogni e soccorrerlo nell’angoscia, vuole liberarlo dalla prigionia». Similmente: «Visitare i carcerati vuol dire prendersi cura di loro, recarsi nella casa dei prigio nieri, intrattenersi con loro per amicizia, offrire ad essi un possibile servizio, liberarli». È singolare notare che il verbo utilizzato dalla versione greca di Mt 25,36 e Mt 25,43, in corrispondenza del verbo latino visitare, è episkeptomai, verbo che, nella sua gamma semantica, include il “vedere con attenzione”. Da questa parola deriva il termine con cui ancora oggi si indica il munus episcopale del vescovo racchiude in sé, come suggerisce il verbo greco, le azioni di andare a vedere, visitare, ma anche aiutare i più deboli provvedendo ai loro bisogni. È di grande suggestione pensare che l’arcivescovo di Milano abbia iniziato la visita pastorale della città immedesimandosi fino in fondo con quel compito che sin dal nome che lo designa evoca, quasi letteralmente, l’atto di visitare piegandosi su chi soffre di più. È l’esperienza del carcere, ripetutamente e regolarmente visitato, la sorgente del suo pensiero così carico di idee nuove tanto nella sua dimensione teologica e biblica quanto in quella civile e sociale. È dal vedere che sorge l’idea. Idea viene dal greco idéin, che pure significa vedere. Quando ci si lascia coinvolgere dall’esperienza di ciò “che abbiamo udito, veduto, contemplato e toccato”, scrive Jean Vanier, sorgono le grandi domande. Sono soprattutto le “esperienze paradossali” di un “mondo sottosopra” a destare le domande e “le idee vengono quando ci si mette in ricerca, si fanno le domande” (VANIER, 2015, pp. 9- 24). Di qui la potenza creativa e innovativa del conoscere visitando. S i parva licet, anche noi giudici costituzionali, di recente, abbiamo visto, grazie a una encomiabile e inedita iniziativa della Corte costituzionale che ha preso avvio con una visita al carcere di Rebibbia il 4 ottobre 2018. Il viaggio della Corte costituzionale nelle carceri italiane (CORTE COSTITUZIONALE, 2018) ci ha portati in numerosi istituti di detenzione, dove abbiamo incontrato le persone ristrette, la Polizia penitenziaria, i direttori, gli educatori, i volontari. Abbiamo osservato i luoghi, abbiamo condiviso tempo ed esperienze, abbiamo dialogato e molto ascoltato. A chi scrive, il 15 ottobre 2018, è capita to di oltrepassare per la prima volta quella tante volte fu varcata dal cardinale Martini negli anni del suo episcopato. E così, avendo visto, è ora possibile rileggere con una consapevolezza accresciuta le parole e i pensieri di Carlo Maria Martini che, precorrendo i tempi con lungimiranza profetica, anticipava riflessioni che oggi incominciano a trovare accoglienza – benché ancora timida e incerta – nel dibattito pubblico sul carcere, sul senso della pena, sulle esigenze di sicurezza della società. Ciò che si scopre visitando il carcere è la consapevolezza che dietro le mura che recludono vive un mondo paradossale, un mondo sottosopra, per riprendere le espressioni di Jean Vanier; dove, per fermare la violenza, si deve compiere un atto di forza; dove, per tutelare i diritti, si debbono limitare i diritti; dove, per assicurare la libertà, si deve restringere la libertà; dove, per proteggere i deboli e gli indifesi, si devono rendere deboli e indifesi gli aggressori e i violenti. Il carcere è una realtà drammatica che costringe a fare verità [/ CAP3- 1] è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata. In seguito al primo incontro della Corte a San Vittore, è nato un rapporto con tante persone che abitano e animano quell’istituzione. Un gruppo di detenuti ha dato vita a un’iniziativa che è stata chiamata Costituzione viva: in questo ambito, dete nuti provenienti da ogni dove si trovano a riflettere con regolarità sui valori fondativi della nostra convivenza civile, guidati da alcuni docenti. (…). Il dramma del carcere non tollera formalità e finzioni, non sopporta discorsi di circostanza o richiami superficiali a buoni sentimenti. Visitare un carcere è una esperienza esigente: chiede una partecipazione integrale, di tutta la persona, con la sua professionalità e la sua umanità. Il carcere è un luogo dove accade che a ogni visita le domande che si destano sono assai più numerose e complesse delle risposte che si possono offrire. Significativo è che nel docufilm che racconta il viaggio in Italia della Corte costituzionale uno dei giudici, a un certo punto della sua visita, afferma: «Sento la drammaticità delle vostre domande e l’inevitabile inadeguatezza delle mie risposte». È dal senso di inadeguatezza rispetto ai problemi visti e dal lasciarsi inquietare dall’impatto con un frammento di realtà sconosciuta, contraddittoria e spiazzante che nascono nuovi interrogativi e di lì, for se, nuove idee: «Dopo gli incontri con i detenuti o in occasione degli scambi epistolari con loro, emerge ogni volta la domanda: è umano ciò che stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve davvero alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere?» (MARTINI, 2003, pp. 10 e 80). La genesi dei “pensieri alti” di Martini – per attingere ancora una volta ad alcune felici espressioni di Adolfo Ceretti – si radica suo pensiero. Perciò, tra i moltissimi insegnamenti innovativi del cardinale, che hanno gene rato molti cambiamenti in Italia e altrove e che molto ancora potrebbero generare di fronte alla bruciante “domanda di giustizia” (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003) del nostro tempo, vorrei anzitutto insistere sul metodo che traspare dagli scritti che abbiamo la fortuna di poter leggere e meditare. I contributi di Carlo Maria Martini in materia di giustizia penale, oggi meritevolmente raccolti nel volume Non è giustizia (MARTINI, 2003), sono ricchi e numerosi e si contraddistinguono per la complessità della sua riflessione: mai esclusivamente giuridica, anche se mai priva di precisi riferimenti all’ordinamento vigente; mai meramente pragmatica, anche se contraddistinta da una conoscenza di prima mano di tante situazioni personali e istituzionali; mai esclusivamente teologica, anche se profondamente intrisa e pervasa dalla “Parola”, come Martini ama va ripetere. In ogni caso, dal punto di vista metodologico, il suo apporto al problema della giustizia non si esaurisce mai in una dimensione puramente intellettuale o speculativa. Del resto, il problema non può esse re affrontato in chiave teorico- speculativa: Martini lo afferma chiaramente nel suo dialogo con Gustavo Zagrebelsky, nell’edizione conclusiva della Cattedra dei non credenti del 29 maggio 2002, pubblicata in un prezioso volumetto dal titolo La domanda di giustizia. Invero è proprio Gustavo Zagrebelsky ad aprire le sue riflessioni con la constatazione che “giustizia” è un concetto inafferrabile, ineffabile, inattingibile sul piano concettuale (MARTINI ZAGREBELSKY, 2003, p. 4), anche se continuano a sovrabbondare gli studi che si testimonianza del bruciante bisogno e della “fame e sete di giustizia” che attraversano tutte le vite umane, personali e collettive (MARTINI ZAGREBELSKY, 2003, p. 12). Ogni tentativo di accostarsi al tema sul piano meramente speculativo è infecondo e destinato a fallire, perché la giustizia non è tanto un’idea che si colloca fuori di noi, ma “un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva” (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003, p. 16). Questa osservazione metodologica è la prima a essere ripresa e rilanciata dal cardinal Martini nella sua replica in quella medesima occasione (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003, p. 52), osservando che il senso della giustizia nasce paradossalmente da un’ingiustizia subita da noi o da chi ci è caro e che consideriamo parte di noi. Ed è lì, nell’ingiustizia subita, che mette le sue radici la regola aurea, di matrice biblica (Mt 7,12), del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, (…) Il primo punto fermo del pensiero di Martini porta innanzitutto in primo piano una visione realistica della persona umana, una visione capace di guardare senza infingimenti al male che nasce dentro il cuore dell’uomo (MARTINI, 2003, p. 128), senza mai perdere la fiducia e la speranza nella possibilità di un cambiamento. Martini non smette di ribadire che l’uomo, ogni uomo, è peccatore e che “l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (Gen 8,21); ma con altrettanta insistenza non smette neppure di ripetere che ogni persona è anche sempre recuperabile. Per questo, egli afferma, “Dio giudica il colpevole ma non lo fissa nella colpa identificandolo in essa” (MARTINI, 2003, p. 45). Dalla sapienza biblica, oltre che dalla sua conoscenza diretta e personale di tanti detenuti, egli trae la convinzione che “l’uomo vale, che l’uomo è educabile, che l’uomo può essere salvato”. E anche quando fosse colpevole, l’uomo «non è bestia da domare, bersaglio da colpire, delinquente da condannare, nemico da sconfiggere, mostro da abbattere, parassita da uccidere» ( MARTINI, 2003, p. 64). È sempre da stimare, da comprendere, da valorizzare, da responsabilizzare, perché l’uomo è sempre in divenire e non esiste nulla di irreversibile quando si parla di persona umana. È l’ammonimento rivolto, in forma poetica, da padre David Maria Turoldo nella poesia Salmodia contro la pena di morte, citata Non è giustizia (MARTINI, 2003, p. XVIII), come anche dal direttore della Casa di reclusione di Milano- Opera, Silvio Di Gregorio, nella sua Introduzione al catalogo della mostra fotografica di Margherita Lazzati Fotografie in carcere. Manifestazioni della libertà religiosa (LAZZATI, 2019, p. 5): Nessuno uccida la speranza neppure del più feroce assassino perché ogni uomo è una infinita possibilità. Da questo sguardo colmo di fiducia sulle potenzialità di recupero, sempre presenti, anche se spesso latenti, in ogni perso na quand’anche si fosse macchiata dei più ripugnanti delitti, consegue una concezione della pena radicata nella convinzione che chi sbaglia può sempre correggersi; sicché la pena deve guardare sempre al futuro, è chiamata a svolgere una funzione pedagogica ed educativa ed è volta a sostenere – con il tempo e con l’aiuto di presenze costruttive – un reale cambiamento della persona (ad esempio, MARTINI, 2003, pp. 32- 33 e 50- 51).

 “Le ali della libertà”, quando la giustizia spezza gli innocenti. Andrea Ferretti suIl Dubbio il 7 febbraio 2021. “Le ali della libertà” con Morgan Freeman e Tim Robbins per la rivista Empire èal quarto posto nella lista dei 500 migliori film della storia del cinema. Andrew Dufresne è colpevole. Senza dubbio. Oltre ogni ragionevole dubbio. Andrew Dufresne era geloso. Anzi, era pazzo di gelosia. Ha fumato dentro l’auto parcheggiata davanti a quella casa. Le cicche sono cadute fuori dal finestrio col suo Dna stampato sopra. Era notte. Li ha visti entrare, sua moglie e l’amante, baciarsi e lui è rimasto lì a bere e ad aspettare. Poi Andrew Dufresne è entrato, ha camminato per il corridoio e li ha sorpresi a letto insieme. Li ha colpiti. Ha scatenato la sua furia omicida su entrambi e poi è fuggito, coperto di sangue. Andrew Dufresne ha un movente e non ha un alibi. Andrew Dufresne è colpevole. La sentenza che inchioda un innocente è nata dalle pagine di Stephen King che, nel 1982, scrisse la novella “Rita Hayworth e la redezione di Shawshank” da cui Frank Darabont, nel 1992, ha tratto il film che in Italia è conosciuto con il titolo ( terribile) Le ali della libertà con Morgan Freeman e Tim Robbins. Qualche anno addietro la rivista Empire ha segnalato al quarto posto nella lista dei 500 migliori film della storia del cinema, questa pellicola che è un inno al garantismo. La storia racconta di Andy Dufresne, un brillante vice- direttore di una banca di Portland, condannato a due ergastoli per l’uccisione di sua moglie e dell’amante, un avvenente maestro di golf. Il duplice omicidio si consuma nella casa dell’amante della donna in una notte fredda. Per la giuria Dufresne è assolutamente colpevole e a nulla vale il suo urlo: «Sono innocente, io l’amavo». Le prove dimostrano che lui era lì quella notte, il movente è lampante. Le indagini si concentrano solo di lui, il killer perfetto, escludendo ogni altra pista, a priori. La vita di Dufresne cambia radicalmente e, dal doppiopetto, un uomo conosciuto come una persona mite e professionale, passa alla divisa grigiastra del duro carcere di Shawshank, nel Maine, con la matricola 37937. Tra le mura alte di quella galera, Dufresne conoscerà da protagonista una vita d’inferno tra le violenze dei detenuti e quelle delle guardie. Anche il direttore del carcere, Samuel Norton ( Bob Gunton) è corrotto fino al midollo e chiude un occhio davanti ai pestaggi, anzi li incoraggia in alcuni casi, e costringe Dufresne ad assecondare i suoi traffici finanziari illeciti. E quando Norton scopre che esiste un testimone pronto a inchiodare il vero colpevole degli omicidi di cui era stato accusato Dufresne, dà mandato al suo fidato secondino di ucciderlo nel modo più truce possibile. Andy ha un amico, “Red” ( Morgan Freeman), con cui allaccia un rapporto stretto fatto di confidenze e affetto, con cui condivide il progetto che accarezza ogni notte: fuggire e riprendersi la sua libertà. Il film è un manifesto, una condanna contro lo spietato mondo della giustizia che spesso è cieca e spezza vite di innocenti senza appello, del carcere che non riabilita ma spegne le vite che dovrebbe resuscitare. Red ha commesso un crimine terribile quando era solo un ragazzo. È dentro da decenni, si è pentito, non passa giorno che il rimorso per quello che ha fatto non gli pesi sulla coscienza. Ma ogni volta che si trova davanti alla commissione deputata alla libertà vigilata, viene respinto e costretto ancora a scontare una pena che appare più una vendetta che un atto di giustizia. La storia portante è poi costellata di microcosmi, racconti collaterali toccanti e intimi. C’è il vecchio bibliotecario Brooks, anche lui un detenuto per un grave crimine. Lui a Shawshank c’è cresciuto e invecchiato. Il carcere è la sua casa. È entrato che le auto erano quasi appena nate e ne esce terrorizzato da quei bolidi veloci che sfrecciano su strade che non riconosce più. Quando viene rimesso in libertà si sente fuoriposto. Il guscio della galera era la sua vera casa. Dopo poche settimane si impicca a una trave e vi incide sopra un messaggio: “Brooks was here”, “Brooks è stato qui”, come a lasciare un traccia del suo passaggio in un mondo che l’ha abbandonato. Intanto trascorrono gli anni, tanti anni. Andy nella sua cella, dietro poster di donne bellissime, che cambiano col tempo ( la prima era stata Rita Hayworth in Gilda), con un martelletto per minerali frantuma il muro che nasconde un passaggio verso l’esterno. «La paura può tenerti prigioniero, la speranza può renderti libero». Quel buco è l’unica speranza che lo tiene in vita, lenisce la follia che cerca di farsi strada nella sua mente. Lascia un messaggio al suo amico Red e, una notte, fugge. Nessuno lo ritroverà mai. «Innocente? Tutti siamo innocenti qui» lo canzonano gli altri detenuti quando Andy urla la sua innocenza. Ma lui lo era davvero. L’amore di Freeman e i mille dollari di King La storia di Andy e Red è rimasta nel cuore dei due attori che hanno interpretato i protagonisti: Tim Robbins e Morgan Freeman. Freeman ha sempre dichiarato come la parte del galeotto redento, sia stata la più bella nella sua lunga carriera di attore. Ma questo film ha avuto un impatto forte su tutto il cast, a partire dal regista, Frank Darabont che, nel 1999, portò sullo schermo un altro dramma carcerario dalle venature horror, sempre tratto da Stephen King, diventato un piccolo cult: “Il miglio verde”. King, che da sempre è molto critico con le trasposizioni delle sue opere ( e quando le incensa spesso sono dei flop) rimase così colpito da Le ali della libertà ( in originale “The Shawshank’s redemption”) che rinunciò ai mille dollari che aveva contrattato con Darabont per l’acquisizione dei diritti della sua novella ( parte della raccolta “Stagioni diverse”). Quell’assegno fu incorniciato e poi spedito dallo scrittore del Maine al regista con un biglietto: “Nel caso dovessi mai aver bisogno di soldi per la cauzione. Con amore, Steve”.

Il libro di Bortolato e Vigna. “Vendetta pubblica”, tutti i luoghi comuni e i falsi miti sul carcere. Angela Stella su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Qualche anno fa, un detenuto ospitato a Regina Coeli, che stavo intervistando perché vincitore del Premio Goliarda, mi disse: «Il carcere è una cantina sociale: nelle cantine delle nostre case riponiamo gli oggetti che non ci servono più, qui abbandoniamo le persone di cui vogliamo dimenticarci. Quello che succede al di là del muro non interessa a nessuno». Aveva perfettamente ragione: il carcere vive nell’indifferenza o ignoranza collettiva e, fatta qualche eccezione, anche la politica non riesce ad occuparsene come Costituzione vorrebbe. Il tema rimane circoscritto in una nicchia culturale di addetti ai lavori o tra realtà che si spendono per il rispetto dei diritti umani dei detenuti. In questo contesto, dunque, appare di estrema importanza l’opera divulgativa di Marcello Bortolato, magistrato dal 1990 e attualmente Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ed Edoardo Vigna, giornalista del Corriera della Sera, che co-firmano il libro Vendetta pubblica. Il carcere in Italia (Editori Laterza 2020, pag. 160, euro 14). Gli autori compiono un viaggio tra i luoghi comuni che connotano la narrazione del carcere e della pena, contaminata dal virus del populismo penale. Ad ognuno di essi è dedicato un capitolo: «Alla fine in carcere non ci va nessuno», «Dentro si vive meglio che fuori», «Bella vita: vitto e alloggio gratis e tutto il giorno davanti alla tv», «Ci vorrebbero i lavori forzati», «Condannato per omicidio, gode di permessi premio». L’obiettivo del libro diviene pertanto quello di sfatare tutti questi falsi miti attraverso ricostruzioni storiche, dati scientifici, citazioni letterarie e filosofiche. «Negli anni Settanta – scrivono Bortolato e Vigna – Michel Foucault parlava del carcere come di un “fallimento continuo”. Utilizzava l’espressione “scacco della giustizia penale”: il carcere dovrebbe fare in modo che alla fine non ci sia più carcere. Invece ogni volta smentisce se stesso, perché per sua natura genera a sua volta reati, se non è rieducativo». Infatti, secondo gli autori, sebbene nella storia la pena abbia avuto diverse funzioni – retributiva, special preventiva, di prevenzione generale e di mera funzione custodiale – , la Costituzione italiana prevede che essa debba prima di tutto rieducare: chi è in prigione è parte della nostra comunità e la maggior parte dei reclusi, prima o poi, comunque esce. Come vogliamo che ritornino in società? Incattiviti per aver vissuto in condizioni indegne o speranzosi in un futuro migliore? Dipende da noi e dalle nostre scelte di politica giudiziaria e penitenziaria. Ci aiutano nelle nostre decisioni i dati statistici: in Italia la recidiva degli ex detenuti è record – sette su dieci tornano a delinquere – ma la percentuale precipita all’uno per cento per l’esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare o studiare. Quindi, ammoniscono gli autori, «rinunciare a occuparsi del dopo è una politica da struzzi», sbandierare sui social «Lasciamoli marcire in carcere!» come banale slogan acchiappa like non solo rappresenta la negazione del nostro Stato di diritto in cui tutti noi viviamo, ma è controproducente per l’amministrazione sociale. Ad un linguaggio politico violento che alimenta un odio collettivo verso chi commette un reato va contrapposta una analisi lucida che parte dalla domanda «a cosa serve la pena?». Il punto fondamentale – dicono gli autori – «è che non bisogna sempre pensare al carcere come unica risposta anche per i reati meno gravi». Pensiamo ai reati finanziari: «può far piacere al risparmiatore vedere il direttore della banca o un grande finanziere che ha commesso qualche crimine ai suoi danni finire in carcere per questo. Ma l’esperienza ci dice che in tali casi sarebbero assai più efficaci sanzioni pecuniarie o interdittive». Di fronte a chi invece sostiene la funzione deterrente della pena, Bortolato e Vigna richiamano il caso degli Stati Uniti dove «nonostante il tasso di carcerazione più alto al mondo e pene elevatissime le persone continuano a delinquere, pure negli Stati in cui è ancora prevista la pena di morte». Dunque certezza della pena non deve significare solo certezza del carcere e Bortolato e Vigna lo dimostrano nei vari capitoli, di cui non vi anticipiamo altro, se non la conclusione: «la vittima, sia essa collettiva o individuale, non può trovare soddisfazione nel fatto di vedere il suo carnefice semplicemente chiuso in una cella […] una pena che sia solo vendetta pubblica e null’altro ha fallito il suo scopo».

Storica guida di San Vittore e artefice dell'esperienza di Bollate. Storia di Luigi Pagano, il direttore che inventò il carcere normale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 2 Dicembre 2020. Colui che ha creato la prigione “normale”. Se non conoscessi da trent’anni Luigi Pagano, mitico direttore storico di San Vittore, l’inventore del carcere aperto di Bollate, colui che gestì con sapienza gli anni del terrorismo e quelli di “Mani Pulite”, mi basterebbe leggere la prefazione del magistrato Alfonso Sabella al suo libro (Il Direttore, Zolfo, 18 euro) per capire che la sua è una storia fuori dal comune. Tanto da aver, lui, quasi “convertito” un accanito “piemme antimafia”. Avevo cominciato a stressarlo fin da quando ero cronista giudiziaria al Manifesto e il carcere di San Vittore, dove ero anche stata “ospitata” per due giorni da detenuta, esercitava su di me uno strano fascino. Per la sua forma a stella, per la sua collocazione nel pieno centro di Milano. Un luogo che chiunque poteva vedere, quasi un pugno nello stomaco che ti obbligava a entrare in contatto con il mondo degli invisibili, degli ultimi. “Un pugnale nel cuore della città”, lo aveva definito un volantino anarchico agli inizi degli anni settanta, quando appetiti di varia sensibilità politica già cominciavano a ipotizzare il suo trasferimento in periferia per poi sfruttarne il preziosissimo territorio. Io ero una cronista di quelle che “scarpinano”, come si dice a Milano, e volevo sempre entrare, parlare con i detenuti, conoscere le loro storie. Sentivo una certa sintonia con questo direttore pieno di fantasia e di tentativi di cambiamento, ma anche inflessibile sulle regole. Io lo stressavo e lui mi respingeva. Finché un bel giorno, quando fui eletta in Parlamento, il primo telegramma non fu il suo: «Adesso può entrare quando vuole». Ci davamo ancora del lei, ma eravamo già amici. Camminavamo nello stesso solco. E in carcere sarei tornata spesso, per tutta la mia vita di deputato. È una storia di amicizia, anche quella di cui parla il dottor Sabella nella prefazione. In poche pagine, costruisce una sorta di dialogo-scontro con il suo amico Gigi Pagano, quasi che il libro fosse la storia di due vite parallele che forse, ma solo in parte, si incrociano alla fine. Sicuramente si sono avvicinate nel rapporto personale, ma solo un pochino nel pensiero che sta dietro al pensiero stesso dell’esistenza del carcere, della sua sostanziale inutilità nel non detto di Pagano, nell’incubo delle stragi mafiose come condizionamento perenne di chi, insieme a tanti, pensò solo di “gettare le chiavi” nel credo assoluto di Sabella. Uno, che ancora oggi ama definirsi “piemme antimafia”, senza farsi sfiorare dal dubbio che il magistrato debba occuparsi di fatti e persone e non di fenomeni. L’altro che inventa un carcere, quello di Bollate, che parte dal principio che la cella debba essere il luogo dove si va a dormire, ma non quello dove si vive. Carcere aperto, con luoghi dove si studia, dove si lavora, dove si fa sport, dove si vivono relazioni sociali. Termini come “trattamento” e “lavoro penitenziario”, insieme alla sollecitazione di favorire i rapporti del detenuto con i familiari e l’esterno erano accolti ancora con un po’ di diffidenza da coloro che inaugurarono, alla fine degli anni novanta, il carcere di Bollate ma anche l’interminabile stagione dei “piemme antimafia” alla direzione delle carceri italiane. Così, mentre a Milano il gruppo delle teste pensanti (Pagano ricorda il provveditore regionale Felice Bocchino e il commissario Antonino Giacco) lancerà, sulla scia del nuovo ordinamento penitenziario, il “Progetto Bollate”, a Roma arrivavano al Dap i pubblici ministeri Caselli e Sabella. Magistrati con ancora negli occhi e nelle orecchie le auto esplose di Falcone e Borsellino e la soddisfazione di applicare tanti 41-bis e poi gettare le chiavi. Erano anni in cui, un po’ come in una certa cultura di oggi, la prigione era vista solo come luogo in cui preservare la sicurezza, lontani mille miglia dalla stessa cultura dell’articolo 27 della Costituzione. Quelli come Gigi Pagano erano considerati tipi un po’ strani, come minimo ingenui sognatori che non capivano che certi delinquenti, assassini e autori di stragi, non sarebbero cambiati mai. La storia di Bollate (quella che di recente un “ignorante” come Nicola Gratteri ha definito “solo uno spot”), ma anche di San Vittore, di Opera, di Rebibbia, hanno dimostrato il contrario. E bastano i dati sulle recidive a dimostrarlo: chi in carcere ha potuto studiare, lavorare, mantenere i rapporti con l’esterno, quando torna a casa non delinque più. In otto casi su dieci, dicono le statistiche. Chi viene tenuto in cattività invece non cambia, e torna a delinquere in otto casi su dieci. La percentuale è perfettamente speculare e invertita. «Il rispetto della dignità del detenuto finisce dunque per produrre sicurezza», scrive Pagano nel suo libro. E ricorda che Bollate fu inaugurato due volte. La prima nel 2001 dal ministro del governo di sinistra Piero Fassino, che arrivò accompagnato dal capo del Dap Giancarlo Caselli, e subito dopo le elezioni che si tennero quell’anno e che vennero vinte dal centro-destra, dal neoministro Roberto Castelli e il nuovo capo del Dap Giovanni Tinebra. La filosofia del “carcere normale” di Bollate è stata poi riversata, per quel che era possibile alla diversa struttura, su San Vittore, dove esiste tuttora l’esperienza della “Nave” per i tossicodipendenti, e nella creazione dell’Icam, l’Istituto a custodia limitata per le madri detenute con i bambini che spostava il nido dal carcere a un luogo esterno e separato. A oggi, purtroppo, di legge in legge, di ministro in ministro, ci sono ancora bambini in carcere. Cosa di cui Pagano, ormai in pensione, si rammarica. E benché tutti i guardasigilli promettano, non pare ci siano in Parlamento e al Governo serie intenzioni di risolvere il problema che per primo proprio a Milano aveva sollevato il direttore Pagano. Ci sono anche ricordi brutti, in questo libro. C’è la storia di Gabriele Cagliari, suicida la mattina del 20 luglio 1993, una giornata in cui l’intero carcere, dopo lunghi minuti di silenzio, si fece sentire con pianti e battiture dei cancelli. E poi, alla fine del giorno, un altro detenuto, Zoran Nicolic di trent’anni, fu trovato impiccato. Ma non era stato meno brutto quel 1992, “l’anno che cambiò l’Italia”, per quelle due bombe mafiose che squassano ancora oggi la nostra memoria e per quel che ne seguì. A San Vittore le conseguenze del famoso decreto Scotti-Martelli, che bloccava qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati per i reati più gravi salvo che a vecchi e nuovi “pentiti” ebbe un effetto devastante. «Il giorno dopo a San Vittore –scrive Pagano- ci svegliammo circondati da agenti di polizia e carabinieri che avevano presidiato ogni varco del carcere. Tutti coloro che uscivano, agenti compresi, venivano identificati e i detenuti, quelli che si recavano come ogni mattina sul posto di lavoro, furono arrestati e portati in caserma». A tutti veniva chiesto se intendessero collaborare. La richiesta veniva fatta a persone in carcere da decenni! Ricordo personalmente due detenute di una certa età, che lavoravano nella sartoria sia all’interno che all’esterno di San Vittore e che vent’anni prima erano state vivandiere al fianco dei mariti nei sequestri di persona. Che cosa avrebbero potuto raccontare che non si sapesse già? Purtroppo le conseguenze nefaste di quel decreto, che fu convertito in legge dal Parlamento non senza molti patemi d’animo e con cui tra l’altro fu introdotto l’ergastolo ostativo, furono un grande favore alla criminalità organizzata. Servirono a fiaccare ogni proposta riformatrice, a spegnere le speranza di coloro che, come Pagano, lavoravano per quel “carcere normale” così innovativo e utile per la società. Ma, come scrive il dottor Sabella nella prefazione del libro, «Gigi non ha un fisico imponente ed è molto garbato nei modi, ma sa essere un vero gigante con una determinazione di ferro».

Infatti, pochi anni dopo, la storia ha svoltato, è diventata Storia con la esse maiuscola. Vista, come dice ancora Sabella, «attraverso le sbarre delle prigioni e con gli occhi di quell’umanità che le aveva popolate. È a quelli come lui, oltre che ai giovani naturalmente, che va dedicato questo libro. A tutti gli uomini e le donne del mondo della giustizia, perché, attraverso la comprensione del “carcere normale”, capiscano che dietro alla condanna, prima della prigione, c’è il processo. E anche questo, con l’ispirazione di storie come quella di Pagano, dovrebbe diventare “normale”. Sarebbe ora.

La sopraffazione della comunità. Il debito verso le persone che priviamo della libertà. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 27 Gennaio 2021. Tra i tanti slogan del luogo comune giustizialista c’è quest’altro: che i detenuti devono saldare il proprio debito con la società. Nell’idea, dunque, che il rapporto tra la comunità dei rinchiusi e quella che li rinchiude sia di tipo risarcitorio, appunto con la società in posizione di credito. Ci si può indurre in questa barbara prospettiva solo trascurando il valore del bene che la società sottrae al detenuto, e cioè la libertà. Una comunità civile che avesse senso liberale della vita e di se stessa si sentirebbe responsabile di una sopraffazione mostruosa nell’arrestare la libertà altrui: anche – direi soprattutto – nel caso in cui quell’espediente fosse davvero indispensabile piuttosto che gratuitamente afflittivo, qual è praticamente sempre. E nel ricorrervi, allora, quella comunità meno arretrata percepirebbe se stessa in posizione di debito, non di credito, nei confronti delle persone deprivate perlopiù senza necessità di quel bene supremo. Questa diversa impostazione preparerebbe la società a un inevitabile progresso civile e normativo: e cioè la riconduzione a decenza delle condizioni di vita dei detenuti, sempre che possa considerarsi decente una vita non libera. Quella società diversa parlerebbe così: «Noi non siamo ancora capaci di pensare a un sistema diverso, e dunque ti imprigioniamo. Sentiamo tuttavia di renderci in tal modo responsabili di una incommensurabile ingiustizia, e la privazione cui ti sottoponiamo sarà risarcita con l’assicurazione che a sofferenza non si aggiungerà sofferenza. Per il tempo che sarà, vivrai dunque non libero: ma abiterai luoghi almeno gradevoli e sarai alimentato bene, sarai assistito nella malattia e se vorrai potrai studiare, lavorare, giocare e fare sport, e avere spazio e tempo per condividere la tua vita limitata con le persone a te care. Tutto questo è poco, è nulla a petto di quel che ti togliamo: e proprio per questo è il minimo che ti dobbiamo». È chiaro che non sapremo mai fare un discorso simile. Perché siamo deboli. Perché non troviamo forza nel godimento della nostra libertà, ma nel potere di impedirla agli altri. E la libertà, questa cosa di cui spesso non sappiamo che fare, questa cosa di cui facciamo per noi un uso frequentemente così trascurato e infruttuoso, la sequestriamo ad altri perché ci è intollerabile l’idea che essa possa essere usata meglio di quel che sappiamo fare per noi stessi. La rinuncia alla libertà che imponiamo ai detenuti è il risarcimento per la nostra incapacità di fruirne degnamente.

Il carcere è ancora una vendetta “garantita” dallo Stato. Domenico Alessandro De Rossi su Il Dubbio il 9 febbraio 2021. Le tendenze straniere più avanzate per il recupero dei detenuti sono oggi più orientate verso una concezione proattiva dell’esperienza carceraria. È un ossimoro in Italia parlare di diritti, di esecuzione penale, dell’istituzione penitenziaria anche come struttura fisica rispettosa del dettato costituzionale. Inutile dire che il fin troppo citato art. 27 per i tre poteri dello Stato e la pancia della opinione pubblica, quella a cui preferibilmente risponde la politica, rappresenti spesso solo un esercizio retorico. Infatti dopo tanti anni che aspettiamo una riforma sistemica del “servizio” giustizia che riguardi la concezione del carcere, del trattamento e delle sue caratteristiche edilizie, il principio tuttora vigente è il carcere come pena. Di fatto come pubblica vendetta “garantita” dallo Stato. Parente stretta di questa “delega” conferita alla giustizia, citando un qualcuno finalmente fuori dalla magistratura, è la tesi che l’innocente è solo un “colpevole che l’ha fatta franca”. Serve quindi ripensare il carcere e a maggior ragione la sua configurazione edilizia, specie di un singolo edificio o di singoli ambienti o del colore delle pareti se manca l’idea del “perché” della detenzione? Con queste pessimistiche premesse, per effetto della ragione che osserva la realtà e talune distopie architettoniche, sarebbe ingenuo parlare di diritti dei ristretti. Ma l’ottimismo della volontà è assistito dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Cedu sostiene a non arrendersi al nichilismo che vede, nella “disfunzionalità” dello Stato nei ristretti diritti, l’appalesarsi di un sottile disegno servo di logiche invisibili, ambigue e non sempre facilmente comprovabili. Nelle carceri c’è grave sofferenza e spesso si riscontrano violenze nei confronti di detenuti. Ancora notizie di arresti domiciliari di agenti della polizia penitenziaria che avrebbero duramente picchiato un detenuto. Nel Paese di Beccaria, constatiamo inefficienza, indifferenza, superficialità da parte della politica che nonostante abbia il potere di cambiare, per migliorare lo status quo, nulla compie. Permangono discutibili soluzioni assunte dal Dap che, a seguito della condanna “pilota” del 2013 della Cedu, con fantasia tutta italiana ha adottato la “vigilanza dinamica”. Una finzione tutta burocratica che al mattino apre le porte delle celle per spostare tutti i detenuti in corridoio. Quanto poi avvenga in quella corsia o all’interno delle “camere” non è direttamente osservabile in regime di vigilanza dinamica perché i poliziotti sono posizionati al di là della cancellata. Questa scelta è stata fatta, oltre che per la carenza di personale, principalmente allo scopo di dimostrare alla Cedu che lo spazio a disposizione del detenuto va calcolato tenendo conto anche delle superfici degli anditi e dei corridoi. Forse anche dalle scale? Sulla carta e in teoria questa soluzione lascia i detenuti liberi di circolare in ambienti più vasti, per occupazioni ricreative volte alla formazione. Ma nella maggioranza delle carceri lo spazio fuori dalla cella è solo un corridoio da percorrere più volte al giorno nelle due direzioni. Il camminare su e giù per ore e per anni in quello spazio è a tutti gli effetti una condizione alienante. Giustamente la Cedu considerava lo spazio minimo vitale non solo in base ai metri quadrati ma entrava nel merito anche delle genera-li condizioni di vivibilità per i detenuti. Le tendenze straniere più avanzate per il recupero dei detenuti sono oggi più orientate verso una concezione proattiva dell’esperienza carceraria, lunga o breve che sia. Sono concepite non solo come momento correzionale restrittivo e securitario, da subire esclusivamente come strumento di limitazione spazio-tempora-le, qualificandosi invece come “occasione” di ristrutturazione del comportamento deviato. Una legislazione più aggiornata, dovrebbe prevedere congrue misure deflattive per l’affollamento negli istituti utilizzando criteri di depenalizzazione dei reati minori, immaginando forme alternative di remunerazione sociale. Carceri o penitenziari, istituti correzionali specializzati, case lavoro, centri di recupero comportamentale, aziende agricole soprattutto per i giovani, sono vari i modi per definire quelle strutture di servizio da destinare alla gestione (quasi) totale della vita delle persone condannate, a tutto vantaggio della società libera per evitare recidiva e radicalizzazione. Basato sulla gestione intelligente di progressive gratificazioni capaci di “negoziare” caso per caso la ricompensa in base alla logica premiale, fondando il metodo su metodologie sistemi che con riscontri effettivi concernenti la verifica puntuale della condotta del detenuto. Il criterio dovrebbe sempre essere orientato verso la preparazione al futuro stato di libertà, al reinserimento del detenuto, prevenendo, nell’interesse del corpo sociale, il grave fenomeno della recidiva. Rimandiamo tutto questo alla prossima Italia.

Rems, Tso e carcere: quando la libertà personale è limitata. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 gennaio 2021. Presentato ieri a Napoli il dossier curato da Samuele Ciambriello, garante campano dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Non solo carcere, ma anche un monitoraggio sul Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) e le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). D’altronde non a caso parliamo del garante delle persone private della libertà. Quindi non solo i detenuti, ma tutte quelle persone che di fatto subiscono una limitazione della libertà. In questo caso parliamo dell’attività svolta da Samuele Ciambriello, garante della regione Campania. Ieri mattina si è tenuto a Napoli, nella sala Multimediale del Consiglio Regionale, isola F 13, la presentazione di questo importante lavoro presieduto dal Garante Samuele Ciambriello, dalla vicepresidente del Consiglio Regionale, Valeria Ciarambino e dalla presidente della Commissione Regionale Cultura e Politiche Sociali, Bruna Fiola. La pubblicazione si inserisce in un percorso di studio e approfondimento sui temi più attuali della realtà carceraria e dei luoghi in cui vi è la privazione della libertà personale, in cui l’Ufficio del Garante è impegnato e che ha visto, finora, la produzione di opuscoli e quaderni su Covid e carcere, il tema dei suicidi, dell’affettività e della tutela dei minori. All’evento ha partecipato anche Fedele Maurano, Direttore Dipartimento Salute Mentale, Asl Na1centro, Raffaele Liardo, Direttore Rems Calvi Risorta, Giuseppe Ortano, Associazione psichiatria democratica e Emanuela Ianniciello, Cooperativa Articolo 1. Come spiega il Garante Ciambriello nella sua introduzione al dossier, in questo suo complesso lavoro di mappatura, per la prima volta affrontato sull’intero territorio regionale, ha chiesto di accompagnarlo all’Associazione “Psichiatria Democratica”, per quel che concerne il mandato istituzionale di monitoraggio della situazione sanitaria, ed alla Cooperativa “Articolo 1”, per effettuare visite e approfondimenti per le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Tale pubblicazione, che anticipa i dati raccolti nel 2020 che andranno a costituire la relazione annuale prossima, rileva importanti notizie riguardanti le due aree sopracitate al tempo dell’emergenza Covid-19.

Area sanitaria esterna. Il garante Ciambriello sottolinea che con il termine Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) si intendono una serie di interventi sanitari che possono essere applicati in caso di motivata necessità ed urgenza e qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del soggetto che deve ricevere assistenza. «Nello specifico, al 20/12/2020, – osserva nella sua introduzione al dossier il garante campano – l’offerta di posti letto nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura della Regione Campania ha subìto, causa pandemia, una contrazione di circa il 15%, passando da 140 a 120 posti. Dal 19/10/2020 l’ospedale San Giovanni Bosco (Na) è stato riconvertito in presidio Covid ed i locali del Spdc destinati ad altro impiego; presso l’Ospedale del Mare (Na) i due reparti sono stati fusi in un unico Servizio dotato al momento di 16 posti letto; presso l’Asl di Salerno, invece, nessun cambiamento è stato rilevato con l’arrivo del Covid e nessuna riduzione dell’offerta». Sulla spinta delle Linee Guida Nazionali, i 7 Dipartimenti di Salute Mentale presenti sul territorio campano hanno proposto o convalidato Protocolli di Intesa con i rispettivi Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) riguardanti Percorsi Assistenziali degli utenti Sars-CoV-2 con problematiche emotive cognitive e comportamentali. Alla luce del rapporto posti letto/popolazione residente, che viene considerata ottimale sulla base di un posto ogni 10.000 abitanti, secondo Ciambriello «è possibile affermare che l’attuale offerta del Servizio Sanitario Nazionale è assolutamente inadeguata alle necessità della popolazione, e che l’attuale situazione sanitaria non ha fatto che amplificare una carenza preesistente».

Le Rems e i detenuti in lista d’attesa. Per quanto riguarda invece la situazione delle residenze per le misure di sicurezza campane, le due Rems definitive (San Nicola Baronia e Calvi Risorta), con altre due in regime temporaneo (Mondragone e Vairano Patenora), attualmente ospitano 44 persone. Nota estremamente positiva è che nel periodo che va da marzo 2020 ad oggi, nelle 4 strutture campane nessuno degli ospiti è stato contagiato. Gli unici contagi si sono registrati ad Avellino dove uno screening di massa, effettuato alla fine del mese di settembre u.s., ha permesso l’isolamento delle 6 unità del personale risultate positive e tutte attualmente negativizzate. Dei 44 posti letto totali attualmente occupati nelle 4 Rems, nel periodo in questione, nel dossier redatto dall’ufficio del garante regionale emerge che ci sono stati trasferimenti sia in entrata (per cui è stata seguita la procedura prevista dal sistema centrale del previo tampone), che in uscita attraverso una sostituzione della misura custodiale. La preoccupazione di Ciambriello è rivolta ai detenuti in attesa di collocamento nelle Rems che sono 19: di questi ultimi, 18 provengono da Istituti Penitenziari della regione Campania (10 ristretti nelle Articolazioni Mentali e 3 nei reparti comuni, 5 attendono il fine pena) e 1 proveniente dalla regione Lazio, dalla Casa Circondariale di Regina Coeli. Mentre sono 10 le persone in attesa di un posto in Rems che provengono dalle proprie residenze poiché sottoposti al regime degli arresti domiciliari. Sul tema generale della salute mentale, in carcere e nell’area penale esterna, Samuele Ciambriello organizzerà quest’anno un momento seminariale con più attori: Sanità pubblica, Operatori penitenziari, Terzo Settore, Volontariato, esponenti politici, con l’intento di promuovere le buone prassi e ridurre le criticità emerse dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

La denuncia. Senza assistenza la salute mentale nelle carceri è solo un miraggio. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Salute mentale e assistenza dentro e fuori le carceri è il tema del report presentato dal garante regionale delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, e per la prima volta a livello regionale fornisce una mappatura della situazione sanitaria in questo delicato e complesso settore. Il lavoro, con il contributo delle associazioni Psichiatria Democratica e Articolo 1, punta l’attenzione su Tso e Rems, cioè sul trattamento sanitario obbligatorio e sulle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Secondo dati aggiornati al 20 dicembre scorso, l’offerta di posti letto nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura della Campania ha subìto una contrazione di circa il 15%, passando da 140 a 120 posti. E la pandemia ha inciso, perché l’ospedale San Giovanni Bosco è stato riconvertito in presidio Covid, i locali adibiti all’assistenza dei malati psichiatrici sono stati destinati ad altro impiego e i due reparti dell’ospedale del Mare sono stati fusi in un unico reparto con 16 posti letto. Per quanto riguarda invece le Rems, nelle quattro strutture presenti in Campania (San Nicola Baronia e Calvi Risorta definitive, Mondragone e Vairano Patenora temporanee) sono ospitate 44 persone. E ci sono 19 detenuti che attendono un collocamento nelle Rems, di questi 18 provengono da istituti penitenziari della Campania (dieci ristretti nelle articolazioni mentali, tre nei reparti comuni e cinque in attesa del fine pena) e uno proveniente dal carcere romano di Regina Coeli. A questi bisogna aggiungere dieci detenuti agli arresti domiciliari. «Mi occupo non solo di carceri ma di tutte quelle realtà che vengono private delle libertà, quindi anche persone sottoposte a Tso e questo affinché anche all’interno delle strutture sanitarie siano garantiti i diritti e sia tutelata la dignità dei cittadini. La mancanza di personale all’interno di queste strutture incide su molti problemi rischiando così di cronicizzarli», è la preoccupazione del garante Ciambriello. «L’attenzione sulla salute mentale non va mischiata con le persone detenute, può essere pericolosissimo – è la riflessione sollevata da Fedele Maurano, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl Napoli 1 nel corso del suo intervento alla presentazione del report in Consiglio regionale – In carcere non si può assicurare nessun progetto e programma di salute mentale qualunque persona ci metti dentro, perché senza libertà non c’è cura». «Le Rems dovrebbero essere l’ultimissima sponda – aggiunge – invece i magistrati ricorrono spesso a questa misura sacrificando la salute del singolo alla sicurezza della comunità». «Il diritto alla salute è un diritto dell’uomo, carcerato o libero che sia – afferma Valeria Ciarambino, vicepresidente del Consiglio regionale – Mi impegnerò per far sì che si intervenga su questi temi così delicati e che si possa superare questo stigma sociale, perché la cultura del nostro territorio sembra andare nel senso opposto». Investire su più risorse e sui sostegni alle famiglie è la proposta della presidente della commissione regionale Cultura e Politiche Sociali, Bruna Fiola: «Il sistema sanitario deve essere rafforzato, nonostante siano stati chiusi gli Opg il diritto alla salute non è ancora del tuo rispettato. Dobbiamo lavorare sulle condizioni dei detenuti anche in campo normativo e dare sostegno alle famiglie perché se lavoriamo sulle famiglie possiamo salvare più vite». Intanto è in discussione alla Camera una proposta di legge sulla possibilità di sostenere, con lo strumento normativo dello Stato, i Piani terapeutici riabilitativi individuali (Ptri). «L’auspicio – conclude il presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero – è iniziare questa nuova legislatura con una legge a tutela dei diritti e delle libertà, apertura di un nuovo sviluppo politico con l’obiettivo di eliminare, o quanto meno ridurre, i confini in cui vi è una reale sospensione della Costituzione».

Indignano più le bestie che gli uomini in gabbia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Si dice spesso che se la gente visitasse un allevamento di animali – porci, vacche, tacchini, uno qualsiasi – diminuirebbe il consumo di carne perché lo spettacolo di quella costrizione fa disgustosa anche la sola idea di ingurgitarne le vittime. E magari i visitatori di quelle anticamere di carnaio non si trasformerebbero tutti in animalisti militanti, ma appunto a molti di loro repugnerebbe di lì in poi di nutrirsi ancora di quegli esseri tenuti in vita il tanto che basta a diventare l’alimento altrui. Non sono sicuro che un’analoga rivolta sentimentale si registrerebbe se anziché di bestiame si trattasse di esseri umani detenuti, e se dunque la visita fosse organizzata in un carcere piuttosto che in un macello. Non sarebbe meno istruttiva, a cominciare dal fatto che le condizioni di igiene e sicurezza normalmente assicurate nelle prigioni per umani sono mediamente più blande rispetto a quelle che una legislazione assai più protettiva impone a chi tratta animali. E si potrà dire che i detenuti non sono destinati al macello, ma l’obiezione non calza e anzi dimostra l’appropriatezza del paragone: essi non hanno l’utilità delle bestie, servono tutt’al più a placare la fame tutta diversa di una società che crede di trovare nutrimento risarcitorio in quella segregazione, ma non c’è rischio che diventino cibo velenoso o indigesto e dunque sono per loro superflui i protocolli di garanzia che assistono la salute della scrofa o del bue. Ora io non ricordo esattamente quanti fossero i cinghiali finiti nel Naviglio milanese qualche settimana fa, o quelli abbattuti più recentemente in un giardinetto romano. Erano tuttavia meno di tredici, che è il numero dei detenuti morti in un solo giorno del marzo scorso senza che la cosa abbia smosso un centesimo dell’attenzione – che, per carità, va benissimo – invece dedicata alla triste fine di quei mammiferi. Una cerva imprigionata nel ghiaccio d’un lago o una femmina di leone salvata dal filo di ferro che sta soffocandola raccolgono la simpatia telematica di milioni di like, ma se non c’è niente di simile per il detenuto torquato del laccio che lo impicca non è perché un residuo di rispetto impedisce di fotografarlo: è perché non gliene frega niente a nessuno. Non so se avesse ragione Marguerite Yourcenar quando scriveva che ci sarebbero stati meno bambini martiri e meno vagoni piombati se non avessimo fatto l’abitudine ai furgoni pieni di animali condotti al macello. La realtà è che la produzione di detenuti costituisce un’industria a cui siamo tanto più abituati quanto più ci abituiamo a vergognarci di quella della produzione animale. E mentre reclamare l’abolizione degli allevamenti non è ancora maggioritario ma è già socialmente accettabile, vagheggiare la fine del carcere è semplicemente bestemmia. Forse vale l’opposto, allora: assisteremmo a meno crudeltà negli allevamenti se non assistessimo senza perplessità a quella nelle galere. E mangeremmo forse meno animali se non fossimo abituati a sfamare i nostri desideri di giustizia con la detenzione altrui.

Il Covid dietro le sbarre: dal panico alla rabbia delle rivolte. Sandra Berardi, attivista di Yairaiha Onlus, nel suo libro “Carcere e Covid” ha ripercorso puntualmente le condizioni di vita preesistenti nelle carceri, fino ad analizzare il ruolo dei media sulle rivolte di marzo 2020. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 novembre 2021. Tutto comincia dalle prime notizie di strani contagi, con tanto di morti, che avvenivano nella megalopoli cinese di Whuan. Ci sembrava una situazione lontana dai nostri occhi, un qualcosa che riguardava altrove. Esattamente come le carceri, quelle notizie apparivano come qualcosa che riguardassero altri. Ma poi quel qualcosa ha avuto dapprima un nome, il Covid 19, e infine ha riguardato anche noi. E come ogni cigno nero, la pandemia ha messo a nudo tutte le nostre fragilità e, nello stesso tempo, ha fatto emergere e poi “scoppiare” tutte quelle contraddizioni che riguardano le cosiddette istituzioni totali, tra le quali le nostre patrie galere.

“Carcere e Covid” il libro di Sandra Berardi

Ebbene, Sandra Berardi, attivista di Yairaiha Onlus che si occupa quotidianamente delle condizioni di vita dei detenuti, nel suo libro “Carcere e Covid”, da poco anche in versione cartacea edito da “stradebianchelibri”, ha ripercorso puntualmente le condizioni di vita preesistenti all’interno delle carceri, fino ad analizzare il ruolo dei mass media in merito alle rivolte del marzo del 2020.Interessante, per capire il vero motivo delle rivolte, è il capitolo relativo alla paura del virus dietro le sbarre. Sandra Berardi ricorda che le informazioni riguardo al Covid-19 sono entrate nei 189 istituti penitenziari italiani attraverso gli unici media disponibili e presenti in tutte le celle: radio e televisione e, in minima parte, quotidiani. «Immagino – scrive Berardi nel libro – l’ingresso delle prime, frammentarie, notizie tra gennaio e febbraio essere state seguite con disattenzione dalla popolazione detenuta. E immagino l’attenzione aumentare via via che le notizie divenivano più insistenti. E, assieme all’attenzione, immagino la paura trasformarsi in panico. Paura per i propri cari, innanzitutto. Paura per sé stessi e per i compagni di cella. Paura perché drammaticamente consapevoli della precarietà della sanità penitenziaria».

Le lettere dei detenuti ricevuti dall’associazione Yairaiha Onlus

Per aiutare alla comprensione del dramma psicologico dei reclusi, questo fondamentale capitolo del libro viene alternato dalle lettere dei detenuti che riceveva l’associazione Yairaiha Onlus. La maggior parte delle lettere sono denunce riguardante l’assistenza sanitaria e i tanti detenuti malati, con patologie che – una volta contratto il Covid – diventeranno mortali». Sandra Berardi spiega esattamente il panico in cui vivevano i detenuti. Il ruolo dell’informazione che creava allarme, le inevitabili restrizioni per ridurre i contagi. Chiusure totali. E per chi viveva dentro, inevitabilmente la paura si era amplificata a dismisura. Lo spiega bene. A differenza delle autorità elvetiche che hanno puntato al dialogo con i detenuti, evitando così il prevedibile acuirsi della tensione nella condizione eccezionale che si stava determinando, quelle italiane hanno imposto, di punto in bianco, le restrizioni.

La sospensione dei colloqui ha fatto precipitare la situazione

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le sospensioni dei colloqui. «L’unica relazione umana e affettiva concessa a chi è in carcere, con l’aggravante – sottolinea Berardi nel libro – di averlo comunicato quando i familiari erano già fuori i cancelli in attesa di entrare, con tutte le implicazioni anche emotive che tale attesa comporta già in condizioni normali. «Una notizia che ha aggiunto al panico provocato dalle notizie sul Covid senso di impotenza di fronte a eventi incontrollabili. E dal panico, dal senso di impotenza è sfociata la rabbia», chiosa l’attivista di Yairaiha Onlus.Per chi è a digiuno di carcere, è difficile comprendere quanto sia fondamentale questo passaggio del libro. In mancanza di conoscenza, è stato facile sfociare nella dietrologia, il complotto.

I media hanno rappresentato una situazione distorta

I soliti giornali, al servizio di taluni magistrati che dei teoremi giudiziari ne hanno fatto fonte di carriera, hanno parlato di rivolte organizzate dalla mafia per ricattare lo Stato. Il complottismo funzionale allo Stato di polizia. Nascondere i veri problemi, per ridurre i diritti. Forse, anche per questo gli stessi agenti d polizia penitenziaria si sono sentiti legittimati a reagire – a sangue freddo- con manganellate e pestaggi. Rivolte dove sono scappati i morti, dove giorni dopo si sono verificate le “mattanze” come a Santa Maria Capua Vetere. Tutto questo – tranne alcuni giornali come Il Dubbio, e ringraziamo Sandra Berardi per averlo sottolineato nel libro – è stato sottaciuto, mentre le trasmissioni come, ad esempio, “Non è l’Arena” di Giletti hanno creato le indignazioni sulle cosiddette “scarcerazioni”. Un capitolo, quest’ultimo, affrontato dal libro “Carcere e Covid”. Sandra Berardi ha ripercorso la dinamica di quella trasmissione, scandendo ogni particolare, facendo capire al lettore che si trattava di una vera e propria commedia, ma molto amara. Il messaggio fuorviante che è passato è stato questo: 300 boss di elevato spessore criminale appartenenti al circuito del 41 bis sono stati scarcerati! Il Dap non è in grado di gestire le carceri, i mafiosi sono tornati a casa, siamo tutti in pericolo! Una bufala, che però ha costretto l’ex ministro Bonafede a reagire con decreti emergenziali e restrittivi. Diversi detenuti malati sono rientrati in carcere. Alcuni di loro, hanno poi contratto il covid e sono morti. Il libro di Sandra Berardi va letto tutto, utile per la conoscenza. Un libro che racconta i fatti, evocando anche le parole di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso brutalmente dalla mafia, dove parla di giustizia e non di vendetta. La verità è sempre rivoluzionaria, e in questo libro se ne comprende il motivo.

Il Covid dietro le sbarre. Giustizia all’italiana: agenti penitenziari vaccinati, detenuti no. Francesca Sabella su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. «In considerazione dell’elevato stato di promiscuità che caratterizza la vita negli istituti penitenziari, cronicamente sovraffollati, e del conseguente pericolo di diffusione del contagio da Coronavirus, scrivo per sottolineare la necessità eminente di inserire la popolazione carceraria tra le categorie che dovranno ricevere per prime il vaccino». È la richiesta contenuta della lettera firmata dal presidente della onlus Carcere Possibile, Annamaria Ziccardi, e indirizzata al Ministro della Salute Roberto Speranza, al governatore della Campania Vincenzo De Luca, al commissario straordinario per la gestione dell’emergenza epidemiologica Domenico Arcuri, al guardasigilli Alfonso Bonafede e al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia. Il virus è entrato da mesi dietro le sbarre e la sua avanzata non pare arrestarsi. Nonostante ciò i detenuti non sono contemplati nel piano di vaccinazione. Dall’inizio della pandemia a oggi, in Campania sono stati registrati più di 600 casi di Covid tra i reclusi, solo 6.022 i tamponi eseguiti tra Secondigliano e Poggioreale dove le persone in cella ammontano rispettivamente a 1.147 e 2.019. I detenuti morti di Covid sono stati quattro. Tra gli agenti di polizia penitenziaria, invece, ci sono stati più di 800 contagiati e una vittima, mentre tra gli operatori sanitari (medici, infermieri, operatori socio-sanitari), si è registrato un solo morto a fronte di decine di casi di infezione. Sono questi i dati raccolti dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Attualmente in Campania ci sono attualmente i positivi sono 23: uno a Poggioreale, due a Santa Maria Capua Vetere e 19 a Secondigliano; a loro se ne aggiunge uno ricoverato al Cotugno. Inoltre ci sono circa 70 contagiati tra agenti di polizia penitenziaria e personale sanitario. Negli istituti di pena italiani, invece, sono circa 600 i detenuti positivi al virus e 652 i contagiati tra il personale dell’amministrazione penitenziaria. È notizia di questi giorni anche il focolaio scoppiato nel carcere romano di Rebibbia: sono 104 i detenuti positivi di cui cinque ricoverati in ospedale. I numeri crescono e i reclusi non sembrano avere alcuna priorità, al contrario degli agenti della penitenziaria. «Incredibilmente – scrive Ziccardi – è stata predisposta la vaccinazione solo per il personale delle carceri. Il non aver attribuito alla vaccinazione dei detenuti alcuna priorità appare estremamente grave poiché è stato affermato che la vaccinazione è ispirata a principi di equità, reciprocità, legittimità, protezione e promozione della salute». Nulla da fare, quindi, per i reclusi, almeno per il momento: «In ragione di quanto esposto – conclude la Ziccardi – si invita alla modifica e implementazione del piano strategico dei vaccini. Implementazione improcrastinabile per i detenuti over 60. Ricordando che la popolazione carceraria è sotto la custodia dello Stato che ha l’obbligo di salvaguardarne l’integrità fisica con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di responsabilità politica e giuridica».

Il caso. Non solo Verdini, ci sono altri 850 detenuti ultra settantenni a rischio: scarcerateli! Piero Sansonetti su Il Riformista il  2 Febbraio 2021. Qualche giorno fa il tribunale di Sorveglianza ha deciso di scarcerare Denis Verdini per ragioni sanitarie. Il motivo di questa decisione è semplice e, direi, indiscutibile. Nel carcere di Rebibbia i malati di Covid sono ormai più di 100, quasi un detenuto su dieci ha preso il virus. Verdini è stato imprigionato recentemente, per reati finanziari, ed è uno dei detenuti anziani. In maggio compirà i 70 anni. Ha diversi problemi di salute che riguardano il funzionamento del suo cuore e dei suoi polmoni. Questo lo rende particolarmente vulnerabile: se dovesse beccarsi il virus rischierebbe una malattia molto grave o anche la morte. I giudici di sorveglianza hanno esaminato i referti medici e il certificato dell’anagrafe e, applicando la legge, gli hanno concesso la scarcerazione provvisoria, cioè l’invio agli arresti domiciliari. Per ora il provvedimento avrà una durata di soli due mesi, il tempo che finisca l’emergenza sanitaria. Poi a fine marzo Verdini dovrebbe tornare in carcere, se non ci saranno novità. Per quanto tempo? Ai primi di maggio compirà i 70 anni e la legge prevede che, in linea di massima, le persone che hanno compiuto i 70 anni scontino la pena ai domiciliari, o ai servizi sociali. Però questa norma non prevede l’automatismo: è affidata al giudizio dei magistrati. La liberazione di Verdini ha suscitato, naturalmente, delle polemiche. Voi sapete bene che la gran parte degli opinion leader, in Italia, e dei giornalisti (e naturalmente dei politici) sono travolti da una irrefrenabile amore per le manette e le punizioni. La principale religione laica, oggi come oggi, è quella che venera il Dio forca. Dunque la notizia della scarcerazione dell’uomo che per molti anni è stato l’ombra di Berlusconi ha gettato nello sconforto e provocato una montante rabbia in gran parte dei nostri commentatori. Invece è soprattutto una buona notizia. Perché è la notizia di una legge rispettata. Perché scrivo “soprattutto”? Perché ora ci aspetteremmo la liberazione di molti altri prigionieri che si trovano in condizioni molto simili a quelle di Denis Verdini. Quanti? Intanto, secondo gli ultimi dati ufficiali, alla fine del 2020 c’erano in prigione 850 persone che hanno più di 70 anni. Un numero molto alto. Probabilmente pochissime, tra loro, costituiscono un pericolo per la società. E quindi è possibile scarcerarle tutte o quasi tutte. O lo fanno i tribunali di Sorveglianza, che però, probabilmente, a questo punto son oberati dal lavoro, o lo fa il governo con un decreto. Poi si potrebbe anche prendere in considerazione la liberazione delle persone leggermente più giovani, per esempio i detenuti con più di 60 anni. Sono 3780. In questo modo, probabilmente, si potrebbe ottenere una prima, seppur modesta, riduzione del sovraffollamento nelle carceri, che in questi mesi è molto forte, mentre il Covid picchia duro. C’è solo Travaglio, credo, che non si è accorto di quanto sia drammatica la situazione Covid nelle prigioni. Oltretutto si potrebbero prendere ancora un paio di provvedimenti, sempre a norma di legge o attraverso un decreto, che produrrebbero un ulteriore ridimensionamento del sovraffollamento: scarcerare tutti i detenuti che sono stati condannati a una pena inferiore a un anno (si suppone per crimini non atroci) che sono circa 1000 e poi anche quelli con pene inferiori ai due anni, che sono più di duemila. Realizzando queste poche e ragionevolissime misure avremmo una riduzione della popolazione carceraria di 7.700 unità, circa, cioè di oltre il 15 per cento. Poi, certo, se vivessimo in un paese tollerante e liberale, potremmo addirittura giungere fino all’indulto e all’amnistia. Ma questo richiederebbe la presenza in Parlamento di una classe politica. Circostanza, al momento, quasi impossibile.

A Poggioreale su 2mila detenuti solo uno può andare a lavorare fuori. Un anno da garante, i numeri di Pietro Ioia: “In carcere anziani anche più malati di Verdini ma sono poveri”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Sei visite ispettive, oltre 500 detenuti incontrati e un migliaio di telefonate ricevute dai familiari degli stessi per denunciare violenze, criticità sanitarie, casi di covid, condizioni igieniche precarie, problemi economici e le lungaggini burocratiche. Sono solo alcuni dati del report di 64 pagine presentato dal garante dei detenuti del Comune di Napoli Pietro Ioia al termine del suo primo anno di mandato. “Sono il garante del popolo” ha spiegato Ioia, 62 anni, nel corso della conferenza stampa al Gridas (Gruppo RIsveglio DAl Sonno) di Scampia. Un anno intenso, segnato dall’emergenza coronavirus che ha accentuato ulteriormente le criticità presenti nelle carceri italiane e, in questo caso, napoletane. Un anno segnato anche dalla quasi totale assenza dell’amministrazione comunale partenopea. Dopo la nomina di Ioia infatti il sindaco de Magistris “è sparito, doveva venire con noi in visita ai detenuti ma non si è fatto più sentire”. Ioia, che non percepisce uno stipendio per l’attività che svolge (perché non previsto dal comune partenopeo), non ha un ufficio (“il mio ufficio è il bar”) ma, nonostante i pochi mezzi a disposizione, è riuscito a diventare in pochi mesi un vero e proprio punto di riferimento per i familiari dei detenuti ristretti nel carcere di Poggioreale, in quello di Secondigliano e nell’istituto minorile di Nisida. Nel suo lavoro quotidiano è stato affiancato da due donne, Sara Romito e Sara Meraviglia, che in questo lungo e intenso anno hanno avviato contatti con associazioni presenti sul territorio per garantire i servizi minimi ai detenuti e ai loro familiari. “Nelle prossime settimane attiveremo uno sportello legare gratuito presso il centro Gelsomina Verde di Scampia in modo tale da aiutare i parenti che non hanno la possibilità di sostenere la spesa economica di un avvocato” ha spiegato Romito. Ioia nel corso dell’ultimo anno ha incontrato anche quattro detenuti che hanno provato a togliersi la vita. “Con il covid, le attività ricreative dimezzate, i tempi burocratici relativi alle decisioni su pene alternative, procedimenti penali, visite specialistiche, la vita all’interno è diventata un incubo” spiega il garante comunale. “Ci sono tanti detenuti con patologie pregresse, ci sono anziani anche più malati di Verdini ma sono poveri. E’ sempre una tragedia, ogni volta che li incontro mi dicono sempre le stesse cose. Ce ne sono tantissimi che potrebbero uscire prima, perché hanno pochi mesi da scontare, e invece non accade nulla” aggiunge Ioia. “Purtroppo lo Stato è assente soprattutto nelle carceri della Campania. E’ stato un anno difficile, ci sono stati morti per covid, ci sono state violenze accuratamente preparate e disposte dopo le rivolte, così come è capitato a me 30 anni fa” spiega Ioia. Un altro dato eclatante è relativo all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, quello che permette ai detenuti che ne fanno richiesta e ne hanno i requisiti di svolgere un’attività lavorativa all’esterno delle mura carcerarie. “Il caso di Poggioreale è emblematico – spiega Sara Meravaglia dei Radicali Italiani – perché a fronte di una popolazione detentiva di quasi 2mila unità c’è un solo detenuto a cui è stato consentito di svolgere attività esterna”. “Il problema – aggiunge – è legato alle scarse risorse destinate ai penitenziari e alle istituzioni che non svolgono il ruolo di mediatori tra la comunità cittadina e il carcere stesso”. Presente alla conferenza stampa anche Antonio Piccirillo, 25 anni, figlio del boss Rosario Piccirillo (attualmente detenuto), che entrerà nello staff di Pietro Ioia per lavorare alla costruzione di un’alternativa per chi si trova in carcere. Antonio Piccirillo (di cui parleremo in modo approfondito in un articolo che verrà pubblicato a breve) è salito agli onori delle cronache nel maggio del 2019 quando partecipò a una fiaccolata in piazza Nazionale dopo l’agguato subito dalla piccola Noemi, la bimba di 3 anni ferita per errore mentre si trovava fuori a un bar in compagnia della nonna e della madre.

Carcere di Modena: inchiesta archiviata, ma restano i dubbi per gli 8 morti. L’avvocata Simona Filippi: «Antigone andrà avanti affinché venga fatta chiarezza sulla morte di queste persone». L’avvocato Luca Sebastiani che rappresenta i parenti di Chouchane Hafedh: «Troppe le zone d’ombra». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 giugno 2021. Otto i detenuti morti per la rivolta dell’8 marzo 2020 del carcere Sant’Anna di Modena. Otto morti definitivamente archiviati dal Gip che ha accolto la richiesta dalla procura modenese, dichiarando addirittura inammissibile gli atti d’opposizione dell’Associazione Antigone e del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà.Parliamo di Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah. Alcuni ritrovati morti dentro al carcere per overdose di psicofarmaci e metadone, altri deceduti mentre venivano trasferiti in altre carceri a ore di distanza, altri ancora una volta giunti a destinazione.

Per il Gip la vicenda ha trovato «compiuta ricostruzione nella relazione degli agenti». Ma secondo il Gip, la vicenda oggetto del procedimento «ha trovato compiuta ricostruzione, nella sua genesi e nel conseguente sviluppo in termini spaziali e temporali, nelle relazioni redatte dalla Polizia penitenziaria e dalla Squadra Mobile della Questura modenese». Eppure, a leggere il provvedimento di archiviazione di due pagine e mezzo, non sono stati chiariti una serie di elementi e criticità sollevate nell’atto di opposizione depositato. Basti pensare a Chouchane Hafedh. Una storia amara la sua, visto che al ragazzo tunisino, con l’eventuale ottenimento dei benefici, gli sarebbero mancate due settimane per uscire finalmente dal carcere, un istituto del tutto fallimentare per ragazzi che commettono reati dovuti dalla tossicodipendenza.

Nel carcere di Modena il sovraffollamento era del 147%. La situazione del carcere di Modena era di sovraffollamento particolarmente grave, con una percentuale pari al 147%. Era prevedibile uno sviluppo così violento, quello della rivolta, in presenza di parametri fortemente lontani da quelli ordinari? Proprio la posizione di garanzia richiesta a tutto il personale presente in Istituto impone che negli istituti penitenziari i medicinali (quali il metadone) siano messi al sicuro e contenuti all’interno di casseforti o armadi blindati.

Si ha il dovere di non lasciare incustodito l’armadietto dei medicinali. Si ha quindi il dovere di non lasciare incustodito questo tipo di sostanza poiché l’uso scorretto può portare ad una overdose. È stato fatto tutto ciò? L’amministrazione penitenziaria, come suo dovere, ha vigilato affinché il detenuto non compia determinati atti che, soprattutto se tossicodipendente, sono prevedibili in situazioni di rivolta?

Il metadone si trovava all’interno di un armadio blindato, trovato aperto e non scassinato, di cui manca la prova che fosse stato chiuso a chiave quella mattina e la cui chiave si trovava, comunque, all’interno di una presunta cassetta di sicurezza.

Discrepanze temporali nei racconti degli infermieri. Vi sono poi delle discrepanze temporali tra i racconti delle infermiere presenti durante la rivolta di Modena, che davano contezza della chiusura dell’armadio contenente il metadone fino alle 16 circa, e l’intervento del 118, che già dalle 14 e 30 operava su soggetti in preda ad overdose. Non solo. Sono emerse anche delle incongruenze tra le dichiarazioni dei detenuti e quelle degli agenti di polizia penitenziaria. Ma tutto ciò, nel provvedimento di archiviazione, non è stato chiarito approfonditamente. «Non è accettabile che una vicenda così grave che ha visto la morte di otto detenuti si chiuda con un provvedimento così motivato».

L’associazione Antigone andrà avanti per fare chiarezza. L’associazione Antigone, per voce dell’avvocata Simona Filippi, commenta così l’archiviazione firmata dal gip di Modena per il caso dei detenuti morti nella rivolta di marzo 2020. «Stiamo valutando quale sia l’azione più opportuna da prendere ma sicuramente l’associazione andrà avanti affinché – aggiunge l’avvocata Filippi – venga fatta chiarezza sulle ragioni della morte di tutte queste persone». A esprimere sorpresa e amarezza è anche l’avvocato Luca Sebastiani che rappresenta i parenti di una delle vittime, il tunisino Chouchane Hafedh: «Sono troppe le zone d’ombra che non sono state chiarite in questa triste vicenda e questo non possiamo accettarlo. Pertanto siamo pronti a ricorrere nelle opportune sedi, confidando che prima o poi i familiari di queste giovani vittime avranno le risposte che meritano».

Tortura, pestaggi, omissioni: la verità sui nove morti del carcere di Modena arriverà dai filmati. La procura riapre il caso sulle violenze dopo la tragica rivolta del marzo 2020 al Sant’Anna. L’Espresso è in grado di confermare l’esistenza di documenti che fanno riferimento alle immagini del circuito interno. Pierfrancesco Albanese su L’Espresso il 29 settembre 2021. La cortina fumogena piombata sulle rivolte del carcere di Modena si sta diradando. E dietro alla cappa, i presunti pestaggi, le brutalità e le omissioni su visite e trasferimenti assumono fattezze più nitide. Tanto da farsi esposto e da indurre la procura ad aprire un nuovo fascicolo con l’ipotesi di tortura e lesioni aggravate. È lo scossone che riapre il caso del Santa’Anna, dopo le rivolte che hanno condotto alla morte nove detenuti. Overdose da medicinali per tutti, secondo l’ordinanza con cui il Gip, Andrea Salvatore Romito, ha disposto l’archiviazione del fascicolo riguardante otto dei nove morti. Il caso di Salvatore Piscitelli, morto nel carcere di Ascoli dopo il trasferimento da Modena, resta invece aperto. Fondamentali, in tal caso, le denunce di cinque reclusi, testimoni di violenti pestaggi che dicono commessi dagli agenti. Ora a questi racconti se ne aggiungono altri, che riaccendono i dubbi sulla frettolosa archiviazione. Un recluso riferisce di cordoni di agenti intenti a picchiare indiscriminatamente chi si consegnava durante la rivolta. Tanto da ammazzare un compagno, poi trascinato «come un animale». «Quando sono uscito vedevo davanti a me una fila a destra e una a sinistra di agenti della penitenziaria. Sono uscito tenendo le mani in alto e dicendo che non avevo fatto nulla. Nonostante ciò, alcuni agenti mi bloccavano, mi ammanettavano e mi misero a testa in giù. Venivo poi portato in sorveglianza dove venivo sdraiato per terra e picchiato violentemente con calci e pugni, anche con l’uso del manganello. Provavo a dire che non avevo fatto nulla, ma proprio per averlo detto mi buttavano nuovamente a terra e mi picchiavano ancora». Poi è il turno di un recluso tunisino, ammanettato e picchiato. Dopo le botte non risponde più. «Ho capito che era morto. Tornati gli agenti richiamavo la loro attenzione urlando e questi vedevano il ragazzo a terra e cominciavano a prenderlo a botte per svegliarlo. Lo prendevano come un animale e lo trascinavano fuori».

Al momento sono in corso le verifiche per l’eventuale riconoscimento. Intanto il referto medico sul testimone dice distacco osseo, fratture e lussazioni nelle aree del braccio, dell’avambraccio e della mano sinistra, e un’operazione al polso. Che, riferisce il legale, Luca Sebastiani «rischia di non poter recuperare nella sua piena funzionalità per il resto della vita». A fronte del nuovo esposto, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti ipotizzando il reato di tortura. «È chiaro che, ancor più dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere, ci aspettiamo massima attenzione su questa vicenda», commenta il legale. Ma, a differenza del carcere campano, a Modena non sono emerse immagini del circuito di video-sorveglianza, che, a più riprese, si è detto non in funzione durante la rivolta. L’Espresso è però in grado di dimostrare l’esistenza di documentazione in cui si fa esplicito riferimento alla presenza di filmati delle videocamere interne. In un’informativa del 21 luglio 2020, il Comandante di reparto dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, M.P, rimette alla procura di Modena una nota preliminare riassuntiva dei risultati investigativi sino ad allora espletati sui reati commessi dai detenuti, in aggiunta ad allegati su supporto dvd. Affermando inoltre che «sarà possibile perfezionare l’informativa una volta completata la delegata analisi dei filmati del circuito di video-sorveglianza interno». A questo si aggiunge il rimando presente nella richiesta di archiviazione, dove, nel ricostruire la morte di Athur Iuzu, si afferma che dei soccorsi prestati vi è traccia in un’annotazione «in cui vengono descritti gli esiti della visione dei diversi filmati relativi alla rivolta acquisiti nell’immediatezza dei fatti». Interpellata da L’Espresso sul punto, la procura di Modena, guidata dal neo-insediato Luca Masini, non ha fornito risposta. Non ha dissipato così i dubbi sull’esistenza di frame che possano sgombrare il campo dagli interrogativi. Come per la morte dello stesso Arthur Iuzu e di Hadidi Ghazi, per i quali, secondo il perito del Garante dei detenuti, Cristina Cattaneo, la causa di morte non è nota. Dalla procura si ipotizza il decesso per assunzione incongrua di farmaci. Ma i dubbi, dice Cattaneo, non possono essere fugati in assenza di autopsia completa, nei due casi non compiuta. Per entrambi c’è il nodo della presenza di traumi evidenti: l’avulsione di due denti per Hadidi, con sangue nelle cavità orali e nasali, che porta Cattaneo a dare per assodato un recente trauma contusivo al volto che non consente di escludere una commozione cerebrale o una emorragia mortale; per Iuzu escoriazioni e lacerazioni sul volto che «lasciano dubbi su una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio». Se auto-prodotte o etero-prodotte non è dato sapere. Ma potrebbe esserlo con i filmati, potenzialmente in grado di chiarire quanto accaduto nelle pieghe della giornata di Modena, anche sul capitolo trasferimenti. Dei 546 detenuti, ben 417 saranno trasferiti. E quattro moriranno durante o dopo il viaggio, senza riscontri documentali sulle visite mediche e i nulla osta sanitari imposti dalla legge per gli spostamenti. Il sospetto è che non fossero in condizioni di sostenerli e che le visite non siano state espletate, come sostenuto più volte dai reclusi. Da ultimo dall’ex detenuto C.R., autore di una testimonianza messa a verbale dal legale del Garante dei detenuti, Gianpaolo Ronsisvalle, che smentisce anche la tesi dell’idoneità fisica dei reclusi a sostenere il viaggio in virtù della “breve durata”, sottoscritta dalla procura. Prima della partenza, riferisce, i detenuti sarebbero stati lasciati ammanettati a terra dalle 14 a mezzanotte, senza mangiare né bere, per poi essere tradotti sui pullman. Durante il tragitto Rouan Abdellha accusa ripetuti mancamenti. «Ho chiesto più volte l’intervento dell’ispettore capo scorta perché il ragazzo per me non stava bene. Mi veniva risposto che al nostro arrivo ad Alessandria avrebbero preso provvedimenti». Ad Alessandria arriveranno in tarda notte. Rouan Abdellha morto. L’odissea del testimone, invece, terminerà solo intorno alle 11 del mattino seguente, quindi diverse ore dopo la partenza, quando gli si consentirà un panino ad Aosta dopo oltre 20 ore a digiuno. Non va meglio ai cinque firmatari dell’esposto su Piscitelli. Consegnatisi agli agenti, raccontano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe e degli indumenti, particolare che si ritrova anche nelle ricostruzioni sui trasferimenti dei detenuti a Parma, giunti senza vestiti per ammissione della procura, caricati sui furgoni e picchiati. Piscitelli arriverà ad Ascoli in condizioni critiche, lamenterà dolori durante la notte. Alle richieste di aiuto lanciate dal cellante, Mattia Palloni, tra i firmatari dell’esposto, un agente risponde «lasciatelo morire». E Piscitelli morirà, qualche decina di minuti dopo. Elisa Palloni, sorella di Mattia, rivela a L’Espresso le pressioni che il fratello avrebbe poi subito per ritirare l’esposto. «A Mattia la procura di Ascoli ha chiesto di ritirare l’esposto. Gli hanno offerto un lavoro in istituto, ma lui ha rifiutato». Altri particolari su quegli istanti emergono ancora dal reclamo che un detenuto, C.C., ha inviato alla ministra della giustizia Marta Cartabia. «A Modena», scrive, «molti detenuti furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate usando anche i tondini in ferro pieno che si usano per effettuare la battitura nelle celle». Ad Ascoli, invece, «la mattina seguente salì una squadretta in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello, e cella dopo cella ci picchiarono tutti. Fu una vera e propria spedizione punitiva». Anche su questo indagheranno le commissioni ispettive istituite dal Dap, su impulso della ministra Cartabia. Ma su Modena sorgono già i primi problemi: del pool fa parte anche Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato che ha coordinato le operazioni di trasferimento dei detenuti durante la rivolta. E che dunque sarebbe chiamato a indagare su se stesso. Intanto tra i reclusi c’è chi ancora denuncia trattamenti di sfavore. Lo racconta Annamaria Cipriani, madre di Claudio, tra i firmatari dell’esposto di Ascoli. Da mesi si batte per vedersi restituita la verità sulle rivolte. Chiede di visionare i filmati di Ascoli, dove nessuno ha smentito l’esistenza di circuiti regolarmente in funzione. E riferisce quanto accaduto al figlio dopo l’esposto. «Claudio è stato messo in cella con finestre rotte, acqua sporca e senza coperte. Con la reclusione ha dovuto anche abbandonare l’università. Ha risposto a tre interpelli pur di continuare a studiare, sempre rifiutati. Non gli garantiscono alcun diritto, ma lui ringrazia Dio anzitutto di essere ancora vivo. Sono ragazzi che hanno sbagliato, ma stanno già pagando. Meritano di essere trattati da persone umane».

Il coraggio di “Report” di affrontare il carcere senza inutili dietrologie. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 gennaio 2021. Nel programma di Rai3 Report, condotto da Sigfrido Ranucci, Bernardo Iovene ha firmato un’inchiesta sull’universo penitenziario. George Orwell scrisse che «la vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire». Ieri sera, il programma Report condotto da Sigfrido Ranucci l’ha messo in pratica grazie all’inchiesta firmata da Bernardo Iovene, giornalista storico della trasmissione di Rai3. L’argomento è scomodo, impopolare, divisivo e per questo la redazione di Report è stata coraggiosa: ha trattato il tema delle carceri italiane al tempo del Covid 19. Non da un punto di vista dietrologico, ma attraverso, fatti, dati e testimonianze raccolte girando tra le carceri italiane. Ed è Iovene ad introdurre il sevizio con la sua voce fuori campo, focalizzando subito il problema, ovvero sottolineando il fatto che «la polizia penitenziaria nell’ultimo anno è stata messa a dura prova. Durante le rivolte nel periodo del primo lockdown, le proteste hanno riguardato 21 carceri, ci sono stati 107 feriti tra gli agenti e 69 tra i detenuti, ci sono state anche 13 persone detenute morte, e danni ingenti alle strutture carcerarie per quasi 10 milioni di euro, e ci sarebbero stati purtroppo anche abusi: atti di violenza gratuita sui detenuti». Tutti gli altri programmi televisivi, come per esempio Non è l’Arena di Massimo Giletti, sono rimasti indifferenti al dramma che la popolazione detenuta stava (e sta tuttora) vivendo con le sue, ancora poco chiare, 13 morti e presunte torture. Il tutto si stava concentrando con l’inasprimento della repressione, l’irrigidimento da parte della magistratura di sorveglianza nel concedere i benefici e il ritiro della famosa circolare del Dap. Ed è su quest’ultimo punto che il conduttore di Report, Ranucci, spiega quello che altri programmi televisivi non hanno avuto il coraggio di dire. Dopo aver ricordato che la circolare invitava i direttori dei penitenziari ad applicare una norma già esistente: «segnalate ai magistrati di sorveglianza quei detenuti già malati o affetti da patologie gravi, che avrebbero potuto rischiare la vita se contagiati in carcere. E valutate di mandarli agli arresti domiciliari», ha evocato anche l’indignazione scaturita sulla detenzione domiciliare delle 376 persone di cui 3 boss mafiosi. Ma poi ha aggiunto: «La circolare è stata sospesa il 17 giugno. Questa circolare sembrava minare l’istituto del 41 bis, in realtà lo avrebbe protetto. Lo Stato il pugno di ferro lo deve esercitare con i duri. Già il 41 bis è ai limiti della violazione dei diritti umani, si regge solo in nome della tutela della sicurezza della collettività. Ma se uno è morente, anche se boss, cosa tuteli? Finisci con alimentare la voce di chi vorrebbe abolirlo». Finalmente una inchiesta televisiva dove si pone seriamente la questione del 41 bis che è al limite della nostra Costituzione. Se finora ha retto lo si deve a quei pochi magistrati di sorveglianza e alle sentenze della Cassazione che hanno ripristinato i diritti più elementari, togliendo quelle misure afflittive in più che lo stesso Falcone non aveva assolutamente contemplato. Ma il carcere duro, ricordiamolo, è a rischio se dovessero arrivare condanne più dure da parte della Corte Europea. Il paradosso è proprio questo: chi vuole misure afflittive in più, contribuisce al rischio della sua abolizione.

Il boss morto per Covid nel carcere di Opera. Il giornalista di Report Iovene ha anche approfondito la vicenda del boss al 41 bis del carcere di Opera morto per Covid 19. Ha ricordato che il nostro ordinamento prevede che, ove siano necessarie cure o accertamenti che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti penitenziari, i condannati andrebbero curati fuori dal carcere. Ed è quello che ha chiesto l’avvocato Paolo Di Fresco per il suo assistito al 41 bis. Ma niente da fare. Istanze per la detenzione ospedaliera puntualmente rigettate, nonostante che il boss avesse contratto polmoniti interstiziali, fosse stato operato di tumore, con un intervento di aneurisma all’aorta e un’ischemia cardiaca. «Un quadro desolante – ha denunciato l’avvocato Di Fresco a Report – , quindi c’erano tutti i presupposti affinché fosse mandato a casa proprio per preservarlo dal rischio di contagio. Mi è stato risposto che il virus nel carcere di Opera non può entrare e che anzi l’isolamento avrebbe consentito di tutelarlo maggiormente. Dopo una settimana dalla decisione del tribunale di sorveglianza di Milano mi è stato comunicato che aveva contratto il virus». Viene quindi trasferito in ospedale in gravi condizioni. Subito dopo l’intervista – che risale al 2 dicembre -, l’avvocato contatta telefonicamente Iovene per annunciargli che il suo assistito è morto.

Le rivolte e i presunti pestaggi. Ma tanti sono i temi scomodi che Report ha affrontato. Il focus principale è sui presunti pestaggi avvenuti in diverse carceri, a partire da quello di Santa Maria Capua Vetere. L’intervista è al garante regionale Samuele Ciambriello e a quello locale Pietro Ioia. Ma Bernardo Iovene pone domande anche Antonio Fullone, il provveditore della Campania che ha inviato la squadra di agenti penitenziari per fare la perquisizione al carcere dove sarebbe poi avvenuto il brutale pestaggio. «Quello che colpisce è il pestaggio a freddo che viene denunciato», gli dice Iovene. «Se dovesse essere così è grave», risponde Fullone. Tanti sono i presunti pestaggi e torture che Report rende pubblici per la prima volta in tv. Ma soprattutto affronta l’inquietante vicenda dei morti di Modena. Intervista per la prima volta un ex detenuto che avrebbe assistito ai fatti. Morti per overdose è la versione ufficiale, ma tante cose non tornano. A partire dal fatto che alcuni di loro, nonostante stessero male per aver ingerito grosse quantità di metadone e psicofarmaci, sarebbero stati picchiati. Non c’è alcuna prova che dietro le rivolte ci sia una regia occulta. Questo lo dice, con onestà intellettuale, anche Sigfrido Ranucci.

Il dramma del sovraffollamento. Quello che però ha potuto constatare Report sono le pessime condizioni in cui versano le carceri italiane. «Gli animi li esasperano – ha detto il conduttore di Report introducendo il servizio su Poggioreale -, e non sono certo quelle le condizioni ideali per favorire la rieducazione o la redenzione di chi ha sbagliato nella vita. Se è vero che l’80% di chi va in carcere poi ci ritorna, è inevitabile che al tempo del virus la situazione esplodesse». Ed è proprio il sovraffollamento il primo problema che attanaglia le nostre carceri. Sommando anche l’emergenza Covid 19, la miscela è esplosiva.

Le interviste al Garante e a Rita Bernardini. Per questo Report ha intervistato sia il il garante nazionale Mauro Palma, che ha il polso di tutta la situazione, sia Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. L’intervista risale a quando l’esponente radicale era in sciopero della fame per chiedere misure deflattive più efficaci. Ma ad oggi nulla è cambiato come denuncia a Report anche Roberto Giachetti di Italia Viva, uno dei pochi parlamentari che si è battuto, purtroppo invano, per far introdurre almeno la liberazione anticipata speciale. Ieri la Rai ha trasmesso un servizio di inchiesta di alto livello giornalistico. Ha dato la possibilità, a un pubblico decisamente più vasto, di far conoscere un mondo nascosto e quasi impenetrabile. Non conoscendolo aumentano i luoghi comuni e c’è chi li cavalca assecondando i peggiori istinti. Ringraziamo Bernardo Iovene per aver parlato anche de Il Dubbio e in particolare di questa pagina che dedichiamo quotidianamente al carcere. Per la prima volta, in tv, abbiamo visto molti volti “amici”. Quelli che ogni giorno si battono per i diritti umani all’interno di quelle quattro mura. Tra i volti amici, anche quelli dei sindacati della polizia penitenziaria, perché anche loro hanno il diritto di essere ascoltati. Una bella inchiesta che, speriamo, abbia scosso anche le coscienze più retrive. Ci auguriamo che non finisca qui, perché c’è ancora tanto da dire.

Il carcere al tempo del virus. Report Rai PUNTATA DEL 18/01/2021di Bernardo Iovene, collaborazione di Federico Marconi e Greta Orsi. Cosa è successo dentro al carcere di Modena durante la rivolta di marzo? Secondo le testimonianze di detenuti e familiari che ricostruiscono quei momenti tragici, ci sarebbero stati pestaggi a freddo dopo la rivolta, e anche durante i trasferimenti, all'arrivo nei vari istituti, e nei giorni seguenti. Dai racconti intrecciati si disegna uno scenario inquietante, che deve riguardare tutti compreso le massime istituzioni, per capire se è vero; quali sono stati gli ordini, chi li ha dati e se il Ministero ne era al corrente. Nel carcere di Modena sono morti 5 detenuti, le autopsie dicono da intossicazione di farmaci e metadone. Altri 4 detenuti sono morti dopo essere stati trasferiti in altre carceri, sono stati visitati? Si potevano salvare? Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere attraverso le registrazioni delle telecamere di sorveglianza la procura ha individuato abusi che sarebbero stati commessi da 44 agenti penitenziari, altre centinaia di agenti non è stato possibile identificarli. Report è venuta a conoscenza che a operare a volto coperto è stato un nuovo reparto creato dopo le rivolte: sono i Gir, Gruppo di intervento rapido. Intanto il decreto Ristori ha posto molti paletti alla possibilità di detenzione temporanea ai domiciliari per chi ha un residuo di pena fino a 18 mesi e pochi detenuti ne hanno usufruito. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Natale è stato in visita a Regina Coeli, ma per il Garante nazionale dei detenuti e anche per alcuni magistrati di sorveglianza il decreto è timido e non affronta il problema principale del sovraffollamento.

“IL CARCERE AL TEMPO DEL VIRUS” Di Bernardo Iovene Collaborazione Greta Orsi - Federico Marconi BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La polizia penitenziaria nell’ultimo anno è stata messa a dura prova. Durante le rivolte nel periodo del primo lockdown, le proteste hanno riguardato 21 carceri. I dati ufficiali dicono che ci sono stati 107 feriti tra gli agenti e 69 tra i detenuti, ci sono state anche 13 persone detenute morte e danni ingenti alle strutture carcerarie per quasi 10 milioni di euro. E ci sarebbero stati purtroppo anche abusi: atti di violenza gratuita sui detenuti.

ALFONSINA PASSARIELLO - MOGLIE DI DETENUTO Sono stati trattati come animali. Chiudevano tutti, chiudevano i blindi e partivano cella per cella.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il Dubbio è l’unico giornale che ha una rubrica quotidiana dal titolo lettere dal carcere. Negli ultimi tempi abbiamo letto di abusi ad Opera, Modena, Foggia, Santa Maria Capua Vetere, Viterbo.

DAMIANO ALIPRANDI - IL DUBBIO Ovviamente noi dobbiamo usare il condizionale assolutamente. E sono tutte denunce che appare quasi come una ritorsione da parte degli agenti penitenziari nei confronti dei rivoltosi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Violenze sarebbero successe a freddo nel periodo dopo le rivolte nel carcere di Opera.

ALFONSINA PASSARIELLO - MOGLIE DI DETENUTO Li hanno ammazzati di botte. Mio marito è stato vari mesi che non si è potuto muovere. E nessuno mai gli ha fatto fare la visita dal dottore.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un'altra familiare denuncia pestaggi continui nel carcere di Pavia.

MOGLIE DI DETENUTO DEL CARCERE DI PAVIA Così bello e buono li prendono, li mettono in una cella tanto per, gli buttano le secchiate d’acqua, manganellate…

BERNARDO IOVENE Non avete mai pensato di denunciare?

MOGLIE DI DETENUTO DEL CARCERE DI PAVIA Eh, sì e no. Perché comunque c’è sempre la paura, le ritorsioni sono tante.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Modena, dove hanno perso la vita 9 detenuti, 5 nello stesso carcere e 4 dopo essere stati trasferiti, abbiamo sentito la testimonianza di un detenuto che afferma di non aver partecipato alla rivolta. Insieme ai detenuti della sua sezione era rimasto in cella, ha trattato direttamente con l’ispettore l’uscita pacifica nel campetto dell’aria perché stavano soffocando dal fumo.

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Era lui che ci ha detto: uscite voi che non c’entrate con la rivolta, a respirare. Però uscite solo in campo e ci hanno picchiato da morire. Abbiamo preso così tanti di quei manganelli che anche i poliziotti diventavano con il sangue.

BERNARDO IOVENE Cioè il sangue schizzava sui vestiti e sui caschi dei poliziotti?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Sì, tutto.

BERNARDO IOVENE Quanti eravate?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Eravamo 30-40.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All’esterno c’erano i familiari qualcosa hanno visto e sentito anche loro.

MOGLIE DI UN DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Si vedeva soltanto ragazzi che uscivano con le magliette, con i pantaloncini, con le mutande, pieni, pieni di sangue. È uscito un poliziotto con un casco blu. Non mi scorderò mai quanto l’ho guardato quello lì: era pienissimo di sangue.

BERNARDO IOVENE Il poliziotto era pieno di sangue?

MOGLIE DI UN DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Sì sì, aveva sangue dappertutto. Perché lui ha detto che picchiando i nostri ragazzi non si è divertito da tempo come si è divertito questa notte.

PARENTE DI UN DETENUTO NEL CARCERE DI MODENA Sei ore di urla abbiamo sentito, dalle 2 alle 8 di sera.

PARENTE DI UN DETENUTO NEL CARCERE DI MODENA Noi ci chiedevamo come mai queste ambulanze non prendono questi detenuti e non li portano in ospedale? Niente. All’improvviso a tarda sera abbiamo iniziato a vedere la prima macchina funebre.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Cinque detenuti sono morti dentro al carcere di Modena, altri 4 invece sono morti il giorno dopo nei vari carceri dove sono stati trasferiti. Tutti per overdose da metadone saccheggiato nell’infermeria del carcere.

EX DETENUTO NEL CARCERE DI MODENA Mi sono morte due persone davanti e io non ci ho potuto fare niente, perché la mia sezione è andata a fuoco. Abbiamo rischiato di morire anche noi.

BERNARDO IOVENE Ma queste persone morte avevano assunto il metadone, sono morte per quello?

EX DETENUTO NEL CARCERE DI MODENA 3 Vai a capire se è stato veramente per il metadone o sono state delle botte. Io ho visto gente per terra con la testa schiacciata e con gli anfibi sulla testa e loro che continuavano a picchiare.

BERNARDO IOVENE Tu li conoscevi quelli che sono morti?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Tutti. BERNARDO IOVENE Erano tutti tossicodipendenti?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA No. Erano la metà, tutti no; il resto sono morti per il fumo o perché hanno preso manganelli.

BERNARDO IOVENE Hai visto con i tuoi occhi che sono stati picchiati quelli che sono morti?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Io ero lì. Io li ho presi in braccio, li ho portati giù perché stavano in gravi condizioni. Li ho portati per aiutare a portarli in ambulanza a quelli, a portarli in ospedale. Ma appena li ho portati giù io, li ho visti con i miei occhi come li picchiavano. Non volevano sapere che lui c’entravano o non c’entrava con la rivolta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il virus ha evidenziato delle criticità alle quali non abbiamo saputo porre rimedio. Sono 5 anni che nelle nostre carceri si registrano segnali di disagio: suicidi, aggressioni, non abbiamo saputo coglierli, siamo rimasti immobili. Ora con la diffusione del virus ci siamo nuovamente accorti del problema del sovraffollamento nelle nostre carceri. Abbiamo il 10% in più di detenuti, di quello che le condizioni delle nostre celle potrebbero consentire. La paura del contagio ha scatenato delle rivolte. Alla fine si sono contati 13 morti e centinaia di feriti tra detenuti e forze dell’ordine, 9,7 milioni di danni. C’è chi ha pensato a una regia occulta della criminalità organizzata, non c’è prova di tutto questo, tuttavia c’è chi ha soffiato sul fuoco. Le rivolte sono partite dal carcere Salerno, si sono diffuse in tutta Italia. La magistratura ora sta indagando su come sono state sedate. La procura di Santa Maria Capua Vetere, a Modena addirittura indagano per omicidio colposo per la morte di un detenuto. Ma anche sulla morte degli altri detenuti sono stati aperti fascicoli per verificare se è stato fatto tutto il possibile per salvarli. Il nostro Bernardo Iovene messo insieme i tasselli di un mosaico, di un brutto corto circuito, che è stato causato da disagi, da frustrazioni, da rabbia, da disattenzione. Insomma, alla fine ognuno ha le sue ragioni e anche i suoi torti. E la vittima alla fine è stata la dignità umana che è stata calpestata, così come i diritti dell’uomo. Sia che indossi un pigiama a strisce che la divisa di un agente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Uno dei detenuti morti si chiamava Hafed e aveva 35 anni. Doveva uscire entro due settimane. Anche lui è stato consegnato agli agenti da altri detenuti perché stava male. BERNARDO IOVENE Era tossicodipendente?

LUCA SEBASTIANI - AVVOCATO Aveva problemi di dipendenza, ma ormai erano più di due anni che non li aveva. Era fortemente asmatico. Sarebbe importante capire da chi lo ha portato per capire in che condizioni era e come è stato soccorso.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Finita la rivolta, la maggior parte è stata trasferita subito in altre carceri, ma tanti sono rimasti a Modena ancora per qualche giorno.

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Venivano la mattina a contare e ci picchiavano. Tre volte al giorno, anche noi che non c’entravamo con la rivolta.

BERNARDO IOVENE Come ti picchiavano? Con i manganelli?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Sì.

BERNARDO IOVENE Di gomma?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA No, no, no, no. Non esistevano i manganelli di gomma. Solo quelli di metallo. Quelli che facevano la battitura.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una volta trasferiti tutti dicono che sarebbero stati indistintamente bollati come i rivoltosi di Modena.

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Ci hanno trasferito tutti con i fogli rossi, che anche tu hai partecipato alla rivota. Dove siamo andati prima di entrare in carcere tutti ci hanno picchiato. Ogni giorno, per tre mesi non ci hanno lasciato né fare la doccia, né cambiare i vestiti, niente.

BERNARDO IOVENE Per tre mesi?

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA Per tre mesi lunghi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questi fatti sono confermati in un esposto che hanno fatto 5 detenuti che ci mostra l’avvocato di due di loro. Erano a Modena, non erano tra i rivoltosi ma affermano di essere stati ammanettati, privati delle scarpe, picchiati selvaggiamente anche durante il trasferimento al carcere di Ascoli Piceno, all’arrivo e anche nei giorni seguenti.

BERNARDO IOVENE Vuol dire che sono andati apposta in cella e li hanno picchiati a freddo?

MARIO MARCUZ - AVVOCATO È esattamente quello che hanno descritto nel loro esposto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In tutto questo periodo non avrebbero avuto possibilità di chiamare parenti e avvocati, lo conferma proprio un avvocato che assiste uno dei detenuti che hanno firmato l’esposto.

ETTORE GRENCI - AVVOCATO Scalzo è stato portato in cella. E lì è rimasto per venti giorni senza poter effettuare una doccia e con gli stessi vestiti per venti giorni. Mi ha anche riferito della tragica morte di un suo compagno di detenzione trasferito a Modena avvenuta all’interno della cella, la mattina successiva, se non sbaglio, al trasferimento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si tratta di Salvatore Piscitelli, un detenuto che faceva attività teatrale in carcere e pare fosse in overdose da metadone.

BERNARDO IOVENE Questo Piscitelli che stava malissimo e che era evidente, è stato anche brutalmente picchiato? Così c’è scritto qua dentro.

MARIO MARCUZ - AVVOCATO Esatto. Stava già male durante il trasporto. E più volte nel corso di tutta la notte e il mattino successivo hanno chiesto aiuto, non è arrivato, finché purtroppo il povero Piscitelli risultava freddo. E quindi era già deceduto.

ANNAMARIA CIPRIANI – MADRE DI CLAUDIO CIPRIANI - DETENUTO L’hanno messo in un lenzuolo e se lo sono portati via. Loro hanno dichiarato che il ragazzo, questo Piscitelli è morto in ospedale. Non è assolutamente vero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La signora Cipriani, che è la mamma di uno dei detenuti che hanno fatto l’esposto, vuole ribadire quello che gli ha comunicato suo figlio: Piscitelli è morto in cella e non in ospedale come pare sia stato comunicato ufficialmente.

ANNAMARIA CIPRIANI – MADRE DI CLAUDIO CIPRIANI - DETENUTO Il ragazzo, Piscitelli, è morto in cella e non in ospedale. Che loro hanno subìto percosse… mio figlio ha avuto problemi ai piedi perché li hanno lasciati per 15 giorni scalzi nelle celle. Scalzi, senza scarpe.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sulle persone decedute le perizie come parte offesa del Garante Nazionale hanno accertato che hanno avuto un’intossicazione da farmaci, ma sulle modalità di trasferimento lo stesso Garante chiede chiarezza.

MAURO PALMA – GARANTE NAZIONALE DEI DETENUTI Queste persone così intossicate sono state visitate da un medico prima di essere trasferite? Potevano essere trasferite?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Altri detenuti, una cinquantina, sono stati trasferiti da Modena al carcere di San Gimignano. I famigliari denunciano che non sono state fornite le medicine, anche quelle salvavita, di cui alcuni di loro avevano bisogno per le patologie pesanti.

DETENUTO DEL CARCERE DI MODENA 6 Siamo arrivati in Toscana e ci hanno lasciato due mesi senza, senza coperte, senza vestire, senza… I miei farmaci per le patologie li ho visti dopo due mesi. E ora sto con una bombola di ossigeno dentro casa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Foggia, dopo la rivolta i detenuti, sono stati trasferiti in varie carceri, dove hanno subito - si descrive in un esposto dell’associazione Yairaiha - pestaggi all’arrivo e nei giorni seguenti.

VINCENZO SCALIA - CRIMINOLOGO ASSOCIAZIONE YAIRAIHA E la cosa grave è che i pestaggi non sono continuati solo nel carcere di Foggia, ma sono continuati anche nelle carceri dove questi detenuti sono stati trasferiti.

BERNARDO IOVENE In ogni carcere e non parliamo di uno solo: cioè io qua vedo Catanzaro, Vibo Valentia, Viterbo… ovunque sono stati trasferiti hanno avuto la stessa accoglienza?

VINCENZO SCALIA - CRIMINOLOGO ASSOCIAZIONE YAIRAIHA Eh sì. Non si tratta di un caso, sembra che sia tutto pianificato e organizzato anche con delle tecniche specifiche che purtroppo non possono essere accertati perché mancano i filmati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tutta la polizia penitenziaria dipende dal Dap, il dipartimento del Ministero della Giustizia. Se indicazione dall'alto c'è stata, è partita da qui.

MASSIMO PARISI – DIRETTORE GENERALE DEL PERSONALE DAP Che ci possa essere stata qualsiasi indicazione di tra virgolette “repressione” rispetto a quello che è accaduto. Questo lo nego in maniera categorica.

BERNARDO IOVENE Allora finita la rivolta non è possibile da parte della polizia penitenziaria utilizzare qualsiasi tipo di violenza?

MASSIMO PARISI – DIRETTORE GENERALE PERSONALE DEL DAP Assolutamente no, una volta che l’ordine è ristabilito assolutamente no.

BERNARDO IOVENE Assolutamente no.

MASSIMO PARISI – DIRETTORE GENERALE PERSONALE DEL DAP Questo credo che è abbastanza scontato.

BERNARDO IOVENE E invece non lo è scontato, questo è il problema. Nel senso che tutte le denunce che noi abbiamo preso parlano tutte di dopo la rivolta: sono stati picchiati a freddo, sono stati denudati, durante i trasferimenti, quando sono arrivati nei nuovi carceri. Non avete fatto nessuna indagine interna per capire se queste cose sono successe o no?

MASSIMO PARISI – DIRETTORE GENERALE PERSONALE DEL DAP Noi abbiamo, laddove noi abbiamo ipotizzato delle indagini abbiamo chiesto il nullaosta alle autorità giudiziarie e non ci è stato dato.

BERNARDO IOVENE Insomma se queste cose sono successe sono gravissime.

MASSIMO PARISI – DIRETTORE GENERALE PERSONALE DEL DAP Ma certo che sono gravissime, su questo non ci sono dubbi.

BERNARDO IOVENE Qua c’è qualcosa che non va, c’è qualcosa che non torna. Nel senso che aspettate direttamente la magistratura, ma all’interno vostro non c’è stato una discussione su questi comportamenti, se ci sono stati.

MASSIMO PARISI – DIRETTORE GENERALE PERSONALE DEL DAP Possiamo dire assolutamente che il Dap, nel momento in cui abbiamo dei provvedimenti, degli atti, dei fatti acclarati, adotta gli interventi conseguenzali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Procura di Santa Maria Capua Vetere invece, attraverso i filmati delle telecamere di sorveglianza ha indagato 44 agenti di polizia penitenziaria, un fatto senza precedenti. I detenuti avevano protestato il 5 aprile, il giorno dopo - il 6 aprile - 300 agenti sono arrivati nelle celle per una perquisizione, ma avrebbero di fatto eseguito una spedizione punitiva con pestaggi a freddo dei detenuti.

DETENUTO NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE Pum, manganelli nelle cosce e dietro i reni. Ci hanno spogliato a nudo.

BERNARDO IOVENE Nudi?

DETENUTO NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE Nudi, come animali dentro una stanza. BERNARDO IOVENE Avevano il volto coperto?

DETENUTO NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE Sì, le maschere e poi hanno le visiere.

BERNARDO IOVENE Quanto è durata questa cosa?

DETENUTO NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE Un paio d’ore. Un animale!! Trattato… neanche un cane così.

BERNARDO IOVENE Il carcere lo conosce lei?

DETENUTO NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE Sì sì, io ho fatto 15 anni di carcere, però è la mia vita passata. Non era mai successo.

BERNARDO IOVENE Mai?

DETENUTO NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE No, mai.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla consegna degli avvisi di garanzia gli agenti sono saliti per protesta sul tetto del carcere, si sono dati ammalati e organizzato una protesta sindacale.

DAL TGR CAMPANIA DEL 19/06/2020 PASQUALE GALLO – SEGRETARIO REGIONALE SINAPPE CAMPANIA Non ci siamo alla mortificazione di un intero corpo di polizia penitenziaria; è stata lesa la dignità di una divisa.

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA L’arroganza del detenuto oggi è diventata più forte nei confronti della polizia penitenziaria.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Durante i presunti pestaggi i familiari sono stati avvisati dagli stessi detenuti e accorsero fuori dal carcere a riprenderli una emittente privata, Nano Tv.

PARENTE DI DETENUTO Io ho la registrazione di ieri che dicono che li stanno continuando a picchiare a manganellate.

MOGLIE DI DETENUTO Perché se loro all’interno non avevano un micro cellulare, come dicono tutti no, noi come lo scoprivamo che erano sati massacrati?

BERNARDO IOVENE Avevano un micro cellulare?

MOGLIE DI DETENUTO E quello è un detenuto è partita la chiamata a un detenuto che aveva il microcellulare. Ha chiamato la moglie e ha detto: ci stanno massacrando di botte. Da là è partito tutto. Sennò noi non avremmo saputo mai niente. Dopo tre ore di manifestazione fuori dal carcere è arrivato il commissariato di Santa Maria, dove ci ha fatto parlare con la direttrice e dove lei ha confermato che li aveva fatto picchiare dai caschi blu di Secondigliano, la Squadra Mobile di Secondigliano. Lei ha chiamato per farli picchiare, perché loro non dovevano fare una rivolta.

BERNARDO IOVENE Chi ha confermato che sono stati picchiati?

MOGLIE DI DETENUTO La direttrice del carcere, davanti al commissariato di Santa Maria.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In quel periodo il carcere era diretto da una vicedirettrice e un vicedirettore, comunque queste accuse gravissime la signora le ha riferite anche alla procura.

MOGLIE DI DETENUTO 9 Poi al di fuori di questo, ai detenuti che avevano la barba lunga è stata accesa la barba. Hanno fatto prendere fuoco alla barba. Hanno tagliato i capelli, cioè tipo a un campo di Auschwitz hanno fatto a Santa Maria.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per il garante regionale si è trattato di un intervento a freddo, perché la protesta si era fermata già il giorno prima.

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA L’ipotesi di o rivolta o tentativo di rivolta era stata fermata. La Rai, il Tg3, fa un’intervista anche al magistrato che dice: abbiamo ristabilito il dialogo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È vero. Prima della perquisizione, il magistrato di sorveglianza aveva fatto questa dichiarazione al Tg3 della Campania.

DA TGR CAMPANIA DEL 6/04/2020 MARCO PUGLIA - MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA CARCERE SANTA MARIA CAPUA VETERE Anche il profilo dell’ordine e della sicurezza è sotto controllo. Non ci sono state evasioni, ci sono state delle proteste che sono però rientrate.

BERNARDO IOVENE Giusto per capire: lei è andato lì e ha verificato una situazione tranquilla.

MARCO PUGLIA - MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA CARCERE SANTA MARIA CAPUA VETERE La situazione era tranquilla, ed era… ma io mi riferivo in quel momento alla situazione Covid.

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA Il pomeriggio, 120 detenuti, mentre riposavano o stavano nelle celle, vengono presi da più di 200 persone, alcuni agenti incappucciati e altri non incappucciati.

BERNARDO IOVENE Poi dopo lei è andato via ed è successo diciamo questa perquisizione che è sotto processo.

MARCO PUGLIA - MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA CARCERE SANTA MARIA CAPUA VETERE Quello che è successo ahimè per ora nessuno lo sa.

BERNARDO IOVENE Il fatto che ci siano dei filmati e delle testimonianze che dicono che ci sono degli agenti penitenziari che entrano incappucciati, cioè fa pensare proprio a un altro mondo

MARCO PUGLIA - MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA CARCERE SANTA MARIA CAPUA VETERE Questo è un fatto inquietante, così come è inquietante la possibilità che io rispondendo a queste domande incorra in un procedimento disciplinare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 10 I sindacati di polizia penitenziaria sono convinti che il procedimento si concluderà con la totale assoluzione degli agenti e intanto contestano la versione della procura.

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA Noi abbiamo avuto l’ordine di ripristinare l’ordine all’interno della sezione.

BERNARDO IOVENE Quindi c’è stato un ordine lì?

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA Anche perché ci aspettavano con olio bollente.

BERNARDO IOVENE Lei sta parando di “olio bollente” e sta parlando di una cosa che era successa il giorno prima; mentre invece quando sono andati i poliziotti penitenziari era già finito tutto.

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA Questo non mi risulta.

BERNARDO IOVENE Questo è un caso grosso: 44 poliziotti penitenziari indagati. Pare che dai filmati abbiano fatto violenza sui detenuti.

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA Ma secondo lei potevamo noi usare violenza quando sappiamo che ci sono le videocamere che registrano tutto?

BERNARDO IOVENE 44 sono stati riconoscibili, gli altri erano irriconoscibili eh insomma… cioè, si può entrare col casco, tutto coperto, a manganellare dentro? Si può fare questo?

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA No, a manganellare non entra nessuno.

BERNARDO IOVENE Col casco si entra?

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA Non ce l’abbiamo nemmeno i caschi.

BERNARDO IOVENE Paradossalmente si può comprendere che uno perda la testa, per tanti motivi, perché chissà quanti ne subisce prima di perdere la testa.

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA 11 Penso che la reazione è umana. Non è che qui noi siamo dei cappellani che prendiamo uno schiaffo e volgiamo l’altra guancia, come dice il Vangelo.

BERNARDO IOVENE Chi ha dato questo ordine per fare questo tipo di azione o sono usciti tutti pazzi quella sera?

DONATO CAPECE - SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA No, c’è stato… È sicuramente un intervento che è stato disposto dall’autorità penitenziaria: o dal provveditore o dal direttore.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sul caso è calato il silenzio, nessuna informazione ci viene data dal procuratore, bocche cucite anche dalla direzione del carcere, ci apre le porte invece - e gliene diamo atto - il provveditore della Campania.

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Io sono indagato. Non per tortura, ma perché mi viene imputato di aver ordinato la perquisizione.

BERNARDO IOVENE È lei che ha dato l’ordine della perquisizione?

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Io ho mandato gli uomini di spostamento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Gli uomini di spostamento scopriamo che è un nuovo gruppo di intervento rapido: il GIR.

BERNARDO IOVENE Questo Gir: gruppo di intervento rapido. Ci può spigare che cos’è?

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA È un gruppo di supporto che noi abbiamo istituito in Campania proprio all’indomani delle rivolte di cui abbiamo parlato prima.

BERNARDO IOVENE Quindi esiste solo qua questo GIR?

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Sì.

BERNARDO IOVENE E perché erano incappucciati?

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA 12 Che siano incappucciati lo sta dicendo lei.

BERNARDO IOVENE Dico si può entrare a viso coperto?

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Solo con il casco, laddove faccia parte dell’equipaggiamento anti sommossa; ovviamente ci deve essere una disposizione da parte di…

BERNARDO IOVENE Antisommossa. Ma non c’è la sommossa. Lei conferma che erano nelle loro celle queste persone?

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Assolutamente sì.

BERNARDO IOVENE Cioè non stavano facendo nessuna rivolta.

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Ma infatti la perquisizione non è un, come dire, un’azione che è contro un’azione di rivolta in corso. È un’azione di verifica che non siano state, come dire, occultate oggetti non consentiti atti a offendere.

BERNARDO IOVENE Quindi ecco che si fanno denudare le persone, ecco che si fanno mettere contro il muro ed ecco che si pestano.

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Assolutamente no. Questo non l’ho detto e non lo dirò mai.

BERNARDO IOVENE A lei non risulta questo?

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Guardi, dagli atti no, ma c’è un’indagine in corso che accerterà i fatti.

BERNARDO IOVENE Quello che colpisce è il pestaggio a freddo che viene denunciato.

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Se dovesse essere così è grave.

BERNARDO IOVENE A Santa Maria, come ad Ascoli Piceno, come a Modena, come a Salluzzo, come a Opera, in tantissimi carceri abbiamo preso queste testimonianze. Oppure il fatto di quando vengono trasferiti, gli tolgono le scarpe, li fanno stare per 20 giorni senza scarpe…

ANTONIO FULLONE - PROVVEDITORE AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA CAMPANIA Il nostro ordinamento tutela la dignità delle persone e io penso che le denunce che lei ha raccolto saranno analizzate e esaminate ovviamente dalle autorità giudiziaria; quindi sotto questo aspetto c’è la massima garanzia del sistema.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La garanzia c’è, solo se si fa chiarezza sui fatti che sono accaduti. Il rappresentante degli agenti, il sindacalista dice non è che l’agente penitenziario è un cappellano a cui se tu dai uno schiaffo sulla guancia lui porge l’altra. Però solo ipotizzare che ci siamo trovati di fronte a una spedizione premeditata punitiva, fa venire i brividi. Già nel 2013 la Corte europea ha sanzionato l’Italia, analizzando la denuncia di 7 detenuti che erano nel carcere di Busto Arsizio e Piacenza, e ha condannato il nostro Paese dicevamo per trattamenti disumani. Perché i detenuti vivevano in un ambiente ristretto, meno di 4 metri quadrati a disposizione. Senza luce, senza acqua calda, senza la possibilità anche di aria, di vivere in un ambiente umano. E in questi anni non è che sia migliorata tanto la situazione. E si sono accumulati presso la Corte europea i ricorsi, quello che sicuramente è avvenuto è che non si è stati capaci di cogliere i segnali che da 5 anni arrivano dalle carceri. A Torino, 25 agenti penitenziari sono stati indagati per violenze nei confronti di persone più fragili psicologicamente, perché c’è anche questo nel carcere. Nel carcere di Sollicciano 9 agenti sono stati imputati per violenze sui detenuti. A San Gimignano 5 agenti rinviati a giudizio per tortura e 10 agenti per concorso in tortura. Nel carcere di Ivrea si sono poi verificati pestaggi di detenuti. A Viterbo casi di presunti pestaggi e tortura. E 10 agenti sono stati rinviati a giudizio per violenze su un detenuto dopo essersi coperto il volto. Ad Asti poi si sono verificate delle torture, anche la Corte europea ha condannato l’Italia per le vicende di Asti. E a Ferrara proprio pochi giorni fa è arrivata la prima condanna della giustizia italiana alle torture che sono state effettuate in carcere. Immaginiamo che anche gli agenti penitenziari vivano un disagio, per le condizioni in cui versano le carceri italiane. Quelle di Poggioreale le conoscevano da decenni e con il virus sono letteralmente esplose. Il nostro Bernardo Iovene guardate cosa ha trovato davanti il carcere.

DONNA Questi sono esseri umani, dove sta il direttore?

DONNA Anche loro hanno paura di ‘sta cosa. Anche loro hanno le famiglie.

DONNA Come avete paura voi, abbiamo paura noi.

DONNA Non è giusto.

BERNARDO IOVENE Chi avete dentro? VOX Mio padre e mio fratello.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO 14 È fuori dalle mura del carcere di Poggioreale che si acquisisce la consapevolezza che all’interno sono reclusi mariti, padri, figli, fratelli, zii e nipoti. Di fronte all’ingresso principale c’è “L’Angolo della Libertà”. Il bar durante l’ultimo lockdown - siamo a novembre - rimane chiuso per le consumazioni, ma continua per il servizio di posta celere per i detenuti.

BERNARDO IOVENE Adesso cosa sta facendo signora?

DONNA Devo mandare biancheria.

BERNARDO IOVENE Ah, la manda attraverso di loro?

DONNA Sì, perché non possiamo effettuare il colloquio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I colloqui sono bloccati e i familiari inviano lettere e pacchi ai parenti. Qui trovano anche specificamente articoli per detenuti.

BERNARDO IOVENE Articoli per detenuti quali sono?

NEGOZIANTE Le pantofole…

BERNARDO IOVENE Le pantofole.

NEGOZIANTE I cappelli…

BERNARDO IOVENE I cappelli…

NEGOZIANTE Scaldacolli, mascherine…

BERNARDO IOVENE Gli scaldacolli, mascherine…

NEGOZIANTE Accappatoio…

BERNARDO IOVENE Accappatoio…

NEGOZIANTE Pigiami...

BERNARDO IOVENE 15 Pigiami.

NEGOZIANTE Tute, calzini.

BERNARDO IOVENE Tute, calzini.

NEGOZIANTE Lettere.

BERNARDO IOVENE Queste sono lettere? “Liberi di sognare”, “torna presto mi manchi tanto”, “nessuna barriera potrà mai dividerci”, “vietato arrendersi”. Queste ve le inventate voi queste frasi? Le inventa la signora?

NEGOZIANTE Sì. NEGOZIANTE È un cuore innamorato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tutte frasi inventate dalla signora Anna che si ritrova il bar pieno di pacchi che saranno consegnati in giornata ai detenuti.

UOMO Ogni borsa ci stanno tutti i dati dei detenuti.

DONNA Ci stanno tutti i dati dei detenuti. La ditta esterna viene, li ritira da qua e li porta all’interno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Chi riesce a prendere il colloquio invece lo consegna direttamente. Ma prima deve lasciare il telefono da qualche parte, in carcere i cellulari non possono entrare, e per questo servizio di deposito fiduciario ci pensa Pasquale.

BERNARDO IOVENE Voi quando andate dentro consegnate il telefono a lui?

DONNA Sì, perché lui è fidato.

BERNARDO IOVENE E come fai a ricordarti?

PASQUALE Tengo il numero vicino. Ciao ciao.

DONNA Ciao.

BERNARDO IOVENE Quanto gli date, signora?

DONNA 2 euro, 3 euro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il carcere di Poggioreale conta 2200 detenuti, ne potrebbe contenere al massimo 1600. L’ultimo Decreto della Presidenza del Consiglio ha previsto che i detenuti con un residuo di pena di 18 mesi, un anno mezzo, possono scontare la pena alla detenzione domiciliare in questo periodo di emergenza covid, con il braccialetto elettronico fino a dicembre - prorogati poi al 31 gennaio - e vale solo per i condannati definitivi e per chi non ha reati ostativi.

BERNARDO IOVENE Signora come stanno dentro i vostri parenti? DONNA Stanno inguaiati, stanno pieni di virus. Mio marito ha broncopolmonite, chissà se esce vivo da qua dentro.

BERNARDO IOVENE Quanto tempo gli resta?

DONNA Altri 9 mesi.

BERNARDO IOVENE Non gli danno i domiciliari?

DONNA Il giudice gli deve dare il definitivo. Anche mia figlia a Pozzuoli ha la bronchite e non la fanno uscire.

BERNARDO IOVENE Sua figlia pure sta in carcere?

DONNA A Pozzuoli eh. Sta da tre anni e mezzo, è rimasto un altro anno e ancora non la fanno uscire.

BERNARDO IOVENE Un altro anno le resta?

DONNA Eh.

BERNARDO IOVENE E stanno per lo stesso reato?

DONNA Sì, sì.

BERNARDO IOVENE Padre e figlia?

DONNA Sì. Sì.

BERNARDO IOVENE Tu chi hai?

RAGAZZO Papà. Potrebbe uscire perché a maggio 2021 ha finito la sua condanna.

BERNARDO IOVENE Ah, lei ha dei parenti dentro?

DONNA Sì, ho mio figlio. Che gli mancano 8 mesi e sta ancora qui dentro, stiamo sempre aspettando che fissano l’udienza per la Camera di Consiglio.

DONNA Mi hanno chiamato ieri e mi hanno bloccato il colloquio. Ho fatto solo il pacco.

DONNA Perché?

DONNA Perché ci sta un caso positivo nella stanza di mio marito.

BERNARDO IOVENE In quanti sono in cella?

DONNA 9.

BERNARDO IOVENE In 9?

DONNA In 9.

DONNA Non hanno l’acqua calda. Veramente che hanno sbagliato i ragazzi, però essere trattati proprio da animali no. Ora mio figlio è risultato positivo al Covid, io è un mese che non vedo mio figlio. Almeno ci facete portare a casa in questo periodo che è così pericoloso e così delicato.

BERNARDO IOVENE Quanti anni ha?

DONNA È un ragazzo di 22 anni.

BERNARDO IOVENE 22 anni.

BERNARDO IOVENE Chi c’ha, ha qualcuno dentro signora?

DONNA Ho mio figlio che è invalido al 100%. È invalido, invalido, obeso: sta pieno di ansie pieno di paure, mamma qua dentro ci sta il Covid. È ingrassato di tanto in un mese, è ingrassato di…

BERNARDO IOVENE Quanti anni ha suo figlio signora?

DONNA 30 anni.

BERNARDO IOVENE 30 anni.

DONNA Ha detto che se non esce si suicida. Mio figlio sta qua dentro per pagare una pena o per morire. Ma è un carcere o Auschwitz?

BERNARDO IOVENE Che cosa?

DONNA Auschwitz come si dice?

BERNARDO IOVENE Auschwitz.

DONNA A chi ci dobbiamo rivolgere, a Bruxelles? I diritti dell’uomo?

DONNA Mio marito è in custodia cautelare, quindi…

BERNARDO IOVENE Adesso ha contratto il covid?

DONNA Sì sì. È positivo al covid.

BERNARDO IOVENE L’hanno messo in isolamento?

DONNA No. Sta nella stanza con 4 persone positive anche loro.

BERNARDO IOVENE Ah.

DONNA Io non abbraccio mio marito da 9 mesi. E chi me lo dice a me che mio marito non esce più da qua dentro con il Covid? Noi stiamo chiedendo aiuto e questo aiuto viene… è rimasto muto, muto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non ci sono solo i detenuti a soffrire e purtroppo a morire di Covid in carcere: a oggi i morti tra gli agenti della polizia penitenziaria in tutte le carceri sono 5, l’ultimo aveva 57 anni e i contagiati sono oltre mille. Solo a Poggioreale, a dicembre, erano oltre 200.

BERNARDO IOVENE Quindi se noi diciamo 200 positivi ce ne saranno altrettanti che…

EMILIO FATTORELLO – SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA CAMPANIA Ce ne sono altri 200 isolati.

BERNARDO IOVENE In quarantena.

EMILIO FATTORELLO – SEGRETARIO SINDACATO AUTONOMO POLIZIA PENITENZIARIA CAMPANIA Precauzionalmente in quarantena. La sanità a Poggioreale è tagliata per 1.600 persone. Qua dentro in questa struttura secolare non possiamo garantire le norme di igiene più elementari già nella normalità, figuriamoci adesso in piena epidemia. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E se lo dicono gli agenti c’è da crederci. Addirittura i direttori sanitari dei tre carceri metropolitani della Campania hanno contratto il Covid.

BERNARDO IOVENE Anche lei è risultato positivo?

VINCENZO MARIA IROLLO - DIRETTORE SANITARIO CASA CIRCONDARIALE DI POGGIOREALE (NA) Anche io purtroppo sono stato vittima del Covid, perché io frequento tutti i padiglioni.

BERNARDO IOVENE Senta ho sentito delle storie allucinanti qua, di parenti che hanno appunto mariti, figli, che non vengono presi proprio in considerazione, non vengono curati. Ma qual è il problema?

VINCENZO MARIA IROLLO - DIRETTORE SANITARIO CASA CIRCONDARIALE DI POGGIOREALE (NA) Noi i positivi, come da norma, li abbiamo isolati. In alcune stanze sono positivi da soli, in altre possono convivere anche più positivi.

BERNARDO IOVENE Ma secondo lei la soluzione qual è? È tenerli dentro così come state facendo?

VINCENZO MARIA IROLLO - DIRETTORE SANITARIO CASA CIRCONDARIALE DI POGGIOREALE (NA) 20 La soluzione è… noi li curiamo. Però la soluzione sarebbe… il nostro problema, è il sovraffollamento, ma l’amministrazione penitenziaria con i suoi vertici si sta, si sta adoperando affinché si riduca il numero dei nuovi ingressi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Purtroppo qualche giorno dopo questa intervista il direttore sanitario di Secondigliano, il dott. Raffaele De Iaso, è deceduto per il Covid, aveva 61 anni. I numeri dei contagi e la preoccupazione all’interno delle carceri crescono: ad esempio in base all’ultimo Decreto Ristori, il tribunale di sorveglianza di Napoli quanti detenuti ha spostato alla detenzione domiciliare?

ADRIANA PANGIA - PRESIDENTE TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA - NAPOLI In base al nuovo decreto non ancora. Sicuramente perché le ho detto è recente l’iscrizione.

BERNARDO IOVENE Quindi, in base al nuovo decreto non ne è stato concesso neanche uno?

ADRIANA PANGIA - PRESIDENTE TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA - NAPOLI No, fino a oggi no. Come misura alternativa.

BERNARDO IOVENE E perché?

ADRIANA PANGIA - PRESIDENTE TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA - NAPOLI Perché sempre bisogna valutare se sussistono i presupposti, se non vi sono dei reati ostativi. Il problema è l’efficacia che possono avere le nuove misure ai fini dello sfollamento delle carceri. E allora, se le dico che per i semiliberi per ora sono tutti fuori. Per i detenuti per ora sono partite da Poggioreale una sessantina di domande, quindi non sono questi numeri eccelsi. Questa è la realtà in concreto. Perché comunque il decreto pone notevoli paletti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il decreto pone paletti, a Poggioreale solo 60 avrebbero diritto rispetto a un sovraffollamento di 600 detenuti. Ad ogni modo queste richieste si aggiungono alle 33mila che il tribunale deve smaltire in un anno, con difficoltà di personale. Aggravate dal lockdown.

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA Bisogna fare uscire la gente dalle carceri. Poi che senso ha dire a me condannato a 15- 16-12 anni, me mancano sei mesi, che non posso uscire perché ho un reato ostativo. Che vuol dire?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il decreto Ristori esclude i condannati per reati ostativi come associazione mafiosa, violenza sessuale, furti, rapine, corruzione, peculato, estorsione, anche se sono a fine pena. Include invece i condannati per reati minori tipo truffa, ricettazione, abuso d’ufficio, peculato, violenza privata che, se a fine pena, potrebbero passare qualche mese ai domiciliari con il braccialetto elettronico, fino al 31 gennaio per poi fare rientro in carcere. Ma pare che uno dei problemi sia proprio la mancanza di braccialetti.

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA 21 Le faccio solo un esempio: nel carcere di Aversa il magistrato aveva dato a 11 detenuti la possibilità di andare a casa con il braccialetto. Abbiamo protestato per settimane e non si trovavano. Un detenuto ha provato anche a impiccarsi. E non si trovano.

BERNARDO IOVENE Non ci stanno i braccialetti.

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA Si devono dimettere quelli che fanno le norme pur sapendo che sono inapplicabili.

PIETRO IOIA - GARANTE DEI DETENUTI PER IL COMUNE DI NAPAOLI Io quando entro a visitare i detenuti questi mi dicono: che loro si stanno preparando a fare delle rivolte. Si sentono come topi in trappola.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Pietro Ioia è un ex detenuto, dopo 22 anni di carcere è stato nominato garante dei detenuti per il comune di Napoli dal sindaco De Magistris.

PIETRO IOIA GARANTE DEI DETENUTI PER IL COMUNE DI NAPAOLI Lo debbo dire a malincuore non ci siamo più visti. BERNARDO IOVENE Ah dalla nomina non vi siete più visti.

PIETRO IOIA No, doveva venire con noi il sindaco a visitare le carceri.

BERNARDO IOVENE Non è mai venuto.

PIETRO IOIA Non è venuto. BERNARDO IOVENE Quindi tu sei rappresentante del Comune, ma non metti mai piede in comune e né ti relazioni con il Comune.

PIETRO IOIA Esattamente no.

BERNARDO IOVENE Che garante Comunale sei? Sei un garante….

PIETRO IOIA Io mi definisco un garante abusivo, perché non ho ufficio, non ho niente. Mi incontro nei bar con i familiari che mi chiamano. E tutti i problemi che prendiamo dai detenuti li portiamo al direttore e al dirigente sanitario.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Diversa è la condizione del Garante Regionale: in Italia quasi tutti i consigli regionali hanno nominato un garante, tranne Liguria, Basilicata e Sardegna. Il professor Ciambriello nominato dal consiglio regionale campano ha uno stipendio e un ufficio che affaccia direttamente sul carcere.

BERNARDO IOVENE Là fanno l’ora d’aria? Lì.

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA Padiglione Firenze fa l’ora d’aria lì. Quest’altro padiglione, Genova fa l’ora d’aria lì, sempre in questi spazi ammassati.

BERNARDO IOVENE Fa impressione però vedere tutti questi qua che sono…

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA Fa impressione che dalle 15 a domani mattina alle 9 stanno in 6, in 8 in una cella. È disumano! E qui il padiglione che sta vedendo lei, Firenze, si chiamano primari. In questi padiglioni dei primari, uno che va per la prima volta in carcere, dovrebbe avere non dico un atteggiamento diverso, ma avere più personale, più spazio. Perché se io entro e poi sono innocente, mi state calpestando già nella dignità. Nelle celle di questo carcere e nella stragrande maggioranza delle celle campane e in Italia non c’è la doccia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Viene calpestata la dignità appena metti piede nel carcere e magari non sei colpevole. Ecco. E guardate che non è una rarità perché negli ultimi 30 anni circa sono state risarcite per detenzioni ingiusta circa 27mila persone, costo: 800 milioni di euro. Ora rischiamo di risarcire anche chi è in carcere legittimamente, per le condizioni indegne in cui li abbiamo lasciati. Abbiamo un garante nazionale per i detenuti, 19 regionali, 9 provinciali, 54 comunali, e poi magari vabbè, c’è anche qualcuno che non dialoga con il sindaco, non l’ha più visto, abbiamo visto quello di Napoli, e dunque la situazione non è che sia cambiata granché. Bisognerebbe forse ampliare quelle pratiche alternative, come gli arresti domiciliari, magari aiutandoci con il braccialetto elettronico, ampliare quelle pratiche quali il lavoro socialmente utile per i detenuti, sarebbe anche un modo per farli contribuire allo Stato, pagarsi così quelle spese, in una partita di giro della giustizia che dovrebbero allo Stato per il loro mantenimento. Solo così l’Italia potrebbe tornare ad essere il Paese di Cesare Beccaria, non il Paese che invece ha contato negli ultimi dieci anni mille suicidi in carcere. Poi insomma, bisognerebbe però averli i braccialetti elettronici, bisognerebbe avere anche le strutture per il reinserimento nella società dei detenuti perché se vuoi fare uscire quei 3.500 detenuti dal carcere, devi anche sapere che ce ne sono 1.100 lì in mezzo che risultano essere senza una fissa dimora. Dove li metti?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A chiedere più coraggio al governo e ai tribunali di sorveglianza sono anche gli avvocati: questa è una manifestazione dell’associazione il Carcere Possibile, in altri momenti garanti con associazioni cattoliche hanno organizzato addirittura giorni di digiuno. Dall’interno del carcere i detenuti rispondono con la classica battitura delle pentole sulle sbarre. E poi ci sono anche i cappellani dei carceri napoletani che arrivano addirittura in corteo.

PRETE Don Massimo.

BERNARDO IOVENE Don Massimo.

PRETE Don Giovanni.

BERNARDO IOVENE Don Giovanni.

PRETE Frate Giuseppe.

BERNARDO IOVENE Frate Giuseppe.

PRETE Don Bruno Oliviero BERNARDO IOVENE Non succede tutti i giorni che sacerdoti fanno manifestazioni.

PRETE Noi tocchiamo la realtà con mano, io penso che è un dovere da parte nostra manifestare. Ci sono persone in carcere che devono scontare pochissimo; non vedo il perché non dovrebbero uscire, magari agli arresti domiciliari. BERNARDO IOVENE Lei va in carcere così? Con…

PRETE Sì, certo. Sono un francescano. Vorremo dare voce veramente a chi non ha voce.

SAMUELE CIAMBRIELLO - GARANTE DEI DETENUTI REGIONE CAMPANIA Stamattina 101 contagiati a Poggioreale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche Don Franco Esposito insieme agli altri cappellani è tutti i giorni in carcere a portare fede e conforto. Inoltre con l’associazione Liberi di Volare nel quartiere Sanità gestisce una struttura che offre misure alternative al carcere, come a questo ragazzo che sta scontando la pena in questa struttura con il famoso braccialetto.

BERNARDO IOVENE Come funziona questo braccialetto?

UOMO Sono contattato con il Gps, perché prima non potevo, non posso scendere giù, ma adesso sì.

 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il braccialetto è dotato anche di un sistema GPS nel caso si dia la possibilità di movimento all’esterno, in questo caso nel giardino della struttura. UOMO Sono condannato a due anni e 8 mesi per spaccio.

DON FRANCO Buongiorno, lei è Giuseppe?

UOMO Sì.

DON FRANCO È agli arresti domiciliari?

UOMO Sì.

BERNARDO IOVENE Li sta facendo qua?

UOMO Sì.

BERNARDO IOVENE Quanto deve scontare lei?

UOMO Altri 8 mesi.

BERNARDO IOVENE E perché li fa qua e non a casa sua?

UOMO Non posso andare nella casa in cui stavo.

BERNARDO IOVENE Fa anche dei lavoretti qua?

UOMO Sì, facciamo le corone.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il percorso di riabilitazione e di reinserimento sociale prevede attività psico-educative, laboratori di bigiotteria, l’arte del presepio, cuoio, ceramica, scrittura creativa e grafica. La struttura ospita 50 detenuti in prova ai servizi sociali e 12 detenuti ai domiciliari, e anche chi dopo la pena non ha fissa dimora. UOMO Spero di poter finire qua la mia pena; lavoriamo su noi stessi e cerchiamo di dare il massimo per non commettere più gli stessi errori.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una funzione che dovrebbe avere il carcere. Da qualche anno in Italia c’è la novità di una nuova Autority: è il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà. È nominato dal presidente della repubblica su proposta del consiglio dei ministri, si occupa anche dei diritti nei centri di permanenza e nelle Rems. L’ufficio è attaccato al carcere di regina Coeli, si avvale della collaborazione di 25 persone. Hanno calcolato ad esempio il numero di quanti potrebbero usufruire della detenzione domiciliare in base al decreto Ristori.

MAURO PALMA - GARANTE NAZIONLAE DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTÀ I miei conti mi portano a 3.350.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma attualmente sempre secondo i conti del garante solo 400 sono passati alla detenzione domiciliare.

MAURO PALMA - GARANTE NAZIONLAE DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTÀ Questo ritmo di diminuzione va bene con il ritmo del contagio? Questa è la prima domanda, secondo me è ancora troppo lento perché bisogna intervenire di più per avere spazi per isolare le persone. Bisogna per esempio accelerare le pratiche burocratiche, bisogna dare il personale ai tribunali di sorveglianza.

BERNARDO IOVENE Che non ce l’hanno. E quindi insomma, rischiamo insomma che...

MAURO PALMA Che la platea dei 3mila si assottigli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per assottigliarla bisognerebbe contare sui giudici di sorveglianza, magistrati di sorveglianza, ma ne mancano il 40%. È un fatto grave perché attraverso loro passano le domande per poter attingere, aderire alle misure alternative, mancano anche i braccialetti elettronici. Ora, secondo chi si è aggiudicato l’appalto, Fastweb, secondo gli impegni presi ce ne sarebbero dovuti essere circa 24mila ma a marzo scorso, quando si è fatta la conta all’interno del decreto Cura Italia si è visto che attivi ce ne erano solamente 2.600. Perché? Fastweb dice guardate, io ho fatto tutto quello che mi è stato chiesto, ho ottemperato agli, alle, a quello che veniva chiesto dai due ministeri competenti, Interno e Giustizia, attivazioni e disattivazioni comprese. Perché mancano è un mistero, anche lo stesso Arcuri ha dovuto ad un certo punto ordinare una nuova fornitura. Comunque, un po’ di qua e un po’ di là, 7.500 posti nelle carceri li hanno liberati. Li hanno occupati mettendo in isolamento i contagiati dal virus, quelli che dovevano essere in quarantena preventiva. Poi c’è il 41 bis, il carcere duro, e qui c’è stata una polemica in seguito ad una circolare emessa dal Dap che ha portato alle dimissioni dell’ex direttore, Francesco Basentini. Perché? Che cosa recitava questa circolare? Chiedeva di applicare semplicemente una norma già esistente ai direttori dei penitenziari, diceva: guardate, segnalate ai magistrati di sorveglianza quei detenuti che sono malati, che sono affetti da patologie gravi in base alle quali se sottoposti al contagio, se incorrono nel virus, potrebbero essere compromesse le condizioni di salute e addirittura rischiare la morte. Bene, sono usciti in 376 tra cui tre boss, questa circolare è stata poi sospesa e sembrava minare l’esercizio del 41 bis quando invece forse lo avrebbe tutelato, perché? Perché lo Stato deve mostrare il pugno di ferro con i duri, già l’esercizio del 41 bis, la sua applicazione, è ai limiti della violazione dei diritti umani. Si regge solo in base ad una considerazione, cioè a quella della tutela della sicurezza della collettività, ma se uno è morente, o è malato, insomma, che cosa tuteli? Dai solamente fiato a chi il 41 bis vuole invece abolirlo.

RITA BERNARDINI - PRESIDENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO 26 Le persone gravemente malate non possono stare in carcere. Cioè, quelli che se si prendono il Coronavirus rischiano di morire, non possiamo noi che abbiamo abolito la pena di morte instaurare la morte per pena.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Così Rita Bernardini era al terzo giorno di sciopero della fame. Chiedeva un intervento legislativo più incisivo sulle carceri. A lei poi si sono uniti con uno sciopero della fame a staffetta familiari, 3500 detenuti e circa 200 docenti di diritto penale. Siamo tornati da lei al 23esimo giorno di sciopero della fame , preoccupati, anche se sappiamo che il metodo adottato è quello dei tre cappuccini al giorno, così come faceva Pannella.

RITA BERNARDINI - PRESIDENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO I tre cappuccini al giorno, meno 8 kg. BERNARDO IOVENE Hai perso 8 kg?

RITA BERNARDINI - PRESIDENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO Sì.

BERNARDO IOVENE E dico, ti vuoi fermare o no?

RITA BERNARDINI - PRESIDENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO Vorrei vedere un segnale. Per esempio: il ministro della giustizia.

BERNARDO IOVENE Ti ha risposto?

RITA BERNARDINI - PRESIDENTE DI NESSUNO TOCCHI CAINO Neanche una telefonata. Neanche a dire: ho ricevuto una mail, grazie.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il 22 dicembre però è stata ricevuta dal presidente del Consiglio, il giorno dopo insieme al garante nazionale il presidente Conte si è recato in visita a Regina Coeli, ma fino adesso tutto resta così com’era, anzi per i detenuti al 41 bis, dopo le polemiche dell’estate scorsa, gli è aumentato l’isolamento: sui malati che risultano positivi sono impossibili anche le telefonate con il proprio avvocato, qui siamo ad Opera.

EUGENIO ROGLIANI - AVVOCATO Oggi non sono consentiti per i detenuti al 41 bis. Converrà con me che le ragioni sanitarie sono relative quando stiamo parlando di un contatto che avviene telefonicamente

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Tolmezzo c’è un carcere di solo detenuti ad alta pericolosità, sono 200, nel mese di dicembre 155 hanno contratto il virus, e dei 16 detenuti in regime di 41 bis 12 sono risultati positivi.

BERNARDO IOVENE Attualmente la sua difficoltà cioè, come avvocato, per i suoi assistiti qual è?

SARA PERESSON - AVVOCATO DETENUTI 41 BIS TOLMEZZO 27 Mi ritrovo con gente ricoverata anche in gravi condizioni quindi intubata, in rianimazione, e i famigliari non sanno nulla.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il nostro ordinamento prevede che, ove siano necessarie cure o accertamenti che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti penitenziari, i condannati andrebbero curati fuori dal carcere ed è quello che ha chiesto l’avvocato di Fresco per il suo assistito. È un boss di san Giuseppe Jato, ormai malato e in carcere da 21 anni. E il 2 dicembre e siamo al carcere di Opera.

PAOLO DI FRESCO - AVVOCATO Nel corso di 21 anni tenga conto ci sono state 5 polmoniti interstiziali, è stato operato di tumore, ha avuto un intervento di aneurisma all’aorta, un’ischemia cardiaca, insomma un quadro desolante. Quindi c’erano tutti i presupposti affinché fosse mandato a casa proprio per preservarlo dal rischio di contagio. Mi è stato risposto che il virus nel carcere di Opera non può entrare e che anzi l’isolamento avrebbe consentito di tutelarlo maggiormente. Dopo una settimana dalla decisione del tribunale di sorveglianza di Milano mi è stato comunicato che aveva contratto il virus.

BERNARDO IOVENE Quindi adesso è dentro ed è positivo?

PAOLO DI FRESCO - AVVOCATO Lo hanno trasferito all’Ospedale San Paolo perché le sue condizioni sono molto gravi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo qualche ora lo stesso avvocato ci raggiunge a telefono.

AVVOCATO DI FRESCO La contattavo perché in realtà rispetto a stamane devo darle uno spiacevole aggiornamento, perché il mio assistito è morto alcune ore fa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Era Salvatore Genovese, boss di san Giuseppe Jato è morto per le complicanze provocate dal covid proprio il 2 dicembre.

PATRIZIO GONNELLA - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ANTIGONE Non è possibile. Non solo non è possibile perché disumano in sé, ma non è possibile perché la nostra costituzione fortunatamente ce lo impedisce, perché le norme internazionali fortunatamente ce lo impediscono. Nessuno deve marcire in galera. La galera deve avere un senso, anche per il più terribile dei mafiosi. Deve e dobbiamo noi essere più forti di lui. Non dobbiamo usare i suoi metodi. Per questo l’articolo 27 della costituzione si dice che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. E non si dice per alcuni, ma per tutti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La risposta la devono dare la politica e le istituzioni, che invece su questo argomento si chiudono a riccio anche sui dati…a Radio Radicale va in onda da oltre 20 anni Radio carcere è un punto di riferimento per tutti anche per le stesse istituzioni, ma negli ultimi anni fatica ad avere informazioni ufficiali dal dipartimento.

RICCARDO ARENA - RADIO CARCERE 28 Fatico due giornate per avere la conferma di un suicidio avvenuto in carcere, in un luogo dello Stato, che magari mi è stato segnalato o da un detenuto tramite una lettera o da un parente. Una chiusura.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una chiusura la trovano anche quei pochi parlamentari che hanno fatto proposte: ad esempio il presidente Giachetti pensava che si poteva allargare lo sconto di pena da 45 a 75 giorni l’anno per chi in carcere ha avuto una buona condotta.

ROBERTO GIACHETTI – DEPUTATO ITALIA VIVA – PRESIDENTE GIUNTA ELEZIONI Questo consentirebbe realisticamente a 7-8mila persone che hanno scontato il carcere, quindi che stanno a residuo pena, che possano uscire. E sono una, due, tre…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ha poi fatto decine di interrogazioni.

ROBERTO GIACHETTI – DEPUTATO ITALIA VIVA – PRESIDENTE GIUNTA ELEZIONI Nove e dieci interrogazioni. Ma lei pensa che io ho avuto una risposta? No, ma io potrei parlarle dei detenuti del 41 bis… abbiamo fatto tutto un ragionamento Sassari, Cuneo, L’Aquila, Novara, Spoleto, Terni, Tolmezzo, Viterbo, Milano Opera, Rebibbia… in una situazione già drammatica come quella delle carceri il Covid rischia di diventare una cosa esplosiva.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una chiusura la evidenziano anche i rappresentati della polizia penitenziaria. Solo da qualche settimana sono riusciti a far pubblicare il monitoraggio di Covid tra agenti penitenziari e detenuti sul sito del ministero. Gli agenti sono 37.000 nelle 192 carceri italiane, ne mancano dalla pianta organica 17.000. Ci sono grossi problemi legati anche ad esempio al riconoscimento dello straordinario.

GENNARINO DE FAZIO – UILPA POLIZIA PENITENZIARIA Allora il governo cosa fa? Pensa bene nel Decreto Ristori di stanziare 60 milioni di euro per remunerare lo straordinario e altre indennità per le forze di polizia, ma escludendo la polizia penitenziaria. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non solo, una circolare prevede che quando un agente delle forze dell’ordine contrae il Covid possa aver riconosciuto l’infortunio sul lavoro.

GENNARINO DE FAZIO – UILPA POLIZIA PENITENZIARIA Tranne ancora una volta per la polizia penitenziaria. È difficile lavorare in questo modo con quelle deficienze organiche di cui abbiamo parlato. Stanziare dei soldi per le forze di polizia ed escludere la polizia penitenziaria lo leggiamo come un dileggio e come un’offesa all’orgoglio di servitori dello Stato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora il governo dopo le proteste ha inserito anche la polizia penitenziaria tra le forze dell’ordine che hanno diritto allo stanziamento straordinario, è sempre stata considerata un po’ una polizia di serie B quella penitenziaria, e invece svolge un ruolo fondamentale e poi non è vero che è sotto organico come spesso si sente dire, e soprattutto se paragonata a quella presente negli altri Paesi. È che vengono gestiti male gli agenti, 29 vengono utilizzati per lavori amministrativi, negli uffici, nelle procure e spesso chi fa la sentinella si butta malato, la sentinella ai penitenziari. Rimangono quelli che devono controllare i detenuti in condizione di sovraffollamento, e neppure il sovraffollamento ci sarebbe perché ci sono 1.755 celle chiuse per manutenzione, mancata manutenzione, si potrebbe accedere anche a mille posti in più che non sono stati mai aperti. Ma come pretendi di rieducare, reinserire nella società un detenuto se lo tieni in condizioni indegne? Bisognerebbe costruire nuove carceri, magari anche in quelle regioni dove si producono più detenuti, e sono la Sicilia, la Campania, la Puglia. Carceri con condizioni umane dentro strutture che ospitano progetti per la rieducazione, e i detenuti puoi tenerli anche vicino alle famiglie perché anche quello è importante per coltivare la cultura degli affetti e per un futuro reinserimento. Insomma, l’ultimo piano per, ci sarà poi un motivo se nel carcere modello di Bollate, per esempio, la recidiva di chi torna in carcere è del 20% mentre invece la media nazionale è dell’80%. L’ultimo piano per le carceri era quello di Alfano, Ministro della giustizia: 700 milioni di investimenti. Si prevedeva di costruire nuove carceri, di svendere immobili di pregio nei centri delle città, Regina Coeli a Roma, San Vittore a Milano, Santa Maria Maggiore e la Giudecca a Venezia. Ci avevano già messo gli occhi sopra i costruttori Ligresti e Caltagirone, il piano non è andato poi in porto, si sono consumati i soldi spendendoli in consulenze inutili. Ora, evocare l’indulto o l’amnistia è l’ammissione dell’impotenza di uno Stato e il fallimento di alcune politiche, perché in carcere non ci va solo il criminale ma ci va l’immigrato, ci va il ragazzo che è stato abbandonato e che è cresciuto in casa famiglia, ci va il ragazzo che ha abbandonato la scuola e ha imboccato una strada sbagliata, ci va chi esercita violenza all’interno della famiglia perché a sua volta da ragazzo l’ha subita, ci va chi ha davanti solo la strada della povertà e cerca un’alternativa, o chi ha anche problemi psichiatrici. Ecco, insomma, il carcere è tutto questo, contiene le scorie di politiche fallimentari di uno stato, quelle su una mancata integrazione, il mancato, il mancato accoglimento, la mancanza di politiche di investimento sulla scuola, sull’assistenza familiare, sull’incapacità di offrire dei modelli virtuosi. Insomma, chissà se lo Stato avrà la forza di cambiare la strada, di imboccare quella della prevenzione al carcere, insomma, si tratta di una questione di visione, quella che hanno avuto alcuni prigionieri che sono scappati nel’ 800 e si sono rifugiati su un’isola deserta.

L’odissea dei braccialetti elettronici: tra costi esorbitanti e pochissime attivazioni. In dieci anni sono stati attivati 14 braccialetti elettronici per una spesa di ben 81 milioni di euro. Dal 2016 Fastweb in 3 anni ne avrebbe potuti fornire fino a 43mila. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 settembre 2021. Non sono mai mancati i problemi, con i braccialetti elettronici. Da quelli relativi al loro funzionamento alla loro disponibilità. Per più di un decennio, il braccialetto è vissuto nella marginalità, conseguenza di un disinteresse generale, protrattosi pur dopo che ne era stata prevista l’applicazione con un decreto legge del 2000. Nel 1998 il tema era oggetto di attenzione nell’ambito dell’Ufficio detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. La competenza di tale ufficio includeva, all’epoca, anche il settore delle misure alternative alla detenzione (poi ridefinito più correttamente dell’esecuzione penale esterna). Le sedi internazionali alle quali l’ufficio partecipava vedevano un interessante confronto tra esperienze di Stati europei diversi che presentavano, peraltro, un elemento in comune: il braccialetto elettronico era già applicato, oppure se ne stava considerando l’introduzione. Negli anni successivi, l’attenzione dell’amministrazione penitenziaria si focalizzava sull’approfondimento degli aspetti tecnici dei sistemi di monitoraggio elettronico già esistenti e presentati da ditte private, mentre proseguiva il confronto con le esperienze di altri Paesi. Bisogna contestualizzare il clima politico che si stava respirando. Non tanto diverso da quello odierno. Gli anni 1998-2001 si caratterizzarono per una fase di instabilità politica, con dimissioni dei governi in carica prima della fine della legislatura, giunta alla scadenza “naturale” nella prima metà del 2001. In quel periodo, il tema della sicurezza agitava il dibattito politico e la domanda di maggiore sicurezza si esprimeva, forte e a volte semplificata, sui media, risolvendosi in polemiche su un asserito buonismo di magistrati e amministrazione penitenziaria, ritenuto causa di un presunto lassismo nei confronti di chi delinque.

INTRODOTTO DAL 2001 NEL CODICE DI PROCEDURA PENALE

In tale contesto, venne introdotto nel codice di procedura penale, con il decreto legge n. 341 del 24-11-2000, convertito, con modificazioni, nella legge 19-1-2001, n. 4, l’art. 275-bis cpp. Prevedeva il braccialetto elettronico come strumento applicabile, con il loro consenso, ai soggetti indagati o imputati, dunque a coloro per i quali la restrizione della libertà personale – nella forma degli arresti domiciliari – fosse intervenuta come misura cautelare, e perciò prima della irrevocabilità della condanna. Dal 2001 al 2003 vi è una prima sperimentazione in 5 province. Dopodiché il servizio viene esteso a tutta l’Italia affidando la gestione di tutte le fasi alla Telecom Italia S.p.a. che per otto anni diviene di fatto il gestore esclusivo dell’intero delicato servizio.

FINO AL 2011 14 QUELLI ATTIVATI PER QUASI 6 MILIONI DI EURO CIASCUNO

Qui il disastro accertato dalla Corte Dei Conti. Da pagina 51 della relazione, si apprende che al 31 dicembre del 2011 i braccialetti elettronici attivati sono stati complessivamente 14. Il ministero ha speso 81,3 milioni di euro per 14 dispositivi utilizzati. In otto anni ogni braccialetto è costato quasi 6 milioni di euro. Una catastrofe. Nonostante il disastro denunciato in realtà ben prima della relazione della Corte, allo scadere della convenzione, viene rinnovata nuovamente con Telecom senza nessuna gara d’appalto: con trattativa diretta la Telecom S.p.a. si aggiudica un contratto che va dal 2012 fino al 2018 per una quantità di 2000 braccialetti. Altri anni di gestione dei preziosissimi bracciali ad un costo pressoché invariato.

NEL 2013 DI BRACCIALETTI ELETTRONICI NE RISULTAVANO ATTIVI 55

Nel frattempo il Tar del Lazio, su ricorso di Fastweb, ha dichiarato inefficace la convenzione, non essendo giustificata una trattativa diretta senza una gara pubblica, ma il Consigliodi Stato rimette la questione della sorte del contratto annullato alla Corte di Giustizia Europea e dunque la gestione dei bracciali è rimasta in mano a Telecom. Solo per rendere bene l’idea, nel 2013 i braccialetti attivi risultavano 55. Il costo per quell’anno è, come da contratto, di poco meno di 10 milioni di euro, da versare a Telecom. Ma poi, accade che con l’emergenza sovraffollamento la richiesta è aumentata anche grazie ai decreti deflattivi. A giugno del 2014, l’allora capo della polizia Alessandro Pansa ha inviato ai vertici del Dap un allarme: «Ad oggi – scriveva Pansa si è arrivati a circa 1.600 dispositivi attivi con una saturazione del plafond di 2.000 unità prevista entro il corrente mese di giugno». I braccialetti non sono più bastati, mentre la spesa contrattuale era alta.

NEL 2016 FASTWEB VINCE LA GARA PER 36/43.000 DISPOSITIVI IN 3 ANNI

Arriviamo nell’anno 2016. Il governo avvia bando di gara europeo che in agosto 2018 aggiudica a Fastweb la fornitura — da dicembre 2018 a dicembre 2021 per 7,7 milioni l’anno — di 1.000 (incrementabili sino a 1.200) braccialetti elettronici, dunque un totale di 23 milioni nel triennio per 36.000/43.000 dispositivi.Il Dubbio appura che l 15 maggio 2020, però, cioè dopo 16 mesi di contratto, la relazione tecnica del decreto legge «Cura Italia» ne conteggia 2.600, e non i 16.000 che a quell’epoca ci si aspetterebbe.

A gennaio del 2021, l’allora viceministro Vito Crimi, grazie all’interpellanza di Roberto Giachetti, deputato di Italia viva, e scaturita da un articolo de Il Dubbio, comunica che al 31 dicembre 2020 i braccialetti in uso sono 4.215 e quelli usabili 5.940, quindi in totale 10.155; e che il commissario all’emergenza Covid, su richiesta del Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, il 10 aprile 2020 ha affidato a Fastweb «una fornitura di 1.600 braccialetti per le finalità dei decreti legge per far fronte alla pandemia». Risposta che però non ha convinto. Non ha spiegato perché i braccialetti, a gennaio scorso, siano stati 10.155 se, in base al contratto da 23 milioni con Fastweb per 1.000/1.200 al mese da fine 2018 a fine 2021, dopo 24 mesi sarebbero dovuti già essere almeno 24.000.

IL NUMERO DIPENDE DALLE RICHIESTE DEL VIMINALE

Ma la colpa non è di Fastweb. In realtà, il quantitativo dipende da quanto richiesto di volta in volta da Ministero dell’interno. In sostanza il numero di braccialetti in uso dipende non da una carenza di dispositivi ma esclusivamente dalle attivazioni e disattivazioni disposte dalle Autorità competenti. Non solo, la remunerazione della società è correlata alle attività effettivamente svolte. Qualcosa non sta funzionando da parte di chi deve fare richiesta dei dispositivi. Altrimenti non si capisce perché, come denunciato recentemente da Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, in alcuni penitenziari ci sono reclusi che non usufruiscono dei domiciliari, perché manca la disponibilità dei braccialetti elettronici.

Un detenuto racconta: «Picchiati brutalmente da un centinaio di agenti per la rivolta nel carcere di Foggia». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 gennaio 2021. Il racconto all’associazione Yairaiha Onlus sui fatti di marzo nel carcere di Foggia di un recluso che, temendo ritorsioni, vuole rimanere anonimo. Nel carcere di Foggia, pochi giorni dopo la rivolta di marzo, finita con tanto di evasione spettacolare, avrebbe fatto irruzione una squadra composta da numerosi caschi blu e ci sarebbe stato un vero e proprio massacro simile a quello che sarebbe avvenuto al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma andiamo con ordine. Nei giorni scorsi, – secondo quanto ha appreso l’associazione Yairaiha Onlus – agenti della squadra mobile di Roma, su richiesta della procura di Foggia, hanno ascoltato uno dei 5 detenuti citati nell’esposto presentato da Yairaiha lo scorso 29 marzo su delega dei familiari, in base ai loro racconti durante i colloqui telefonici su quanto sarebbe avvenuto la notte del 12 marzo nel carcere di Foggia. Esposto – reso pubblico da Il Dubbio – presentato dopo che sarebbero stati trasferiti e tenuti per oltre due settimane in isolamento totale e senza neanche la possibilità di telefonare alle proprie famiglie, lasciandole in un profondo stato di apprensione e angoscia. Dei 5 detenuti in questione nessuno ha partecipato alle rivolte. L’esposto è di mesi fa, ma molto probabilmente l’input è arrivato grazie al servizio di Report sulle carceri, a firma del giornalista Bernardo Iovene. Sì, perché nella trasmissione di Rai3, condotta da Sigfrido Ranucci, si fa riferimento anche al presunto pestaggio nel carcere di Foggia. Nel frattempo arrivano nuovi dettagli inquietanti e sconvolgenti.

L’altra testimonianza inedita di un detenuto che vuole rimanere anonimo. È sempre Yairaiha a ricevere la segnalazione di un altro detenuto, ma che non ha nulla a che fare con i cinque dell’esposto. Si tratta di un’altra inedita testimonianza, ma il detenuto vuole rimanere anonimo per paure di potenziali ritorsioni. Ricordiamo che parliamo di un momento tragico, sfociato in una evasione di massa. Per ricostruire la rivolta avvenuta il 9 marzo del 2020 ci affidiamo all’informativa del Dap, guidato all’epoca da Francesco Basentini, e inviata al ministro della Giustizia. Si legge nell’informativa che intorno alle ore 9,40, i detenuti del carcere di Foggia chiedono insistentemente un incontro con il Direttore e il Comandante di reparto, esternando la preoccupazione di ricevere rassicurazioni sull’emergenza Covid 19. Il comandante di Reparto, unitamente ad alcune unità di polizia, giunge all’interno del cortile passeggi per fornire tutte le informazioni richieste. Nonostante ciò i detenuti iniziano a protestare e in massa escono dal cortile forzando i cancelli degli sbarramenti. Immediatamente viene dato l’allarme e richiesto l’intervento delle altre forze dì Polizia che accorrono sul posto. I rivoltosi, dopo aver forzato il cancello, entrano nell’ufficio Matricola e appiccano un incendio che distrugge la documentazione conservata e tutta la strumentazione informatica. I detenuti proseguono la protesta presso la sezione femminile ove, dopo aver forzato la porta d’ingresso, avrebbero strattonato le poliziotte impossessandosi delle chiavi delle stanze al fine di liberare le detenute, devastando e vandalizzando gli arredi e i dispositivi informatici. Contemporaneamente agli accadimenti in corso alla sezione femminile, altri numerosi detenuti forzano i varchi della portineria centrale sfondando il relativo cancello. Un gruppo tenta di raggiungere il Direttore, che veniva messo in sicurezza all’interno del box portineria. Immediatamente dopo i rivoltosi accedono nel piazzale esterno abbandonando così la zona detentiva. Altri numerosi detenuti giungono nel medesimo piazzale dopo aver sfondato il doppio varco della carraia. La ressa così costituita e formata da oltre 400 detenuti, si è impadronita di tutta l’area. Un gruppo di circa 100 detenuti si sono poi diretti verso il primo dei due cancelli di ingresso buttandolo a terra e favorendo in questo modo la fuga verso l’esterno di numerosi detenuti attraverso la porta pedonale temporaneamente aperta, sempre secondo l’informativa del Dap per mettere in sicurezza avvocati e alcuni operatori che manifestavano segnali di evidente paura.

L’irruzione degli agenti con caschi blu e a volto coperto. Ed ecco che arriviamo alla testimonianza di un detenuto raccolta dall’associazione Yairaiha dove emergerebbe un atto violento molto simile a quello che sarebbe accaduto al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. A freddo, qualche giorno dopo la rivolta, e più precisamente il 12 marzo mattina presto, nel carcere di Foggia avrebbe fatto irruzione un centinaio di agenti con caschi blu, con volto coperto, scudi e manganelli. «Mentre stavo dormendo – racconta il detenuto ad Yairaiha – non mi hanno dato neanche il tempo di alzarmi dal letto, 2 agenti mi hanno tirato giù dal letto e mi hanno sbattuto con la faccia a terra, mi mantenevano allungato a terra e con la faccia al pavimento, tenendo un piede in testa e l’altro sul corpo con tutto il loro peso». A quel punto, prosegue il racconto «gli altri 2 pensavano a darmi una scarica di manganellate su tutte le parti del corpo, mentre il quinto agente aveva il ruolo di prendere le fascette in plastica bianche, tenermi le braccia dietro la schiena con forza e legarmi i polsi, stringendo le fascette in modo di non far circolare neanche il sangue. In questo modo non potevo neanche coprirmi sia il volto che il corpo dalle scariche di manganellate, calci e pugni». Poi avrebbero fatto alzare lui e il suo compagno di cella, e l’avrebbero fatti uscire dalla cella facendolo passare in mezzo al “tunnel”. «Lo chiamo così – racconta il detenuto all’associazione Yairaiha – perché tutti e 300 gli agenti erano posizionati nelle sezioni in 2 file, una fila di fronte all’altra per poi farci passare in mezzo a loro», e dalla sezione fino a verso l’uscita, avrebbero continuato a dare scariche di manganellate. «Per 10 secondi – prosegue il detenuto nel racconto – ho visto tutto nero sotto quelle manganellate, ho perso i sensi, ma nonostante ciò non si sono mai fermati con i manganelli, i pugni e i calci, che aumentavano sempre di più».

«Manganellato anche durante il trasferimento». Dopodiché il detenuto sarebbe stato messo su un furgone, dove avrebbe ricevuto altre manganellate, e l’hanno trasferito in un altro carcere scalzo e solo con il pigiama e da lì l’avrebbero trasferito in un altro carcere. La testimonianza prosegue: «Mi hanno chiuso in una stanza blindata dove non c’era niente, era vuota, neanche lo sgabello per sedermi e mi hanno tenuto una giornata senza bere, mangiare e non mi hanno fatto andare neanche in bagno, minacciandomi che se chiedevo qualcosa mi avrebbero continuato a picchiare, peggio di quanto avevo già avuto». Testimonia sempre il detenuto all’associazione che per 40 giorni avrebbe convissuto con dolori in tutto il corpo, soprattutto la testa dove avrebbe preso più colpi. «Avevo troppi dolori durante la notte – racconta sempre a Yairaiha -, non riuscivo neanche a dormire, e quando chiedevo di essere visitato, mi facevano attendere». La testimonianza raccolta dall’associazione Yairaiha, ovviamente è da vagliare con attenzione. Resta il fatto che ci sono punti di convergenza anche con i racconti denunciati nell’esposto. Com’è detto, grazie soprattutto all’impulso di Report, sembrerebbe che la procura di Foggia si stia attivando. «Si intravvede – commenta Sandra Berardi, presidente di Yairaiha Onlus – lo stesso modus operandi dei presunti pestaggi di Modena, Santa Maria Capua Vetere e altri. Più che ristabilire l’ordine si sarebbe trattato di una spedizione punitiva a freddo, una vendetta!». Berardi aggiunge anche una riflessione: «Mi rammarica che siano passati 10 mesi dall’esposto e solo ora sembrerebbe che sia dato seguito all’esposto. Temo che senza il servizio di Report e le denunce su Il Dubbio, forse tutto sarebbe rimasto sotto silenzio. Ora ci auguriamo che si faccia chiarezza sul carcere di Foggia, individuando i responsabili».

Detenuto pestato in cella, agente condannato per tortura: “Decisione storica, nessuno è al di sopra della legge”. Redazione su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. Un agente di polizia penitenziaria è stato condannato a tre anni per tortura e lesioni personali ai danni di un detenuto, unite dal vincolo della continuazione. I fatti risalgono al settembre del 2017 nel carcere di Ferrara. Il poliziotto in questione, l’Assistente Capo Pietro Licari, 51 anni, è accusato di aver agito “con crudeltà violenza grave” nei confronti di un condannato per omicidio, Antonio Colopi, 26 anni, picchiato e fatto spogliare in cella. Il magistrato Isabella Cavallari della Procura di Ferrara aveva chiesto tre anni e sei mesi. Oltre all’agente condannato, che ha scelto il rito abbreviato, altre tre persone sono state rinviate a giudizio: si tratta di altri due agenti, il Sovrintendente Geremia Casullo, 55 anni, e l’Assistente Capo Massimo Vertuani, 49 anni, e l’infermiera Eva Tonini, 39 anni, accusata di falso e favoreggiamento. Dopo l’aggressione il detenuto, assistito dall’avvocato Paola Benfenati, venne trasferito a Reggio Emilia. La sentenza, una delle prime per questo tipo di reato, ha concesso all’imputato le attenuanti generiche, riconosciute equivalenti alle aggravanti. Secondo quanto emerso dalle indagini, nel settembre del 2017 i tre agenti penitenziari entrarono nella cella d’isolamento in cui si trovava il detenuto per una perquisizione. Mentre uno di loro restò di guardia in un corridoio, gli altri due cominciarono a picchiare Colopi. “Quella di oggi per i fatti relativi alle violenze avvenute nei confronti di un detenuto nel carcere di Ferrara è la prima condanna di un funzionario pubblico per il delitto di tortura, introdotto nel codice penale italiano nel 2017” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Non si gioisce mai per una condanna e non gioiamo neanche in questo caso – aggiunge – ma affermiamo comunque che la decisione di oggi ha un sapore storico. La tortura è un crimine orrendo, inaccettabile in un Paese democratico. La condanna, seppur in primo grado, mostra come la giustizia italiana sia rispettosa dei più indifesi. Si tratta di una sentenza che segnala come nessuno è superiore davanti alla legge. La legge vale per tutti, cittadini con o senza la divisa. E’ questo un principio delle democrazie contemporanee”. “Fortunatamente ora esiste una legge che proibisce la tortura – prosegue Gonnella -. In passato fatti del genere cadevano nell’oblio. E’ importante che tutti gli agenti di Polizia penitenziaria si sentano protetti da una decisione del genere, che colpisce solo coloro che non rispettano la legge. Antigone ha a lungo combattuto per avere questa legge, con l’ultima campagna “Chiamiamola tortura” avevamo raccolto oltre 55.000 firme a sostegno di questa richiesta. Ora possiamo dirlo, la tortura in Italia esiste, purtroppo viene praticata, ma ora viene anche punita” conclude.

Torture a Sollicciano, misure cautelari per 9 agenti penitenziari. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 gennaio 2021. Tre si trovano agli arresti domiciliari, gli altri sei sono invece interdetti dalla professione per un anno. Un detenuto del carcere di Sollicciano era stato denunciato per aggressione sessuale e resistenza a pubblico ufficiale nei confronti di una ispettrice capo, ma una volta sentito dai magistrati ha raccontato tutt’altra vicenda: in realtà, lui e un altro detenuto avrebbero subito violenze da parte degli agenti penitenziari. Un racconto che sarebbe stato confermato dalle immagini delle telecamere acquisite dal direttore del carcere. A quel punto ne è scaturita una indagine sfociata ieri in nove misure cautelari per gli agenti penitenziari accusati del reato di tortura, mentre la vice ispettrice è tuttora indagata. Tre si trovano agli arresti domiciliari: l’ispettrice Elena Viligiardi coordinatrice del reparto penale, l’assistente Luciano Sarno e l’agente Patrizio Ponzo. Gli altri sei sono invece interdetti dalla professione per un anno. A coordinare le indagini è Christine Von Borries, pm della procura di Firenze. Gli episodi contestati sarebbero avvenuti più volte nel tempo: nel 2018 e nel maggio scorso. I due detenuti oggetto di pestaggio nel carcere di Sollicciano hanno riportato gravi lesioni, come la rottura di un timpano e frattura delle costole. I nove indagati devono rispondere anche di falso ideologico in atto pubblico, perché avrebbero fatto passare gli abusi come resistenze da parte dei detenuti. Sì, perché le indagini della Procura hanno rivelato che la denuncia fatta nei confronti del detenuto marocchino era falsa e che era stato invece picchiato da un gruppo di agenti dopo aver chiesto di telefonare ai parenti in Francia, proprio nell’ufficio dell’ispettrice capo responsabile della sezione penale. Ricoverato per le ferite in ospedale per le fratture di due costole, il detenuto aveva poi messo a verbale che nell’ufficio dove era stato picchiato erano presenti «l’ispettrice con i capelli biondi dietro la scrivania, quattro agenti, oltre all’ispettore e il capoposto. Sono stato colpito con pugni e calci. Una volta caduto a terra sono stato colpito ancora e poi ammanettato». Avrebbero anche esclamato: «Ecco la fine di chi vuole fare il duro!». Così, di fronte alle due denunce contrapposte, il direttore del carcere fece acquisire le immagini delle telecamere che hanno confermato il racconto del detenuto. Da lì le indagini hanno ricostruito un altro episodio di violenza, avvenuto nel 2018, quando un detenuto italiano denunciò la rottura di un timpano. Ed è così che la Toscana raggiunge il triste primato relativo a presunti casi di tortura in carcere. Ricordiamo infatti il precedente che riguarda il carcere di San Gimignano: i pestaggi – grazie alla segnalazione dell’associazione Yairaiha Onlus – resi pubblici per la prima volta da Il Dubbio, sarebbero avvenuti l’ 11 ottobre del 2018. Il giudice dell’udienza preliminare di Siena ha recentemente rinviato a giudizio cinque agenti penitenziari in servizio accusati di aver esercitato una inaudita violenza nei confronti del detenuto tunisino Meher. Nello stesso tempo condannato a 4 mesi un medico per omissioni d’atti di ufficio, perché non avrebbe visitato il detenuto quando era seminudo e dolorante in cella di isolamento. Tra le parti civili, oltre ad Antigone e l’associazione Yairaiha, c’è anche il garante nazionale delle persone private della libertà rappresentato dall’avvocato Michele Passione. Gli imputati hanno chiesto il rito abbreviato. La novità è che il 27 gennaio prossimo, in udienza, sarà visionato il video che ha ripreso, in parte, tutto quello che è accaduto.

Falsi certificati per coprire i pestaggi. Torture nel carcere di Sollicciano, chiesto processo per 10 agenti e due medici: “Timpano e costole rotte”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 16 Giugno 2021. Chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti della polizia penitenziaria e due medici in servizio tra il 2018 e il 2019 nel carcere fiorentino di Sollicciano per i presunti pestaggi ai danni dei detenuti. La richiesta arriva da Christine Von Borries, sostituto procuratore della procura del capoluogo toscano. Le accuse, contestate a vario titolo, sono quelle di tortura e falso in atto pubblico. Secondo la procura fiorentina, i due sanitari avrebbero redatto falsi certificati in relazione alle condizioni dei detenuti vittime delle presunte violenze da parte degli agenti. Lo scorso gennaio tre agenti penitenziari, tra i quali un’ispettrice, sono finiti ai domiciliari, mentre per altri sei è stata disposta la misura cautelare dell’interdizione dall’incarico per un anno e dell’obbligo di dimora nel comune di residenza. Stando a quanto emerso nelle indagini, nell’ufficio dell’ispettrice 50enne sarebbero avvenuti almeno due episodi di pestaggi ai danni di altrettanti detenuti. L’episodio più violento, datato il 27 aprile 2019, sarebbe avvenuto nell’ufficio della donna ai danni di un uomo di origini marocchine che aveva insultato un agente in segno di protesta. “Ti massacriamo” avrebbero reagito gli agenti con il detenuto portato nell’ufficio dell’ispettrice e pestato con pugni e calci. Non contenti, gli agenti avrebbe portato l’uomo in un’altra stanza, lasciandolo nudo per diversi minuti prima di condurlo in infermeria. “Ecco – gli avrebbe detto uno degli agenti – la fine di chi vuole fare il duro”. A seguito dell’episodio il detenuto ha riportato 20 giorni di prognosi per la frattura di due costole. Sempre secondo le ricostruzioni del pm, per coprire il pestaggio avvenuto davanti a lei nel suo ufficio, l’ispettrice avrebbe redatto una relazione in cui dichiarava che i colleghi erano stati costretti a intervenire perché il marocchino aveva cercato di aggredirla sessualmente. Nel dicembre 2018 un altro detenuto, italiano, sarebbe stato immobilizzato da otto agenti nell’ufficio del capoposto e picchiato fino a perforargli un timpano. Qui entrano in gioco i medici, un 33enne straniero e residente a Siena, e una 62enne di Prato. Secondo l’accusa, entrambi, in due distinti episodi, hanno coperto gli autori dei pestaggi senza visitare i detenuti che venivano portati in infermeria dopo le violenze, certificando come lievi lesioni quelle che erano violenze pesanti. Il 2020 è stato un anno nero per le carceri italiane. A dicembre scorso sono circa 53mila i detenuti in galera per 47mila posti disponibili. A marzo, dopo la chiusura ai colloqui per la pandemia da coronavirus, sono morti durante le proteste in diverse carceri 14 detenuti, 9 a Modena. Secondo le autorità tutti per overdose dei farmaci rubati dalle infermerie. Con il passare delle settimane si sono moltiplicate le denunce e le voci di torture e violenze. Il caso più rumoroso è quello denunciato al carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano, 57 gli agenti indagati.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Il processo per i fatti dell'ottobre 2018. Torture in carcere a San Gimignano, condannati 10 agenti: “Salvini chieda scusa alle vittime”. Rossella Grasso su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Dieci agenti di polizia penitenziaria del carcere di Ranza a San Gimignano sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate in concorso. Per loro una pena che va dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi. Questa la sentenza del gup di Siena Jacopo Rocchi dopo quasi 3 ore di camera di consiglio. I 10 agenti, con i legali Manfredi Biotti e Stefano Cipriani, avevano scelto la strada del rito abbreviato dopo essere stati accusati del pestaggio di un detenuto durante un trasferimento coatto di cella avvenuto a ottobre 2018. Il pm Valentina Magnini aveva chiesto condanne a 3 anni per 8 agenti, 2 per un altro e 22 mesi per il decimo imputato. “È la seconda volta in poche settimane (il primo caso riguardava un agente in servizio nel carcere di Ferrara) che i giudici applicano la legge per la quale Antigone ha combattuto vent’anni per ottenerla e che, dal 2017, punisce questo crimine contro l’umanità”, dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. L’episodio oggetto delle indagini e del processo si è tenuto nell’ottobre 2018 nel carcere toscano. Cinque agenti penitenziari erano stati rinviati a giudizio lo scorso mese di novembre e per loro si aspetta il rito ordinario in un procedimento nel quale Antigone è costituita parte civile. Durante quella stessa udienza era stato giudicato, con rito abbreviato, un medico del carcere, condannato a 4 mesi di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio, per non aver visitato e refertato la vittima. “Ricordiamo l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini in visita fuori dal carcere di San Gimignano per portare solidarietà agli agenti della polizia penitenziaria all’epoca indagati. Chiediamo oggi, alla luce di queste condanne, che Salvini chieda scusa alle vittime e alla giustizia italiana”, conclude Gonnella.

Maria Vittoria Giannotti per "La Stampa" il 18 febbraio 2021. Erano accusati di aver preso parte al pestaggio di un detenuto tunisino in una cella del carcere di San Gimignano nell'ottobre del 2018. Ieri dieci agenti dell'istituto penitenziario del Senese sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate: le pene vanno da 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi. La sentenza del gup di Siena riguarda solo gli agenti che avevano optato per il rito abbreviato: per accertare le responsabilità di altri cinque colleghi, rinviati a giudizio, si terrà il processo, previsto per il prossimo 18 maggio. Per la vittima, che non ha mai sporto denuncia, forse per timore, il giudice ha stabilito un risarcimento di 80mila euro. L'inchiesta della Procura di Siena era scaturita dalla denuncia di una operatrice e dai racconti di altri carcerati. Il trentunenne tunisino era recluso in isolamento per reati legati allo spaccio. L'episodio si sarebbe verificato in occasione di un trasferimento in un'altra cella dello stesso penitenziario: l'uomo sarebbe stato trascinato in un corridoio, poi sarebbe stato spogliato dei pantaloni e picchiato pesantemente, con calci e pugni, tra grida e minacce. Poi, finito il pestaggio, sarebbe stato lasciato svenuto in una cella. Agli agenti finiti nel mirino degli inquirenti era stato contestato per la prima volta il reato di tortura, introdotto nella legislazione italiana dal 2017.

Da “la Repubblica” il 23.09.2019. Non un caso solo, seppure grave, seppure degno di far ipotizzare alla procura di Siena il reato di tortura. Sarebbero anche altri gli episodi di violenze sui detenuti ad opera della polizia penitenziaria nel carcere di San Gimignano, che allungano un' ombra inquietante sulla struttura. «Il problema è che lì i fatti si sono un po' susseguiti nel tempo. Hai visto come funziona? Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei», dice uno degli indagati a un collega nel gennaio scorso, prima di un' audizione al Dap. E proprio dal Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria si elencano più pestaggi. Francesco Basentini, capo del Dap: «I fatti di cui parliamo sarebbero concentrati in un ambito di tempo abbastanza ristretto e coinvolgerebbero due o tre detenuti del carcere di San Gimignano. Fatti abbastanza seri e gravi, per questo si è giunti ad adottare quel provvedimento di sospensione». Non lavorano più, per ora, quattro dei 15 poliziotti finiti nell' indagine di Siena partita dalle denunce di chi ha assistito al violento pestaggio di un tunisino di 31 anni o ne ha viste le conseguenze. È una delle prime volte che in Italia viene contestato il reato di tortura, in questo caso affiancato alle accuse di minacce, lesioni e falso. «Ovviamente siamo nella fase delle indagini, questa è la contestazione cautelare», prosegue Basentini, che promette trasparenza. Mentre i sindacati aggiungono che la penitenziaria non ha «nulla da nascondere». L'indagine non sembra però cogliere di sorpresa il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone: «Era ora che scoppiasse il bubbone. Da anni denunciavamo la situazione intollerabile del carcere, che ha origini nella pessima decisione di costruirlo in un luogo isolato, malamente raggiungibile, con gravi problemi addirittura nella fornitura dell' acqua. I fatti che la procura sta approfondendo risalgono a circa un anno fa e mi risulta che le prime indagini furono fatte dall' amministrazione penitenziaria in collaborazione con la procura, quindi non c' è stato tentativo di nascondere l' episodio, gravissimo». Il sindaco di San Gimignano, Andrea Marrucci, rincara la dose: «Da troppo tempo la casa di reclusione è abbandonata al suo destino, senza direzione stabile e da mesi senza comandante e vice comandante del corpo di polizia penitenziaria.

Con la parlamentare Susanna Cenni abbiamo denunciato le difficoltà di agenti e detenuti, le carenze infrastrutturali e chiesto interventi urgenti agli enti preposti. Richiesta sfociata in una esplicita lettera di misure urgenti al ministro».

Michele Bocci per “la Repubblica” il 23.09.2019. L'assistente capo è contrariato. Alle 10 di mattina di un lunedì del gennaio scorso deve recarsi a Firenze, al Dap, «per quei fatti che sono successi ad ottobre - rivela a un collega indagato come lui - Cioè, andare a perdere una giornata lavorativa per andare eventualmente a giustificare l' operato delle persone, per uno che bisognerebbe pigliare la tanica di benzina, buttargliela addosso e dargli fuoco». Si riferisce al detenuto tunisino che è stato pestato da 15 persone San Gimignano. Gli agenti hanno fatto di tutto per non farsi vedere mentre tiravano calci e pugni: «Buona parte del personale operante si è posto in modo da creare una barriera all' inquadratura della telecamera», scrivono gli inquirenti. «Alla fine credevo che fosse svenuto - ha testimoniato un altro detenuto che ha in parte assistito alla scena - Un' agente, nel momento in cui si trovava a terra, diceva agli altri: "Fermi, così lo ammazzate"». Sembra una fine drammaticamente possibile a leggere la ricostruzione degli investigatori, secondo i quali quando viene riaccompagnato in cella, il detenuto cade e un assistente capo di 120 chili gli sale addosso con le ginocchia mentre un altro lo stringe per un braccio e un terzo lo afferra per il collo. Ma dentro il carcere di San Gimignano, dove sono reclusi anche camorristi, 'ndranghetisti e trafficanti, le cose sarebbero difficili anche per altri detenuti. Soprattutto la notte. «Entravano in tanti nelle celle e avevamo paura - ha raccontato un testimone - In isolamento dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa». E un altro: «Spesso vengono gli agenti nelle celle e cercano di provocare per vedere se i detenuti reagiscono». Del resto uno degli indagati avvertiva: «Fate bene a non dormire la notte, torniamo in ogni momento, pedofili, mafiosi di merda, infami». Sono queste parole, e anche alcune frasi piuttosto chiare degli stessi intercettati («I fatti si sono un po' susseguiti nel tempo. Da uno sono diventati due, tre, quattro, cinque, sei») a far ritenere che gli episodi violenti potrebbero essere stati tanti. Ad colpire è l' inquietudine con cui alcuni degli stessi coinvolti si riferiscono ai due o tre considerati i leader del gruppo. Dice un agente: «Lui, e anche l' altro, sono mine vaganti. Perché anche lui quando va dentro perde il capo. Io te lo dico. Perde completamente la testa». Qualcuno in servizio beve pure. «Perdono la testa anche perché spesso vanno carichi, non ragionano già di loro, figurati quando sono carichi ». E in effetti uno dei violenti si sfoga così con un compagno a gennaio, mesi dopo l' episodio al centro dell' indagine. «Sto troppo nervoso - dice - io mi arrabbio, hai capito o no? Questo continua a fare il malandrino, l' altra sera lo stavo ammazzando, io l' ho preso per i capelli dietro al collo, ho detto: io te la svito la testa, uomo di merda che sei. Hai capito che io ti ammazzo qui a terra? A casa nostra fai il malandrino?». Alcuni membri del gruppo avevano rapporti pessimi con il resto del personale impiegato in carcere, soprattutto con chi non rispettava le loro regole un po' omertose. Una dottoressa è stata presa di mira perché refertando le condizioni del tunisino pestato ha riportato le sue dichiarazioni. Non avrebbe dovuto, secondo uno degli agenti, che più volte ha polemizzato con lei. Durante una discussione, tra l' altro, le ha toccato, pare accidentalmente, il seno con una mano, lei ha protestato e lui l' ha presa ancor più di mira, offendendola pesantemente in varie occasioni. La paura dei prigionieri: "Guardie violente, dormivamo a turno per non essere colti di sorpresa".

Torture in carcere, condannati 10 agenti di San Gimignano. Le iene News il 18 febbraio 2021. Dieci agenti del carcere di San Gimignano sono stati appena condannati per tortura e lesioni aggravate. Con Matteo Viviani ci siamo occupati delle violenze in cella parlando con un detenuto che sostiene di averle subìte a Parma. Dieci agenti del carcere di San Gimignano (Siena) condannati per tortura e lesioni aggravate: si conclude così il processo per chi ha optato per il rito abbreviato. Inizierà invece a maggio quello che vede accusate altre cinque guardie penitenziarie. Avrebbero picchiato e umiliato un detenuto tunisino costretto anche ad abbassarsi i pantaloni mentre veniva insultato con frasi razziste. L'inchiesta della procura di Siena era partita dalla denuncia di un’operatrice e dai racconti di altri carcerati. Per la vittima che non ha mai presentato denuncia è stato stabilito un risarcimento di 80mila euro. La violenza sarebbe avvenuta durante un trasferimento: l'uomo sarebbe stato picchiato con calci e pugni, poi sarebbe stato lasciato da solo in una cella. Di violenze in carcere vi abbiamo parlato con Matteo Viviani ascoltando gli audio di Rachid Assarag, detenuto marocchino nel carcere di Parma, che dice di aver subìto botte e soprusi. Li ha registrato con il suo telefonino, come racconta alla Iena nel servizio che potete vedere qui sopra. Da quegli audio emergerebbe in particolare un episodio che sarebbe avvenuto il 14 febbraio 2011. Rachid ancora una volta registra i lamenti disperati di un detenuto che si sta sentendo male in cella. “Si ingoiava la lingua”, sostiene. “Ho chiamato la guardia e ho detto di chiamare un dottore ma mi ha risposto di no, che stava bene”. Una risposta che gli sarebbe stata data anche dall’agente che dà il cambio al collega. Passano ore e anche il secondo agente, racconta ancora Rachid, smonta di turno mentre il medico continua a non essere avvisato. Arriva la terza guardia e Rachid insiste ma anche quest’ultima non avrebbe fatto nulla. Al mattino il detenuto muore. Quando Rachid chiede spiegazioni all’ultimo agente di custodia, dicendogli che un suo intervento avrebbe potuto salvarlo, lui avrebbe risposto: “Pesa cinquanta chili la cornetta. Ci vuole troppo tempo, io non avevo voglia di lavorare, mettila così”. E non sarebbe il solo episodio che darebbe contorni inquietanti a quanto avverrebbe in alcune carceri italiane: qualche mese fa è arrivata una nuova segnalazione di presunte violenze che sarebbero avvenute nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere a Caserta (qui il video).

«Nel carcere di San Gimignano fu tortura». Condannati dieci agenti penitenziari. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 Febbraio 2021. I fatti risalgono a ottobre 2018: un video testimonia le violenze su un detenuto durante un trasferimento coatto di cella. Il giudice ha riconosciuto la fattispecie autonoma del reato di tortura. Condannati per tortura i 10 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, compreso il risarcimento di 80 mila euro nei confronti della vittima. I fatti contestati risalgono all’ottobre 2018 quando un detenuto, secondo l’accusa, sarebbe stato gettato a terra e colpito con calci e pugni durante un trasferimento coatto di cella. I 10 agenti insieme ai loro legali, Manfredi Biotti e Stefano Cipriani, hanno scelto fin da subito la strada del rito abbreviato. Il Pm Valentina Magnini ha chiesto 3 anni di reclusione per 8 di loro, 2 anni per uno ed un anno e 10 mesi per l’altro. La condanna varia da 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi.  Si tratta di un troncone dell’indagine tradotta in centinaia di pagine e condotta dalla Procura di Siena sul presunto pestaggio di un detenuto e che aveva già portato, nel novembre del 2020, al rinvio a giudizio di altri 5 agenti accusati anch’essi di tortura dopo l’introduzione del reato per pubblici ufficiali dal 2017. I 5 agenti, a differenza dei 10 colleghi, faranno un processo ordinario e la prima udienza è fissata per il 18 maggio a Siena. Si tratta di un ispettore superiore, due ispettori capo, due assistenti capo coordinatori all’epoca dei fatti contestati in servizio nell’istituto penitenziario di Ranza. La sentenza di condanna individua la fattispecie autonoma di reato. Il giudice ci ha tenuto a sottolinearlo. Non è un dettaglio di poco conto. La legge sul reato di tortura, secondo alcuni, potrebbe indurre a proporne la diversa lettura della norma in termini di fattispecie autonoma di reato. In estrema sintesi, la tortura da parte di pubblici ufficiali è inserita al secondo comma e c’è il rischio che venga considerata come una fattispecie aggravata, invece che come reato autonomo. Fortunatamente questo non è accaduto. Nell’udienza precedente sono stati visti ampi spezzoni del video che riprese la scena incriminata. L’avvocato Michele Passione, parte civile che ha rappresentato il Garante nazionale delle persone private della libertà, ha detto fin da subito che il video è apparso sufficiente per ricostruire quanto è accaduto. «Si sono mossi a falange – ha spiegato l’avvocato Passione – si vede che viene tirato un pugno, buttato giù. Gli sferrano calci». Il Garante nazionale ha chiesto il risarcimento simbolico di un euro. Secondo l’avvocato Passione non era importante né il risarcimento, né tantomeno gli anni di pena. L’importante, per la parte civile del Garante, è che si sia affermato il principio del contrasto all’impunità evidenziando una fattispecie di reato ben specifica. Lo scopo del Garante Nazionale, d’altronde, è stato quello di sempre: partecipare in qualità di persona offesa ai procedimenti riguardanti presunti episodi di maltrattamento. Tale ruolo ha consentito al Garante nazionale di seguire l’indagine e di contribuire a fare chiarezza su quanto avviene negli Istituti di pena e a contrastare l’impunità. Come parte civile c’è anche l’associazione Altro Diritto che si è presentata anche come garante locale dei detenuti del carcere di San Gimignano. Fin da subito, ha seguito questa vicenda accanto sia alla vittima che ai detenuti testimoni del pestaggio (sollecitando al dap il trasferimento dei detenuti coinvolti e seguendoli anche una volta trasferiti in altri istituti) e a quei medici che hanno deciso di compiere il proprio dovere refertando le lesioni subite dalla vittima, subendone purtroppo le conseguenze. «Esprimiamo soddisfazione per questa sentenza non tanto per le condanne inflitte in sé, auspichiamo infatti che questo possa essere un primo passo verso la fine delle torture e degli abusi nelle carceri e in tutti i luoghi di reclusione», afferma l’associazione Yairaiha Onlus che ha segnalato per la prima volta i presunti pestaggi grazie a una lettera di denuncia da parte dei detenuti, testimoni dell’accaduto. Lettera che Il Dubbio pubblicò in esclusiva e con successivi approfondimenti.

(ANSA il 28 giugno 2021) - "Li abbattiamo come vitelli"; "domate il bestiame" prima dell'inizio della perquisizione e, dopo, quando la perquisizione era stata completata, "quattro ore di inferno per loro", "non si è salvato nessuno", "il sistema Poggioreale", forse in riferimento a una metodologia di contenimento: è quanto hanno letto gli inquirenti della Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e i carabinieri nelle chat presenti sui cellulari degli agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti nell'indagine sulle presunte violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), il 6 aprile 2020. Ad alcuni detenuti, definiti dagli agenti "barbudos", secondo quanto si evince sempre dalle chat, sono stati tagliati barba e capelli. Tra gli indagati, per falso, figurano anche due medici dell'Asl che avrebbero redatto certificati medici per favorire alcuni agenti coinvolti nelle indagini: i sanitari sono accusati di avere attestato falsamente che i poliziotti avevano riportato delle lesioni durante i disordini. Lesioni che c'erano, ma che, per gli inquirenti, erano frutto della veemenza con la quale erano stati sferrati i colpi ai carcerati. Per lo stesso reato, falso, sono indagati anche 13 agenti. Tra i documenti ritenuti attestanti il falso, da parte della Procura, ci sono anche i verbali delle perquisizioni eseguite quel giorno (6 aprile 2020) a firma del provveditore per le carceri della Campania: documenti nei quali si affermava, falsamente per i pm, che erano stati sequestrati ai carcerati oggetti atti ad offendere le forze dell'ordine.

(ANSA il 28 giugno 2021) - Detenuti costretti a passare in un corridoio di agenti, con caschi e manganelli, fatti inginocchiare e colpiti di spalle per tutelare l'anonimato dei picchiatori: è quanto emerge dall'indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) che oggi ha consentito di notificare 52 misure cautelare ad agenti e dirigenti della Polizia Penitenziaria e funzionari del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Nell'ordinanza il gip definisce l'episodio una "orribile mattanza" ai danni dei carcerati: alcuni sono stati denudati e 15 anche portati in isolamento con modalità de tutto irregolari e senza alcuna legittimazione. Tra i detenuti in isolamento, uno perse la vita, il 4 maggio, quasi un mese dopo la perquisizione, per l'assunzione di un mix di oppiacei. In relazione a questa morte, è stato spiegato in una conferenza stampa, ritenendo quel gesto conseguenza delle torture, la Procura ha contestato il reato di morte come conseguenza di un altro reato (la tortura, appunto). Una impostazione non condivisa dal gip che invece ha ritenuto di classificare l'evento come suicidio. L'ufficio inquirente guidato da Maria Antonietta Troncone (le indagini dei carabinieri di Caserta sono state coordinate del procuratore aggiunto Alessandro Milita e dai sostituti procuratori Daniela Pannone e Alessandra Pinto) aveva chiesto misure cautelari per 99 indagati ma il Giudice, malgrado abbia riconosciuto la gravità indiziaria per 62 soggetti, ha ritenuto opportuno emettere 52 misure cautelari sulla base della sussistenza della pericolo di reiterazione del reato (sono quasi tutti in servizio). Nell'inchiesta, complessivamente, sono oltre 110 le persone indagate. Gli arresti riguardano quasi esclusivamente agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere: quella sera intervennero ben 283 poliziotti, un centinaio provenienti da Napoli Secondigliano, altri da un carcere dell'Avellinese. Di quelli provenienti da strutture penitenziarie diverse da quella casertana solo pochi sono stati riconosciuti dai detenuti (appena due, e sono di Secondigliano).

(ANSA il 28 giugno 2021) - "Dare un segnale forte", "un segnale minimo per riprendersi l'istituto": è accusato di falso e depistaggio, il provveditore regionale delle carceri della Campania Antonio Fullone, al quale oggi è stata notificata una misura cautelare di sospensione dall'esercizio del pubblico ufficio nell'ambito dell'indagine sulle presunte violenze che si sarebbero verificate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), il 6 aprile 2020. La circostanza emerge dall'analisi delle chat acquisite dai cellulari degli indagati. Proprio da questi messaggi emerge la volontà del provveditore di dare una connotazione particolare alle perquisizioni. Per gli inquirenti, infatti, il reale scopo delle perquisizioni, che vennero disposte dopo una protesta, era dimostrativo e preventivo. Una sorta di segnale per la Polizia Penitenziaria che nei giorni precedenti aveva chiesto una risposta ai disordini avvenuti nel reparto Nilo.

Arrestati i poliziotti accusati dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il Dubbio il 28 giugno 2021. I carabinieri di Caserta stanno eseguendo misure cautelari emesse dal gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di appartenenti al corpo di Polizia Penitenziaria. Avrebbero eseguito pestaggi nei confronti dei detenuti che protestavano per l'interruzione dei colloqui. I carabinieri di Caserta stanno eseguendo misure cautelari emesse dal gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di appartenenti al corpo di Polizia Penitenziaria. L’indagine è quella relativa ai pestaggi accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, dopo le proteste violente dei detenuti per la cessazione dei colloqui con i parenti a causa della pandemia. Nei mesi passati il Dubbio aveva riportato le testimonianze di quei pestaggi. «Noi del reparto Nilo, appena giunta la notizia di un contagio da Covid-19 avvenuto nel reparto Tamigi attiguo al nostro, abbiamo fatto delle battiture per chiedere i tamponi e pretendere le distanze sociali visto che siamo in quattro dentro una cella», spiega l’uomo. «Avevamo messo un lenzuolo al cancello, che poi avevamo tolto perché gli operatori penitenziari ci dissero che avrebbero fatto a tutti i tamponi», prosegue il detenuto nel racconto, sottolineando che la protesta pacifica è quindi rientrata. «Ma il giorno dopo sono giunti qualche centinaia di agenti antisommossa con caschi blu e mascherine e hanno invaso tutte le sezioni del nostro reparto», prosegue nel racconto. «A quel punto ci hanno massacrato di botte, urlandoci “Non ci guardate in faccia” e via giù di calci e schiaffi, e dietro le spalle ci colpivano con in manganelli».

Santa Maria Capua Vetere, “macelleria sammaritana” tra violenze e depistaggi. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 giugno 2021. Sono 52 le misure cautelari, emesse dal gip su richiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Interdetto il provveditore regionale. Non solo i video, ma anche le chat proverebbero il pestaggio del 6 aprile del 2020. Al carcere di Santa Maria Capua Vetere gli agenti penitenziari avevano formato “un corridoio umano” al cui interno erano costretti a transitare i detenuti, ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello.

Accerchiati e colpiti quando erano al suolo. In alcuni casi, poi, le plurime percosse inflitte ai detenuti si sono trasformate in prolungati pestaggi, durante i quali i detenuti sono stati accerchiati e colpiti da un numero esorbitante di agenti, anche quando si trovavano inermi al suolo.

Per il Gip si è trattato di «un’orribile mattanza». Non solo i video, ma anche le chat comproverebbero l’avvenuto pestaggio al carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile del 2020. Cinquantadue misure cautelari, otto arresti e 18 a domiciliari. Nell’ordinanza di oltre 2000 pagine vengono contemplate misure cautelari per reati gravissimi nei confronti degli agenti penitenziari e funzionari senza precedenti nella storia delle carceri del nostro Paese, nemmeno durante gli anni di piombo. «Una orribile mattanza», sintetizza il Gip che ha emesso l’ordinanza. Alcuni degli agenti penitenziari raggiunti da una custodia cautelare in carcere, secondo quanto emerge dalle indagini, stavano provando a depistare le indagini sui presunti pestaggi avvenuti al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere.

Otto gli agenti tratti in arresto e 18 ai domiciliari. Delitti di concorso in molteplici torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico (anche per induzione) aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Questi sono i reati contestati che hanno giustificato l’emissione di 52 misure cautelari nei confronti degli appartenenti al corpo della polizia penitenziaria coinvolti nella presunta mattanza avvenuta ne confronti dei detenuti allocati nel “reparto Nilo” del carcere campano.Otto sono gli agenti tratti in arresto e 18 ai domiciliari, tra cui il comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti del Centro penitenziario di Napoli Secondigliano e il comandante dirigente della Polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere.

23 misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio. Sono 3 le misure cautelari coercitive dell’obbligo di dimora nei riguardi di tre ispettori della polizia penitenziaria. Mentre sono 23 le misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio rispettivamente rivestito, per un periodo diversificato che va tra i 5 ai 9 mesi.

Interdetto anche il Provveditore regionale Antonio Fullone. Tra quest’ultimi c’è anche Antonio Fullone, il Provveditore delle carceri della Campania. Le indagini sono originate dagli eventi del 6 aprile 2020, che sono successivi alle manifestazioni di protesta di alcuni detenuti ristretti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere avvenute il 9 marzo ed il 5 aprile dello stesso anno. In particolare il 9 marzo, un gruppo di 160 detenuti del reparto “Tevere” (diverso da quello ove poi si consumeranno le violenze) dopo aver fruito dell’orario di passeggio, rifiutava di entrare nel reparto, protestando per la restrizione dei colloqui personali imposta dalle misure di contenimento del contagio da Covid.

Organizzata una perquisizione straordinaria dopo la protesta del 5 aprile. Il 5 aprile seguiva una ulteriore protesta, operata da un numero imprecisato di detenuti del reparto “Nilo” e attuata mediante barricamento delle persone ristrette, motivata dalle preoccupazioni insorte alla notizia del pericolo di contagio conseguente alla positività di un detenuto al Covid. La protesta rientrava nella tarda serata, anche mediante l’opera di mediazione e persuasione attuata dal personale di polizia penitenziaria del carcere e del magistrato di sorveglianza. All’esito della seconda protesta, nella giornata del 6 aprile, veniva organizzata una perquisizione straordinaria, generalizzata, nei confronti della quasi totalità dei detenuti ristretti nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Durante la perquisizione si sarebbero verificate le violenze. Ed è lì che si sarebbe verificata una vera e propria macelleria messicana. «L’estrema brutalità della aggressioni subite, il tipo di umiliazioni loro imposte dagli agenti di polizia penitenziaria, le reazioni emotive manifestatesi nel corso della perquisizione stessa (molti detenuti a seguito delle percosse hanno cominciato a piangere ed uno di essi è addirittura svenuto) erano peraltro tutti elementi che rendevano chiara la sussistenza di un misurabile trauma psichico delle vittime», questa la descrizione fatta dalla procura. Una brutalità avvenuta in maniera pianificata e accurata, tanto da impedire alle vittime di far conoscere i propri aggressori: i detenuti erano infatti costretti a camminare a testa bassa e nella sala di socialità erano posti con la faccia al muro.

Tante le segnalazioni dei familiari dopo la presunta mattanza. All’indomani della presunta mattanza, diverse sono state le segnalazioni dei famigliari dei detenuti che hanno subito l’irruzione di un gruppo di quasi 300 agenti penitenziari. Molti di loro sono del personale esterno, ovvero del “Gruppo di Supporto agli interventi”, istituto alle dipendenze del Provveditore regionale Antonio Frullone. Il garante regionale della Campania Samuele Ciambriello – attraverso le testimonianze raccolte dall’associazione Antigone e la lista dei nominativi dei detenuti pronti a testimoniare -, aveva inviato una richiesta al capo della Procura sammaritana, Maria Antonietta Troncone.

Il Dubbio aveva pubblicato la testimonianza e le foto delle ferite di un detenuto picchiato. Il garante regionale aveva chiesto di accertare se fossero attendibili i racconti che emergevano dalle telefonate e se fossero stati commessi episodi penalmente rilevanti da parte di alcuni agenti penitenziari. Si era attivato anche Pietro Ioia, garante dei detenuti del comune di Napoli, rendendo pubbliche le foto del detenuto (testimonianza riportata da Il Dubbio il 13 aprile 2020) che era uscito dal carcere. Foto che presentavano ecchimosi per tutto il corpo e che anche il nostro giornale ha pubblicato. Sentito da Il Dubbio, il garante Pietro Ioia così commenta i fatti odierni: «Quando successero questi episodi di violenza, a me mandarono una foto con un fondoschiena che era stato colpito da uno stivale. Da Garante subito la pubblicai, perché fatti del genere non devono accadere. Noi garanti non vogliamo buttare benzina sul fuoco, ma solo acqua perché non vogliamo mai più che ci siano le violenze nelle carceri di tutta Italia».

Il garante campano Ciambriello: «Non si tratta di nuocere il corpo di polizia penitenziaria». Interviene anche il garante regionale Samuele Ciambriello: «Qui non si tratta di nuocere il corpo di polizia penitenziaria. Le mele marce, però, vanno individuate e messe in condizione di non screditare più il corpo cui appartengono e di non alimentare tensioni nelle carceri. Va fatta giustizia senza se e senza ma. Più volte ho manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dagli agenti di polizia penitenziaria e non ritengo che siano venuti meno gli elementi su cui ho fondato il mio giudizio», e aggiunge: «In qualità di Garante delle persone ristrette della Campania, allo stato, mi sento di invitare l’opinione pubblica a non cedere alla tentazione di imbastire “processi sommari” prima che i fatti realmente accaduti vengano effettivamente accertati». Gennarino De Fazio, il segretario Generale della Uilpa, così commenta la notizia: «Se le proporzioni fossero davvero quelle che sembrano emergere, quanto accaduto confermerebbe che il sistema complessivo non funziona, che l’esecuzione carceraria va reingegnerizzata e che l’Amministrazione penitenziaria va rifondata». Il ministero della Giustizia ha fatto sapere di seguire con preoccupazione gli sviluppi dell’inchiesta. «La ministra Marta Cartabia, e i vertici del Dap – sottolinea una nota di via Arenula – rinnovano la fiducia nel corpo della Polizia Penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati».

52 poliziotti penitenziari indagati, c'è l'accusa di tortura. “Li abbattiamo come vitelli”, le chat degli agenti prima della "orribile mattanza" in carcere coperta da false accuse. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 28 Giugno 2021. “Li abbattiamo come vitelli, dovrebbero crollare tutte le carceri italiane con loro dentro”. Sono solo alcuni dei messaggi che si scambiavano nelle chat i poliziotti penitenziari che hanno partecipato a quella che il gip ha definito “una orribile mattanza”, avvenuta il 6 aprile 2020 all’interno del reparto Nilo del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, con i detenuti costretti a inginocchiarsi e sfilare in un “corridoio umano” formato da agenti armati (manganelli e bastoni) in assetto antisommossa, con il volto coperto da casco e mascherina. Manganellate, calci, schiaffi e pugni, tutto rigorosamente alle spalle delle povere vittime, così da non essere riconosciuti. Sono 52 gli agenti destinatari dell’ordinanza eseguita dai carabinieri del Comando Provinciale di Caserta e della Compagnia di Santa Maria Capua Vetere al termine delle indagini coordinate dalla procura sammaritana, guidata da Maria Antonietta Troncone, e condotte dal procuratore aggiunto Alessandro Milita. Gravissime le accuse nei confronti dei poliziotti: i pubblici ufficiali sono infatti gravemente indiziati dei delitti di concorso in molteplici torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico (anche per induzione) aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio.

Le chat dell’orrore. “Domani chiave e piccone in mano, li abbattiamo con i vitelli. Domate il bestiame”. Si divertivano così gli agenti penitenziari alla vigilia del blitz in carcere il giorno dopo la rivolta del 5 aprile, quando dopo la positività di un detenuto che si trovava in un altro reparto, almeno 150 colleghi del reparto Nilo (che ospita 372 persone e otto sezioni), mettevano in atto barricate con tavoli, sedie e brande e taniche di olio bollente e fornelli a gas a portata di mano. Il giorno dopo la rivolta, 6 aprile, la ‘bonifica‘ della polizia penitenziaria è durata 4 ore (dalle 15 alle 19) e ha visto all’opera ben 283 agenti che hanno “perquisito” circa 292 persone recluse nel reparto Nilo. Successivamente i poliziotti, raggianti, così commentavano l’azione di violenza appena conclusa: “Non si è salvato nessuno, abbiamo vinto, abbiamo ristabilito un po’ l’ordine e la disciplina”, ma anche “carcerati di merda, munnezza, dovrebbero crollare tutte le carceri italiane con loro dentro”. Nei giorni successivi, in seguito alle prime denunce sia di detenuti successivamente scarcerati che dei familiari degli stessi, la procura ha avviato una inchiesta e sono state acquisite, il 10 aprile, le immagini dell’impianto di videosorveglianza presenti all’interno della struttura penitenziaria che hanno cristallizzato di fatto le violenze commesse dagli agenti. Così i poliziotti coinvolti passano dalla gioia per aver sedato la rivolta domando i detenuti come “il bestiame” alla preoccupazione: “La vedo nera”, scriveva qualcuno, mentre altri aggiungevano “questa cosa del Nilo travolgerà tutti”, a dimostrazione, secondo la Procura, della consapevolezza delle conseguenze di quanto messo in atto nel Reparto Nilo. Nell’ordinanza il gip definisce l’episodio una “orribile mattanza” ai danni dei carcerati, costretti a ‘sfilare’ inginocchiati in un corridoio con ai lati numerosi poliziotti in assetto antisommossa. Alcuni sono stati denudati e 15 anche portati in isolamento con modalità de tutto irregolari e senza alcuna legittimazione. La finta perquisizione si è trasformata – sottolinea la procura sammaritana – in condotte violente, degradanti ed inumane, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse. Alcuni detenuti che, nei giorni successivi alle violenze subite, non avevano ricevuto biancheria da bagno, dotazione da bagno (carta igienica), biancheria da letto, lenzuola e cuscini. Inoltre nonostante le ecchimosi e contusioni evidenti, non sono stati visitati dai medici e, per evitare denunce ai familiari, era stato vietato loro ogni tipo di colloquio telefonico con i propri cari. Le violenze – secondo quanto emerso nelle indagini – sono poi state coperte con false accuse di resistenza e lesioni ai danni di 14 detenuti. Accuse presentate da diversi ufficiali e agenti della Polizia penitenziaria che hanno redatto un’informativa di reato in relazione alle violenze avvenute nel carcere sammaritano il 6 aprile 2020. Nell’informativa si rappresentava la necessità, durante la “perquisizione straordinaria”, di aver dovuto operare “un contenimento attivo” delle persone denunciate, riferendo che “durante il contenimento attivo numerosi agenti avevano dovuto ricorrere alle cure dei sanitari”. Tutto falso, secondo quanto accertato dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Secondo gli investigatori – che hanno raccolto le testimonianze di oltre 70 detenuti – le lesioni riportate in referti medici non sono state procurate dai detenuti, ma sono risultate conseguenza delle violenze consumate dagli stessi agenti mediante pugni, schiaffi, calci e ginocchiate ai danni dei reclusi. Inoltre sono state costruite ad hoc fotografie (con data e orario alterato) rappresentative del ritrovamento nelle celle di un arsenale di strumenti atti ad offendere nonché di olio e liquidi bollenti, preparati all’interno di pentole e padelle, poste su fornelli per essere utilizzati ai danni degli agenti.

Detenuto morto dopo isolamento. Quasi un mese dopo la mattanza, il 4 maggio 2020, uno dei detenuti è deceduto. Come spiegato dalla procura, nel corso della conferenza stampa, si trattava di un prigioniero affetto da schizofrenia, spostato in isolamento, per gli inquirenti, senza una visita preventiva. Non avrebbe avuto i medicinali necessari e sarebbe morto dopo l’assunzione di un mix di oppiacei, sostanze procurate in circostanze ancora non chiarite. Secondo Maria Antonietta Troncone, a capo delle Procura sammaritana, ci sarebbe un collegamento fra le violenze e la morte dato che, ha spiegato, con quelle patologie non doveva essere ristretto in isolamento. Era uno dei 15 detenuti ritenuti fra i principali ‘facinorosi’ dopo la rivolta, spostati nel reparto di isolamento. Per il gip, però, si è trattato di un suicidio, con nessuna correlazione con i fatti oggetto di indagine. Ferma restando la presunzione di innocenza degli indagati fino ad una sentenza irrevocabile di condanna, sono finiti in carcere un ispettore coordinatore del Reparto Nilo e sette assistenti-agenti della polizia penitenziaria, tutti in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere; 18 i poliziotti gli arresti domiciliari (disposti nei confronti del comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti del Centro penitenziario di Napoli Secondigliano, del comandante dirigente della Polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, della commissaria capo responsabile del Reparto Nilo, di un sostituto commissario, di tre ispettori coordinatori di sorveglianza generale e 11 agenti di polizia penitenziaria). Eseguite inoltre 3 misure cautelari dell’obbligo di dimora nel comune di residenza nei riguardi di tre ispettori di polizia penitenziaria e 23 misure della sospensione dell’esercizio del pubblico ufficio nei confronti della comandante del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, del nucleo regionale di Napoli, del provveditore regionale per la Campania e per 21 agenti della polizia penitenziaria, quasi tutti in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Tra i destinatari il comandante dirigente della Polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere (arresti domiciliari), 4 coordinatori Sorveglianza generale (arresti domiciliari), un ispettore coordinatore del Reparto Nilo (custodia in carcere) e il comandante del Nucleo operativo Traduzioni e piantonamenti del Centro penitenziario di Napoli Secondigliano, comandante del “Gruppo di supporto agli interventi” creato alle dipendenze del provveditore regionale per la Campania (arresti domiciliari). Nell’inchiesta è coinvolto anche il provveditore regionale delle carceri della Campania Antonio Fullone, al quale oggi è stata notificata una misura cautelare di sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio nell’ambito dell’indagine sulle presunte violenze che si sarebbero verificate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fullone è accusato di falso e depistaggio. Sempre dalle chat acquisite dai cellulari degli indagati, emerge che il provveditore voleva dare “un segnale forte per riprendersi l’istituto” dopo la rivolta del giorno prima e per farlo avrebbe utilizzato, così come gli agenti penitenziari, alcuni spezzoni dei video della rivolta del giorno precedente, eliminando audio e data per giustificare le violenze avvenute il 6 aprile. “In relazione ai gravi fatti di Santa Maria Capua Vetere, oltre alle denunce dei detenuti riguardanti casi di violenza e maltrattamenti, oltre la denuncia che ho presentato personalmente alla Procura competente, faccio presente dell’esistenza di video provenienti dalle telecamere a circuito chiuso che hanno offerto prove concrete di quanto accaduto e le chat tra agenti. Qui non si tratta di nuocere il corpo di polizia penitenziaria. Le mele marce, però, vanno individuate e messe in condizione di non screditare più il corpo cui appartengono e di non alimentare tensioni nelle carceri. Va fatta giustizia senza ma e senza se. Più volte ho manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dagli agenti di polizia penitenziaria e non ritengo che siano venuti meno gli elementi su cui ho fondato il mio giudizio”. Lo dichiara Samuele Ciambriello, garante campano dei diritti delle persone private dalla libertà personale, commentando l’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere culminata nell’esecuzione di 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria. Ciambriello, ricordando che “i casi di giudizio per dichiarare un uomo davvero colpevole sono ben tre”, esprime “tutta la mia solidarietà alla Magistratura: è arrivata in tempi brevi a fare luce sugli episodi effettivamente accaduti in quella giornata del 6 aprile 2020.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista. 

Il Sappe contro gli arresti dei poliziotti: “Provvedimenti abnormi”. Il Dubbio il 29 giugno 2021. Esprime ''sorpresa ed amarezza'' il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) dopo la notizia che i carabinieri di Caserta stanno eseguendo 52 misure cautelari emesse dal gip su richiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di appartenenti al corpo della polizia penitenziaria coinvolti negli scontri con i detenuti che avvennero il 6 aprile 2020, in pieno lockdown, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Esprime ”sorpresa ed amarezza” il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) dopo la notizia che i carabinieri di Caserta stanno eseguendo 52 misure cautelari emesse dal gip su richiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di appartenenti al corpo della polizia penitenziaria coinvolti negli scontri con i detenuti che avvennero il 6 aprile 2020, in pieno lockdown, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. ”Prendiamo atto dell’iniziativa adottata dai magistrati – dichiara il segretario generale del Sappe Donato Capece – La presunzione di innocenza è uno dei capisaldi della nostra Carta costituzionale e quindi credo si debbano evitare illazioni e gogne mediatiche. A noi sembrano provvedimenti abnormi considerato che dopo un anno di indagini mancano i presupposti per tali provvedimenti, ossia l’inquinamento delle prove, la reiterazione del reato ed il pericolo di fuga. Confidiamo nella magistratura perché la polizia penitenziaria, a S. Maria Capua Vetere come in ogni altro carcere italiano, non ha nulla da nascondere”. “L’impegno del primo Sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una ‘casa di vetro’ – aggiunge Capece – cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci ‘chiaro’, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale – ma ancora sconosciuto – lavoro svolto quotidianamente – con professionalità, abnegazione e umanità – dalle donne e dagli uomini della polizia penitenziaria”. ”Siamo amareggiati perché in quei giorni il carcere fu messo a ferro e fuoco e furono momenti davvero drammatici ma siamo sereni perché confidiamo nell’operato della magistratura. La polizia penitenziaria – prosegue il leader del Sappe – è formata da persone che hanno valori radicati, un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti”. “Non solo – conclude – Ogni giorno giungono notizie di aggressioni a donne e uomini del Corpo in servizio negli Istituti penitenziari del Paese, sempre più contusi, feriti, umiliati e vittime di violenze da parte di una parte di popolazione detenuta che non ha alcuna remora a scagliarsi contro chi in carcere rappresenta lo Stato”.

Dalla parte dei carnefici…

Emessi 52 provvedimenti di misura cautelare. Agenti arrestati dopo torture ai detenuti, Salvini con i poliziotti: “Così è il caos, ci vuole più rispetto”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 28 Giugno 2021. “Giovedì sarò personalmente a Santa Maria Capua Vetere per portare la solidarietà, mia, della Lega e di milioni di italiani, a donne e uomini della Polizia Penitenziaria”. Matteo Salvini sta dalla parte dei poliziotti in merito alla vicenda che questa mattina all’alba ha visto la notifica di 52 provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di altrettanti membri del Corpo di Polizia Penitenziaria per i reati di tortura, violenza privata e abuso di autorità. “Donne e uomini in divisa – ha proseguito Salvini – che, fra mille difficoltà, carenze di organico e dotazioni, fanno un lavoro difficile e insostituibile. Da oggi purtroppo si rischia il caos in tutte le carceri italiane”. E ancora: “Si è innocenti fino a prova contraria, però a me piacerebbe che ci fosse più rispetto per il lavoro delle forze dell’ordine”. I fatti risalgono allo scorso 5 aprile quando nel carcere casertano esplose la protesta di oltre 150 detenuti dopo la notizia che uno di loro era risultato positivo al coronavirus. Protesta domata a notte fonda dall’intervento della polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine. Nei giorni successivi sono state diverse le denunce dei familiari dei detenuti sulle violenze commesse dagli agenti. “Li sono andati a picchiare cella per cella” ha raccontato una donna. Uno di loro, scarcerato dopo qualche giorno, mostrò le foto delle presunte violenze presenti sul suo corpo. Tra le altre, una misura interdittiva emessa dal gip di Santa Maria Capua Vetere è stata notificata al provveditore delle carceri della Campania Antonio Fullone. Disposti gli arresti domiciliari per Gaetano Manganelli, ex comandante dell’istituto penitenziario casertano, adesso nel carcere di Napoli-Secondigliano, e per Pasquale Colucci, comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti.

Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.

Matteo Salvini a Santa Maria Capua Vetere, lo scontro con la giornalista: "Questo lo dice lei e si deve vergognare". Libero Quotidiano l'1 luglio 2021. "Chi sbaglia paga e in tribunale come in carcere va punito, ma non si può dare del macellaio all’intero corpo della polizia penitenziaria”. A proposito dei fatti di Santa Maria Capua Vetere lo dice, intervistato dal Tg1, il leader della Lega Matteo Salvini che poi, parlando dei referendum sulla riforma della giustizia promossi da Lega e Radicali ha detto: “Sono un aiuto al governo. Da 30 anni la politica non riesce a fare una riforma della giustizia, da domani con i referendum milioni di italiani in tutti i Comuni, con la loro firma, potranno aiutare il governo a riformare la giustizia”. Infine la battaglia del Carroccio sul fisco: “Meno tasse, meno tasse, meno tasse. La ricetta della Lega che, grazie al presidente Draghi sta prendendo forma, è il taglio dell’Irap, no alla patrimoniale, alla tassa di successione ipotizzata dal Pd e una burocrazia più veloce”. "È evidente che ci sono state delle violenze, è stato inaccettabile - ha spiegato direttamente dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove si è recato di persona -. Ma è stata una mattanza la rivolta che c'è stata in questo carcere, e in altre carceri con morti e feriti. Ricordo, senza giustificare nulla che nelle settimane precedenti a questi episodi inaccettabili ci furono morti, feriti, incendi e devastazioni nelle carceri di mezza Italia, altrettanto condannabili. Dall'inizio dell'anno si contano 500 aggressioni a donne e uomini della polizia penitenziaria". "Ma lei così sembra che stia giustificando le violenze dei poliziotti", chiede una giornalista. E Salvini sbotta: "Questo lo dice lei, e per il solo fatto di averlo detto dovrebbe vergognarsene".

Poi ammette: "Quando ho visto quel video sono rimasto sconvolto". Salvini non ci sta: “Mattanza in carcere? Anche quella dei detenuti contro gli agenti”. Redazione su Il Riformista l'1 Luglio 2021. “Se c’è qualche detenuto che è stato oggetto di violenza è inaccettabile perché il carcere deve essere un posto sicuro sia per loro che per chi ci lavora”. Matteo Salvini utilizza il condizionale nonostante i video della mattanza diffusi da giorni su social e media. Per il leader della Lega “è stata una mattanza anche la rivolta dei detenuti contro i poliziotti in questo carcere e in altri istituti, con morti, feriti e incendi nelle settimane precedenti a questi episodi” anche se dimentica che a perdere la vita (come nel carcere di Modena) sono stati solo di detenuti. Nella sua vista solidale agli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), Salvini punta il dito sulle minacce ricevute “anche dai clan di camorra” dopo le torture andate in scena il 6 aprile 2020 che hanno portato nei giorni scorsi all’esecuzione di 52 misure cautelari nei confronti delle guardie carcerarie.  Poi davanti all’evidenza dei video e alle insistenti domande dei cronisti, ammette: “Quando ho visto quel video sono rimasto sconvolto. Lo Stato deve porgere le scuse ai detenuti e ai loro familiari. Violenze, abusi, minacce, insulti, discriminazioni non sono mai accettabili”. “Se c’è un 1% di forze dell’ordine che sbaglia va punito, inaccettabile se c’è stato qualche detenuto oggetto di violenza, le scuse alle famiglie sono sacrosante e dovute”, sottolinea Salvini che auspica “nuove assunzioni, nuove divise, dotazioni per quelle persone che domani mattina si alzano e fanno servizio a Milano, all’Ucciardone, a Santa Maria, dovendo pure fare gli psicologi”. “Ho ritenuto opportuno venire qui – ricorda Salvini – a ricordare che chi sbaglia paga anche e soprattutto se indossa una divisa, punto. Questo però non vuol dire infamare e mettere a rischio la vita di 40mila donne e uomini in divisa della penitenziaria che rendono questo paese più sicuro. La giustizia faccia il suo corso e se ci sono stati abusi e violenze con nomi e cognomi vanno puniti però non accetto le minacce di morte che stanno arrivando, gli insulti e gli attacchi anche da parte di clan della camorra. Ringrazio tutte le forze dell’ordine per il loro lavoro”. Salvini ricorda poi che ad aprile 2020 “il ministro Bonafede disse che era tutto regolare”. “La situazione è sfuggita di mano come a Bolzaneto”. Parole di Emilio Fattorello, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, raggiunto dai cronisti all’esterno del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove poco prima delle 18 è arrivato il segretario della Lega Matteo Salvini che ha annunciato la propria solidarietà ai 52 agenti destinatari di misure cautelari dopo la mattanza del 6 aprile 2020, quando quasi 300 poliziotti, così come emerso nei video diffusi nei giorni scorsi, hanno brutalmente pestato e torturato decine e decine di detenuti ristretti nel reparto Nilo. Fattorello si scaglia contro la “gogna mediatica senza contraddittorio” che “rischia di strumentalizzare e vanificare il lavoro di 40mila persone (agenti penitenziari, ndr) che ogni giorno salvano centinaia di detenuti dai cappi, dalle impiccagioni e da atti autolesionistici. Sono qui per reagire alla gogna mediatica perché la polizia penitenziaria non è quella che abbiamo visto nei video, da cui noi prendiamo le distanze. La situazione – ammette – tecnicamente è sfuggita di mano come a Bolzaneto (21 luglio 2001, la caserma delle torture del G8) e in quelle immagini vedo tutta la frustrazione del personale che subisce sempre, tutti i giorni. Perché è sfuggita di mano? Perché non poteva esistere che una operazione del genere si tramutasse in un pestaggio”.

Agenti sotto accusa, FdI: «Indagine sconcertante. Siamo solidali con la Polizia Penitenziaria». Sara Gentile lunedì 28 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. «Fratelli d’Italia ha piena fiducia nella Polizia Penitenziaria, negli agenti e nei funzionari del Dap intervenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per reprimere la gravissima rivolta organizzata dai detenuti durante il lockdown». Il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni esprime la sua solidarietà agli agenti finiti sott’accusa per i fatti avvenuti nel carcere casertano nell’aprile 2020. «A loro va la nostra solidarietà e vicinanza».

Agenti, Rampelli: «Sconcerto per l’indagine». In campo anche il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli di FdI . «Sconcerto per l’indagine della magistratura a carico di 52 agenti della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua a Vetere per i fatti dello scorso anno. È bene fare una sintesi per gli smemorati. In uno stato di crescente tensione a causa della pessima gestione del lockdown e della pandemia da parte del governo Conte, tutti gli istituti penitenziari d’Italia furono attraversati da violentissime ribellioni scoppiate tutte insieme. Violenze che causarono morti, feriti, devastazioni, incendi».

«Qualcuno ha la memoria corta». Rampelli ricorda che «l’allora ministro della Giustizia Bonafede non riuscì a gestire rivolte che per il loro sincronismo sembravano avere una precisa regia di destabilizzazione al fine di far uscire quanti più detenuti possibili. Cosa che accadde, con la fruizione di misure alternative ai domiciliari. Di queste misure riuscirono a godere anche detenuti condannati per mafia. Qualcuno ha la memoria corta. Gli agenti – puntualizza Rampelli – furono completamente abbandonati dalle istituzioni. La magistratura forse dovrebbe indagare su quello e non su agenti che compiono quotidianamente il loro dovere senza risorse umane sufficienti, senza dotazioni adeguate».

Salvini: «Al Paese non servono retate». Duro anche Matteo Salvini. «Chi sbaglia paga anche e soprattutto in divisa chi sbaglia paga perché ha il doppio della responsabilità. Ma fare retate neanche fossero boss della camorra di decine di donne e uomini delle forze dell’ordine non è quello di cui l’Italia ha bisogno in questo momento». Il leader della Lega puntualizza «Sono stati arrestati 52 donne e uomini delle forze dell’ordine che fanno uno dei mestieri più difficili del mondo. Gli agenti della Polizia Penitenziaria con accuse pesanti e infamanti. Io non condanno né assolvo nessuno prima del giudizio – aggiunge Salvini – che però dopo le rivolte nelle carceri vi siano state decine di detenuti che hanno sfasciato, ferito, aggredito, ucciso, assolti. E gli unici a essere perseguiti e addirittura arrestati stanotte con poliziotti che entravano in casa di altri poliziotti alle quattro del mattino svegliando i figli non ritengo sia un bel segnale per chi gestisce l’ordine pubblico in questo Paese».

Santa Maria Capua Vetere, il Garante contro la gogna per gli agenti indagati. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha stigmatizzato la pubblicazione delle foto di alcuni indagati per i presunti pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 giugno 2021. Un giornale, all’indomani degli arresti per i fatti dei presunti pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, ha pubblicato in prima pagina le foto degli agenti e funzionari della polizia penitenziaria raggiunti dalle misure cautelari. Una vera e propria gogna pubblica che il Garante nazionale delle persone private della libertà ha prontamente stigmatizzato. Il Garante, infatti, tramite un comunicato stampa, fa sapere di ritenere inaccettabile l’esposizione cui sono state sottoposte le persone sotto indagine per le presunte violenze nell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere, con la pubblicazione in prima pagina delle fotografie di decine di loro all’indomani della disposizione delle misure cautelari.

Il Garante: «C’è il rischio di esarcebare il clima negli Istituti». Una esibizione – prosegue il comunicato – che nulla aggiunge all’informazione sull’indagine in corso e che rischia di esacerbare il clima negli Istituti, alimentando tensioni e mettendo oltretutto a rischio di ritorsione coloro che operano quotidianamente in carcere. Il Garante nazionale, nel contempo spiega che segue con attenzione l’indagine sin dai suoi primi sviluppi, nella convinzione della necessità di perseguire chi offende con i propri comportamenti la divisa che indossa. Ed è certo che i media sapranno raccontare la vicenda, offrendo una informazione completa e rispettosa di tutti, anche di chi è oggetto di indagine da parte delle Procure. Come già riportato, il ministero della Giustizia ha fatto sapere che segue con “preoccupazione” gli sviluppi dell’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere, che ha portato a numerose misure cautelari. «La ministra Marta Cartabia, e i vertici del Dap – ha sottolineato la nota di via Arenula – rinnovano la fiducia nel corpo della Polizia Penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati».

L’equilibrio della ministra Cartabia. La guardasigilli ha mostrato equilibrio, da una parte rinnova la fiducia del corpo della polizia penitenziaria, dall’altra segue con preoccupazione gli sviluppi di questa inchiesta.

L’ex ministro Bonafede parlò all’epoca di «una doverosa azione di ripristino della legalità». Ma non è stato così con il ministro precedente Alfonso Bonafede. Ricordiamo che, in risposta all’interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi, disse testualmente: «Il giorno seguente, ovvero il 6 aprile 2020, è stata disposta l’esecuzione di una perquisizione straordinaria all’interno del reparto “Nilo”. Si è trattato di una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi». Ebbene sì, per l’allora ministro Bonafede quell’irruzione da parte degli agenti fu «una doverosa azione di ripristino della legalità». Forse avrebbe dovuto, come suo dovere, accertare i fatti. Magari qualche giorno dopo il 6 aprile 2020, quando Il Dubbio e qualche giornale locale, avevano riportato le testimonianze di chi avrebbe subito i pestaggi con tanto di foto. Non solo. C’erano anche i video che l’allora Dap poteva visionare subito, invece di attendere l’autorità giudiziaria.

L'inchiesta di Santa Maria Capua Vetere. Le carceri scoppiano, inutile spettacolarizzazione l’arresto dei poliziotti 14 mesi dopo la mattanza. Gennaro Migliore su Il Riformista il 29 Giugno 2021. “Nessuno tocchi Caino” non è una formula biblica ma è il fondamento costituzionale del nostro ordinamento penale. Chi è sottoposto alla privazione della libertà, a seguito di una condanna, è nelle mani dello Stato, che deve esercitare il suo potere secondo l’articolo 27 della Costituzione, che impedisce trattamenti inumani e degradanti. A seguito di una rivolta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel mese di aprile del 2020, il successivo intervento della Polizia Penitenziaria era stato oggetto di una denuncia per fatti gravissimi, dalle lesioni fino alla tortura, reato che fu introdotto nel 2017 e che io seguii come sottosegretario alla Giustizia. Proprio per questo, non intendo parlare delle contestazioni e del futuro processo cui saranno sottoposti 52 agenti della Polizia Penitenziaria per i presunti reati ascritti, poiché per quelli ci dovrà essere una verità giudiziaria da accertare in sede giurisdizionale. Qui vorrei sottolineare, invece, l’assoluta anomalia delle misure cautelari che hanno colpito gli indagati: si va dagli otto arresti in carcere fino a una ventina di detenzioni domiciliari, passando per obbligo di dimora nel comune di residenza e interdittiva dai pubblici uffici. Ma la Magistratura di Santa Maria Capua Vetere ha riscontrato, dopo quattordici mesi (!), un pericolo di fuga o un possibile inquinamento delle prove? O forse si è temuto che vi fosse il pericolo di reiterazione del reato? Stiamo parlando di quattordici mesi passati senza che vi fosse nessuna di queste circostanze, o mi sbaglio? Per non dire della misura interdittiva che ha colpito il Provveditore regionale Antonio Fullone che, al netto dell’accertamento di eventuali responsabilità, è conosciuto, fin dai tempi in cui dirigeva il carcere di Poggioreale, per il suo equilibrio e per la sua capacità di gestire le situazioni più complesse con misura e senso delle istituzioni. Ma allora perché ancora misure cautelari e non, invece, accelerare l’iter giudiziario? Del resto la stessa Procura aveva spettacolarizzato anche la consegna delle notifiche dei rinvii a giudizio facendolo fare all’esterno dell’Istituto, davanti ai colleghi e ai parenti dei detenuti. Un tratto dimostrativo/disciplinare che mal si addice all’equilibrio che dovrebbe caratterizzare l’azione giudiziaria. Intanto le carceri scoppiano di nuovo e questa vicenda non farà altro che gettare benzina sul fuoco. Dalla parte dei detenuti poiché, mentre aumentano i casi di autolesionismo e di condizioni insostenibili, mancano i provvedimenti per diminuire le presenze in carcere: dall’eseguire in maniera alternativa le pene residue sotto un anno o addirittura sei mesi, depenalizzare i reati bagatellari sanzionati con il carcere, rivedere l’eccesso di custodia cautelare preventiva e i detenuti in attesa di condanne definitive, che portano a migliaia i processi per ingiusta detenzione. Dalla parte della Polizia Penitenziaria, al cui corpo giustamente la ministra Cartabia ha rinnovato la fiducia, che lamenta carenza d’organico, mancanza di una riforma strutturale che adegui le strutture penitenziarie alle previsioni di legge e che, soprattutto, è vittima di numerosi casi di violenza da parte dei detenuti, soprattutto psichiatrici, che dovrebbero stare altrove e sottoposti a cure che gli istituti penitenziari non possono garantire. Insomma, il carcere di nuovo al centro dell’attenzione per un fatto grave ma non ancora centrale nelle politiche quotidiane. Eppure bisogna far presto, anzi prestissimo. Gennaro Migliore

Il caso Santa Maria Capua Vetere. Il carcere produce criminalità, dentro e fuori: aboliamolo! Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Giugno 2021. Gli agenti della polizia carceraria, come chiunque, hanno il diritto di difendersi e anche di essere considerati innocenti. Una retata con più di 50 misure cautelari, delle quali una decina in prigione, colpisce. È legittima? Era necessario alle indagini, quattordici mesi dopo il reato, sbattere in prigione gli indiziati? C’era rischio di fuga, di reiterazione, di inquinamento delle prove? Direi di no. Urge un referendum per riformare le norme sulla carcerazione preventiva. Finché non verrà riformata drasticamente, e cioè finché non ci si deciderà a ridurre al minimo la possibilità della magistratura di utilizzarla come strumento di indagine, continuerà questo costume dell’uso molto disinvolto della prigione da parte delle toghe. Per comodità di chi indaga. O addirittura come mezzo di pressione per far confessare o per ottenere delle delazioni. È giusto che sia così? Ma allora perché non prevedere delle forme, magari blande di tortura? La tortura, negli Stati di diritto, fu abolita alla fine del ‘700. Oggi però mi pare che la cultura giuridica predominante (qui da noi quella a 5 stelle) ritenga che la civiltà moderna sia stata travolta dal lassismo garantista, e che sia bene tornare indietro almeno di due secoli o due secoli e mezzo. Però, allora, è bene dirlo: ergastolo, patibolo, tortura. Tutto pur di dividere i cattivi dai buoni. Chi decide la linea di confine tra cattivi e buoni? I Pm e la voce del popolo: ovvio. Sulla voce del popolo c’è una famosa e bellissima poesia di Jacopone da Todi, fine duecento, che è costruita sulla ripetizione di una parola chiave: “Crucifige”. Jacopone si opponeva a quella incitazione, ma si sa, era un tipo troppo moderno, Jacopone, e forse anche subornato dalle Camere penali. Poi però bisogna dire subito un’altra cosa. Noi, evidentemente, non possiamo sapere se quei cinquanta poliziotti hanno picchiato o no selvaggiamente i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Però sappiamo con certezza che quei detenuti sono stati picchiati e torturati da un gruppo molto folto di guardie carcerarie. E questa è una cosa orrenda. È orrendo che dei maramaldi si accaniscano contro dei cittadini indifesi, per di più resi debolissimi dalla condizione di detenuti, è orrendo che il potere non sappia fare altro che utilizzare se stesso solo per affermarsi, per esprimere potenza, arroganza, punizione, umiliazione. È orrendo anche che le notizie su questo fetido episodio di aggressione e tortura non abbiano scosso neppure un po’ l’opinione pubblica e l’intellettualità, sempre pronta a indignarsi per la pensione di Formigoni. Si sa di questa aggressione in carcere da molti mesi. Noi la denunciammo per primi nei giorni immediatamente successivi ai fatti. Silenzio, finora. Ma la causa di tutto questo, qual è? Ogni persona onesta, nel fondo del suo cuore, lo sa, anche se magari non se la sente di ammetterlo. La causa è semplicissima. Si chiama prigione. La prigione è la più spaventosa, inumana e ingiusta delle istituzioni dello Stato. La sua utilità sta solo nel soddisfare, seppure in modo vago, il desiderio di vendetta dei giusti che ritengono se stessi superiori e perciò più meritevoli degli ingiusti. E per realizzare questo suo compito di acchetamento dell’opinione pubblica, e di sottomissione al rigore giudicante e autonobilitante degli opinionisti, questa istituzione infligge l’inferno in terra a decine di migliaia di esseri umani. Es-se-ri u-ma-ni. Come noi liberi. Esattamente come noi liberi. Qualunque cosa abbiano fatto, restano esseri umani. L’essere umano è quel che è, è la sua individualità, le sue emozioni, il suo sapere, la sua anima: non è quel che ha fatto. Le prigioni sono una delle più grandi perversioni di massa che resistono nell’epoca moderna. Il proseguimento della tortura, della peggior giustizia medioevale. Hanno una sola giustificazione: garantire la sicurezza. Non è così? Voi mi chiederete: ma se una persona ha appena ucciso qualcuno che faccio? Rispondo: arrestiamola. Con questo obiettivo: la sicurezza. Ma voi sapete quanti sono i detenuti pericolosi? Una volta un altissimo magistrato, che poi fu capo del Dap, mi disse: non più del 5 per cento. Su 50mila vuol dire duemila e cinquecento persone. Benissimo, adattiamo le attuali strutture carcerarie e realizziamo circa 25 istituti con 100 posti ciascuno. Saremo in grado di rendere molto più civili le condizioni di detenzione e potremmo utilizzare in assoluta serenità il personale carcerario, e controllarlo, e sapere sempre che cosa succede in quelle prigioni. E i magistrati potrebbero decidere con assoluta tranquillità chi non è più pericoloso e può essere liberato. Recentemente le giudici di sorveglianza di Milano hanno concesso la libertà provvisoria a un detenuto giudicando che – colpevole o innocente che fosse – sicuramente era largamente rieducato. E dunque che non aveva più senso tenerlo in cella, perché il senso della detenzione è la rieducazione, non la vendetta. Mi inchino, stavolta, davanti alla saggezza di queste giudici. Chissà se un giorno qualcuno capirà che hanno ragione. Chissà se in Parlamento si può trovare un partito che, magari timidamente, faccia alzare in piedi il suo capogruppo per dire: onorevoli, entriamo nella civiltà del diritto: aboliamo il carcere.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 29 giugno 2021. Come vent' anni fa a Bolzaneto e alla Diaz. Stavolta la macelleria messicana è il reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Detenuti comuni, rapinatori, piccoli spacciatori, ladri. Niente camorristi, niente colletti bianchi. Solo la bassa forza del popolo dei reclusi. Quelli senza peso e a volte anche senza avvocato di fiducia. Gli ultimi degli ultimi. Che il 6 aprile 2020 diventano i primi nemici di chi con addosso la divisa della polizia penitenziaria governa sezioni e reparti. La protesta del giorno prima per avere le mascherine è valutata come un segnale pericoloso, e così non solo si mobilita il personale interno del carcere, ma a Santa Maria arrivano anche i rinforzi del Gruppo di supporto agli interventi, una struttura che comprende agenti di vari istituti di pena e che dipende direttamente dal provveditore regionale del Dap. La perquisizione delle celle si rivelerà un pretesto per portare tutti i detenuti fuori, dove li aspetta un corridoio formato da agenti armati di manganelli e alcuni anche di scudi. I detenuti non hanno scampo, sono costretti a passarci in mezzo e per ognuno è una raffica di colpi in testa, al tronco, alle gambe. Nessuno si è premurato di spegnere le telecamere della videosorveglianza interna, evidentemente non c' è il timore che quello che sta per accadere possa poi essere denunciato all' esterno. Quelle scene, invece, finiranno per essere la colonna di cemento armato dell'inchiesta. E sono tutte descritte nell' ordinanza del gip. Il detenuto Gennaro Cocozza viene prelevato dalla sua cella da tre agenti: «Lo trascinavano lungo il corridoio della sezione, lo costringevano a posizionarsi con le braccia alzate appoggiate al muro, a denudarsi e a fare le flessioni». Poi «lo conducevano fino all' ingresso delle scale», dove «soggetti disposti su ambo i lati lo aggredivano con schiaffi al volto, pugni e calci, gli sputavano addosso e lo insultavano». E arrivato al piano di sotto, nel corridoio altri agenti «lo percuotevano alla testa con i manganelli, con ginocchiate, calci e pugni, provocando la fuoriuscita di sangue dal naso e dalla bocca». Al detenuto Antonio Flosco, costretto a spogliarsi alla presenza anche di tre poliziotte per essere perquisito, un agente urla: «Oggi appartieni a me». E quando lui, tornato in cella dopo il pestaggio, sviene e il suo compagno chiede un po' d' acqua per aiutarlo a riprendersi, lo stesso agente gliela rifiuta: «Beviti l'acqua del cesso». E poi c' è Marco Ranieri, al quale verrà diagnosticato un grave «disturbo da stress acuto derivante dalle condotte violente» subite. Lo buttano a terra e lo picchiano «con colpi alla testa, alla schiena, alle costole, al bacino e al volto, sferrati con il manganello e con una sedia di legno». E ancora «nei pressi del cancello d' ingresso del reparto Danubio (dove ci sono le celle di isolamento, ndr ) lo afferravano con forza, gli facevano sbattere più volte la testa contro il muro e gli sferravano, con il manganello, un violento colpo al volto causandogli la rottura di un dente e la perdita dei sensi». Dopo lo scempio c'è pure l'autoesaltazione. Sugli smartphone sequestrati agli agenti ci sono ancora le chat con le quali commentano quello che è successo in carcere. Ma si scopre anche che già il giorno prima di intervenire c'era uno scambio di messaggi dal quale emerge che tutto era programmato: «Allora apposto, domani chiave e piccone in mano», scrive uno. E il collega gli risponde: «Li abbattiamo come vitelli». L' indomani fanno il conto dei detenuti picchiati: «Ci siamo rifatti. 350 passati e ripassati». Tra loro i poliziotti citano il «sistema Poggioreale», espressione che per gli inquirenti appartiene al gergo degli operatori carcerari e fa riferimento al pestaggio dei detenuti. In un'altra chat qualcuno che non ha partecipato scrive: «Oggi si sono divertiti al Nilo». Mentre sicuramente ha avuto un ruolo diretto quello che si vanta: «Ho fatto tagliare la barba a tutti i barbutos». Ma poi cominciano le indagini. E gli agenti si preoccupano. «È stata gestita male e sta finendo peggio. Travolgerà tutti».

Violenza in carcere, spunta un video choc: detenuti picchiati con il manganello. Valentina Mericio il 30/06/2021 su Notizie.it.  Sono state diffuse le immagini delle violenze nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere. La vicenda risale ad aprile 2020. Detenuti picchiati a pugni e presi a calci o a schiaffi. Questo è ciò che viene ripreso dalle telecamere di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, le cui immagini sono state diffuse in esclusiva dal quotidiano “Domani”. Le violenze mostrate nel video risalgono a più di un anno fa ed esattamente ad aprile 2020 quando l’emergenza sanitaria era appena iniziata. Ed è proprio esattamente il 6 aprile 2020 che scoppia una rivolta in carcere, a seguito di un caso di positività al Covid-19 tra gli stessi detenuti. Stando a quanto appreso le proteste dei carcerati di dissolsero nella notte, ma le violenze da parte degli agenti di Polizia Penitenziaria si protrassero nel giorno dopo. 

Violenza in carcere video, la vicenda risale al 6 aprile 2020. La vicenda nella casa Circondariale di “Francesco Uccella” Santa Maria Capua Vetere è scoppiata quando è stato reso noto che uno dei detenuti è risultato positivo al covid. Il clima che si venne a creare durante quel periodo della prima ondata fu di caos specie quando si arrivò a parlare di interruzione dei colloqui con i familiari. La protesta coinvolse circa 150 detenuti che arrivarono a barricarsi in cella. Il giorno successivo alla conclusione della rivolta, 283 agenti di custodia hanno fatto il loro ingresso nel “reparto Nilo” con il pretesto di effettuare delle perquisizioni nei confronti di 292 detenuti. Le accuse rivolte verso gli agenti di polizia penitenziaria sarebbero lesioni e maltrattamenti aggravati, calunnia, falso, depistaggio e frode processuale. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha voluto dire la sua sulla vicenda, rinnovando la sua fiducia nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria: “Fratelli d’Italia ha piena fiducia nella Polizia penitenziaria, negli agenti e nei funzionari del Dap intervenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per reprimere la gravissima rivolta organizzata dai detenuti durante il lockdown. A loro va la nostra solidarietà e vicinanza”. Intanto il Sappe ovvero il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria – riporta rainews – ha presentato un esposto al Garante della Privacy e all’ordine dei giornalisti: “Non capisco e non comprendo perché le tanto invocate esigenze di garanzia, tutela e riservatezza che spesso vengono richiamate per coloro i quali, in un procedimento penale, assumono la veste di indagati non debba valere anche per il personale penitenziario e di Polizia coinvolto nelle presunte violenze nell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere”. 

Pestaggi in carcere, parla un ex detenuto: “Erano demoni, ci hanno rovinati per tutta la notte”. Debora Faravelli il 30/06/2021 su Notizie.it. Un ex detenuto ha confermato i pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e fornito alcuni dettagli sulle violenze subite. Dopo la notizia dei presunti pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per cui risultano indagati 52 agenti penitenziari, un ex detenuto nella stessa struttura all’epoca dei fatti ha fornito la sua versione su quanto accaduto il 5 aprile 2020 confermando le violenze. Raggiunto nella sua abitazione dai giornalisti di Fanpage.it, Vinenzo Carace ha spiegato di aver passato quasi 28 anni in carcere per droga, associazione e altri reati e di esserne uscito il 2 settembre per fine pena. L’uomo, in sedia a rotelle, ha spiegato che prima dei pestaggi oggetto dell’indagine della magistratura ha avuto luogo una piccola protesta da parte dei detenuti nata dall’interruzione dei colloqui con i familiari a causa dell’emergenza sanitaria. Il giorno successivo, stando a quanto ha raccontato, la Polizia penitenziaria avrebbe fatto uscire dalle rispettive celle i detenuti per dare vita a quella che è stata definita “un’orribile mattanza”. “Io sono sulla sedia a rotelle, mi sono abbassato perché non ce la facevo più, mi colpivano in faccia, in fronte, dietro alla schiena, mi sono abbassato e martellavano”, ha dichiarato. “Ci hanno rovinati, ci hanno portato sopra, salendo sopra ci hanno fatto il triplo”, ha continuato. Ha poi sottolineato di aver perso i denti a causa della violenza di un colpo e di avere avuto un problema all’occhio sinistro. “Tutta la notte si sono messi, lasciavano uno e prendevano un altro. A me ci hanno messo mezz’ora a lasciarmi”, ha spiegato. Poi una riflessione: è giusto che “noi malavitosi” paghiamo per gli sbagli commessi e scontiamo una pena, ma “non con la vita, perché non siamo dei numeri di matricola ma esseri umani”. Infine l’auspicio che gli agenti coinvolti nei pestaggi paghino per quanto commesso: “Per me non erano esseri umani, quelli erano demoni Dottorè, demoni e loro erano una sola cosa”.

La "perquisizione straordinaria". Mattanza in carcere, 283 agenti scatenati: botte persino a detenuto su sedia rotelle. Angela Stella su Il Riformista il 29 Giugno 2021. Torture pluriaggravate, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio: questi i reati dei quali a vario titolo dovranno rispondere i 52 destinatari dell’ordinanza emessa ieri dal gip di Santa Maria Capua Vetere nell’ambito dell’inchiesta della Procura sammaritana sulle violenze subìte da numerosi detenuti nel carcere campano ad aprile 2020. «Ferma restando la presunzione di innocenza degli indagati fino ad una sentenza irrevocabile di condanna», si legge in un comunicato della procura, sono state disposte: 8 misure cautelari in carcere, 18 agli arresti domiciliari, 3 con obbligo di firma, e 23 interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio, tra cui quella per il provveditore delle carceri della Campania. Le indagini, originate da un esposto del Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, riguardano gli eventi del 6 aprile dello scorso anno, successivi a delle manifestazioni di protesta del 9 marzo e del 5 aprile di alcuni reclusi sia per la limitazione dei colloqui sia per la paura del contagio da covid 19 conseguentemente alla positività di un detenuto. Seppur tutto fosse rientrato, il 6 aprile veniva organizzata «una perquisizione straordinaria, generalizzata, nei confronti della quasi totalità dei detenuti ristretti nel reparto Nilo» e condotta da circa 283 unità appartenenti al carcere e al ‘Gruppo di supporto agli interventi’, istituito alle dipendenze del Provveditore regionale per la Campania. «Nonostante un tentativo di ritardare o impedire l’acquisizione delle immagini» l’11 aprile l’impianto di videosorveglianza del carcere viene sequestrato e si scopre che quel giorno è avvenuto, come ha scritto il gip nell’ordinanza, «uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni di detenuti in uno dei più importanti penitenziari della Campania», «una orribile mattanza». La perquisizione, spiega la Procura, «risultava di fatto eseguita senza alcuna intenzione di ricercare strumenti atti all’offesa ovvero altri oggetti non detenibili, ma, per la quasi totalità dei casi, le immagini della videosorveglianza rendevano una realtà caratterizzata dalla consumazione massificata di condotte violente, degradanti ed inumane, contrarie alla dignità ed al pudore delle persone recluse». In particolare «emergeva che gli sfollagenti erano stati usati sistematicamente per percuotere un numero considerevole di detenuti» con violenza e in varie parti del corpo. Addirittura «il personale di Polizia penitenziaria aveva formato un ‘corridoio umano’ al cui interno erano costretti a transitare indistintamente tutti i detenuti dei singoli reparti, ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello». Inoltre «gli agenti costringevano i detenuti ad un prolungato inginocchiamento sotto i loro ripetuti colpi. In alcuni casi poi le plurime percosse inflitte ai detenuti si sono trasformate in prolungati pestaggi». Anche un detenuto sulla sedia a rotelle è stato preso a manganellate. I carcerieri così comunicavano in chat prima e dopo i terribili fatti: «Apposto domani chiave e piccone in mano, li abbattiamo come vitelli – Ok domate il bestiame – Spero che pigliano tante di quelle mazzate – Ke spettacolo – Aho ci siamo rifatti, 350 passati e ripassati». Dalle indagini è emerso anche che a tutti i detenuti del reparto Nilo «è stato impedito il ricorso alle cure mediche e terapie» ed inoltre, per occultare le violenze, «era stata illecitamente impedita ogni forma di comunicazione con l’esterno». Il quadro si completa con la redazione di false informative di reato nei confronti di 14 detenuti per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, una pluralità di condotte di falsificazione e depistaggio volte a simulare il rinvenimento di strumenti atti ad offendere, alterazioni di immagini e video. Numerose le reazioni. Il ministero della Giustizia ha fatto sapere di seguire con «preoccupazione gli sviluppi dell’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere, che ha portato a numerose misure cautelari. La ministra, Marta Cartabia, e i vertici del Dap rinnovano la fiducia nel corpo della polizia penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati». Per Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria, «se le proporzioni fossero davvero quelle che sembrano emergere, quanto accaduto confermerebbe che il sistema complessivo non funziona, che l’esecuzione carceraria va reingegnerizzata e che l’Amministrazione penitenziaria va rifondata». Matteo Salvini ha annunciato invece che giovedì sarà a Santa Maria Capua Vetere «per portare la solidarietà, mia, della Lega e di milioni di italiani, a donne e uomini della Polizia Penitenziaria». Stesso parere Giorgia Meloni: «Fratelli d’Italia ha piena fiducia nella Polizia Penitenziaria, negli agenti e nei funzionari del Dap intervenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per reprimere la gravissima rivolta organizzata dai detenuti durante il lockdown». Per il deputato Pd Walter Verini «è interesse del sistema carcerario e della stessa Polizia Penitenziaria che sia fatta piena luce». Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone: «Nei giorni immediatamente successivi, ricevemmo diverse lettere e telefonate da detenuti e famigliari dove si denunciava quello che, dal racconto, sembrò essere una vera e propria rappresaglia contro i detenuti che avevano partecipato alle proteste – ormai spente – nei giorni precedenti». Per Riccardo Polidoro, co-responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali «come sempre rispettiamo il principio d’innocenza. C’è da dire che il comunicato stampa della Procura è agghiacciante. Direi di far lavorare i Giudici con serenità». Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriere del Partito Radicale: «Non cadremo nell’errore di partecipare al gioco tra giustizialisti e garantisti, restiamo quelli del diritto e della giustizia. Dalla parte degli agenti e dei detenuti. Riconoscendo coloro che fanno il loro dovere dagli altri che lo tradiscono». Angela Stella 

La mattanza indegna per un paese civile. Il video delle torture in carcere, il corridoio dell’orrore: detenuti costretti a sfilare inginocchiati e pestati a sangue. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Giugno 2021. Quattro ore di inferno con 283 agenti, in assetto antisommossa e con il volto coperto da casco e mascherina, a picchiare ininterrottamente 292 detenuti del reparto Nilo del carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Quest’ultimi, lo scorso 6 aprile 2020, sono stati costretti a ‘sfilare‘ all’interno del corridoio umano creato da poliziotti penitenziari, ricevendo un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello. Colpi che i detenuti non potevano evitare a causa del numero impressionante di agenti presenti e degli spazi angusti sia del corridoio che dell’area socialità (qui, messi faccia al muro, venivano colpiti a turno e a sfizio dai poliziotti), dove è andata in scena l’orribile mattanza, così come l’ha definita il Gip del Tribunale sammaritano. E’ raccapricciante la ricostruzione degli investigatori (indagini effettuate dai carabinieri e coordinate dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere), cristallizzata dall’acquisizione dei filmati delle telecamere di videosorveglianza presenti all’interno del penitenziario. Immagini inconfutabili che dovrebbero invitare a riflettere anche chi (vedi il segretario della Lega Matteo Salvini che giovedì 1 luglio sarà all’esterno del carcere per portare solidarietà ai poliziotti) si schiera a prescindere a favore della polizia penitenziaria. Acquisizione dei video che gli agenti hanno tentato in tutti i modi di impedire o ritardare dopo l’esposto presentato l’8 aprile dal garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. Filmati che sono stati acquisiti da carabinieri e procura l’11 aprile 2020 e diffusi, in minima parte, nelle scorse ore dal giornalista Nello Trocchia per il quotidiano “Domani”. Un vero e proprio inferno quello vissuto il 6 aprile 2020 nel reparto Nilo del carcere casertano. Un’azione di forza della polizia penitenziaria, ribattezzata “perquisizione straordinaria”, a 24 ore di distanza dalla rivolta avvenuta sempre nello stesso reparto ad opera di circa 150 detenuti. Immagini vergognose quelle che emergono dai video. “Violenze, intimidazioni ed umiliazioni di indicibili gravità senz’altro indegne per un paese civile” ha sottolineato il Gip nell’ordinanza dove sono ben 52 le misure cautelari contro i poliziotti coinvolti. Massacro che alcuni di loro hanno provato a coprire acquisendo indebitamente 5 spezzoni delle video-registrazioni della rivolta del giorno precedente, alterandoli con l’eliminazione dell’audio e della data e dell’orario di creazione, in moto tale da provare a giustificare le violenze avvenute il giorno successivo. Altre false prove sono state costruite ad hoc fotografie (con data e orario alterato) rappresentative del ritrovamento nelle celle di un arsenale di strumenti atti ad offendere nonché di olio e liquidi bollenti, preparati all’interno di pentole e padelle, poste su fornelli per essere utilizzati ai danni degli agenti. Le violenze – secondo quanto emerso nelle indagini – sono state inoltre coperte con false accuse di resistenza e lesioni ai danni di 14 detenuti. Accuse presentate da diversi ufficiali e agenti della Polizia penitenziaria che hanno redatto un’informativa di reato in relazione alle violenze avvenute nel carcere sammaritano il 6 aprile 2020. Nell’informativa si rappresentava la necessità, durante la “perquisizione straordinaria”, di aver dovuto operare “un contenimento attivo” delle persone denunciate, riferendo che “durante il contenimento attivo numerosi agenti avevano dovuto ricorrere alle cure dei sanitari”. Tutto falso, secondo quanto accertato dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. Secondo gli investigatori – che hanno raccolto le testimonianze di oltre 70 detenuti – le lesioni riportate in referti medici non sono state procurate dai detenuti, ma sono risultate conseguenza delle violenze consumate dagli stessi agenti mediante pugni, schiaffi, calci e ginocchiate ai danni dei reclusi. Sulla vicenda è intervenuto il segretario generale del SAPPE (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) Donato Capece che, interpellato dall’Adnkronos, attacca lo sciacallaggio di media e magistrati. “Dal comunicato stampa che ha fatto la procura sembra di leggere una sentenza già scritta, noi aspettiamo la fase dibattimentale in aula e poi vediamo se ci sono o meno responsabilità. Il Paese deve stare al fianco dei suoi poliziotti perché siamo noi che tutti i giorni rischiamo la vita per garantire la sicurezza ai cittadini e salviamo la vita a tanti detenuti che tentano di togliersela. Questo nessuno lo tiene in considerazione”. Difficile, tuttavia, provare a giustificare le immagini diffuse nelle scorse ore. “Quando si fa ordine pubblico – spiega Capece – non si va con i fiori in mano, siamo andati a fare un’operazione e non a fare pestaggi o altro. Questo è lontano dalla nostra idea”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il racconto delle vittime del brutale pestaggio. Torture in carcere, l’orrore vissuto dai detenuti: “Dopo mattanza per tre giorni senza cibo né cure”. Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Giugno 2021. Calci, pugni, manganellate. L’inferno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, descritto nelle oltre 2mila pagine di ordinanza, durò ben oltre le quattro ore dei pestaggi denunciati dai detenuti del reparto Nilo e avvenuti fra la sala della socialità e i corridoi trasformati dalle squadrate di agenti nel teatro di una «orribile mattanza», per usare le parole del gip, «uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni dei detenuti in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania». Sei aprile 2020. «Dopo il pestaggio fui portato in una cella di isolamento. Lì c’era Lamine (detenuto che morirà suicida un mese dopo, ndr), era sul letto quasi morto, aveva un rigonfiamento dietro alla nuca, un livido sul viso e vari lividi sul corpo. Ha dormito quasi continuamente per tre o quattro giorni, non ha parlato. Io sono stato con Lamine per undici giorni. La stanza era solo per una persona, dopo che sono entrato hanno portato una branda. Quella sera non abbiamo avuto niente da mangiare. La tv è rimasta accesa tutta la notte perché non c’era il telecomando. Per tre giorni siamo rimasti chiusi lì, senza l’ora di passeggio e con il blindato chiuso. Solo quando è arrivato il magistrato di sorveglianza siamo stati assistititi». Il racconto di Alessandro Z. è tra le testimonianze dei detenuti ora agli atti dell’inchiesta. Bruno D. A. ha raccontato: «Siamo stati giorni con gli abiti sporchi di sangue, senza la possibilità di cambiare gli indumenti intimi, senza poterci lavare. Quella sera ci fu dato soltanto un antidolorifico». «Non avevamo coperte. Ho usato la federa del materasso». Cristian D. L. ha aggiunto: «Ci hanno lasciati senza indumenti, senza coperte e con il volume del televisore tenuto al massimo, ininterrottamente, anche di notte. E senza la possibilità di una telefonata ai familiari». Un inferno, a sentire i detenuti. Una sorta di agonia durata fino al 9 aprile quando ci fu la visita in carcere del magistrato di sorveglianza. «Solo dopo quella visita ci sono stati dati indumenti e coperte», ha precisato più di un detenuto. Fakhri M. è tra coloro che ha avuto la peggio: «Condotto da solo nella sala della socialità, accerchiato da diversi agenti, costretto a inginocchiarsi davanti a loro e a trascinarsi in ginocchio mentre veniva colpito con calci e pugni e preso a manganellate sulle nocche delle dita delle mani al fine di procurargli la massima sofferenza possibile», mani che teneva sulla testa come ultimo disperato tentativo di proteggere almeno una parte del corpo dall’aggressione. «La sera del 6 aprile non ci hanno dato nemmeno i farmaci. E per quattro giorni non ci è stata nemmeno data possibilità di cambiarci – ha ricordato il detenuto Vincenzo B., ripercorrendo i giorni in cella di isolamento assieme a un’altra vittima dei pestaggi – Siamo stati sopraffatti da un profondo stato di inquietudine tanto è vero che ci siamo alternati nel fare una sorta di turno di guardia». A dieci giorni dai fatti, quando il muro di silenzio ha cominciato a sgretolarsi e la notizia dei pestaggi aveva già messo in moto la Procura, i consulenti del pm visitarono i detenuti riscontrando su molti di loro, e ancora ben visibili, i segni delle percosse e dei traumi psicologici subiti. Per gli inquirenti, più che le parole dei detenuti sarebbero le immagini e i filmati a parlare, i video cioè estrapolati dalle telecamere di sorveglianza non senza difficoltà perché, se sarà confermata l’ipotesi di depistaggi e favoreggiamenti, ci sarebbero state manomissioni ad hoc per coprire gli autori della spedizione punitiva contro i detenuti del reparto Nilo. «Solo dopo l’arrivo del magistrato di sorveglianza abbiamo avuto le lenzuola, un cambio e i saponi per lavarci», ha raccontato più di un detenuto. E la circostanza sembra confermata dalla relazione dello stesso magistrato di sorveglianza che, dopo la visita in carcere del 9 aprile, quindi a tre giorni dal pestaggio, annotò di aver trovato alcuni detenuti con lesioni anche gravi, con abiti strappati e in celle con brande senza lenzuola e talvolta anche senza cuscino. «Qui non si tratta di nuocere il corpo di polizia penitenziaria ma di individuare le eventuali mele marce – ha commentato il garante regionale Samuele Ciambriello dal cui esposto ha preso il via l’inchiesta penale – Invito l’opinione pubblica a non cedere alla tentazione di imbastire processi sommari prima che i fatti realmente accaduti vengano accertati. Il carcere deve rimanere uno spazio civile che accomuna tutti: operatori penitenziari, detenuti, volontari e istituzione».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, 52 misure cautelari. Il gip: “Orribile mattanza”. Le Iene News il 29 giugno 2021. Il gip di Santa Maria Capua Vetere ha disposto le misure nei confronti di membri della polizia penitenziaria, coinvolti nel presunto pestaggio ai danni dei detenuti a seguito di una rivolta nel carcere. Lo riporta l'Ansa. Alcuni di loro risulterebbero indagati per concorso in tortura. I sindacati: "Provvedimenti sproporzionati". Noi de Le Iene avevamo raccolto il racconto di detenuti e familiari dei carcerati. I carabinieri di Caserta hanno eseguito 52 misure cautelari, disposte dal gip su richiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere in Campania, nei confronti di membri della polizia penitenziaria coinvolti negli scontri con i detenuti avvenuti il 6 aprile 2020, in pieno lockdown, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lo riporta l'Ansa. Noi de Le Iene avevamo raccolto il racconto di detenuti e familiari dei carcerati. Il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, all’epoca aveva negato ogni tipo di violenza. Una protesta innescata da centinaia di carcerati dopo la notizia di un caso di positività al Covid-19 tra le mura dell'istituto casertano, dove vennero inviati da Napoli contingenti dei reparti speciali della Penitenziaria. Nell'ambito dell'indagine sulle presunte violenze che sarebbero avvenute nel carcere il 6 aprile 2020, durante perquisizioni disposte dopo la rivolta, complessivamente, sono stati notificati 8 arresti in carcere, 18 arresti ai domiciliari, 3 obblighi di dimora e 23 interdizioni dall'esercizio del pubblico ufficio. I reati contestati, a vario titolo, sarebbero quelli di concorso in torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti (per 41 agenti), maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico (anche per induzione) aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Le perquisizioni riguardarono 292 detenuti nel Reparto Nilo dell'istituto penitenziario. Destano impressione le chat che sarebbero presenti sui cellulari degli agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti nell'indagine, a cui avrebbero avuto accesso gli inquirenti della procura: "Li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame" prima dell'inizio della perquisizione e, dopo, quando la perquisizione era stata completata, "quattro ore di inferno per loro", "non si è salvato nessuno”: queste sarebbero alcune delle frasi finite agli atti del procedimento. Secondo quanto avrebbero ricostruito gli inquirenti i detenuti sarebbero stati costretti a passare in un corridoio di agenti, con caschi e manganelli, fatti inginocchiare e colpiti di spalle per tutelare l'anonimato dei picchiatori. Nell'ordinanza il gip definisce l'episodio una "orribile mattanza" ai danni dei carcerati: alcuni sarebbero stati denudati e 15 anche portati in isolamento con modalità del tutto irregolari e senza alcuna legittimazione. Tra i detenuti in isolamento, uno perse la vita, il 4 maggio, quasi un mese dopo la perquisizione, per l'assunzione di un mix di oppiacei. Il gip di Santa Maria Capua Vetere ha emesso anche una misura interdittiva nei confronti del provveditore delle carceri della Campania Antonio Fullone. Il ministero della Giustizia ha fatto sapere di seguire con "preoccupazione" gli sviluppi dell'inchiesta. "La Ministra Marta Cartabia, e i vertici del Dap - sottolinea una nota di via Arenula - rinnovano la fiducia nel corpo della Polizia Penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati”. Sul caso sono intervenuti anche i sindacati della polizia penitenziaria: “A noi pare un provvedimento sproporzionato rispetto ai fatti specie”, ha detto Aldo Di Giacomo, segretario generale del S.PP. (Sindacato Polizia Penitenziaria) , “se si pensa che è praticamente impossibile che ci possa essere stata una regia occulta dell’operato di 52 persone tutte insieme. I fatti vanno contestualizzati alla fase storica coincisa con l’emergenza pandemica tra le più buie della storia degli istituti penitenziari italiani che ha registrato l’esplosione a catena di rivolte sino ad ipotizzare, in questo caso con una serie di indizi chiari oggetto di inchieste giudiziarie, una regia criminale. Siamo dalla parte dei colleghi non certo per spirito di corpo quanto per l’impegno dimostrato nel ristabilire la legalità in carcere”. Esprime invece “sorpresa ed amarezza” il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: “Prendiamo atto dell’iniziativa adottata dai magistrati. La presunzione di innocenza è uno dei capisaldi della nostra Carta costituzionale e quindi credo si debbano evitare illazioni e gogne mediatiche. A noi sembrano provvedimenti abnormi considerato che dopo un anno di indagini mancano i presupposti per tali provvedimenti, ossia l’inquinamento delle prove, la reiterazione del reato ed il pericolo di fuga. Confidiamo nella Magistratura”.

Santa Maria Capua Vetere, sospesi i 52 indagati per le violenze in carcere. Per la sinistra è "come la Diaz e Cucchi". Libero Quotidiano il 30 giugno 2021. Le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno sconvolto tutto il mondo della politica e non solo. Nei video diffusi da Domani si vedono diversi poliziotti pestare con calci e manganellate i detenuti all'interno del penitenziario. I 52 indagati, come scrive il Tempo, sono stati tutti sospesi al momento. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha già espresso "la più ferma condanna per la violenza e le umiliazioni inflitte ai detenuti, che non possono trovare né giustificazioni né scusanti". Intanto il caso anima la politica. Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana ha dichiarato: "Si tratta di una vendetta. Nulla a che vedere con la giustizia. È altrettanto evidente che qui non si parla di ‘mele marce’. Quello che vediamo in azione è un sistema coordinato e organizzato, che dietro la divisa cela i più basilari istinti animali”. Parole di condanna anche dal Pd di Enrico Letta. La deputata dem Barbara Pollastrini ha fatto dei paragoni azzardati con i casi Diaz e Cucchi: "Questa volta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Prima, vent'anni fa, nella scuola Diaz di Bolzaneto durante le manifestazioni dei G8 dove morì Carlo Giuliani e poi nel 2009 il massacro di Stefano Cucchi in una caserma sulla Casilina: la parte oscura e la ferocia si sono scatenate e hanno colpito corpi e principi".

Violenze in carcere: sospesi tutti gli indagati. (ANSA il 30 giugno 2021) "Una volta ricevuta formale trasmissione da parte dell'Autorità Giudiziaria di Santa Maria Capua Vetere dell'ordinanza di custodia cautelare, sono state immediatamente disposte le sospensioni di tutti i 52 indagati raggiunti da misure di vario tipo. Il Dap sta valutando ulteriori provvedimenti anche nei confronti di altri indagati, non destinatari di iniziative cautelari, e ha disposto altresì un'ispezione straordinaria nell'Istituto del casertano, confidando nel pronto nulla osta dell'Autorità Giudiziaria". Lo annuncia il ministero della Giustizia a proposito delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Violenze in carcere: Cartabia chiede approfondimenti. (ANSA il 30 giugno 2021) La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto approfondimenti sull'intera catena di informazioni e responsabilità, a tutti i livelli, che hanno consentito quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, e un rapporto a più ampio raggio anche su altri istituti. E, d'accordo con tutti i partecipanti al vertice di stamattina, ha assunto immediate iniziative che riguardano sia la situazione contingente sia le attività proiettate in un più lungo periodo. La ministra ha inoltre sollecitato un incontro con tutti gli 11 provveditori regionali dell'Amministrazione penitenziaria, che il Dap sta già organizzando. (ANSA) 

Violenze in carcere: Penalisti, accuse gravissime. (ANSA il 30 giugno 2021) "I gravissimi fatti di violenza avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, da subito denunziati dai detenuti e dai loro familiari, nonché dai loro difensori, devono essere accertati con la massima rapidità possibile. Si tratta di una inconcepibile violazione del diritto delle persone detenute ad un trattamento rispettoso della loro persona, della loro integrità fisica e della loro dignità, oltre che del dovere delle istituzioni penitenziarie di garantire la sicurezza delle persone loro affidate, nella prospettiva del percorso rieducativo della pena voluto dalla Costituzione repubblicana". Lo sostiene l'Unione delle Camere penali, secondo cui "atti di brutale violenza contro persone detenute da parte di chi ha il compito di sorvegliarne la incolumità violano in radice il principio di affidamento che la intera comunità sociale sa di dover riconoscere allo Stato". La vicenda conferma "l'urgente necessità della profonda riforma del sistema della esecuzione penale, irresponsabilmente abbandonata sin dal primo Governo di questa legislatura, che affronti e risolva le drammatiche condizioni di vita nelle carceri dei detenuti e degli stessi operatori penitenziari, rispetto alla cui struttura organizzativa si impongono interventi urgenti per assicurare un continuo ed efficace controllo". Al tempo stesso, la giunta e l'Osservatorio carceri denunziano "l'ennesimo caso di indebita spettacolarizzazione di una indagine penale: la diffusione di foto e video dei denunciati atti di violenza -certamente raccapriccianti ed indegni per un paese civile- che hanno accompagnato l'esecuzione dei numerosi provvedimenti cautelari, prima ancora di qualsiasi forma di contraddittorio con le difese degli indagati, resta inammissibile e gravemente lesiva del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza". Secondo i penalisti "i diritti e le garanzie delle persone indagate restano intangibili, quale che sia l'accusa, così come deve essere ribadita la più ferma condanna di ogni forma di esposizione mediatica delle ragioni dell'Accusa. E' inderogabile principio di civiltà che il processo si celebri nelle aule di giustizia, e non sui media, e che dunque sia sempre respinta la tentazione di anticipare giudizi di colpevolezza prima ancora dell'intervento della difesa e della valutazione delle prove da parte di un giudice".

Violenze in carcere: Giuristi democratici, come a Bolzaneto. (ANSA il 30 giugno 2021) "E' davvero inquietante" lo spaccato di "vita carceraria" che emerge dal comunicato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di S.Maria Capua Vetere . "Tortura è certamente la parola giusta per descrivere il trattamento che un manipolo di agenti ha riservato ai detenuti che avevano “osato” protestare per le misure restrittive della socialità imposte in carcere e per la mancata prevenzione della pandemia nel momento di maggior sviluppo e preoccupazione generale". Lo afferma l'Associazione nazionale dei giuristi democratici , secondo cui le frasi e le immagini dei pestaggi all'interno della Casa Circondariale di S.Maria Capua Vetere, "ai danni dei detenuti costretti a passare tra le forche caudine di agenti che li colpivano con manganelli, pugni, calci, schiaffi" "riportano alla mente quanto tutti ormai sappiamo essere avvenuto vent'anni fa a Genova, nella caserma/carcere di Bolzaneto, E, come per l'indagine su Bolzaneto (e molte altre relative a fatti di violenza commessi da pubblici ufficiali) l'ordinanza dà atto di tentativi di sviare indagini, di impedire individuazione dei responsabili, di costruire giustificazioni con accuse infondate nei confronti dei detenuti massacrati. E, come sempre, gran parte dei massacratori non sono individuabili, grazie all'uso degli anonimi 'mezzi di protezione' in dotazione". Va affermato oggi, "con forza, il principio per cui l'indossare una divisa non comporta alcuna esenzione dal dovere di rispettare i diritti umani, ovunque, ed a maggior ragione per chi ha l'uso legittimo delle armi, in luoghi in cui le persone sono private della libertà e della possibilità di tutela. Perché non è un caso che a fronte di un massacro di questa portata, le denunce dei detenuti siano state poche e sofferte, e pochissime le voci che si sono levate a condannare apertamente la violenza bruta e organizzata messa in atto da un numero spropositato di agenti. Di più- concludono i Giuristi democratici- crediamo che chi risulti responsabile di quest'ennesima mattanza debba essere quanto meno destinato a compiti che non prevedano in alcun modo la custodia di soggetti privati della libertà personale".

I 52 agenti destinatari di misure sono stati sospesi. “Oltraggio alla divisa e tradimento della Costituzione”, la ministra Cartabia sulle torture nel carcere di SMCV. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Giugno 2021. La “mattanza” del carcere di Santa Maria Capua Vetere è un “oltraggio alla divisa” e un “tradimento della Costituzione”. Queste le parole di Marta Cartabia, ministra della Giustizia, che fatti salvi gli ulteriori accertamenti dell’Autorità Giudiziaria e tutte le garanzie degli indagati esprime la sua indignazione e annuncia un’indagine con i Garanti dei Detenuti e con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria per chiarire non solo quello che è successo in Campania il 6 aprile 2020 ma anche le situazioni di tutti gli altri istituti. I detenuti nelle carceri italiane sono, secondo l’ultima rilevazione del Garante Nazionale del 7 giugno, 53.661. Il limite massimo della capienza degli Istituti è di 50.781 posti. Gli ergastolani in Italia sono 1.779, dei quali 1.259 quelli ostativi. Gli articoli 3 e 27 della Costituzione che dettano rispettivamente come “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” e che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per i fatti del Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020 sono indagati 108 tra poliziotti penitenziari e funzionari del Dap. 52 le ordinanze cautelari. Le accuse a vario titolo di: tortura, lesioni, maltrattamenti, falso, favoreggiamento. “Un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della Polizia Penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere”, ha dichiarato la ministra Cartabia. “Si tratta di un tradimento anche dell’alta funzione assegnata al Corpo di Polizia Penitenziaria, sempre in prima fila nella fondamentale missione, svolta ogni giorno con dedizione da migliaia di agenti, di contribuire alla rieducazione del condannato”. I detenuti – che avevano protestato contro le restrizioni introdotte dopo l’esplosione dell’emergenza coronavirus – sono stati vittime di una “perquisizione straordinaria” diventata “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa perpetrato ai danni dei detenuti” e quindi “sottoposti a violenze, intimidazioni e umiliazioni di indicibile gravità, senz’altro indegne di un Paese civile” secondo il gip Sergio Enea. Le immagini delle violenze sono state pubblicate dal quotidiano Domani. Gli agenti avrebbero sbagliato qualcosa nel manomettere le telecamere. “Di fronte a fatti di una tale gravità non basta una condanna a parole. Occorre attivarsi per comprenderne e rimuoverne le cause. Occorre attivarsi perché fatti così non si ripetano. Ho chiesto un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità”, ha aggiunto ancora Cartabia augurandosi che la vicenda sia isolata e anticipando “una verifica a più ampio raggio, in sinergia con il Capo del Dap, con il Garante nazionale delle persone private della libertà e con tutte le articolazioni istituzionali, specie dopo quest’ultimo difficilissimo anno, vissuto negli istituti penitenziari con un altissimo livello di tensione”. Il ministero della Giustizia aveva annunciato nel corso della giornata la sospensione dei 52 destinatari di misure cautelari. Al vaglio la posizione di altri indagati non destinatari di misure. La ministra ha disposto un’ispezione straordinaria nell’Istituto in provincia di Caserta e sollecitato un incontro con tutti gli 11 Provveditori Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria. L’incontro con le rappresentanze sindacali è stato fissato per il 7 luglio. “Oltre quegli alti muri di cinta delle carceri c’è un pezzo della nostra Repubblica, dove la persona è persona, e dove i diritti costituzionali non possono essere calpestati – ha concluso la ministra – e questo a tutela anche delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, che sono i primi ad essere sconcertati dai fatti accaduti”. Il segretario del Partito Democratico Enrico Letta ha parlato di abusi intollerabili. Le immagini delle violenze sono inequivocabili e disgustose per il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Il segretario della Lega Matteo Salvini non ha invece cancellato la sua visita, in programma domani pomeriggio, in solidarietà degli agenti della polizia penitenziaria. Domani, che ha diffuso le immagini della “perquisizione”, ha chiesto ai leader politici un commento sulle violenze ricevendo risposta dal solo segretario del Pd. No comment da parte della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, da Salvini e dal Movimento 5 Stelle.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il leader leghista a Santa Maria Capua Vetere. L’imbarazzo di Salvini: “Le mattanze sono state le rivolte dei detenuti”. Angela Stella su Il Riformista il 2 Luglio 2021. L’«orribile mattanza» che si è consumata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 resta al centro del dibattito politico. Ieri il leader della Lega Matteo Salvini si è recato al carcere sammaritano dove ha avuto un colloquio con la direttrice Elisabetta Palmieri. All’uscita ha dichiarato: «Chi sbaglia paga, soprattutto se indossa una divisa. Questo non deve significare infamare 40000 agenti della penitenziaria. È evidente che ci sono state delle violenze. Quando ho visto quel video sono rimasto sconvolto. Sono vicino a chi vive in carcere ma anche a chi vi lavora». Ad una giornalista che gli ha chiesto se la ritenesse una mattanza ha replicato: «La mattanza è stata la rivolta che c’è stata in questo e altre carceri». E ha proseguito: «Vorrei avere certezza sulla colpevolezza degli indagati. La giustizia faccia il suo corso, se ci sono stati abusi e violenze vanno puniti, ma non accetto minacce di morte, insulti e attacchi, che arrivano anche da parte dei clan della Camorra. Se c’è un 1% di forze dell’ordine che sbaglia va punito, inaccettabile se c’è stato qualche detenuto oggetto di violenza, le scuse alle famiglie sono sacrosante e dovute». Salvini ha parlato anche di «disastro e sconfitta dello Stato», e di una vicenda «che serva per nuove assunzioni, nuove divise, nuove telecamere, dotazioni per quelle persone che domani mattina si alzano e fanno servizio a Milano, all’Ucciardone, a Santa Maria, dovendo pure fare gli psicologi», ha concluso il leader della Lega. Ad intervenire ieri con una nota è stato anche il deputato 5 Stelle Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario alla Giustizia. Il 16 ottobre 2020, rispondendo ad una interpellanza dell’onorevole di +Europa Riccardo Magi, disse che gli risultava che i fatti accaduti erano stati una «doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto». Ora sappiamo che non è così. E allora Ferraresi si difende da chi fa notare l’incongruenza tra quanto detto allora e gli accadimenti reali: «l’inchiesta risultava in corso e era coperta dal segreto d’indagine. […] Le informazioni che esposi in quell’intervento provenivano dalle note, prontamente richieste, che ci vennero fornite dal DAP. […] Feci dunque riferimento a una "azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto" perché quella era la versione dei fatti sulla base degli elementi fino a quel momento conosciuti». Secca la replica di Magi: «Ho riletto e riascoltato più volte la risposta del Ministero a quell’interpellanza e non sono possibili interpretazioni che attenuino l’assurdità di quella definizione “doverosa azione di ripristino della legalità”. Come è stato possibile usarla a sei mesi dai fatti, mentre l’indagine era già in una fase avanzata e sugli organi di stampa veniva descritto il contenuto dei video divenuti pubblici negli ultimi giorni, anziché dire che, qualora confermate, quelle condotte erano di una gravità inaudita? Chi ricopre una carica di governo non può e non deve semplicemente leggere in aula le risposte preparate dall’ufficio ministeriale competente. Chi riveste ruoli di governo può e deve chiedere ed esigere dall’Amministrazione informazioni dirette e dettagliate sul suo operato e non riportare “versioni”». Ferraresi ha riferito anche che il Ministero non potè fare nulla «per avviare un’indagine interna perché questo non è consentito in presenza di un’inchiesta della Procura. In più occasioni il DAP ha fatto richiesta agli inquirenti di acquisire atti giudiziari per ‘valutare l’adozione delle iniziative amministrative di competenza non più procrastinabili’. Ma tali sollecitazioni non hanno mai avuto riscontro». Tale circostanza ci è stata confermata dal Procuratore Capo di Santa Maria Capua Vetere, dottoressa Troncone: «Preciso che, stante l’allora sussistenza del segreto d’indagine, non sono stati comunicati né i nomi, né il materiale indiziario acquisito. Peraltro, le comunicazioni seguono il regime di cui all’art. 129 disp. att. c.p.p. e vengono operate solo quando si perviene alla formulazione di richiesta di rinvio a giudizio o all’adozione di provvedimenti cautelari. Nell’attualità, il DAP sta reiterando richieste, che possono essere evase e che sono determinate dal chiaro intento di voler acquisire tutti gli elementi conoscitivi necessari per assumere tutte le determinazioni del caso». Possibile, tuttavia, che il Ministero, che pure spesso negli ultimi mesi con i diversi Guardasigilli ha predisposto ispezioni e inchieste amministrative, non abbia alcuno strumento di indagine interna per verificare per quanto di sua competenza i fatti, sebbene sia in corso una indagine della Procura? La domanda sorge partendo dal fatto che quegli agenti sono rimasti al loro posto fino a due giorni fa, accanto ai detenuti che avevano subìto le violenze. Sul punto è intervenuto anche il Garante Mauro Palma che ieri ha incontrato il presidente del Consiglio Draghi. Un incontro programmato da tempo, ma che inevitabilmente ha toccato anche gli ultimi fatti di cronaca relativi alle violenze in carcere. Tra gli «interventi rapidi» da mettere in atto, Palma annovera infatti «la ridefinizione di una catena di trasmissione delle informazioni agli organi superiori tale da evitare in futuro che esponenti del Governo rispondano al Parlamento qualificando quale doverosa operazione di ripristino della legalità un’azione che la documentazione disponibile mostra chiaramente al di fuori di quanto il nostro ordinamento costituzionale possa accettare». Intanto il Pd fa pressione sulla Cartabia affinché riferisca in Aula al Senato: i capigruppo Valeria Fedeli e Franco Mirabelli hanno presentato un’interrogazione alla Ministra «per chiederle quali misure necessarie e urgenti intenda assumere e se non consideri altrettanto necessario riferire in Aula al Senato quanto prima». Angela Stella

Flavia Amabile per "la Stampa" il 2 luglio 2021. I selfie, il rinfresco, i sorrisi, gli applausi. È una visita cordiale, affettuosa, quella di Matteo Salvini, leader della Lega, alla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, dove nell' aprile del 2020 i detenuti sono stati brutalmente picchiati. È una visita priva di ogni formalità, qualcosa a metà tra un appuntamento elettorale e un incontro tra persone unite dallo stesso modo di intendere la vita. Dieci minuti con la direttrice della casa circondariale e oltre venti nel cortile a bere qualcosa di fresco, chiacchierare con gli agenti, scattarsi i selfie di rito e scambiarsi pacche sulle spalle per confermare di essere tutti dalla stessa parte. «Chi sbaglia paga, soprattutto se indossa una divisa. Questo non vuol dire però infamare e mettere a rischio la vita di 40mila donne e uomini della Polizia Penitenziaria che rendono questo Paese più sicuro. La giustizia faccia il suo corso, e se ci sono stati abusi vanno puniti. Però non accetto le minacce di morte, gli insulti e gli attacchi che stanno arrivando anche da parte dei clan della camorra. Ringrazio tutte le forze dell'ordine per il loro lavoro, se c' è un 1 per cento che sbaglia va punito», spiega alla fine dell'incontro ai giornalisti in attesa. «Le scuse alle famiglie sono sacrosante e dovute» perché le violenze emerse nel video sono «inaccettabili». Eppure Salvini ha incontrato la direttrice e il comandante, ma non i detenuti, nonostante siano ancora lì le vittime delle violenze. «Posso decidere di incontrare chi voglio?», si difende con i cronisti. Sottolinea gli episodi di violenza che ci sono stati anche ai danni degli agenti della casa circondariale mentre alle sue spalle più volte si levano gli applausi. Salvini non perde poi l'occasione di lanciare un attacco a Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia dell'epoca. «Durante un'interrogazione disse che era tutto sotto controllo, evidentemente non tutto era sotto controllo». Poco prima anche Elisabetta Palmieri, la direttrice della casa circondariale, aveva accettato di rispondere alle domande dei giornalisti. Turbata, imbarazzata, con molti «non so», ha però respinto le accuse di aver partecipato alle violenze. È stata assente da marzo a giugno per motivi di salute e non sapeva nulla delle violenze. Ha definito le immagini «agghiaccianti, e non si possono giustificare, ma Santa Maria non è questa». Quello che è la casa circondariale però lo spiega Emanuela Belcuore, garante dei detenuti della provincia di Caserta. «È stato costruito senza una rete idrica. Usciva l'acqua marrone dai rubinetti in un periodo di pandemia dove l'igiene era fondamentale. C' è una discarica a pochi chilometri da qui. E il regime di alta sicurezza sembra un carcere punitivo». O lo spiega Enza Letizia, madre di uno dei detenuti che arriva davanti al penitenziario per raccontare i suoi timori. «Ho paura, mio figlio non mi dice nulla ma avevamo saputo che c' erano state delle violenze, eravamo venuti qui a protestare. Il video ha confermato quello che temevamo». Minacce di morte, insulti, sputi, calci e pugni. È il quadro che emerge dalla ricostruzione del tribunale di Santa Maria Capua Vetere in relazione all' inchiesta sulle violenze ai danni dei detenuti della struttura del casertano. Il provvedimento di applicazione delle misure cautelari disposto dal gip descrive le presunte azioni messe in atto dai 117 indagati (52 le misure cautelari) lo scorso 6 aprile 2020, quando gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, assieme a due gruppi provenienti da Secondigliano e Avellino, effettuarono una perquisizione straordinaria nelle celle, per gli inquirenti violenta, seguita da presunti depistaggi. «Napoletano di merda, vi dobbiamo rompere il c*lo. Ora non state nemmeno tranquilli quando dormite, vi veniamo a prendere di notte». Oppure: «Oggi appartieni a me, sono io che comando, sono io lo Stato, comando io oggi». Sarebbero queste alcune delle frasi che diversi agenti avrebbero rivolto ai detenuti. Diversi detenuti sarebbero stati obbligati a spogliarsi e a inginocchiarsi. E ai danni di uno di loro, riporta il provvedimento di applicazione delle misure cautelari, sarebbe stata effettuata anche una perquisizione anale con l'utilizzo di un manganello di tipo sfollagente. Davanti al carcere c'era anche una delegazione del Sappe, che rappresenta gli agenti penitenziari. Il segretario nazionale Emilio Fattorello ha definito le violenze «un'azione sfuggita di mano, come a Bolzaneto».

«Salvini soffia sul fuoco ma quelle immagini sono inaccettabili». Il tesoriere e deputato Pd se la prende con il leader leghista che oggi sarà in visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 30 giugno 2021. Walter Verini, tesoriere e deputato dem, spiega che le immagini delle violenze in carcere «rischiano di far perdere credibilità non solo ai protagonisti di quei fatti, ma all’intero corpo che invece è di straordinaria importanza per il paese e per la sua sicurezza» e che «stavolta la propaganda di Salvini rischia di incendiare la situazione nelle carceri».

Onorevole Verini, cosa farà il Pd perché si accerti la verità sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere?

Il Pd ha chiesto che la ministra venga prima possibile a riferire in Aula, così come chiedemmo all’allora ministro Bonafede. È giusto che vicende come queste vengano affrontate alla luce del sole.

Oggi Salvini sarà nella cittadina campana, cosa si aspetta?

I primi annunci, le prime dichiarazioni del leader della Lega, rischiano di essere qualcosa di incendiario. Sottolineo che qui non sono in discussione il ruolo e la credibilità della Polizia penitenziaria. Tutti noi proviamo ammirazione per il lavoro quotidiano che oltre 37mila agenti svolgono ogni giorno in situazioni difficilissime. Ma alla luce dei video diffusi emergono comportamenti di una gravità intollerabile e inaccettabile per un paese civile. Quelle immagini rischiano di far perdere credibilità non solo ai protagonisti di quei fatti, ma all’intero corpo che invece è di straordinaria importanza per il Paese e per la sua sicurezza. Salvini non può soffiare sul fuoco, perché se dentro le carceri si crea un clima particolarmente acceso si rischiano situazioni di enorme gravità.

Oltre alle immagini sono state rese pubbliche anche le foto degli agenti indagati. Occorre evitare la gogna?

Condivido quanto ha detto il garante nazionale per i diritti dei detenuti. Guai a mettere qualcuno alla gogna ed è grave pubblicare le foto degli agenti coinvolti. E va ribadito che dal punto di vista penale fino a sentenza definitiva c’è la presunzione d’innocenza. Noi non siamo un tribunale ma è del tutto evidente che quei video dimostrano comportamenti che non hanno nulla a che vedere con politiche di trattamento in linea con l’articolo 27 della Costituzione.

Eppure Salvini dice di voler esprimere solidarietà alla Polizia penitenziaria.

Non si può andare lì per esprimere solidarietà indistintamente, perché significa esprimere solidarietà anche per quei comportamenti e questo non è accettabile. Al di là del rilievo penale, quei video chiedono, impongono una presa di distanza. L’allora Capo della Polizia Manganelli, che purtroppo non c’è più, qualche tempo dopo la Diaz chiese scusa per quei fatti. Quando rappresentanti dello Stato compiono errori, sbagli, reati, o commettono gesti inaccettabili, chiedere scusa da parte dello Stato stesso è segno di forza e autorevolezza, non di debolezza.

Cosa contestate al leader della Lega?

Un leader politico che sostiene il governo ha il dovere non di scaldare ulteriormente gli animi ma di pretendere l’accertamento dei fatti, evitando gogne ma al tempo stesso lasciando che la giustizia faccia pienamente il suo corso. Il garantismo cui si è convertito Salvini, che va nelle piazze a promuovere i referendum, deve essere verso tutti, anche nei confronti di chi è detenuto. Salvini è sempre propagandistico, ma stavolta è una propaganda che rischia di incendiare la situazione nelle carceri.

Cosa chiedete alla ministra Cartabia?

Di venire a riferire quanto di sua conoscenza. Tra l’altro lei – come ruolo e come persona – dimostra sensibilità ai temi del trattamento dei detenuti e del rapporto con la Polizia penitenziaria. Ad esempio, quella spedizione era a conoscenza degli allora vertici del Dap? Oggi in quei ruoli ci sono persone come Petralia e Tartaglia, di grande affidabilità. Ma è importante sapere quali gangli della filiera, all’epoca dei fatti, fossero a conoscenza dell’iniziativa nel carcere. In secondo luogo, occorre fare in modo che accanto ai necessari provvedimenti di sospensione ci sia rapidità nel dare una sorta di corsia preferenziale agli aspetti giudiziari. Se ci sono stati comportanti gravi e inaccettabili, quei comportamenti vengano accertati e giudicati. Non possiamo rimanere appesi a delle immagini, pur gravi. Nel tempo tra oggi e l’ultimo grado di giudizio si possono creare tensioni e speculazioni come quella di Salvini che possono mettere in discussione la situazione interna alle carceri.

Con quali rischi?

Se c’è tensione nelle carceri si rischia anche che settori della criminalità organizzata possano utilizzarla per causare rivolte insostenibili che mettono in discussione la sicurezza del personale, dei detenuti e infine degli stessi cittadini come accaduto dopo la rivolta di Foggia. L’approccio deve essere radicalmente diverso.

Quali provvedimenti e misure dovrebbero essere adottati?

Dovrebbe essere completata la dotazione organica della Polizia penitenziaria, aumentando numero di figure come psicologi, medici e mediatori culturali in carcere, animatori, volontari. Un lavoro già iniziato dallo scorso governo grazie al lavoro del sottosegretario Giorgis, che ne aveva la delega. Bisogna accelerare anche sul telecontrollo, perché sviluppare il controllo a distanza attraverso le telecamere significa avere maggior consapevolezza della situazione in vigilanza dinamica ma anche contrastare la piaga dell’autolesionismo e dei suicidi in carcere. Più in generale, il carcere deve essere riservato a reati gravi. Occorre sviluppare pene alternative, e sia dentro che all’esterno, sviluppare formazione, lavoro, socialità, recupero. Un cittadino che sconta una pena ed esce rieducato, socializzato, difficilmente torna a delinquere. Lo ripetiamo: investire in pene certe e carceri umane significa investire anche nella sicurezza di chi lavora nelle carceri e di tutta la società.

Teme che le tensioni di questi giorni con Cinque Stelle e Lega possano rallentare la riforma della giustizia?

Mi auguro di no, perché l’Italia secondo noi ha l’occasione di riformare il civile, il penale e il Csm, dando finalmente una giustizia europea al nostro Paese. Mettere i bastoni tra le ruote del governo significa essere poco responsabili davanti ai cittadini. In secondo luogo, anche alla luce del finto garantismo che vediamo su questa drammatica vicenda carceraria, mi chiedo: cosa c’entra Salvini con i referendum radicali quando sul tema carceri ha una visione così incendiaria?

La garante dei detenuti risponde a Salvini: “Chieda scusa prima di venire”. “A Santa Maria Capua Vetere niente giornali e Tv”, la denuncia dei familiari dei detenuti dopo gli arresti. Rossella Grasso su Il Riformista il 30 Giugno 2021. All’indomani degli arresti e delle misure cautelari nei confronti di 52 poliziotti penitenziari coinvolti nella mattanza dello scorso 6 aprile 2020 nel Carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) la situazione è sempre più tesa. I familiari dei detenuti preoccupati per la situazione all’interno del carcere si sono assiepati all’ingresso per avere notizie dei loro cari. Il timore è quello di ripercussioni da parte della polizia penitenziaria dopo gli arresti. “Circa trenta familiari dei detenuti mi hanno contattata preoccupati perché ieri (il 29 giugno, ndr) è mancata la corrente elettrica. Questo è significato niente Tv e dunque niente telegiornali. Non sono arrivati nemmeno i giornali i cui abbonamenti sono stati regolarmente pagati. Nessuna insinuazione, ma ora i detenuti neanche più informazione devono avere? Una grave violazione al diritto all’informazione”, ha detto Emanuela Belcuore, garante dei detenuti della provincia di Caserta. La garante ha raccolto tutte le denunce dei familiari dei detenuti del Carcere di Santa Maria Capuavetere che lamentavano anche che tra ieri e oggi le videochiamate e i contatti prestabiliti con i parenti detenuti sono slittati di molte ore e se avvenuti sono durati pochissimi secondi. E così è salita l’ansia per chi sta fuori. Belcuore è in costate contatto con la direzione del carcere che ha assicurato che il blackout di ieri è rientrato verso le 20 della sera. “In quel carcere continuano ad esserci tantissimi problemi tra cui l’acqua che esce marrone dai rubinetti – continua l’energica garante casertana – Mi hanno detto che ci sono stati problemi anche con la consegna del cibo. Certo è che le misure cautelari degli agenti hanno improvvisamente fatto diminuire la forza lavoro degli agenti in carcere per cui in queste ore è tutto più complicato da gestire. Anche l’accompagnamento ai colloqui lo è. Però dobbiamo tener presente che lì ci sono detenuti provati da tutto, specialmente chi ha subito soprusi. E le loro famiglie sono preoccupate”. “Occorre già far fronte alla carenza d’acqua e alla presenza di insetti di ogni tipo vista la vicinissima discarica a cielo aperto. Temo – aggiunge – che ci saranno anche meno agenti viste le misure cautelari. Sono vicina a coloro che ogni giorno indossano la divisa e svolgono il proprio lavoro. Ma le mele marce vanno tolte dal cestino. Dai video si notano pestaggi anche ai danni di una persona su sedia a rotelle. E questo sarebbe riportare l’ordine?”. Nell’esprimere solidarietà a tutti quegli agenti “padri di famiglia che onorano ogni giorno la divisa per portare a casa il pane”, auspica che sia fatta luce su quanto accaduto e che anche loro siano “sottoposti a percorsi di recupero”. Intanto Matteo Salvini ha confermato la sua visita al carcere prevista per il 1 luglio alle 17. “Giovedì sarò a Santa Maria Capua Vetere per portare solidarietà – mia e di milioni di italiani – a donne e uomini della polizia penitenziaria che lavorano in condizioni difficili e troppo spesso inaccettabili. La Lega sarà sempre dalla parte delle forze dell’ordine”, ha scritto in un tweet. “Chi sbaglia paga soprattutto se indossa una divisa però non si possono coinvolgere tutti i 40mila donne e uomini di polizia penitenziaria e non si possono sbattere in prima pagina con nomi e cognomi. Serve rispetto per uomini in divisa che ci proteggono in strada, i singoli errori vanno puniti. Conosco quei padri di famiglia sotto accusa e sono convinto che non avrebbero fatto nulla di male”, ha detto Salvini nel corso di un intervento alla trasmissione radiofonica Barba&Capelli in onda su Radio Crc Targato Italia. A Salvini la garante risponde con forza: “Prima di venire a Santa Maria Capua Vetere deve chiedere scusa a tutti noi garanti per le offese del passato quando disse ‘vorrei vedere i garanti con l’olio bollente addosso’ – ha detto Belcuore – I video sono quelli, non può negare che ci sia stata una mattanza quel giorno in carcere. Venisse a passare una giornata con me o a fare due chiacchiere con i parenti dei detenuti per capire cosa vuol dire il carcere”. Intanto la questione finisce anche in Parlamento. Il Pd chiede che la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, riferisca in Parlamento sulla vicenda di Santa Maria Capua Vetere. Lo afferma Piero De Luca, vicepresidente del gruppo Dem alla Camera. “Siamo profondamente indignati per le notizie che stanno emergendo sulle violenze degli agenti della polizia penitenziaria perpetrate nei confronti dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere – dice De Luca – Sono inaccettabili e vergognose in un Paese civile. Come appena rilevato in Aula dal collega Emanuele Fiano, il gruppo Pd chiede che la ministra Cartabia riferisca in Parlamento su quanto accaduto”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Santa Maria Capua Vetere, il Garante contro la gogna per gli agenti indagati. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha stigmatizzato la pubblicazione delle foto di alcuni indagati per i presunti pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 giugno 2021. Un giornale, all’indomani degli arresti per i fatti dei presunti pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, ha pubblicato in prima pagina le foto degli agenti e funzionari della polizia penitenziaria raggiunti dalle misure cautelari. Una vera e propria gogna pubblica che il Garante nazionale delle persone private della libertà ha prontamente stigmatizzato. Il Garante, infatti, tramite un comunicato stampa, fa sapere di ritenere inaccettabile l’esposizione cui sono state sottoposte le persone sotto indagine per le presunte violenze nell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere, con la pubblicazione in prima pagina delle fotografie di decine di loro all’indomani della disposizione delle misure cautelari.

Il Garante: «C’è il rischio di esarcebare il clima negli Istituti». Una esibizione – prosegue il comunicato – che nulla aggiunge all’informazione sull’indagine in corso e che rischia di esacerbare il clima negli Istituti, alimentando tensioni e mettendo oltretutto a rischio di ritorsione coloro che operano quotidianamente in carcere. Il Garante nazionale, nel contempo spiega che segue con attenzione l’indagine sin dai suoi primi sviluppi, nella convinzione della necessità di perseguire chi offende con i propri comportamenti la divisa che indossa. Ed è certo che i media sapranno raccontare la vicenda, offrendo una informazione completa e rispettosa di tutti, anche di chi è oggetto di indagine da parte delle Procure. Come già riportato, il ministero della Giustizia ha fatto sapere che segue con “preoccupazione” gli sviluppi dell’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere, che ha portato a numerose misure cautelari. «La ministra Marta Cartabia, e i vertici del Dap – ha sottolineato la nota di via Arenula – rinnovano la fiducia nel corpo della Polizia Penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati».

L’equilibrio della ministra Cartabia. La guardasigilli ha mostrato equilibrio, da una parte rinnova la fiducia del corpo della polizia penitenziaria, dall’altra segue con preoccupazione gli sviluppi di questa inchiesta.

L’ex ministro Bonafede parlò all’epoca di «una doverosa azione di ripristino della legalità». Ma non è stato così con il ministro precedente Alfonso Bonafede. Ricordiamo che, in risposta all’interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi, disse testualmente: «Il giorno seguente, ovvero il 6 aprile 2020, è stata disposta l’esecuzione di una perquisizione straordinaria all’interno del reparto “Nilo”. Si è trattato di una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi». Ebbene sì, per l’allora ministro Bonafede quell’irruzione da parte degli agenti fu «una doverosa azione di ripristino della legalità». Forse avrebbe dovuto, come suo dovere, accertare i fatti. Magari qualche giorno dopo il 6 aprile 2020, quando Il Dubbio e qualche giornale locale, avevano riportato le testimonianze di chi avrebbe subito i pestaggi con tanto di foto. Non solo. C’erano anche i video che l’allora Dap poteva visionare subito, invece di attendere l’autorità giudiziaria.

Quel video terribile sui pestaggi andava pubblicato? Difficile trovare un compromesso tra diritto di cronaca e rispetto delle regole. Ma una cosa dobbiamo chiedercela: chi ha fatto arrivare alla stampa quelle immagini di Santa Maria Capua Vetere? Valentina Stella su Il Dubbio il 30 giugno 2021. È innegabile la portata di drammaticità emersa dal video pubblicato dal quotidiano Domani in cui si vedono chiaramente le violenze subìte dai detenuti lo scorso 6 aprile 2020 per mano di centinaia di agenti di polizia penitenziaria. Quelle sequenze di aggressività e sopraffazione dei (finti) custodi verso i loro custoditi, la riproposizione del «sistema Poggioreale» come metodo illegale di punizione, lo svilimento della dignità dei detenuti: tutto ciò è stato un pugno nello stomaco per moltissimi di noi, che pure da anni ci occupiamo di queste vicende, ma soprattutto per altri colleghi che spesso si mostrano indifferenti alle criticità dell’esecuzione penale, e per una grande fetta della società civile. Probabilmente quelle immagini hanno anche spinto la Ministra Cartabia a prendere una posizione più netta nei confronti di quegli accadimenti. Sicuramente quel video ha disvelato qualcosa per molti inimmaginabile. Come spesso ricorda il sociologo dei fenomeni politici, Luigi Manconi, «il carcere e la caserma sono istituzioni totali, secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica». Ora invece tutti possono vedere. Ma nonostante il valore pedagogico, siamo sicuri che quel video andava pubblicato? Ci siamo posti la stessa domanda relativamente alle immagini degli ultimi istanti di vita dei passeggeri nella funivia del Mottarone. Non è semplice dare una risposta: c’è il gioco il diritto di cronaca, la necessità di denunciare pubblicamente misfatti così terribili, ma non dobbiamo dimenticare il rispetto delle regole e del codice di rito. Si tratta di un documento che, seppur non coperto da segreto istruttorio, ai sensi dell’articolo 114  comma 2 c.p.p. non può essere pubblicato, in quanto relativo a procedimento in fase di indagine preliminare. E allora ci si chiede: chi ha fatto arrivare ai colleghi del Domani il video? La procura aprirà un fascicolo di indagine per stabilire eventuali responsabilità?

La spettacolarizzazione delle indagini. Agenti indagati, vanno processati in aula non in piazza. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Finalmente i media si occupano di carcere! Ci sono volute immagini tremende e messaggi raccapriccianti per sollevare lo sdegno dell’informazione e quello dell’opinione pubblica. Anche i sostenitori storici del “buttare la chiave” hanno dovuto ammettere che la crudeltà di quanto visto e letto non lascia spazio a interpretazioni. Uno squarcio di luce intrisa di sangue sta attraversando il carcere, lasciato solo e abbandonato a se stesso da tempo immemorabile. Ora è necessario tenere alta l’attenzione per evitare che le tenebre tornino ad avvolgere quel mondo sconosciuto o, comunque, dimenticato. Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere ha confermato l’importanza della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e quella di una Magistratura di Sorveglianza attiva, oltre che in ufficio, anche negli istituti di pena. Dal loro tempestivo intervento, infatti, hanno preso vita le indagini che sono state coordinate e svolte nei necessari tempi rapidi. Dai messaggi scambiati tra gli indagati, emerge l’esistenza di un “sistema Poggioreale”, in relazione alle violenze da far subire ai detenuti. Il riferimento è alla famigerata “cella zero” del carcere napoletano, oggi oggetto di un processo, ancora in corso, nei confronti di alcuni agenti di quell’istituto. La violenza della “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere ci fa comprendere come gli autori fossero convinti della loro impunità. Detto ciò, credo che vadano fatte almeno due riflessioni di natura politica. La prima è relativa alle dichiarazioni di coloro che hanno affermato che si sarebbe trattato di «poche mele marce» e che il resto della polizia penitenziaria è sano, come lo è la dirigenza dell’amministrazione. Ciò è del tutto fuorviante.  A essere “marcio” da tempo è il sistema penitenziario. In questo malessere sono costretti – e sottolineo costretti – a vivere detenuti e agenti. I primi trattati come animali, privati di un progetto di responsabilizzazione e rieducazione, stipati in spazi angusti e antigienici; i secondi messi a guardia di persone abbrutite e private anche della dignità e, pertanto, da educare senza rispetto e, quando serve, a mazzate. Non a caso le numerose condanne inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo fanno riferimento alla necessità di un intervento di sistema che non c’è mai stato, per colpa di una politica cieca che non guarda al di là di uno strumentale interesse elettorale. La stagione degli Stati generali dell’esecuzione penale, iniziata dopo l’ennesima condanna inflitta dalla Cedu e culminata con il lavoro di ben tre Commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, si è chiusa con un nulla di fatto e le modalità di approccio della politica al pianeta carcere non sono mutate. Occorre riprendere quei lavori, frutto di un serio e serrato confronto tra persone esperte e provenienti dai diversi settori del mondo della giustizia. Per la seconda è bene chiarire preliminarmente che chi scrive si occupa da anni della tutela dei diritti dei detenuti e oggi è co-responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. Non è, pertanto, sospettabile di alcun pensiero avverso la popolazione detenuta né di favorire l’amministrazione penitenziaria. Fermo restando l’importanza – e l’abbiamo già detto – di tutto quello che è derivato dalla pubblicazione di messaggi e video (in merito ai quali il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha anticipato che ce ne sarebbero altri ancora più violenti), occorre evidenziare, ancora una volta, che la spettacolarizzazione della giustizia e i processi di piazza non giovano al Paese. Si tratta di giustizia sommaria, che – pur per episodi gravissimi – travolge vite umane e con esse i loro familiari, dinanzi a quella che è la verità parziale di un’ipotesi accusatoria. Mentre dovrebbe essere il processo, con tutte le sue garanzie, ad accertare la verità. Si obietterà: ma come, vi sono i messaggi, i video, la colpevolezza è certa! No, signori, la giustizia non funziona così. Altrimenti continueremo ad alimentare un istinto brutale di linciaggio popolare che, senza alcun intervento di un giudice, vuole la condanna del colpevole. Non possiamo accettare questa deriva che lentamente ci sta portando all’abbrutimento della nostra civiltà giuridica. Comprendo le ragioni che hanno indotto la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere a diffondere il comunicato stampa di ben 13 pagine, in cui venivano testualmente riportati i messaggi degli indagati, e comprendo pure le ragioni della pubblicazione del video delle torture, ma non le condivido. Sono il frutto di una politica che è rimasta indifferente dinanzi alle notizie apprese nel corso delle indagini, lasciando convivere per un anno intero vittime e carnefici. Una politica che, dinanzi alle denunce delle torture dell’aprile scorso, ha dichiarato che la legalità nel carcere di Santa Maria Capua Vetere era stata ripristinata. Oggi il Ministero della Giustizia ha una guida nuova, certamente orientata verso i principi costituzionali. Basterà? Riccardo Polidoro

Prove false o manomesse, le manovre per fermare i pm. Poi la resa: pagheremo tutti. Conchita Sannino su La Repubblica il 2 luglio 2021. Santa Maria Capua Vetere, agli atti il tentativo dei vertici di bloccare l’acquisizione dei video. Il gip: “Ecco perché tutti sapevano tutto”. E il provveditore Fullone spera: “Noi teniamoci fuori”. «Pagheremo tutti. Chiuderanno Santa Maria». Quattro parole. Frammenti che sembrano resa e confessione. Espressioni su cui punterà molto l’accusa. Ma un fatto è certo: il gruppo di dirigenti e comandanti aveva messo in campo «ogni sforzo» per ostacolare le indagini sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Foto di “strumenti” di minaccia realizzate ad arte nelle celle dei detenuti, per addebitargli intenti aggressivi e giustificare così le violenze di massa.

“Fermarono i colloqui per non far vedere i segni dei pestaggi”. Dopo il via libera dell'autorità giudiziaria è arrivata anche la firma all' l'ispezione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che partirà nei prossimi giorni. Il Dubbio il 2 luglio 2021. Dopo il via libera dell’autorità giudiziaria è arrivata anche la firma all’ l’ispezione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che partirà nei prossimi giorni. A capo della commissione ispettiva, è stato indicato il direttore generale detenuti e trattamento, Gianfranco De Gesù. Un fatto eccezionale perché solitamente la commissione ispettiva è composta da personale territoriale e un segnale della volontà del Dap di seguire in via diretta a livello centrale le attività ispettive. Il direttore generale riferisce infatti solo ai vertici del Dap. E intanto emergono nuovi particolari raccapriccianti sui pestaggi ai detenuti: “Dobbiamo ancora temporeggiare qualche giorno così non avranno più segni”, è una delle frasi estrapolata da una chat tra agenti, riportata nell’ordinanza del gip nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte violenze. Per l’accusa, ai detenuti sarebbe stata negata la possibilità di usufruire di visite e cure mediche dopo la perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020. “Si volevano far refertare”, “Non far scendere i detenuti in infermeria è stata una mia decisione”, “Ho dovuto bloccare i colleghi”, “Non abbiamo fatto refertare nessuno”, “Ma è ovvio che non devono farsi refertare”, sono alcune delle dichiarazioni che gli inquirenti avrebbero estrapolato dalle chat intercorse fra gli indagati.

Federico Marconi e Nello Trocchia per “Domani” il 2 luglio 2021. C’è un lato ancora più oscuro di quelli già noti nella storia del pestaggio dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenuto il 6 aprile 2020: i detenuti avevano bastoni, olio bollente, e oggetti per offendere gli agenti della polizia penitenziaria? Li avevano usati durante le proteste del giorno prima? Domani aveva posto la questione lo scorso ottobre sollevando dubbi e ipotizzando un possibile depistaggio, ma la direzione del carcere e le forze dell’ordine avevano confermato la presenza degli strumenti d’offesa. Dalle chat dei “registi” della «orribile mattanza», invece, emerge che non c’erano né bastoni e né olio. Di olio parlava anche un’interrogazione parlamentare, presentata da 15 deputati di Fratelli d’Italia, nel giugno 2020. Ma ora l’indagine della magistratura chiarisce che quello degli indagati, gli agenti e i vertici della penitenziaria di Santa Maria, il provveditore regionale Antonio Fullone, è stato un «deprecabile depistaggio». I “registi” della spedizione punitiva sono accusati di aver depistato le indagini, con fotografie «oggetto di manipolazione informatica» per «creare ulteriori elementi calunniatori nei confronti dei detenuti» denunciati per le proteste nel carcere. Dopo le proteste del 5 aprile e la “perquisizione straordinaria” del giorno dopo, gli indagati scrivono: «per ristabilire l’ordine e la sicurezza del reparto, è stato necessario bonificare la totalità delle celle, nelle quali sono stati rinvenuti oggetti di fattura rudimentale atti a offendere: pentole colme di liquidi bollenti, accumuli di bombolette di gas pronte per essere lanciate, spranghe di ferro ecc...». Ma questo materiale non c’era e bisogna “fabbricarlo”. «Con discrezione e con qualcuno fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro… In qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino su fornellino anche con acqua», scrive Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del reparto Nilo, a un collega. Sulle foto poi hanno cercato anche di modificare le date, per far vedere che non erano state scattate l’8 aprile ma il 6 aprile, giorno della “mattanza”. Costanzo è finita ai domiciliari, considerata tra le registe della mattanza. Le foto vengono scattate l’8 aprile all’interno di una cella, sfruttando l’assenza dei detenuti e ritraggono «pentole e padelle poste su fornelli, contenenti olio o liquidi giallastri». A che serviva questa macchinazione? Lo scrive il giudice Enea: «Il tutto serviva ad accreditare la tesi secondo cui le lesioni subite dai detenuti fossero causate dalla necessità di vincere la loro resistenza, imputando la detenzione al giorno 6 aprile, a sostegno della falsa relazione redatta da Colucci in data 8 aprile». Relazione che veniva falsificata datandola “6 aprile”. Pasquale Colucci, comandante del gruppo di supporto agli interventi, è finito ai domiciliari. «Abbiamo fatto delle foto eccellenti. Ma il comandante ci ha stoppati… ha detto di non esagerare», è la risposta inviata alla Costanzo che insiste: «fatene giusto qualcuna». La risposta non lascia spazio a equivoci: «Il comandante poi ha aggiunto chi ha esagerato deve assumersi la responsabilità...». Un altro agente manda poi un audio a Costanzo. «Per quanto riguarda l’altra questione abbiamo fatto l’inventario di tutto quello era stato rinvenuto soprattutto terza e quinta sezione durante l’operazione e il buon Zampella con Gennaro ha fatto l’inventario tra tutti gli arnesi e pentolame e roba varia quello che era diciamo più potenzialmente pericolo oppure destinato all’offesa è stato inventariato con una decina di bastoni e altre pezzi di ferro ricavati mi pare sia dai tavolini che dal ping pong...». Nelle chat degli indagati non ci sono solo i riscontri al depistaggio, ma anche l’organizzazione della mattanza. «Mariella scusami, la situazione non si sblocca e allora l’unica scelta è quella di usare la forza. Tecnicamente è il direttore che impartisce l’ordine. Ovviamente puoi fare riferimento che viene dato di intesa con me». È la sera del 5 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è ancora in corso la protesta dei detenuti, per la paura del contagio da Covid-19. Una protesta in cui nessun atto violento è stato compiuto nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria. Alle 22.25 Antonio Fullone, provveditore delle carceri della regione Campania, anche lui considerato dall’accusa uno dei “registi” (ora interdetto dal giudice), invia questo messaggio a Maria Parenti (non indagata), vicedirettore e in quel momento reggente del carcere. Le dice che non c’è altra alternativa all’uso della forza per sedare la protesta, che invece termina grazie al dialogo. Un’ora e mezza dopo, Parenti scrive al provveditore che la «protesta [è] rientrata». Le chat aiutano a ricostruire ogni fase preparatoria della “perquisizione straordinaria”. «Se vengo però interveniamo», scrive Pasquale Colucci a Manganelli, entrambi oggi sono ai domiciliari. Alle 12.36, in una chat della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere – composta da circa 110 persone – si dà appuntamento a tutti: «Entro le 15.30 in tuta operativa tutti in istituto. Si deve chiudere il Reparto Nilo (il reparto del carcere in cui sono presenti prevalentemente detenuti con problemi psicologici o di tossicodipendenza, ndr) x sempre, u tiemp re buone azioni e fernut. W la polizia penitenziaria». Si passa alle maniere forti. Alcuni rispondono soddisfatti. Poco dopo le 13.30 però «non vi è alcuna rivolta» e «tutti i detenuti sono rientrati dai passeggi (nelle celle, ndr)», scrive Manganelli a Fullone. Non cambia nulla, la spedizione punitiva si farà lo stesso. «quattro ore di inferno… per loro», scriverà in serata a un collega il commissario Colucci.

Santa Maria Capua Vetere, falsificati video, foto e relazioni per coprire la mattanza. Dal 7 aprile 2020, all’indomani dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, diversi ufficiali e agenti della polizia penitenziaria hanno redatto e inoltrato una informativa di reato nei confronti di 14 detenuti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1luglio 2021. Già a partire dal 7 aprile 2020, all’indomani dei pestaggi sistematici nei confronti dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, diversi ufficiali e agenti della polizia penitenziaria hanno redatto e inoltrato una informativa di reato nei confronti di 14 detenuti, falsamente rappresentando la necessità, durante la perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020 nella sezione “Nilo”, di aver dovuto operare un contenimento attivo delle persone denunciate.

Foto false del rinvenimento di un arsenale. In sostanza hanno voluto far credere che gli agenti si sono dovuti difendere dalle violenze dei detenuti. Nulla di più falso secondo la procura sammaritana. Ma a questo si aggiunge un altro depistaggio. Accade che gli agenti penitenziari coinvolti nel pestaggio, hanno predisposto delle foto che rappresentavano falsamente il rinvenimento di un arsenale di strumenti atti ad offendere (eccedente di gran lunga quello poi oggetto di sequestro del 8 aprile), nonché di olio e liquidi bollenti, preparati all’interno di pentole e padelle, poste su fornelli per essere utilizzati ai danni degli Agenti di Polizia Penitenziaria.

Una messa in scena per screditare i detenuti. Fotografie queste ultime, secondo la Procura, scattate abusivamente ed artatamente all’interno di celle vuote, sfruttando l’assenza dei detenuti. Lo scopo risultava chiaro. Una messa in scena finalizzata ad accreditare la tesi secondo cui le lesioni subite dai detenuti fossero causate dalla necessità di vincere la loro resistenza. Tali foto sono state inviate attraverso whatsapp ed acquisite a seguito del sequestro degli smartphone degli indagati. Sempre secondo la procura, all’esito della ricezione, le fotografie sono state oggetto dell’alterazione della data e dell’ora di creazione in modo da renderla coerente con quanto riportato in un’altra falsa relazione redatta precedentemente dal Comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano, ritenuto uno dei principali responsabili della organizzazione della perquisizione del 6 aprile e delle conseguenti violenze, proprio afferente al rinvenimento di tali oggetti.

Spezzoni di video alterati. L’altro depistaggio sono i video, avvenuti con l’ausilio della comandante del Nucleo Investigativo regionale di Napoli. Dalle chat acquisite sugli smartphone di alcuni degli indagati, si è potuto appurare che il 9 aprile 2020, erano stati acquisiti indebitamente cinque spezzoni delle video-registrazioni operate in data 5 aprile 2020 relative alla protesta dei detenuti per barricamento: spezzoni che, secondo la Procura, erano stati alterati mediante eliminazione dell’audio e della data ed orario di creazione. Il motivo? Creare una falsa prova sulla dinamica degli eventi per tentare di giustificare, ex post, le violenze avvenute durante lo svolgimento della perquisizione del 6 aprile.

Simulata una dinamica inesistente. Dopo la manomissione di tale documentazione, gli spezzoni sono stati trasmessi dalla comandante del Nucleo Investigativo Nucleo Regionale di Napoli, facendole apparire falsamente come allegati alla precedente relazione redatta dal Comandante del Comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano, simulando dunque una dinamica totalmente inesistente. Ancora, a seguire, gli stessi spezzoni di video sarebbero stati prodotti dal Provveditore Regionale per la Campania allo scopo di giustificare le violenze avvenute nella medesima data, facendole apparire come volte a vincere la resistenza dei detenuti.

Secondo la procura redatta una falsa relazione di servizio. Secondo la Procura, per coprire la “mattanza”, sarebbero stati confezionati ulteriori falsi ideologici. In tempi postumi e prossimi al 20 aprile 2020, è stata redatta una falsa relazione di servizio datata 6 aprile 2020, con la quale venivano falsamente riferite informazioni come rese da inesistenti “fonti confidenziali”, collocate temporalmente in un momento successivo alla notte del 5 aprile ed antecedente alla perquisizione del 6 aprile pomeriggio. Tale relazione, richiesta dal Provveditore Regionale per la Campania ed allo stesso trasmessa, veniva prodotta dallo stesso per descrivere circostanze e fatti del tutto irreali, collocati temporalmente in modo da fornire una giustificazione, in tempi postumi, alla perquisizione del 6 aprile 2020 ed alle violenze consumate. Ovviamente, quest’ultimo, è un fatto tutto da dimostrare: il provveditore era conscio che quella relazione era artefatta?

I pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il racconto di un detenuto: «Ci massacrarono di botte dopo le proteste». Salvatore Quaranta, detenuto, oggi agli arresti domiciliari denunciava il 17 aprile 2020 i pestaggi. Ansa / CorriereTv il 30/6/2021. Il 17 aprile 2020, un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere denuncia per la prima volta gli orrori nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere dove i reclusi venivano fatti passare tra due ali di uomini in divisa e presi a manganellate, calci e pugni. Alcuni video testimoniano la ferocia dei pestaggi. Ecco il racconto di Salvatore Quaranta oggi agli arresti domiciliari: «Domenica 5 aprile siamo venuti a sapere che in un reparto c'era un caso di coronavirus. Temevamo di infettarci tutti, così abbiamo iniziato una protesta pacifica, con la battitura delle sbarre. Il giorno dopo, verso le 15.30, sono arrivati in reparto circa 300 agenti in assetto antisommossa, sono entrati in tutte le celle e ci hanno riempito di botte. Ad alcuni, tenendoli bloccati, hanno anche tagliato la barba. Poi ci hanno scaraventato fuori le celle, 4 alla volta, e ci hanno massacrato finche' non siamo arrivati giù, nel cortile. Poi ci hanno fatto risalire ed è ricominciato il pestaggio a ritroso: dal cortile alla cella. Ci dicevano "da oggi comandiamo noi, voi non siete più nessuno, siete la feccia della società. La notte mi sveglio all'improvviso e rivivo tutto quello che è successo». Così Salvatore Quaranta, detenuto, oggi agli arresti domiciliari, che ha denunciato di essere stato picchiato dalle forze dell'ordine all'interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

L’inchiesta. “Mi hanno ucciso di mazzate, ho ancora paura”, la testimonianza di un detenuto torturato a Santa Maria Capua Vetere. Viviana Lanza su Il Riformista il 30 Giugno 2021. «Dopo gli arresti di ieri mi sento sollevato, ma la paura ancora non passa. È trascorso ormai più di un anno e ho ancora negli occhi il ricordo nitido di quei momenti terribili», racconta uno dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere finiti, quel 6 aprile 2020, nel mirino di squadrette di agenti di polizia penitenziaria accusate di aver organizzato una spedizione punitiva contro i reclusi del reparto Nilo all’indomani dell’iniziativa di alcuni reclusi di barricarsi per alcune ore per chiedere tamponi e più misure antiCovid dopo la notizia di un detenuto risultato positivo. «Ebbi la fortuna di avere gli arresti domiciliari il 10 aprile, uscii quindi pochi giorni dopo la mattanza – ricorda – Non potevo non denunciare quello che avevo visto e subìto, ma altri compagni impauriti non lo hanno fatto. Vorrei dimenticare, ma per il momento non ci riesco. Spero che il processo arrivi presto». Il processo dovrà servire a fare realmente chiarezza su quanto accaduto all’interno del carcere sammaritano e ci si augura, a garanzia di tutti, sia degli indagati sia di chi figura come vittima, che sarà celebrato in tempi ragionevoli, senza lungaggini e intoppi. La mole di atti tuttavia è enorme, basti pensare che la richiesta di misure cautelari è contenuta in 6.140 pagine e le informative dei carabinieri che ricostruiscono i vari episodi al centro delle indagini sono racchiuse in decine e decine di faldoni, oltre 6.500 pagine. Secondo la ricostruzione della Procura, basata non solo su testimonianze di detenuti ma anche su video del circuito di sorveglianza e chat tra indagati, sarebbero oltre 130 i detenuti vittime di percosse, maltrattamenti, umiliazioni, sevizie. Perché? L’interrogativo resta ancora aperto, infatti seppure sia stato ipotizzato il legame con la protesta dei reclusi per i timori legati all’emergenza Covid non sembra esserci proporzione tra i toni della protesta di un gruppo di reclusi e l’ondata di violenza generata dagli oltre 300 agenti arrivati nel carcere casertano in tenuta antisommossa e con schemi di azione già pronti, tanto da rendere sufficiente un cenno della testa perché ognuno si mettesse in posizione in modo da formare un “corridoio umano” sotto il quale far passare i detenuti per picchiarli brutalmente lungo tutto il percorso dal reparto Nilo alla sala di socialità. Sala dove i carcerati sono stati poi costretti a stare ore in ginocchio con la faccia rivolta al muro e subire umiliazioni e pestaggi, per poi passare nuovamente sotto il tunnel umano di calci e pugni e ritornare nelle celle nel frattempo messe a soqquadro, con le scorte di cibo sparse sul pavimento e ricoperte di detersivo in modo che i detenuti non potessero più utilizzarle. «Mi hanno ucciso di mazzate, dal primo piano al seminterrato sono sceso con calci, pugni, manganellate – racconta ancora il detenuto – Sono stati momenti terribili, mai vissuti in un carcere. Con nessun poliziotto della penitenziaria ho mai vissuto una cosa del genere, con loro ho sempre avuto buoni rapporti. Quanto accaduto quel 6 aprile è stata una cosa assurda, mai vista. Ci hanno pestato per ore, facendoci spogliare e inginocchiare. Qualcuno si è fatto la pipì addosso, a qualcun altro hanno tagliato barba e capelli. E il giorno dopo ci hanno fatto stare in piedi, accanto alle brande, per non so quanto tempo». C’è anche chi è svenuto durante il pestaggio e chi lo ha subìto nonostante fosse sulla sedia a rotelle. Saranno l’inchiesta e il processo a dare verità e giustizia, a chiarire dinamiche e responsabilità. Intanto la notizia continua a destare indignazione. «Il carcere è il luogo del dolore e della sofferenza e non può mai essere spazio nel quale possono essere sospesi i diritti delle persone ristrette – afferma l’avvocato Anna Maria Ziccardi, presidente del Carcere Possibile – Per questo non c’è spazio per alcun cono d’ombra». «A noi – aggiunge – interessa ribadire il principio che uno Stato che ha a cuore la propria stessa dignità non può tollerare che le proprie carceri siano isole nelle quali si tollerino, si pratichino e si celebrino abusi e vessazioni ai danni di chi è privato della libertà. E nessuna situazione emergenziale può giustificare tolleranze o connivenze, esplicite o implicite che siano». Anche l’associazione Antigone, attraverso il presidente della sede campana Luigi Romano e il responsabile contenzioso Simona Filippi, chiede che al di là delle posizioni dei singoli indagati si faccia chiarezza «su alcune contraddizioni del sistema penitenziario, come l’esercizio della forza in contesti di reclusione, nervo scoperto del nostro ordinamento, assolvendo quella domanda di giustizia emersa in seguito alle violenze esplose in questi mesi». Invece il sindacato Uilpa della polizia penitenziaria propone di dotare gli agenti delle bodycam: «Non è più rinviabile – spiega il segretario generale Gennaro De Fazio – al fine di riprendere ogni fase operativa all’interno delle carceri».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Da leggo.it il 30 giugno 2021. Dalle dichiarazioni di Vincenzo Cacace, ex detenuto paralitico del carcere di Santa Maria Capua Vetere oggi libero per fine pena, è partita l’inchiesta della locale Procura che ha portato all'esecuzione di 52 misure cautelari nei confronti di agenti della polizia penitenziaria. Contestati dalla Procura violenze, pestaggi e torture nel corso della rivolta dei detenuti scoppiata il 6 aprile 2020 nel penitenziario campano. A testimoniare le violenze, un video pubblicato in esclusiva dal quotidiano Domani. Cacace ha raccontato a Fanpage.it: «Ho passato quasi 28 anni in carcere. Sono uscito dal carcere il 2 settembre, per fine pena». Lo choc nelle parole pronunciate dall’ex detenuto è lampante: dei tanti istituti che ha girati, spiega, non ha mai visto quanto accaduto il 6 aprile del 2020 a Santa Maria Capua Vetere. L’ha definita "orribile mattanza", quella che il gip, guardando i video agli atti dell'inchiesta della Procura locale dovrà accertare. Nel racconto, Cacace smentisce ciò che è stato riportato precedentemente, ossia che i detenuti avrebbero gettato contro la polizia penitenziaria olio bollente. Al termine della protesta il giorno successivo, il famoso 6 aprile, la polizia penitenziaria ha fatto uscire dalle rispettive celle i detenuti per compiere un gesto vile che ha segnato per sempre le loro vite. «Io sono sulla sedia a rotelle, - si legge su fanpage.it - mi sono abbassato perché non ce la facevo più, (mi colpivano ndr) in faccia, in fronte, dietro alla schiena, mi sono abbassato e martellavano. Siamo andati giù, loro per le scale io con l'ascensore. Anche nell'ascensore le percosse. Ci hanno rovinati, ci hanno portato sopra, salendo su ci hanno fatto il triplo. Un appuntato mi ha detto: Cacace non ti preoccupare perché si sono dimenticati le telecamere accese». Durante il racconto, riporta di aver perso i denti per la violenza di un colpo e di avere un problema all'occhio sinistro. Poi alza la maglia, mostrando un "buco" sul petto che racconta essere il frutto di una manganellata. E alla domanda di Fanpage.it se avesse denunciato quanto racconta, lui risponde: «Non è nel mio stile, non ho mai fatto una denuncia, né alle forze dell'ordine né a nessuno. Sono un uomo d'onore, non le faccio queste cose, non esiste. Mi dà proprio fastidio questa parola, denuncia. – e aggiunge - la devono pagare Dottorè, perché il male lo abbiamo qui dentro. Per me non erano esseri umani, quelli erano demoni Dottorè, demoni e loro erano una sola cosa».

Nello Trocchia per editorialedomani.it il 30 giugno 2021. Le immagini dell’«orribile mattanza» sembrano girate in una galera di un regime dittatoriale. Eppure sono riprese dei giorni nostri, del 6 aprile 2020, effettuate con le telecamere di sicurezza del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Durante il primo lockdown, deciso per contenere il contagio da Covid-19, in carcere non ci sono mascherine, acqua potabile, biancheria e arriva anche il virus che contagia un recluso. Lo stato risponde con un pestaggio generalizzato, con un abuso di potere. Una violenza definita «orribile mattanza» da Sergio Enea, giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza con cui ha disposto 52 misure cautelari (arresti e interdizioni) per agenti e dirigenti, incluso il provveditore regionale per le carceri della Campania. In tutto gli indagati sono 117. Domani pubblica i video inediti di questo pestaggio di massa, «premeditato», precisano nelle carte i magistrati. Una sequenza che conferma le denunce e le nostre inchieste giornalistiche sugli eventi del 6 aprile nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Quel giorno 283 agenti della polizia penitenziaria hanno partecipato alla caccia ai detenuti, una repressione furiosa, contro persone disarmate e inermi. «Li abbattiamo come vitelli», «domate il bestiame», «chiave e piccone», dicono gli agenti penitenziari nelle chat finite agli atti dell'inchiesta della procura, guidata da Maria Antonietta Troncone che ha coordinato l’indagine insieme al procuratore aggiunto Alessandro Milita (pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto). Nell’elenco degli indagati c’è anche il provveditore Antonio Fullone, raggiunto da una misura interdittiva. Sotto inchiesta, dunque, anche chi avrebbe dovuto prima controllare e poi denunciare l’uso indiscriminato della violenza. I video confermano che il 6 aprile 2020 è stata scritta una pagina nera, buia della democrazia nel nostro paese, che ricorda la «macelleria messicana» della scuola Diaz di Genova durante le manifestazioni contro il G8 del 2001. Le immagini raccontano di agenti, uomini e donne, che partecipano alla brutale aggressione. Il tutto avviene nel pomeriggio per oltre 4 ore. C’è una scena per esempio ripresa dalle telecamere di sorveglianza nell’area di socialità della prima sezione del penitenziario. I poliziotti, alcuni in tenuta antisommossa altri senza, portano dentro la stanza enorme i detenuti. Al centro c’è un biliardino, ribaltato dagli agenti, ai lati alcune sedie e un tavolo da ping pong. L’ora nella registrazione video segna le 18 e qualche minuto. Obbligano tutti i detenuti a inginocchiarsi. Hanno le mani dietro la testa e il capo appoggiato al muro. Sono disposti lungo le pareti, sono almeno in trenta. Sostano per diversi minuti. Gli agenti della penitenziaria vengono ripresi da tue telecamere di sorveglianza, immagini recuperate grazie alla prontezza dell'inchiesta giudiziaria e all’operazione dei carabinieri, immagini che dovevano sparire secondo gli auspici degli indagati. Non sono stati trovati i video di due piani di ripresa, non sono disponibili. Un pezzo di stato che indaga su un altro pezzo deviato e infetto. Segno che gli anticorpi funzionano, esempio di una magistratura e di una polizia giudiziaria, i carabinieri di Caserta, che onorano la carta costituzionale. I video riprendono la scena. Lì nella sala una volta che sono tutti in ginocchio e umiliati inizia la giostra degli schiaffi, dei colpi di manganello quando i detenuti vengono fatti alzare per uscire. Resta un solo detenuto inginocchiato al quale un agente aveva già sferrato un calcio in pancia. Continuano a picchiarlo, viene preso per i capelli, gli fanno segno di tacere mentre lui zoppica. Stremato, non riesce più a camminare. Nella seconda scena c'è una camera che inquadra un pianerottolo tra due rampe di scale. I poliziotti penitenziari, tra loro uno ha il casco, si alternano e aspettano al varco i detenuti. Pugni nello stomaco, ancora botte con il manganello e schiaffi senza alcuna ragione. Uno dei detenuti sale claudicante, azzoppato dal tiro al bersaglio. A un altro ordinano di stare a terra sulle ginocchia, di nuovo botte. In un frammento di un video c’è un detenuto in sedia a rotelle che viene colpito dal manganello di un agente. Nella terza scena viene ripreso il corridoio del reparto con le celle disposte sui lati. I poliziotti si schierano a destra e sinistra, i detenuti devono passare in mezzo. Uno degli agenti ha i guanti arancioni, si accanisce su un detenuto: sferra colpi di manganello, una, due, tre volte. Per tutti stesso destino, botte e schiaffi, obbligati a tenere lo sguardo basso, a sottomettersi. Uno dei detenuti mentre cammina riceve improvvisamente una testata da un picchiatore in divisa dotato di casco. Un altro incassa in silenzio una gomitata. In una quarta scena, al secondo piano del penitenziario, i poliziotti aspettano l’uscita dei detenuti. Il canovaccio si ripete: di nuovo testate con il casco, schiaffi, manganellate ovunque, pugni, calci. Qualche detenuto viene trascinato a terra come fosse un capo di bestiame. Uno dei picchiatori più duri è l’agente penitenziario con i guanti arancioni. In alcuni casi su un singolo detenuto si accaniscono in decine di uomini in divisa. Alla fine della mattanza sono state chiuse in isolamento 14 persone. Tra queste c’è Hakimi Lamine, che alla fine, ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva andare in isolamento e soprattutto, in quei giorni, non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia di cui soffriva. Sempre secondo la procura, per mandare i detenuti in isolamento era stata redatta una falsa informativa. Tortura, falso, depistaggio, maltrattamenti sono i reati contestati a vario titolo agli indagati, servitori violenti e infedeli dello Stato.

L’EX CAPO DEL DAP BASENTINI A FULLONE UNO DEI “REGISTI” DELLA MATTANZA NEL CARCERE CAMPANO: “HAI FATTO BENISSIMO !” Il Corriere del Giorno il 30 Giugno 2021. I fatti che stanno emergendo dimostrano esattamente il contrario e le falsità di tutte le informazioni uscite a suo tempo dal Ministero di Giustizia sull’operato della Polizia Penitenziaria, che i sindacati ed il solito Salvini stanno cercando di difendere nonostante l’evidenza dei fatti che confermano il contrario. Coinvolto il dirigente campano del DAP, Antonio Fullone, originario di Taranto, in passato direttore del carcere napoletano di Poggioreale. Con queste tre parole l’allora direttore del Dap Francesco Basentini rispondeva al provveditore delle carceri della Campania, Antonio Fullone sulla “perquisizione straordinaria” del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fullone informava il capo del Dap della “perquisizione straordinaria” ma non dei pestaggi, delle violenze e delle torture in corso, definite dal Gip di Santa Maria Capua Vetere “un’orribile mattanza”. Ecco le bugie di Stato, durante la reggenza del grillino Alfonso Bonafede alla guida del Ministero di Giustizia. Lo scorso 16 ottobre 2020 il Ministero di Giustizia , rappresentato in aula dal sottosegretario Andrea Giorgis (Governo Conte Bis) risposta a un’interrogazione parlamentare dell’ on. Pierantonio Zanettin ( Forza Italia) che evidenziava la circostanza che la “stampa nazionale sta dando ampio risalto alla notizia di un autentico pestaggio che avrebbe avuto luogo ai danni dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere; il 6 aprile 2020 circa 300 agenti del Corpo della polizia penitenziaria sarebbero entrati per una perquisizione straordinaria, finita con gravissimi pestaggi e violenze; secondo il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, esisterebbe anche un video già in possesso dell’autorità giudiziaria, che sta indagando sull’accaduto per abuso di potere e tortura : se intenda fornire chiarimenti, per quanto di competenza, con riguardo a quanto denunciato dalla stampa e quali iniziative di competenza intenda assumere per evitare il ripetersi di così gravi atti di violenza ai danni dei detenuti”. Il Ministero di via Arenula con risposta scritta scriveva che “Come il Governo ha già avuto modo di sottolineare, ed in particolare il sottosegretario on. Vittorio Ferraresi in sede di interpellanza urgente, lo scorso 16 ottobre, i fatti rappresentati dall’interrogazione formano oggetto di un’inchiesta penale aperta dalla locale Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, originata da plurime denunce presentate dal garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania, dal legale rappresentante dell’associazione Il Carcere Possibile ONLUS, dal presidente dell’associazione Antigone ONLUS, da svariati familiari di detenuti e, direttamente, da alcuni detenuti. Denunzie tutte aventi ad oggetto episodi di presunti maltrattamenti, pestaggi e violenze che i detenuti ristretti presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere avrebbero subito nel pomeriggio del 6 aprile 2020. L’inchiesta risulta tuttora in corso ed è coperta dal segreto d’indagine”. “Come ricostruito dal DAP ( all’epoca guidato da Francesco Basentini n.d.r.) e già ricordato dal sottosegretario Ferraresi, “in data 5 aprile 2020 presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, precisamente al reparto “Nilo”, immediatamente dopo la messa in onda di un servizio giornalistico che riportava la dichiarazione del garante regionale sui casi di positività riscontrati nella stessa giornata presso il reparto “Tamigi”, i detenuti allocati presso il reparto “Nilo” inscenavano una manifestazione di protesta… Gli stessi, attraverso la demolizione di numerose suppellettili e arredi dell’amministrazione (tra cui brande, tavoli e sgabelli), e non solo, si barricavano all’interno delle sezioni di allocazione, impedendo ogni accesso al personale penitenziario. Inutili sono stati i tentativi di mediazione compiuti sul posto dal comandante del reparto e dal personale ivi presente. In quelle ore il comandante, per le vie brevi, ha richiesto ausilio di risorse, avendo ricevuto minacce di ritorsione da parte dei detenuti rivoltosi qualora si fosse fatta irruzione per il doveroso ripristino dell’ordine e della sicurezza”. “L’iniziativa è apparsa pretestuosa rispetto ai fatti della giornata, che avevano visto proficuamente collaborare personale penitenziario e sanitario unitamente alle persone detenute del reparto “Tamigi”, ovvero quello interessato al citato caso di positività al COVID-19. A testimonianza dell’efficacia dell’intervento effettuato al reparto “Tamigi”, nessuna manifestazione veniva posta in essere, nonostante la legittima e comprensibile tensione. Solo in tarda serata, dopo la costante azione di dialogo, la manifestazione di protesta è rientrata progressivamente in tutte le sezioni detentive del reparto “Nilo”. Il giorno seguente, ovvero il 6 aprile 2020, è stata disposta l’esecuzione di una perquisizione straordinaria all’interno del reparto “Nilo”. Si è trattato di una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi. Tale impiego si è reso necessario, attesa la presenza nel reparto in questione di circa 300 ristretti (allocati in 84 camere di pernottamento nelle quali si doveva procedere contemporaneamente), non potendosi escludere che i disordini si estendessero in altri reparti detentivi. Nelle operazioni in questione taluni detenuti hanno opposto resistenza. Dodici, in particolare, venivano individuati e rapportati disciplinarmente. Tutti risultano essere stati sanzionati, ai sensi dell’articolo 39 dell’ordinamento penitenziario, con 15 giorni di esclusione dalle attività in comune”. “Ciò posto, quanto al versante prettamente giudiziario, risulta che, in data 11 giugno, alle ore 7,30, personale appartenente all’Arma dei Carabinieri, su disposizione della citata procura della Repubblica, ha provveduto a notificare al personale di Polizia penitenziaria e ai dirigenti in forza all’istituto atti giudiziari. Da quanto comunicato al DAP, la notifica degli atti giudiziari risulterebbe avvenuta nel viale adiacente all’istituto, ove si è proceduto altresì all’identificazione del personale civile di polizia che si accingeva a fare ingresso in carcere, alla presenza dei familiari dei detenuti e dei passanti. In tale contesto la tensione si è acuita, al punto che alcuni agenti del Corpo sono saliti sul tetto della caserma per manifestare il proprio disappunto relativamente alle modalità impiegate nell’attività sopradescritte. Ciò portava all’intervento del procuratore aggiunto della procura di Santa Maria Capua Vetere, dottor Milita, che, congiuntamente al comandante e al direttore, si è attivato al fine di far desistere il personale del Corpo da tale forma di protesta.” “La difficile situazione ha dato luogo anche a problemi di copertura dei posti di servizio, in quanto il personale si mostrava restio a iniziare regolarmente il turno di lavoro. Contemporaneamente, per lo stesso procedimento, venivano effettuate perquisizioni dei locali di sorveglianza generale, del reparto “Nilo” e dell’ufficio del commissario e del coordinatore del predetto reparto, del reparto “Danubio” e annessi uffici, dell’ufficio del comandante, dell’ufficio comando e settore P.G., dell’ufficio del vicedirettore, con perquisizione informatica di tutti i dispositivi presenti, nonché effettuava copia di tutti i relativi hard-disk e sequestro dei vari documenti cartacei“. Così continuava la risposta del Ministero di Giustizia: “Lo stesso provveditore regionale si è recato sul posto interloquendo con le autorità giudiziarie presenti, rappresentando il pieno sostegno dell’amministrazione a creare le migliori condizioni per accertare la verità dei fatti. Dopo un momento di confronto e aggiornamento con la direttrice Palmieri e i dirigenti di polizia penitenziaria Maietta e Costanzo, il provveditore ha incontrato una folta rappresentanza di personale presente in istituto. A seguito della diffusione della notizia da parte dei TG regionali e nazionali, i detenuti del reparto “Nilo” hanno messo in atto una battitura delle inferriate alle ore 9 e alle ore 19, in segno di approvazione dell’inchiesta della procura e delle dinamiche operative dei carabinieri. La situazione è rientrata nel tardo pomeriggio, alle ore 17,30 circa. Anche in giorni successivi, cioè il 12 e il 13 giugno 2020, si sono verificati gravi episodi di intolleranza alle regole intramurarie, con minacce e aggressioni anche violente agli agenti in servizio da parte di alcuni detenuti, disordini e inizio di incendio doloso alimentato dall’uso di bombolette di gas in dotazione. La nuova condizione di tensione ha determinato, nella mattinata del 13 giugno, l’arrivo in istituto del vice capo del Dipartimento. Nella tarda serata della stessa giornata, inoltre, anche il capo del Dipartimento (cioè Basentini n.d.r.) si è recato personalmente sul posto, incontrando una rappresentanza del personale ivi presente nonché recandosi anche presso l’abitazione privata dell’appartenente al corpo che era stato aggredito, ciò per dimostrare sentita vicinanza e sostegno dell’amministrazione tutta. Inoltre, unitamente al capo del Dipartimento, anche il Ministro ha avuto cura di telefonare ad altri operatori del Corpo rimasti feriti”. “Successivamente ai gravi fatti narrati, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Antonio Fullone n.d.r.) per la Campania ha proposto l’allontanamento fuori regione dei detenuti segnalati dalla direzione della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere quali promotori dei disordini, distintisi per la loro ferocia nel compimento degli atti turbativi che hanno caratterizzato la rivolta. Con separati provvedimenti, la direzione generale dei detenuti e del trattamento ha disposto l’immediato trasferimento per motivi di sicurezza di tre detenuti ascritti al circuito “Alta sicurezza” e di quattro ascritti al circuito “Media sicurezza”, con l’assicurazione, da parte dello stesso provveditore, che avrebbe provveduto a disporre l’allontanamento degli altri detenuti in “Media sicurezza” indicati sempre dalla direzione dell’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Infine, nei giorni successivi, altri venti detenuti, appartenenti al circuito dell’alta sicurezza, sono stati trasferiti dalla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ad altri istituti penitenziari. Ancora, il capo DAP e il vice capo disponevano altresì affinché il direttore del gruppo operativo mobile desse un immediato supporto operativo all’istituto in trattazione, attraverso l’impiego di personale del gruppo stesso. Di fatto, in esecuzione delle disposizioni impartite, grazie alla collaborazione fornita senza indugio dai coordinatori dei reparti operativi mobili, dal personale dei reparti territoriali della sede centrale è stato organizzato, in un brevissimo lasso di tempo, un contingente di 73 unità di Polizia penitenziaria in forza al GOM, giunto nel tardo pomeriggio della medesima giornata presso l’istituto casertano, dove il direttore del gruppo stesso era già presente da alcune ore. Il GOM ha sin da subito coadiuvato il personale del nucleo traduzioni al fine di dar corso ai trasferimenti di tre detenuti comuni cosiddetti pericolosi, ristretti nel reparto “Danubio”, in altri istituti della regione, mentre parte del contingente GOM – 19 unità – ha provveduto al rinforzo di tutti i posti di servizio nei reparti detentivi dell’istituto durante il turno notturno, compreso il reparto “Danubio” interessato dai disordini risolti nella tarda serata dello stesso giorno 13“. “Il reparto di Polizia penitenziaria dell’istituto ha sofferto una grave carenza di personale – continua la risposta del Ministero di Giustizia – assente a vario titolo, tanto che si è ritenuto necessario disporre l’implementazione dell’organico attraverso apposita procedura di interpello, adottata dalla Direzione generale del personale delle risorse, la quale ha disposto l’assegnazione, in via provvisoria, presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, di 34 unità del Corpo. Questa è la puntigliosa ricostruzione di quanto occorso, naturalmente, all’esito delle informazioni, allo stato, disponibili, anche in riferimento sia alla situazione generale richiesta dagli interpellanti, sia al primo quesito. Orbene, con riferimento agli agenti del Corpo attinti dagli avvisi di garanzia e da decreti di perquisizione, si evidenzia che, con nota 3 luglio 2020, il locale provveditore (Fullone n.d.r.) ha trasmesso al DAP l’elenco del personale del Corpo nei confronti del quale è stata data formale comunicazione dell’avvio di procedimento penale da parte della procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. E qui veniamo al secondo quesito. “Con nota 8 luglio 2020, la competente Direzione generale del personale e delle risorse ha chiesto alla direzione dell’istituto “di acquisire, presso la competente autorità giudiziaria, copia integrale degli avvisi di garanzia a carico del personale di Polizia penitenziaria coinvolto, al fine di conoscere le contestazioni provvisorie oggetto dell’atto giudiziario. In assenza di riscontro, con nota 28 settembre 2020, n. 336014, la competente Direzione generale del personale e delle risorse del DAP ha chiesto direttamente alla procura della Repubblica-tribunale di Santa Maria Capua Vetere copia integrale degli avvisi di garanzia, evidenziando che la richiesta costituisce elemento indispensabile ai fini di ogni determinazione da parte di questa amministrazione. Infatti, come sa, se un’indagine è aperta, ovviamente, il DAP o la direzione del carcere, per eventuali accertamenti, deve prima chiedere all’autorità giudiziaria l’assenso. Detta istanza è stata reiterata il 20 ottobre 2020. Anche per tale ragione, allo stato, non risulta intrapresa alcuna iniziativa, sia di natura cautelare sia disciplinare, a carico del personale coinvolto. Quanto alle videoriprese del circuito interno del carcere, oggetto di altro quesito, queste sono state oggetto di sequestro giudiziario, nell’ambito delle attività investigative per cui non si trovano più nella disponibilità dell’amministrazione penitenziaria”. “Voglio in conclusione evidenziare, per quanto possa apparire ovvio, – concludeva la nota del sottosegretario Andrea Giorgis – che il Governo e in particolare il Ministero della Giustizia sono impegnati a chiarire ogni aspetto della vicenda, in modo da contribuire ad assicurare (attraverso l’esercizio delle proprie competenze) il pieno e sostanziale rispetto delle norme di legge e di Costituzione che disciplinano l’esecuzione penale all’interno degli istituti”. I fatti che stanno emergendo dimostrano esattamente il contrario e le falsità di tutte le informazioni uscite a suo tempo dal Ministero di Giustizia sull’operato della Polizia Penitenziaria, che i sindacati ed il solito Salvini stanno cercando di difendere nonostante l’evidenza dei fatti che confermano il contrario. 

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 2 luglio 2021. Il nome di Antonio Fullone, fino all' altro giorno provveditore del Dap in Campania, compare 544 volte nella misura cautelare del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Per lui la Procura aveva chiesto gli arresti domiciliari, ma il gip ha ritenuto che ci fossero gli estremi solo per imporgli la sospensione per 8 mesi dall' esercizio dell'attività svolta. Dagli atti raccolti emerge che il suo ruolo fu determinante nella decisione della vicedirettrice del carcere (che nell' aprile 2020 faceva da reggente) di disporre la perquisizione straordinaria nel reparto Nilo. L' operazione di fatto servì per far uscire dalle celle i detenuti che il giorno precedente erano stati protagonisti di una protesta, e sottoporli a pestaggi e umiliazioni da parte del personale di polizia penitenziaria e degli agenti dal Gruppo di supporto inviati come rinforzo. Dalle chat recuperate sullo smartphone sequestrato a Fullone emerge che da un lato il funzionario interviene sulla vicedirettrice già per fare stroncare la protesta dei detenuti dicendole che «l'unica scelta è quella di usare la forza» (cosa che non avverrà perché la protesta rientra spontaneamente, ma sarà solo rimandata di poche ore) e dall' altro tiene costantemente aggiornato l'allora capo del Dap, Francesco Basentini. Mentre nel carcere sta salendo la tensione perché si è diffusa la notizia di un detenuto positivo al Covid, lui gli scrive: «Ho spostato già 100 uomini su Santa Maria». Il giorno dopo, quando il capo del Gruppo di supporto, che è alle dirette dipendenze del provveditore, lo informa della delusione degli agenti di Santa Maria che avrebbero preferito intervenire durante la protesta, e lui decide quindi per la perquisizione straordinaria, avverte ancora Basentini: «Era il minimo per riprendersi l'istituto. Il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così», gli scrive. «Hai fatto benissimo», è la risposta. Nell' immediatezza della perquisizione straordinaria, Fullone è in contatto con il comandante di Santa Maria. Che lo avverte: «Utilizziamo anche scudi e manganelli». E lui approva, ma con prudenza: «Ok se necessario ovviamente». Nei giorni successivi ai pestaggi, quando, secondo gli inquirenti, alcuni degli indagati tentano di far sparire le registrazioni del circuito di videosorveglianza, il capo del Gruppo di supporto scrive a Fulloni: «Vado a Smcv. Per video». E poi: «Sono sul posto, ho raccolto tutto». «Ottimo», commenta il provveditore. Il 10 luglio 2020 i pm titolari delle indagini lo interrogano. Fullone ammette di aver deciso la perquisizione straordinaria e rivendica di aver agito legittimamente perché in presenza di «specifiche situazioni emergenziali». Ma dice di aver saputo dei pestaggi solo quando ne hanno parlato i media: «Nessuno mi ha mai informato, tra le persone che avevano operato in concreto, del fatto che ci fossero state violenze ai danni di detenuti». E quando gli chiedono se dalle immagini registrate saprebbe riconoscere i poliziotti picchiatori, risponde: «Sono chiaramente disponibile per ogni contributo utile». Quindi gli fanno vedere tre video. E per tre volte dice: «Non riconosco nessuno».

Cartabia interviene sui fatti di Santa Maria Capua Vetere: «Un’offesa ai detenuti e alla divisa». La Guardasigilli dopo le violenze in carcere: «Ho chiesto un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull'intera catena di responsabilità». Il Dubbio il 30 giugno 2021. La risposta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dopo la pubblicazione del video in cui si vedono alcuni agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Santa Mara Capua Vetere picchiare diversi detenuti, è arrivata forte e chiara e non lascia spazio ad altre interpretazioni. «Si tratta di un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della Polizia Penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere», ha dichiarato Cartabia. Fatti salvi gli ulteriori accertamenti dell’autorità giudiziaria e tutte le garanzie per gli indagati la ministra ha parlato di «un tradimento della Costituzione», perché «l’art.27 esplicitamente richiama il “senso di umanità”, che deve connotare ogni momento di vita in ogni istituto penitenziario». Non solo. L’ex presidente della Corte Costituzionale parla di «tradimento» anche in riferimento «all’alta funzione assegnata al Corpo di Polizia Penitenziaria, sempre in prima fila nella fondamentale missione, svolta ogni giorno con dedizione da migliaia di agenti, di contribuire alla rieducazione del condannato». La ministra ha spiegato che «di fronte a fatti di una tale gravità non basta una condanna a parole ma occorre attivarsi per comprenderne e rimuoverne le cause e perché fatti così non si ripetano». Per questo, aggiunge la Guardasigilli, «ho chiesto un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità su una vicenda che ci auguriamo isolata ma che richiede una verifica a più ampio raggio, in sinergia con il Capo del Dap, con il Garante nazionale delle persone private della libertà e con tutte le articolazioni istituzionali, specie dopo quest’ultimo difficilissimo anno, vissuto negli istituti penitenziari con un altissimo livello di tensione». Infine, un richiamo al senso di umanità che le carceri richiedono, perché, come scrive Dostojievski, “da esse si misura il grado di civiltà di una Nazione”. «Oltre quegli alti muri di cinta delle carceri c’è un pezzo della nostra Repubblica, dove la persona è persona, e dove i diritti costituzionali non possono essere calpestati – conclude la ministra – e questo a tutela anche delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, che sono i primi ad essere sconcertati dai fatti accaduti».

Le colpe di Bonafede per il pestaggio in cella "Il ministero sapeva". Gian Micalessin il 2 Luglio 2021 su Il Giornale. L'azione punitiva da ricondurre al Dap di Basentini, fedelissimo dell'ex Guardasigilli. «Prima di mettere in croce gli agenti di polizia penitenziaria bisognerebbe interrogarsi sulle responsabilità politiche del ministro Alfonso Bonafede. Pur sapendo quanto era successo a Santa Maria Capua Vetere il ministro è rimasto stranamente silente su questa vicenda per tutto il mandato. Eppure per risolverla bastava una sua visita al carcere, seguita dalla punizione dei responsabili e dalla denuncia alla magistratura. Anche perché i fatti erano in parte già noti. Mancavano i filmati, ma il resto si sapeva. C'è da chiedersi perché il ministro abbia deciso di non agire innescando un'inchiesta e una diffusione di filmati devastante non solo per la Polizia Penitenziaria, ma per l'immagine dell'Italia nel mondo». La domanda non arriva da Matteo Salvini che ieri è stato il primo a tirar in ballo l'ex ministro di Giustizia Alfonso Bonafede per la vicenda delle violenze sui detenuti del Reparto Nilo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A proporre il quesito, invitando a darsi delle risposte, è una fonte del Giornale ai vertici del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. La gravissima e prolungata inerzia del ministro grillino solleva infatti interrogativi inquietanti. Il principale riguarda l'identità di chi ai vertici del Dap o del Ministero di Giustizia, ha al tempo autorizzato l'azione punitiva. «Quell'incursione non è avvenuta per decisione del capo reparto di polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, né del direttore del carcere che in quei giorni non c'era. Il raid è stato deciso ed eseguito racimolando un gruppetto di agenti nei vari istituti della regione aggregandoli in un fantomatico Nucleo Operativo d'Intervento creato a livello regionale» - racconta al Giornale Daniela Caputo, segretario di Dir PolPen, il sindacato dei funzionari di Polizia Penitenziaria. Ma a quel punto c'è da chiedersi se il vero decisore sia soltanto l' «indagato» Antonio Fullone, al tempo responsabile del Provveditorato del Dap in Campania. Il via libera al fantomatico «Nucleo Operativo» potrebbe esser stato preceduto da consultazioni con Francesco Basentini, il Direttore del Dap, fedelissimo di Bonafede, dimessosi il primo maggio 2020 in seguito allo scandalo sugli arresti domiciliari concessi ai boss mafiosi per l'emergenza Covid. Di certo stando al procuratore Maria Antonietta Troncone, responsabile dell'inchiesta sulle violenze, Basentini rispose con un «hai fatto benissimo» ad un Fullone che lo informava di avere disposto la «perquisizione straordinaria» del 6 aprile 2020. Resta da chiedersi se, oltre all'informativa a posteriori, vi sia stata un'autorizzazione preventiva concordata da Fullone e dal Direttore del Dap. Un'intesa preventiva con i vertici del Ministero e del Dap spiegherebbe l'atteggiamento «stranamente silente» di Bonafede sulla vicenda. Pur di coprire se stesso e il fido Basentini il ministro a 5 Stelle avrebbe messo la sordina ad una vicenda che poteva venir risolta con una serie di duri provvedimenti interni seguiti da una collaborazione con la magistratura. Una vicenda che, per come viene raccontata ora, sembra, invece, figlia esclusiva della ferocia e della voglia di vendetta di un gruppo di spregiudicati secondini. L'ipotesi di una responsabilità diretta dell'ex ministro grillino è stata ventilata ieri da Matteo Salvini. «Il ministro era Bonafede, chiedete cosa è successo a lui... il ministro venne il Aula a dirci che era tutto sotto controllo... evidentemente non era così» - ha detto il capo della Lega prima di raggiungere Santa Maria Capua Vetere ed incontrare la Direttrice e gli agenti del carcere. «Sono qui a ricordare che chi sbaglia paga, soprattutto se indossa una divisa. Questo però - ha detto Salvini al termine della visita - non vuol dire infangare e mettere a rischio la vita di 40mila appartenenti alla polizia penitenziaria».

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla...

Estratto dell’articolo di Alessandro di Matteo e Antonio E. Piedimonte per "la Stampa" l'1 luglio 2021. Resta solo Matteo Salvini a parlare di «singoli errori da punire», la pubblicazione dei video dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere scatena un'ondata di richieste di chiarimenti al governo e anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia interviene con parole di rara durezza. Quello che è accaduto e che si vede nei filmati pubblicati da "Domani", spiega la Cartabia, è «un'offesa e un oltraggio alla dignità della persona», un «tradimento della Costituzione» e «di fronte a fatti di una tale gravità non basta una condanna a parole. Occorre attivarsi per comprenderne e rimuoverne le cause. Occorre attivarsi perché fatti così non si ripetano». (…) E' il segretario Pd Enrico Letta il primo ad alzare i toni sulla vicenda: «Immagini gravissime su cui la magistratura farà piena luce. La legge vale per tutti e in Italia vige lo stato di diritto. Abusi così intollerabili non possono avere cittadinanza nel nostro Paese. A maggior ragione gravi perché ascrivibili a chi deve servire lo Stato con lealtà e onore». (...) Restano in silenzio i 5 stelle, come pure Fi e FdI. Dal partito di Giorgia Meloni si fa sentire solo a fine giornata Edmondo Cirielli, per replicare alla Cartabia: «Un oltraggio sono le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti e a lavorare i poliziotti penitenziari nelle carceri italiane. Il ministro Cartabia vada a farsi una passeggiata nelle prigioni, anziché sentenziare e svillaneggiare».

Alfonso Bonafede e la mattanza dei poliziotti in carcere: "Fatto benissimo". Spunta questa chat: M5s in grave imbarazzo. Libero Quotidiano il 02 luglio 2021. Emergono nuovi dettagli sulla mattanza all'interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. A quanto pare, infatti, il direttore delle carceri Francesco Basentini, l'uomo scelto da Alfonso Bonafede per guidare il Dap, avrebbe saputo tutto ben prima delle violenze. Come scrive il Corriere della Sera, sarebbe stato informato da Antonio Fullone, ex provveditore del Dap in Campania, ora sospeso per 8 mesi dall’esercizio. Dagli atti viene fuori che il ruolo di Fullone sarebbe stato determinante nella decisione della vicedirettrice del carcere (che all'epoca dei fatti - aprile 2020 - faceva da reggente) di disporre la perquisizione straordinaria nel reparto Nilo. L’operazione sarebbe servita a far uscire dalle celle i detenuti che il giorno precedente avevano protestato per la situazione Covid e sottoporli a pestaggi da parte del personale di polizia penitenziaria e degli agenti dal Gruppo di supporto inviati come rinforzo. Dalle chat recuperate sul cellulare sequestrato a Fullone emerge che da un lato il funzionario avrebbe esortato la vicedirettrice a mettere fine alle proteste dicendole: "L’unica scelta è quella di usare la forza" (cosa che non successe perché la protesta poi rientrò spontaneamente) e che dall’altro avrebbe tenuto sempre aggiornato l’allora capo del Dap, Francesco Basentini. Il giorno dopo, quando il capo del Gruppo di supporto, che è alle dirette dipendenze del provveditore, lo informa della delusione degli agenti di Santa Maria che avrebbero preferito intervenire durante la protesta, lui decide per la perquisizione straordinaria e avverte ancora Basentini: "Era il minimo per riprendersi l’istituto. Il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così", gli scrive. "Hai fatto benissimo", risponde l'altro.

Fabio Poletti per "la Stampa" l'1 luglio 2021. Una telefonata a casa a settimana, quando va bene. Queste, che arrivano dal carcere lager di Santa Maria Capua Vetere, sono la testimonianza in presa diretta del massacro perpetrato da 300 agenti di Polizia penitenziaria contro un pugno di detenuti. Chiede una moglie in ansia e assai spaventata: «Amo' che è successo ieri? Ho letto n' coppa a Internet che è successo nu burdello. Tengo il cuore a tremila». Risponde il marito detenuto, senza nemmeno la forza di sminuire per tranquillizzare: «Amo' che aggio a dirti. Ci hanno accis a mazzate». La storia di sempre, da Cairo Montenotte a San Vittore, da Trani all' Ucciardone, da Bad' e Carrus all' Asinara. Legge e manganello sono a volte la stessa cosa. Certo poi ci sono le inchieste. Gli atti giudiziari. Ma niente, oltre ai filmati della mattanza, rende quello che è successo come questo elenco di file audio che il Garante Regionale dei Detenuti della Campania Samuele Ciambriello, ha inviato alla Procura della Repubblica che ha poi portato alle 52 misure cautelari tra agenti e dirigenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Non si conoscono i nomi dei detenuti, né i reati che li hanno portati in carcere. Sarebbe più importante sapere i nomi di quei 52 agenti, che il 6 aprile dell'anno scorso fecero il massacro con pugni, manganelli, sputi e insulti. Chi è fuori, i familiari, ha all' inizio notizie frammentarie. Cosa che fa solo aumentare la pena. Piange al telefono una donna che non sembra più giovanissima: «Pensavo t' avessero acciso, o' giuro». Un' altra moglie chiede perché gli agenti si accanirono sui detenuti, usando i rasoi di sicurezza personali presi dalle celle e tagliando a tutti barba e baffi, a secco senza sapone per fare ancora più male, in segno di ulteriore disprezzo. La risposta che arriva dall' altra parte della cornetta, è piena di dolore, dolore fisico ma pure di un'umiliazione cocente. «Non sacciu niente. Dagli occhi non ci vedo più, sono gonfi. Ho la schiena massacrata. Tutti quanti massacrati. Tutti». Un altro al telefono con la moglie le chiede aiuto: «Ca' è successo nu' burdello. Ci hanno colpito tutti quanti. Chiama l'avvocato». Agli avvocati arrivano i primi referti medici, i racconti di mogli e fidanzate spaventate. Poi gli audio delle telefonate, dove basta un tono di voce per capire cosa deve essere successo, quel giorno di aprile. Ci sono detenuti contagiati dal Covid-19. La protesta per avere tamponi, mascherine, tutele sanitari, da chi è rinchiuso in cella, si fanno sempre più forti. Si fanno le battiture contro le inferriate delle celle. Si usano pentole e tegami. Poi, come sempre, arriva la risposta dello Stato, con la divisa blu e i manganelli. Gli agenti hanno i passamontagna per non farsi riconoscere. La mascherina per proteggersi dal virus e mica solo da quello. «C' hann accis. Song venut dint 'e cell a quatt, cinque. E casc blu». L' Onu non c' entra. Blu sono caschi e baschi della Penitenziaria. Si lamenta un detenuto: «So trasut ch' e manganiell, hann arruvuttate tutt cose e c' hammo menato pè senza niente». Spiega un altro: «Ci hanno rasato i capelli a zero, ci hanno tolto pure la barba. Ma dopo che ci avevano scassat a' capa cu 'e manganielle. Nun putimm fa chiù videochiamate, sulo telefonate perché stamme tutti rutti». Qualche detenuto esce in permesso. Uno, coraggioso, col passamontagna per non farsi riconoscere dagli agenti e per paura di ritorsioni, racconta le botte ricevute e mostra i segni delle manganellate sulla schiena: «Erano travisati con scudi e manganelli, entravano tre o quattro agenti per ogni cella e ci riempivano di botte. In corridoio ci aspettavano con i manganelli. Uno alla volta ci buttavano fuori dalle celle e ci facevano passare tra gli agenti in fila con i manganelli, dal secondo piano giù fino a piano terra. Ci dicevano: "Qui dentro comandiamo noi Voi non siete nessuno Siete della monnezza". Avevo tutto il sangue in bocca. Non so nemmeno come ho fatto ad alzarmi dal letto. Alla sera l'infermiera ci dava gli antidolorifici di nascosto. È stata una cosa selvaggia. Nemmeno gli animali si trattano così».

Estratto dell’articolo di F.B. per il "Corriere della Sera" l'1 luglio 2021. (…) «Mi hanno denudato affermando di cercare droga e telefonini - racconta un recluso al magistrato -. Io possedevo un micro telefono che ho estratto dalle mie parti intime e l'ho consegnato agli agenti penitenziari. (…) Ricordo che mi hanno fatto inginocchiare e hanno utilizzato uno dei manganelli in loro possesso per effettuare una ispezione delle mie parti intime. (…) Nella cella, invece, sono stato semplicemente denudato e picchiato con manganellate, anche alla testa, schiaffi, pugni e calci». Anche altri detenuti raccontano di essere stati costretti a spogliarsi. Uno ricorda quei momenti: «Dicevano "muoviti, abbassati, abbassati le mutande", e mi passavano il metaldetector sotto le parti intime. "Va bene, non tiene niente, vestiti e salitene sopra". "Mi posso vestire per piacere?" dissi io, "No, no, ti devi vestire sopra", "Com' è? Me ne devo andare nudo in mezzo alle scale?". Cioè io tengo 43 anni». (…) Un altro racconta: «Mi tenevano, cioè mi strozzavano e mi arrivava di tutto da dietro. Dicevano: "Volevi fare il guappo, volevi fare? Volevi fare il boss?" e mi abbuffavano di mazzate». Il percorso dalle celle alla sala della socialità, dove molti detenuti furono portati durante le perquisizioni, fu per tutti un calvario. Eccone una ricostruzione: «Mi dicevano: "Abbassa la testa a terra e metti le mani dietro", e nel tragitto vedevo le macchie di sangue a terra».

Pestaggi in carcere: stai con gli agenti o con i delinquenti? Mario Furlan il 2 luglio 2021 su Il Giornale. Carcere di Santa Maria Capua Vetere: un’immagine del pestaggio di alcuni detenuti da parte della polizia penitenziaria. Il titolo di questo articolo è fuorviante. E’ profondamente sbagliato. L’ho letto su un social, e l’ho voluto riportare qui. Per farci riflettere, caro lettore, su come – e quanto – ragioniamo sull’onda di scariche emotive. Non con il cervello, ma con la pancia. O con altre parti del corpo, che stanno ancora più in basso. Davanti ad una domanda così – stai con gli agenti o con i delinquenti, con i servitori dello Stato che ci proteggono o con i criminali che ci ammazzano – chi potrebbe mai rispondere che sta con i secondi? E’ una falsa alternativa. Ed è anche fasulla. E manichea. Perché parte dal presupposto che sia tutto o bianco o nero. Che tutto il bene stia da una parte, e tutto il male dall’altro. Tutto. Al 100%. Il 99% non esiste. Non so a te, ma a me i video e le immagini dei brutali pestaggi, e delle vergognose umiliazioni, di cui sono stati vittima i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere fanno accapponare la pelle. Perché sono un losco nemico della polizia penitenziaria, e quindi delle forze dell’ordine, e quindi dello Stato, e quindi dell’intera collettività, come la domanda iniziale potrebbe presupporre? Evidentemente no. Sono il primo amico, fan, tifoso sfegatato delle forze dell’ordine. Non smetterò mai di ringraziarle, non le ringrazierò mai abbastanza. E proprio per questo mi offende sapere che qualcuno infanga la gloriosa divisa che porta. Che lo faccia oggi nel penitenziario campano, o che l’abbia fatto 20 anni fa a Genova, nella scuola Diaz o a Bolzaneto. Chi sbaglia deve pagare. E nel caso in questione i primi a pretendere che i violenti paghino, e che paghino fino in fondo, sono proprio coloro che amano la polizia. Se un vestito cui tieni ha una macchia, farai di tutto per lavarla. E appena possibile. Se invece fingi di non averla significa che a quel vestito non ci tieni. Per questo non condivido quei leader politici che fanno intuire che compiere indagini sugli agenti violenti – alcune decine su 40mila guardie penitenziarie in Italia – significa screditare l’intera categoria. Ma quando mai? Significa, al contrario, tutelarla. Togliendo le mele marce. Il genitore che ama il figlio lo richiama quando sbaglia. Il leader che ama i propri collaboratori li corregge quando compiono un errore. E lo stesso deve fare lo Stato quando chi lo rappresenta non si dimostra all’altezza. Perché è un gesto d’amore.

Via i violenti. La legge deve valere per tutti. Fausto Biloslavo il 2 Luglio 2021 su Il Giornale. Il tunnel delle manganellate con due ali di agenti che bastonano ripetutamente i detenuti come nelle peggiori galere dei regimi totalitari. I l tunnel delle manganellate con due ali di agenti che bastonano ripetutamente i detenuti come nelle peggiori galere dei regimi totalitari. Il carcerato sulla sedia a rotelle pure lui preso a sberle, ispezioni nelle parti intime in stile Abu Ghraib, insulti gratuiti e barbe rasate a forza in una situazione fuori controllo. Non siamo un paese del terzo mondo, dove la violenza dietro le sbarre è normale. La legge deve valere per tutti, a cominciare dagli uomini in divisa, se abusano del loro potere e non si distinguono più dai metodi dei delinquenti. Le violenze filmate nei padiglioni Nilo e Tamigi del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono inaccettabili. Anche se il giorno prima i detenuti hanno fatto quello che volevano e la criminalità organizzata sfruttava la paura del covid con una rivolta in 20 istituti di pena sparsi per l'Italia che ha provocato evasioni, violenze e danni per 40 milioni di euro. Le mele marce vanno punite e se necessario estirpate, ma adesso che non cominci la caccia al basco blu della polizia penitenziaria. Magari allargando il tiro agli altri servitori dello Stato dipingendo un bersaglio su ogni divisa. In luglio si avvicina il ventesimo anniversario della morte di Carlo Giuliani, che rischia di diventare il pretesto per dare addosso all'uniforme dei carabinieri. Sui filmati shock della casa circondariale «Francesco Uccella», Donato Capece, segretario del Sappe, principale sindacato degli agenti di custodia, non ha peli sulla lingua: «Non è quella la polizia penitenziaria, le violenze gratuite sono inaccettabili. Non abbiamo ancora capito come sia potuto accadere, mi si accappona la pelle». Per questo non bisogna fare di tutta l'erba un fascio. I baschi azzurri in servizio sono 37mila, quando il numero minimo previsto è di oltre 41mila. Un problema nel problema del sovraffollamento delle carceri, che non ha mai avuto la giusta attenzione dei governi. E quelli di sinistra sono sempre stati più attenti ai detenuti che alle guardie. Un agente di polizia penitenziaria ha una paga di 1300 euro al mese e per arrotondare o per mancanza di personale è costretto a turni pazzeschi. In alcune carceri si è arrivati ad un sotto organico del 50%. Per non parlare delle ripetute aggressioni, insulti, minacce, sputi soprattutto dagli stranieri che si credono impuniti anche se dietro le sbarre. Il pianeta carcere, la bomba carcere, è un buco nero che la società esterna e pure la politica, a parte i radicali, non vuole vedere preferendo nascondere le porcherie sotto il tappeto.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. N

I fatti di Santa Maria Capua Vetere. Mattanza in carcere tra silenzi e omissioni e l’opinione pubblica non riesce a indignarsi. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 2 Luglio 2021. Essere garantisti significa accettare le regole della convivenza civile e battersi affinché esse vengano rispettate da tutti e applicate nei confronti di tutti. Ragion per cui il principio di non colpevolezza, sancito dalla nostra Costituzione, va osservato anche in relazione gli agenti della polizia e ai funzionari dell’amministrazione penitenziaria coinvolti nell’inchiesta sui pestaggi all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Tutti gli indagati, dunque, sono e restano innocenti fino all’eventuale condanna definitiva. Tuttavia, se è vero che le responsabilità individuali dovranno essere accertate dalla magistratura, è altrettanto vero che nel penitenziario casertano un reato è stato commesso. E si tratta di un reato particolarmente odioso perché perpetrato da chi esercita il potere, peraltro con violenza inaudita e nei confronti di soggetti non in grado di difendersi. Ciò dovrebbe bastare a scatenare l’indignazione dell’opinione pubblica e, soprattutto, di quei rappresentanti delle istituzioni che sono chiamati a incarnare e difendere ogni giorno i valori alla base della nostra comunità. Invece, al netto di qualche esternazione più o meno coraggiosa, solo silenzio. Al sindaco di Napoli Luigi de Magistris, nei confronti del quale il Riformista raramente si è mostrato tenero, stavolta va riconosciuto il merito di aver preso posizione su quella che il gip di Santa Maria Capua Vetere non ha esitato a bollare come mattanza: «Si ripropone con forza la questione carceraria, cioè di carceri ancora non all’altezza di uno Stato democratico. Trovo inaudito, inqualificabile e inaccettabile che ci siano episodi di violenza nei confronti di persone indifese». Silenzio, invece, da parte del presidente campano Vincenzo De Luca che, poco meno di tre mesi fa, annunciò in pompa magna l’inizio dei lavori per collegare il carcere di Santa Maria Capua Vetere alla rete idrica dopo quasi 25 anni di attesa. Non si è pronunciato nemmeno don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli che ha inaugurato il proprio ministero pastorale visitando le carceri e dal ci si aspettano parole coraggiose anche sulle sevizie cui i detenuti di Santa Maria Capua Vetere sono stati sottoposti ad aprile 2020. Per non parlare di esponenti politici, movimenti civici e associazioni sempre pronti a prendere posizione sui temi più disparati, ma indifferenti davanti a tragedie come quella degli innocenti ingiustamente arrestati e a quella dei detenuti selvaggiamente picchiati. Dalla lettura dell’ordinanza cautelare spiccata dal gip, infatti, emerge non solo la violenza ma soprattutto la “perfetta organizzazione” con cui qualcuno intende mantenere l’ordine all’interno dei penitenziari. Il che è indice di una “dottrina della repressione” secondo la quale il carcere non può essere governato se non col pugno di ferro, pazienza se le norme costituzionali vengono calpestate. Ci troviamo davanti a retaggi di una cultura arcaica e violenta che non riesce a tenere il passo della sempre più rapida evoluzione dei diritti. E questo è un ulteriore paradosso dei drammatici fatti di Santa Maria Capua Vetere: la discrepanza tra le crescenti rivendicazioni di diritti, soprattutto quelli civili, e la pressoché generale indifferenza davanti alla violenza usata da chi detiene il potere nei confronti dei deboli. Una vergogna nella vergogna contro la quale tutti dovrebbero scendere in campo.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 2 luglio 2021. Noi, nelle cronache, non possiamo fare il nome dei bambini, delle vittime di violenza sessuale e dei magistrati sottoposti a indagini disciplinari; e già qualcuno pare di troppo. Non è il caso di aggiungere anche gli agenti della polizia penitenziaria, come qualcuno ha invocato a margine di un'inchiesta e di immagini - quelle dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - che lasciano poco spazio all'immaginazione. Magari ecco, sul piano politico potremmo evitare di menzionare chi non c' entra niente. Ed eccoci agli amici del Fatto Quotidiano: «Ora Cartabia si sveglia: agenti sospesi», titolava ieri. La guardasigilli Marta Cartabia, cioè, si è svegliata, quindi prima dormiva, in qualche modo c'entra lei, è colpa sua. Dettaglio: i fatti sono dell'aprile 2020, e il ministro della Giustizia era Alfonso Bonafede. Nell' ottobre 2020, quando ci fu un'interpellanza dei Radicali sui pestaggi, Bonafede rispose attraverso il suo sottosegretario Andrea Ferraresi: era stata solo «una doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità dell'intero reparto». Poi Bonafede aggiunse: «Si deve parlare di atti criminali ascrivibili a una ristretta parte dei detenuti... lo Stato non indietreggia». E Marta Cartabia che c' entra? Niente: l'altro giorno ha detto solo che l'accaduto «è un'offesa alla dignità dei detenuti e anche alla divisa che la polizia penitenziaria deve portare con onore».

Mattia Feltri per “La Stampa” il 2 luglio 2021. Ricordo tanti anni fa in un'aula di tribunale un prigioniero coperto di lividi ed ecchimosi. Affidò i suoi occhi agli occhi del giudice. Mi hanno gonfiato di botte, disse. L'avvocato appoggiò i gomiti sul banco, si mise le mani nei capelli e scosse il capo. Il prigioniero fu accusato lì per lì di calunnia. Chi abbia frequentato certi ambienti sa come vanno le cose e nulla si può fare a meno che, come è successo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, le telecamere di sorveglianza non restino accese per sbaglio. Ma non voglio parlare degli agenti penitenziari, come in ogni categoria ce ne sono di ottimi e di pessimi, vorrei parlare di Fëdor Dostoevskij e di un suo inappuntabile giudizio abusato e scritto nel vento: il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. Lasciando perdere il bislacco Matteo Salvini, che fra picchiati e picchiatori solidarizza coi picchiatori, mi ha colpito lo sbigottimento del Pd, secondo cui il ministro Marta Cartabia dovrebbe precipitarsi a riferire al Parlamento. Potrebbe chiedere conto ai suoi di ministri - peccato non disporre dello spazio per l'elenco - che negli ultimi venticinque anni hanno volenterosamente contribuito allo sfacelo: abbiamo carceri in perenne carenza d' organico, fatiscenti, sovraffollate, luoghi di suicidi, di gente in attesa di giudizio, di mamme recluse coi loro bambini. E quello che sanno fare, non solo il Pd, tutti, è di introdurre nuovi reati, aumentare le pene, inzeppare di altri disperati quell' orrido inferno dei vivi. Che a noi vada bene così, che non siamo in piazza a protestare, è l'ultima misura della barbarie.

Santa Maria Capua Vetere, Saviano: «Picchiavano tutti i detenuti, ma non i camorristi». Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 3 luglio 2021. Solo chi è legato ai clan è stato graziato e il risultato sarà che ora ogni prigioniero, per proteggersi, cercherà di affiliarsi. Chi è che non è stato picchiato tra i detenuti di Santa Maria Capua Vetere? Chi è che non è stato scelto tra i detenuti da punire? La risposta è semplice per chi conosce la vita delle carceri e i suoi rapporti interni di potere, a non essere pestati sono stati i detenuti camorristi e i colletti bianchi della camorra e della politica. Loro non sono stati sfiorati, non sono stati puniti, non sono stati pestati. Ricordate durante la pandemia le prime rivolte in carcere? Erano rivolte che nascevano dalla sospensione delle visite dei familiari e dal crescente timore del contagio in carcere eppure in quelle ore spesso l’opinione imprudente di molti (anche magistrati-opinionisti nei talk) raccontavano fossero rivolte volute dalle organizzazioni criminali per poi negoziarne la pacificazione con le dirigenze, e dalla pacificazione ottenere vantaggi. Non è avvenuto questo.

Quali detenuti sono stati picchiati. Le violenze gravissime ci riguardano e il commento facile è un commento cialtrone, è un commento becero, quello secondo cui chi è in carcere non può pretendere di fare la bella vita, che chi è in carcere qualche schiaffo lo deve mettere in conto perché ha fatto di peggio. Il risultato di una lente distorta che spesso si usa per osservare il carcere è che lo Stato ha picchiato i detenuti, i detenuti senza protezione. Piccoli borseggiatori, piccoli spacciatori, immigrati. Basso livello criminale. Rancore e ritorsioni che potevano sfogarsi sull’unica carne che puoi picchiare senza temere ritorsioni. L’unico detenuto pestato con un po’ più di spessore criminale sarebbe Marco Ranieri, di Latina, con una laterale partecipazione alla banda della Magliana. Durante il pestaggio urlavano, secondo quando riportano gli inquirenti: «Ma tu saresti il boss del Lazio? Qui adesso comandiamo noi», «Tu saresti un capo? Sai quanta gente come te ho vattuto?». A portata di mano, magari, la possibilità di poter picchiare qualcuno che non sa chi sei, che non sa dove abiti, che puoi pestare senza ritorsione. Eppure la domanda è chiara: perché hanno usato tanta violenza? Paura? «Necessità» di riportare le cose «all’ordine»?

Massiccia presenza dei Casalesi. La rivolta dei detenuti, riuniti tutti dentro il parlatorio, preso simbolicamente come luogo di rivolta contro le condizioni che vivevano, mostrava il disagio della direzione e della catena di comando interna al carcere, sostanzialmente mostrava che la direzione non aveva fatto un buon lavoro perché non era riuscita a controllare il carcere. La seconda ragione è che certamente rischiava di mostrare la condizione in cui versano i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che è, come nella maggior parte delle carceri italiane, una condizione infernale, inumana, intollerabile in uno stato di diritto, nonostante la politica non se ne faccia carico mai. Ma il carcere di Santa Maria Capua Vetere sconta anche altro. Essendo stato per anni un carcere con una massiccia presenza del clan dei Casalesi, le associazioni a tutela dei diritti dei carcerati, come ad esempio Antigone, venivano tenute lontane dai detenuti perché erano i clan a voler gestire tutto. Progressivamente il quadro è cambiato, e Santa Maria Capua Vetere si è riempito di carcerati non solo mafiosi ma di detenuti comuni.

Carcere costruito dalla camorra. E qui vale la pena ricordare un’altra verità sul carcere di Santa Maria Capua Vetere, una verità che pochi ricordano, anche se è una verità ormai assodata da decenni: il carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato costruito dalla camorra. Fu costruito dai clan dei Casalesi che fornirono cemento, mezzi e manodopera. Fu proprio il capostipite del gruppo casalese Antonio Bardellino, come ha raccontato il pentito Carmine Schiavone negli anni Novanta, ad aver imposto il cemento del clan e ad aver controllato tutta la filiera. Il carcere venne costruito perché la casa circondariale di Poggioreale, a Napoli, era diventata ingestibile, il sovraffollamento era insopportabile e la situazione resa incandescente dalla guerra tra Nuova Famiglia e Nuova Camorra Organizzata che si scannavano considerando il carcere cosa loro. Così aprirono Santa Maria Capua Vetere nella provincia casertana, e lì il sovraffollamento ci mise poco a raggiungere i livelli di guardia. Il carcere fu dedicato a Francesco Uccella, un generale di brigata della polizia penitenziaria che aveva diretto il carcere di Santa Maria Capua Vetere quando ancora aveva la sua sede nell’ex convento, perché spesso nel Sud gli ex conventi hanno avuto funzione di case circondariali.

La situazione delle carceri italiane. Le carceri violente diventano carceri mafiose, la solidarietà data ai poliziotti coinvolti nei video da alcuni politici pronti a qualsiasi atto di propaganda è rischiosa perché danneggia il comportamento corretto delle guardie carcerarie rigorose che pagano un prezzo altissimo per la situazione disastrosa delle carceri italiane, perché sono in pochi a gestire situazioni di degrado e sovraffollamento insostenibili. Non è un caso se in carcere non si suicidano solo detenuti, ma anche molti agenti della polizia penitenziaria. Questo inferno, di cui la politica non si occupa se non per una effimera propaganda, è un inferno per tutte le persone che vi sono coinvolte.

Le conseguenze del pestaggio. Ma chiediamoci quale sia il risultato di quel pestaggio. Questo: ogni detenuto sa che deve essere protetto, ogni detenuto da domani cercherà di affiliarsi, si metterà in fila per entrare in un’organizzazione criminale. Da domani borseggiatori diventeranno killer, piccoli spacciatori soldati al servizio dei cartelli, da domani (ma sta accadendo da molto prima della diffusione di queste immagini), chi entra in carcere sa che non lo difenderà il diritto, che non ci sarà possibilità di migliorare o di correggersi, ma che dovrà sperare solo nel potere e nella longa manus delle mafie, le uniche che potranno rendere meno infernale l’inferno.

Santa Maria Capua Vetere luogo simbolico. E tutto questo avviene in un luogo simbolico della storia del nostro paese. Santa Maria Capua Vetere è la vecchia Capua, la Capua Antica, quella che Cicerone chiamava «Altera Roma» l’altra Roma, perché era seconda solo alla più grande città del mondo antico. Stiamo parlando di uno dei territori più densi di storia del pianeta. Terra di rivolta, da sempre. Proprio da questo luogo, dall’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere — chi mi legge corra a visitarlo! — è iniziata la rivolta dei gladiatori capeggiata da Spartaco. E proprio in questa terra è accaduta una delle più grandi violazioni dei diritti sanciti dalla Costituzione della storia della Repubblica; in questa terra densa di rancore che non ha una sola statua dedicata a Spartaco, che non ha dedicato nulla, se non una minuscola piazzetta a Enrico Malatesta, tra i più grandi pensatori anarchici che proprio qui nacque. Ha invece in bella mostra la statua di Roberto Bellarmino, che fu inquisitore e vescovo di Capua e tra i responsabili del processo a Giordano Bruno. Bellarmino prese parte al processo nel 1597 (era iniziato nel 1593) e fu tra coloro i quali condannarono al rogo il filosofo dopo aver invano provato a farlo abiurare. «Organi e funzione sono termini inseparabili. Levate ad un organo la sua funzione o l’organo muore o la funzione si ricostituisce [...] Una polizia dove non ci siano delitti da scoprire e delinquenti da arrestare inventerà i delitti e delinquenti o cesserà di esistere».

Un carcere violento moltiplica i crimini. Questo dice Malatesta. Permettere che esista un carcere violento avrà il solo scopo di moltiplicare i crimini, spaccare la schiena ai detenuti in carceri fatiscenti peggiorerà la sicurezza e la vita della comunità. Il carcere oggi è questo: moltiplicatore di crimine. E sapete qual è la notizia peggiore? Che l’indignazione di oggi farà il paio con l’indifferenza di domani. Fino a quando non sarà chiaro che chi commette un reato, che chi viene processato, giudicato e condannato deve avere, nel suo percorso, obbligatoriamente il reinserimento nella società, fino a che questa, che sembra una ovvietà, non diventerà una acquisizione condivisa da tutti, il maggior garante dell’esistenza e della prosperità delle mafie sarà lo Stato e noi saremo i suoi complici.

Carcere, le violenze e i pestaggi dopo le rivolte del 2020. Calci, bastonate e il detenuto della cella 52: «È morto». Da Bologna a Melfi, i racconti delle violenze subite dai detenuti. Inchieste a rischio archiviazione perché le telecamere erano spente. Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 2 luglio 2021. «Alle 3 di notte, mentre dormivo nella mia cella, sono stato svegliato da quattro persone che avevano il volto coperto da un passamontagna. Mi bloccavano le braccia con delle fascette intimandomi “stai zitto, non parlare e abbassa la testa”. Mentre mi trovavo ancora in pigiama e con le ciabatte venivo accompagnato presso un pullman e lungo il tragitto sono stato percosso con calci e con l’utilizzo di un bastone. Prima di farmi salire mi hanno controllato facendomi fare i piegamenti sulle gambe con i pantaloni abbassati costringendomi a mantenere la testa china. Quando sono arrivato al pullman una delle persone presenti si è rivolta agli altri dicendo “basta... lascialo”. Mi tenevano sempre con la testa abbassata. Se alzavo la testa prendevo più botte». È il 17 marzo 2020. Nel carcere di Melfi, in provincia di Potenza, i reclusi stanno protestando per le restrizioni e le mancate protezioni contro il Covid-19. Per questo si decide di trasferirli in altri penitenziari. Ma prima di portarli via gli agenti di custodia li sottopongono a pestaggi. Questo, almeno, denunciano i detenuti. Accade anche altrove. Ascoli Piceno, Modena, Rieti, Bologna. I racconti dei reclusi sono già stati acquisiti dai magistrati e dall’ufficio del Garante per le persone private della libertà. Ma sono anche stati trasmessi (o lo saranno presto) al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al quale la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto accertamenti ad ampio raggio. Raccontano le violenze e i soprusi lamentati da chi era agli arresti. La «mattanza» scoperta a Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato. Altrove le telecamere non hanno però registrato quanto è avvenuto, identificare i responsabili sarà più complicato. Ma non impossibile.

I volti travisati. L’«ispezione straordinaria» sul carcere campano, ordinata dalla ministra, è stata affidata al direttore generale dell’ufficio detenuti e trattamento: modalità inedita che sta a ribadire l’importanza che ministero e Dipartimento attribuiscono alle verifiche amministrative. Fin dall’ottobre scorso i vertici del Dap chiesero ai magistrati informazioni sugli indagati e i capi d’accusa «necessarie e urgenti per valutare le iniziative di competenza non più procrastinabili». Non ottennero risposta. Ora il lavoro degli ispettori, su questo come sugli altri casi, si baserà sui fogli delle presenze in servizio delle guardie, sugli atti consegnati dallo stesso garante Mauro Palma e sugli esposti presentati dall’associazione Antigone. L’avvocatessa Simona Filippi assiste decine di detenuti già interrogati dai magistrati. Le inchieste avviate a Potenza e Ascoli rischiano di essere archiviate perché nelle carceri le telecamere non erano attivate e — come sottolinea il pm di Potenza Gerardo Salvia — «tenuto conto dell’esito infruttuoso dell’individuazione fotografica a cui i denuncianti sono stati sottoposti», poiché gli agenti «erano travisati».

La cella 52. Agli atti dell’indagine di Ascoli ci sono i verbali dei reclusi trasferiti dopo le proteste dell’8 marzo nel carcere di Modena. «Alcuni di noi furono picchiati dagli agenti di Bologna anche nell’istituto di Ascoli Piceno con calci, pugni e manganellate all’interno delle celle, ad opera di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria», raccontano. Tra loro c’è Salvatore Piscitelli che viene trasferito «in evidente stato di alterazione fisica probabilmente per l’assunzione di metadone o altri farmaci tanto da non riuscire a camminare». Quando arriva ad Ascoli «viene portato nella cella numero 52 della sezione posta al secondo piano. Un detenuto lo aiuta a rifare il letto in quanto lo stesso, viste le condizioni di salute, non è in grado. I detenuti avvertono gli agenti ma nulla viene disposto. La mattina seguente, il 9 marzo, il compagno di cella avverte invano il personale che Piscitelli sta molto male, emette dei versi lancinanti. Dopo poco i detenuti chiedono che venga chiamato un medico. Intorno alle 10 i detenuti avvertono che Piscitelli oramai è deceduto, che “è nel letto freddo”. L’agente rileva che ormai è morto».

I depistaggi. A Melfi — dove la direttrice e il comandante delle guardie sono già stati trasferiti per altri reclami trasmessi dal magistrato di sorveglianza — un detenuto ha raccontato: «Un agente della penitenziaria mi ha immobilizzato i polsi con fascette di plastica nere simili a quelle usate dagli elettricisti. Mi hanno fatto inginocchiare e mi tenevano bloccato a terra, venivo percosso degli agenti con calci e sfollagente. Mi colpivano ripetutamente alla schiena, in testa, vicino alle gambe e nelle altre parti del corpo. Poi ci hanno fatto scendere le scale in fila indiana con la testa abbassata e venivamo insultati. Nell’area colloqui mi hanno fatto spogliare e fare i piegamenti. Ho notato alcuni detenuti con la testa rotta e sanguinante, gli occhi tumefatti, i nasi rotti». Anche in questo caso mancano le immagini, e le ispezioni dovranno accertare se il sistema di sorveglianza fosse effettivamente fuori uso. Oppure se, come si sospetta per Santa Maria Capua Vetere, le prove possano essere state manomesse. Un «vero e proprio depistaggio», lo ha definito il giudice accusando gli agenti di aver «manipolato le fotografie scattate nelle celle per dimostrare che i detenuti «erano pronti alla rivolta con l’olio bollente da gettare addosso alle guardie». Fu il pretesto per organizzare la perquisizione straordinaria con l’intervento di personale giunto da altre carceri, diventata spedizione punitiva.

Santa Maria Capua Vetere, il pestaggio fu una rappresaglia. Ecco da chi partirono gli ordini. Conchita Sannino su La Repubblica il 2 luglio 2021. Nella “mattanza” nel carcere campano coinvolta l’intera catena di comando dell’amministrazione penitenziaria della Campania. E l’ex capo del Dap Basentini, informato dell’operazione, dice al provveditore: “Hai fatto benissimo”. "Ormai siamo tutti in ballo". Un messaggio via chat con le icone dei danzatori. È il 14 aprile del 2020, quando il provveditore all'amministrazione penitenziaria della Campania, Antonio Fullone, oggi interdetto dai pubblici uffici e sotto accusa per falso, depistaggio e favoreggiamento, prova a rassicurare il "suo" comandante, Pasquale Colucci, finito in carcere per il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. 

La direttrice: "Ero malata, querelo tutti". Mattanza in carcere, l’ammissione della polizia penitenziaria: “Situazione sfuggita di mano come a Bolzaneto”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista l'1 Luglio 2021. “La situazione è sfuggita di mano come a Bolzaneto”. Parole di Emilio Fattorello, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, raggiunto dai cronisti all’esterno del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove poco prima delle 18 è arrivato il segretario della Lega Matteo Salvini che ha annunciato la propria solidarietà ai 52 agenti destinatari di misure cautelari dopo la mattanza del 6 aprile 2020, quando quasi 300 poliziotti, così come emerso nei video diffusi nei giorni scorsi, hanno brutalmente pestato e torturato decine e decine di detenuti ristretti nel reparto Nilo. Fattorello si scaglia contro la “gogna mediatica senza contraddittorio” che “rischia di strumentalizzare e vanificare il lavoro di 40mila persone (agenti penitenziari, ndr) che ogni giorno salvano centinaia di detenuti dai cappi, dalle impiccagioni e da atti autolesionistici. Sono qui per reagire alla gogna mediatica perché la polizia penitenziaria non è quella che abbiamo visto nei video, da cui noi prendiamo le distanze. La situazione – ammette – tecnicamente è sfuggita di mano come a Bolzaneto (21 luglio 2001, la caserma delle torture del G8) e in quelle immagini vedo tutta la frustrazione del personale che subisce sempre, tutti i giorni. Perché è sfuggita di mano? Perché non poteva esistere che una operazione del genere si tramutasse in un pestaggio”. Poi aggiunge: “Operazioni del genere non si fanno a telecamere spente. A noi agenti è vietato portare telefonini all’interno mentre invece ci sono diversi detenuti che riescono a procurarsi cellulari. Dall’alto è arrivato l’ordine di perquisizione straordinaria ma le modalità non erano alla luce di tutti”. Elisabetta Palmieri, direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere, smentisce di aver partecipato ai pestaggi (accusa partita da un detenuto in carrozzella) minacciando di querelare tutti: “Sono stata assente per tre mesi per motivi di salute” ha spiegato ai giornalisti all’esterno del carcere. Quanto all’ accaduto, la direttrice definisce “agghiaccianti e ingiustificabili” le violenze, ma contestualizza l’episodio: “C’era stata comunque una protesta molto forte il giorno precedente da parte dei detenuti al primo caso Covid, con la presa di possesso di alcune sezioni. Ma questo non giustifica la violenza”. Sulle presunte accuse di foto false e depistaggio: “Questo è tutto da provare. Ora sono state disposte le misure cautelari, toccherà adesso alla difesa”.

Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Lo scandalo e l'inchiesta. Violenza in carcere, la guardia che si oppose: "Ma un collega mi disse di pensare a me". Conchita Sannino il 3 luglio 2021 su La Repubblica. L'ispettore Crocco è uno dei 52 indagati per i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020: "Alcuni detenuti hanno confermato che intervenni per difenderli". Santa Maria Capua Vetere - «Non so come nacque quella “perquisizione”, so che ci trovammo in istituto i colleghi del Gruppo speciale di supporto che venivano da fuori. Era impossibile arginare ciò che stava avvenendo. Ci ho provato, in più occasioni ho tentato di evitare dei colpi ai detenuti. Alcuni dei carcerati possono raccontarlo. E dai filmati si vede che cerco di sottrarne alcuni alle percosse.

Un solo agente cercò di fermare la mattanza. Pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, l’agente che si oppose: “Presero a manganellate anche me”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 4 Luglio 2021. Nella storia orribile dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sbuca la storia di chi invece quella mattanza cercò di arginarla. È uno dei 52 agenti indagati per quella mattanza, sottoposto anche lui a misura restrittiva, all’obbligo di dimora. Dalle prime ricostruzioni e da quanto testimoniato dai detenuti sembrerebbe che ci sia stato un solo agente che provò senza successo ad arginare quella follia. L’ispettore, scrive il gip Sergio Enea, “è stato pressoché l’unico ad essersi fattivamente attivato per contenere l’escandescenza dei suoi sottoposti, intervenendo più volte energicamente”, come riporta Repubblica. Azioni che sono state riscontrate anche dalle dichiarazioni di alcuni detenuti e dai video delle telecamere di videosorveglianza. Un detenuto “lo riconosce come colui che lo ha protetto”, un altro sottolinea che “è stato l’unico che non lo ha picchiato”, un altro ancora che ha fermato il pestaggio su un altro detenuto. “Anche quando intima ai reclusi di volgere la faccia verso il muro, dai filmati si evince che è l’unico che prova a fermare i suoi colleghi che pestano”. Ed è anche “l’unico — scrive sempre il gip — tra gli ispettori di quel Reparto”, a non realizzare carte false ex post per coprire le spalle ai colleghi. Cioè: “A non sottoscrivere quella nota del 6 aprile in cui è stato falsamente rappresentato che i detenuti avevano opposto resistenza”. Dunque l’Ispettore avrebbe cercato in tutti i modi di fermare la mattanza ma i colleghi non ne avrebbero voluto sapere nulla. “Non so come nacque quella ‘perquisizione’, so che ci trovammo in istituto i colleghi del Gruppo speciale di supporto che venivano da fuori. Era impossibile arginare ciò che stava avvenendo”, ha raccontato a Repubblica l’ispettore tramite il suo avvocato. “Ci ho provato, in più occasioni ho tentato di evitare dei colpi ai detenuti. Alcuni dei carcerati possono raccontarlo – continua il racconto – E dai filmati si vede che cerco di sottrarne alcuni alle percosse. Ma a un certo punto, quando nella concitazione di quei momenti, alcuni colpi hanno preso anche me, ho dovuto fermarmi. Sono cardiopatico, ho subito un’operazione a cuore aperto anni fa. Ho prodotto al giudice tutta la mia documentazione sanitaria”. “Ero molto provato — dice — perché questa vicenda non appartiene alla mia storia e al mio legame con la divisa, e perché, da cardiopatico, non riuscivo a reggere. In più occasioni, come gli atti dimostrano, ho cercato di evitare che i detenuti prendessero colpi”. Alla giornalista che gli chiede se saprebbe riconoscere i colleghi che fecero quelle violenze, risponde che erano coperti da caschi integrali quindi non li avrebbe visti in volto. Da quanto riportato da Repubblica, quando l’ispettore provava a fermare quella mattanza, i colleghi gli dissero “fatti i fatti tuoi”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi. 

Santa Maria Capua Vetere, il Dap conosceva i nomi degli agenti dei pestaggi da un anno, e non li ha trasferiti. Fulvio Bufi il 3 luglio 2021 su Il Corriere della Sera. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria conosceva da un anno i nomi degli agenti in servizio nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere indagati per i pestaggi ai detenuti del 6 aprile 2020 ma non ha adottato alcun provvedimento, né di sospensione né di trasferimento. Lo si deduce con chiarezza dalle parole che il 16 ottobre 2020 l’allora sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi pronunciò in Parlamento rispondendo all’interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi sui fatti accaduti nel carcere casertano. «Con riferimento agli agenti attinti dagli avvisi di garanzia e da decreti di perquisizione — disse Ferraresi — si evidenzia che, con nota 3 luglio 2020, il locale provveditore ha trasmesso al Dap l’elenco del personale del Corpo nei confronti del quale è stata data formale comunicazione dell’avvio di procedimento penale da parte della procura». Viene quindi da chiedersi perché gli indagati rimasero tutti al proprio posto, quotidianamente a contatto con i detenuti che li avevano denunciati. La motivazione, secondo quanto trapela dal Dap, sarebbe da ricercare nell’impossibilità da parte del dipartimento di conoscere i reati che venivano contestati agli agenti. Dalla Campania era stato mandato l’elenco dei nomi, ma non le singole posizioni. Né chiarimenti in questo senso sarebbero arrivati successivamente, quando tre ulteriori richieste di informazioni inviate, tra luglio e ottobre direttamente ai magistrati inquirenti, rimasero senza alcuna risposta. In mancanza di questi elementi il Dap non avrebbe potuto motivare i trasferimenti con precise contestazioni. E inoltre trasferire un poliziotto sotto inchiesta avrebbe potuto interferire con il lavoro investigativo di magistrati e carabinieri e con la loro ricerca di ulteriori elementi d’accusa per ognuno degli indagati. In parte queste cose erano già spiegate nella risposta di Ferraresi all’interrogazione di Magi: «Con nota 8 luglio 2020, la competente Direzione generale del personale e delle risorse ha chiesto alla direzione dell’istituto di acquisire, presso la competente autorità giudiziaria, copia integrale degli avvisi di garanzia a carico del personale di polizia penitenziaria coinvolto, al fine di conoscere le contestazioni. In assenza di riscontro, con nota 28 settembre 2020, n. 336014, la competente direzione generale del personale e delle risorse del Dap ha chiesto direttamente alla procura della repubblica-tribunale di Santa Maria Capua Vetere copia integrale degli avvisi di garanzia, evidenziando che la richiesta costituisce elemento indispensabile ai fini di ogni determinazione da parte di questa amministrazione. Infatti, come sa, se un’indagine è aperta, ovviamente, il Dap o la direzione del carcere, per eventuali accertamenti, deve prima chiedere all’autorità giudiziaria l’assenso. Anche per tale ragione, allo stato, non risulta intrapresa alcuna iniziativa, sia di natura cautelare sia disciplinare, a carico del personale coinvolto». Quindi sono rimasti tutti lì, denuncianti e denunciati. E gli spostamenti, solo dei denuncianti, però, sono cronaca di queste ore. Venerdì sera, infatti, una trentina di detenuti del reparto Nilo sono stati improvvisamente trasferiti in vari istituti di pena, anche di regioni diverse dalla Campania. Il provvedimento, disposto come da prassi dal Dap, stavolta è stato adottato in parte anche d’intesa con la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, perché coinvolge alcuni dei reclusi le cui testimonianze sono agli atti dell’inchiesta. Si tratterebbe quindi di provvedimenti a tutela degli stessi reclusi, ma ci sarebbe anche un altro motivo: dopo gli arresti e le altre misure cautelari emesse dal gip, il dipartimento ha sospeso non soltanto, come era ovvio, chi è finito in carcere o ai domiciliari e che è stato interdetto, ma anche altri venticinque appartenenti all’amministrazione penitenziaria coinvolti in questa inchiesta che conta complessivamente più di centocinquanta indagati. Di conseguenza negli ultimi giorni il personale in servizio al Nilo si è decisamente ridotto, e il rapporto numerico tra agenti e detenuti ne è risultato sbilanciato. I trasferimenti servirebbero quindi anche a ristabilire l’equilibrio necessario per la gestione delle otto sezioni del reparto secondo gli abituali standard.

E a Modena si indaga per tortura. Sono finora sei le inchieste sugli abusi nelle prigioni italiane. Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 14 luglio 2021. Una testimonianza: “Gridavo che un ragazzo stava male e loro mi dicevano zitto. Mi hanno rotto una mano”. «Io urlavo e questi vedendo il ragazzo tunisino a terra cominciavano a prenderlo a botte per farlo svegliare. Io gridavo loro che stava male e che per me era morto e loro, dicendomi “stai zitto figlio di puttana, abbassa la testa” hanno iniziato a picchiarmi». Modena come Santa Maria Capua Vetere. Lo dicono le denunce dei detenuti che hanno messo nero su bianco i racconti dei pestaggi, di braccia e denti rotti, di costole incrinate, di gente picchiata mentre era a terra ammanettata.

Così è il carcere dell’epoca Bonafede. Dieci prigioni sotto inchiesta per torture. Mele marce? No, sistema. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Luglio 2021. Il ministro Bonafede si è lamentato con i giornali che lo hanno tirato in ballo per lo scandalo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. I giornali avevano realizzato un semplice sillogismo: se c’è stato un episodio di tortura di massa in carcere, e se le carceri non dipendono dal ministro dei Beni culturali ma da quello della Giustizia, la responsabilità non ricade sul ministro dei Beni culturali ma su quello della Giustizia. Che, nei giorni della azione squadristica nel carcere casertano, era proprio Bonafede. Però ci sentiamo ora in dovere di informare il ministro anche di un’altra cosa. Probabilmente il pestaggio furioso a S. M. Capua Vetere non è stato un episodio isolato. Le inchieste che sono state aperte su episodi di pestaggi o di torture in carcere, sempre nel periodo del ministero-Bonafede, non sono pochi: dieci. Inutile continuare a parlare di mele marce. L’uso della violenza e della sopraffazione maramalda nelle prigioni italiane è una abitudine. Volete i nomi delle carceri sulle quali sono state aperte inchieste per pestaggi e torture tra il 2019 e il 2020? Eccoli qui: Viterbo, Monza, Siena, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Pavia e Ascoli. Con S. M. Capua Vetere fanno giusto dieci. Comunque Bonafede qualche ragione ce l’ha, nel suo ostinato respingere le proprie responsabilità. Nel senso che le responsabilità non sono certo solo sue. Probabilmente si è anche trovato, negli anni a via Arenula, a dover gestire una partita molto complicata, pressato dall’enorme forza di “suasion” del partito dei Pm e dalla smania manettara dei 5 Stelle. E poi c’è un secondo elemento a suo discarico (e noi lo abbiamo scritto dal primo giorno). La violenza in carcere non è l’esito della follia di qualche gruppetto di guardie. La violenza è il carcere. Il carcere la crea: sempre. Il carcere è un’istituzione folle, che al più presto va abolita o comunque ridotta ai minimi termini.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Tutte le ombre dell'ex Guardasigilli che ha creato Conte. Gian Micalessin il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. Il grillino bolla come "totalmente false" le ricostruzioni che lo accusano. Ma il suo Dap era informato e lui non chiese indagini. Un'ombra sull'ex ministro, come quella di avere cercato di rallentare l'inchiesta sul figlio di Grillo, Ciro. L' hanno chiamata «macelleria» di Santa Maria Capua Vetere. In verità era solo una delle tante succursali della «macelleria carceraria» che dal marzo 2020 ha operato a pieno regime da Melfi ad Ascoli Piceno, da Rieti a Modena e Bologna. Godendo dei silenzi e delle coperture di chi, al governo, doveva vigilare. Per questo ai magistrati che inseguono giustizia, altrettanto sommaria, esponendo gli agenti indagati non solo alla gogna mediatica, ma anche alle ritorsioni malavitose, è richiesto un passo in più. Un passo indispensabile per individuare non solo i manganelli simbolo delle violenze, ma anche le poltrone di chi avvallò l'incivile regolamento di conti. Magari magari partendo dal grillino Alfonso Bonafede che allora occupava la carica di Ministro di Giustizia e oggi liquida come «totalmente false» le ricostruzioni sul suo ruolo. L'ex ministro si guarda bene, però, dallo spiegare perché non pretese né inchieste, né accertamenti. E perché, il 16 ottobre 2020, dopo un'interrogazione del deputato Riccardo Magi, spedì in parlamento il sottosegretario Vittorio Ferraresi, Cinquestelle come lui, per fargli riferire che «quella di Santa Maria è stata una doverosa operazione di ripristino della legalità». Di fronte ad affermazioni perlomeno sconcertanti sarebbe incoraggiante veder la magistratura esibire lo stesso zelo dimostrato quando volle accertare le responsabilità del ministro Matteo Salvini indagato per aver bloccato in mare dei migranti senza documenti. Anche perché - nonostante l'ex Guardasigilli liquidi come «totalmente false» le ricostruzioni sulle sue possibili responsabilità - è evidente a tutti che Francesco Basentini, l'uomo da lui scelto come capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), non solo sapeva quanto avveniva nelle carceri, ma l'approvava e l'incoraggiava. E lo prova l'eloquente «hai fatto benissimo» con cui elogiò Antonio Fullone, il provveditore del Dap in Campania che lo informava di avere disposto la «perquisizione straordinaria» del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Far luce sulle responsabilità di un ministro che copriva o, peggio, ignorava quanto avveniva intorno a lui è indispensabile. E non solo per far giustizia, ma anche per affrancare l'immagine dell'Italia, e delle sue divise, da quella di un Movimento 5 Stelle che ha precipitato il Paese in una delle parentesi più buie della sua storia. I silenzi, le ambiguità e le evanescenze di Bonafede sono in fondo solo l'ennesima conseguenza dell'inettitudine di una classe politica di cui il ministro è stato bandiera e colonna. Non a caso è lui, nel 2018, a proporre come presidente del Consiglio dell'esecutivo con la Lega il suo ex docente di Diritto costituzionale Giuseppe Conte. Insomma è solo grazie al ex Deejay Fofò, transitato dalle discoteche di Mazara del Vallo agli scranni del Parlamento, se un professore universitario, sconosciuto ai più, si trasforma in presunto «avvocato degli italiani» guidando, uno dopo l'altro, due esecutivi opposti ed antitetici. Un premier che da allora in poi non perde l'occasione di coprire l'ex allievo artefice di una riforma della prescrizione definita «mostruosa» dal magistrato Carlo Nordio, e tacciata di «populismo penale» dal presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. Non a caso sarà proprio lo scontro su quella riforma e sul ruolo di Bonafede a innescare lo scontro con Matteo Renzi costato la poltrona a Conte. Ma nella buia era grillina Bonafede è anche il braccio destro e il fedele alleato di Di Maio. Grazie al doppio binario che lo lega sia al premier, sia al primo, vero leader politico del Movimento si guadagna la carica di capodelegazione dei 5 Stelle nell'esecutivo giallorosso. Un ruolo che finisce con l'amplificare il silenzio e l'evasivo disinteresse con cui - dal marzo 2020 fino alla caduta del governo - affronta la questione dei raid nelle carceri. Ma ai sospetti l'ex ministro è abituato. Quand'era in carica qualcuno tentò di dipingerlo, senza alcuna prova, come l'oscuro regista capace di rallentare e addomesticare l'inchiesta su Ciro Grillo, il figlio del fondatore del movimento accusato di violenza sessuale. Bazzecole rispetto alle ombre e alle accuse che l'ex ministro dovrà diradare se il sangue della macelleria carceraria macchierà anche lui.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa e dell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, 

Fiorenza Sarzanini per “il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2021. «Sono stato io a consegnare ai magistrati copia delle mie conversazioni in chat con il provveditore della Campania Antonio Fullone. Dire che sapessi quello che era avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è pura follia». Quando i detenuti furono sottoposti a pestaggio, Francesco Basentini era il direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Tutto quello che accadeva era sotto la sua responsabilità.

In quelle conversazioni il provveditore Fullone la informa che si procederà a perquisizione straordinaria.

«Lo so bene. Però bisogna prima di tutto ricordare che cosa accadeva in quei giorni». 

I reclusi protestavano perché non avevano mascherine nonostante alcuni di loro fossero positivi al Covid. È così?

«Il primo caso di detenuto contagiato venne accertato il 4 aprile e iniziarono le proteste».

In realtà in tutta Italia le rivolte erano iniziate a marzo, quando erano stati bloccati i colloqui con i familiari.

«Prendemmo la decisione proprio per evitare contatti dei reclusi con l'esterno che avrebbero potuto creare focolai. Ci furono proteste, ma poi tornò la calma. Pensavamo di avere la situazione sotto controllo, invece ad aprile ci furono nuove rivolte». 

E si scelse la linea dura?

«Si scelse di seguire le regole per riportare la calma. Eravamo tutti d' accordo. Il provveditore Fullone mi teneva costantemente aggiornato sulle situazioni di maggior rischio, come appunto Santa Maria Capua Vetere. Mi informò che il 5 aprile un gruppo di 50 detenuti si era barricato all' interno di un reparto».

Le spiegò anche che cosa stava organizzando?

«Mi disse che aveva avviato un dialogo ed effettivamente riuscì a tenere la situazione sotto controllo. Il giorno successivo mi inviò il messaggio per informarmi che avevano proceduto a una perquisizione straordinaria». 

È quello allegato agli atti dell'inchiesta in cui lei risponde «fai benissimo»?

«Sì». 

Ma se la situazione era sotto controllo, che bisogno c'era di entrare nelle celle?

«La conversazione è ormai pubblica e la risposta è nel messaggio che mi aveva inviato. Lui lo riteneva indispensabile per riportare la calma e dare un segnale al personale.

Fullone era ritenuto uno dei provveditori più bravi e competenti, io mi fidavo». 

Non fu neanche sfiorato dal sospetto che la perquisizione «per dare un segnale al personale» potesse trasformarsi in una spedizione punitiva?

«Sinceramente no. Nei messaggi non vi è alcun riferimento alle azioni violente fatte dagli agenti intervenuti». 

In quei giorni c'era una tensione altissima. Prima di dare il via libera non sarebbe stato opportuno saperne di più?

«Come ho già detto si trattava di un funzionario di grande livello che conosceva perfettamente la situazione. E proprio perché c'era uno stato di massima allerta approvai la scelta di fare la perquisizione. Ma davvero si può credere che io avrei potuto avallare una cosa del genere?». 

Il provveditore le chiese anche il trasferimento di una parte dei detenuti. Lei si informò dell'esito della perquisizione?

«Certo, il contatto era continuo. Poco più di una settimana dopo Fullone mi fece l'elenco, sempre tramite messaggio, di quello che era stato trovato nella disponibilità dei detenuti. Mi inviò anche le fotografie». 

Ma perché vi parlavate tramite messaggi?

«Appena nominato direttore del Dap avevo attivato linee di contatto diretto con provveditori e comandanti proprio per gestire le situazioni più delicate. Quella lo era. Il momento era complicatissimo, alcune scelte andavano condivise in tempo reale. Poi venivano richieste le relazioni».

Ne discusse con il ministro della Giustizia Bonafede?

«In quel periodo noi eravamo in contatto costante con via Arenula, facevamo riunioni continue anche con i sottosegretari. Non abbiamo mai sottovalutato nulla». 

Qualche giorno dopo però cominciarono ad arrivare gli esposti dei familiari dei reclusi. Possibile che non li abbia collegati a quella perquisizione che le era stata preannunciata dal provveditore?

«La relazione mandata al Dap è del 26 aprile, prima non era mai stato informato di quanto avvenuto nelle sezioni. Si scoprì con l'esposto dell'associazione Antigone».

E cosa fece?

«Come ricorderà bene il 2 maggio io mi sono dimesso da capo del Dap per le polemiche create ad arte sulle scarcerazioni di chi era accusato di reati di tipo mafioso». 

Quando ha saputo che c' erano i video dei pestaggi?

«In questi giorni dai giornali. A settembre sono stato interrogato dai magistrati come persona informata dei fatti e ho ricostruito esattamente quello che sto dicendo ora.

Anche a loro ho detto che se avessi avuto informazioni su quello che era successo non avrei esitato a disporre provvedimenti cautelari a carico dei responsabili, come avevo fatto su episodi analoghi avvenuti nel carcere di San Gimignano qualche mese prima».

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 3 luglio 2021. Sono le chat della polizia penitenziaria a raccontare il climax che trasforma una rivolta carceraria rientrata in poche ore senza danni né feriti in una mattanza. È il 5 aprile 2020. I detenuti hanno appreso dal tg regionale che uno di loro è positivo al Covid. Cinquanta dei reparti Nilo e Tamigi del carcere di Santa Maria Capua Vetere «non rientrano dalla socialità», restano fuori dalle celle e «si barricano». Il provveditore regionale dell' amministrazione penitenziaria Antonio Fullone è preoccupato. Invia tre contingenti speciali da Napoli e Avellino. Per tutto il giorno, con una decina di messaggi, tiene aggiornato a Roma il capo del Dap Francesco Basentini.

Alle 21: «Aspettiamo ancora un po' prima di entrare».

Alle 22,25 scrive a Maria Parenti, direttrice del carcere: «La situazione non si sblocca. L' unica scelta è usare la forza».

Nella chat collettiva della polizia penitenziaria di Santa Maria si pregusta l'esito, con riferimento a certi detenuti: «Spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devo trovà tutti ammalati». Ma un'ora dopo i detenuti si ritirano, tanto che Fullone si rallegra dell'esito («Meglio così, grazie davvero a tutti») e lo comunica a Basentini alle 23,38: «Rientrata protesta. Alla fine, ma proprio un attimo prima che entrassimo. Buona notte». E Basentini: «Ancora un ottimo lavoro. Notte, Antonio».

Ma il fuoco cova sotto la cenere. Nella notte «monta il malcontento degli agenti», scrive il gip. Che a fronte del tremebondo comandante della penitenziaria nel carcere Gaetano Manganelli, definito da Fullone nelle chat «completamente in trance» e «nel pallone più totale», valorizza «il ruolo determinante nell' organizzazione della dinamica criminale» di Pasquale Colucci, capo del nucleo speciale arrivato da Secondigliano. È lui ad avvisare il provveditore Fullone, pochi minuti dopo mezzanotte: «Il personale è molto deluso. Si sono raccolti per contestare l'operato del comandante».

Fullone: «Lo so. Rischiamo di perdere il carcere». E Colucci: «Vero». Un' ora dopo, nella chat collettiva, un assistente capo racconta del «disagio che sta subendo il personale», specificando che «il comandante ha preso atto ma ha detto che dobbiamo avere pazienza». 

Alle 5,24 Manganelli sollecita Fullone: «Dottore io non riesco più a contenere le proteste.

Al Nilo in particolare vogliono parlare con voi. Prima di dover agire in fase repressiva io le sto provando tutte ma in questo è fondamentale la sua presenza». Mezz' ora dopo Colucci spiega a Manganelli: «Se vengo però interveniamo». Poche ore dopo il provveditore ordina «la perquisizione», anche se Manganelli tergiversa e Colucci, a mezzogiorno, lo incalza: «Quindi la perquisizione si fa o no? Devo avvisare il personale». 

La certezza si raggiunge nei minuti successivi. Tanto che alle 12,36, in una chat della polizia penitenziaria con 109 partecipanti, viene diffusa la direttiva: «Entro le 15,30 in tuta operativa tutti in istituto. Si deve chiudere il reparto Nilo per sempre, u tiemp re buone azioni è fernut (il tempo delle buone azioni è finito, ndr). W la Polizia Penitenziaria». Messaggio condito da due emoji di un avambraccio muscoloso. Seguono commenti: «Passiamo parola. Siamo pronti, speriamo bene. Vi aspettiamo già in trincea. Attualmente mi trovo a Napoli per motivi familiari, se faccio presto sarò ben felice di venire se questi sono i presupposti. 

Arrivo, questo mi piace. Ok mi avvio. Questo mi piace vengo in borghese che la tuta è già lavata vengo così come sto. Ragazzi tutti carichi. Sì venite tutti urgentemente. La cosa è seria, venite più che potete». Ed emoji di pollici alzati.

Alle 12,53 Manganelli scrive a Fullone: «Facciamo tutto il Nilo». Eppure, come scrive mezz' ora dopo, «non vi è alcuna rivolta» e «tutti i detenuti sono rientrati dai passeggi». Dunque la perquisizione non viene riservata «a una sola sezione come ipotizzato in precedenza», rileva il gip, ma estesa. Contraddizione solo apparente con la situazione di calma: l'assenza di proteste («Nessuna rivolta, non diffondete notizie sbagliate», si scrive nella chat collettiva) è al contrario («Meglio così») funzionale a «pianificare l'operazione», come scrive Manganelli a Fullone alle 13,38.

«E utilizziamo anche scudi e manganelli», precisa mezz' ora dopo. «Ok se necessario ovviamente», risponde Fullone. Dieci minuti dopo, l'operazione Nilo con 200 uomini è partita. Manganelli: «Stiamo procedendo». Colucci, in tempo reale: «I ragazzi sanno cosa fare!!!». Ed evoca «l'unico sistema, il sistema Poggioreale», carcere di Napoli la cui «cella zero» veniva trasformata in «camera delle torture» per pestaggi sistematici. 

Alle 19,25 un interlocutore delle chat non presente a Santa Maria Capua Vetere chiede a Manganelli se hanno usato le maniere forti. La risposta («Oggi perquisizione e forza») è gradita: «Sono delinquenti con le teste bruciate e come tali vanno trattati». Mezz' ora dopo Colucci sintetizza: «Reparto Nilo: otto sezioni, quattro ore di inferno. Per loro. Non si è salvato nessuno. Applausi finali dei colleghi di Santa». E il suo interlocutore: «Ottimo».

Alle 20,13 provveditore e comandante si salutano e ringraziano reciprocamente, mentre nella chat collettiva girano foto e video dei pestaggi girati con gli smartphone, con poliziotti in posa e frasi tipo «350 passati e ripassati». Poi l'ultimo messaggio: «Buona notte a tutti. Uniti per Santa Maria sempre».

Violenze in carcere a S.M. Capua Vetere, secondo l’accusa ci fu un tentativo di modificare. Il Dubbio il 3 luglio 2021. La ministra Cartabia ha chiamato il presidente dell'Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, dopo la pubblicazione dei dati personali degli indagati. Tra gli episodi di depistaggio emersi nell’indagine sulle violenze nei confronti dei detenuti commesse dagli agenti della Penitenziaria al carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), secondo l’accusa ci fu anche il tentativo di modificare i video delle telecamere interne per falsare la rappresentazione della realtà del 6 aprile 2020, giorno dei violenti pestaggi. Intanto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha avuto una telefonata con il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, dopo la pubblicazione, su testate locali, di dati personali di tuti gli indagati per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Lo si apprende da fonti di via Arenula. I vertici del Dap, Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, preannunciano inoltre  un esposto al Garante della privacy e hanno già manifestato la propria preoccupazione per questi eccessi mediatici, in una telefonata con i Prefetti di Napoli e Caserta. Benzina sul fuoco è stata messa dal ritrovamento su un cavalcavia a Roma di uno striscione, “52 mele marce? Abbattiamo l’albero!”, con il simbolo di un movimento anarchico, in riferimento ai 52 agenti sospesi dopo i fatti di S.M Capua Vetere. Lo striscione, secondo quanto si è appreso, è stato poi successivamente rimosso. “Lo striscione apparso a Roma è la prima grave conseguenza della campagna denigratoria di questi giorni contro il Corpo della Polizia penitenziaria, a cui va la mia totale solidarietà – commenta il coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia, Edmondo Cirielli – Questa rappresaglia mediatica contro gli agenti penitenziari rischia di generare pericoli anche per la tenuta del sistema carceri, dove sono proprio loro a garantire la legalità e la sicurezza, nonostante la grave e permanente carenza di organico e l’assenza di strumenti utili alla difesa come il taser».

Il caso Santa Maria Capua Vetere. Pestaggi in carcere, salgono a 77 gli agenti sospesi: 30 detenuti trasferiti dal "Nilo". Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Luglio 2021. Sospesi altri venticinque agenti della polizia penitenziaria. Si tratta di poliziotti che figurano tra gli iscritti nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ma per i quali non era stata disposta alcuna misura cautelare. E si aggiungono ai 52 indagati raggiunti lunedì da misure cautelari e già sospesi nei giorni scorsi. Sono quindi 77 in tutto al momento gli agenti della penitenziaria sollevati temporaneamente dal loro incarico in attesa che l’inchiesta completi il suo corso e si faccia piena luce sulle singole posizioni e sulle singole eventuali responsabilità, 77 agenti fra gli oltre cento indagati per le violenze del 6 aprile 2020 nel carcere sammaritano. Parallelamente, inoltre, su disposizione della Procura di Santa Maria Capua Vetere che coordina l’inchiesta sui pestaggi, si è già provveduto ad allontanare 30 detenuti dal reparto Nilo. I reclusi sono stati trasferiti in istituti di pena al di fuori della Campania. Il reparto Nilo è proprio quello finito al centro dell’inchiesta sui pestaggi in carcere; nei confronti dei detenuti di quel reparto infatti i 6 aprile dello scorso anno fu disposta la perquisizione straordinaria degenerata drammaticamente in quella che il gip ha definito “orribile mattanza”. Tra i detenuti trasferiti ci sono vittime dei pestaggi e alcuni di coloro che hanno denunciato raccontando agli inquirenti la loro versione di quel 6 aprile.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Antonio e. Piedimonte per “la Stampa” il 3 luglio 2021.  «La Campania è solo la punta dell'iceberg», aveva detto a mezza voce un avvocato appena saputo dell'emissione dei 52 ordini di custodia cautelare nei confronti di agenti e dirigenti della polizia penitenziaria per la "mattanza" di Santa Maria Capua Vetere. E a quasi una settimana dagli arresti, oltre a sconvolgere l'opinione pubblica, l'inchiesta "tsunami" continua a riservare sorprese e sembra aver acceso i riflettori su altri scenari inquietanti. La clamorosa vicenda casertana - per la quale ieri è stata sollecitata la creazione di una Commissione parlamentare d' inchiesta - ha fatto emergere l'esistenza di vecchie indagini apparentemente "dimenticate" e, come riferisce il garante nazionale dei detenuti, sta alimentando nuove denunce in tutta Italia. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere nei prossimi giorni sarà oggetto di un'ispezione guidata dal dirigente Gianfranco De Gesu, dallo scorso novembre a capo della "Direzione generale dei detenuti". Obiettivo: cercare di capire come ha fatto la situazione a degenerare sino a diventare uno scandalo senza precedenti. La rivolta - su cui circola un video che mostra alcuni detenuti brandire oggetti contundenti - seguita dai "malumori" espressi dagli agenti per la linea "morbida" adottata dal comandante Gaetano Manganelli, parole fissate nelle chat e poi finite nei fascicoli della Procura insieme a telefonate, testimonianze e alle immagini delle telecamere. Ma non solo. «Ho dovuto bloccare i colleghi (...) li stavano facendo scendere dal medico. Dobbiamo temporeggiare qualche giorno così, non avranno più segni...», si legge in una trascrizione finita nell' ordinanza del gip Sergio Enea. Dunque, niente assistenza sanitaria ai detenuti feriti. E mentre il ministro della Giustizia Marta Cartabia annuncia un incontro (mercoledì) con le rappresentanze dell'amministrazione penitenziaria, si alza la voce del deputato di Più Europa radicali Riccardo Magi: «A ottobre feci un'interpellanza al ministro della Giustizia Bonafede ottenendo una risposta abbastanza sconcertante da parte del sottosegretario Vittorio Ferraresi. Si parlava di una "doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità». Sull'altro fronte i sindacati di categoria danno voce agli agenti coinvolti: «C' è amarezza e sensazione di smarrimento. Tutti garantiscono la corretta esecuzione delle misure detentive», dice Giuseppe Moretti, presidente dell'Uspp, sollecitando una profonda riforma. Niente gogna, è parola d' ordine, ma l'invito a non generalizzare arriva proprio a ridosso della diffusione di ulteriori notizie spiacevoli: sono stati rinviati a giudizio tre agenti e un ispettore accusati di atti di violenza nei confronti di un detenuto nel carcere di Monza nell' agosto del 2019. Ancora più grave il caso del 36enne tunisino Chouchane Hafedh, uno dei 9 detenuti morti nella rivolta del carcere di Modena, per il quale l'avvocato Luca Sebastiani ha annunciato ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo (contro l'archiviazione): «Alla luce dei fatti di Santa Maria Capua Vetere non comprendiamo perché non siano state disposte nuove indagini sui decessi». E in effetti è ancora da chiarire sino in fondo cosa accadde nel marzo del 2020, quando in una settantina di carceri da Nord a Sud esplose la violenta dei detenuti, innescata dal divieto di colloquio coi familiari (per evitare il contagio da Covid). Il tragico bilancio fu di 13 morti, quattro dei quali registrati durante il trasporto in altri istituti. Quasi tutti giovani e tossicodipendenti che avrebbero ingerito metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie, una spiegazione che non ha mai convinto i familiari e nemmeno quelle Procure che stanno indagando sull' ipotesi di "omicidio colposo" e "morte in conseguenza di altro reato". A Milano un detenuto si è già opposto all' archiviazione di un fascicolo su un presunto pestaggio subito. Si tratta di un 32enne italiano. A seguito di «un diverbio con un agente», sarebbe stato «immobilizzato» da lui e altri, «cinque o sei» in tutto, e colpito con «calci e pugni». La Procura milanese, però, ha deciso di chiedere l'archiviazione del fascicolo. Il difensore fa notare che gli inquirenti «avrebbero dovuto cercare altri riscontri» sentendo il compagno di cella e gli altri detenuti. Per il 30 settembre è fissata udienza davanti al gip che dovrà decidere se archiviare o, come chiede l'avvocato, disporre nuove indagini con le audizioni di testi.

Francesco Grignetti e Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 5 luglio 2021. La «preoccupazione» è palpabile, ai piani alti del Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Troppi segnali convergenti fanno temere una stagione nera in avvicinamento. Nel giro di pochi giorni, si segnalano: volantini anarchici in Sardegna contro «i secondini», uno striscione anarchico a Roma, un'improvvisa manifestazione di anarchici fuori dal carcere di Santa Maria Capua Vetere. E per di più un blocco doloso dei telefoni di quel penitenziario, causa attentato a una centrale telefonica. «Il pericolo è una saldatura tra il movimento antagonista e certa criminalità organizzata», si dice al Dap. E quindi le antenne di polizia e intelligence si sono drizzate. Che l'aria si sia fatta pesante, lo denunciano anche i sindacati della polizia penitenziaria. Donato Capece, leader del sindacato autonomo Sappe, ribadisce che occorre invertire la rotta di una criminalizzazione generalizzata, «perché ingiusta e pericolosa». Il Sappe sta lavorando a una manifestazione nazionale, quella che dovrà «simbolicamente» restituire le chiavi dei penitenziari. Si accoda anche la Uil-penitenziaria: «Dopo i raccapriccianti fatti di Santa Maria Capua Vetere si susseguono gli striscioni e i comunicati diffusi anche da frange eversive e inneggianti all'odio verso il Corpo di polizia penitenzia-ria e suoi singoli appartenenti. Il clima è sempre più pesante e pericoloso. Per questo ci rivolgiamo alla parte buona della società, alla politica e al governo chiedendo di creare un cordone di solidarietà e protezione», dice il segretario generale Gennarino De Fazio. La paura è che dopo la rappresaglia dei 52 agenti contro i detenuti di Santa Maria Capua Vetere, qualcuno possa organizzare una contro-rappresaglia. Dice esplicitamente De Fazio: «La storia del nostro Paese insegna che quando si è isolati, si è fortemente esposti agli attacchi della criminalità, che non di rado colpisce mortalmente». Ecco perché al Dap, in vista della riunione convocata dalla ministra Marta Cartabia domani, con tutte le numerose sigle sindacali del comparto, si osserva con particolare attenzione a tutto quel che si muove fuori, ma anche dentro le carceri. Non ci si nasconde che aleggi tra i 37 mila agenti della polizia penitenziaria una certa «demotivazione crescente». Si teme che subentri una «demoralizzazione» che non potrebbe non avere effetti sulla buona gestione delle carceri. Una prima mossa del Dap, diretta soprattutto a calmare gli animi degli agenti, è un esposto annunciato presso il Garante della Privacy. Il Dap stesso, infatti, è contrariato dalla «gogna mediatica» che si è scatenata contro gli indagati. Ma al sindacato Sappe questo esposto pare poco e di scarso effetto. Dice Capece: «Domani mattina (oggi per chi legge, ndr) abbiamo convocato il nostro team legale per esaminare la stampa locale, chi ha sbattuto il mostro in prima pagina, mettendo foto nomi e grado dei 52 colleghi raggiunti da misura cautelare, e vedere se ci sono gli estremi per una causa». A sua volta, la ministra Cartabia ha fatto sapere di aver telefonato al presidente dell'Ordine dei giornalisti affinché si valutassero eventuali violazioni deontologiche. Anche qui, il tentativo di trovare un equilibrio tra l'indignazione del Paese e il sentimento di ingiusta criminalizzazione nei 37 mila del-la penitenziaria. Per dare un altro segnale di equilibrio, il direttore Dino Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia hanno deciso di procedere con attenzione alle misure amministrative conseguenti quelle penali: se è stata scontata la sospensione dal servizio per i 52 ai quali il Gip ha imposto misure cautelari, nulla è ancora deciso per al-tri 80 individuati dalla Pro-cura, ma nei cui confronti il Gip non ha ritenuto di impor-re misure cautelari.

"Basta toghe ai vertici Dap". Agenti penitenziari in rivolta. Gian Micalessin il 5 Luglio 2021 su Il Giornale. Il dipartimento nella bufera per le violenze risente delle liti tra correnti di sinistra: "Dateci una guida militare". Sotto la Polizia Penitenziaria, in mezzo i Direttori delle carceri e, ai vertici, un Dap (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria) guidato da un magistrato nominato dal ministro di Giustizia, ma scelto dopo i consueti patteggiamenti tra le correnti «padrone» del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma il solito caos di una giustizia manovrata dalle correnti di sinistra che finisce, inevitabilmente, con il riverberarsi sul malfunzionamento degli istituti carcerari. Un caos di cui, alla fine, fanno le spese gli anelli più deboli ovvero detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria. «I fatti di Santa Maria Capua Vetere sono l'esatta replica di quanto verificatosi nel 2000 a Sassari, ma se nulla è cambiato il problema è l'inadempienza di un Dap che in vent'anni non ha saputo nemmeno darci dei protocolli operativi», spiega al Giornale Daniela Caputo, segretario di DirPolPen, il sindacato dei funzionari di Polizia Penitenziaria. Ma il pesce puzza sempre dalla testa. E la testa del Dap, ovvero il suo capo, è sempre un magistrato nominato ufficialmente dal Guardasigilli di turno, ma «indicato» in verità dopo i consueti patteggiamenti tra le correnti che dominano il Csm. «E allora nessuno faccia la madamina, qui dal 1993 ad oggi - s'indigna una fonte del Giornale ai vertici dello stesso Dap - sono passati una dozzina di personaggi nominati dai vari ministri, ma scelti sempre con le stesse logiche. Ovvero senza badare alla loro effettiva preparazione e, soprattutto, alla loro capacità di gestire una situazione carceraria sempre più complessa. Anche perché nessuno rimane mai in carica per più di tre anni e non ha quindi il tempo di comprendere i problemi del mondo carcerario». Dall'inadeguatezza dei vertici al malfunzionamento del sistema il passo - fa capire Daniela Caputo - è assai breve. «Stiamo assistendo ad un processo mediatico alla polizia penitenziaria, ma il Dap non ha ma fatto nulla per farla crescere e trasformarla in un corpo di polizia capace ed efficiente. A vent'anni dalla vicenda di Sassari non si è avviata una riflessione seria su cosa si pretende dalla polizia Penitenziaria. Gran parte del personale non ha seguito corsi di ordine pubblico o di gestione degli eventi critici. E poi manca la catena di comando. I nostri comandanti di reparto hanno un potere decisionale puramente teorico perché in realtà alla fine decide sempre il loro superiore gerarchico ovvero il direttore del carcere. Quindi i nostri funzionari hanno un'autonomia decisionale limitata, ma poi quando succede il fattaccio pagano anche per le scelte di chi gli sta sopra dal direttore d'Istituto fino ai vertici del Dap». Anomalie e mancanze ammesse anche dalla fonte del Giornale all'interno del Dap. «È vero i continui cambi di guida ai vertici hanno impedito di creare un corpo di Polizia Penitenziaria veramente professionale. Per contro la moltiplicazione degli stranieri e dei tossicodipendenti nelle carceri ha generato un aumento esponenziale nelle aggressioni. Ormai non passa giorno senza che un agente venga aggredito o colpito. Questo crea rabbia e frustrazione che in assenza di educazione e professionalità generano risentimento e vendetta. Ma il problema stenta a venir capito. Anche perché chi ci comanda spesso è solo di passaggio».

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla… 

La ministra Cartabia: "Incontrerò polizia penitenziaria e provveditori". Mattanza in carcere, garanti all’attacco: “Altri video raccapriccianti, agenti volevano distribuire giornali senza loro foto”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Luglio 2021. “Ci sono altri video raccapriccianti in possesso della Procura. Quelli che abbiamo visto sono solo una parte delle violenze”. E’ quanto sottolinea Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, nel corso di una conferenza stampa insieme al garante di Napoli Pietro Ioia e alla garante di Caserta Emanuele Belcuore. A distanza di una settimana dal blitz di carabinieri e procura di Santa Maria Capua Vetere che, al termine di indagini complesse e ricche di depistaggi e tentativi di storture, hanno cristallizzato (grazie proprio ai video) la mattanza andata in scena il 6 aprile 2020 quando quasi 300 agenti pestarono a sangue altrettanti detenuti ristretti nel reparto Nilo del carcere casertano. A distanza di una settimana, i garanti dei detenuti mantengono alta, come è giusto che sia, l’attenzione, nonostante le passerelle politiche di Matteo Salvini (“la vera mattanza è stata la rivolta dei detenuti”) e i tentativi della direttrice del carcere Elisabetta Palmieri e della stessa polizia penitenziaria di ridimensionare quanto accaduto. I giorni successivi all’esecuzione di ben 52 misure cautelari, nel carcere “Francesco Uccella” c’è stato un black out  “che  – spiega la garante Belcuore – non ha consentito ai detenuti di vedere i tg né sono stati distribuiti i giornali“. Il tutto per provare a oscurare quanto avvenuto nelle ore precedenti. “Sono balzata dalla sedia qualche detenuto mi ha anche detto che i giornali volevano pure distribuirli ma senza le foto degli agenti. Così – prosegue Belcuore – i detenuti mi hanno chiesto "dottorè scusate ma allora anche quando vengo arrestato dovete strappare la pagina del giornale?”. I garanti chiedono di incontrare Dino Petralia, a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), e contestano il trasferimento, avvenuto nei giorni scorsi, di 32 detenuti. “A loro non è stata data alcuna spiegazione. Devono tornare a Santa Maria Capua Vetere, per un anno sono stati a contatto con gli agenti ed ora sono stati traferiti, anche di notte, e senza spiegazione?” chiede Ciambriello che aggiunge: “Sono stati trasferiti, chi a Palermo, Palmi, Civitavecchia, Pesaro, Rieti o Modena”. “C’è preoccupazione da parte delle famiglie – incalza Emanuele Belcuore – che per un anno sono state costrette a fare delle videochiamate per parlare con i parenti detenuti e ora, quando si aprono le porte delle carceri, si prendono i detenuti e spostano a 600 chilometri di distanza”. Belcuore poi denuncia altre violenze: “Mi hanno riferito che al carcere di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina, ndr), ex opg, succedono cose inaudite. Prego la magistratura di far luce. Molti familiari campani che hanno detenuti lì – prosegue – mi hanno detto succedono cose inaudite ho scritto spesso al garante Sicilia e mi rivolgo alla magistratura affinché non ci sia una Santa Maria Capua Vetere due”.

Sulla mattanza è intervenuta anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Le immagini sul carcere di Santa Maria Capua Vetere non avrei mai voluto vederle” ma “bisogna anche dire che non possiamo criminalizzare un intero corpo della Polizia Penitenziaria sulla base di alcune persone”. Intanto mercoledì 7 luglio la ministra della Giustizia Marta Cartabia incontrerà i sindacati della polizia penitenziaria e nei giorni successivi i provveditori degli istituti. “Le condizioni del carcere – ha detto la ministra – stanno suscitando in me grande apprensione. Sto seguendo personalmente l’evoluzione delle vicende che sono emerse negli ultimi giorni: vicende che debbono avere approfondimenti e ho convocato a giorni delle riunioni. Voglio approfondire con i rappresentanti della polizia penitenziaria, che incontrerò nei prossimi giorni, e con i provveditori con cui avrò uno scambio di informazioni e vedute nei giorni successivi. Uno scambio di informazioni per capire come sia stato possibile che succedessero fatti così gravi”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista. 

Allarme carceri. “Altro che pestaggi, a S.M. Capua Vetere succede di peggio”, la denuncia dei garanti dei detenuti. Angela Stella su Il Riformista il 6 Luglio 2021. «Le condizioni delle carceri stanno suscitando in me grande apprensione. Sto seguendo personalmente l’evoluzione delle vicende che sono emerse negli ultimi giorni: vicende che debbono avere approfondimenti e per questo ho convocato a giorni delle riunioni»: così ieri la Ministra della Giustizia Marta Cartabia che domani incontrerà i sindacati della polizia penitenziaria e otto giorni dopo i provveditori degli istituti. «Uno scambio di informazioni per capire come sia stato possibile che succedessero fatti così gravi e di grande turbamento per tutti. Desidero rinnovare la mia vicinanza a tutto il personale delle carceri italiane. Il loro lavoro – ha concluso la Guardasigilli- è tanto prezioso quanto difficile, quanto sottovalutato. Molto spesso non guardiamo oltre le mura del carcere, ma dentro ci sono persone che svolgono un servizio essenziale per tutta la società e devono andare fieri sempre e portare con fierezza la divisa. Per questo la condanna deve essere ferma». Sulle violenze è intervenuta anche la Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: «Le immagini sul carcere di Santa Maria Capua Vetere non avrei mai voluto vederle». Ma com’è ora la situazione nel carcere sammaritano? Circa 30 detenuti del Reparto Nilo sono stati trasferiti in altre carceri campane come Carinola (Caserta) e Ariano Irpino (Avellino) e in istituti di altre regioni, come quelli di Modena, Civitavecchia, Perugia. I trasferimenti sono stati disposti su richiesta della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere d’intesa con il Dap per ragioni di giustizia, come si usa dire; si tratta di detenuti vittime delle violenze ma non tutti hanno però denunciato. «Per un anno denuncianti e denunciati sono stati faccia a faccia – ha giustamente sottolineato la garante dei diritti dei detenuti di Caserta Emanuela Belcuore – e ora si prende questa decisione nel momento in cui gli agenti coinvolti nei pestaggi stanno quasi tutti al carcere, ai domiciliari o sono stati sospesi. Ora non ha più senso, anzi avrebbe avuto senso spostare gli agenti. Ho capito che questa cosa è stata fatta per tutelare i detenuti, ma è un danno oggettivo per i loro familiari, che non possono più incontrare i propri congiunti in carcere e devono sobbarcarsi spese enormi e lunghi viaggi». Il clima comunque nel carcere sammaritano sembra essere «un po’ più sereno – prosegue la Belcuore – . Sono arrivati degli agenti di polizia penitenziaria più giovani e i detenuti sembrano essere tranquilli». Ma ieri garanti territoriali e regionali della Campania, durante una conferenza stampa, hanno chiesto che si intervenga sulla situazione delle carceri, ad esempio anche percorrendo la strada dell’indulto e dell’amnistia, come ha spiegato il garante cittadino di Napoli Pietro Ioia: «Non sono una resa ma una soluzione. C’è sovraffollamento nelle carceri e, certo, ora c’è anche paura». Il garante regionale Samuele Ciambriello ha aggiunto: «Quello che abbiamo visto nei video e nelle foto che stanno girando è solo una parte delle violenze, le immagini più raccapriccianti sono nei video che ha solo la Procura». Ieri è giunto anche il commento del Conams – Coordinamento nazionale dei Magistrati di sorveglianza – che esprime «un giudizio di incondizionata e severa riprovazione che non confligge con il rispetto della presunzione di non colpevolezza» e afferma la «necessità improrogabile di una riforma organica del sistema penale e penitenziario lungo le direttrici di un nuovo catalogo di pene alternative». Il segretario Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, aggiunge al Riformista: « È necessario uno sviluppo delle misure alternative ed una loro riqualificazione: intervenendo sugli strumenti del trattamento – lavoro, studio, rapporti con la famiglia e carcere ‘aperto’, tutto ciò che renda la pena “utile” al reinserimento sociale – si contrasterebbero anche le derive violente, frutto di una cultura della pena dura a morire. Vi è ancora purtroppo una risposta al reato esclusivamente carcero-centrica: in Italia ogni tre condannati, uno è in misura alternativa, due sono in carcere. In Francia il rapporto è rovesciato». Intanto nuovi particolari emergono dall’ordinanza di custodia cautelare; con tutta probabilità la violenza nel carcere casertano non fu «un mero incidente di percorso», ma «una costante nel rapporto tra gli indagati e i detenuti». A sottolinearlo è il gip Sergio Enea, che spiega che i provvedimenti cautelari erano necessari in quanto sussistenti «il pericolo di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove». Il rapporto tra agenti e carcerati, fatto di violenza, è «inaccettabile» in uno Stato di Diritto, evidenzia Enea, rimasto particolarmente colpito dalla «assoluta naturalezza e mancanza di ogni forma di titubanza con cui gli indagati hanno sistematicamente malmenato le vittime». Angela Stella

La denuncia del garante. Carcere di S.M. Capua Vetere, non solo torture: è boom di atti di autolesionismo. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Suicidi e atti di autolesionismo sono in aumento all’interno delle carceri. Il dato è anche campano ed evidenzia che una percentuale alta arriva proprio dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, l’istituto attualmente sotto i riflettori per i pestaggi del 6 aprile 2020. Come mai sempre più detenuti cedono alla disperazione fino quasi a preferire la morte? Quale inferno si vive nel chiuso delle celle? Di certo l’ultimo anno e mezzo è stato profondamente segnato dalla pandemia, dai lockdown, dalle misure anti-Covid che per i reclusi si sono tradotte in un aumento delle restrizioni, colloqui con i familiari per mesi sostituiti da videochiamate, sospensione di moltissime attività trattamentali. Nel carcere sammaritano il 2020 è stato anche l’anno del violento pestaggio nei confronti di 292 detenuti del reparto Nilo ora al centro di un’inchiesta della Procura. In questi mesi di tensioni e timori legati al Covid gli atti di autolesionismo sono aumentati in maniera allarmante. In tutte le 15 carceri della Campania si sono contati 1.232 eventi critici (erano stati 1.175 nel 2019), 196 di questi casi risultano avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’istituto di pena casertano è dunque al secondo posto per numero di casi dopo Poggioreale (dove nell’ultimo anno si sono contati 323 atti di autolesionismo). Tuttavia, se si considera che a Poggioreale ci sono circa 2mila reclusi e a Santa Maria 889, è evidente la dimensione del fenomeno. Quello sammaritano è anche il carcere dove non c’è acqua potabile, perché i lavori per la realizzazione di una rete idrica sono stati avviati da alcuni mesi, dopo un’attesa lunghissima: il carcere è stato costruito nel 1996. Ebbene, in questa struttura, secondo il garante regionale Samuele Ciambriello, il numero di atti di disperazione fra i detenuti è in aumento. Nel 2020 si sono contati, oltre a 196 atti di autolesionismo, 30 tentativi di suicidio sventati dal tempestivo intervento di agenti della penitenziaria o compagni di cella dei reclusi (tre in meno rispetto a Poggioreale che però è il carcere più grande e affollato di Italia), due suicidi (su un totale di 9 casi registrati nel 2020, numero quasi doppio rispetto al bilancio 2019 nel quale si erano contati cinque suicidi in tutte le carceri della Campania). E inoltre due decessi per morte naturale, 112 scioperi della fame, tre evasioni sventate, una evasione, 64 casi di isolamento sanitario correlati ad altre patologie, 198 provvedimenti di isolamento disciplinare, un isolamento giudiziario. Le ragioni di tanta disperazione e di tanto disagio sono da ricercare nella storia personale di ciascun detenuto, ma anche nel contesto in cui simili tragici gesti sono maturati. Sempre prendendo come riferimento il carcere di Santa Maria, dal report del garante regionale emerge che, a fronte di una capienza regolamentare di 809 posti, c’è una popolazione carceraria di 889 detenuti (187 dei quali stranieri), mentre gli agenti della penitenziaria sono 463 a fronte di una pianta organica di 470 unità. La carenza maggiore, dunque, non è sul piano del controllo ma su quello della rieducazione, che poi è la funzione principale della pena secondo la Costituzione. Per quasi 900 detenuti ci sono sei funzionari giuridico-pedagogici, quattro psicologi, 60 volontari e nessun mediatore culturale stabile ma solo a chiamata.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 5 luglio 2021. «Le condizioni della cella erano pessime, era sprovvista di coperte, lenzuola, tavoli e sgabelli, tanto è vero che per circa cinque o sei giorni siamo stati di fatto costretti a mangiare a terra». «Nel Danubio sono rimasto quattro giorni in isolamento, in particolare la sera del 6 non ci è stato somministrato il pasto, né l'acqua, né i farmaci. Non ci è stata, altresì, data la possibilità di cambiarci per quattro giorni». Eccole le voci dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere che raccontano cosa accadde dopo i pestaggi del 6 aprile 2020. In quindici dal reparto Nilo, teatro della perquisizione straordinaria e delle violenze, furono poi trasferiti al Danubio e obbligati a stare in due in celle di isolamento per una persona sola. Il trattamento che fu riservato a tutti è ora, per alcuni dei poliziotti penitenziari arrestati, un capo di imputazione specifico. I racconti dei detenuti riportano la seconda parte dell'incubo vissuto, dopo quella delle botte e delle umiliazioni. L'ordinanza del gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere è piena di deposizioni su quello che accadde al Danubio. «Sono stato nella cella 16 per circa dieci giorni, di cui sei passati senza ricambi, lenzuola, e prodotti per l'igiene, oltre che senza mascherine. A distanza di sei giorni ricordo che è arrivato il dottor Puglia e solo in quell' occasione, per la precisione poche ore prima, ci sono state distribuite le lenzuola, un cambio e saponi per la doccia». «Una volta collocati nelle stanze del Danubio, ci hanno lasciati lì per cinque giorni, con gli abiti sporchi e senza la possibilità di cambiarci nemmeno gli indumenti intimi, ancora sporchi di sangue. Non ci sono stati dati nemmeno il dentifricio ed i prodotti per l'igiene». «Durante i giorni in cui siamo rimasti nella cella non è passato alcun sanitario, solo la prima sera ci è stato dato un antidolorifico in fialetta da un capoposto». «Nei cinque giorni di detenzione nel reparto Danubio non mi è stato consentito di telefonare ai miei familiari». Il dottor Puglia citato in uno dei verbali è Marco Puglia, il magistrato di sorveglianza che la sera del 9 aprile decise di fare una ispezione nel reparto di isolamento del carcere di Santa Maria, subito dopo aver avuto un video colloquio, attraverso una piattaforma telematica, con un recluso che gli aveva riferito le condizioni in cui in cui si trovavano lui e altri. Il magistrato è stato ascoltato dai pubblici ministeri che conducono l'inchiesta, e la sua deposizione non soltanto conferma in più punti quello che hanno detto i detenuti, ma si sofferma anche sull' atteggiamento assunto dagli agenti penitenziari durante la sua ispezione. «Entrai nella cella (...) sita al primo piano. Mi affacciai in bagno e vidi che non aveva alcuna dotazione e non vi era alcuna possibilità di pulirsi, il che considerando che ci trovavamo in piena emergenza Covid risultava ancor più indegno ed insalubre. Ricordo con precisione che vi era il materasso di gomma piuma privo della copertura che, in assenza di lenzuola, era stato utilizzato come coperta. Mancava il cuscino ed il detenuto aveva arrotolato il materasso in modo che potesse fungere da cuscino», mette a verbale Puglia. E, riferendosi agli agenti, aggiunge che «tutti si sorpresero della mia presenza all' interno della casa circondariale alle ore 21.30. Rimasero basiti. In ogni mio spostamento fui seguito come un'ombra dalle tre unità della polizia penitenziaria, addette al Danubio. Percepii un leggero sgomento da parte loro per la mia presenza in loco a quell' ora tarda».

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 6 luglio 2021. Secondo il garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, nelle mani degli inquirenti che indagano sui pestaggi dei detenuti avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ci sarebbero video «ancora più raccapriccianti» di quelli già pubblicati in Rete. Una convinzione che non nasce dalla conoscenza di atti riservati, ma da quanto Ciambirello ha appreso dai detenuti incontrati in carcere, da quei racconti che lo spinsero poi a presentare l' esposto dal quale è nata l' inchiesta della Procura che ha portato all' arresto di ventisei tra funzionari e agenti di polizia penitenziaria e ad altrettante interdizioni, compresa quella del provveditore regionale del Dap Antonio Fullone, che proprio ieri nell' interrogatorio di garanzia si è avvalso della facoltà di non rispondere. Nelle testimonianze dei detenuti che hanno subito i pestaggi, in effetti, non si parla soltanto delle botte prese nei corridoi del reparto Nilo, lungo le scale e nella sala dedicata alla socialità. Si riferisce anche di atti degradanti come ispezioni intime, obbligo di spogliarsi nudi e fare flessioni e sputi sulla faccia e in qualche circostanza anche in bocca. E sarebbe avvenuto di peggio. Abusi di cui le vittime non sono riuscite a parlare con le due pm che conducono l'inchiesta e che hanno trovato il coraggio di riferire soltanto allo psichiatra. «Sono stato urinato addosso dalle guardie, ero in una pozza di sangue e mi hanno urinato addosso, sono stato sputato in bocca e in faccia più volte», racconta un detenuto. E aggiunge: «Davanti ai miei occhi hanno preso un ragazzo e lo hanno violentato. Un altro ragazzo stava molto male, volevo farlo bere, le guardie mi diedero una bottiglietta d' acqua ma era vuota e, quando lo feci presente, loro deridendomi mi portarono in bagno e, tirato lo sciacquone del water, mi dissero di riempirla lì». Queste scene, che sarebbero avvenute per lo più nell' ufficio matricola, nei video circolati finora non ci sono. Ma agli atti dell'inchiesta ci sono quasi venti ore di registrazioni, e che ci siano o meno le immagini relative a questi episodi, Procura e gip ritengono le testimonianze attendibili, anche sulla base degli accertamenti psicodiagnostici ai quali sono stati sottoposti i detenuti vittime dei soprusi. Anzi, da tutto quello che i detenuti hanno messo a verbale, sembrerebbe che non si possa circoscrivere la violenza di alcuni agenti penitenziari soltanto a ciò he accadde il 6 aprile dell'anno scorso. Un recluso riferisce un episodio del passato, avvenuto in occasione di una lite tra un italiano e uno straniero: «Sono intervenuti circa 50 agenti, che hanno soppresso la lite, picchiando i partecipanti e sputandogli addosso». Al reparto Nilo «vi è una squadretta di cui fanno parte tale "il marcianisano", "il palestrato" e "Pasquale il drogato", che a mio avviso sono quelli esaltati». Un altro recluso parla della «squadretta», ma non fa nomi, e della «stanza zero»: «La squadretta è composta sempre dalle stesse persone e la stanza zero è una cella al piano terra del reparto Nilo usata dalla squadretta per punire i detenuti».  E alla luce di tutto questo il carcere di Santa Maria, dove solo nel 2020 ci sono stati due suicidi, trenta tentativi di suicidio e 196 atti di autolesionismo, diventa un caso anche in Europa, con il portavoce dell'esecutivo comunitario per la Giustizia, Christian Wiegand, che dice: «È dovere delle autorità nazionali proteggere tutti i cittadini dalla violenza e tenerli al sicuro in ogni circostanza». E fa sapere che la Commissione non commenta l'inchiesta giudiziaria ma «si aspetta un'indagine indipendente e approfondita da parte delle autorità italiane competenti».

 Pestaggi in carcere: venti contro uno, i video mai visti della mattanza a Santa Maria Capua Vetere.  Conchita Sannino su La Repubblica il 6 luglio 2021. Le immagini sconvolgenti del raid avvenuto il 6 aprile 2020. Detenuti inermi picchiati selvaggiamente da decine di agenti. L'«ignobile mattanza» scena dopo scena. Nel corridoio delle celle sono venti contro uno. Nel vano scala, tre contro uno. Nell’area socialità, tutti in ginocchio con la faccia al muro mentre il più agitato dei poliziotti, quello con i guanti azzurri in lattice, assesta dieci manganellate di fila sulla schiena del giovane che non sta immobile, l’unico che continua a voltarsi.

Come vitelli. La mattanza in carcere. Storia, documenti e immagini dei pestaggi nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Carlo Bonini (coordinamento editoriale e testo), Giuliano Foschini, Conchita Sannino e Fabio Tonacci su La Repubblica l'8 luglio 2021. Il 6 aprile del 2020, nel chiuso della casa circondariale Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, si consuma quella che un'inchiesta giudiziaria, quattordici mesi dopo, definirà "una ignobile mattanza". Almeno trecento agenti della polizia penitenziaria, molti dei quali affluiti da altre carceri della Regione, si accaniscono su decine di detenuti inermi, colpevoli, nelle ventiquattro ore precedenti, di aver inscenato una rumorosa protesta (non l'unica in quei giorni nelle carceri italiane, dove i saranno 13 i detenuti a perdere la vita e 200 i feriti) chiedendo misure di prevenzione contro l'epidemia di Covid che ha raggiunto l'istituto. Ecco i nuovi video che testimoniano i pestaggi del 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’inchiesta ha già portato a 52 misure cautelari, a carico di funzionari, comandanti e agenti dell’amministrazione penitenziaria. Le accuse: torture, maltrattamenti, lesioni. Per alcuni dirigenti, come il Provveditore campano, Antonio Fullone, i pm contestano anche falsi, depistaggio e favoreggiamento. Depositate agli atti, ecco le nuove immagini, in esclusiva, che immortalano il pomeriggio di torture e maltrattamenti nel Reparto Nilo della Casa Circondariale “Francesco Uccella”. Quattro ore di “ignobile mattanza”, come l’ha definita il giudice per le indagini preliminari. Dal primo dei nuovi filmati, ecco decine di operatori della Penitenziaria che accerchiano uno o due detenuti per volta: chi assesta un colpo alla testa, chi li prende a calci, chi li picchia sulla schiena o sulla nuca. In alcune circostanze, più agenti si concentrano contemporaneamente su un’unica vittima. I reclusi si muovono a passi lenti, piegati dalla paura, le mani in testa nel tentativo di parare i colpi. A partecipare alla spedizione punitiva, secondo l’accusa, il personale della penitenziaria di quel carcere insieme al Gruppo speciale di Supporto, creato dal provveditore Fullone per arginare la crisi scoppiata nei giorni del lockdown anche nei penitenziari della Campania: 283 operatori in tutto. 

“Operazione pulizia, non si è salvato nessuno”, scrivevano nelle chat, poco dopo, mentre i detenuti erano abbandonati sotto il peso di ecchimosi, lividi e fratture.  Annalaura De rosa. Conchita Sannino e Raffaele Sardo su La Repubblica il 6 luglio 2021. Ecco i nuovi video che testimoniano i pestaggi del 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’inchiesta ha già portato a 52 misure cautelari, a carico di funzionari, comandanti e agenti dell’amministrazione penitenziaria. Le accuse: torture, maltrattamenti, lesioni. Per alcuni dirigenti, come il Provveditore campano, Antonio Fullone, i pm contestano anche falsi, depistaggio e favoreggiamento. Depositate agli atti, ecco le nuove immagini, in esclusiva, che immortalano il pomeriggio di torture e maltrattamenti nel Reparto Nilo della Casa Circondariale “Francesco Uccella”. Quattro ore di “ignobile mattanza”, come l’ha definita il giudice per le indagini preliminari. In questo secondo video, si vede un detenuto trascinato per terra. In un'altra scena, tutti i detenuti in ginocchio con la faccia rivolto al muro. Dagli agenti, colpi con i manganelli ai corpi e alla testa. A partecipare alla spedizione punitiva, secondo l’accusa, il personale della penitenziaria di quel carcere insieme al Gruppo speciale di Supporto, creato dal provveditore Fullone per arginare la crisi scoppiata nei giorni del lockdown anche nei penitenziari della Campania: 283 operatori in tutto.

"Il detenuto svenuto e le bastonature sulle scale": i nuovi video dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ecco i nuovi video che testimoniano i pestaggi del 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’inchiesta ha già portato a 52 misure cautelari, a carico di funzionari, comandanti e agenti dell’amministrazione penitenziaria. Le accuse: torture, maltrattamenti, lesioni. Per alcuni dirigenti, come il Provveditore campano, Antonio Fullone, i pm contestano anche falsi, depistaggio e favoreggiamento. Depositate agli atti, ecco le nuove immagini, in esclusiva, che immortalano il pomeriggio di torture e maltrattamenti nel Reparto Nilo della Casa Circondariale “Francesco Uccella”. Quattro ore di “ignobile mattanza”, come l’ha definita il giudice per le indagini preliminari. In questo terzo video, si vede un detenuto svenire, rimanere a terra ed essere soccorso con molta calma da agenti e medici. Poi un altro detenuto buttato per terra sulle scale e rialzato a forza, e colpito. A partecipare alla spedizione punitiva, secondo l’accusa, il personale della penitenziaria di quel carcere insieme al Gruppo speciale di Supporto, creato dal provveditore Fullone per arginare la crisi scoppiata nei giorni del lockdown anche nei penitenziari della Campania: 283 operatori in tutto. “Operazione pulizia, non si è salvato nessuno”, scrivevano nelle chat, poco dopo, mentre i detenuti erano abbandonati sotto il peso di ecchimosi, lividi e fratture.

"Il detenuto svenuto e le bastonature sulle scale". Le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: pestaggi coi manganelli nella sala socialità, un detenuto prova a ribellarsi. Un nuovo video delle violenze a Santa Maria Capua Vetere. I detenuti sono seduti nell'area socialità, dove si trova il tavolo da ping pong. Le telecamere riprendono alle 16.28 l'ingresso delle forze dell'ordine. Alcuni agenti della penitenziaria sono in tenuta antisommossa, volano i primi colpi. I detenuti si spostano verso il muro, qualcuno si ribella e viene colpito con più manganellate mentre un agente in primo piano senza casco in alcuni episodi cerca ogni tanto di frenare i colleghi.

Di Anna Laura De Rosa, Conchita Sannino e Raffaele Sardo su La Repubblica il 6-7-8 luglio 2021.

“TUTTI FACCIA AL MURO”: NUOVI VIDEO SUI PESTAGGI IN CARCERE A S. MARIA CAPUA VETERE. Il Corriere del Giorno il 7 Luglio 2021. Depositate agli atti, ecco le nuove immagini, in esclusiva, che immortalano il pomeriggio di torture e maltrattamenti nel Reparto Nilo della Casa Circondariale “Francesco Uccella”, che altro non sono che quattro ore di “ignobile mattanza”, come l’ha giustamente definita il giudice per le indagini preliminari. Mentre le sigle sindacali della Polizia Penitenziaria si esercitano nel consueto scarico i quotidiani LA REPUBBLICA ed il CORRIERE DELLA SERA hanno pubblicato dei nuovi video (vedi QUI) che testimoniano i vergognosi pestaggi dello scorso 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’inchiesta al momento ha già scaturito 52 misure cautelari nei confronti di funzionari, comandanti e agenti dell’amministrazione penitenziaria che dovranno rispondere delle accuse di torture, maltrattamenti, lesioni. Nei confronti di alcuni dirigenti, come il Provveditore campano, Antonio Fullone, i pm contestano anche falsi, depistaggio e favoreggiamento. Depositate agli atti, ecco le nuove immagini, in esclusiva, che immortalano il pomeriggio di torture e maltrattamenti nel Reparto Nilo della Casa Circondariale “Francesco Uccella”, che altro non sono che quattro ore di “ignobile mattanza”, come l’ha giustamente definita il giudice per le indagini preliminari. In questo secondo video, si vede un detenuto trascinato per terra. In un’altra scena, tutti i detenuti in ginocchio con la faccia rivolto al muro. Dagli agenti, colpi con i manganelli ai corpi e alla testa. A partecipare alla spedizione punitiva, secondo l’accusa della Procura, il personale della penitenziaria di quel carcere insieme al Gruppo speciale di Supporto, creato dal provveditore Fullone per arginare la crisi scoppiata nei giorni del lockdown anche nei penitenziari della Campania: 283 operatori in tutto.  “Operazione pulizia, non si è salvato nessuno”, scrivevano nelle chat, poco dopo, mentre i detenuti erano abbandonati sotto il peso di ecchimosi, lividi e fratture. La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto un fascicolo sulla pubblicazione dei video che mostrano le violenze sui detenuti avvenute nel carcere casertano il 6 aprile 2020. Gli atti del pm e della polizia giudiziaria nella fase delle indagini preliminari in corso, infatti, sono coperti da segreto. La Procura ipotizza il reato di rivelazione d’atti d’ufficio: i video, essendo atti di un’indagine non ancora conclusa, non potevano essere diffusi come previsto dal codice di procedura penale (articolo 114), che vieta “la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto“, e ciò almeno “fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Fatti che integrano gli estremi del reato di rivelazione d’atti d’ufficio (articolo 326 del codice penale), fattispecie che mira a punire “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza”. “Confido che la magistratura chiarisca se qualche pubblico ufficiale ha illecitamente favorito la diffusione dei video che riprendono i pestaggi al carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma resto convinta che non bisogna spostare l’attenzione dal contenuto dei video alla loro diffusione“, afferma invece la Garante dei detenuti della provincia di Caserta Emanuela Belcuore, che interviene sulla decisione della Procura della Repubblica guidata da Maria Antonietta Troncone di aprire un fascicolo per rivelazione d’atti d’ufficio. “Credo che concentrarsi sui contenuti sia utile tanto ai detenuti quanto agli stessi agenti della Polizia Penitenziaria”. Riuscirà la Procura a scoprire chi ha fatto trapelare quei video? Abbiamo qualche dubbio.

“Operazione pulizia, non si è salvato nessuno”, scrivevano gli agenti nelle chat. Il detenuto svenuto e le bastonate, sbattuti contro il muro e colpiti: i nuovi video dell’ "ignobile mattanza" a SMCV. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Sono scene raccapriccianti quelle che arrivano dal carcere di Santa Maria Capua Vetere di quel 6 aprile in cui i detenuti furono sottoposti a quella che i giudici hanno definito “un ignobile mattanza”. Repubblica e il Mattino pubblicano quei video pieni di violenza e dolore, taciuta per oltre un anno. E quelle immagini, depositate agli atti, cristallizzano tutto il male perpetrato in carcere per “punire” i detenuti che avevano protestato contro il covid in quella che la penitenziaria ha definito “una situazione sfuggita di mano”. Nelle immagini si vedono decine di operatori della Penitenziaria che accerchiano uno o due detenuti per volta: chi assesta un colpo alla testa, chi li prende a calci, chi li picchia sulla schiena o sulla nuca. Nei video pubblicati da Repubblica c’ accanimento di tanti contro singoli detenuti che cadono sotto il peso delle botte e dei manganelli. Chinano la testa temono il colpo alle spalle da un momento all’altro. Poi il colpo arriva saldo e forte. Si muovono a passi lenti, piegati dalla paura, le mani in testa nel tentativo di parare i colpi. L’inchiesta ha già portato a 52 misure cautelari, a carico di funzionari, comandanti e agenti dell’amministrazione penitenziaria. “Operazione pulizia, non si è salvato nessuno”, scrivevano nelle chat, poco dopo il fatto i protagonisti delle violenze come riportato da Repubblica. E ancora Repubblica mostra un’altra drammatica scena cristallizzata dalle telecamere di videosorveglianza. All’improvviso un detenuto sviene, forse provato dalle botte. Gli agenti lo guardano, qualcuno lo smuove con un piede, nessuno sembra allarmarsi o chiamare prontamente i soccorsi. Uno degli agenti lo prende a calci. Poi arriva un medico con il camice e subito dopo una donna in camice. Lo rianimano. E ancora un detenuto viene buttato per terra sulle scale, rialzato a forza e colpito. Si vede anche un recluso trascinato per terra mentre in un altro frame i detenuti sono in ginocchio con la faccia rivolta al muro mentre partono i colpi con i manganelli. Fermi, inermi, e intanto la penitenziaria continua a colpirti e a spintonarli. Il Mattino pubblica un’altra drammatica scena. Lì nella sala della “socialità”, accanto al biliardino i detenuti vengono colti alla sprovvista. I pestaggi avvengono con i manganelli. Poi, gli agenti cercano di rimettere ordine nella stanza. In un altro video si vedono i poliziotti penitenziari battere i manganelli sugli scudi, quasi a ‘festeggiare’ l’azione appena portata a termine. Far luce sulla catena di comando in relazione alla perquisizione straordinaria ordinata per il 6 aprile 2020. Per questo motivo oggi sono arrivati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ispettori del ministero della Giustizia. Un’ispezione amministrativa per analizzare quanto accaduto il 5 aprile, durante la rivolta dei detenuti, e il giorno successivo, quando per gli inquirenti sarebbero avvenute le presunte violenze ai danni dei prigionieri. L’obiettivo è cercare di capire eventuali intoppi e cosa non ha funzionato nella catena di comando in quei giorni, quando la direttrice Elisabetta Palmieri era assente per motivi di salute. Nei giorni successivi alle 52 misure cautelari, la ministra della Giustizia Cartabia, con il capo del Dap, chiesero una verifica approfondita sull’intera catena di informazioni e responsabilità. “Ben venga la visita ispettiva del ministero, anche se è un po’ tardiva. Tutto questo caos doveva essere gestito all’inizio, non dopo 14 mesi. Questo ha aumentato i dubbi, le perplessità. Come ad esempio la sospensione delle persone indagate, presenti quel giorno ma che per gli inquirenti non sono coinvolti in modo attivo nei fatti. Intervenendo all’epoca, già si sarebbero potuti sgombrare dubbi che danno spazio a ricostruzioni fantasiose. Se fossero state disposte verifiche già lo scorso anno, oggi avremmo già delle risposte”. Ha commentato così a LaPresse Emilio Fattorello, segretario nazionale del Sappe e responsabile della Campania, l’arrivo degli ispettori nel carcere sammaritano. E, sempre per quanto riguarda i sindacati, oggi il Spp senza mezzi termini ha chiesto le dimissioni del garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “Alla nostra richiesta di abbassare i toni per consentire alla magistratura di lavorare in serenità, si risponde con una conferenza stampa dai toni allarmistici che non rispondono alla verità dei fatti accaduti. Ciambriello dovrebbe spiegare come fa a dire certe cose, come se avesse avuto accesso ai filmati, un’eventualità impossibile”, ha dichiarato il segretario generale del Spp Aldo Di Giacomo in una nota, criticando le dichiarazioni in merito alla presenza di presunti video dei pestaggi ancora più raccapriccianti in possesso della procura. Dal canto suo il garante ha spiegato a LaPresse di non aver visto nessun nuovo video: “Nell’ordinanza vengono elencati particolari raccapriccianti – spiega – dettagli e luoghi che nei filmati diffusi non compaiono. E’ tutto scritto, è ovvio quindi che gli inquirenti devono essere in possesso di altro materiale”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" l'8 luglio 2021. Come in un film dove la scena paurosa deve arrivare all' improvviso, pure le immagini registrate dall' impianto di videosorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere sembrano avere una trama e un crescendo preparato meticolosamente come si prepara una sceneggiatura. I video della perquisizione del 6 aprile 2020 nel reparto Nilo dell'istituto di pena casertano, all' inizio raccontano un clima tranquillo. I detenuti sono fermi all' esterno delle celle, parlano tra loro, qualcuno scherza anche. I poliziotti vanno e vengono. Il controllo delle stanze è accurato, da una viene tirato fuori il letto. Il detenuto che occupa la cella collabora, smonta la rete, separa i piedi dal resto della struttura e a un pezzo alla volta porta tutto fuori. Dove rimonta ogni cosa. Lo si vede bene mentre si guarda intorno e non sa nemmeno lui che cosa deve fare con quel letto in mezzo al corridoio. E pure nella sala della socialità, quella dove ci sono il biliardino e il tavolo da ping pong e dove poi succederanno cose orrende, il clima all'inizio è tranquillo. I detenuti stanno seduti sulle sedie accostate al muro, hanno l'aria di chi sta aspettando, sembra che stiano lì in attesa che la perquisizione finisca. Poi si apre la porta in fondo, entrano un paio di agenti di Santa Maria e quattro o cinque di quelli del gruppo di rinforzo, quelli in tenuta antisommossa, con i caschi, gli scudi e i manganelli. I detenuti capiscono subito quello che sta per succedere: si alzano e cercano riparo arretrando fino al lato opposto della stanza. Non serve a niente. Anzi, in quell' angolo dove si sono infilati restano imprigionati. Gli agenti li raggiungono, e quelli con i manganelli cominciano a picchiare. Un recluso prova a ribellarsi, non a reagire: solo a ribellarsi. E la paga amaramente. È un accanimento al quale soltanto un poliziotto del carcere sembra opporsi. Più volte si frappone tra i colleghi e i detenuti, più volte ferma il braccio di chi sta abbattendo l'ennesimo colpo. Altro video, ancora la sala della socialità. Tre detenuti fermi al centro, con le mani alzate. Per uscire devono passare in mezzo a un gruppo di agenti fermi davanti alla porta. Provano, ma prima di arrivare nel corridoio, ognuno non può evitare pugni, schiaffi e calci. Stavolta il più violento è un agente interno al carcere. Violento ma anche ridicolo. È bassino, non ha il manganello, picchia a mani nude. Le telecamere lo riprendono mentre si scatena sul primo dei tre reclusi che gli capita davanti, un omone alto e grosso con il quale difficilmente quell' agente si sarebbe misurato in strada o in qualunque altro posto fuori dal carcere. Qui invece lo colpisce più volte, ma fatica ad arrivare al volto e deve accontentarsi di dare schiaffi al tronco, soprattutto fianchi e schiena. Cambio inquadratura: un detenuto sviene, passano due agenti e tirano dritto, ne sopraggiunge un altro e gli sferra un calcio. Poi arrivano due sanitari, lo aiutano a riprendersi, lo fanno mettere su una sedia. Tornano gli agenti, ma non lo picchiano più. Ma è un caso isolato, perché i video, ormai è chiaro, riportano quasi solo pestaggi. Nella sala della socialità, nei corridoi, sulle scale. La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto un fascicolo di indagine per i primi filmati pubblicati in Rete, che secondo gli inquirenti sarebbero dovuti rimanere riservati. I riconoscimenti degli agenti indagati sono avvenuti tutti o quasi attraverso le immagini registrate. Ma uno dei poliziotti finiti agli arresti quelle immagini certamente le ha benedette, perché proprio grazie ai video è riuscito a convincere il giudice delle indagini preliminari di non essere lui quello ripreso dalle telecamere. E questo gli è valsa la scarcerazione. Gli altri sperano nel riesame, che inizierà domani e proseguirà fino alla prossima settimana. Le posizioni da esaminare sono molte perché hanno fatto ricorso anche i poliziotti sospesi. I loro sindacati, intanto, hanno incontrato ieri il ministro della Giustizia Cartabia per parlare di come riorganizzare il lavoro degli agenti penitenziari. 

Vittorio Feltri sul pestaggio in carcere a Santa Maria Capua Vetere: "Secondini violenti, ma dov'era chi doveva vigilare?". Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 09 luglio 2021. Torno malvolentieri sui pestaggi disgustosi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma le ultime, e fino a due giorni fa inedite, immagini delle aggressioni me lo impongono. Scene inimmaginabili, incredibili, sembrano quelle di un brutto film americano. Intendiamoci, la violenza, anche quella gratuita, è sempre esistita purtroppo, tuttavia indigna il fatto che nel caso in questione sia stata esercitata su detenuti affidati in custodia a servitori dello Sta to. Gli agenti sono persone che suppongo abbiano vinto un concorso e abbiano volontariamente deciso di lavorare nelle prigioni con il compito preciso di mantenere l'ordine dietro le sbarre. Vero che a Santa Maria Capua Vetere si era registrata una rivolta dei reclusi, timorosi di essere colpiti dal Covid, come del resto tutti i cittadini italiani. Però le botte da orbi ai detenuti sono state rifilate quando la calma era tornata nel penitenziario. Quindi viene da pensare che gli attacchi fisici ributtanti siano avvenuti per una sorta di vendetta non soltanto brutale, direi bestiale, e in forma organizzata, e premeditata, allo scopo di dimostrare che il carcerato è un essere inferiore rispetto ai secondini. E ciò è intollerabile. Gli uomini sono tutti uguali, lo dice anche la Costituzione, compresi quelli ai quali è stata tolta la libertà poiché hanno commesso dei reati punibili secondo la legge. Vero che il lavoro del sorvegliante non è piacevole, questo è noto, ma altrettanto vero che chi lo svolge non lo fa gratis: riceve uno stipendio. Inadeguato? Non lo escludo, se è così gli agenti di custodia non devono prendersela con i prigionieri, già abbastanza vessati, bensì con lo Stato. Essi invece si sono accaniti su uomini esasperati e disarmati, ricorrendo da vigliacchi a spranghe con cui non hanno certo accarezzato le spalle e la testa a chi capitava loro a tiro. Uno spettacolo vomitevole, per fortuna inedito, benché si dica che spesso si verifichino episodi del genere. Noi non abbiamo un sentimento negativo nei confronti della intera categoria degli agenti di custodia, semplicemente ci domandiamo: chi è incaricato di controllare il loro operato e di impedire che degeneri al punto da trasformare una casa di pena in macelleria? Non credo che la responsabilità riguardante il buon funzionamento di una prigione sia attribuibile ai secondini, ci sarà qualcuno preposto per evitare che essa si trasformi in un mattatoio. Vogliamo sapere nomi e cognomi di coloro che gestiscono l'ambaradan, i quali ovviamente devono rispondere dell'accaduto che ci fa vergognare del nostro Paese.

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 9 luglio 2021. C'era un comandante-ombra nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. E non lavorava in quel carcere ma in quello di Secondigliano, dove aveva il compito di coordinare i servizi di piantonamento e traduzione dei reclusi. Era l'uomo di fiducia del provveditore regionale del Dap (oggi indagato e sospeso) Antonio Fullone, che lo aveva messo al comando del nucleo di pronto intervento da lui istituito. E avrebbe avuto un ruolo determinante nell'indurre il funzionario a disporre la perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020, utilizzata dagli agenti penitenziari come pretesto per sottoporre i detenuti a pestaggi e umiliazioni. Il legame tra il provveditore e il comandante è illustrato in un intero capitolo dell'informativa redatta dai carabinieri durante le indagini e consegnata ai magistrati della Procura di Santa Maria. Scrivono i carabinieri: «Nel penitenziario sammaritano, già prima dei fatti del 5 e 6 aprile, vigeva una condizione di disordine organizzativo e di scarsa fiducia tra il personale e le figure verticistiche». E ciò avrebbe spinto Fullone «a individuare in altri soggetti esterni, in particolare nel comandante del nucleo piantonamenti e traduzioni di Secondigliano, delle figure di riferimento che lo coadiuvassero nella gestione della situazione determinatasi all'interno dell'istituto di Santa Maria Capua Vetere». L'informativa riferisce anche di quando i carabinieri vanno ad acquisire i filmati registrati dall'impianto di videosorveglianza del carcere e delle difficoltà che incontrano per ottenerli. La prima volta il personale della casa circondariale risponde che non è possibile consegnare quel materiale perché mancano i tecnici in grado di estrapolare le registrazioni del 6 aprile. Successivamente ai carabinieri vengono consegnate relazioni di servizio attestanti il malfunzionamento dell'impianto. E alla fine è soltanto grazie al sopralluogo di un ingegnere convocato dagli inquirenti che viene dimostrato il perfetto funzionamento delle videocamere e possono essere acquisite le registrazioni.

Carceri, detenuti più liberi, ma meno sorveglianza. Così esplodono le aggressioni. Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 12/7/2021. Tutte le falle del sistema penitenziario che hanno portato alle ingiustificabili violenze di Santa Maria Capua Vetere. Nulla potrà mai giustificare la macelleria di Santa Maria Capua Vetere, ma una spiegazione andrà pur cercata se le condizioni di vita in carcere sono diventate insostenibili, come dimostra l’aumento, costante negli ultimi anni, di tentati suicidi, atti di autolesionismo e aggressioni. Al sovraffollamento si imputa tutto, e secondo il rapporto Space 2020 del Consiglio d’Europa, abbiamo la percentuale più alta di tutta la Ue: su una disponibilità di 50.779 posti, i detenuti sono 53.637. Con grandi differenze fra un carcere e l’altro, alcuni semivuoti e altri dove stanno pigiati come sardine, come a Poggioreale, dove c’è posto per 1.500 persone, ma sono in 2.062. A Regina Coeli non dovrebbero superare i 600, sono 893; a Bologna su 500 posti sono in 744; a Bergamo dove la disponibilità è di 315, i carcerati sono 529. Certo, il Covid, unito alla impossibilità di distanziamento, ha fatto salire la tensione, ma il totale dei detenuti è molto diminuito: nel 2010 erano quasi 70.000. Allora perché i dati negli ultimi sei anni sono peggiorati?  C’è qualcosa in più.

Celle aperte per i meritevoli. Inizia tutto con una scelta di civiltà. Fino al 2011 chi non aveva condanne per reati particolarmente gravi o di criminalità organizzata, passava due ore al giorno all’aria aperta e due con la cella aperta. A novembre dello stesso anno, la circolare 3594/6044 diramata dall’allora direttore trattamento detenuti Sebastiano Ardita concede più fiducia ai meritevoli. L’Amministrazione istituisce reparti dove le celle restano aperte più a lungo per soggetti di scarsa pericolosità, e assegna ad ogni detenuto un codice su «criteri oggettivi». Bianco a chi non ha commesso violenze o minacce, verde a chi non appartiene ad associazioni finalizzate a reati violenti, giallo per violenti che in carcere abbiano mantenuto atteggiamenti di tipo sociale. Rosso agli altri, che, alla lunga, possono risalire la gradazione cromatica.

L’obiettivo è quello di elevare la responsabilità di ciascuno: più mi comporto bene e più ore d’aria avrò. Ma ogni colore necessita di sorveglianze adeguate, avverte la circolare.  E raccomanda di verificare, con un progetto pilota, se il sistema funziona.  Non viene fatto. In compenso nel 2012, il capo del Dap Giovanni Tamburino, con una nuova circolare comincia ad eliminare i colori.

Celle aperte anche per i pericolosi. Nel 2015 la svolta: arriva una nuova circolare: la 3663/6113. La firma l’allora capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Citando i richiami della Corte Europea dei diritti dell’uomo, fa spazio alla discrezionalità delle direzioni dei penitenziari nella valutazione dei singoli e, soprattutto, spalanca le celle. Ai detenuti (eccetto i mafiosi e i 41 bis) vengono assegnati due soli regimi: custodia «chiusa» e «aperta».  Ma quella «chiusa» prevede un «tempo minimo da trascorrere fuori delle camere detentive di 8 ore», mentre quella «aperta» fino a 14 ore e uno spazio di libertà di movimento da raggiungere «senza onere di accompagnamento». Inoltre dispone che durante le attività dei detenuti gli agenti siano «all’esterno delle sezioni, senza la necessità di presidi stabili nei reparti e nei luoghi di pertinenza». In sostanza: autogestione. Un anno dopo i numeri mostrano il risultato di quella scelta: le aggressioni fra detenuti sono 776 in più, quelle agli agenti penitenziari 116, le infrazioni disciplinari sono 6.602 in più, le violenze, minacce e resistenze ai pubblici ufficiali 498 in più. Crescono i mancati rientri e gli atti di atti di autolesionismo (1557 in più), ma il capo del Dap, che resterà fino al 4 luglio 2018, non ci dà peso.  Non lo fa nemmeno il suo successore, Francesco Basentini, che nel 2020 si trova a gestire la crisi del Covid con le rivolte di marzo, le polemiche per la scarcerazione dei boss e, ad Aprile le botte degli agenti sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Si dimette il mese dopo, e al suo posto viene nominato il magistrato Dino Petralia. Intanto lo spazio lasciato libero viene riempito. E dove manca il presidio, l’ordine lo dettano i detenuti più temuti, che potendo circolare liberamente possono prendere il carcere in mano. E se guardiamo i dati del 2014 (prima dell’entrata in vigore della circolare del 2015)  e li confrontiamo con gli ultimi disponibili, sembra sia proprio andata così.  

Crescono aggressioni, minacce, tentati suicidi. Le aggressioni contro la Polizia Penitenziaria passano dalle 387 del 2014 alle 837 del 2020. Quelle fra detenuti da 2.039 arrivano a 3.501. Contro il personale amministrativo da zero a 36.

Un’impennata verticale si registra nelle violenze, minacce, ingiurie, oltraggi e resistenze ai pubblici ufficiali: da 319, nel 2020 schizzano a 3.577. Le colluttazioni sono più che raddoppiate: da 1.598 a 3.501.

Nelle celle sono spuntati telefonini o sim card: da 118 a 1.140. Sono arrivati anche i coltelli: da 55 a 196.

Le violazioni di norme penali sono salite quasi di cinque volte: da 1.443 siamo arrivati a   5.536 nel 2020. Crescita vertiginosa delle infrazioni disciplinari (intimidazioni, atti osceni): erano 1.127, sono arrivate a 10.106.   Difficile pensare che i detenuti stiano meglio. Ma il dato più allarmante è quello sui i reati «spia» del disagio: i tentati suicidi da 933 sono arrivati a 1.480. Gli atti di autolesionismo, dai 6.919 del 2014 sono arrivati a 11.315. Solo a Santa Maria Capua Vetere, nell’ultimo anno e mezzo, sono stati quasi 300. Una tensione che molti si aspettavano che sarebbe esplosa e, complice il panico da Covid, in quel penitenziario mal gestito, con 150 detenuti oltre capienza, infestato da insetti, condizioni igieniche precarie, è accaduto.

A subire sono i più giovani

Una cosa è certa, i numeri allarmanti smentiscono l’equazione: «celle aperte, meno oppressione». E aprono squarci su situazioni di sopraffazione dove a subire sono soprattutto i detenuti più giovani, i nuovi arrivati, i meno pericolosi. Quelli che, se aggrediti, hanno paura a denunciare, e preferiscono le sanzioni pur di non rientrare nell’incubo. Poi ci sono le violenze sessuali, non denunciate per vergogna. Un problema enorme perché in Italia l’affettività, usata nel resto d’Europa come incentivo (fai il bravo e vedrai il tuo partner), viene negata. Una situazione in cui stanno male anche gli agenti, sottodimensionati, non sempre adeguatamente formati, che faticano a mantenere l’ordine e possono essere tentati, a loro volta, dalla violenza, come dimostrano le brutalità nel carcere campano.   

La pena che non rieduca 

Le indicazioni della Corte Europea a cui si è fatto riferimento sono ben altre: chiedono di adottare un modello penitenziario basato sulla funzione rieducativa della pena.

Le celle aperte si inseriscono nell’organizzazione di attività lavorative che il carcere deve garantire. Il problema è che non ci sono fondi sufficienti per retribuire il lavoro del carcerato

Ma nessun Paese ha abbastanza risorse per pagare uno stipendio ai condannati. Il metodo seguito nel Nord Europa, è quello di trattenere dalla busta paga le spese di giustizia e mantenimento. L’adesione al programma arriva quasi al 90%, perché ci sono più permessi premio, più ore di visita parenti, e soprattutto si impara un mestiere. Il risultato è un tasso di recidiva bassissimo.

Nelle nostre carceri sono poco più di 2.000 i detenuti che hanno una occupazione regolare, mentre circa 15.000 lavorano come scopino, addetto alla lavanderia o cucina poche ore al giorno e a giorni alterni. Tutti gli altri vengono lasciati a fare niente. E non basta sbandierare le buone esperienze di Bollate, Padova e altre piccole realtà, perché il detenuto non può scegliere dove scontare la pena.  Risultato: quasi il 70% di chi esce dal carcere, poi ci ritorna.

L’inchiesta della Gabanelli sulle violenze in carcere: tanti errori e accuse gratuite. Per la Gabanelli le violenze sarebbero legate alla sorveglianza dinamica, ma a Santa Maria Capua Vetere e in altre carceri era sospesa per il Covid. Per lei il sovraffollamento non c’entra, ma la Cedu consigliò celle aperte. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 14 luglio 2021. Milena Gabanelli, sulle pagine del Corriere della Sera ha scritto una inchiesta sulle violenze in carcere. Quella commesse dai detenuti. In sostanza, partendo dai dati delle violenze e dei gesti di autolesionismo in aumento, associa tali eventi critici all’introduzione della sorveglianza dinamica.

Il primo errore sulla sorveglianza dinamica. Parte dal fatto che nulla potrà mai giustificare la macelleria avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma una spiegazione va data. La colpa, secondo la Gabanelli, è dell’applicazione della sorveglianza dinamica. Si intravvede il primo grossolano errore. In quel periodo pandemico, tale sorveglianza era stata sospesa al carcere di Santa Maria Capua Vetere: quindi non c’entra nulla con il disagio tra detenuti e la reazione punitiva, a sangue freddo, da parte di un gruppo consistente di agenti.

La Cedu indica l’apertura delle celle come compensativo al sovraffollamento. La Gabanelli dice che è sbagliato additare tutte le criticità, come l’aumento delle violenze, al sovraffollamento. Altro errore. C’entra eccome. Non è un caso che è stata la stessa Cedu nell’indicare l’apertura delle celle come elemento compensativo al sovraffollamento. Infatti, la sorveglianza dinamica prevede l’apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14, dando la possibilità ai detenuti di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente all’infuori di essa e di usufruire di spazi più ampi per le attività. Ciò produce anche un mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia Penitenziaria: non è più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione della persona detenuta. Un compito che non riduce la figura dell’agente penitenziario a mera custodia, ma diventa parte attiva del percorso trattamentale dei detenuti.

Le accuse gratuite all’ex capo del Dap Santi Consolo. La Gabanelli accusa però l’ex capo del Dap Santi Consolo di avere esteso la sorveglianza dinamica a tutte le carceri, rendendola effettiva. Ebbene dice che i dati degli eventi critici (violenze, minacce, mancati rientri) sono aumentati a dismisura dopo l’introduzione. Non basta. Accusa Santi Consolo di non avergli dato peso. A questo punto facciamo un po’ di ordine. Dopo la sentenza Torregiani (Italia condannata per sovraffollamento che ha creato condizioni disumane e degradanti), nel 2013 è stato varato un decreto per assecondare i dettami della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Tra questi, la centralità del discorso trattamentale e, appunto, compensare il sovraffollamento delle celle con la loro apertura.

La circolare di Consolo sulla sorveglianza dinamica del 2015. Poi è arrivato il Dap di Consolo, predisponendo più precise specificazioni con la circolare n. 3663/6113 del 23 ottobre 2015, recante “Modalità di esecuzione della pena”. Questa viene emanata a distanza di circa due anni dalla prima, chiamando da un lato a una maggiore uniformità nell’organizzazione dei reparti detentivi nei diversi istituti, e dall’altro a una maggiore organizzazione di attività lavorative, di istruzione, ricreative, che favoriscano la permanenza dei detenuti e delle detenute fuori sezione. Una circolare doverosa, quindi.

Non tutte le carceri si sono adeguate alla sorveglianza dinamica. Ma, come dice la Gabanelli, con la sorveglianza dinamica allargata per tutti gli istituti, si sono triplicate le violenze? Non è esattamente così. Non tutte le carceri si sono adeguate.

I maggiori casi di violenze sono legati alla salute psichica. Le violenze e gesti autolesionistici, sicuramente aumentate con il tempo, non possono essere additate esclusivamente al discorso delle celle aperte. Non si può omettere che i maggiori casi di escandescenze da parte dei detenuti, è da ricercarsi nelle criticità legate alla salute psichica che sono nettamente in aumento. Ci aiutano i sindacati di polizia penitenziari stessi, grazie ai loro comunicati. La maggioranza dei casi di aggressioni e gesti autolesionistici sono dovuti non dalla “sorveglianza dinamica”, ma dalla patologia psichiatrica in aumento.

I suicidi non hanno alcun nesso con la sorveglianza dinamica. E i suicidi? La Gabanelli inserisce anche questi dati. Ma è scorrettissimo il nesso con la “sorveglianza dinamica”. Anzi, è l’esatto contrario. Se il sovraffollamento si unisce con altri fattori, come il mancato rispetto della regola dei 3 metri quadrati per ogni soggetto, la chiusura totale delle celle ad esclusione delle ore d’aria e la mancanza pressoché totale di attività formative e lavorative, diventa il punto di partenza di una escalation di suicidi (pensiamo a coloro che si impiccano in isolamento) e di gesti autolesionistici.

Il vero problema sono gli spazi adeguati alle attività. Detto questo, nessuno mette in dubbio che non basti tenere aperte le celle. Chiaro che in diversi casi si verificano situazione di sopraffazione tra detenuti. Uno dei problemi presentatesi alle varie amministrazioni con l’introduzione della sorveglianza dinamica è che, in assenza di spazi adeguati alle attività nonché in assenza delle attività stesse – che siano lavorative, di istruzione, ricreative – all’apertura delle celle abbia spesso corrisposto solo un permanere dei soggetti detenuti in sezione. Va certamente risolto. Ma se per reazione si dovesse ritornare indietro, a quel punto i suicidi e gesti di autolesionismo saranno incontenibili.

Brutta cosa occuparsi delle cose che non si sanno...La folle teoria della Gabanelli: nelle prigioni c’è troppa libertà, per questo aumenta la violenza. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Luglio 2021. Prima di parlare di carcere, cara Gabanelli, vada a parlare con il dottor Gian Carlo Caselli. E magari anche con l’ex detenuto Roberto Cannavò, lo trova al mercato di viale Papiniano, a Milano. Superficialità e ignoranza. Brutta cosa occuparsi delle cose che non si sanno. Orribile cosa se si gioca con la vita delle persone. Ieri (e l’altro ieri e l’altro ieri ancora) Travaglio, oggi Gabanelli. Nel momento in cui un faro di grandi dimensioni è acceso sulla vita nelle carceri e sulla violenza esplosa in quello di S. Maria Capua Vetere, ecco una nuova penna, intinta nel disprezzo per chiunque abbia assunto nel corso del tempo la veste di riformatore, affacciarsi addirittura sulle pagine del primo quotidiano italiano, il Corriere della sera di Urbano Cairo. “Con le celle aperte aumentano le violenze”. Un vero colpo giornalistico. Ecco di chi è la responsabilità se i detenuti salgono sui tetti, o anche se sfasciano suppellettili, e anche se poi qualche squadretta di agenti di polizia penitenziaria organizza e mette in atto azioni punitive. Chi sono i veri responsabili? Possiamo mettere in fila i colpevoli: la riforma del 1975, poi la Legge Gozzini, le sentenze della Cedu, la ministra Cartabia e poi una sfilza di giudici e capi del Dap. Parliamo di quel mondo di riformatori che va da Alessandro Margara a Santi Consolo fino ad arrivare a quei magistrati di sorveglianza che un anno fa, in piena epidemia da Covid, misero in guardia sui rischi che il contagio avrebbe fatto correre a detenuti, agenti e personale amministrativo se non si fosse almeno un po’ sfoltito l’affollamento. Sono coloro che, proprio in ottemperanza della legge di riforma del 1975, non hanno neanche mai usato il termine “cella”, ma dicono sempre “camera di pernottamento”, cioè il luogo dove si va a dormire, non dove si passa la vita. Sono quelli che non userebbero la parola “secondino” per indicare gli agenti di custodia, ma neanche chiamerebbero “scopino” il detenuto addetto alle pulizie. Dubbi che mai potrebbero solcare la fronte spaziosa di giornalisti come Travaglio e Gabanelli. Sono quisquilie. Così come importa poco se si scrivono due pagine -come ha fatto ieri il Corriere- più una bella colorata ricca di “torte” e schemi per dimostrare il disastro entrato nelle carceri a causa dei riformatori, senza neanche citare la fonte dei dati? Dove li hai presi quei numeri, Gabanelli? Ma, poiché sono numeri falsificati, possiamo discuterne anche senza conoscere da dove vengono. Spieghiamo subito perché sono falsificati. La persona incompetente e ignorante dell’argomento, che cosa fa? Agguanta qualche numero passato sottobanco chissà da chi e strilla: se le aggressioni prima erano 100 e ora sono 101, o anche 200, e se prima le “celle” erano chiuse e ora sono aperte, la colpa dell’aumento delle aggressioni è di chi ha aperto la “camere di pernottamento”. Così, ricordando a spanne che un anno fa ci furono polemiche (di Travaglio, di Repubblica, di Giletti e di quelli più o meno di quegli ambienti) su una circolare del Dap sull’allarme Covid, si puntano riflettori e baionette sulle circolari. Si parte da una decina di anni fa, da quella diramata da Sebastiano Ardita, allora Direttore del trattamento detenuti, e poi a quella del successivo capo del Dap Giovanni Tamburino per arrivare a Santi Consolo. Che essendo il più riformatore di tutti è sicuramente il più colpevole. Ma è sufficiente prima di tutto ricordare le innovazioni che il Presidente del Dap aveva attuato durante la sua gestione per svelare la falsificazione. Trasparenza, conoscenza e verità erano il suo credo. Tutto era guardato con la videosorveglianza, tutto era conosciuto negli istituti di pena, in quel periodo, anche quegli episodi che prima non venivano denunciati magari perché qualcuno temeva di subire un rapporto e un procedimento disciplinare. Quanti detenuti (lo vediamo persino nei film) con il corpo pieno di lividi dicono di essere caduti dalle scale per paura di rappresaglie? Se poi esaminiamo la famosa circolare di Consolo del 2015, se un’osservazione critica si può fare, non è certo dal punto di vista Travaglio-Gabanelli. Perché l’ex capo del Dap, pur evidenziando correttamente le linee-guida suggerite dalla Cedu, affida poi al comandante del reparto carcerario la selezione dei nominativi dei detenuti meritevoli della “custodia aperta”. Su cui poi avrebbe deciso l’équipe presieduta dal direttore dell’istituto. E visto che stiamo parlando di detenuti “comuni”, forse il concetto di selezione è stato anche troppo severo. Severo, ma lungimirante e sempre trasparente. Questo per quel che riguarda il “colpevole” numero uno. Ma non tralasciamo mai il suo successore Basentini, che la simpatica compagnia di giro ha addirittura portato alle dimissioni. Eppure si limitava a seguire i suggerimenti del mondo sanitario. Erano poi stati una serie di giudici e tribunali di sorveglianza a decidere alcune sospensioni di pena per reclusi anziani e gravemente malati. La famosa “scarcerazione dei boss”. Che nella fantasia di qualche cronista di Repubblica dovevano essere più di trecento, ma in realtà erano cinque. Una sola domanda andrebbe fatta alla squadretta dei giornalisti assetati di manette: quando in seguito (e grazie anche ai loro strilli) quelle persone furono riportate in carcere, quanti di loro erano scappati? Nessuno. E quanti furono invece regolarmente trovati nel loro letto? Tutti. Rispondete a questa domanda retorica prima di aprire ancora il fuoco contro chi (come la stessa ministra Cartabia) preferisce l’articolo 27 della Costituzione rispetto alla legge del taglione. Anche per motivi di sicurezza, certo, visto che la recidiva di chi in carcere segue corsi di formazione, studia o anche lavora (i famosi “scopini”, cara Gabanelli) crolla dall’80% al 20%. Ma è difficile far capire agli ignoranti e incompetenti che il detenuto non è il suo reato né la sua pena né il suo processo, ma una persona che è stata privata della libertà in seguito alla rottura di un patto sociale con la comunità e che va aiutato a ricucire quel patto. Signora Gabanelli se vive a Milano o se ci capita, vada un martedi o un sabato al mercato di viale Papiniano e cerchi la bancarella del signor Roberto Cannavò, ex detenuto del 41 bis a Opera che oggi aiuta nel reinserimento i giovani adulti di San Vittore.  Vada a parlargli e si faccia spiegare che il carcere non è il luogo del conflitto tra “secondini” e “scopini”. È anche quell’esperienza di Bollate che il procuratore Gratteri (e mi pare anche lei) considera solo “uno spot”, e invece è anche carne e sangue di quelli che lo abitano e dei tanti educatori e volontari che ci lavorano. Poi faccia un salto in Piemonte e si faccia raccontare dal magistrato Gian Carlo Caselli (che non è stato solo procuratore “antimafia”, ma anche capo del Dap, e forse qualche carcere l’ha visto) quello che ha scritto proprio ieri e proprio sul Corriere della sera, nelle pagine locali, sul carcere di Torino. Si faccia spiegare che cosa sono le attività trattamentali, che cosa sono state le aree omogenee negli anni del terrorismo, e anche il lavoro che si fa in tanti istituti di pena, a Torino come a Milano, per e con i giovani detenuti tossicodipendenti. Capirà (forse) che il reinserimento dei detenuti non è solo un problema di “scopini”, ma di corsi di formazione, di studio, di collaborazione con i volontari e le tante Cooperative e Fondazioni che dall’esterno aiutano in questa colossale operazione di trasformazione del carcere in casa e delle celle in camere di pernottamento. Parli con il dottor Caselli, e con Consolo. E magari anche con Cannavò. E la prossima volta, le circolari le legga. Se vuole, gliele mandiamo. Noi le abbiamo.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La polemica. Milena Gabanelli si difende: “Ho visto le celle, non do numeri a caso”. Redazione su Il Riformista il 14 Luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo la replica di Milena Gabanelli all’articolo pubblicato sul Riformista del 13 luglio a firma di Tiziana Maiolo dal titolo “La folle tesi della Gabanelli, detenuti troppo liberi, così aumenta la violenza”. Replico brevemente all’articolo pubblicato a firma Tiziana Maiolo e dal titolo “La folle tesi della Gabanelli, detenuti troppo liberi, così aumenta la violenza”. La collega mi invita, prima di parlare di carcere, a parlare con il Dott. Caselli. Non ho bisogno di scrivere qui la stima che nutro per il Dott Caselli, informo invece la signora Maiolo che la sottoscritta prima di parlare di carcere, ha visitato decine di carceri, e non solo quelle italiane, ma anche quelle tedesche, olandesi, austriache, irlandesi. Si è confrontata con i direttori delle carceri. Questo non fa certo di me una persona competente (non ho questa presunzione), ma nemmeno “ignorante”, come Maiolo scrive. Mi accusa di aver preso dei numeri a caso, falsi, senza aver citato la fonte e aver tratto delle conclusioni. Evidentemente non ha letto l’articolo, perché la fonte è in evidenza: Ministero della Giustizia. Se ritiene quei dati falsi non è a me che li deve contestare ma al Ministero, ed eventualmente ci documenti su quelli “veri”. Che le celle (camere di pernottamento) andavano aperte, come prescrive la legge, l’ho scritto, usando queste parole “fu fatta una scelta di civiltà”. Si può discutere sul fatto che l’eliminazione di un presidio di sorveglianza nei luoghi dedicati alle attività sia stato o meno determinante nell’escalation di violenze. Ho confrontato i dati del prima e del dopo. Non ho tratto nessuna conclusione. Al contrario ho spostato più in là il tema: la funzione riabilitativa della pena passa attraverso l’organizzazione del lavoro. È sempre la legge a dirlo. E questo, al di là di sporadiche e nobili esperienze, come sistema, purtroppo non c’è. La conseguenza è che abbiamo la recidiva più alta d’Europa. Sono dieci anni che dedico parte del mio lavoro allo stato incivile di detenzione nelle carceri italiane (inchieste di Report, un Dataroom del 2019, e tanti articoli sul Corsera). Se è interessata vada a vederseli. Potrebbe essere utile anche per lei. Infine: la definizione “scopino” non è un dispregiativo inventato dalla sottoscritta, ma una definizione data dall’Amministrazione Penitenziaria all’addetto alle pulizie. Quello inquadrato come “lavoro in carcere”, e che lavora tre ore il lunedì e altre tre il giovedì. Redazione

La polemica. Non solo massacrati, la Gabanelli vuole i detenuti anche sepolti vivi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Luglio 2021. Sono sorpresa nell’apprendere che Milena Gabanelli ha visitato tante carceri italiane ed europee, perché chi conosce i problemi della detenzione difficilmente potrebbe mai, specie in un momento delicato come questo, dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere, lanciare un allarme del tipo “Con le celle aperte aumentano le violenze”. La visita di oggi del presidente Mario Draghi e della ministra Marta Cartabia all’Istituto di pena avrà sicuramente il significato opposto, come è nello stile di ambedue e nelle proposte concrete presentate al Parlamento nel programma di riforma della giustizia. È una linea di tendenza che pare la prosecuzione dell’attività di Santi Consolo, quell’ex capo del Dap la cui circolare del 2015 è stata presa di mira nell’articolo di Milena Gabanelli, quasi che il magistrato avesse avuto l’intenzione di rendere le prigioni un colabrodo con porte e finestre sempre spalancate e i detenuti in una sorta di autogestione sessantottina permanente. Non è così, e la solidarietà arrivata pubblicamente e in privato ieri all’ex presidente del Dap ne sono la dimostrazione. Se ho suggerito alla collega Gabanelli di rivolgersi al dottor Caselli è perché nella stessa giornata e sullo stesso Corriere della sera che ha pubblicato il suo articolo l’ex procuratore di Palermo (che è stato a sua volta capo del Dap) parlando delle esperienze della casa di reclusione di Torino scrive l’esatto contrario, valorizzando proprio quelle esperienze di “apertura” che nell’articolo di Gabanelli sono citate come origine di violenze. Quanto ai numeri e alla loro fonte, preciso di non averli mai definiti “falsi”, dal momento che non so da dove provengano né chi li abbia forniti alla giornalista. Ho invece detto che sono “falsificati” se non inseriti nel contesto, su cui il dottor Consolo era quasi maniacale, della trasparenza dei fatti e delle denunce. Quanto alla fonte, e sorvolando sul comunicato elogiativo del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa che pare quasi rivendicare l’ispirazione dell’articolo, non vedo in nessuna parte del testo né di titolo, occhiello e sommario la dicitura “Ministero”, né altro. Solo nella parte degli schemi disegnati e non “in evidenza” ma scritto molto piccolo, e solo sotto ai numeri del sovraffollamento, vedo finalmente la “fonte”. Sarà sicuramente un problema di mia distrazione. Continuo a pensare che i numeri che contano siano altri. Sono quelli della Commissione del Ministero di giustizia, sono quelli dati dal Garante per le persone private della libertà lo scorso 21 giugno alla Camera. Sono la quotidianità che crea disperazione e a volte conflitto e violenza. Sono i richiami costanti, almeno uno all’anno, che arrivano all’Italia dalla Cedu. La violenza non nasce nelle carceri come un fungo dopo il temporale, ma è figlia di un ammassamento da carro bestiame, vere pattumiere, quel che sono ormai le nostre prigioni. I conti sono presto fatti. Se i posti disponibili, cioè concreti e non sulla carta, sono circa 47.500 e in quello spazio ci ficchi 53.600 persone, vuol dire che alcuni stanno accatastati sugli altri, forse non hanno neanche un letto. Non occorrono due lauree per capire che in uno spazio ristretto quale è quello che comunemente si chiama “cella”, soprattutto quando fa caldo, e ancor di più in momenti come quelli di un anno fa (ma che potrebbero tornare) in cui tutti avevamo paura del contagio, possano nascere nervosismi e litigi. E proteste, e anche sfoghi di rabbia, e violenza sulle cose. Ma è perché si è chiusi, perché la “cella” che dovrebbe essere solo il luogo dove andare a dormire, diventa spesso il posto ristretto dove trascorrere 20-22 ore al giorno. Oltre a tutto, un terzo almeno di questi 53.000 è composto da innocenti, persone in custodia cautelare che non hanno ancora avuto un processo. Ogni anno sono almeno 8.000 le persone che avanzano richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. Tra i condannati, cioè i “cattivi”, 26.385, cioè circa la metà, devono rimanere in carcere per meno di tre anni. E 7.123, in gran parte tossicodipendenti, sono stati condannati e meno di tre anni. Dovrebbero stare altrove e con altri percorsi. E speriamo che il Parlamento approvi il piano della ministra Cartabia che prevede pene sostitutive di quelle detentive brevi, l’ampliamento della non punibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, la sospensione del provvedimento con la messa alla prova e, nei casi in cui sia possibile, l’accesso alla giustizia riparativa. Sfollare, sfollare, questo è l’unico allarme da lanciare.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

I fatti di Santa Maria Capua Vetere. Hanno denunciato le torture, trasferiti a 700km: “È una seconda punizione”. Viviana Lanza — 16 Luglio 2021. Sulla visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferirà a Camera e Senato il 21 luglio prossimo, mentre il 3 agosto il garante regionale Samuele Ciambriello incontrerà il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, per discutere dei trasferimenti di 46 detenuti allontanati dal carcere sammaritano dopo aver denunciato i pestaggi e le umiliazioni subiti la sera del 6 aprile 2020 da parte di agenti della penitenziaria. Il tema carcere resta, dunque, sotto i riflettori. Da via Arenula si apprende che la ministra riferirà in Aula sui fatti di Santa Maria alla luce della visita nel carcere casertano fatta mercoledì insieme al premier Mario Draghi. È un nuovo segnale di come il Governo intenda affrontare la questione senza perdere tempo prezioso. Un segnale che l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere penali italiane, guidato dall’avvocato Riccardo Polidoro, ha accolto con fiducia e speranza. «E la speranza e la fiducia – si legge in una nota dell’Osservatorio – aumentano se ripensiamo alle infelici affermazioni sin dall’inizio diffuse dall’allora capo del Dap e dall’allora ministro Bonafede». «Adesso ci attendiamo che alle parole seguano i fatti perché il carcere e l’esecuzione penale nel suo complesso siano plasmate in maniera efficace e definitiva verso un sistema rispettoso della dignità, dei diritti fondamentali e realmente teso alla risocializzazione del reo – si legge ancora -. È giunto il momento di una riforma complessiva. Occorre con forza realizzare non nuove carceri ma un carcere nuovo, cioè rinnovato quanto all’assistenza, al trattamento, alla produttività, all’affettività, alla formazione, per renderlo finalmente conforme alla Costituzione». Intanto a Santa Maria Capua Vetere il tema centrale in questo momento sono le sorti dei 46 detenuti trasferiti. Il più lontano è recluso a Palermo, a 735 chilometri di distanza dalla Campania. Il più vicino, si fa per dire, a Rieti: 258 chilometri. Il loro trasferimento è stato voluto dalla Procura sammaritana, che coordina le indagini sulle violenze di un anno fa, proprio per tutelarli dal clamore e da possibili tensioni con gli agenti all’interno del carcere. «Tuttavia, la scelta del Dap di distribuire su di un territorio molto vasto gli spostamenti in questione rischia di assumere il carattere di una ritorsione più che di una protezione» afferma il garante regionale Samuele Ciambriello che, insieme al garante di Napoli Pietro Ioia e al garante di Caserta Emanuela Belcuore, ha incontrato ieri il capo della Procura di Santa Maria Capua Vetere, Maria Antonietta Troncone. Il procuratore ha confermato che il trasferimento è stato chiesto dalla Procura per quei reclusi che hanno reso dichiarazioni con l’obiettivo di tutelarli e di rendere più serena la loro permanenza in carcere. L’indagine è ancora in corso e dei 293 agenti della polizia penitenziaria, che secondo la ricostruzione di quel che accadde il 6 aprile 2020 avrebbero partecipato ai pestaggi piombando in tenuta antisommossa nel reparto Nilo del carcere sammaritano, circa cento sono stati identificati e indagati mentre sono ancora moltissimi quelli sconosciuti agli inquirenti; inoltre si tratta di agenti impiegati in diversi istituti di pena campani. Di qui la decisione di trasferire i detenuti vittime delle violenze: ma perché in strutture così lontane, distanti 400 o 700 chilometri che diventano irraggiungibili per le famiglie più indigenti? Il garante regionale ha girato questa domanda al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: «La scelta di trasferimenti in un territorio molto vasto (da San Gimignano a Firenze, da Palmi o Vibo Valentia a Civitavecchia, Rieti, Spoleto, Perugia, o ancora Prato, Sollicciano, Palermo, Modena) rischia – dice Ciambriello – di diventare, più che una forma di tutela, una sorta di punizione per detenuti che già hanno subìto un trattamento orribile, una sorta di isolamento nell’isolamento». Per i garanti Ciambriello, Belcuore e Ioia «questi reclusi devono essere ospitati in istituti più vicini alla Campania in modo da garantire la territorialità della pena e da agevolare i familiari negli spostamenti e gli avvocati nella loro difesa». «Il mantenimento delle relazioni interpersonali di questi detenuti e un clima privo di tensioni nell’ambito detentivo – concludono i garanti – risultano per noi imprescindibili fattori di protezione per attutire il clamore generato da questa vicenda»

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Pochi giorni fa sua moglie Flavia aveva raccontato di aver subito pressioni per ritirare la denuncia. Mattanza in carcere, la lettera del detenuto Ciro: “Trasferito perché ho denunciato, ora penso al suicidio”. Rossella Grasso su Il Riformista il 19 Luglio 2021. “Ho denunciato quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere, poi mia moglie lo ha raccontato in alcune interviste e ora il Dap mi ha fatto un altro regalo: essere trasferito a Spoleto. Questa cosa mi sta uccidendo”. Con queste parole Ciro Esposito descrive in una lettera il suo inferno che è iniziato il 6 aprile 2020 nel reparto Nilo del Carcere di Santa Maria Capua Vetere e non è mai più terminato. Sua moglie Flavia, qualche giorno fa aveva denunciato in varie interviste le pressioni subite da parte degli agenti affinchè ritirassero le denunce. Ma Flavia e suo marito Ciro non ne hanno voluto sapere “perché quello che è successo è troppo brutto e chi ha sbagliato deve pagare”, aveva detto Flavia in varie interviste. Ciro prima fu trasferito al carcere di Secondigliano e ora è ancora più lontano, a Spoleto. “Mi ha telefonata dal carcere dicendo che lo riempiono di farmaci – ha raccontato Flavia al garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia – Sta facendo lo sciopero della fame e della sete perché non riesce più nemmeno a parlare. Dice che alle 7 del mattino lo svegliano e gli fanno ingoiare i farmaci davanti a loro, sta facendo lo sciopero perché vorrebbe una visita psichiatrica che ancora non ha avuto da una settimana e mezzo che sta là. Si è rimesso nuovamente le lamette in bocca perché questa terapia lo sta buttando giù in tutti i sensi, fisicamente e mentalmente. Lo hanno trasferito a Spoleto subito dopo la mia intervista”. La preoccupazione e l’angoscia per il marito sbattuto sempre più lontano da casa per Flavia cresce ogni giorno di più. “Ora mi ha detto che lo metteranno in una cella liscia sorvegliato dalle telecamere. Piangeva dai nervi, mi ha detto che lo stanno facendo uscire pazzo”. E per sfogarsi di tutta questa situazione ha scritto una lettera “a chi di dovere”, chiedendo che possa essere riavvicinato alla sua famiglia. “Ho 8 figli dei quali 5 minori. Già a Secondigliano ero in difficoltà per fare i colloqui – scrive Ciro nella lettera – Poi dopo quello che abbiamo visto nei video e dopo che mia moglie ha rilasciato qualche intervista in cui ha raccontato che la chiamai per riferirle cosa fosse successo (in carcere a Santa Maria, ndr) come avrebbe fatto chiunque per quello che stavamo subendo e che ancora oggi mi porto dentro. Quando ho rivisto quelle immagini mi è venuto da piangere perché l’ho subito e con me lo sta subendo anche la mia famiglia”. “Io ho già avuto un brutto periodo nel passato e sto ancora qua grazie a una dottoressa del carcere di Benevento che mi ha salvato la vita quando stavo morendo nel carcere di Benevento per il mio gesto estremo. Ora prendo ancora farmaci ma solo per dormire, perché come inserimento non c’è nulla. Ora ho ricevuto ancora un altro regalo del Dap: essere trasferito a Spoleto. Dopo ciò che è accaduto le conseguenze chi le sta pagando? Io e la mia famiglia che mi è impossibile rivedere. Questa cosa mi sta uccidendo”, continua ancora nella lettera. “Io al Ministro e a chi di dovere chiedo in quanto già ho subito quella tortura di Santa Maria cui si parla, ora dovrò continuare a subire dopo avermi portato lontano dalla mia famiglia. Ho richiesto una comunità ma per qualche ragione sto ancora in carcere – scrive ancora Ciro – Lo avevo chiesto anche perché ho passato una brutta vita anche per colpa della droga e ora assumo farmaci che mi fanno solo dormire tutta la giornata. Chiedo con tutto il cuore di riportarmi a Secondigliano dove mi trovavo o a Poggioreale. I miei figli già stanno soffrendo per colpa mia e quell’ora di colloquio con loro è importantissima per noi da passare insieme. Se poi non si potrà, io a star così a dormire tutto il giorno con l’ansia e la paura per quello che è successo non voglio: do il mio consenso a farmi una siringa così solo potrò stare in pace e la mia famiglia potrà rifarsi una vita. Fin quando Dio mi darà la forza sto qui in sciopero della fame”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Dal no alle scarcerazioni allo sdegno per i pestaggi: ecco i professionisti dell’indignazione. Tra i professionisti delle indignazioni anche giornalisti che ora falsamente spacciano per scoop la notizia data con mesi di ritardo sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 17 luglio 2021. Tutto è iniziato con lo “scoop” de L’Espresso, poi ripreso dal programma “Non è l’arena”, condotto da Massimo Giletti, e addirittura, per conto del presidente Nicola Morra, è stata scomodata la commissione Antimafia per far luce sulla vicenda scarcerazioni. Parliamo ovviamente della polemica “scarcerazioni dei boss mafiosi”, che poi boss non erano, tranne i tre al 41 bis malati gravemente, scaturita a detta dei professionisti dell’indignazione, dalla “famigerata” nota circolare del 21 marzo del Dap. Tra essi, i professionisti delle indignazioni, anche giornalisti che ora falsamente spacciano per scoop la notizia data con mesi di ritardo sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Unica eccezione il professor Luigi Manconi che dalle colonne di Repubblica ha sempre mantenuto una coerenza encomiabile. Addirittura, il magistrato Nino Di Matteo, intervenendo sempre alla trasmissione di Massimo Giletti, disse: «Con quella Circolare del 21 marzo del Dap, che ha consentito a boss mafiosi di uscire dal carcere, il segnale di resa dello Stato è nei fatti. Ed è un segnale devastante, perché evoca, appunto, resa e arrendevolezza da parte dello Stato». Ovviamente chi non è a digiuno di diritto penitenziario e conosce il sistema carcerario fin da subito ha detto una circolare è un atto amministrativo, non decide la “scarcerazione” dei reclusi. Sullo specifico si parla di una circolare maturata in un periodo di grave emergenza, quella del Covid 19 che si stava diffondendo nelle carceri. Quindi il pensiero è andato a tutti quei soggetti che per età e patologie potessero essere più esposti alla mortalità una volta contratto il virus. La nota ha dato il via alle “scarcerazioni”? No. In realtà già prima della sua diramazione, alcuni giudici avevano iniziato a concedere i domiciliari anche ai detenuti in regime di Alta sicurezza. Di tutti quelli che hanno usufruito della detenzione domiciliare, una parte era relativa al pericolo Covid, ma la gran parte era dovuto dalle patologie gravi che li rendevano incompatibili con la carcerazione. L’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede cedette alle pressioni ed emanò di fretta e furia il decreto antiscarcerazione. Il risultato? Tra il decreto e la pressione mediatica, i magistrati si sono irrigiditi e la concessione del differimento pena è diventata rarissima. Ciò sta provocando la messa in pericolo di diversi detenuti incompatibili con il carcere. Alcuni sono morti in carcere. Altri sono su quella via. Basti pensare al caso che Il Dubbio ha affrontato oggi sulla stessa pagina.

L’altolà di Salvini: “Cari Draghi e Cartabia, le carceri non si svuotano…”. Non bastavano le difficoltà sulla riforma del processo penale. Per il leader della Lega ricorrere alle pene alternative equivale a liberare le galere «con un colpo di spugna». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 luglio 2021. «Diciamo che ragionare su alcune pene alternative ci sta, ragionare sul rafforzare la formazione professionale e il lavoro ci sta, svuotare le carceri con colpi di spugna no»: il giorno dopo le parole della Ministra della Giustizia Marta Cartabia a Santa Maria Capua Vetere   – «la pena non è solo carcere» – arriva l’altolà di uno degli azionisti di maggioranza del Governo, il leader della Lega Matteo Salvini. Prevedibile reazione da chi per anni ha cercato consenso con slogan quali “buttare la chiave” e “devono marcire in carcere”. Ma qualcosa nella Lega è già cambiata se insieme al Partito Radicale sta promuovendo un quesito referendario per limitare l’abuso della custodia cautelare. Lo ricorda al Dubbio la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando: «Il Pd ha chiesto in Senato una commissione d’inchiesta sui fatti di violenza nelle carceri, perché è necessario sapere e conoscere per intervenire. In ogni caso noi ovviamente insistiamo perché venga approvata la riforma dell’ordinamento penitenziario che avevamo fatto partire alla fine della scorsa legislatura e i fatti dimostrano che c’è un assolutamente urgenza da questo punto di vista. Considerato poi che alcune forze che sono in maggioranza hanno improvvisamente scoperto che bisogna avere più garanzie per la custodia cautelare, hanno improvvisamente scoperto che c’è una realtà delle carceri, passando dal “devono marcire in galera” al “ci siamo accorti che succede qualche cosa”, auspichiamo un clima migliore considerato che la riforma dell’ordinamento penitenziario era stata affossata dalla maggioranza gialloverde». È pur vero, sottolinea l’avvocato Riccardo Polidoro, co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali, il quale fece parte della Commissione Giostra, che «mancavano solo i decreti attuativi ma il Governo Gentiloni congelò tutto. Ci auguriamo ora che i lavori di riforma sull’ordinamento penitenziario vengano ripresi. Il lavoro è già fatto, è completo. Si tratta solo di rimetterci mano». Lo conferma anche un altro ex membro della Commissione Giostra, Pasquale Bronzo, Professore associato di procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”: «noi avevamo prodotto non un semplice progetto di idee ma un articolato normativo, che potrebbe essere tirato fuori dal cassetto già da ora». Al momento ci sono gli emendamenti governativi per la riforma del processo penale che vanno nella direzione giusta. Lo ha ribadito anche il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a Tgcom24: la riforma Cartabia «sancisce percorsi alternativi al carcere che possono meglio calibrare il rapporto tra pena che punisce e pena che rieduca. L’impegno che abbiamo assunto con il Pnrr è quello di tagliare il 25 per cento dei tempi sul processo penale. Per questo ci serve un fluidificante per le norme di rito, ma un new deal anche per la sanzione, che deve essere resa più efficace e, convintamente, più rieducativa». Infatti se verrà approvato il pacchetto di via Arenula, la novità riguarderà sanzioni che andranno a soppiantare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, con contenuti corrispondenti a quelli delle misure alternative alla detenzione, attualmente di competenza del Tribunale di sorveglianza. Le nuove “pene sostitutive” (detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria) saranno direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di quattro anni di pena inflitta. Inoltre si vorrebbe potenziare la messa alla prova: per specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, si prevede che la richiesta di messa alla prova – lavoro di pubblica utilità e partecipazione a percorsi di giustizia riparativa – dell’imputato possa essere proposta anche dal pm. «Tutte queste soluzioni, se approvate – prosegue il professor Bronzo – aiuterebbero a superare la centralità del carcere e risolverebbero anche la scandalosa situazione dei cosiddetti ‘liberi sospesi’, anche se l’impianto complessivo della Commissione Lattanzi è stato un po’ ridimensionato. Quelli che come Salvini dicono ‘non c’è certezza della pena’ si riferiscono sempre al carcere. Ma, come ha detto la Ministra, la Costituzione parla di “pene” al plurale. Trovo in tal senso rivoluzionaria la rivitalizzazione delle pene pecuniarie». Se tutto andasse in porto come previsto non sarebbe comunque sufficiente per una riforma organica del sistema penitenziario, come prospettato dalla Ministra, che prenderebbe anche in considerazione l’immane lavoro della Commissione Giostra. Di quelle 130 pagine il cuore era proprio nelle misure alternative alla detenzione, come ci ricorda il professore Bronzo: «la parte più importante della riforma Giostra che è stata amputata per equilibri politici riguarda proprio le misure alternative. In sintesi noi avevamo proposto di agire su tre direttrici: renderle più accessibili; riempirle di contenuti, di esperienze di rieducazione, per non concepirle solo come de-carcerizzazione; renderle più controllabili e dunque più affidabili quali modalità di espiazione anche per il magistrato di sorveglianza». Vedremo che strada intenderà percorrere la ministra, intanto quella per capire cosa è accaduto il 6 aprile 2020 e nei mesi successivi è già segnata: da fonti di via Arenula, si è appreso infatti che sui fatti di Santa Maria Capua Vetere la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferirà sia alla Camera che al Senato mercoledì prossimo, 21 luglio.

In Campania oltre 3mila dietro le sbarre per pene inferiori a 5 anni. Viviana Lanza su Il Riformista il 17 Luglio 2021. Il caso Santa Maria Capua Vetere non può limitarsi a essere solo un reato per cui indignarsi e di cui accertare le singole responsabilità. Il caso Santa Maria Capua Vetere deve segnare anche una svolta. In questi giorni lo si è detto più volte e tutti i discorsi che si stanno facendo avranno un senso se alle parole seguiranno i fatti. Affinché, però, i fatti possano davvero seguire alle parole, ai propositi della politica e alle riflessioni degli esperti, è necessario analizzare la realtà a cui i fatti da concretizzare sono destinatati. E allora guardiamola la realtà delle carceri, la fotografia più attuale della popolazione carceraria. Guardiamola attraverso i dati ministeriali che ci dicono chi sono i detenuti che attualmente popolano le celle delle carceri, e confrontiamo questi dati con la proposta di allargare il ricorso alle misure alternative per alleggerire gli istituti di pena dal sovraffollamento e da tutti i problemi che ne derivano. Se si volesse considerare, per esempio, il tetto dei cinque anni di reclusione come residuo massimo di pena da poter scontare anche con misure alternative, circa la metà della popolazione carceraria potrebbe lasciare la cella. In Campania, sarebbero 3.002 persone. A voler considerare, invece, un tetto più basso, sono 2.128 i detenuti con un residuo di pena inferiore ai tre anni di reclusione. Considerando, inoltre, che in Campania, secondo dati ministeriali aggiornati al 30 giugno, si sono raggiunti i 6.533 reclusi, è facile calcolare di quanto si sfollerebbero le 15 strutture penitenziarie della regione. In Campania, infatti, risultano 753 detenuti che hanno una pena residua inferiore a un anno di reclusione, 733 detenuti con una pena residua che va da uno a due anni di reclusione, 642 reclusi con un residuo di pena incluso tra i due e i tre anni, mentre sono 874 i detenuti con un residuo di pena tra i tre e i cinque anni. Sommando questi numeri, si scopre che una buona parte della popolazione che attualmente vive all’interno degli istituti penitenziari della Campania potrebbe usufruire di misure alternative al carcere, con l’opportunità di poter meglio affrontare percorsi di recupero, di responsabilizzazione e di rieducazione, e indirettamente con la possibilità di decongestionare le carceri dove il sovraffollamento continua a essere il principale e più grave problema. Lo ha ricordato anche la ministra Marta Cartabia durante la sua visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, mercoledì scorso, insieme col premier Mario Draghi: «Sovraffollamento significa spazio dove è difficile anche muoversi, dove d’estate, e lo abbiamo sperimentato anche oggi – ha detto in occasione della visita nel carcere dei pestaggi che sono al cuore di un’inchiesta della Procura – si fa fatica persino a respirare. Una condizione che si traduce in difficoltà nel proporre attività che consentano alla pena di favorire, nel modo più adeguato, percorsi di recupero dei detenuti». Il vero nodo del problema, quindi, sta nel numero spropositato di persone che finiscono in carcere. Anche su questo punto la ministra Cartabia è intervenuta, sottolineando la necessità di «un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi». In Campania, su una popolazione complessiva di 6.533 detenuti, 4.013 dei quali con almeno una condanna definitiva, sono 76 quelli condannati all’ergastolo, 35 quelli con una pena da scontare superiore ai 20 anni, 212 quelli con una pena residua compresa tra i 10 e i 20 anni di reclusione, e 688 i reclusi con una condanna tra i 5 e i 10 anni da scontare. In tutta Italia, su un totale 37.203, 1.806 hanno condanne all’ergastolo, 432 con condanne superiori ai 20 anni di reclusione, 2.427 con condanne tra 10 e 20 anni, 5.986 con condanne tra i 5 e i 10 anni. Ciò significa che in cella, a scontare condanne che non superano i cinque anni di reclusione, ci sono attualmente in Italia 26.552 persone su una popolazione carceraria che, tra detenuti condannati e in attesa di giudizio definitivo, conta 53.637 unità a fronte di una capienza di 50.779 posti. 

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La polemica. Come nascono i pestaggi, l’ombra delle Procure sulle carceri. Alberto Cisterna su Il Riformista il 6 Luglio 2021. La vicenda dell’orribile pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ha ricevuto molti commenti e molta indignazione. Il ministro Cartabia ha parlato di un «tradimento della Costituzione», parole che non sono solo il segno di uno sbigottimento e di un profondo rammarico perché provengono dall’ex presidente della Consulta che sa bene che la Costituzione contempla esattamente il tradimento come il più grave dei crimini che si possano imputare a un’istituzione dello Stato, tant’è che riguarda addirittura il presidente della Repubblica (articolo 90). I giudizi sono stati in gran parte netti, ma la comprensione di quanto accaduto è cosa complessa e che pretenderebbe un certo coefficiente di onestà. Il massiccio e sistematico ricorso alla violenza, il numero enorme di detenuti e di personale della polizia penitenziaria che è rimasto coinvolto nella “Straf Spedition”, nella spedizione punitiva accertata dalla Procura di quella città, impongono un’analisi sincera della condizione carceraria nel nostro paese e non solo. Le parole più autorevoli in questa direzione sono quelle che ha reso in un’ottima intervista all’Avvenire Sebastiano Ardita che, per anni, ha ricoperto un ruolo di grande rilievo nel Dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia. Ha detto il dottor Ardita che le ragioni di tutta quella violenza «vanno cercate nel microclima interno alle carceri, caratterizzato da una situazione di scontro tra detenuti e personale penitenziario; una situazione anomala, che non dovrebbe mai determinarsi, forse frutto di un modello organizzativo da rivedere e rispetto alla quale andrebbe fatta un’analisi serena, per correggerla senza ulteriori traumi». Sono parole che dovrebbero porsi al centro di una riflessione seria e risolutiva sul pianeta carcerario in Italia. Le raffiche di giustizialismo e di manettarismo che ammorbano la discussione sul punto hanno, tra molti torti, anche quello di ignorare volutamente che il sovraffollamento carcerario che auspicano e alimentano con leggi liberticide e richieste di punizioni esemplari non hanno fatto altro che scaricare definitivamente sulla polizia penitenziaria un compito immane. La gestione dei detenuti è un lavoro complesso, difficile, anche pericoloso in alcuni casi. All’interno degli istituti si creano equilibri precari e instabili in cui è sempre complicato mettere insieme il controllo di un numero esorbitante di detenuti, le loro difficili condizioni esistenziali, la compressione di ogni intimità e riservatezza con l’avvio di percorsi che ne agevolino il recupero. Sarebbe complesso spiegarlo ora, ma persino la questione – affrontata dalla Corte costituzionale di recente – dell’ergastolo ostativo a ogni beneficio senza la collaborazione di giustizia rientra in una visione della detenzione carceraria irrimediabilmente distante dal modello costituzionale e terribilmente pericolosa alla luce di quanto accaduto nello stabilimento di Santa Maria Capua Vetere. Se il carcere, nella sua massima severità punitiva, viene brutalmente percepito come il luogo in cui occorre piegare la volontà dei detenuti per fletterla verso il pentimento e la delazione, è chiaro che il modello di comportamento che viene irradiato verso la polizia penitenziaria è quello securitario. Sospinte da 30 anni di emergenza, le celle non sono mai diventate veramente il luogo dell’espiazione e della rieducazione, ma hanno teso piuttosto a trasformarsi in un campo di aspra battaglia in cui si confrontano la volontà degli asseriti irriducibili e quella dei carcerieri che percepiscono la pacificazione e il controllo come gli strumenti indispensabili per conseguire la mission politica che gli è stata affidata o di cui, comunque, percepiscono l’importanza. Troppe volte il trasferimento di detenuti in carceri a elevata sicurezza, in reparti duri, finanche in istituti posti in zone impervie e remote è stato richiesto all’autorità penitenziaria dagli inquirenti come il mezzo per piegare la volontà dei renitenti, per indurre alla collaborazione soggetti ritenuti portatori di verità rilevanti da confessare. In questo scenario le pregresse responsabilità ministeriali non sono marginali poiché attengono, anche, alla gestione dei detenuti nelle varie carceri e alla somministrazione del regime ex articolo 41-bis che ormai viene attivato praticamente su mero input delle procure della Repubblica desiderose, non solo e non tanto di contenere la pericolosità del ristretto, ma di agire sui soggetti marginali, sui ritenuti fragili che possono cedere alla pressione carceraria. Ecco, per seguire le giuste osservazioni del dottor Ardita, si tratta in primo luogo di restituire al ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria la sua piena autonomia rispetto alla magistratura inquirente e alle sue pur comprensibili istanze che non possono, però, tradursi in un complessivo appesantimento delle condizioni carcerarie in cui migliaia di detenuti percepiscono che per sfuggire alla durezza della prigionia l’unica via d’uscita è il pentimento. Troppe iniziative, tuttavia, si sono realizzate negli anni in direzione opposta, con la creazione persino di cellule investigative della polizia penitenziaria che monitorano i detenuti, ne invogliano le collaborazioni, ne percepiscono le confidenze da barattare con qualche alleggerimento della restrizione. In questo modo il carcere è diventata un’estensione del campo di battaglia che è situato fuori dalle mura in cui si fronteggiano inquirenti e mascalzoni, laddove avrebbe dovuto essere il luogo della tregua e dell’habeas corpus. Un posto in cui ciascuno – con la tranquillità possibile – ha modo di riflettere sugli errori commessi e su come emendare la propria esistenza. Se i detenuti sono percepiti come prede da accaparrarsi e da piegare ai desiderata degli inquirenti e se la polizia penitenziaria viene consegnata, anche solo in parte, a questo ingiusto compito, ecco che la battaglia per la supremazia e per il potere diviene durissima e gli abusi si moltiplicano, spesso nel più assoluto silenzio, tra troppe violenze e troppi suicidi. Alberto Cisterna

L'inferno delle prigioni. Come nascono i pestaggi in carcere: il ruolo dei magistrati tra omertà, falsi e soprusi. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2021. Abbiamo ricevuto questo documento da una fonte che consideriamo assolutamente attendibile. Lo pubblichiamo così come lo abbiamo ricevuto (tranne brevi tagli su accuse troppo specifiche e che non possiamo verificare) perché ci sembra di grandissimo interesse per il lettore. Gli autori di questo documento assolutamente informale, sono operatori penitenziari di varia estrazione attenti e permanentemente impegnati a seguire con il massimo equilibrio possibile gli avvenimenti del mondo in cui agiscono da anni a salvaguardia della loro dignità e di quella dei loro colleghi. Particolare rilievo e specifica attenzione emergono dagli avvenimenti di recente verificatisi nell’istituto di S. M. Capua Vetere caratterizzati però da una successiva non corretta informazione, magari non voluta ma indotta da fonti discutibili a cui la routine quotidiana di stampa ed i media attingono abitualmente di certo in buona fede. Ma andiamo con ordine. La frequenza e l’abitudine inveterata a praticare pestaggi più o meno organizzati nel carcere e non solo (vedi caso Cucchi) esiste da sempre ed emerge, purtroppo, solo nei casi più eclatanti. A tal proposito va detto che, a livello centrale, esiste dal 1997 un nucleo di polizia penitenziaria (GOM) addestrato ad intervenire nei casi di gravi disordini negli istituti. Ma spesso, e solo con l’autorizzazione del capo del DAP, tale nucleo viene utilizzato anche in altri casi per così dire minori (trasferimenti di detenuti pericolosi, scorte, ecc. sempre ai fini della sicurezza). Tuttavia l’uso del GOM a volte va oltre i casi di emergenza ed è autorizzato solo per riportare l’ordine e la disciplina negli istituti. In tali casi l’attività della pol.pen. diventa pericolosa e punitiva più del solito sfociando quasi sempre in una mattanza della quale non sempre si ha notizia. Questo fenomeno ha e deve avere una sua ragion d’essere nelle spiegazioni e motivazioni che vanno al di là delle semplici apparenze. È noto che negli istituti ormai da decenni sono presenti e molto attive, numerose sigle sindacali autonome, tenuto conto che le organizzazioni sindacali storiche da tempo hanno lasciato in buona parte campo libero ad altre politiche, per ragioni che non si possono approfondire in questa sede. Si tratta di organizzazioni (…) che talvolta diffondono notizie false a stampa e media pur di mantenere alto il numero dei loro iscritti e travisando in tutto o in parte la verità dei fatti. Anche molti politici cadono in questo “gioco” con un’esaltazione ipocrita e inconcludente del tipo che “comunque va salvaguardata la dignità del corpo di polizia penitenziaria”. In realtà la vera ragione di tali comportamenti sta nell’omertosa pluriennale complicità di tali “sindacalisti” con i loro colleghi peggiori, autori di violenze e soprusi di ogni tipo. Ma c’è di più, perché risalendo la china delle gerarchie, anche i responsabili amministrativi e della sicurezza negli istituti o scelgono la strada del silenzio o della copertura (…). Quest’ultima ipotesi è tutt’altro che peregrina tenuto conto che il potere dei sindacati ormai diventato eccessivo, si concretizza in vere e proprie attività intimidatorie che vanno dall’influenzare pesantemente il personale nei confronti di dirigenti onesti, alle lettere anonime di cui l’amministrazione penitenziaria non dovrebbe tenere conto ma che in realtà spesso si concretizzano in improvvise ispezioni o altri atti di improvviso controllo (sollecitate dai sindacalisti più accreditati a livello centrale) fino agli annunci di stato di agitazione del personale con motivazioni del tutto incongruenti e che hanno come vera finalità quella di mettere in cattiva luce i colleghi e le direzioni che non concordano con i sindacati stessi. Gli amministratori del DAP che nei gradi più alti sono magistrati (in spregio al principio costituzionale della separazione dei poteri), sono pavidi ed impotenti nel loro rapporto con i sindacalisti più intraprendenti, pur di evitare conflitti che potrebbero in qualche modo “disturbare” la loro ambita permanenza nei ruoli centrali da cui traggono potere, privilegi ed emolumenti a volte non indifferenti. Il Capo del DAP, tanto per fare un esempio eccellente, considerato “capo di polizia”, ha un’indennità aggiuntiva sul suo giù alto stipendio, di parecchie decine di migliaia di euro, che anche dopo un breve periodo di permanenza nella carica, resta ad arricchire pensione e liquidazione. Ma c’è di più. I sindacati hanno i loro rappresentanti nel consiglio di amministrazione DAP e questo conferisce alle sigle un potere gestionale e spesso ricattatorio per le progressioni in carriera, le assegnazioni delle sedi di servizio e altro nei confronti di tutti gli operatori centrali e periferici che non condividono le loro politiche (Palamara docet). Si tratta forse di uno degli aspetti più odiosi che lascia intendere quanto sia grande l’ombrello di copertura delle peggiori politiche e delle peggiori azioni e quanto contribuisca al permanere delle stesse per così lungo tempo. Non tutti sanno inoltre quali problematiche si scatenano quando un arrestato viene condotto in carcere. Lo citiamo non a sproposito perché questo aspetto conferma quanto a volte può essere negativa l’atmosfera quotidiana negli istituti di pena. Spesso accade che le forze dell’ordine conducano in carcere arrestati a cui precedentemente è stato applicato un “trattamento” che come noto, può dirsi abituale: presentano lividi, ematomi, a volte stentano a stare in piedi ecc. I medici di guardia, spesso coadiuvati da disposizioni perentorie delle direzioni, certificano il loro stato di salute al momento dell’ingresso o nella peggiore delle ipotesi ne sconsigliano l’ingresso e li propongono per un ricovero preventivo in ospedale. La reazione è immaginabile: il rifiuto degli ospedali di accogliere questi soggetti è molto forte e quello della pol.pen. di piantonarli altrettanto, specialmente se il tutto accade nelle ore notturne. Nei giorni successivi viene presentato per la firma ai direttori un rapporto con il certificato allegato ed il tutto, visti i contenuti, viene inviato “per competenza” alla Procura e per conoscenza a tutti gli altri organi giudiziari e amministrativi, compresi i comandi delle relative forze dell’ordine. Logica vorrebbe che ne scaturissero delle iniziative, dalla semplice richiesta di informativa più approfondita ad un avvio dell’azione penale per presunta notizia di reato. Accade invece, da molti decenni, che nessuno si muova nel suo ambito di competenza e che la questione cada nel più totale dimenticatoio. Noi leggiamo questo assordante silenzio come incoraggiamento a continuare nelle sopraffazioni e nei comportamenti violenti che tradotto in termini poveri è complicità. Sono anni che si auspica un ritorno dei magistrati alle loro funzioni giudiziarie, sono anni che il trasferimento abituale di detenuti scomodi e “puniti” duramente non dovrebbe essere autorizzato dai Provveditori e/o dall’ufficio detenuti del DAP, tenuto conto che l’Ordinamento penitenziario vieta espressamente i trasferimenti disciplinari salvo casi gravi e conclamati di compromissione dell’ordine e della disciplina dell’istituto, casi peraltro rarissimi, da approfondire comunque, con atti ispettivi multidisciplinari che, nella migliore delle ipotesi, farebbero scoprire non pochi scheletri negli armadi. Sono anni che si attende una normativa più attenta e corretta che limiti una volta per tutte lo strapotere sindacale almeno per quanto riguarda le interferenze sulle attività gestionali degli istituti, e sono anni che si attende il riconoscimento della responsabilità civile dei magistrati, compresi quelli fuori ruolo presenti nel DAP ai quali è ancora data la possibilità di ritornare alle loro originarie funzioni quando e come vogliono, portandosi appresso gli emolumenti percepiti come amministratori. Gli altri dipendenti statali invece, sono tutti responsabili di fronte alla legge e non solo per colpa grave ma spesso anche per molto meno o addirittura a titolo di responsabilità oggettiva per le azioni di qualche loro sottoposto. Abbiamo scritto questi pochi capitoli, in progressione “random” solo per fornire un campione di quelle che sono le gravi contraddizioni che attanagliano il nostro sistema penitenziario. Molto altro ci sarebbe da dire e non escludiamo di farlo conoscere in successive note. Desideriamo non comparire come firmatari di questo documento e ce ne scusiamo, ma finiremmo in pasto a polemiche e ritorsioni che frenerebbero l’efficacia di una denuncia o meglio di una controinformazione mai tanto necessaria come nei casi in questione, svuotati della loro gravità da un’informazione pilotata da gente falsa e senza scrupoli che viene ancora considerata degna di credito da media e giornalisti a dir poco ingenui e poco smaliziati o deviati dalla routine e dalla fretta nell’uso e nella scelta delle loro fonti abituali. Operatori penitenziari anonimi - Redazione

La mattanza in carcere. S.M. Capua Vetere è il ritratto della nostra umanità perduta. Francesco Petrelli su Il Riformista il 7 Luglio 2021. L’inumano lascia le sue tracce visibili, a volte nei corpi delle vittime, a volte nel corpo dell’aguzzino. Sono tracce appena percettibili che si celano nei dettagli, in uno sguardo, in una forma o in una postura. Del corpicino spiaggiato del bambino migrante colpiva la postura, le piccole braccia abbandonate all’indietro come fossero il segno dell’abbandono di ogni speranza nell’uomo, il segno dell’atrocità impietosa che gli affondava il viso nella sabbia senza più protezione. Allo stesso modo l’inumano traligna a volte dai corpi o dai gesti dei carnefici. Come quello della signora che durante lo sgombero di un campo rom di Ponticelli sputa a una donna con la figlia di pochi mesi in braccio “ma sbaglia bersaglio e colpisce la faccia della bambina”. Così come l’inumano si rende manifesto nelle schiene ricurve dei carnefici ritratti da Caravaggio. Uomini di spalle, senza volto o con il volto in penombra ai quali l’inumano ha tolto l’identità, la possibilità di uno sguardo. Così come balugina sulla schiena luminosa di muscoli del carnefice curvo sul corpo già abbattuto di San Giovanni Battista, che schiacciando la testa della vittima con la mano sinistra torce il braccio destro all’indietro, per portare la mano al coltello appeso alla cintola, per il gesto finale della decollazione. O come anche nello sguardo vuoto del soldato dal collare di aculei di ferro che compare nella Incoronazione di spine di Hieronymus Bosch, di cui parla Marco Revelli, traendone l’insegnamento di quel terribile “odio secco”, un odio «scevro da passioni come da motivi dichiarabili … non l’odio della vittima per l’aggressore … ma l’odio senza soggetto (senza interiorità da parte di chi lo prova) l’odio come "cosa"», senza dolore e senza rancore, senza ragione alcuna che davvero lo muova contro la vittima delle sue inumane sevizie. Abbiamo rivisto quel lampeggiare d’inumanità nella schiena larga e possente di un agente coi capelli bianchi, senza volto e senza identità, col manganello in mano mentre ficca il ginocchio nello stomaco di un detenuto piegato in due dalle percosse. L’abbiamo visto nel luccichio del casco nero di un altro dello squadrone, in tenuta antisommossa, che prende a manganellate un detenuto caduto in terra. Era il luccichio dell’elmo del soldato che in un altro capolavoro di Bosch, il Cristo portacroce, sorride bolso e inebetito anticipando l’orribile corteo con lo sguardo perso nel vuoto. Ecco, quel Cristo annichilito ed umiliato dagli sgherri inconsapevoli, proprio nello svelare l’atrocità del suo destino, testimoniava della possibile futura umanità dell’uomo. Ma noi abbiamo disimparato ad avere cura del futuro e fiducia nell’uomo. Abbiamo dissipato tutto quello che restava del nostro patrimonio di umanità. I fatti di Santa Maria Capua Vetere stanno lì a testimoniare questa dissipazione e questa perdita di senso dell’essere uomini e della necessità inderogabile e improcrastinabile di proteggerci dal precipitare nell’inumanità. Quei fatti ci pongono davanti, non al deragliamento dalla normalità, ad una caduta imprevista ed imprevedibile nella brutalità di un gruppo. Quegli squadroni hanno visto, hanno capito, hanno annusato l’aria ed hanno lasciato che il disarmo messo in atto dalla collettività intera e dalla politica che la governa e che la esprime giungesse ai suoi esiti finali e inevitabili. La strumentalità con la quale ogni disegno di riforma del carcere è stato abbandonato, l’indifferenza con la quale si sono disinvestiti tutti i propositi di ristrutturazione della pena e di smantellamento dell’opera di assidua reificazione del condannato, obnubilando salute fisica e mentale ed affettività, hanno riprecipitato l’istituzione carceraria in una disperata condizione di arretratezza fisica e morale. Hanno inevitabilmente prodotto quel rapporto di feroce contrapposizione fra collettività sana e carcere come discarica del male, fra detenuto e sorvegliante del detenuto in quel cieco vincolo di violenza nel quale vince chi è più feroce. Ma quelle mani, quei volti coperti dalle mascherine e dai caschi lucidi degli agenti, e il consenso che li circonda nella società civile, li abbiamo inoculati, incubati, nutriti e svezzati nel tempo, privando l’accusato e il condannato di ogni diritto al rispetto, di ogni difesa della dignità, di ogni residuo di umanità, riponendo nella penalità e nel carcere una ridicola fiducia di sicurezza e di redenzione. Francesco Petrelli 

Una lunga tradizione di abusi e torture. Il carcere è violenza, basta con la vendetta. Guido Neppi Modona su Il Riformista il 15 Luglio 2021. Nei primi giorni di luglio siamo venuti a conoscenza che 52 tra dirigenti e agenti della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono stati raggiunti da misure cautelari – custodia in carcere, arresti domiciliari, interdizione dal servizio – per gravissimi fatti di violenza commessi il 6 aprile 2020 contro i detenuti. La sera precedente avevano inscenato una protesta, rifiutando di rientrare nelle celle dopo avere saputo che tra loro vi era un positivo al covid. La protesta era poi rientrata prima di mezzanotte, ma nel frattempo era stata organizzata per il giorno successivo, sotto il pretesto di effettuare una perquisizione generale, una spedizione punitiva, nel corso della quale i detenuti erano stati sottoposti a un violento e prolungato pestaggio, definito dal giudice per le indagini preliminare una “orribile mattanza”. Il giudice aveva contestato i reati di tortura, lesioni e maltrattamenti aggravati, ma il sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi (ministro era Bonafede), in risposta a una interpellanza parlamentare, aveva parlato di “doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità”. Tra marzo e aprile si erano verificati analoghi episodi di violenza contro i detenuti in altri stabilimenti penitenziari, senza suscitare particolare interesse, forse perché il carcere è di per sé un’istituzione violenta e la violenza ne ha sempre contrassegnato la storia. Nei primi anni Settanta del secolo scorso avevo imbastito una ricerca sulla storia delle carceri nello Stato liberale, durante il regime fascista e nei primi decenni della Repubblica, sino alla prima riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, giungendo alla conclusione che il clima di violenza era il principale e costante elemento di continuità. Nel 1904 il deputato socialista Filippo Turati in un discorso alla Camera intitolato “I cimiteri dei vivi” aveva detto: «Le carceri italiane… rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma forse più atroce che si abbia mai avuto: noi crediamo di avere abolito la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata…». Trent’anni prima il “Bullettino Ufficiale della Direzione Generale delle Carceri” registrava con puntigliosa precisione una sanguinosa realtà di violenza. Gli episodi di reazione armata degli agenti di custodia contro i detenuti erano una prassi costante: il condannato disubbidisce all’agente di custodia, lo ingiuria o gli rivolge parole di scherno; la guardia, senza che peraltro vi sia alcun pericolo di fuga o di ribellione, reagisce sparando contro il detenuto, talvolta mirando alle gambe, più spesso colpendolo alla testa e “riducendolo cadavere all’istante”. Talvolta viene per errore colpito un altro detenuto, ma rara è la notizia che l’agente sia stato denunciato all’autorità giudiziaria e quasi sempre la magistratura dichiara non farsi luogo a procedere contro la guardia. Nei primi anni Settanta, dal 1871 al 1874, si contano un morto tra le guardie di custodia e sette morti e numerosi feriti per colpi di arma da fuoco tra i detenuti, senza una riga di commento o di deprecazione da parte del “Bullettino”. Tralasciando il periodo fascista, ancora nel 1954 in una circolare dell’allora ministro della giustizia De Pietro (Presidente del consiglio e ministro dell’Interno Scelba) leggiamo una decisa riaffermazione del carattere afflittivo della pena, che deve inevitabilmente arrecare “sofferenze” e limitazioni alle “esigenze di ordine materiale e spirituale” dei detenuti. Tornando alla realtà del presente, la violenza contro i detenuti continua a esistere, anche se non viene più esercitata a colpi di arma da fuoco, ma con i pestaggi. È comunque consolante che ora la magistratura intervenga contro le violenze degli agenti di custodia e che la ministra della giustizia Marta Cartabia abbia qualificato la violenza degli agenti di Santa Maria Capua Vetere come “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona”, un “tradimento della Costituzione”, ponendo la “fuga dal carcere” tra gli obiettivi della riforma complessiva della giustizia penale. In effetti, credo che la prima causa della violenza in carcere sia l’eccessivo numero dei detenuti e il conseguente sovraffollamento, che rende infernali le condizioni di vita negli stabilimenti penitenziari. È evidente che al sovraffollamento non si deve porre rimedio costruendo nuove carceri per aumentare gli spazi della detenzione, come è stato impropriamente sostenuto pochi giorni orsono su la Repubblica (e poi vivacemente censurato su Il Riformista), bensì riducendo drasticamente il numero dei detenuti. Questo obiettivo comporta interventi a tre livelli: legislativo, in quanto spetta in primo luogo al Parlamento rovesciare l’attuale impianto sanzionatorio che privilegia la pena detentiva, prevedendo nel codice penale per i reati di non particolare gravità una vasta gamma di sanzioni da scontare in libertà; processuale, attraverso il ricorso all’estinzione del reato per la particolare tenuità del fatto sin dalla fase delle indagini preliminari; giudiziario, mediante l’estesa applicazione degli istituti che consentono di evitare di scontare la pena in carcere, quali l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà, la detenzione domiciliare. Quale risultato finale dovremmo avere un carcere riservato esclusivamente ai condannati per i reati più gravi e portatori in concreto di un’alta carica di pericolosità sociale, popolato da non più di 10-15.000 detenuti. È questa la premessa perché negli attuali spazi carcerari possano finalmente trovare applicazione i principi secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione-riabilitazione del condannato, solennemente proclamati dalla Costituzione e da allora rimasti troppo a lungo inattuati per oltre settanta anni. Guido Neppi Modona

La denuncia della Camera penale di Napoli. Violenze in carcere, i penalisti: “Succede quando la prigione è vendetta”. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Luglio 2021. «Non ha senso provare indignazione e pietà per i detenuti maltrattati se non si è disposti a mutare radicalmente i paradigmi su cui si fonda l’istituzione carceraria. Il carcere deve essere un luogo per pochi, anzi pochissimi, in cui il rapporto tra detenuti ed educatori, psichiatri, operatori sia di uno a uno. E la pena deve avere una durata sufficiente a che il reo riacquisti la capacità di vivere in società da uomo libero». La Camera penale di Napoli interviene così nel dibattito sul carcere che si è riacceso all’indomani della svolta nell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. «Oggi – spiega il presidente Marco Campora – nelle nostre prigioni ci sono uomini che da anni hanno concluso il processo di risocializzazione, ma restano reclusi perché le pene sono spesso legate ad astratti titoli di reato, senza alcuna seria valutazione sul percorso degli uomini. E l’inutile sovraffollamento carcerario impedisce a monte ogni possibilità di dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione». Urge, dunque, una seria riforma del sistema. «Il progetto di riforma recentemente avanzato, che si propone di potenziare al massimo le misure alternative alla detenzione, e la storia personale del ministro Cartabia fanno sperare che il carcere possa uscire dalla logica vendicativa e immorale. Che smetta – sottolinea Campora – di essere un recinto finalizzato esclusivamente a contenere i devianti per diventare un luogo di progresso, sviluppo e uguaglianza». «Prima o poi – proseguono i penalisti – il carcere sarà abolito così come tutte le istituzioni totali del passato che oggi a noi contemporanei provocano ribrezzo. È il momento per iniziare questa opera di graduale demolizione». Oggi il carcere è soprattutto un luogo di sofferenza e diritti compressi. «La realtà, chiara da decenni ma rivelatasi in modo deflagrante durante l’emergenza pandemica, è che l’istituzione carcere, dopo qualche secolo di disonorata carriera, mostra dei limiti evidentissimi che la rendono ormai incompatibile con una società democratica – osserva il presidente dei penalisti napoletani – Non sembra del resto un caso che, proprio nel momento in cui il discorso pubblico sul carcere si è imbandito e incrudelito e sono riemerse parole d’ordine che sembravano bandite per sempre come «devono marcire in galera!» o «buttate la chiave!», si sono verificati eventi (rivolte e relative repressioni) che ci hanno fatto ripiombare in un orrendo passato».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L'oppressione e il culto della punizione. Santa Maria Capua Vetere è diventata l’Abu Ghraib italiana. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Luglio 2021. Chissà se qualcuno di voi si ricorda di questo nome: Lynndie England. Era una ragazzina di 20 anni nel 2003, quando scoppiò lo scandalo di Abu Ghraib. Abu Ghraib era l’orrenda prigione di Baghdad nella quale i soldati americani torturavano i prigionieri saddamisti. Sui giornali di tutto il mondo fu pubblicata la foto di questa ragazzina, piccola, esile, in divisa, che trascinava al guinzaglio un detenuto iracheno, nudo, costretto a strisciare sul pavimento. Questa immagine, insieme a quella famosa dell’altro detenuto, in piedi su un piccolissimo panchetto, incappucciato, bendato, con una tunica di stracci, con le mani collegate a dei fili elettrici, diventò l’immagine simbolo dello scandalo e della ferocia. Ci fu una rivolta morale negli Stati Uniti. Siamo i liberatori – dissero i giornali -, non gli oppressori, gli aguzzini. Lynndie fu condannata a tre anni di prigione, e ne scontò due. Il suo capo, un certo Charles Graner, che le aveva dato un figlio (mai riconosciuto) si beccò dieci anni. Stavo in America in quei giorni e andai a cercare Lynndie nel paesino dove viveva, in West Virginia, in fondo a una valle piena di boschi. Era un accampamento più che un paesino. Lei non c’era, vidi la roulotte dove viveva coi genitori, parlai coi vicini, dicevano che era una brava ragazza. Quasi sicuramente lo era: travolta nei culti della violenza e del sadismo da un sistema militare aggressivo e spietato. Almeno, io mi feci questa idea: che la ragione dell’orrore di Abu Ghraib non andasse cercata nella perfidia di Lynndie ma nel sistema guerresco e nel mito della forza. Oggi tornano alla mente quelle immagini, vedendo il filmato messo on line dal Domani. La ferocia di esponenti del potere contro persone fragilissime e che in nessun modo possono difendersi. Il massimo del potere, cioè il potere fisico, che si accanisce con il massimo della debolezza: il detenuto. È un episodio raro, unico? No, non credo proprio. La ministra Cartabia ha scritto una nota molto nobile di condanna di questo orrore. Dispiace che non lo abbiano fatto a suo tempo i suoi predecessori. Il Riformista denunciò quella mattanza 14 mesi fa. L’autunno scorso fu anche aperta una inchiesta giudiziaria. Ci furono interrogazioni parlamentari. Non è stato una bella cosa il disinteresse del governo dei 5 Stelle e del Pd. Se ne fregarono. Non ritennero che fosse loro compito intervenire di fronte a un orrore di stato. Per fortuna non governano più e sembra che il nuovo esecutivo sia più favorevole alle norme essenziali dello stato di diritto. Però resta aperta una questione. Che non è semplicemente quella della punizione dei responsabili. Il problema della punizione dei responsabili è quasi secondaria. La questione è: qual è la causa di questa violenza, e come si può estirpare? Lo abbiamo già detto su queste colonne, ma va ripetuto: la causa è il carcere. Il carcere è la più orribile delle istituzioni dello Stato. Il carcere è violenza, è vendetta, è inno alla punizione, è forza criminogena. Cioè è la macchina che produce la spaventosa azione di Santa Maria Capua Vetere. Quasi la giustifica. Se davvero siamo indignati per quelle azioni non ripetiamo a paperella la frase fatta sulle mele marce. Non ci sono mele marce: c’è una istituzione marcia. la prigione. Che va riformata, ridotta ai minimi termini, e che non va mai più considerata come il “castello” della giustizia. Il carcere è ingiustizia pura. È sadismo. È sempre, o quasi sempre, Abu Ghraib.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Un sistema collaudato. Violenze in carcere, a S.M. Capua Vetere va in scena il “metodo Poggioreale”. Viviana Lanza su Il Riformista il 2 Luglio 2021. «La dinamica violenta attuata con le apparenze e la copertura della perquisizione straordinaria ha anche un nome: “sistema Poggioreale”». È questa l’espressione che il gip Sergio Enea utilizza per inquadrare l’ipotesi alla base dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e per descrivere lo schema nel quale si muovono gli agenti penitenziari sotto accusa e i loro dirigenti, uno schema che sembra essere ben collaudato più che casuale. Di “sistema Poggioreale” si parla nelle chat tra gli indagati. «Se si fosse trattato di un episodio del tutto isolato era lecito attendersi che gli agenti avrebbero mostrato quantomeno una qualche esitazione nel colpire i detenuti con schiaffi, pugni, calci e colpi di manganelli e ciò sarebbe emerso dai filmati – osserva il gip – Invece si nota che gli agenti, senza alcun apparente accordo ma in modo del tutto naturale, compiono dei gesti quasi rituali, come nel caso in cui si dispongono sovente a formare un corridoio umano tutte le volte che i detenuti si apprestano a transitare e cominciano a picchiarli con estrema violenza, giungendo in alcuni casi ad accanirsi su di loro sebbene siano inermi al suolo». Come se ci fosse della naturalezza in tanta violenza. Come se l’uso della violenza fosse considerato il migliore, se non l’unico espediente per ottenere il rispetto delle regole. «E proprio in ragione di ciò – ragiona il gip – quello che agli occhi del cittadino comune appare come un’orribile mattanza, agli occhi degli operatori di polizia penitenziaria diviene un’operazione eseguita in modo brillante ed efficace». Per questo nessuno fra gli agenti tentenna di fronte ai pestaggi e nessuno si indigna quando 292 detenuti del reparto Nilo vengono fatti uscire dalle celle, picchiati e umiliati e poi messi in isolamento nel reparto Danubio senza cibo, coperte e cure. Invece gli agenti della penitenziaria si sorprendono quando in carcere, dopo le violenze, arriva il magistrato di sorveglianza. «Tutti si sorpresero della mia presenza all’interno della casa circondariale alle ore 21,30 nel reparto Danubio – si legge nella testimonianza del magistrato Marco Puglia allegata agli atti dell’inchiesta – Rimasero basiti. In ogni mio spostamento fui seguito, come un’ombra, dalle tre unità della polizia penitenziaria addette al Danubio. Chiesi loro più volte, non disponendo di carta e penna, che mi fossero portati un foglio e una penna in maniera che potessi annotare ciò che vedevo. Lo chiesi una decina di volte ma, quando finalmente riuscii ad averlo, costoro lo trattenevano in mano. Fatto sta che decisi di annotare i particolari sul mio smartphone. Mi scrissi i nomi precisi dei detenuti stranieri che volli ricordare atteso che volevo essere preciso nell’indicazione degli stessi. Percepii un leggero sgomento da parte loro per la mia presenza a quell’ora tarda». Nessuno, presumibilmente, si aspettava che quel pestaggio sarebbe passato presto all’attenzione della Procura. Cinque telecamere del circuito di sorveglianza del carcere hanno ripreso le scene della violenza nonostante i tentativi di depistaggio e di inquinamento delle prove che pure vengono contestati ad alcuni degli agenti e dei dirigenti indagati. E l’analisi dei filmati ha portato gli inquirenti a ritenere che «i pestaggi non sono stati frutto dell’estemporanea escandescenza di qualche agente o ufficiale di polizia penitenziaria, ma sono stati accuratamente pianificati e svolti con modalità tale da impedire ai detenuti di conoscere i propri aggressori. Le vittime infatti erano costrette a camminare con la testa rivolta al suolo e nella sala della socialità erano posti con la faccia al muro mentre venivano picchiati alle spalle». «Ed è proprio questo il sistema Poggioreale: mani dietro alla schiena e occhi a terra, e poi botte passando sotto il cordone di agenti – racconta Pietro Ioia – Anch’io ci sono passato. All’epoca ci fecero anche spogliare, ero nudo mentre mi picchiavano». Ioia è il garante cittadino dei detenuti, ma in passato è stato in cella ed è tra gli ex carcerati dalle cui denunce è scaturito il processo sulla cosiddetta “cella zero” di Poggioreale che da anni pende dinanzi al Tribunale di Napoli. «Vedere le immagini di quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere mi ha fatto male – racconta – Ormai siamo a un punto di non ritorno. Il carcere come istituzione ha fallito, è un luogo che produce solo rabbia e stress sia in chi ci vive sia in chi ci lavora, abbrutisce detenuti e agenti. Non si può continuare così. Adesso è veramente il tempo di un vero cambiamento».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso. Cella zero, sui pestaggi a Poggioreale l’ombra della prescrizione. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Luglio 2021. La prescrizione rischia di abbattersi sul processo per i presunti pestaggi avvenuti tra il 2012 e il 2014 nella «cella zero», l’unica non numerata, la più temuta del carcere di Poggioreale secondo il racconto di quattro ex detenuti che anni fa denunciarono di aver subìto botte e umiliazioni nel grande penitenziario cittadino. Il processo sui fatti di «cella zero», avviato a dicembre 2017, non ha avuto un iter molto spedito e in questo anno e mezzo di pandemia è stato caratterizzato da una serie di rinvii che hanno diluito ancor di più i tempi del dibattimento. Dodici agenti della polizia penitenziaria, all’epoca in servizio a Poggioreale, sono imputati a piede libero. Il prossimo appuntamento in aula è previsto per il 16 settembre: bisognerà ascoltare ancora altri testimoni, valutare indizi e trovare riscontri alle testimonianze e alle varie versioni agli atti. Il momento della sentenza, dunque, non è imminente, il che inizia a far delineare la possibilità che alcuni dei reati contestati possano andare in prescrizione. Due tesi a confronto nel processo, accusa e difesa: da una parte gli agenti della polizia penitenziaria che respingono le accuse di violenza, dall’altra parte quattro ex detenuti e la moglie di un quinto che circa sette anni fa denunciarono i presunti pestaggi in carcere. Tra coloro che hanno raccontato le torture di «cella zero» c’è Pietro Ioia, attuale garante dei detenuti di Napoli ed ex detenuto. Nei racconti di chi ha denunciato, «cella zero» è descritta come un luogo di torture, di umiliazioni e violenza. Oggi, a Poggioreale, quella stanza di punizioni non c’è più, ma nella ricostruzione al vaglio dei giudici che scava nel passato del carcere cittadino «cella zero» sarebbe una stanza spoglia, spesso imbrattata di sangue, al piano terra, non numerata, arredata con un letto ancorato con le viti al pavimento e lenzuola di carta. Lì si finiva rinchiusi per punizione o con un banale pretesto. «Verso le 22 e 30 ero fermo accanto alle sbarre della cella quando un assistente della polizia penitenziaria, addetto alla sorveglianza del piano, si avvicinò a me e in dialetto napoletano disse: “Tu hai detto che voglio fare il guappo”…». Fu il pretesto per condurre il detenuto «in una saletta senza arredi». «Mi fecero spogliare, mi fecero togliere anche gli indumenti intimi – si legge nel racconto agli atti del processo – e in tre iniziarono a picchiarmi, a insultarmi e a farmi eseguire flessioni sulle gambe». Diversamente da quanto sta accadendo in questi giorni nell’ambito dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, le accuse relative ai fatti di «cella zero» non sono sostenute anche da filmati delle telecamere del circuito di videosorveglianza per cui il confronto tra accusa e difesa si fonda principalmente sulle testimonianze. L’indagine, nata dalla denuncia dell’allora garante regionale dei detenuti Adriana Tocco e del Carcere Possibile, la onlus della Camera penale di Napoli impegnata per la tutela dei diritti dei reclusi, fu lunga e complicata, i pm conclusero la fase preliminare chiedendo il rinvio a giudizio per i dodici agenti e l’archiviazione per altri otto. Cinque gli episodi di presunti pestaggi al cuore delle accuse. Nel processo i capi di imputazione spaziano, a vario titolo, dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute a maltrattamenti. Una violenza con cui si sarebbero regolati i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie, sguardi o parole di troppo. Una violenza che mostra il lato più critico e fallimentare dell’istituzione carcere.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Luca Fazzo per “il Giornale” il 4 luglio 2021. Dopo le manette e lo scandalo, arrivano le minacce. Sulla Polizia penitenziaria, investita dalle polemiche per i pestaggi e le torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, arriva il momento peggiore: quello in cui le colpe di un gruppo, per quanto incredibilmente folto, di colleghi si riversa sull'intero corpo. E si dà la stura a aggressioni pubbliche, al punto che i sindacati del settore denunciano: gli agenti ormai vanno al lavoro in borghese perché hanno paura di essere riconosciuti come dipendenti della Penitenziaria e di essere associati ai picchiatori del carcere campano. Le avvisaglie c'erano già state nei giorni scorsi, quando sui profili social della sinistra radicale erano fioriti post carichi di insulti e di odio: non solo contro i 52 agenti del carcere «Uccella», protagonisti di violenze ingiustificabili, ma contro tutti i «secondini», gli uomini che nelle carceri italiane hanno l'ingrato e duro compito di mantenere l'ordine. E ieri arriva l'attacco pubblico: lo striscione che su un ponte romano, siglato con un logo anarchico, indica l'intero corpo come nemico da abbattere. «52 mele marce? Abbattiamo l'albero!», si legge sul lungo lenzuolo apparso di buon mattino su un cavalcavia della Capitale. Ed è chiaro che l'«albero» da abbattere è la Polizia penitenziaria nel suo complesso. Un corpo cui, anche nel pieno della bufera scatenata dagli arresti, il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha riconosciuto l'abnegazione con cui - soprattutto nei mesi drammatici dell'emergenza Covid - ha fornito un contributo indispensabile alla vivibilità delle carceri e alla tenuta del sistema penitenziario. D'altronde le carte dell'inchiesta sulle violenze all'«Uccella» raccontano in pieno le dinamiche che hanno portato ai pestaggi: una sorta di impazzimento collettivo, per alcuni aspetti simile ai fatti di Bolzaneto durante il G8, in cui alla esasperazione della «base» si è unito l'invito dei vertici, a partire dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, a ripristinare l'ordine nell'istituto, messo a soqquadro dalle rivolte dei detenuti. Una pressione che ha finito per suonare come un via libera a regolare i conti con i reclusi senza andare per il sottile. Ora di quei tre giorni di follia rischiano di pagare le conseguenze i 36mila agenti di custodia di tutta Italia. «I colleghi vengono fatti oggetto di insulti per strada - dicono i portavoce del sindacato - è giusto che chi ha sbagliato paghi ma tra noi ci sono tantissimi colleghi che onorano la divisa e che ora temono per la propria incolumità». Secondo l'Usspi, uno dei sindacati di categoria, lo striscione di Roma arriva dopo giorni in cui sui siti venivano diffuse foto, nomi e a volte indirizzi di agenti della penitenziaria. E si tratta spesso di uomini e donne che nulla hanno a che fare con i fatti di Santa Maria Capua Vetere. E dopo l'apparizione dello striscione arrivano gli endorsement della politica a favore della Penitenziaria: «Lo striscione - dice Edmondo Cirielli di Fratelli d'Italia - è la conseguenza della campagna denigratoria di questi giorni contro il corpo della Polizia penitenziaria. È inaccettabile che servitori dello Stato vengano presi di mira su giornali e televisioni senza avere la possibilità di difendersi». E Nadia Ginetti, senatrice di Italia Viva, chiede che l'accertamento della verità sui fatti del carcere «Uccella» non infanghi servitori dello Stato che operano «con turni di lavoro disumani e sotto retribuiti».

La storia di un agente. Poliziotto penitenziario arrestato per errore: era di riposo durante la mattanza in carcere. Francesca Sabella su Il Riformista il 9 Luglio 2021. È stato dieci giorni agli arresti domiciliari perché coinvolto nell’inchiesta sui pestaggi ai danni dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020. In realtà era vittima di un errore di identificazione perché, in quegli stessi giorni, non era in servizio bensì di riposo. L’incubo dell’agente Giuliano Zullo, 55 anni, che il 28 giugno si era visto notificare una misura cautelare assieme ad altri 51 indagati, finisce con la sua liberazione firmata dal gip sammaritano Sergio Enea. «Sono un dipendente statale e sono stato trattato come un delinquente pur essendo innocente – ha detto Zullo –  Sono ancora sotto choc, infangato dopo avere ricevuto sei encomi e, come se non bastasse, ho subito anche minacce su Facebook». Un errore giudiziario che avrebbe potuto distruggere la vita di Zullo se i suoi avvocati Giuseppe Stellato ed Ernesto De Angelis, non avessero dimostrato l’estraneità dell’agente ai fatti del 6 aprile 2020. Sulla formazione della polizia penitenziaria, intanto, interviene l’università della Campania Luigi Vanvitelli: «È necessario promuovere con costanza la formazione e la coltivazione dei valori di civiltà giuridica nella polizia penitenziaria – scrivono i professori del dipartimento di Giurisprudenza – Le prigioni non devono essere solo luoghi dove s’infligge la pena, ma soprattutto occasioni per costruire nuovi orientamenti verso il futuro».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La Nazionale e le violenze di Santa Maria Capua Vetere. Video dei pestaggi in carcere, i galeotti genuflessi siano una lezione per gli azzurri di Mancini. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 2 Luglio 2021. Le “flessioni”, per i carcerati non sono azioni di reperimento della forma fisica: il corpo eretto si flette, scende, si piega sopra le ginocchia, espone e apre gli orifizi più reconditi, svela segreti ai poliziotti penitenziari. “Piegati” è uno degli ordini più utilizzati in carcere, qualche volta porta alla luce un oggetto vietato; il più delle volte non porta a nulla. È un’ispezione corporale che qualche volta è necessaria, il più delle volte di routine, discrezionale. Un’invasione massiva dell’intimo, per detenuti e detenute. Esistono ormai strumenti elettronici in grado di evitare l’atto, o di posticiparlo a sospetti gravi. I detenuti, nella pratica lo vivono come atto di genuflessione. Il maestro Riccardo Muti dice, a ottant’anni, che vorrebbe lasciarsi morire: non si riconosce nel Paese, non ha punti di riferimento; elenca, in un’intervista ad Aldo Cazzullo, una serie di racconti che dovrebbero rafforzare il suo desiderio: la serietà dei maestri, dei padri, degli esempi, di un tempo che non c’è più. Una narrazione in cui si riconosceranno i più della sua generazione. Una storia che si ripete di generazione in generazione, quando il tramonto si annuncia: è lontano il tempo dei nemici da abbattere e incombono i mondi da difendere. Banalmente si potrebbe chiamare conservazione. Ma Muti è un idolo che sorge da uno spartito, si alza per chilometri sopra il resto dell’umanità, non è uno banale: descrive un posto alla deriva, deludente. L’impero della mediocrità. Il decadimento, in ogni senso e in ogni campo. Indiscutibile. Il fatto è, che quando hai avuto così tanto talento, quando comunque il Posto in cui vivi ha permesso che si esprimesse, hai il diritto di fare le tue valutazioni, e pure la facoltà di essere tu punto di riferimento; perché quelli che al tempo sono stati esempi tuoi, un po’, quella responsabilità se la sono assunta. E allora, anziché lasciarsi morire, si potrebbe essere il motivo ché altri non muoiano, abbiano un punto di riferimento durante la deriva. Quando molte delle istituzioni sociali vanno a zonzo, è necessario che altre aiutino a trovare la via, e non c’è una che sia meno importante di un’altra, quando l’importanza derivi dall’autorevolezza. La filosofia, la poesia, il cinema, la letteratura, il lavoro, la musica: possono stare sopra la politica nella misura in cui sappiano farsi ascoltare, lavorino per il miglioramento della società. Ogni campo può essere un campo giusto. L’importante è che arrivi la salvezza, non la direzione da cui provenga. In Italia lo sport è una delle istituzioni più importanti. Il calcio in particolare. La Nazionale. Non è un gioco, soltanto: è qualcosa in grado di scuotere più di altro il pozzo profondo della cultura del Paese. Per questo, per quanto ripetitivo, banalizzato, abusato, il gesto dell’inginocchiamento non è un’azione superficiale. E sta nel genio dei campioni sottrarsi al conformismo inventandosi un tocco inaspettato. Le vite dei neri valgono, le vite dei bianchi valgono. Tutte le vite valgono. Valgono pure le vite dei carcerati, quelle che sembra siano state violentate a Santa Maria Capua Vetere, quelle che potrebbero essere violentate ogni giorno, in qualunque altro carcere. È conformismo pure sottrarre il calcio all’importanza che riveste, tenerlo nell’ambito di un gioco. E non è così. La Nazionale italiana è, in questi campionati europei, soprattutto l’abbraccio fra Mancini e Vialli: che è molto molto di più che la vittoria di una coppa. E l’Italia, in questi giorni, lo stato della sua deriva, è tutta nelle immagini che gli italiani stanno vedendo sul carcere casertano. Sulla genuflessione dei detenuti.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Rivolta al carcere di Modena, aperto un fascicolo per il reato di tortura. L'appello del comitato "Verità e Giustizia per la strage del Sant'Anna": «L'inchiesta non doveva essere archiviata». Il Dubbio il 14 luglio 2021. «Lo ripetiamo ancora una volta: la strage del carcere di Sant’Anna non doveva essere archiviata. Sono tantissime le testimonianze e gli esposti raccolti che raccontano di pestaggi, torture e abusi da parte della Polizia Penitenziaria al carcere di Modena, proseguiti nelle settimane e nei mesi seguenti anche negli istituti dove i detenuti sono stati trasferiti». Lo scrive il comitato “Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna” che chiede di fare luce su quanto successo nel carcere di Modena a marzo 2020, quando ci fu una rivolta e morirono nove detenuti. L’inchiesta sui decessi è stata archiviata, ma sono al vaglio degli inquirenti altri esposti e, sulla base della denuncia di un detenuto, riportano alcuni media, sarebbe stato aperto dalla Procura modenese un fascicolo, contro ignoti, per il reato di tortura. La circostanza non è stata confermata ufficialmente. «La ricostruzione farsesca del festino al metadone come causa della morte di nove detenuti – prosegue il comitato – appare ancora più inverosimile alla luce delle inchieste in corso nelle altre carceri del paese, e quindi il Comitato Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna accoglie con soddisfazione l’apertura di un fascicolo di indagini sulle violenze contro i carcerati. Ci auguriamo che le approfondite indagini che hanno portato alla verità sul carcere di Santa Maria Capua Vetere siano il modello a cui riferirsi anche per altre carceri, dove ben si sa che la violenza è all’ordine del giorno.

Gli abusi nelle altre carceri, aperte 16 inchieste sugli agenti. Fabio Tonacci su La Repubblica l'1 luglio 2021. Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato: pestaggi sono stati denunciati da centinaia di detenuti in tutta Italia. Ma raramente si arriva ad accertare fatti e responsabilità. "C’è troppa omertà, indagini archiviate frettolosamente". Sedici inchieste per tortura, pestaggi e lesioni a carico di agenti della Penitenziaria documentano quanto sia pigra e frettolosa la teoria delle "poche mele marce". E quanto siano fragili le gambe su cui poggia. A stare alle centinaia di denunce presentate dai detenuti di tutta Italia, infatti, "l'orribile mattanza" di Santa Maria Capua Vetere non è la follia di una giornata storta.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 4 luglio 2021. Due esposti che denunciano pestaggi, testimonianze su violenze e mancati soccorsi, una consulenza scientifica sulle autopsie riaprono il caso Modena, facendo ipotizzare che in quel carcere, nel marzo 2020, dopo una «grave rivolta» sia accaduto qualcosa di più rispetto alla «semplice» morte di nove detenuti causata da «overdose di metadone e di sostanze psicotrope», come finora ricostruito nella prima inchiesta recentemente archiviata dal gip su richiesta della Procura. Una seconda inchiesta della Procura di Modena è aperta sui pestaggi. Alcuni detenuti sono stati interrogati. I fatti, così come ricostruiti dalla Procura, risalgono all'8 marzo. La mattina viene ufficializzato il primo caso di positività al Covid. Alle 13 comincia la rivolta: saccheggi, incendi, tentativi di evasione. Alle 16 viene assaltata l'infermeria, i detenuti «riempiono forsennatamente sacchi per l'immondizia con quantitativi ingenti di farmaci che poi riportano in sezione». Le infermiere si rifugiano sotto un letto. Seguono «colluttazioni e risse» tra detenuti per accaparrarsi compresse di psicofarmaci distribuite «come caramelle» e flaconi di metadone bevuti «a canna». Alcuni vengono portati fuori «in stato di apparente coma», rianimati o ricoverati in ospedale in una situazione da «emergenziale assimilabile alla medicina da campo da guerra». In serata, a rivolta non ancora sedata, su 546 detenuti ne vengono trasferiti 417. Nove muoiono: cinque a Modena (tre la stessa sera, due il 10 marzo); gli altri nelle ore successive al trasferimento: a Verona, Alessandria, Parma, Ascoli. Sei tunisini, un marocchino, un moldavo, un italiano. Procura e gip riconducono le morti alla «massiccia, incongrua e fatale assunzione di metadone». Ininfluenti escoriazioni ed ecchimosi su schiena, braccia, gambe, labbra e occhi, in quanto «superficiali, di limitate dimensioni e comunque compatibili con contusioni» nelle risse tra rivoltosi. Incolpevoli agenti e medici. Messa così, pare «una storia semplice». Però. Parenti delle vittime, associazione Antigone e Garante dei detenuti si oppongono, per ora invano, all'archiviazione. Rilevano «gravi lacune, carenze e incongruenze investigative», contestano la «apodittica» ricostruzione della Procura, denunciano la mancanza dei referti medici. Di più. Per conto del Garante, l'anatomopatologa Cristina Cattaneo (già impegnata nei casi Yara e Cucchi, tra gli altri) evidenzia «diverse carenze documentali». Contesta che sul cadavere di Ghazi Hadidi «non è stata erroneamente compiuta l'autopsia», a dispetto di «un trauma contusivo al volto di non scarsa entità» con perdita di due denti. Che per la Procura dipende da una malattia gengivale; per la Cattaneo no, perché c'era sangue fresco in bocca. Si chiede dunque «se non vi fosse stato anche un trauma encefalico», domanda «senza risposta in assenza di autopsia». E su Arthur Iuzi scrive che «l'apparente modestia delle lesioni cutanee lascia spazio al dubbio che vi sia stata una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio». Ma «anche in questo caso il dubbio non può essere fugato» senza autopsia. Mancano anche i video delle telecamere interne, perché durante la rivolta fu staccata la luce. Dunque di quanto accaduto a sera e nella notte nulla si sa. Fino a quando sei detenuti trasferiti da Modena non inviano in Procura due esposti. Cinque detenuti italiani raccontano di aver «assistito ai metodi coercitivi» degli agenti di polizia penitenziaria: «ripetuti spari ad altezza uomo, cariche a colpi di manganelli di detenuti palesemente alterati» e in overdose. «Noi stessi dopo esserci consegnati spontaneamente senza aver opposto resistenza siamo stati privati delle scarpe, picchiati selvaggiamente e ripetutamente e fatti oggetto di sputi, minacce, insulti e manganellate. Un vero pestaggio di massa» proseguito «sui furgoni a colpi di manganelli durante il viaggio verso Ascoli» e poi il giorno dopo in cella «con calci pugni e manganellate ad opera di un commando». Nell'altro esposto, un detenuto marocchino ora a Forlì racconta che la sera della rivolta, nel carcere di Modena, chi si consegnava doveva passare tra due file di agenti della polizia penitenziaria. «Io volevo solo andarmene perché avevo paura. Sono uscito con le mani in alto. Nonostante ciò, alcuni agenti mi hanno bloccato. Poi mi hanno portato in sorveglianza, sdraiato e picchiato violentemente con calci pugni e manganelli», al pari di un detenuto tunisino, «nonostante fosse ammanettato e fermo. Ho provato a protestare per lui, ma gli agenti mi dicevano "stai zitto e abbassa la testa" e per aver parlato venivo nuovamente picchiato. A un certo punto il tunisino mi cadeva addosso. Non rispondeva. Gli agenti cominciavano a prenderlo a botte per farlo svegliare», prima di portarlo via «come un animale, trascinandolo fuori. Ricordo il corpo che strisciava a terra. Non so dove sia stato portato». All'esposto sono allegati i referti della visita medica successiva al trasferimento a Forlì, con «vistoso ematoma frontale e mani tumefatte, lussazioni e fratture». La Procura dovrà riscontrare la fondatezza di questi racconti. Destinati a non rimanere isolati. Segnalazioni arrivano ancora a Garante, associazioni e avvocati. «Siamo stati massacrati, tutte le piastrelle erano piene di sangue», ha raccontato al TgR Rai dell'Emilia Romagna un detenuto sotto garanzia di anonimato, confermando i pestaggi prima dei trasferimenti, nel momento in cui si doveva passare «in un corridoio di quindici metri» con i poliziotti incappucciati sui due lati «che mi hanno dato tante di quelle botte che ho pensato di morire».

Denudati, picchiati e insultati: al carcere di Melfi come a Santa Maria Capua Vetere. Gli episodi nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, ma le immagini risultano inutilizzabili. L’avvocata Simona Filippi, dell’Associazione Antigone, si è opposta alla richiesta di archiviazione dell’esposto. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 luglio 2021. Detenuti del carcere di Melfi legati con le fascette ai polsi, denudati, inginocchiati e messi con la faccia a terra o rivolta al muro. A quel punto schiaffi, umiliazioni e manganellate da parte di un gruppo consistente di agenti penitenziari che, secondo le testimonianze, apparterrebbero ai Gom.

Le immagini delle telecamere risultano inutilizzabili. Le telecamere di video sorveglianza del carcere di Melfi, però, risultano inutilizzabili per l’acquisizione delle immagini a causa di un backup periodico.Diversi detenuti della sezione di Alta Sicurezza di Melfi sarebbero stati messi con la faccia a terra e tenuti fermi con gli anfibi. Altri ancora, per condurli nel pullman, sono dovuti passare tramite un cordone formato dagli agenti e al passaggio sarebbero stati manganellati e insultati. Alcuni testimoniano di aver visto detenuti con la testa sanguinante, occhi tumefatti e nasi rotti.

I fatti sarebbero avvenuti nella notte tra il 16 e il 17 marzo 2020. Parliamo del carcere di Melfi e sono le 3 di notte del 17 marzo 2020. Un gruppo rilevante di agenti incappucciati in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli irrompono nelle celle della sezione AS1 per far uscire i detenuti. Alcuni di loro li avrebbero preso a calci, schiaffi e a manganellate quando erano legati e inginocchiati con la faccia rivolta al muro. Altri ancora, mentre si dirigevano verso il pullman per trasferirli in altre carceri, sarebbero stati presi a manganellate dagli agenti che avevano formato un cordone. «Venivo messo con la faccia rivolta verso il muro del corridoio della sezione dove era ubicata la cella detentiva e in attesa che arrivassero gli altri detenuti, venivo percosso con il manganello mentre mi insultavano».

Le testimonianze dei detenuti concordano sulla modalità dei pestaggi. È una delle tante testimonianze dei detenuti del carcere di Melfi relative a presunti pestaggi avvenuti alle 3 di notte del 17 marzo 2020. Una situazione simile a quello che è accaduto al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un altro detenuto racconta: «Durante tutto il tragitto l’agente della scorta mi ha preso a manganellate fino al locale colloqui, qui arrivati mi ha fatto entrare nella stanza dei colloqui era presente anche l’ispettore dei colloqui, uno bassino pelato, ed era presente anche l’appuntato dei colloqui che mi aveva fatto uscire dalla cella. Sempre il poliziotto che mi ha preso a manganellate mi ha detto mettiti faccia al muro e spogliato, ogni indumento che mi toglievo avevo una manganellata». Circostanza confermata anche da un altro detenuto, il quale ha ricordato che, mentre era in attesa di effettuare la perquisizione, ha sentito che il ristretto «veniva malmenato nello stanzino dei colloqui», tanto che lo stesso chiedeva «al personale in servizio di lasciarlo stare perché lo stavano massacrando». Un altro detenuto racconta di essere stato bruscamente svegliato da alcuni poliziotti penitenziari in tenuta antisommossa, muniti alcuni di caschi protettivi altri da passamontagna, i quali gli hanno chiesto di vestirsi ed uscire velocemente dalla cella. Nel contempo, sia a lui che al compagno di cella, gli avrebbero applicato delle fascette in plastica ai polsi, dietro la schiena, in modo da impedire qualsiasi movimento.

Faccia al muro e costretti a passare in un “cordone umano”. Usciti fuori dalla cella, ovvero nel corridoio, li avrebbero messi faccia al muro in attesa di essere trasferiti ai piani inferiori. «Lungo il tragitto che ci avrebbe portato all’interno dei pullman –prosegue il racconto del detenuto -, gli agenti intimandovi di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano con dei calci nel sedere e in altre parti del corpo». Tutte testimonianze che raccontano lo stesso evento. Un altro detenuto ancora racconta di essersi svegliato a causa delle urla di altri detenuti. Aperto gli occhi ha visto 5 agenti antisommossa dentro la sua cella. Uno di loro si è rivolto a lui e l’altro compagno di cella, intimandogli di vestirsi. Una volta uscito dalla cella, il solito modus operandi con le fascette di plastica ai polsi. «Una volta immobilizzato – racconta il detenuto -, due agenti di Polizia penitenziaria, mi hanno fatto inginocchiare e mi tenevano bloccato, faccia a terra, con gli anfibi. Durante queste fasi, venivo percosso dai predetti agenti di Polizia penitenziaria, con calci e sfollagente, gli stessi mi colpivano ripetutamente alla schiena, in testa, vicino alle gambe e nelle altre parti del corpo».

Il caso seguito da Antigone. È Antigone ad occuparsi di questo caso. In particolar modo l’avvocata Simona Filippi, sempre in prima fila per i casi di pestaggi e tortura che purtroppo avvengono in alcuni penitenziari. A marzo del 2020 Antigone viene contattata dai familiari di diverse persone detenute presso la Casa Circondariale di Melfi. Questi denunciano gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai propri familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020.Si tratterebbe, esattamente come il caso di Santa Maria Capua Vetere, di una punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo 2020. Le testimonianze, come abbiamo riportato nello specifico, parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento.

L’avvocata Simona Filippo ha presentato un esposto, ma la procura ha chiesto l’archiviazione. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Ai detenuti sarebbero poi state fatte firmare delle dichiarazioni in cui avrebbero riferito di essere accidentalmente caduti, a spiegazione dei segni e delle ferite riportate. Il 7 aprile 2020 l’avvocata Filippi di Antigone ha presentato un esposto contro agenti di polizia penitenziaria e medici per violenze, abusi e torture. Ma la procura di Potenza ha avanzato richiesta di archiviazione.

Presentata opposizione e chiesto di sentire i compagni di cella. L’avvocata Simona Filippi di Antigone non ci sta e ha presentato opposizione. Secondo il legale, la procura non ha approfondito fondamentali circostante. Innanzitutto chiede di sentire i compagni di cella dei denuncianti. Secondo l’opposizione all’archiviazione, questi potranno confermare il racconto reso dalle persone offese sia rispetto alla dinamica di quanto posto in essere dagli agenti di polizia penitenziaria intervenuti sia rispetto alle lesioni riportate dalle vittime. Per quanto riguarda il riconoscimento degli agenti, Antigone chiede di procedere all’acquisizione dell’elenco degli agenti appartenenti al reparto Gom ed intervenuto nella notte tra il 16 e il 17 marzo 2020.

Un agente in servizio sarebbe stato riconosciuto. Risultano infatti acquisiti tra gli atti di indagine gli elenchi del personale intervenuto facente riferimento al Provveditorato territoriale. C’è anche un detenuto, compagno di cella di una delle presunte vittime dei pestaggi, che ha riconosciuto un agente in servizio nel carcere. Quest’ultimo, secondo la testimonianza, avrebbe detto ai Gom di andarci piano con quel detenuto, perché aveva seri problemi fisici. In sostanza, mancherebbero accertamenti fondamentali per avere riscontri. Ci sono diversi detenuti da sentire che sono testimoni dell’accaduto. C’è l’elenco dei Gom per individuare chi è intervenuto quella notte. Magari sentendo anche il Comandante che ha coordinato le operazioni, per approfondire in quali reparti e in quali celle sono andati gli agenti di polizia penitenziaria in servizio e anche gli agenti di polizia penitenziaria appartenenti ai Gom.

Il Gip accoglierà l’opposizione dell’avvocata di Antigone? La dinamica denunciata è uguale a quella che è avvenuta nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Con la sola differenza che non è stato possibile dare corso all’acquisizione delle riprese video, in quanto, come emerso dall’esito degli approfondimenti, le telecamere poste all’ interno del carcere, consente solo alla visione diretta, ma non la registrazione. Non solo. Quelle che avrebbero potuto registrare i trasferimenti, risultavano danneggiate dalla rivolta. Per le sole telecamere che hanno registrato tutto, allocate nella fascia perimetrale, il caso vuole che il backup periodico ne ha impedito l’acquisizione. Il gip accoglierà l’opposizione dell’avvocata Filippi di Antigone? Di sicuro, ci sono ancora tanti accertamenti da compiere. 

Dopo i fatti di S.M. Capua Vetere. Torture in carcere, il precedente di Pianosa e Asinara del 1992. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Luglio 2021. A S. Maria Capua Vetere e un po’ in tutta Italia sembrano tornate le torture degli anni novanta nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. Abbiamo dunque avuto un governo Conte e un ministro Bonafede che proteggevano dei torturatori? Pare di sì, a leggere i verbali della magistratura sulle spedizioni punitive attuate un anno fa nelle carceri italiane dopo l’ondata di proteste dei detenuti impauriti dal dilagare dell’epidemia di Covid-19. Calci, pugni, sputi, persone catturate nel sonno, con o senza pigiama, con o senza ciabatte, sicuramente senza spazzolino da denti o biancheria o vestiti, libri e oggetti personali. Presi e trasferiti da agenti irriconoscibili nel loro assetto di guerra. È vero, c’erano state proteste e rivolte, nella primavera di un anno fa nelle carceri, mentre la paura di un virus-nemico, invisibile e tremendo ci stava terrorizzando “fuori”, e a maggior ragione “dentro”. Ma la risposta dello Stato, a quel che si legge dai provvedimenti della magistratura in questi giorni dopo gli arresti di Santa Maria Capua Vetere, è stata violenta e arrogante. Sono immagini fotocopia di qualcosa che non avremmo più voluto vedere, ricordi di una stagione drammatica in cui le mafie lasciavano sul selciato ogni giorno i corpi delle loro vittime. La stagione in cui furono giustiziati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. L’estate del 1992 la ricordo personalmente. I tanti testimoni –in una notte ne furono deportati 300 nelle due isole- parlano di uomini con il passamontagna della vendetta. La spedizione punitiva di quella notte non era conseguenza di proteste o di rivolte carcerarie, era vendetta pura nei confronti di una mafia sanguinaria che in realtà aveva poco a che vedere con quei corpi che furono martoriati per settimane negli istituti speciali. I boss di Cosa Nostra erano tutti latitanti, così lo Stato si vendicò su alcuni picciotti e con tanti che non c’entravano niente, delinquentelli di borgata o addirittura incarcerati da innocenti. La vendetta di Stato servì anche a costruire i falsi “pentiti”, i più deboli, quelli che non ce la facevano più a essere picchiati ogni giorno, a bere l’acqua arrugginita dei rubinetti, a mangiare poca pasta spesso condita con pezzi di vetro, a stare nel caldo torrido senza doccia se non una volta ogni quindici giorni per tre minuti e chiusa d’improvviso quando il corpo era insaponato. Era tortura quella del 1992 a Pianosa e Asinara. E quella della primavera 2020 a S. Maria Capua Vetere, ma anche a Modena, ad Ascoli, a Melfi che cosa è stata? Quando si legge nelle deposizioni «mi hanno fatto inginocchiare e mi hanno tenuto bloccato a terra, venivo colpito dagli sfollagente degli agenti. mi colpivano in testa, alla schiena, sulle gambe…», non si trattava di tortura? Trent’anni fa gli omicidi Falcone e Borsellino avevano fatto perdere la testa agli apparati dello Stato. Pur dopo il Maxiprocesso con i suoi ergastoli, restava il fatto che Totò Riina, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro erano sempre uccel di bosco. Loro continuavano a sparare e lo Stato usava il manganello sui corpi dei più deboli, i detenuti. Proprio come nel 2020, quando un debolissimo governo Conte-due invece di sfollare gli istituti di pena come avrebbe dovuto in presenza del virus, aveva sfogato la propria impotenza sui corpi prigionieri. Nel 1992 le torture, per le quali poi l’Italia fu condannata dalla Cedu, produssero anche quella gravissima distorsione politico-giudiziaria che fu il caso Scarantino, il falso pentito nel delitto Borsellino. Enzino, il picciotto della Guadagna, che non era neanche un mafioso, ma un delinquentello che si arrangiava con piccolo spaccio e altri lavoretti di basso rango, era uno dei ragazzi torturati che avevo incontrato in carcere. Invano era stata resa pubblica la lettera della moglie che denunciava il capo della mobile Arnaldo La Barbera per le torture e la costrizione al falso pentimento. È storia nota che venti innocenti sono rimasti in carcere per quindici anni ingiustamente prima che si disvelasse l’imbroglio. Ma nelle violenze di un anno fa non paiono esservi neanche motivazioni di politica giudiziaria. Sembra piuttosto una serie di azioni muscolari del debolissimo governo giallo-rosa che nessuno rimpiange, insieme all’indimenticabile ministro Bonafede preoccupato più di sbattere gente in galera che di fare giustizia. Infatti giusto un anno fa, nel mese di giugno era andato in aula a Montecitorio a portare la propria solidarietà agli agenti picchiatori. Qualcuno gli chiederà conto di quei fatti così agghiaccianti da riportare alla memoria le torture di Pianosa e Asinara di quasi trent’anni fa?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Tortura, l’applicazione a quattro anni dall’istituzione del reato. Il dossier dell'associazione Antigone sui procedimenti in corso. Il Dubbio il 26 giugno 2021. Un dossier sull’applicazione della legge a quattro anni dall’introduzione del reato di tortura. È quello che ha realizzato Antigone in occasione della Giornata Internazionale per le Vittime di Tortura. Quattro anni fa fu introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura (il 613-bis). Erano passati quasi 30 anni da quando l’Italia aveva ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite, impegnandosi davanti agli organismi internazionali a perseguire e punire questo crimine contro l’umanità. Tuttavia i vari tentativi compiuti non avevano portato all’esito atteso. Nel frattempo nel Paese la tortura esisteva e veniva – purtroppo – praticata, come hanno dimostrato alcune sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo che condannò l’Italia per le torture nel carcere di Asti e per quelle nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova. «Quel testo – ricorda Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – fu figlio di un compromesso che lo staccò da quella che erano le previsioni contenute nella Convenzione Onu. Tuttavia come associazione, lo difendemmo e chiedemmo l’approvazione. Sappiamo infatti che non sempre avere la migliore possibile delle leggi basta. Quello che conta, spesso, è la cultura giuridica di chi poi quelle leggi le applica. Inoltre eravamo certi che anche con l’attuale formulazione, mantenesse i criteri per una ampia applicazione. A distanza di quattro anni ne abbiamo avuto prova, con diversi procedimenti e processi avviati contro presunti torturatori e le prime condanne».

I PROCEDIMENTI PER TORTURA ATTUALMENTE APERTI IN ITALIA

FERRARA

Il 15 gennaio 2021 per la prima volta un agente di polizia penitenziaria viene condannato per tortura inflitta a una persona detenuta. L’agente è stato condannato a tre anni di reclusione. I fatti risalgono al 2017 quando, secondo la ricostruzione, tre agenti di polizia penitenziaria entrarono nella cella di una persona detenuta per una perquisizione. Uno uscì, e si mise di guardia in corridoio. Gli altri due restarono all’interno. Uno dei due fece inginocchiare il detenuto, lo ammanettò o lo pestò. Il detenuto reagì con una testata, che pagò con un ulteriore pestaggio. Poi gli agenti si allontanarono, lasciandolo in cella ammanettato. L’agente condannato aveva optato per il rito abbreviato. Gli altri due hanno optato per il rito ordinario. Il processo ha tra gli imputati anche un’infermiera, accusata di falso e favoreggiamento.

SAN GIMIGNANO

Il 17 febbraio 2021 dieci agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano vengono condannati per tortura e lesioni aggravate in concorso. Le pene vanno dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi. Per la seconda volta in poche settimane viene applicata la legge contro la tortura. L’episodio oggetto delle indagini e del processo risale all’ottobre 2018, quando secondo la ricostruzione, un detenuto tunisino subì pestaggi brutali durante un trasferimento da una cella a un’altra. La Procura del Tribunale di Siena, nell’ottobre del 2019, aveva contestato il reato di tortura a quindici agenti. A dicembre 2019 Antigone ha presentato un proprio esposto. Dei quindici agenti, dieci sono stati condannati a febbraio con rito abbreviato mentre cinque sono stati rinviati a giudizio a novembre del 2020. Nella stessa udienza, è stato giudicato – con rito abbreviato – anche un medico del carcere, condannato a 4 mesi di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio, per non aver visitato e refertato la vittima. Si tratta anche in questo caso di un importante decisione, essendo la prima volta che un medico viene condannato per essersi rifiutato di refertare un detenuto che denunciava di aver subito violenze. Nel procedimento con rito ordinario dei cinque agenti di polizia penitenziaria Antigone si è costituita parte civile, così come L’Altro Diritto, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e la onlus Yairaiha. Il 18 maggio 2021, durante la prima udienza, anche il ministero della Giustizia ha chiesto di costituirsi parte civile tramite l’avvocatura di Stato. Nell’udienza del 9 giugno, viene accolta la richiesta del Ministero che viene al contempo escluso quale responsabile civile. La prossima udienza è fissata per il 13 luglio.

FIRENZE

L’inchiesta sulle presunte violenze commesse nella Casa Circondariale di Sollicciano sarebbe nata da delle denunce per resistenza a pubblico ufficiale presentate da alcuni agenti di polizia penitenziaria a carico di persone detenute nell’istituto fiorentino. Anche grazie all’acquisizione della videosorveglianza, la Procura di Firenze ha ritenuto tali accuse non veritiere iniziando ad indagare sugli stessi agenti che avevano sporto denuncia. Gli episodi contestati risalirebbero al 2018 e al maggio 2020, quando alcuni detenuti avrebbero subito pestaggi riportando gravi lesioni. A gennaio 2021 il Gip del Tribunale di Firenze dispose misure cautelari per nove agenti di polizia penitenziaria. Tre finirono agli arresti domiciliari, mentre per altri sei fu disposta la misura dell’interdizione dall’incarico per un anno e l’obbligo di dimora nel comune di residenza. Oltre al reato di tortura, agli agenti viene contestato è anche il reato di falso ideologico in atto pubblico, per aver fatto passare gli abusi come episodi di resistenza da parte dei detenuti. A giugno 2021 il Pm della Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti di polizia penitenziaria e due medici, questi ultimi accusati di aver redatto falsi certificati in relazione alle condizioni dei detenuti vittime delle violenze.

TORINO

A ottobre 2019 Antigone riceve notizia di una indagine in corso presso la Procura del Tribunale di Torino per diverse ipotesi di reato, tra cui anche il reato di tortura, a carico di diciassette agenti di polizia penitenziaria della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Nei confronti di tredici persone viene emessa un’ordinanza di misura cautelare. Il 25 novembre 2019 Antigone presenta un esposto. Il 25 agosto 2020 Antigone avanza richiesta per ottenere copia degli atti di indagine. Viene autorizzata. Dagli atti di indagine e dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari risulta indagato anche il Direttore del carcere per il reato di favoreggiamento personale e di omessa denuncia. Si è in attesa della fissazione dell’udienza preliminare.

PALERMO

A gennaio del 2020 Antigone viene contattata dalla moglie e dal legale di una persona detenuta presso la Casa circondariale Pagliarelli di Palermo. Entrambi denunciano violenze e maltrattamenti subiti il 18 gennaio 2020 dal familiare e assistito al momento dell’ingresso in carcere. Due giorni dopo, la persona detenuta viene portata davanti ai Giudici della Corte di Assise di Appello di Palermo per lo svolgimento del processo. In quella sede rende dichiarazioni spontanee, denunciando quando accaduto al suo arrivo in carcere. La Corte, riscontrati i segni al volto e ascoltato il racconto, trasmette gli atti alla Procura competente. Il 22 maggio 2020 Antigone presenta un esposto contro gli agenti per ipotesi di tortura nonché contro i medici, i quali, secondo quanto ricostruito, non avrebbero accertato le lesioni, favorendo così gli agenti di polizia penitenziaria. Le indagini sono attualmente in corso.

MILANO OPERA

A marzo 2020, nel corso dell’emergenza pandemica, Antigone viene contattata da molti familiari di persone detenute presso la Casa di Reclusione di Milano Opera. Vengono segnalate violenze, abusi e maltrattamenti nei confronti dei propri familiari detenuti, che sarebbero stati così puniti per la rivolta scoppiata nei giorni precedenti nel primo reparto. I familiari raccontano che le violenze sarebbero state commesse da agenti di polizia penitenziaria a rivolta finita. Il 18 marzo 2020 Antigone deposita un esposto per ipotesi di abusi, violenze e torture. Le indagini sono in corso.

MELFI

A marzo 2020 Antigone viene contattata dai familiari di diverse persone detenute presso la Casa Circondariale di Melfi. Questi denunciano gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai propri familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020. Si tratterebbe anche in questo caso di una punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo 2020. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito loro di andare in bagno. Ai detenuti sarebbero poi state fatte firmare delle dichiarazioni in cui avrebbero riferito di essere accidentalmente caduti, a spiegazione dei segni e delle ferite riportate. Il 7 aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto contro agenti di polizia penitenziaria e medici per violenze, abusi e torture. Il 3 maggio 2021, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza ha avanzato richiesta di archiviazione. In data 3 giugno 2021, Antigone presenta opposizione alla richiesta di archiviazione.

PAVIA

A marzo 2020 Antigone viene contattata dai familiari di alcune persone detenute nella Casa Circondariale di Pavia. Denunciano violenze, abusi, e trasferimenti arbitrari disposti dopo le proteste di alcuni giorni prima. La polizia le avrebbe colpite, insultate, private degli indumenti e lasciate senza cibo. Ai detenuti trasferiti non sarebbe stato permesso di portare alcun effetto personale né di avvisare i familiari. Il 20 aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e tortura. Le indagini sono attualmente in corso. Diverse persone sarebbero state già sentite dalle autorità inquirenti.

SANTA MARIA CAPUA VETERE

Nel mese di aprile 2020 Antigone viene contattata da familiari di varie persone detenute presso il reparto “Nilo” della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. La causa sono i presunti abusi, violenze e torture che alcuni detenuti avrebbero subito nel pomeriggio del 6 aprile 2020. Responsabili sarebbero circa 400 agenti, intervenuti in tenuta antisommossa a seguito di una protesta posta in essere il giorno precedente dai detenuti dello stesso reparto. Questi sarebbero stati preoccupati per la diffusione della notizia di un detenuto positivo al coronavirus, posto in isolamento con febbre. Alcuni detenuti, dopo l’azione di violenza, sarebbero stati posti in isolamento. Ai pochi detenuti visitati i medici non avrebbero refertato le lesioni. Il 20 aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto contro gli agenti di polizia penitenziaria per ipotesi di tortura e percosse e contro i medici per ipotesi di omissione di referto, falso e favoreggiamento. A giugno 2020 la Procura fa notificare dai carabinieri avvisi di garanzia a 44 agenti di polizia penitenziaria indagati per tortura, abuso di potere e violenza privata. Agli atti dell’inchiesta ci sarebbero video che mostrano i pestaggi, detenuti inginocchiati e picchiati con i manganelli. Le indagini sono in corso.

Da ansa.it il 14 luglio 2021. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha visitato il carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) insieme alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. "Venire in questo luogo oggi - ha detto Draghi incontrando la stampa - significa guardare da vicino per iniziare a capire. Quello che abbiamo visto negli scorsi giorni ha scosso nel profondo le coscienze degli italiani. Sono immagini di oltre un anno fa. Le indagini in corso stabiliranno le responsabilità individuali. Ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato. La Costituzione Italiana sancisce all'Articolo 27 - prosegue - i principi che devono guidare lo strumento della detenzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". A questi principi deve accompagnarsi la tutela dei diritti universali: Il diritto all'integrità psicofisica, all'istruzione, al lavoro e alla salute, solo per citarne alcuni. Questi diritti vanno sempre protetti, in particolare in un contesto che vede limitazioni alla libertà. ll Governo non ha intenzione di dimenticare. Le proposte della Ministra Cartabia rappresentano un primo passo che appoggio con convinzione. Non può esserci giustizia dove c'è abuso. E non può esserci rieducazione dove c'è sopruso. In un contesto così difficile - prosegue Draghi - lavorano ogni giorno, con spirito di sacrificio e dedizione assoluta, tanti servitori dello Stato. La polizia penitenziaria, in grande maggioranza, rispetta i detenuti, la propria divisa, le istituzioni. Gli educatori assicurano le finalità riabilitative della pena. I mediatori culturali assistono i carcerati di origine straniera. I volontari permettono molte delle attività di reinserimento. A voi, e ai vostri colleghi in tutta Italia, va il più sentito ringraziamento del Governo e il mio personale", aggiunge. "Quello che è avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono atti di ingiustificabile violenza e intimidazione. Mai più violenze - ha sottolineato la ministra Cartabia - e occorre procedere subito ad assunzioni nel personale delle carceri. Servono più fondi e più impegno nella formazione permanente, in particolare per la polizia penitenziaria che deve accompagnare il detenuto nel percorso di rieducazione. La pandemia ha fatto da detonatore a questioni antiche che affliggono le carceri, la prima è il sovraffollamento, occorre intervenire su "più livelli" tra cui le strutture materiali e la formazione, ma anche sul piano normativo e il pacchetto di riforme corregge "la misura penale incentrata solo sul carcere". Rivolgendosi al premier Mario Draghi, al termine della visita al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere - teatro di violenze ai detenuti il 6 aprile 2020 - la Guardasigilli Marta Cartabia ha detto che questa deve essere l'occasione "per far voltar pagina al mondo del carcere. Il carcere è al centro dell'inchiesta sugli scontri della primavera del 2020 nella quale sono contestati ai vertici della struttura e agli agenti penitenziari i reati di violenza e tortura. All'esterno del carcere Il premier Mario Draghi sta incontrando la delegazione di lavoratori della Whirlpool giunta a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) per chiedere l'intervento del capo del governo sulla crisi dell'azienda. Oggi hanno ricevuto l'avviso dell'azienda che si procederà con i licenziamenti.

Il presidente del Consiglio: "Il sistema va riformato, non può esserci giustizia dove c'è abuso". “Draghi, Draghi”, applausi per il premier nel carcere della mattanza. Appello detenuti a Cartabia: “Facci uscire”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 14 Luglio 2021. E’ stato accolto, poco dopo le 16, tra gli applausi e con il coro “Draghi, Draghi, Draghi“, con i detenuti che poi hanno voluto subito lanciare un messaggio chiaro al presidente del Consiglio Mario Draghi e alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, in visita nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, salito agli onori delle cronache nazionali e internazionali per l’orribile mattanza andata in scena il 6 aprile 2020, quando circa 300 detenuti vennero brutalmente pestati da altrettanti agenti di polizia penitenziaria in quella che era stata definita “una perquisizione straordinaria” (ma culminata poi lo scorso giungo con ben 52 misure cautelari e oltre 100 indagati tra i poliziotti). “Fuori, fuori“. E’ infatti il secondo coro dei detenuti nelle speranza che dal governo arrivi l’indulto o l’amnistia. Un appello rivolto al premier e alla ministra Cartabia che hanno girato per i padiglioni del carcere casertano raccogliendo le testimonianze dei detenuti. All’esterno del carcere sono presenti "solo" i lavoratori della Whirlpool di Napoli che si sono radunati nella speranza di incontrare Draghi per la tutela del loro posto di lavoro dopo la decisione della multinazionale di chiudere lo stabilimento di Ponticelli. Decisione confermata proprio oggi. Successivamente il premier ha incontrato i segretari generali di Fiom, Fim e Uilm Napoli Rosario Rappa, Raffaele Apetino e Antonio Accurso. “Per la cronaca fuori al carcere di santa Maria Capua Vetere c’erano tre garanti, un centinaio di giornalisti e 4 familiari, inutile aggiungere altro” sottolinea Pietro Ioia, garante dei detenuti per il Comune di Napoli, sottolineando di fatto lo scarso interesse che ha provocato nell’opinione pubblica la mattanza, cristallizzata dai video che, non senza difficoltà a causa dell’opera di depistaggio attuata dalla polizia penitenziaria, carabinieri e procura sammaritana sono riusciti ad acquisire. Ioia è in compagnia di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, ed Emanuela Belcuore, garante di Caserta. Con loro anche il garante nazionale Mauro Palma e il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, tutti hanno avuto un ruolo decisivo nel far emergere le violenze avvenute lo scorso 6 aprile 2020. La direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Elisabetta Palmieri, prima della conferenza stampa di Draghi e Cartabia ha ribadito: “Chi ha sbagliato è giusto che paghi ma non va bene colpevolizzare l’intero corpo della polizia penitenziaria”. Ad assistere alle dichiarazioni del premier Mario Draghi anche un gruppo di detenuti in semi-libertà, oltre ad addetti amministrativi e ad agenti della Polizia penitenziaria, e ai giornalisti.

Le parole di Draghi: “Il sistema va riformato, non può esserci giustizia dove c’è abuso”. “Oggi non celebriamo trionfi o successi, ma siamo qui ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte. Venire qui oggi significa guardare da vicino, di persona per iniziare a capire” ha esordito il premier. “Il Governo non ha intenzione di dimenticare, il sistema va riformato. Le proposte della Ministra Cartabia rappresentano un primo passo che appoggio con convinzione. Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso”. “Le carceri devono essere l’inizio di un nuovo percorso di vita” prosegue Draghi. “L’Italia, questo Governo, vogliono accompagnarvi. Gli istituti penitenziari devono essere comunità. E dobbiamo tutelare, in particolare, i diritti dei più giovani e delle detenute madri”, ha aggiunto. Poi il passaggio sulla polizia penitenziaria che “in grande maggioranza, rispetta i detenuti, la propria divisa, le istituzioni”. Agli uomini e le donne della Polizia penitenziaria “va il più sentito ringraziamento del governo e il mio personale”. “I mediatori culturali assistono i carcerati di origine straniera. I volontari permettono molte delle attivita’ di reinserimento. A voi, e ai vostri colleghi in tutta Italia, va il piu’ sentito ringraziamento del Governo e il mio personale”, aggiunge.

Le parole di Cartabia: “Occorre aver visto, primo problema sovraffollamento, poi pene alternative”. “Violenze e umiliazione sono ingiustificabili” ha detto la ministra Marta Cartabia. “Quegli atti sfregiano la dignità della persona umana che la Costituzione pone come vera pietra angolare della convivenza civile. Il carcere è luogo di pena, ma non sia mai luogo di violenza e umiliazione. Oggi scopriamo che quelle parole della costituzione debbono essere riconquistate” ha aggiunto. “Siamo qui perché quando si parla di carcere bisogna aver visto come ci ricordano le celebri parole di Piero Calamandrei, che sapeva bene cosa significasse la vita nel carcere. Occorre aver visto” ha poi sottolineato la ministra della Giustizia che rimarca poi i problemi attuali nei penitenziari italiani. “Il primo e più grave tra tutti i problemi è il sovraffollamento. Sovraffollamento significa spazio dove è difficile anche muoversi, dove d’estate, come abbiamo sperimentato anche oggi, si fa fatica persino a respirare. Una condizione che si traduce in difficoltà nel proporre attività che consentano alla pena di favorire, nel modo più adeguato, percorsi di recupero dei detenuti”.

Cartabia annuncia la riforma: “La pena non è solo carcere”. “Ritengo che sia anche giunta l’ora di intervenire sull’ordinamento penitenziario e sull’organizzazione del carcere. La presenza oggi qui, mia e del presidente del Consiglio, sancisce un impegno a lavorare in questa direzione” ha annunciato Cartabia. “Il pacchetto di emendamenti in materia penale, approvato dal Consiglio dei Ministri la settimana scorsa – ha ricordato – prevede anche un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi. Occorre correggere una visione del diritto penale incentrato solo sul carcere, per riservare la detenzione ai fatti più gravi. La Costituzione parla di “pene” al plurale. La pena non è solo carcere. Senza rinunciare alla giusta punizione degli illeciti, occorre procedere sulla linea, che già sta generando molte positive esperienze, anche in termini di prevenzione della recidiva e di risocializzazione, attraverso forme di punizione diverse dal carcere – come, ad esempio, i lavori di pubblica utilità. In questo, un ruolo fondamentale è svolto dai giudici di sorveglianza”. “Bisognava vedere – ha concluso – e oggi abbiamo visto insieme. Insieme, ora spetta a noi trasformare la reazione ai gravissimi fatti qui accaduti in un’autentica occasione per far voltare pagina al mondo del carcere”.

Cartabia: “C’è bisogno di più agenti ed educatori. Occorre investire nella formazione”. “Occorre rimediare alla grave diminuzione del personale che si è verificato nel corso degli anni, provvedendo immediatamente a nuove assunzioni e, possibilmente, incrementare l’organico della polizia penitenziaria, senza dimenticare gli educatori, i dirigenti e tutto il personale, anche dell’esecuzione penale esterna. Le scoperture di personale sono significative per tutte le categorie. I concorsi in atto e quelli già programmati non saranno sufficienti nemmeno a coprire il turn over” ha rimarcato la ministra della Giustizia. “La carenza di personale sovraccarica di ulteriori responsabilità quello in servizio e lo sottopone a condizioni di stress, se non a situazioni di rischio” ha aggiunto. “Servono anche finanziamenti per la videosorveglianza capillare e per le attrezzatture specifiche degli agenti. Servono però – ed è quel che considero l’aspetto ancora più qualificante – più fondi per la formazione permanente. Dobbiamo investire molto di più nella formazione, per tutto il personale e, in particolare, per quello della Polizia penitenziaria”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Draghi: "Migliaia di detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili". Carceri sovraffollate, Cartabia vede l’orrore e annuncia riforma: “Non si respira nelle celle, la pena non è solo la prigione”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il  14 Luglio 2021. “Siamo qui per dire che i vostri problemi sono i nostri problemi. Siamo qui, perché quando si parla di carcere, “bisogna aver visto”, come ci ricordano le celebri parole di Piero Calamandrei che sapeva bene cosa significasse la vita del carcere”. Dopo aver visto le condizioni del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove il 6 aprile 2020 è avvenuta l’orribile mattanza della polizia penitenziaria giustificata come “perquisizione straordinaria”, la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi annunciano la riforma dell’ordinamento penitenziario. “Oggi Cartabia e Draghi hanno dimostrato di essere ottimi interlocutori” ha dichiarato il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, presente insieme ai tre garanti locali (Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, Emanuela Belcuore, garante di Caserta e Pietro Ioia, garante di Napoli) e con il garante nazionale Mauro Palma. “C’è una nuova aria a Santa Maria – prosegue Puglia – come un balsamo che allevia le loro sofferenze”.

I quattro problemi cronici del carcere. Quattro i problemi cronici: sovraffollamento, strutture non adeguate, scarso ricorso alle pene alternative e carenza di personale. La Guardasigilli parte del sovraffollamento presente nei 190 istituti penitenziari presenti in Italia. “Sovraffollamento significa spazio dove è difficile anche muoversi, dove d’estate, come abbiamo sperimentato anche oggi, si fa fatica persino a respirare. Oggi a questo problema occorre far fronte con una strategia che operi su più livelli: strutture materiali, interventi normativi, personale, formazione”. Riguardo le strutture materiali e l’adeguata manutenzione, nell’ambito dei fondi complementari al PNRR, “è stata prevista la realizzazione di 8 nuovi padiglioni. Tra gli istituti sui quali dovranno insistere le nuove costruzioni – annuncia Cartabia – c’è anche Santa Maria Capua Vetere, insieme a Rovigo; Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria”.

Pene alternative: lavori di pubblica utilità. “Ma l’altro piano fondamentale – sottolinea la Ministra– è quello normativo. Il pacchetto di emendamenti in materia penale, approvato dal Consiglio dei Ministri la settimana scorsa, prevede anche un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi. Occorre correggere una visione del diritto penale incentrato solo sul carcere, per riservare la detenzione ai fatti più gravi. La Costituzione parla di “pene” al plurale. La pena non è solo carcere. Senza rinunciare alla giusta punizione degli illeciti, occorre procedere sulla linea, che già sta generando molte positive esperienze, anche in termini di prevenzione della recidiva e di risocializzazione, attraverso forme di punizione diverse dal carcere – come, ad esempio, i lavori di pubblica utilità. In questo, un ruolo fondamentale è svolto dai giudici di sorveglianza.

Nuove assunzioni e più formazione. “Occorre rimediare alla grave diminuzione del personale che si è verificato nel corso degli anni, provvedendo immediatamente a nuove assunzioni e, possibilmente, incrementare l’organico della polizia penitenziaria, senza dimenticare gli educatori, i dirigenti e tutto il personale, anche dell’esecuzione penale esterna. Le scoperture di personale sono significative per tutte le categorie. I concorsi in atto e quelli già programmati non saranno sufficienti nemmeno a coprire il turn over”. “La carenza di personale – spiega Cartabia -sovraccarica di ulteriori responsabilità quello in servizio e lo sottopone a condizioni di stress, se non a situazioni di rischio. Servono anche finanziamenti per la videosorveglianza capillare e per le attrezzature specifiche degli agenti. Servono però – ed è quel che considero l’aspetto ancora più qualificante – più fondi per la formazione permanente. Dobbiamo investire molto di più nella formazione, per tutto il personale e, in particolare, per quello della Polizia penitenziaria. Essa svolge un compito complesso e delicatissimo, anche se la sua attività non è del tutto conosciuta. Oltre all’esercizio della tradizionale funzione della vigilanza e della custodia, la Polizia penitenziaria raccoglie anche il compito di accompagnare il detenuto nel percorso rieducativo, come vuole la nostra costituzione. Vigilare e accompagnare. Vigilando redimere, dice il vecchio motto del corpo. Occorre fermezza e sensibilità umana e, soprattutto, altissima professionalità per svolgere un compito tanto affascinante quanto difficile”.

Draghi: “Già condannati due volte per sovraffollamento”. “L’Italia è stata condannata due volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento carcerario. Ci sono migliaia di detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. Sono numeri in miglioramento, ma sono comunque inaccettabili. Ostacolano il percorso verso il ravvedimento, ostacolano il reinserimento nella vita sociale, obiettivi più volte indicati dalla Corte Costituzionale”. Sono le parole del premier Mario Draghi dopo la visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove ha raccolto le testimonianze dei detenuti. “In un contesto così difficile – aggiunge – lavorano ogni giorno, con spirito di sacrificio e dedizione assoluta, tanti servitori dello Stato, in primis la polizia penitenziaria, che in grande maggioranza rispetta i detenuti, rispetta la propria divisa, rispettano le istituzioni. Vorrei anche dire che gli educatori assicurano le finalità riabilitative della pena. I mediatori culturali assistono i carcerati di origine straniera. I volontari permettono molte delle attività di reinserimento. A voi, ai vostri colleghi in tutta Italia, e al corpo della polizia penitenziaria nel suo complesso, va il più sentito ringraziamento del Governo e il mio personale”. Per Draghi “la detenzione deve essere recupero, riabilitazione. Gli istituti penitenziari devono essere comunità. E dobbiamo tutelare, in particolare, i diritti dei più giovani e delle detenute madri. Le carceri devono essere l’inizio di un nuovo percorso di vita. L’Italia, questo Governo, comunità di Santa Maria di Capua Vetere, vogliono accompagnarvi. Grazie”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

«Il governo non dimentica quei pestaggi in carcere. Non c’è giustizia dove c’è abuso». Draghi e Cartabia in visita a Santa Maria Capua Vetere: i detenuti invocano indulto e amnistia, ma hanno saputo della visita soltanto dalla televisione. Simona Musco su Il Dubbio il 14 luglio 2021. «Non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso». Sono parole del premier Mario Draghi, che ieri, visitando il carcere di Santa Maria Capua Vetere, ha ricordato l’articolo 27 della Costituzione, in un discorso storico che ha rappresentato una presa di posizione chiara e decisa: il carcere non può essere quello visto nei video dei pestaggi del 6 aprile 2020, quando centinaia di agenti massacrarono i detenuti dell’istituto casertano. Il governo ha così preso le distanze da quelle violenze, presentandosi ieri con Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia proprio lì, dove quei fatti che «tradiscono la Costituzione» sono avvenuti. Ma proprio le vittime di quei pestaggi, i detenuti, che dalle loro stanze hanno invocato «amnistia e indulto», di quella visita tanto attesa non sapevano nulla. Della presenza di due pezzi grossi del governo, infatti, hanno appreso soltanto dalla televisione, vedendosi negare la possibilità di interloquire direttamente con Draghi e Cartabia e raccontare quanto vissuto in quei giorni. «Avrei preferito che una delegazione di detenuti e familiari potesse confrontarsi con le istituzioni – ha spiegato al Dubbio la garante dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore -, ma ovviamente non è stato possibile». «Mai più violenza», ha scandito Cartabia, pronunciando un lungo e accorato discorso col quale ha preso le distanze dai responsabili delle violenze, difendendo però i tanti uomini in divisa che fanno onestamente il proprio lavoro. Si tratta di atti che «sfregiano la dignità della persona umana che la Costituzione pone come vera pietra angolare della nostra convivenza civile», ha affermato, ricordando che il carcere «è un luogo di dolore di sofferenza», ma non di violenza e di umiliazione. Ciò che accade nelle carceri, ha ricordato la Guardasigilli, riguarda tutti e i problemi delle carceri «sono problemi di tutto il governo, di tutto il Paese». Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere necessita, perciò, di «una presa in carico collettiva dei problemi di tutti i nostri istituti penitenziari, affinché non si ripetano atti di violenza». Condannare non basta: ciò che è necessario è creare le condizioni ambientali affinché «la pena si sa sempre più in linea con la finalità che la Costituzione le assegna». La pandemia, ha evidenziato Cartabia, ha fatto da detonatore a questioni irrisolte «da lungo tempo». Primo fra tutti, come evidenziato da Draghi nel suo discorso, il sovraffollamento, che significa difficoltà di vita, difficoltà di rendere la pena quello che dovrebbe essere: un percorso di reinserimento sociale. Nemmeno Santa Maria Capua Vetere è esente da tale problema: le presenze superano di un centinaio il numero massimo previsto per quell’istituto. E per far fronte a problemi del genere, ha evidenziato la ministra, occorrono interventi strutturali, normativi e finalizzati alla formazione del personale. Con i fondi del Pnrr verranno realizzati otto nuovi padiglioni, uno dei quali proprio a Santa Maria, ma nuovi spazi «non può significare solo posti letto: la costruzione del nuovo padiglione va di pari passo con gli urgenti interventi di manutenzione di questa struttura», ha aggiunto. Le criticità riguardano l’impianto idrico e quello termico, problemi che rendono quel carcere «un ambiente degradato» che «non aiuta l’impegnativo percorso di risocializzazione e rende ancor più gravoso il lavoro di chi ogni mattina supera i cancelli per svolgere il suo servizio». Ma è necessario intervenire anche sul piano normativo ed è per questo che la ministra ha ricordato il pacchetto di emendamenti in materia penale approvato la scorsa settimana, che prevede «un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi», rimarcando la necessità di «correggere una visione del diritto penale incentrata solo sul carcere, per riservare la detenzione, pur necessaria, ai fatti più gravi». E ciò richiamandosi sempre alla Costituzione, che «parla di pene al plurale: la pena non è solo carcere, senza rinunciare alla giusta punizione degli illeciti occorre procedere sulla linea che già sta generando molte positive esperienze anche in termini di prevenzione della recidiva e di risocializzazione, attraverso forme di punizione diverse dal carcere». Ma è necessario anche intervenire sull’ordinamento penitenziario e sulla organizzazione del carcere, con l’assunzione di poliziotti, educatori, dirigenti e personale dell’esecuzione penale esterna. «Servono finanziamenti anche per la videosorveglianza capillare per le attrezzature specifiche degli agenti», ma, soprattutto, «per la formazione permanente», perché «un compito tanto affascinante quanto difficile non può essere lasciato all’improvvisazione o alle doti personali – ha concluso -. Ora spetta noi trasformare la reazione ai gravissimi fatti qui accaduti in una autentica occasione per far voltare pagina al mondo del carcere». Per Antonella Palmieri, direttrice del carcere sammaritano, la presenza di Draghi e Cartabia «ha il senso di una forte speranza per il nostro futuro». Speranza, ha dichiarato in una in una nota il Segretario Generale della Fns Cisl, Massimo Vespia, «che questa visita sia occasione per richiamare tutti alla giusta valutazione della gravissima situazione che vive il sistema penitenziario e delle difficoltà che una condizione così disastrata – regalata da politiche decennali sbagliate – cambi direzione e prospettive generali».

Il rapporto di Antigone, da Torino a Melfi: ecco la triste mappa dei pestaggi in carcere. L’ associazione Antigone è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 agosto 2021. L’ associazione Antigone è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri italiane. Alcuni di essi si riferiscono alle presunte reazioni violente alle rivolte scoppiate in alcune carceri tra il marzo e l’aprile 2020 per la paura generata dalla pandemia e per la chiusura dei colloqui con i parenti. Come ha evidenziato l’avvocata Simona Filippi durante la presentazione del rapporto di Antigone, c’è il caso del carcere di Melfi ( Il Dubbio se ne è occupato) che avrebbe avuto lo stesso modus operandi dei fatti di Santa Maria Capua Vetere. «È ancora più marcata la distanza temporale tra le rivolte dei detenuti, avvenute il 9 marzo – ha spiegato l’avvocata -, e l’intervento degli agenti nella notte tra il 16 e il 17 marzo con il trasferimento dei reclusi ad altri carceri». Proprio quella notte, ricostruisce Filippi, ci sarebbe stata una sorta di rappresaglia, sullo stile del carcere campano, almeno stando ai racconti «dettagliati e analoghi» raccolti dall’associazione che si è opposta all’archiviazione del caso. Antigone è attualmente impegnata in 18 provvedimenti, la maggior parte in corso di verifiche. Il rapporto di metà anno, riporta alcuni di questi procedimenti. Si parte dal carcere di Monza. Il 6 agosto 2019, Antigone riceve una telefonata da parte di una persona che racconta di una violenta aggressione fisica che sarebbe stata subita dal fratello da parte di alcuni poliziotti penitenziari. Il 25 settembre 2019 Antigone deposita un esposto denunciando i fatti. Antigone si costituisce parte civile. Nell’udienza del 2 luglio 2021 il Gup dispone il rinvio a giudizio per 5 poliziotti penitenziari per lesioni aggravate e/ o per altri reati. La prima udienza dibattimentale è fissata al 16 novembre 2021. Il 28 agosto 2019, invece, viene emessa ordinanza di misura cautelare per 15 agenti del carcere di San Gimignano per un brutale pestaggio avvenuto l’ 11 ottobre 2018 ai danni di un signore di 31 anni. Nel dicembre 2019 Antigone presenta un esposto e si costituisce parte civile. Il 26 novembre 2020, 5 agenti che non hanno optato per il rito abbreviato vengono rinviati a giudizio per tortura. La prossima udienza del dibattimento è fissata al 28 settembre 2021. I 10 agenti che hanno scelto il rito abbreviato sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate, con pene che vanno dai 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi. Un medico è stato condannato a 4 mesi di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio. C’è il caso del carcere di Torino. Nel luglio 2021 è stato richiesto il rinvio a giudizio per 25 tra agenti e operatori ( tra cui il direttore del carcere) per violenze avvenute nell’istituto tra il 2017 e il 2018. Tra i reati contestati c’è anche quello di tortura. Nei confronti di 13 persone era stata emessa un’ordinanza di misura cautelare. Il 25 novembre 2019 Antigone aveva presentato un esposto. Ancora in corso l’accertamento dei pestaggi del carcere di Opera. Nel marzo 2020 Antigone viene contattata da molti familiari di persone detenute che denunciano violenze subite il 9 marzo dai propri familiari a rivolta ormai finita. Vi avrebbero preso parte anche rappresentanti della Polizia di Stato e dei Carabinieri. Il 18 marzo Antigone deposita un esposto contro gli agenti di polizia penitenziaria per le ipotesi di abusi, violenze e torture. Non può mancare il caso inquietante del carcere di Modena. A seguito della rivolta scoppiata l’ 8 marzo 2020 e della morte di nove persone detenute, il 18 marzo Antigone deposita un esposto contro gli agenti polizia penitenziaria ed il personale sanitario per omissioni e colpe per la morte dei detenuti. Il 7 gennaio 2021 l’associazione deposita una integrazione al primo esposto a seguito della denuncia presentata da cinque persone detenute per le violenze, in particolare durante il trasferimento presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno. Nell’atto vengono anche denunciate gravi omissioni che sarebbero state commesse e che avrebbero determinato il decesso di Salvatore Piscitelli presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno. Il 26 febbraio 2021 la Procura della Repubblica ha avanzato richiesta di archiviazione, ritenendo escluso qualsiasi profilo di responsabilità in merito al decesso dei detenuti. Il 19 marzo Antigone ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione. Il 16 giugno il giudice ha emesso ordinanza con cui dichiara inammissibile l’opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata da Antigone e dal Garante nazionale. Ovviamente, nel rapporto di metà anno, c’è il caso del carcere di Melfi, questione affrontata sulle pagine de Il Dubbio. Nel marzo del 2020 Antigone viene contattata dai familiari di diverse persone detenute che denunciano gravi violenze subite nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020 come punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo. Secondo la ricostruzione di Antigone i detenuti sarebbero stati denudati, picchiati ( anche con manganelli), insultati, messi in isolamento. Molti di essi sono stati trasferiti in condizioni degradanti. Ai detenuti sarebbero state fatte firmare dichiarazioni in cui avrebbero riferito di essere accidentalmente caduti, a spiegazione delle ferite riportate. Il 7 aprile 2020 Antigone deposita un esposto contro agenti di polizia penitenziaria e medici anche per il reato tortura. Il 3 maggio 2021, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza ha avanzato richiesta di archiviazione. Il 3 giugno Antigone ha presentato opposizione all’archiviazione. Indagini in corso per il caso del carcere di Pavia. A marzo 2020 Antigone viene contattata da alcuni familiari di persone detenute. Questi denunciano violenze e abusi, nonché trasferimenti arbitrari posti in essere nei giorni successivi alla protesta dell’ 8 marzo 2020. La polizia avrebbe usato violenza e umiliato diverse persone detenute, colpendole, insultandole, privandole di indumenti e lasciandole senza cibo. Il 20 aprile 2020 Antigone deposita un esposto contro la polizia penitenziaria per violenze, abusi e tortura. Per concludere, non può mancare la mattanza del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ad aprile del 2020 Antigone viene contattata da familiari di persone detenute che denunciano torture subite il 6 aprile dai loro cari nel reparto Nilo, dove circa 300 agenti di polizia penitenziaria sarebbero entrati in tenuta antisommossa, con i volti coperti dai caschi, cosa che in seguito impedirà il riconoscimento. Le immagini delle videocamere interne, in seguito diffuse dai media, hanno documentato le brutali violenze. I medici non avrebbero refertato le lesioni. Il 20 aprile Antigone deposita un esposto contro la polizia penitenziaria, per ipotesi di tortura e percosse, e contro i medici, per ipotesi di omissione di referto, falso e favoreggiamento. Precedentemente informa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. A fine giugno 2021 il Gip, su richiesta della Procura, ha emesso un’ordinanza con la quale ha disposto misure cautelari nei confronti di 52 persone.

Violenze a Santa Maria Capua Vetere, Cartabia: “Ora indagine in tutte carceri”. Le Iene News il 21 luglio 2021. La ministra della Giustizia Marta Cartabia riferisce, senza fare sconti, alla Camera sugli scontri del 6 aprile 2020 che hanno appena portato a 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti agenti della polizia penitenziaria. "Abbiamo visto tutti le immagini, un detenuto costretto a inginocchiarsi per colpirlo, uno in carrozzella colpito ripetutamente, tutto sono l'occhio della videocamera. Non era una reazione a una delle tante rivolte, era violenza a freddo". Non fa sconti la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferendo alla Camera su quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020 nel pieno del primo esplodere della pandemia, quando si registrarono scontri tra i detenuti e la polizia penitenziaria. Quegli scontri, almeno questo è quello scritto in giugno dal gip di Santa Maria Capua Vetere che ha ordinato 52 misure cautelari nei confronti di membri della polizia penitenziaria, si sono trasformati in una “orribile mattanza” ai danni dei detenuti che si erano rivoltati. I reati contestati, a vario titolo, sarebbero quelli di concorso in torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti (per 41 agenti), maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico (anche per induzione) aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Noi avevamo raccolto al tempo il racconto di detenuti e familiari dei carcerati. Cartabia parla di "una sconfitta per tutti", “uso insensato della forza” e di "una ferita gravissima alla dignità della persona che è la pietra angolare della convivenza civile". Serve ora "un'indagine ampia per capire cos'è successo in tutti gli istituti dove la pandemia ha esasperato la situazione". "Emerge che la perquisizione era fuori dai casi previsti dalla legge, senza il via libera del direttore del carcere, ci fu solo un provvedimento dispositivo orale, un ordine al telefono, ci fu un'azione a scopo dimostrativo per recuperare il controllo del carcere e per le aspettative del personale… Sarebbe comodo dire che c'è sempre qualcuno che si comporta male ma negli anni le condizioni delle carceri sono così peggiorate che il lavoro e le condizioni di vita dei detenuti sono insopportabili… quel carcere è senza acqua corrente, solo adesso sono in corso dei lavori, mentre l'acqua finora viene presa dai pozzi e distribuita con le taniche… Vivere e lavorare in un ambiente degradato porta disagi per tutti, agenti e detenuti".

Mattanza a Santa Maria Capua Vetere, Cartabia: “Violenza a freddo, uso insensato e smisurato della forza”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 21 Luglio 2021. “Stando alle indagini risulta che non fosse una reazione necessitata da una situazione di rivolta ma una violenza a freddo”. Lo ha detto chiaramente la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferendo nella sua informativa urgente alla Camera, sui fatti avvenuti i 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Questa informativa offre la possibilità di condividere non solo una ricostruzione dei fatti, ma una serie di linee di intervento per agire sulla cause profonde che non hanno impedito fatti così gravi” che hanno visto “un uso smisurato e insensato della forza”. E ha rimarcato che i terribili fatti accaduti in quel carcere sono “la spia di qualcosa che non va”. Ancora una volta la ministra cita la Costituzione definendo quegli episodi accaduti a Santa Maria Capua Vetere “una ferita gravissima alla dignità della persona, pietra angolare della nostra costituzione, nata dalla storia di un popolo che ha conosciuto il disprezzo del valore della persona e si pone a scudo e difesa di tutti, specie di chi si trova in posizione di maggiore vulnerabilità. Anche l’uso della forza, l’uso della forza da parte di chi legittimamente lo detiene, sia sempre strumento di difesa, di difesa dei più deboli. Mai aggressione, mai violenza, mai sopruso. E mai sproporzionato”, spiega Cartabia”. “Quanto siamo arrivati a Santa Maria Capua Vetere, il presidente Draghi ha detto "questa è una sconfitta per tutti": è così, al di là delle singole responsabilità penali, è qualcosa che ci interessa tutti”. Cartabia ha voluto visitare personalmente il Carcere di Santa Maria Capua Vetere insieme a Draghi lo scorso 14 luglio. In quella occasione hanno potuto parlare con i detenuti che hanno applaudito alla loro presenza nel carcere come segno di vera speranza per il cambiamento si una situazione che peggiora sempre più. Ed è proprio da lì che Cartabia ha lanciato la sua iniziativa di riforma che partirà da un’indagine molto ampia. “Occorre un’indagine ampia perchè si conosca quello che è successo in tutte le carceri nell’ultimo anno dove la pandemia ha esasperato tutti”. Una Commissione ispettiva del Dap visiterà tutti gli istituti pentienziari dove si sono verificati “i gravi eventi del marzo 2020”, per valutare la correttezza degli interventi legati alle rivolte nelle carceri. “I mali del carcere, perchè non si ripetano episodi di violenza, richiedono strutture materiali, personale e formazione. Dobbiamo rimediare al fatto che le condizioni sono così peggiorate che il lavoro e le condizione di vita dei detenuti diventano insopportabili”, continua Cartabia ricordando quella sua visita con Draghi a santa Maria: “Nel carcere campano –  osserva – quel giorno la temperatura era insopportabile e non c’è acqua corrente: ci sono pozzi e l’acqua viene distribuita con le taniche”. “Il carcere è specchio della nostra società ed è un pezzo di Repubblica che non possiamo rimuovere dal nostro sguardo e dalle nostre coscienze”. “La pandemia ha esasperato tutti” e “le carceri italiane già vivono in condizioni difficili, occorre guardare in faccia ai problemi cronici dei nostri istituti penitenziari”, aggiunge.

Il dramma del sovraffollamento nelle carceri. Ha parlato anche del dramma del sovraffollamento che “sta peggiorando”. È prevista la costruzione di 8 nuovi padiglioni, uno proprio a Capua Vetere. Il ministro ha spiegato che si tratta di realizzare “non solo nuovi posti letto. Nuovi carceri servono, nuovi spazi servono e ci saranno – ha spiegato -. Non solo posti letto ma anche nuovi spazi per il trattamento dei detenuti”. “Nel solo carcere di Santa Maria Capua Vetere, con una capienza regolamentare di 800 persone, vede ospiti 900 detenuti”.

Le indagini a Santa Maria Capua Vetere. Intanto procedono le indagini su quanto accaduto in quelle ore di mattanza in carcere a Santa Maria Capua Vetere. Il totale complessivo delle unità di personale dell’amministrazione sospesa a vario titolo è di 75. “Rimangono altri indagati, per i quali il Gip non ha specificato che ci fosse certezza della loro presenza, e per questo ha respinto la richiesta di misura cautelare Si attendono gli sviluppi dell’indagine, che è ancora in corso. Per questo è prematuro trarre le conclusioni sui singoli coinvolti”. “Secondo quanto emerge dagli atti giudiziari, la perquisizione straordinaria del 6 aprile sarebbe stata disposta al di fuori dei casi consentiti dalla legge, eseguita senza alcun provvedimento del Direttore del Carcere di Santa Maria Capua Vetere – unico titolare del relativo potere – e senza rispettare le forme e la motivazione imposte dalla legge”, ha spiegato la guardasigilli. “Secondo il giudice, dunque, alla base della perquisizione straordinaria vi sarebbe stato un provvedimento dispositivo orale – cito dall’ordinanza – emanato a scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare presunte aspettative del personale di Polizia Penitenziaria”, ha aggiunto. “Il giorno prima c’era stata una rivolta in carcere. Nella sua ordinanza, il gip riporta alcune intercettazioni (“Era il minimo segnale per riprendersi l’istituto”) e ritiene che di fatto quella perquisizione non avesse “alcuna intenzione di ricercare strumenti atti all’offesa ovvero altri oggetti non detenibili, ma, per la quasi totalità dei casi – leggo testualmente dal provvedimento – mera copertura fittizia per la consumazione di condotte violente, contrarie alla dignità ed al pudore delle persone recluse”. Contestazioni di una gravità inaudita, a cui si sommano ipotesi di falso. Sono indagati a vario titolo dalla procura di Santa Maria Capua Vetere appartenenti al corpo di polizia penitenziaria e all’amministrazione penitenziaria. Le accuse sono delitti di concorso in torture pluriaggravate, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento, frode processuale e depistaggio. “Tutti i delitti – ha spiegato Cartabia – risultavano aggravati dalla minorata difesa, dall’aver agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, con abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti alla funzione pubblica, con l’uso di armi, e dall’aver concorso nei delitti un numero di persone superiore alle cinque unità. Notizie di stampa già dall’autunno dell’anno scorso riferivano di violenze e di indagini in atto all’interno di quell’istituto”. E su questa vicenda, “c’era già stata all’epoca un’interrogazione parlamentare. Su mia domanda, dall’amministrazione penitenziaria mi hanno spiegato che più volte era stata chiesto all’autorità giudiziaria un riscontro a queste notizie, per poter effettuare anche proprie valutazioni, anche a fini disciplinari. Ma come ha spiegato nelle ultime settimane la stessa autorità giudiziaria procedente, le sollecitazioni del Dap non hanno mai ricevuto risposta per motivi di segreto investigativo”. “È per questo che – come spiegherò più avanti – tutte le iniziative prese dal ministero sono successive al momento in cui l’autorità giudiziaria ha ritenuto di trasmetterci tutti gli atti ostensibili”. “Un riferimento particolare merita il caso di Lamine Hakimi, affetto da schizofrenia, morto il 4 maggio nella sezione Danubio del carcere. Il gip scrive che ‘le consulenze mediche non consentono di affermare che il decesso sia da ascrivere alle ferite riportate il 6 aprile, ma siano da ricondurre all’assunzione di medicinali che, combinandosi con i farmaci assunti dal detenuto in ragione della terapia a lui prescritta ha comportato un arresto cardiaco'”. “È nostro dovere riflettere sulla contingenza – e sulle cause profonde – che hanno portato un anno fa ad un uso così smisurato e insensato della forza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.Fatti di questa portata richiedono una risposta immediata da parte dell’autorità giudiziaria” e “sono spie di qualcosa che non va: dobbiamo indagare e intervenire con azioni di lungo periodo, perchè non accada mai più”. E annuncia una strategia “su più livelli” e che in particolare agisca sulle strutture materiali, sul personale e sulla sua formazione. E conclude con un invito a tutti i parlamentari: “Voi onorevoli potete entrare in carcere, fatelo, perché un conto è vedere un reparto di alta sicurezza, un conto è vedere un’articolazione di salute mentale, un conto è vedere il reparto delle donne spesso operose, un conto è vedere le situazioni di marginalità che portano tante persone in carcere pur avendo commesso delitti e reati di portata molto diversi. È un mondo vario che non può essere affrontato allo stesso modo. È una galassia, non solo un ‘pianeta-carcere’, quindi non bastano l’improvvisazione e le doti personali”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

LA GUARDASIGILLI: “NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE USO INSENSATO DELLA FORZA”. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2021. La ministra della Giustizia riferisce alla Camera sulle violenze subite dai detenuti. “Un uso e insensato della forza”. Poi: “Il sovraffollamento sta peggiorando”. La guardasigilli ha anche annunciato «un’indagine ampia», per analizzare quanto accaduto nelle carceri italiane, durante le proteste del primo lockdown. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenendo in aula alla Camera, nel corso dell’informativa su quanto accaduto nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere ha affermato che “sono stati fatti gravi” con un “uso insensato e smisurato della forza”. Fatti che “reclamano un’indagine ampia, perché si conosca cosa è successo negli istituti nell’ultimo anno, quando la pandemia ha esasperato tutto”, ha aggiunto annunciando che “abbiamo costituito al Dap una commissione ispettiva che visiterà tutte le carceri interessate interessati dalle proteste”. Le violenze ci sono state, e la Cartabia non le discute o vuole nascondere. Ma cita le parole di un agente che le ha detto: “Ho ascoltato i racconti del personale, quei fatti sono stati una ferita e un’umiliazione. Io non sono un picchiatore, sono lo stesso padre amorevole che ogni sera torna in famiglia, ma ormai faccio fatica a farmi credere”. Questa è l’altra faccia delle violenze di Santa Maria, che la ministra definisce “i gravi fatti di intimidazione verso la polizia che non devono succedere”. ed aggiunge: “Perché gli agenti devono essere fieri della divisa che portano, e devono farlo con dignità e onore”. Oggi la Cartabia alla Camera, invitando tutti i parlamentari “a visitare le carceri” esortandoli “a guardare i reparti delle donne, le situazioni di marginalità, quel mondo vario che non può essere affrontato nello stesso modo”. La ministra della Giustizia ha detto che “il carcere è una galassia, non è solo un pianeta, non basta l’improvvisazione, né sono sufficienti interventi personali” perché “il carcere è un pezzo della nostra Repubblica che non possiamo rimuovere dalle nostre coscienze”. “Dagli atti di indagine emerge che a Santa Maria Capua Vetere non si è trattato di una reazione a rivolte, ma di violenza a freddo”, ha dichiarato la ministra aggiungendo “Allo stato, il totale complessivo delle unità di personale dell’Amministrazione sospese a vario titolo è pari a 75. Rimangono altri indagati, per i quali il Gip ha specificato che non v’è certezza della loro presenza. Per questo ha respinto la richiesta di misura cautelare. Su questi ultimi, attendiamo gli sviluppi dell’indagine, prima di altre valutazioni”. La Cartabia non minimizza alla Camera queste responsabilità riepilogandole: “Emerge che la perquisizione era fuori dai casi previsti dalla legge, senza il via libera del direttore del carcere, ci fu solo un provvedimento dispositivo orale, un ordine al telefono, ci fu un’azione a scopo dimostrativo per recuperare il controllo del carcere e per le aspettative del personale” e cita un’intercettazione: “Era l’unico modo per riprendersi il carcere”. La Commissione ispettiva, ha spiegato la Ministra di Giustizia, “visiterà tutti gli istituti penitenziari interessati dalle manifestazioni di protesta o da denunce o segnalazioni inerenti ai gravi eventi occorsi nel marzo del 2020. Il suo mandato consiste nell’approfondire la dinamica dei fatti, al fine di accertare la legittimità e la correttezza di ogni iniziativa adottata. L’amministrazione penitenziaria – ha ammonito la Cartabia – deve essere capace di indagare al suo interno. Deve capire ed essere essa stessa in grado di portare alla luce eventuali violazioni. I fatti di Santa Maria Capua Vetere, emersi solo a seguito degli atti dell’autorità giudiziaria denotano che questa capacità di indagine interna è mancata almeno in questa occasione”. “Se vogliamo allora farci carico fino in fondo dei mali del carcere, perché non si ripetano mai più episodi di violenza, occorre preparare una strategia che operi su più livelli ed in particolare agendo sulle strutture materiali, sul personale e sulla sua formazione”, ha evidenziato. la Guardasigilli “Sarebbe molto più semplice per tutti parlare genericamente di ‘mele marce’ e andare avanti. Se le responsabilità penali, torno a ripetere, sono sempre e solo individuali e non possono ricadere su nessun altro, men che meno sull’intero corpo dell’amministrazione penitenziaria, le responsabilità ‘politiche’ dell’accaduto risiedono anche nella disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trova in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavora”. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere, tutto questo, adesso, è possibile? “Sarebbe comodo dire che c’è sempre qualcuno che si comporta male – dice la Cartabia – ma negli anni le condizioni delle carceri sono così peggiorate che il lavoro e le condizioni di vita dei detenuti sono insopportabili”. Racconta che “quel carcere è senza acqua corrente, solo adesso sono in corso dei lavori, mentre l’acqua finora viene presa dai pozzi e distribuita con le taniche”. E chiosa: “Vivere e lavorare in un ambiente degradato porta disagi per tutti, agenti e detenuti”. La Guardasigilli la lanciato al Parlamento l’allarme per il numero dei detenuti che cresce: “C’è stato il picco quando è arrivata la condanna della Cedu, poi la situazione era migliorata, ma adesso sta di nuovo peggiorando, rispetto alla capienza di 800 persone a Santa Maria ci sono 900 detenuti”. E in tutte le carceri italiane ce ne sono, al 20 luglio, 52.193, rispetto alla capienza effettiva di 47.413 posti. La ministra Cartabia cita le parole di un agente che le ha detto: “Ministra, ma voi chiedereste mai a un chirurgo di svolgere due operazioni?”. La carenza dei dirigenti, degli educatori, del personale dell’esecuzione penale interna, i concorsi bloccati dalla pandemia e sbloccati soltanto adesso sono la vera faccia del carcere. Sul quale, secondo Cartabia, “bisogna investire di più per il benessere di tutti, per chi ci lavora in condizioni così difficili”. E ai parlamentari che la ascoltano in aula Cartabia rivolge il suo invito: “Andate a visitare le carceri”. E chiude con le parole di Draghi a Santa Maria: “Il Governo ha visto, sa, e non si dimenticherà”.  

Mattanza a Santa Maria, Grasso: «Un sistema collaudato di violenza». L'ex presidente del Senato replica all'informativa di Cartabia: «Come è possibile che a seguito di tutto ciò il Dap e il ministero non siano intervenuti per più di un anno?» Il Dubbio il 21 luglio 2021. «Le immagini e lo scambio di messaggi tra gli indagati denunciano non un momento di follia, ma un sistema collaudato di violenza con un suo nome in codice, la complicità e la connivenza di funzionari di ogni ordine e grado, la consapevolezza della gravità dei fatti, il tentativo di cancellare le tracce, la determinazione nel depistare le indagini, la rabbia nel non esserci riusciti. Come è possibile che a seguito di tutto ciò il Dap e il Ministero non siano intervenuti per più di un anno? Come è possibile che i principali responsabili siano rimasti al loro posto per tutto questo tempo? Gli avvisi di garanzia dell’11 giugno 2020 avrebbero dovuto consigliare, in via cautelativa, almeno il trasferimento degli indagati, che così hanno avuto la possibilità di fare pressione sui detenuti e indirettamente sui loro familiari per ritirare le denunce. Come si può far stare vittime e carnefici a convivere nella stessa comunità?», così il senatore Pietro Grasso (Leu) in risposta all’informativa della Ministra per la Giustizia, Marta Cartabia. Conclude Grasso: «Dispiace, al di là del cambio di Governo e di ministro, che nulla sia accaduto prima dell’intervento della magistratura: avremmo tutti preferito che fossero l’Amministrazione Penitenziaria e il ministero a muoversi in anticipo e in autonomia, non con una gestione burocratica di relazioni evidentemente non corrispondenti alla realtà, che hanno portato il suo predecessore a parlare di “una doverosa azione di ripristino della legalità”. Per il rispetto che abbiamo della Legge, per l’amore che nutriamo verso i principi costituzionali, non possiamo derubricare tutto questo a un episodio, non possiamo cavarcela con la retorica delle mele marce. Siamo ancora in tempo però per intervenire, con forza. Le chiediamo di prendere i provvedimenti annunciati, giusti e severi, come previsto dalle norme e, nel contempo, di accelerare i concorsi, aumentare il numero degli agenti di Polizia penitenziaria e degli altri operatori e di migliorarne la formazione».

La guardasigilli sul caso di Smcv. L’accusa della Cartabia: “Il Dap non ha saputo indagare al suo interno”. Angela Stella su Il Riformista il 22 Luglio 2021. «L’amministrazione penitenziaria deve essere capace di indagare al suo interno. Deve capire ed essere essa stessa in grado di portare alla luce eventuali violazioni. I fatti di Santa Maria Capua Vetere, emersi solo a seguito degli atti dell’autorità giudiziaria denotano che questa capacità di indagine interna è mancata almeno in questa occasione»: è questo uno dei passaggi più importanti del discorso della Ministra della Giustizia Marta Cartabia tenuto ieri prima alla Camera e poi in Senato per riferire su quanto accaduto nel carcere sammaritano il 6 aprile 2020. Si tratta di un punto cruciale su cui abbiamo puntato l’attenzione in questi ultimi mesi, quando ci siamo chiesti come sia stato possibile che l’Amministrazione Penitenziaria targata Bonafede non abbia messo in campo alcuna azione per capire cosa fosse successo, a prescindere dal lavoro dell’autorità giudiziaria. Indagare al proprio interno per la Guardasigilli significa «individuare le cause profonde di quello che evidentemente non ha funzionato. Perché se sono successi fatti come quelli di cui oggi (ieri, ndr) parliamo in quest’aula è perché tante, troppe cose non hanno funzionato. E questa è una sconfitta di tutti noi, per riprendere le parole del presidente Draghi. Al di là delle specifiche responsabilità penali, che sono sempre personali e che non possono e non devono mai ricadere su altri». Per questo ha annunciato che «è stata costituita una commissione ispettiva interna. Chi è in un carcere è nelle mani dello Stato. E dai rappresentanti di quello Stato deve sapere di poter essere trattato nel rispetto di tutte le garanzie. La Commissione ispettiva visiterà tutti gli istituti penitenziari interessati dalle manifestazioni di protesta o da denunce o segnalazioni inerenti ai gravi eventi occorsi nel marzo del 2020. Il suo mandato consiste nell’approfondire la dinamica dei fatti, al fine di accertare la legittimità e la correttezza di ogni iniziativa adottata». Dunque una accelerazione nel percorso di verità, di fuoriuscita dal cono d’ombra e di colpevole indifferenza in cui era finite le carceri italiane, allo scopo di «intervenire con azioni di lungo periodo, perché non accada mai più» quanto successo a Santa Maria Capua Vetere dove, ci ha tenuto a sottolineare la Ministra, «non c’è acqua corrente, ma dei pozzi da cui viene prelevata e distribuita con delle taniche». Ma la Cartabia si è spinta oltre: «le responsabilità “politiche” dell’accaduto risiedono anche nella disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trova in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavora». La Ministra ha anche gettato le basi per la riforma del carcere, quando riuscirà a liberarsi del problema prescrizione: non ha parlato di misure alternative come ha fatto nella visita a Santa Maria Capua Vetere ma ha delineato «una strategia che operi su più livelli ed in particolare agendo sulle strutture materiali, sul personale e sulla sua formazione», partendo dal presupposto che «il Governo ha visto i problemi del carcere e non vuole dimenticare».

Diverse le repliche all’informativa, tra cui quella dell’onorevole di +Europa Riccardo Magi, che circa un anno fa presentò la famosa interrogazione su quei fatti e a cui l’allora sottosegretario alla Giustizia Ferraresi rispose dicendo che si trattava di un ‘ripristino della legalità’: «mi chiedo – ha detto Magi – : esistevano nel governo e nell’amministrazione la capacità e la volontà di fare chiarezza? Oggi è chiaro di no. Non serviva un giudice per chiarire da chi, perché e con quale modalità fosse stata disposta quella ‘perquisizione straordinaria’. Dalla ministra Cartabia abbiamo ascoltato parole chiare e inequivocabili». Per il leader di Italia Viva Matteo Renzi se «i responsabili penali sono quelli che fisicamente hanno usato violenza nei confronti dei detenuti», «i responsabili politici della mattanza sono tre persone: il capo del Dap, giudice Basentini, evidentemente inadatto al ruolo; il ministro Bonafede, che ha nominato Basentini; il presidente Conte, che in Aula, rispondendo a me, disse di assumersi la responsabilità politica di ciò che stava facendo Bonafede». L’onorevole grillino Vittorio Ferraresi ha invece difeso l’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede: «Respingiamo al mittente le falsità uscite solo per motivi politici», in quanto «il ministro Bonafede si mosse subito dopo le violenze», fermandosi dinanzi al segreto istruttorio. Plauso alla Cartabia dal Pd e da Forza Italia. Intanto l’associazione Antigone ha fatto sapere che «anche per gli episodi avvenuti nel carcere di Torino, a conclusione delle indagini, è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per 25 tra agenti e operatori. Tra i vari reati contestati c’è anche quello di tortura». Angela Stella

Era contrario alla maxi deportazione nelle carceri di Pianosa e Asinara. Perché Nicolò Amato fu silurato come capo del Dap: disse di no al 41-bis. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Luglio 2021. Un riformatore, un garantista. La pensino come vogliono gli autori e i comprimari della farsa processuale e sub-culturale che va sotto il nome di “Trattativa contro i corpi dello Stato”, per gli intimi del mondo dei tagliagole semplicemente Trattativa. La pensino come vogliono, ma per tanti di noi Nicolò Amato, che ci ha lasciato due giorni fa, è il riformatore che ha lavorato alla Legge Gozzini, cioè quella che ha messo al centro della politica carceraria non la pura repressione ma il percorso di riabilitazione e il trattamento. È quello che ha diretto per dieci anni, dal 1983 al 1993, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con una visione dell’esecuzione della pena che era semplicemente l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. Anche lui fu travolto, come tutti, dai fatti tragici del 1992. Prima, subito dopo la sentenza definitiva del Maxiprocesso che condannava tutti i capimafia di Cosa Nostra, c’era stato l’assassinio di Salvo Lima e poi, in sequenza, quello di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Totò Riina, che resterà latitante fino al gennaio 1993, aveva perso la testa per quella sentenza voluta da Falcone. Ma anche lo Stato, dopo le stragi, non aveva saputo tenere i nervi saldi, intervenendo prima sul piano legislativo con la famosa legge Scotti-Martelli, che introduceva l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e l’ergastolo ostativo. E poi la tragica deportazione nella notte verso i lager di Pianosa e Asinara di 532 detenuti, la gran parte non mafiosi ma semplicemente cittadini del sud d’Italia in attesa di giudizio, tra cui sicuramente non c’era nessun boss, essendo i capi di Cosa Nostra tutti latitanti. Di fronte a questa prova muscolare del governo, in realtà debolissimo, Nicolò Amato mostrò tutto il proprio dissenso. Cercando anche di tergiversare, rispetto al trasferimento dei detenuti, dicendo che le carceri di Pianosa e Asinara, chiuse da decenni, non erano pronte per ricevere gli “ospiti”. Non ci furono ragioni, e sappiamo come furono “ospitati” i 532 detenuti, a suon di manganellate e sputi. Ai promotori e simpatizzanti della Trattativa vorrei ricordare la contrarietà di Nicolò Amato, fin da subito al regime dell’articolo 41-bis, e soprattutto alla tendenza (ancora in corso) a rendere definitiva una misura emergenziale che al massimo avrebbe dovuto essere riservata a un particolare momento e a particolari detenuti. Ho già raccontato la mia esperienza difficoltosa di parlamentare nelle visite a Pianosa e Asinara, la costante attività “dissuasiva” degli operatori del carcere. Se ci fu uno che mi ha costantemente incoraggiato, difeso e aiutato a rompere l’isolamento di quei poveretti ogni giorno torturati, quello fu Nicolò Amato. Certo, lui fu poi risucchiato, e non fu il solo, nella farsa Trattativa, persino a rappresentare se stesso come non fu mai, quello cacciato perché troppo “duro” con la mafia e non disponibile ad accordarsi con i boss. La storia non è andata così, e ci sono decine di testimonianze, anche in atti parlamentari, che lo dimostrano. Ricordo perfettamente quel suo documento del 6 marzo 1993, che gli sarà fatale. Non dimentichiamo che stiamo parlando di un momento storico, mentre agonizzava la prima repubblica, in cui i governi e i ministri si susseguivano l’un l’altro e non era così strano che saltasse anche la testa del capo del Dap, e, soprattutto, alla presidenza della Repubblica c’era un signore che si chiamava Oscar Maria Scalfaro, che di Nicolò Amato non era certo amico. Il quel documento del 6 marzo 1993 il capo delle carceri italiane diceva al ministro di giustizia Conso quel che mesi prima aveva già espresso al suo predecessore Martelli, e cioè la sua contrarietà al 41-bis, precisando addirittura che, durante la riunione del Comitato Nazionale per la sicurezza pubblica del 12 febbraio di quell’anno anche il capo della polizia e i funzionari del ministero dell’interno avevano espresso riserve sulla durezza di quel regime e sulla sua modalità di applicazione. Tre mesi dopo Nicolò Amato era messo alla porta. Non perché fosse più duro del successore Capriotti, o meno propenso alla famigerata Trattativa, ma per la ragione contraria. Per lasciar spazio al vero nuovo dirigente del Dap, quel Francesco Di Maggio che, sotto le vesti di vice, fu l’inventore dei colloqui investigativi e la costruzione del pentitificio, già iniziato con le torture nelle carceri speciali delle isole da cui nacque il finto pentimento di Scarantino. Nicolò Amato soffrì molto nel dover rinunciare al Dap, e pur avendo avuto un contentino come rappresentante italiano nel Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, lasciò ben presto quel ruolo e scelse di fare l’avvocato, diventando anche il difensore di Craxi nei processi di Tangentopoli. Ma ho avuto anche l’onore di averlo come presidente di un Comitato per la difesa dei cittadini (Codici) che avevamo fondato con Alfredo Biondi, Marco Boato e Marco Taradash. Era il ruolo adatto a lui.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

 Cosa insegna il pestaggio a Santa Maria Capua Vetere. Ispiriamoci a Mandela: basta vendetta, cerchiamo il perdono. Mons. Vincenzo Paglia su Il Riformista il 14 Luglio 2021. Le violenze in carcere, nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, sono state un “uragano” – scrive l’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia – che ha travolto tre comunità: «La comunità dei detenuti, traumatizzati e feriti dalla violenza ma anche danneggiati nel loro percorso educativo alla cui base non può che esservi la costruzione di un’autentica fiducia nei riguardi dello Stato e di coloro che lo rappresentano, fiducia gravemente minata da quanto accaduto; la comunità della polizia penitenziaria, composta per la grande maggioranza da uomini e donne onesti, che adempiono lealmente il proprio dovere, spesso in condizioni di lavoro difficili e poco curate dal punto di vista psicologico; la comunità delle famiglie degli agenti coinvolti, anch’essa travolta dalle pagine di cronaca e provata psicologicamente dal timore di ritorsioni e vendetta». E i vescovi della Campania in questi giorni hanno aggiunto parole sagge scrivendo alla ministra Cartabia: «La risposta alla delinquenza non può essere solo il carcere. Si dovrebbe lavorare affinché le dinamiche di vendetta siano elaborate e sanate attraverso la creazione di percorsi e di strutture educative, dove la persona è aiutata a cambiare. Crediamo, insieme a lei signora ministra, in una giustizia dal volto umano, come lei ha più volte affermato». «Il carcere è una questione sociale, è lo specchio in cui sono riflesse in maniera drammatica le contraddizioni della società – prosegue la lettera inviata da monsignor Antonio Di Donna, vescovo di Acerra e presidente della Conferenza episcopale della Campania. Ci troviamo di fronte a un’emergenza educativa spaventosa, profonda e insostenibile». Vorrei partire dalle parole dell’arcivescovo di Napoli e dei vescovi della Campania, una regione importante non solo per il Sud d’Italia. Quel che è accaduto nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere fa emergere con durezza il tema cruciale delle violenze nelle carceri. La vittoria del calcio agli Europei ci ha mostrato una volta di più un’Italia capace di unire “cuore” e “testa” nei momenti sportivi che “contano”. Adesso è tempo di mostrare la stessa capacità sui temi sociali più “caldi” del nostro Paese. E questo delle carceri, lo è. L’art. 27 della nostra Costituzione afferma due princìpi fondamentali. Primo: “la responsabilità penale è personale” ed esprime l’impossibilità di perseguire qualcuno che non sia il reo, come avviene invece con la rappresaglia; secondo: “la pena deve tendere alla rieducazione del condannato” e sottintende l’inutilità di una funzione meramente punitiva. E allora con le violenze in carcere cosa accade? Accade che la società si “addormenta”, non vediamo più il problema, ci facciamo trovare in balìa di un pericoloso senso di pigrizia anche sociale. In fondo il carcere, le carceri, non sono un problema nostro. Sono lì, edifici chiusi, separati dal resto della società, non hanno a che fare con la mia vita, con la nostra vita. Problema risolto? No, il problema carcere, il pianeta-carcere è tutt’altro che risolto. La stessa presenza degli edifici, delle celle, dei detenuti uomini e donne, stranieri, minori, e perfino bambini, deve inquietarci e spingerci fuori dal torpore della pigrizia. Questa pigrizia (che ci sembra innocua, ma non lo è affatto) spinge la giustizia a essere “spietata”, in un atteggiamento senza più la “pietas”: non solo non aiuta a cambiare, ma rende meno umani e lascia aperta una ferita nella società. È necessario scendere nelle profondità dell’animo sia del colpevole sia dell’offeso. In modi ovviamente diversi, ambedue sono chiamati ad atteggiamenti nuovi che evitino sia la vendetta sia l’indurimento. E in questo è chiamata in causa anche la società di cui ambedue fanno parte, per ritessere un tessuto lacerato. Lo diceva con grande chiarezza Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2002: «Quanti dolori soffre l’umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono». E ci sono momenti internazionali in cui pace, giustizia e perdono si sono riunificati in una proposta sociale di grande importanza. Un esempio per tutti è il Sudafrica del dopo-apartheid. E non solo. Per noi, in Italia, si tratta di uscire dalla pigrizia che ci fa prendere la via più corta, sbrigativa, apparentemente semplice: il carcere, la pena detentiva. La strada più lunga, però più produttiva, è illuminata dall’idea della giustizia riparativa, di una funzione educativa e rieducativa della pena, affinché sia possibile il “mai più”. È una strada che si può percorrere se abbiamo in mente un progetto di società futura. E nel nostro progetto dobbiamo dare corpo a un’utopia: vogliamo che i nostri figli e i nostri nipoti, o pronipoti, possano vivere in una società dove le carceri, se ci sono, debbono essere molto diverse. Anzi, quasi a scomparire. Perché l’obiettivo è migliorare tutta la società, generazione dopo generazione, e la giustizia diventa giusta se è riparativa e se è davvero ispirata alla rieducazione. Non una società senza pena, ma deve essere redentiva, fonte di cambiamento. Per arrivare alla méta, o solo per cominciare a tracciare una strada che in Italia c’è già con la legge Gozzini, dobbiamo essere in grado di fornire risposte di testa e non di pancia. Il Vangelo – che è utopia, non astrazione ingenua – ce lo dice: la vendetta per i cristiani è esautorata, grazie alla proclamazione di una giustizia maggiore. In una parola, con Gesù si recupera quello che il Creatore volle fin dall’inizio e che la malizia degli uomini aveva rovinato. Nella predicazione di Gesù si manifesta in pienezza la giustizia intesa come riconciliazione e comunione nuova tra le persone. La frase “ama il tuo prossimo come te stesso”, che Gesù estrae del libro del Levitico (19,18), si trasforma nel secondo comandamento della nuova Legge e suppone un “no” deciso alla vendetta. Già nella prima parte del versetto del Levitico si diceva: non ti vendicherai né serberai rancore ai figli del tuo paese. La vendetta è sempre l’antitesi dell’amore al prossimo. È significativa la risposta di Gesù a Pietro, che gli chiede se deve perdonare sette volte. Gesù capovolgendo l’affermazione orgogliosa e violenta di Lamech (Genesi 4,24) risponde: non solo sette volte ma settanta volte sette. La pena deve rispettare la persona, la sua integrità, la sua personalità. Ed invece abbiamo visto calpestata la dignità personale dei detenuti da parte di persone che rappresentano lo Stato. Non deve accadere più, siamo d’accordo. Però allo stesso tempo dobbiamo impegnarci a fondo affinché il “mai più” non sia lo slogan di turno ma diventi un vero e proprio programma politico e sociale; di più: entri a far parte di un progetto nuovo di convivenza civile, di costruzione di alternative, di dignità per tutti. La vera giustizia si realizza quando salva e rimette l’uomo in piedi, lo reintegra, lo include, fornisce una nuova opportunità, una seconda, terza… opzione. La Chiesa ci dice che di fronte a problemi complessi occorre guardare a tutta la persona umana, considerarla nelle sue dinamiche e aprire sempre la porta alla misericordia e alla speranza.

Ora è necessaria, anzi indispensabile, una politica all’altezza dell’ideale riparativo, con misure concrete, prima di tutto lasciando uscire quei minori che vivono in carcere con le loro madri, quindi adoperarsi per l’umanità dei trattamenti e per la messa in atto di misure capaci di restituire dignità, capacità, lavoro, per tutti i cittadini e tra loro per i detenuti. Usciamo dalla pigrizia del nostro individualismo, dei facili slogan “non mi tocca”, “non mi compete”. La pandemia ci ha dimostrato che tutti siamo toccati, a tutti compete fare qualcosa, tutti siamo collegati. Noi siamo un “Noi”. Anche con i carcerati. Mons. Vincenzo Paglia

Carcere: conversazione tra Paola Ziccone e Mons. Zuppi. Quegli odiatori che vogliono ancora distruggere Ninive. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Innamorarsi è un rischio. Lasciarsi imprigionare dalle manette del cuore, ché l’amore è il più insidioso e spietato fra i manigoldi: mollare il controllo delle funi che ci tengono attaccati alla panchina di un porto, al riparo dai marosi che inevitabilmente arriveranno. Ogni scatto di civiltà consiste nell’abbandonare una posizione che si ritiene più sicura, ogni passo avanti verso l’uscita dall’antro, ha un po’ di rimpianto verso il riparo della caverna. Non dire secondino, anche se si usa, perché il termine nasce dal disprezzo verso un ruolo; pure guardia è un termine pesante per chi indossa una divisa convinto di abbracciare valori. Scopino, pure se si usa, confina il detenuto che rompe i propri schemi fra una paletta e una scopa, lo infila nello strofinaccio che lucida pavimenti e bagni. Quello carcerario, come ogni mondo, è un universo composito, misterioso, le cifre, i dati, non ci riescono a spiegarlo: soprattutto se cifre e dati vengono utilizzati in chiave punitiva. Lo scatto di civiltà verso i detenuti è soprattutto un atto d’amore. Il carcere può cambiare solo attraverso l’amore, spartendo il reo dal delitto. Ed è una lunga, placida e amorosa conversazione sul carcere quella che Paola Ziccone e l’arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, riversano nelle pagine di Verso Ninive (conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativa) pubblicato da qualche giorno, Rubbettino editore. Parte da Giona, dal racconto biblico: «Il profeta si rifiuta di ascoltare Dio e di andare a predicare la distruzione di Ninive, gravemente peccatrice». Il suo è un Dio di Misericordia, il perdono domina la vendetta. Giona teme il perdono. Infatti, la città, all’annuncio della distruzione, si converte. Cambia la città, cambiano i suoi abitanti. Giona no, vuole vendetta, si arrabbia contro Dio. Ninive è il peccato, il nemico. Il carcerato, nel sentimento popolare, quello più visibile o udibile, è il nemico, un tutt’uno col reato. Non ci può essere una seconda possibilità, non bisogna consentire il ravvedimento, la riparazione al disastro. Il sistema normativo si adegua, disattendendo la Costituzione, al sentimento che non è conseguenza di conoscenza, di coscienza, ma frutto di una pancia gonfiata di propaganda, di odio, di disinformazione. E gli scatti, che oramai si trovano fra gruppi libertari ristretti, in pochi ambiti ideologici, in mezzo a utopiche e individuali battaglie, si rianimano spesso nelle parole dei credenti, di alcuni, «persino all’interno del mondo dei cattolici o cristiani, non si riesce a distinguere sempre una chiara presa di posizione contraria al carcere come mera punizione e misura retributiva oltre che alla pena di morte e al carcere a vita». Pur se il Vangelo codifica il dovere di andare a visitare i carcerati (compiendo così una delle opere di misericordia corporale in merito alla quale si sarà giudicati), sovente, tanti degli evangelizzati pronunciano il solito e poco evangelico mantra: «marcisca in galera». «Non giudicare per non essere giudicato», finisce nel dimenticatoio delle coscienze, perfino di quelle presuntivamente cristiane. Condannare, a perdifiato, senza tregua, punire, punire, «l’ossessione farisea di cui ci parla il Vangelo». Perdonare diventa buonismo, non più l’umanesimo che vivifica la Fede. E pure il detenuto, chi gli è vicino, finiscono in trappola, rispondendo all’odio con l’odio: cade nel vuoto la lezione di Nelson Mandela – cominciando a trattare i propri carcerieri bianchi come simili, con gentilezza, li ha sorpresi, meravigliati e ha indotto gli stessi a riconoscere nell’altro prigioniero, nero, un proprio simile-. Così, l’errore non è mai, e solo, in chi punisce. Spesso il punito contribuisce a separare, irrimediabilmente i mondi, anch’esso giudica, quanto chi lo ha giudicato. Ed è sempre e solo l’amore l’atto risolutivo, il campione dei cambiamenti, degli scatti di civiltà. L’amore che travalica i confini fisici, dei singoli, e aspira a farsi legislatore. Ed è un’utopia che l’amore vinca sull’odio, ma ogni passaggio storico glorioso è stato figlio dell’utopia. I dati, le risultanze statistiche, sono figli del demonio perché escludono dai contesti i sentimenti: quanto di più lontanamente esistente dall’umanesimo, che è o dovrebbe essere il cammino del buon cristiano, ma anche di una società che abbia intenzione di evolversi, rischiare per migliorarsi. «Che l’uomo cambi non è facile, tanto che alcuni dicono che, di fronte a questa pandemia, si cambierà, ma in peggio. Molti credono che l’uomo sia sempre lo stesso e, al limite, possa solo peggiorare. Però notiamo che, a volte, alcune persone, soprattutto di fronte a situazioni drammatiche, invece di inibirsi, diventare diffidenti, chiudersi in se stesse, pensare a mettersi in salvo, tirano fuori ciò che hanno di migliore e di più nobile e fanno fronte alle situazioni che capitano con delle capacità di amore che neppure pensavano di avere. Questo è il cambiamento».

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Santa Maria e la menzogna della democrazia. Valerio Giacoia su Il Quotidiano del Sud il 13 luglio 2021. Da quale specie di sottosuolo dostoevskiano hanno aperto la botola salendo in superficie gli agenti della polizia penitenziaria protagonisti dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere? Che avranno dentro, quale demone, quali legioni di diavoli. Sarebbe forse opportuno osservare nelle vite di ciascuno di essi, informarci sulle loro infanzie, magari ripercorrendo la strada come in un ritorno al futuro nel tentativo di cambiare la storia loro e quindi delle vittime che hanno torturato. Perché di tortura si tratta, come avviene nelle carceri più famigerate del mondo in questo senso, da Occidente a Oriente, e potremmo citarne tanti di esempi con fatti e dati. Sapevamo anche dell’Italia, attenzione, e anche a chi è più sprovveduto non si può rifilare la menzogna delle cosiddette mele marce, perché si sa che cosa avviene nelle carceri, tuttavia le gesta di questi aguzzini fanno lo stesso impressione perché almeno nella nostra speranza ultima questo dovrebbe ancora essere un paese dove vigerebbe una democrazia evoluta. Come nell’immaginario collettivo gli Stati Uniti d’America lo sono, una grande democrazia. E non è così. Né noi siamo in democrazia, né loro. E mai lo saremo finché un gruppo di invasati in divisa che dovrebbe stare al nostro servizio – compreso quello dei detenuti se lo stato è di diritto e non di rovescio (sì, al servizio, inutile che si storca il naso) – si prende la libertà di entrare in un carcere e seminare botte e panico a freddo, senza una evidente situazione di minaccia, a freddo, da spedizione punitiva. Non lo sarà l’America finché un agente in divisa invece uccide come a Minneapolis. Non c’è alcuna differenza tra le manganellate alla testa da parte dei secondini inferociti e il ginocchio di David Chauvin sul collo di George Floyd, entrambi i gesti partono dall’idea malsana secondo cui l’altro non è nessuno: se sei nero non sei nessuno, no hai un nome e una storia e perciò non hai diritti, se sei carcerato non hai un nome e una storia e quindi il diritto a difendere la tua vita dal virus, ad aver paura di ammalarti di Covid: sei una bestia rinchiusa in gabbia, io sono in divisa, ho il potere, posso massacrarti. Il sottosuolo culturale, spaventoso, agghiacciante per pochezza, è lo stesso. Non è da meno quello che ha dentro chi ha ordinato, tornando al carcere di Santa Maria, i pestaggi. E non è soltanto Santa Maria, sarebbe da sciocchi, lo ribadiamo con forza, pensare che si tratti di mele marce (a parte il fatto che il gruppo di poliziotti picchiatori era ben copioso, e già statisticamente lì dentro il ragionamento non funziona più). Il carcere è un luogo di violenza, punto. In carcere la Costituzione prende ogni giorno le stesse botte, da sempre. Non esistono, tranne (ma col beneficio del dubbio) rarissime eccezioni, alcuna riabilitazione, alcun vero reinserimento nella società e ritorno alla vita. Soltanto numeri al posto degli uomini, e quindi dolore, indifferenza, pregiudizio. Ricordo (il lettore perdoni la forma in prima persona, che raramente uso) rabbrividendo ancora un episodio apparentemente piccolo, che piccolo non fu: vado a prendere all’uscita dal carcere di Cosenza un caro amico, in gabbia tra l’altro da innocente. Il dettaglio forse non conta, perché quando esci hai scontato la tua pena e sei un cittadino come gli altri (lo sei anche dentro, cittadino, ma devi estinguere la condanna non essere calpestato nei diritti basilari). Il mio amico – uno tra gli amministratori finiti nella rete di una tra le tante inchieste sul malaffare calabrese – trasfigurato da oltre un mese di galera, aveva dimenticato di dover firmare qualcosa: il secondino lo richiama con fare da nazista, incivile, urlandogli addosso come fosse un cane. Una scena che mi disgustò, e mi lasciò paralizzato. Il secondino in divisa credeva di essere il padrone della vita del mio amico, stremato e in lacrime. La violenza di questi uomini (si fa per dire) è una vergogna italiana, non soltanto di Santa Maria Capua Vetere. Ma la vergogna peggiore è che tutto questo venga ancora concesso o, peggio ancora, ordinato come per i fatti casertani. Sandra Berardi è presidente dell’associazione “Yairaiha”, con sede a Cosenza, da anni sul fronte caldissimo della lotta per i diritti dei detenuti. Lei si è sempre spinta oltre, fino al punto di scrivere apertamente della necessità di abolire il carcere, e che sia “l’idea stessa di recludere che si dovrebbe mettere in discussione, con tutto il carico di bestialità di cui sono pregni i riti connessi alla carcerazione”. Io non mi sento di darle torto. Ma è roba per visionari. Francamente non mi imbarazza farne parte. Detto ciò, la verità è che quelle immagini sono terribili anche perché ci costringono a vedere nello specchio quel sottosuolo tetro che sta nel profondo di questa terra e dentro le sue tante anime senza anima, di un lembo di mondo educato a delinquere, delinquere nell’accezione più ampia, assuefatto com’è a una atavica pedagogia nera che ha come unico obiettivo il potere e l’umiliazione di chi sta dall’altra parte di esso. E in un posto così gli schiaffi, i pugni, le manganellate, sono gli stessi che prendiamo anche tutti noi ogni giorno, “detenuti” come siamo in un paese dove il diritto, anche il più semplice, è una opzione e non la regola. E dove la menzogna è padrona assoluta delle nostre vite.

Giuseppe Legato per "La Stampa" l'8 ottobre 2021. «Ho sbagliato lo so, ho abusato di mia figlia minorenne. Sto scontando la mia giusta pena, ma loro sono stati delle bestie. Quando sono arrivato in carcere mi hanno obbligato a consegnare gli atti con cui la magistratura mi accusava. Hanno iniziato a leggerli di fronte a tutti, ripetevano ad alta voce i passaggi della mia confessione al magistrato. Ho sentito un disagio fortissimo, mi sono vergognato. Ho implorato che si fermassero, ma loro niente, continuavano. Dicevano: da qui non uscirai vivo». Diego S. è un nome in un lungo elenco di vittime di violenti pestaggi nel carcere di Torino. Torture per il pm Francesco Pelosi titolare dell'inchiesta ormai pronta ad arrivare nelle aule giudiziarie. Le vittime agli atti sono undici. A Diego sono entrati in cella di notte: gli hanno staccato le mensoline sul muro, gettato detersivo da piatti sulle lenzuola. Poi lo hanno portato in una saletta «tra la quinta e la sesta sezione». Molti detenuti lo sanno - e lo hanno raccontato - che lì, per loro, le cose si mettevano male. «Sentivamo le urla di dolore, i carcerati gridavano, chiedevano aiuto». Diego aveva presentato una denuncia, l'ha ritirata. Poi la storia è venuta fuori lo stesso. Botte, umiliazioni, pugni, pestaggi nella casa circondariale Lorusso e Cutugno tra il 2017 e il 2019. «Trattamenti degradanti dell'umanità» scrive la procura nell'atto d'accusa. Una sequela «di brutalità» venute alla luce grazie a due donne. Una, la garante dei detenuti Monica Gallo, l'altra la ex vicedirettrice del carcere di Torino Francesca D'Aquino. La prima si presenta in procura il 3 dicembre 2018 e racconta ciò che le hanno confidato i detenuti. L'altra, mesi prima, aveva ricevuto una segnalazione di violenze su un carcerato. Ha trasmesso gli atti in procura scavalcando la consolidata (e discutibile) abitudine dentro il penitenziario di fare un'indagine interna e chiudere tutto senza fughe di notizie. Così, tra loro. Un giovane difeso dal legale Domenico Peila racconterà altro: «La notte del 30 aprile 2019 mi sono sentito male, mi sono accasciato dentro la cella. Sono arrivati gli agenti, quella che noi conosciamo come la squadra dei picchiatori. Dicevano: devi morire qui pezzo di merda. Il giorno dopo, alle 14,30 mi hanno convocato in una stanzetta. Uno mi ha assestato un calcio alle gambe. Sono caduto, gli altri mi colpivano con gli stivali allo sterno». Alle «perquisizioni punitive» si aggiunge il cosiddetto «battesimo per i nuovi giunti». Una pratica macabra: «Quando sono arrivato mi hanno portato ammanettato al casellario. Mi hanno chiesto di spogliarmi, ho tolto tutto tranne le mutande. In 4 allora hanno indossato dei guanti, mi hanno sbattuto per terra e mi hanno strappato gli slip di dosso. Ho sbattuto la faccia contro il pavimento e mi sono spaccato un dente, mi è caduto. L'ho nascosto in cella», ha detto piangendo una vittima di fronte al magistrato. Un'altra ha raccontato: «Hanno cominciato a colpirmi con schiaffi, pugni e calci. In particolare mi dicevano di salire le scale e mentre le affrontavo gli agenti da dietro mi colpivano con schiaffi pugni e calci. E ridevano». Altri carcerati hanno raccontato di essere «stati feriti in fronte con il ferro usato per la battitura delle sbarre». Altri ancora costretti a ripetere davanti a tutti: «Sono un pedofilo di merda». Ancora: «A un compagno di sezione - ha raccontato un detenuto - lo hanno ammanettato e bloccato a terra. Era in attesa di fare il Tso. Lo hanno colpito con calci allo sterno e mentre lo facevano, ridevano». La versione è stata confermata dalla vittima convocata in procura. Il comune denominatore dei bersagli di questa «squadretta» composta da 6-7 persone «avvezze a comportamenti di questo tenore violento», alle quali a rimorchio si univano altri agenti, è quella di prendere di mira i detenuti per reati a sfondo sessuale. Scrive la procura: «Si tratta di soggetti condannati o in stato di custodia cautelare per quei reati che secondo la legge non scritta del carcere suscitano una maggiore riprovazione sociale e pertanto richiedono nell'ottica deviata di quella legge non scritta una punizione ulteriore rispetto a quella prevista dalla legge. Quello che colpisce all'esito dell'esame degli elementi probatori emersi nel presente procedimento è come queste spedizioni punitive non siano state opera di altri detenuti bensì di agenti di Polizia Penitenziaria e cioè di quelle persone che all'interno del carcere rappresentano lo Stato». Due di loro erano già finiti nei guai: condannati a marzo 2017 in Cassazione per abuso di autorità nei confronti di altri detenuti nel carcere di Palermo. Ma erano ancora in servizio. E non avevano perso «la riprovevole abitudine», si legge agli atti. Si vantavano al telefono con le fidanzate: «Oggi ci siamo divertiti, tipo Israele anni Quaranta». Il senso viene colto subito dalla compagna: «Vi siete divertiti a menà?». Silenzio. Ma quando esce la notizia sui giornali - e le intercettazioni sono ancora attive sui telefoni degli indagati - ciò che colpisce sono i commenti: «Non doveva uscire. Doveva rimanere qui dentro e non trapelare all'esterno», dice un agente. E il collega: «Il comandante ci aveva detto di stare tranquilli, che era tutto a posto...». L'ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza è indagato in questa inchiesta. Anche per l'ex direttore Domenico Minervini è stato chiesto il rinvio a giudizio: favoreggiamento e omissione di denuncia. Poche ore dopo la discovery degli atti il capo del Dap Bernardo Petralia li ha rimossi entrambi.

Trasferì da Modena i reclusi, ora è nel pool del Dap che dovrà far luce sui pestaggi. Marco Bonfiglioli, il dirigente del provveditorato regionale che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti dal carcere Sant’Anna dopo le rivolte, fa parte della commissione istituita su impulso della ministra Cartabia. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 luglio 2021. Il 22 luglio scorso, su spinta della ministra della Giustizia Marta Cartabia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha istituito una commissione per far luce sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza. Parliamo delle segnalazioni riguardanti i presunti pestaggi avvenuti in diverse carceri italiane. Nel pool è presente anche Marco Bonfiglioli, il dirigente del provveditorato regionale che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti dal carcere Sant’Anna di Modena, tra i quali quelli che morirono durante il viaggio, o all’arrivo, verso le altre carceri.

La commissione del Dap è una indagine interna per verificare le irregolarità. Non è un dettaglio da poco, perché se da una parte c’è stata un’archiviazione del procedimento relativo alla morte di otto persone detenute del carcere modenese avvenuta all’indomani delle rivolte del marzo 2020, dall’altra rimane ancora in piedi la nona morte: quello del detenuto Salvatore Piscitelli, morto ad Ascoli durante il trasferimento. In ogni caso, anche se c’è stata un’archiviazione nei confronti degli altri detenuti morti, la commissione istituita dal Dap è una indagine interna, quella del ministero della Giustizia, che ha la possibilità di verificare le irregolarità al di là dei procedimenti giudiziari.

I trasferimenti rimangono il nodo cruciale della vicenda. Il fatto che tra i componenti della commissione istituita dal Dap ci sia il dirigente Bonfiglioli, il provveditore che coordinò il trasferimento, espone il pool al rischio di non essere super partes. Ciò non significa assolutamente che sia responsabile dei fatti accaduti, ma se si vuole fare una indagine serena, forse sarebbe opportuno tenere fuori dal pool la catena di comando che operò in quei terribili e difficili giorni. I trasferimenti disposti dal provveditorato rimangono il nodo cruciale. Secondo l’avvocata di Antigone Simona Filippi alcuni detenuti barcollavano, non stavano in piedi. «Secondo noi non si poteva procedere a quei trasferimenti che invece avvennero», ha spiegato l’avvocata Filippi.

Sulla morte di Salvatore Piscitelli è stata aperta un’inchiesta. Alcuni detenuti arrivarono a destinazione già deceduti, altri durante il viaggio, altri ancora morirono una volta giunti nella nuova cella. C’è appunto il caso di Salvatore Piscitelli sulla cui morte è stata aperta un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni suoi compagni trasferiti anch’essi dal Sant’Anna di Modena. Secondo questi detenuti, Piscitelli era stato picchiato e stava malissimo a causa delle sostanze assunte. A più riprese, sempre secondo la loro testimonianza, fu richiesto l’intervento degli agenti penitenziari e quindi del medico senza che avvenisse nulla. Fino a che non venne, semplicemente, constatato il decesso.

La commissione dovrà riferire entro sei mesi dalla prima riunione. Come detto, la commissione è stata costituita giovedì scorso con un apposito provvedimento firmato dal Capo del Dap, Bernardo Petralia, e dal suo vice, Roberto Tartaglia. Alla Commissione viene richiesto di procedere agli accertamenti e ai controlli necessari, con il supporto dell’Ufficio attività ispettiva del Dipartimento, «con un metodo di lavoro collegialmente organizzato, strutturato, coerente e omogeneo per tutti gli istituti interessati» e di riferire ai vertici del Dap entro 6 mesi dalla prima riunione.

La commissione sarà presieduta dal magistrato Sergio Lari, ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta e oggi in quiescenza, individuato – come si legge nel documento del Dap – per la sua «lunga e comprovata esperienza e capacità» alla direzione di un importante ufficio inquirente.L’ex procuratore Lari sarà coadiuvato da 6 componenti, scelti – si legge nella nota del ministero della Giustizia – «fra operatori penitenziari di lunga e comprovata esperienza e capacità professionale». Ovvero Rosalba Casella, Giacinto Siciliano, Francesca Valenzi, Luigi Ardini, Riccardo Secci e Marco Bonfiglioli. Quest’ultimo, del quale non si mette in dubbio l’esperienza e la capacità professionale, essendo appunto il provveditore che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti del carcere di Modena, potrebbe risultare inopportuno.

La commissione dovrà far luce sull’origine delle rivolte del marzo 2020. La commissione nasce anche con lo scopo di fare luce sull’origine delle rivolte dei detenuti avvenute negli istituti nel marzo 2020. Per quello non serve scomodare vari retropensieri. La causa viene da lontano: un sistema penitenziario che, con la pandemia, ha messo a nudo tutta la sua fragilità preesistente. Le dietrologie (si parlava di regia unica per ottenere benefici, una sorta di riedizione della “trattativa Stato-mafia”), invece, servono per mettere sotto il tappeto le complessità. Ma non sarebbe la prima volta.

A indagare sulle carceri gli uomini del Dap...“Verità sulle rivolte? Impossibile con quella commissione, servono figure terze”, La richiesta di Ciambriello. Viviana Lanza su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Chi controlla il controllore? Viene da chiederselo a osservare la composizione della Commissione ispettiva che, come deciso dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, è stata istituita dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria «per fare luce sull’origine delle rivolte dei detenuti avvenute negli istituti nel marzo 2020, sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime poste in essere». Se lo chiede, in particolare, il garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, il quale ha scritto alla guardasigilli sollevando la questione: «La composizione della Commissione, a prima vista, appare monca poiché in essa è assente la componente sociale e di garanzia. In particolare, non sembra adeguata ad assicurare il secondo e terzo punto del suo mandato, vale a dire indagare sui comportamenti del personale e su eventuali condotte illecite, giacché dovrebbe valere anche qui la massima di Giovenale: “Quis custodiet ipsos custodes”? (Chi sorveglierà i sorveglianti stessi?)». La Commissione, per volontà della ministra, dovrà svolgere un’indagine ampia sulle 70 carceri italiane in cui nel 2020 si verificarono rivolte. L’obiettivo è conoscere quello che è realmente accaduto negli istituti di pena dove la pandemia ha esasperato gli animi e accresciuto le tensioni, così da valutare la correttezza dei comportamenti delle guardie carcerarie. Il presidente della Commissione Sergio Lari, ex procuratore generale della Corte d’appello di Caltanissetta, sarà infatti affiancato da Rosalba Casella, ex direttrice del carcere di Sant’Anna di Modena, Giacinto Siciliano, direttore di San Vittore, Francesca Valenzi, dirigente dell’Ufficio detenuti e trattamento del Ministero di Giustizia, Luigi Ardini, comandante del carcere romano di Rebibbia, Riccardo Secci, comandante del carcere di Lecce, e Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato di Emilia Romagna e Marche che coordinò il trasferimento dei detenuti da Modena dopo le rivolte. «Tutte figure interne all’amministrazione penitenziaria – sottolinea Ciambriello – la cui obiettività e competenza non si discutono, ma certamente la Commissione e i suoi futuri risultati sarebbero maggiormente garantiti e gestibili se nella stessa fossero inserite figure professionalmente deputate alla vigilanza sull’esecuzione penale come magistrati di sorveglianza e garanti, nonché figure “terze” (presidenti di associazioni di diritti, Camere penali e così via). Ciò tenuto conto delle diverse notizie e testimonianze di violenze a danno di reclusi a seguito delle proteste». Ecco, dunque, la richiesta rivolta dal garante campano alla ministra Cartabia per garantire quella «indagine ampia», come la stessa guardasigilli l’aveva definita illustrandone gli obiettivi durante la sua relazione in Aula sui fatti di Santa Maria Capua Vetere, e per fugare qualsiasi eventuale dubbio sull’imparzialità. «Mi auguro – conclude Ciambriello – che si possa arrivare a integrare la Commissione con figure di terzietà capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, con un profilo non artefatto e un ruolo di osservatori super partes».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Nel pool del Dap “saranno evitate incompatibilità”. Ma per il garante Ciambriello mancano figure “terze”. Dopo il nostro articolo la precisazione del ministero della Giustizia sulla commissione che dovrà occuparsi dei presunti pestaggi. Il garante campano Ciambriello chiede che l’organismo venga integrato. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 luglio 2021. Dopo l’articolo de Il Dubbio, nel quale è stato fatto notare un potenziale conflitto di interesse che riguarda soprattutto uno dei componenti della commissione istituita dal Dap per occuparsi delle indagini interne relativi ai presunti pestaggi che riguardano diverse carceri, il ministero della Giustizia ci ha risposto portandoci a conoscenza un elemento ulteriore che potrebbe risolvere questa criticità.

Il ministero fa sapere che si organizzeranno sotto-gruppi. I sei componenti – come indicato nel provvedimento di composizione – «potranno operare in appositi sotto-gruppi, tenuto anche conto di eventuali fattori di incompatibilità territoriale». Per questo, il ministero fa sapere che sarà quindi cura direttamente del presidente della Commissione organizzare questi sotto-gruppi anche in modo da evitare “qualsiasi incompatibilità territoriale”. Importante, quindi, l’organizzazione dei sotto gruppi per evitare i potenziali conflitti di interesse. Ma, secondo il garante regionale della Campania Samuele Ciambriello, fondamentale per aver fatto emergere la mattanza avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nella commissione nata su spinta della guardasigilli mancherebbero figure “terze” capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, con un profilo non artefatto e un ruolo di osservatori super partes.

Il garante campano ha inviato una lettera alla ministra Cartabia. Sono osservazioni che Ciambriello ha inviato alla ministra Marta Cartabia tramite una lettera, dove sottolinea che la composizione della Commissione, proposta dal Dap, a prima vista, appare monca poiché in essa è assente la «componente sociale e di garanzia». Il garante regionale osserva che, in particolare, «non sembra adeguata ad assicurare il secondo e terzo punto del suo mandato, vale a dire indagare sui comportamenti del personale e su eventuali condotte illecite, giacché dovrebbe valere anche qui – pur nella massima fiducia nell’istituzione e negli operatori – la massima di Giovenale: Quis custodiet ipsos custodes? (chi sorveglierà i sorveglianti stessi?)». Il presidente della Commissione Sergio Lari, ex procuratore generale della Corte d’Appello di Caltanissetta, sarà infatti affiancato da Rosalba Casella (ex direttrice del carcere di Sant’Anna di Modena), Giacinto Siciliano (direttore di San Vittore), Francesca Valenzi (dirigente Ufficio detenuti e trattamento del ministero di Giustizia), Luigi Ardini (comandante del carcere romano di Rebibbia), Riccardo Secci (comandante del carcere di Lecce) e Marco Bonfiglioli (dirigente del Provveditorato Emilia Romagna e Marche) che – come ha notiziato Il Dubbio – dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti da Modena dopo le rivolte.

Ciambriello: «Sarebbero maggiormente garantiti e gestibili i risultati». «Vale a dire tutte figure interne all’Amministrazione, la cui obiettività e competenza, ovviamente, non si vuole mettere in discussione, ma – scrive il Garante Ciambriello rivolgendosi alla ministra della Giustizia – certamente la Commissione, e i suoi futuri risultati, sarebbero maggiormente garantiti e gestibili se nella stessa fossero inserite figure professionalmente deputate alla vigilanza sull’esecuzione penale, come Magistrati di sorveglianza e Garanti, nonché figure “terze” (presidenti di associazioni di diritti, Camere penali, ecc.)». Il garante ricorda che la ministra Cartabia, durante la sua relazione alla Camera sui pestaggi avvenuti il 6 aprile a Santa Maria Capua Vetere, tra le altre cose ha detto che: «Occorre un’indagine ampia, perché si conosca quello che è successo in tutte le carceri, nell’ultimo anno dove la pandemia ha esasperato tutti». Proprio su questa scia il Garante Ciambriello si augura imparzialità, sensibilità della ministra, affinché si possa arrivare a integrare la commissione «con figure di terzietà capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, con un profilo non artefatto e un ruolo di osservatori super partes».

(ANSA il 27 luglio 2021) - Il Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha sospeso dalle funzioni di Direttrice della Casa Circondariale di Taranto, Stefania Baldassari. Il provvedimento è stato adottato - a quanto si apprende da fonti dell'amministrazione - sulla scorta di un'informativa della DDA di Lecce, secondo la quale la Direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell'interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l'associazione a delinquere di tipo mafioso. 

Taranto, sospesa la direttrice del carcere. Indagini della Dda di Lecce: emesso un provvedimento. La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Luglio 2021. Il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha sospeso dalle funzioni di Direttrice della Casa Circondariale di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato - a quanto si apprende da fonti dell’amministrazione - sulla scorta di un’informativa della DDA di Lecce, secondo la quale la Direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso.

Da leggo.it il 25 luglio 2021. Abusavano di una disabile, indagati 8 autisti di bus di linea. E' successo a Taranto dove parcheggiavano gli autobus in luoghi isolati, bloccavano le porte e poi abusavano di una ragazza disabile. Per questo 8 autisti dell'Amat, l'azienda di trasporto pubblico di Taranto, di età compresa tra i 40 e i 62 anni, sono indagati per violenza sessuale aggravata ai danni di una ventenne affetta da un evidente disagio psichico. Il gip del capoluogo ionico ha imposto nei loro confronti il divieto di avvicinamento alla ragazza e al suo fidanzato, che nel giugno 2020 l'ha convinta a denunciare le violenze ai carabinieri. Respinti gli arresti domiciliari richiesti dalla Procura. La procura contesta agli otto indagati i reati di violenza sessuale con le aggravanti di aver agito su una persona sottoposta a limitazioni della libertà personale e per aver commesso il fatto in qualità di incaricati di pubblico servizio. I fatti si riferiscono al periodo compreso tra ottobre 2018 ed aprile 2020. La ragazza era un'assidua frequentatrice dei bus di linea dell'Amat e le violenze sarebbero avvenute sugli autobus che venivano parcheggiati in luoghi isolati, sotto a un cavalcavia nei pressi del capolinea al porto mercantile o vicino ad una delle portinerie dell'Ilva. Qui, ricostruisce il giudice, gli autisti chiudevano le porte del mezzo e approfittavano della «estrema vulnerabilità» della giovane vittima.

SOSPESA DAL MINISTERO DI GIUSTIZIA IL DIRETTORE DEL CARCERE DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 27 Luglio 2021. La Direttrice sospesa Stefania Baldassarri sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, Michele Cicala, allorquando era presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso.  Bernardo Petralia Capo del DAP il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero di Giustizia, ha sospeso dalle funzioni di Direttrice della Casa Circondariale di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato sulla scorta di un’informativa della DDA di Lecce, secondo la quale la Direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, Michele Cicala, allorquando era presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso. Il capo del Dipartimento del Dap così motiva il suo provvedimento: “nell’assolvimento del proprio ruolo istituzionale, la dottoressa Baldassari, in qualità di direttore avrebbe dovuto astenersi da indebite frequentazioni, con evidente offesa alla dignità delle pubbliche funzioni” aggiungendo che “l’eventuale permanenza in servizio determinerebbe l’esistenza di una effettiva incompatibilità della dottoressa Baldassari con lo svolgimento della normale attività di servizio ed effetti lesivi sul prestigio e l’immagine esterna dell’Amministrazione, incidente negativamente sulla credibilità delle Istituzione che ella rappresenta“. Nel frattempo la D.D.A. della Procura di Lecce ha fatto ricorso in Cassazione avverso la decisione del Tribunale del Riesame che aveva annullato per Michele Cicala e degli altri esponenti del suo clan, l’aggravante di associazione mafiosa ipotizzata dal sostituto procuratore Milto Stefano De Nozza. Il Riesame di Lecce aveva confermato arresti e sequestri (bar, ristoranti, attività commerciali riconducibili sempre a Cicala) mentre con un altro provvedimento Cicala aveva ottenuto ai domiciliari. Incredibilmente mentre il Riesame di Lecce aveva annullato l’aggravante mafiosa, il Tribunale del Riesame di Potenza competente sugli “affari” illeciti compiuti dal clan Cicala con il cugino di Michele Zagaria “storico” capo del clan dei Casalesi, aveva confermato l’aggravante. Sarà ora la Corte di Cassazione a dire l’ultima parola.

Nazareno Dinoi per "Il Messaggero" il 28 luglio 2021. La notizia, che circolava già il giorno prima, è arrivata ieri come un fulmine in casa Baldassari e nel mondo giudiziario e penitenziario tarantino. La direttrice della casa circondariale di Taranto, Stefania Baldassari, è stata sospesa dall'incarico dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Il provvedimento firmato dal capo del Dap, Bernardo Petralia, è stato l'effetto di una informativa della Direzione distrettuale antimafia di Lecce secondo la quale la direttrice del carcere avrebbe avuto condotte irregolari nell'interesse di un detenuto sotto la sua custodia, indagato per reati di mafia. La misura, con effetto immediato, aprirà le porte ad un provvedimento disciplinare interno, atto dovuto che scatta automaticamente nei casi di tale gravità. La sospensione non ha un termine, per cui è da supporre che sarà nominato un reggente per assicurare temporaneamente la dirigenza dell'istituto Carlo Magli. A dare il via al provvedimento cautelare è stata un'informativa della Guardia di Finanza di Taranto finita agli atti del procedimento giudiziario, ancora nelle fasi dell'udienza preliminare, nato dall'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce su un presunto traffico di carburante da autotrazione gestito da alcuni gruppi malavitosi legali al clan dei casalesi. A capo della frangia tarantina, secondo il pubblico ministero Milto Stefano De Nozza titolare dell'inchiesta denominata «Petrolmafia», ci sarebbe Michele Cicala, 41 anni, pluripregiudicato del quartiere Tramontone il cui nome compariva già nella relazione dell'anno giudiziario del 2010 della Corte d'Appello di Lecce quale capo emergente di una nuova compagine mafiosa. Sarebbe proprio lui, secondo le carte che da Lecce sono arrivate negli uffici romani del Dap, il detenuto nei confronti del quale la direttrice Baldassari si sarebbe in qualche modo impegnata. Tutto nasce da una conversazione intercettata il 16 maggio scorso tra la moglie di Cicala e una dipendente del bar «Primus Borgo» di Taranto, di proprietà di una cooperativa che secondo gli investigatori sarebbe controllata dal presunto boss. Nel corso della telefonata, la ragazza racconta che la direttrice del carcere si era recata nel locale e, riferendosi a Cicala, avrebbe detto che stava bene consigliando di scrivergli delle lettere per fargli sentire la vicinanza della famiglia. Queste le parole dell'intercettazione: «Dice che l'aveva visto, sia a lui ha visto Michele, l'ha visto molto positivo, però ha detto vicino a noi: ragà scrivetegli perché dovete essere di conforto, gli dovete dare forza». Qualche giorno dopo la telefonata con la dipendente del bar, la moglie del detenuto, durante una video telefonata programmata, racconta l'episodio al marito: «Ha detto che sei molto fiducioso, che stai bene», riferisce la donna di Cicala rassicurandolo. Il bar in questione si trova sulla strada che la direttrice Baldassari deve percorrere per tornare a casa, ma gli investigatori delle fiamme gialle che riferiscono al pm De Nozza non «comprendono le ragioni per le quali dovesse necessariamente fermarsi nel locale fornendo rassicurazioni sull'umore del Cicala». La trascrizione delle intercettazioni è stata allegata al fascicolo integrativo che il sostituto procuratore della procura antimafia di Lecce, De Nozza, ha depositato in sede di udienza preliminare davanti al giudice del Tribunale di Lecce, Michele Toriello, che deve giudicare 71 indagati di varie province, tra cui il tarantino Cicala, coinvolti nell'inchiesta Petrolmafia. «Arrabbiata, delusa e anche spaventata, ma chiariamo una cosa: non sono indagata, non sono sottoposta a nessun procedimento penale e non devo rispondere di nessun reato penale». La reazione di Stefania Baldassarri è netta. E aggiunge: «Se mi sta succedendo questo per una cosa raccontata da altri, allora mi rendo conto che in Italia può accadere di tutto a chiunque. Ad ogni modo mi sento serena, affronterò con onore anche questa battaglia e sono sicura che ne uscirò a testa alta».

SOSPENSIONE A TEMPO INDETERMINATO PER IL DIRETTORE DEL CARCERE DI TARANTO. LA DDA DI LECCE INDAGA. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 4 Settembre 2021. La Baldassari era già stata sospesa una prima volta lo scorso 27 luglio dal Dap in conseguenza del suo coinvolgimento (senza responsabilità penali) nell’ ordinanza di custodia cautelare nei confronti del “clan” Cicala, a seguito della quale aveva rilasciato una serie di interviste in cui professava la sua assoluta estraneità ai fatti contestati, così contrapponendosi ai vertici del Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria, preannunciando ricorsi amministrativi che non risultano essere mai stati intrapresi. Ed ecco le foto che provano la vicinanza della politica tarantina alla malavita locale. Notificata ieri dal Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia una nuova sospensione ma questa volta a tempo indeterminato per la dirigente della casa circondariale di Taranto Stefania Baldassari, a seguito degli approfondimenti effettuati dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Lecce che ha raccolto prove inconfutabili della sua conoscenza e frequentazione del clan Cicala sin dal 2017. Il nuovo provvedimento potrebbe sfociare persino in causa di licenziamento. La Baldassari stata sospesa lo scorso 27 luglio dal Dap in conseguenza del suo coinvolgimento (senza responsabilità penali) nell’ ordinanza di custodia cautelare nei confronti del “clan Cicala”, a seguito della quale aveva rilasciato una serie di interviste in cui professava la sua assoluta estraneità ai fatti contestati, così contrapponendosi ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, preannunciando ricorsi amministrativi che non risultano essere mai stati intrapresi. Al Dap oltre alla relazione del pm dr. Milto Stefano De Nozza della DDA di Lecce, sono arrivate da parte di alcuni avvocati delle segnalazioni ed esposti nei confronti della (ex?) dirigente del carcere di Taranto, che hanno consentito di comprovare, con l’ausilio anche delle documentazioni acquisite dalla Guardia di Finanza, la consuetudine di rapporti e frequentazione della Baldassari con il “boss” Michele Cicala attraverso un legale Vincenzo Sapia, comune amico, presente nella recente ordinanza di custodia cautelare, a partire da un incontro elettorale svoltosi nel 2017 nella pizzeria “Da Mammina” a Talsano , in cui la Baldassari assieme al candidato Antonino detto Toni Cannone (estraneo all’inchiesta), incontrò persone amiche e familiari dei componenti del “clan Cicala”, quasi tutti residenti nelle case popolari di via Mediterraneo, strada che dette il nome ad un precedente blitz per il quale Michele Cicala riportò una condanna definitiva di 18 anni e 6 mesi di reclusione. E guarda caso… la Guardia Finanza ha accertato che proprio nel seggio elettorale di quella zona la Baldassari nelle Comunali del 2017 ricevette oltre 400 voti! Una semplice coincidenza…? Le immagini che pubblichiamo sopra, sono tratte da Facebook, confermano che Stefania Baldassari ed il consigliere comunale Tony Cannone abbiano svolto campagna elettorale nel 2017 nei locali della pizzeria “MAMMINA” a Talsano, di proprietà del “clan Cicala”. E Cannone li ringraziava anche! Alle loro spalle l’avvocato Vincenzo Sapia notoriamente molto “vicino” al Clan Cicala, come risulta dalle intercettazioni della Guardia di Finanza agli atti del fascicolo d’indagine del pm Milto Stefano De Nozza. 

Il CORRIERE DEL GIORNO inoltre ha scoperto su Facebook un documento fotografico, peraltro postato pubblicamente, che dimostra la falsità delle precedenti dichiarazioni della Baldassari alla stampa locale, quando sosteneva di essere stata al Primus Bar Borgo soltanto una volta per prendere un caffè. I documenti e le intercettazioni in realtà dicono ben altro. Chissà se adesso ci saranno nuove interviste della Baldassari a giornali e televisioni … Lei nel frattempo ci blocca sui social sperando di impedirci di leggere le sue farneticazioni nei nostri confronti. Inutilmente. Quindi a questo punto non ci resta che aspettare la conclusione delle indagini della DDA di Lecce. Il tempo è galantuomo ed è anche il miglior giudice in circolazione. Sopratutto a Taranto, la città della “solidarietà” ad un tanto al chilo! E’ noto a tutti inoltre che nella coalizione che sosteneva la Baldassari, compariva anche un altro pregiudicato, su cui grava una condanna definitiva ad 1 anno e 4 mesi, Salvatore Micelli “portavoce” della lista “Progetto in Comune” guidata da sua sorella. Quando si hanno certe frequentazioni…persino facendo politica nonostante il delicato ruolo ricoperto nell’ amministrazione penitenziaria, diventa poi arduo dirigere un carcere. E questa volta con la nuova dirigenza del DAP non si scherza.

La solidarietà di Rita Bernardini. “Troppo umana con i detenuti” Petralia sospende Stefania Baldassarri, la direttrice del carcere di Taranto. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Succede tutto all’improvviso, o forse no. Ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha sospeso dalle funzioni di direttrice del carcere di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato – a quanto si apprende da fonti dell’amministrazione – sulla scorta di un’informativa della Dda di Lecce, secondo la quale la direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso. La direttrice Stefania Baldassarri cade dalle nuvole, come pure chi la conosce più da vicino. Baldassarri dirige da anni una delle strutture detentive più affollate e difficili, con un modello di gestione che coinvolge i detenuti in programmi di rieducazione civica. Ma ieri come un fulmine a ciel sereno da via Arenula le comunicano la sospensione per “Condotte irregolari”. Cosa sarebbe successo? È stata intercettata una conversazione in un bar cittadino. Lei entra per un caffè. I ragazzi che lavorano lì le chiedono se fosse il direttore del carcere. È lei stessa a raccontarlo: «Ho risposto di sì, mi è stato chiesto come stavano i detenuti Romano, Buscicchio e Cicala; ho detto che stavano come possono stare i detenuti in custodia cautelare. Mi è stato chiesto cosa facessero tutto il giorno, ho detto quello che solitamente fanno in genere tutti i detenuti». «Mi è stato chiesto – ha aggiunto Baldassarri – se potevo portare loro i saluti, ho detto che purtroppo in direttore si occupa di altro che portare i saluti. Mi è stato chiesto cosa potessero fare e ho detto che il modo per manifestare la loro vicinanza era quello di scrivere. Il bar – ha concluso – è stato riaperto, perché dissequestrato, non comprendo i motivi per cui mortificare l’aspettativa di gente che stava lavorando e che nulla aveva a che fare col procedimento penale del detenuto». Una normale conversazione che arriva però alle orecchie della Dda di Lecce e diventa il volano di un infamante sospetto: avrebbe in qualche ipotetico modo agevolato il boss della mala tarantina Michele Cicala, stando a quanto si legge sull’atto che ne determina la sospensione. Bernardo Petralia firma il provvedimento su cui verga: «Il dirigente pubblico deve informare ogni condotta a criteri di correttezza» ed aggiunge: «la citata condotta è disciplinarmente rilevante». Di cosa parliamo? Avrebbe suggerito, rispondendo a uno sconosciuto, di poter indirizzare una lettera di saluti al detenuto. L’episodio non è recentissimo, tanto che Michele Cicala è stato nel frattempo assegnato ai domiciliari, per decreto del magistrato di sorveglianza. Ci risulta tutto previsto dalle norme e dai regolamenti, la corrispondenza privata nelle carceri esiste – al netto dei controlli – ed è difficile leggere in tale circostanza la malafede che il Dap sembra imputare alla direttrice Baldassarri. Che non si dà pace: «Non mi aspettavo un provvedimento del genere, sono ancora incredula, smarrita, sgomenta». Ed aggiunge: «Leggendo le motivazioni non riesco proprio a comprendere quale sarebbe il disvalore in questo caso disciplinare. Tengo a precisare che non sono indagata e non ho ricevuto alcun avviso di garanzia». Baldassarri è molto nota in città e durante il Covid ha chiesto ai detenuti di rendersi parte attiva, cucendo migliaia di mascherine. Con l’Associazione Antigone ha promosso una serie di incontri sul tema della salute nelle carceri ed era stata tra le più ferme a condannare, in una recente intervista a un giornale locale, le gravissime violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. «È una delle più brave direttrici che abbia mai conosciuto, la conosco da anni e ha sempre agito in modo esemplare. Tra l’altro le hanno dato la direzione della casa circondariale tra le più difficili d’Italia, quella di Taranto che è notoriamente sovraffollata», dice Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino. Stessa opinione da parte del sindacato presente nella casa circondariale che ha emesso una nota. «Conosciamo la direttrice del carcere di Taranto e il suo operato e per questo diciamo che non ha mai dato adito ad alcun sospetto», scrive il segretario generale Uilpa penitenziaria, Gennarino De Fazio. «Abbiamo massima fiducia negli organi inquirenti e nel capo del Dap», aggiunge. «Ci sarà un contraddittorio che darà la possibilità alla direttrice di chiarire la propria posizione». A Taranto intanto c’è chi pensa ai malumori di qualcuno cui la direttrice andava stretta. Stefania Baldassarri era stata individuata, proprio per la particolare dedizione al sociale, come candidata sindaca nel 2017 a capo della lista civica Nuovo Coraggio, su cui converse il centrodestra. La popolarità era accresciuta di recente quando, lo scorso 2 giugno, su proposta del presidente del Consiglio Mario Draghi le era stato conferito il titolo di Cavaliere al merito della Repubblica. Adesso arriverà il ricorso, preannunciato ieri, «da presentare quanto prima», come conferma l’interessata. Nel ricorso si potrebbe ricordare che l’ordinamento, allo stato attuale, non ha ancora messo al bando il reato di umanità.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

(ANSA il 28 luglio 2021) È stato avviato il procedimento di revoca dell'incarico nei confronti di Elisabetta Palmieri, direttrice della Casa Circondariale di Santa Maria Vetere "Francesco Uccella", il carcere delle violenze ai detenuti. Con provvedimento del 27 luglio 2021 del Direttore generale del personale del Dap, le viene contestata un'anomala condotta nell'avere consentito, venerdì 23 luglio, al suo compagno, soggetto estraneo all'amministrazione, di presenziare alla visita in istituto della senatrice Cinzia Leone e di accompagnarla negli incontri con i detenuti. È quanto si apprende da fonti del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.

Non c'entrano nulla i pestaggi...Petralia colpisce ancora e con una scusa manda via la direttrice di Capua Vetere. Angela Stella su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere perde la direttrice Elisabetta Palmieri. Non per responsabilità attinenti “all’orribile mattanza”, quando la funzionaria era assente per malattia, ma per affari di cuore: da fonti del Dap si apprende che è stato avviato il procedimento di revoca del suo incarico con un provvedimento del 27 luglio del Direttore generale del personale del Dap, perché le viene contestata un’anomala condotta nell’avere consentito, venerdì 23 luglio, al suo compagno, soggetto estraneo all’amministrazione, di presenziare alla visita in istituto della senatrice del M5s Cinzia Leone e di accompagnarla negli incontri con i detenuti: «Durante la mia visita il compagno della direttrice Palmieri, senza autorizzazione specifica, mi aveva guidato nella struttura penitenziaria, e nei diversi padiglioni. Una vicenda incredibile in quello che dovrebbe essere il carcere più attenzionato d’Italia dopo il violento e immotivato pestaggio a danno dei detenuti avvenuto nell’aprile 2020». L’uomo risulterebbe autorizzato per finalità rieducative a frequentare esclusivamente il laboratorio di pasticceria all’interno del carcere, nella sola giornata di martedì. In queste ore, il Dap sta valutando la scelta del dirigente che sostituirà temporaneamente Palmieri fino alla nomina del nuovo direttore. Intanto ieri la Conferenza dei Garanti territoriali si è riunita in assemblea presso la Regione Lazio, per un incontro con il Capo del Dap, Bernardo Petralia: al centro dell’incontro la ripartenza dei colloqui e delle attività nelle carceri, dopo il superamento dell’emergenza epidemiologica. «Completata la campagna vaccinale, non possiamo permetterci ancora un anno di sostanziale chiusura delle attività», ha rimarcato Stefano Anastasìa, Portavoce della Conferenza. A tale proposito, Petralia ha dichiarato che l’amministrazione penitenziaria attende la risposta del Comitato tecnico-scientifico alle richieste sulla ripresa delle attività e i trasferimenti tra istituti, per consentire ai detenuti di poter scontare la pena vicino a casa. I Garanti hanno affrontato anche il tema della formazione del personale della Polizia penitenziaria. «A memoria d’uomo non si ricorda la visita in un carcere di un presidente del Consiglio dei ministri accompagnato da un ministro della Giustizia, dopo un pestaggio disumano» ha sottolineato il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, che ha aggiunto al Riformista: «abbiamo chiesto al Capo del Dap, e poi lo chiederemo anche ai magistrati di sorveglianza e alla politica, di prevedere per tutti i reclusi attualmente presenti nelle carceri italiane una liberazione anticipata in base all’art. 35ter dell’ordinamento penitenziario che prevede rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subìto un trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione edu (“nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Quindi in primis per quelli che hanno subìto violenze nel carcere campano ma anche per tutti gli altri che in questi diciotto mesi di pandemia hanno visto compressi i loro diritti, essendosi ristrette le loro libertà e i loro spazi». E sulla revoca dell’incarico alla direttrice conclude: «forse anche lei, nel permettere al suo compagno di non rispettare l’ordinamento penitenziario, sentiva quel senso di impunità che ha caratterizzato gli agenti picchiatori». Angela Stella

 Il carcere senza pace. Perché è stata cacciata la direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Nel giorno in cui il Riesame conferma i domiciliari per due ufficiali della polizia penitenziaria coinvolti nei pestaggi del 6 aprile 2020 sui detenuti a Santa Maria Capua Vetere, è un’altra notizia a scuotere il carcere in provincia di Caserta. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha avviato la procedura di revoca dell’incarico alla direttrice Elisabetta Palmieri. Il paradosso è che non c’è alcun legame tra le violenze sui reclusi e il siluramento di Palmieri che, il 6 aprile 2020, non era in servizio e, di conseguenza, ora non risulta coinvolta nell’inchiesta avviata dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. All’ormai ex numero uno della casa circondariale Francesco Uccella si contesta di aver consentito al compagno Armando Schiavo, agente della penitenziaria in pensione, di presenziare alla visita ispettiva condotta venerdì scorso dalla senatrice Cinzia Leone e di accompagnare quest’ultima negli incontri con le detenute nel reparto Senna. Fonti del Dap riferiscono che Schiavo fosse autorizzato per finalità rieducative a frequentare esclusivamente il laboratorio di pasticceria all’interno del carcere sammaritano, attivo solo di martedì. Di qui la decisione di sollevare dall’incarico Palmieri, come la senatrice Leone aveva chiesto nelle ore immediatamente successive alla sua visita nella casa circondariale sammaritana: «Quando ho chiesto chi fosse l’uomo che era indicato come mio autista – ha raccontato la componente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio – è calato un silenzio imbarazzante. Poi mi è stato detto che Schiavo è il compagno della direttrice. Questo episodio merita un’attenta riflessione: è imbarazzante l’opacità che serpeggia in quel carcere a seguito dei fatti accaduti». Ieri, inoltre, il Tribunale della libertà di Napoli si è pronunciato su Gaetano Manganelli e Pasquale Colucci, considerati tra gli organizzatori della perquisizione straordinaria che il 6 aprile 2020 seguì la rivolta dei detenuti del reparto Nilo e sfociò ben presto nella «orribile mattanza» di cui parla il gip Sergio Enea nell’ordinanza cautelare recentemente notificata a 52 indagati. Tra questi figurano anche Manganelli, 45 anni, all’epoca dei fatti comandante degli agenti in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, e Colucci, 53 anni, numero uno della penitenziaria a Secondigliano e del gruppo di supporto agli interventi che il 6 aprile 2020 fu incaricato di perquisire i detenuti. Prima davanti al gip, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, e poi davanti al Riesame, Manganelli ha tentato di giustificarsi sostenendo di non essere il più alto in grado all’epoca dei fatti e scaricando le responsabilità su Colucci. Quest’ultimo ha fatto altrettanto. Il Riesame, però, non ha creduto alla versione offerta da Manganelli né a quella di Colucci, col risultato che ora risultano confermate le misure cautelari emesse il 28 giugno scorso dal gip Enea nei confronti di tutti i funzionari della penitenziaria e dei sottufficiali con mansioni direttive in servizio a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. L’inchiesta avviata dalla Procura sammaritana sulla base delle denunce delle associazioni e del garante regionale dei detenuti, dunque, sembra reggere al primissimo vaglio. Toccherà ai giudici, comunque, accertare le eventuali responsabilità di agenti e funzionari che, fino a quel momento, non possono essere considerati colpevoli. Certo è che la recente visita della guardasigilli Marta Cartabia a Napoli e a Santa Maria Capua Vetere non ha archiviato quello che può essere definito a buon diritto il “caso Campania”. Nella regione, infatti, l’amministrazione della giustizia è ormai un evidente punto critico. Lo confermano i dati sul giudizio d’appello, che da queste parti durano fino a cinque anni, e quelli sugli errori giudiziari, col distretto partenopeo in cima alla classifica delle persone ingiustamente arrestate, prima ancora che i fatti di Santa Maria Capua Vetere. A tutto ciò si aggiungono vicende drammatiche come quella del giornalista Enzo Tortora, arrestato e processato per errore negli anni Ottanta, e dell’ex governatore Antonio Bassolino, capace di inanellare 19 assoluzioni al termine di altrettanti giudizi. Senza dimenticare l’opacità delle nomine al vertice di alcuni uffici giudiziari. No, la visita di Cartabia non basta: per invertire la rotta servono le riforme. Quelle vere.

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

PUGNO DI FERRO AL DAP. DOPO LA SOSPENSIONE DEL DIRETTORE DEL CARCERE DI TARANTO, REVOCATO INCARICO A S.MARIA CAPUA VETERE. Il Corriere del Giorno il 29 Luglio 2021. Avviato il procedimento di revoca dell’incarico nei confronti di Elisabetta Palmieri, direttrice della Casa Circondariale di Santa Maria Vetere “Francesco Uccella”, il carcere delle violenze ai detenuti. La motivazione alla base della revoca è ben diversa. Dopo la sospensione del direttore del carcere di Taranto Stefania Baldassari, accusata di avere troppe attenzioni per un boss tarantino in odore di associazione mafiosa, è stato avviato il procedimento di revoca dell’incarico nei confronti di Elisabetta Palmieri, direttrice della Casa Circondariale di Santa Maria Vetere “Francesco Uccella”, il carcere delle violenze ai detenuti, anche se la motivazione alla base della revoca è ben diversa. Da fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero di Giustizia si apprende che con provvedimento del 27 luglio 2021 firmato dal Direttore generale del personale del DAP, viene contestata alla Palmieri un’anomala condotta nell’avere consentito, venerdì 23 luglio, al suo compagno, Armando Schiavo, soggetto estraneo all’amministrazione, di presenziare alla visita in istituto della senatrice Cinzia Leone e di accompagnarla negli incontri con i detenuti. Qualche giorno fa è stata proprio la parlamentare del M5s, dopo una visita al carcere, a chiedere la sostituzione alla ministra della Giustizia Cartabia. La Leone ha spiegato che al termine della visita era stato riportato che l’accompagnatore ignoto era il suo autista, cosa che lei ha immediatamente smentito. Il suo racconto ha trovato conferma anche nella relazione che la garante dei detenuti della provincia di Caserta Emanuela Belcuore, testimone dell’episodio, ha inviato al Dap. “All’uscita dal carcere abbiamo comunicato i nostri dati e sul foglio in possesso dell’agente preposto,– racconta la Belcuore – la senatrice, oltre al suo nominativo, il mio e delle rispettive collaboratrici, legge ‘Armando Schiavo-Autista’. La stessa dice di non avere un’autista con lei e ne approfitta per chiedere chi fosse la figura che ci aveva accompagnato per metà percorso. Cala un silenzio imbarazzante ma la senatrice insistentemente riformula la domanda chiedendo spiegazioni in merito. Dopo un po’ una commissaria risponde che l’accompagnatore è il compagno della direttrice, ex rappresentante della polizia penitenziaria in pensione da qualche anno. Mentre siamo nel parcheggio per accingerci all’auto, la dottoressa Palmieri mi telefona volendo giustificare la presenza del compagno all’interno della struttura, dice che lo stesso è inquadrato in qualità di articolo 17, al chè io rispondo che avevano trascritto che era l’autista della senatrice, sbagliandosi”. In realtà da quanto si è appreso, il compagno della direttrice del carcere risulta autorizzato per finalità rieducative a frequentare esclusivamente il laboratorio di pasticceria all’interno del carcere, che opera nella sola giornata di martedì. Nel frattempo il Tribunale del Riesame di Napoli ha confermato la misura degli arresti domiciliari per Gaetano Manganelli, 45 anni, e Pasquale Colucci, 53 anni, ufficiali della Polizia penitenziaria accusati di essere tra gli organizzatori della perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020 diventata “un’orribile mattanza”, con decine dei detenuti picchiati e sottoposti a trattamenti ritenuti di tortura, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Manganelli all’epoca dei fatti era il comandante degli agenti penitenziari nell’istituto di pena casertano mentre Colucci era a capo della Polizia Penitenziaria al carcere napoletano di Secondigliano ed anche il comandante del “Gruppo di Supporto agli Interventi”, una specie di “squadre speciali” istituite durante la pandemia dall’allora provveditore regionale alle carceri Antonio Fullone (indagato e sospeso dal servizio) che vennero inviate per la perquisizione al carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’avvocato Giuseppe Stellato, legale di Manganelli, ha cercato di ridimensionare il ruolo avuto dal suo assistito durante i fatti dell’aprile 2020, puntando sulla ripartizione di competenze, secondo cui quel giorno non era Manganelli il più alto in grado, ma Colucci (difeso dagli avvocati Carlo De Benedictis e Domenico Scarpone); durante l’interrogatorio reso al Gip dopo l’arresto, Manganelli aveva detto a chiare lettere di non essere stato tra coloro che “hanno gestito, diretto e organizzato la perquisizione”, scaricando in pratica la responsabilità sugli altri funzionari presenti, ma il Tribunale di Riesame non ha creduto alla sua versione, decidendo di confermare i domiciliari tanto per lui che per il suo “antagonista” Colucci. I giudici hanno confermato gli arresti domiciliari anche per l’agente Angelo Iadicicco difeso anch’egli dall’ avvocato Giuseppe Stellato. Continua a reggere dunque, al Riesame, l’ipotesi d’accusa della Procura di Santa Maria Capua Vetere; per tutti i funzionari della penitenziaria presenti quel giorno e per i sottufficiali con mansioni direttive, sono state infatti confermate le misure cautelari emesse il 28 giugno scorso dal Gip Sergio Enea. Alcune scarcerazioni si sono avute per carenza di esigenze cautelari, e non per mancanza di gravi indizi 

La rivolta e la strage nel carcere di Attica. Strage di Attica: la storia della rivolta che portò alla morte di 29 detenuti. David Romoli su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Fu una strage, tra le più sanguinose nella storia degli Usa dopo la guerra civile. Fu una strage gratuita, facilmente evitabile. Nel 1971 rese il nome del carcere di Attica, vicino a Buffalo, nello Stato di New York, sinistramente famoso in tutto il mondo: uno di quegli eventi simbolo che segnarono gli anni roventi a cavallo tra i ‘60 e i ‘70 , come la strage di My Lai in Vietnam o quella della Kent State University. Nel pianeta carcere americano Attica era una delle piazze peggiori. Era uno dei penitenziari più sovrappopolati degli Usa: avrebbe dovuto ospitare 1200 detenuti, ce n’erano 2.243. Dal 1931 non era mai stato ristrutturato: caldissimo d’estate, gelido d’inverno. Era anche una delle prigioni con le regole più sadiche. Le condizioni igieniche erano disastrose, quelle sanitarie peggiori. I prigionieri restavano in cella tra le 14 e le 16 ore al giorno. La posta era regolarmente controllata e letta, le restrizioni sull’accesso ai libri draconiane, i colloqui si potevano svolgere solo con il vetro divisorio, la libertà religiosa negata nonostante la presenza di molti detenuti aderenti ai Black Muslims. Le punizioni e il ricorso all’isolamento erano frequenti, probabilmente in seguito a un mix di razzismo e di incompetenza da parte delle guardie carcerarie. Il 54% dei detenuti di Attica era afro-americano, il 9% latino. Le guardie invece erano tutte bianche ed erano state assunte senza alcuna preparazione, senza nessun addestramento che le mettesse in grado di governare un carcere con mezzi diversi dalla pura repressione. All’inizio dell’estate 1971 i detenuti presentarono una lista chiedendo 28 riforme. La reazione della direzione fu mandare in cella d’isolamento chiunque fosse trovato in possesso del manifesto e inasprire ulteriormente il regime carcerario. La situazione iniziò a precipitare dopo l’uccisione di George Jackson, il detenuto che era diventato leader e simbolo dell’intero movimento nelle carceri, il 21 agosto. Il giorno dopo i detenuti sfoggiarono un bracciale nero in segno di lutto e organizzarono uno sciopero della fame per protesta. Da quel momento la tensione continuò a montare giorno dopo giorno. Le guardie dichiaravano apertamente la loro paura di una rivolta, segnalavano preoccupate che per la prima volta la divisione razziale tra i prigionieri, che impediva un fronte comune ed era uno strumento di controllo essenziale, stava cedendo. La scintilla che provocò l’esplosione fu una rissa tra detenuti, l’8 settembre, in cui fu coinvolta e atterrata con un pugno una guardia. La sera le guardie provarono a portare in isolamento il detenuto che aveva colpito il collega. I detenuti dello stesso braccio reagirono, ci scappò un altro pugno che raggiunse una delle guardie, il responsabile fu segregato in cella. La mattina seguente, 9 settembre, i detenuti del braccio trovarono i cancelli chiusi. Si convinsero, erroneamente, che fossero state decise punizioni severe per i fatti della sera precedente. Si ribellarono. L’incendio si estese rapidamente. Con armi di fortuna i rivoltosi, 1281 detenuti su poco di 2.200, si impadronirono dell’intero carcere, poi ripiegarono mantenendo il controllo di circa metà dell’edificio, inclusa la stanza di controllo centrale, chiamata “Times Square”, e presero in ostaggio 39 guardie. Era inevitabile che nella fase iniziale della rivolta ci fossero delle violenze. Alcune guardie vennero picchiate: una di queste, William Quinn, fu precipitato dalla balaustra, morì in ospedale due giorni dopo. Tre detenuti bianchi, sospettati di essere spie della direzione, furono uccisi. Ma le violenze contro le guardie furono molto più contenute del prevedibile. Subito dopo la prima e caotica fase, gli stessi detenuti difesero gli ostaggi dai prigionieri più esagitati e organizzarono una squadra di sicurezza incaricata tra l’altro proprio di garantire l’incolumità degli ostaggi e degli osservatori esterni a cui i rivoltosi stessi avevano chiesto di seguire la vicenda: molti giornalisti, alcuni avvocati, leader politici neri come il Black Muslim Louis Farrakhan, che declinò l’invito, o il fondatore del Black Panther Party Bobby Seale. Attica, probabilmente la più famosa rivolta di un carcere nella storia, non fu una sollevazione caotica ed ebbra. Fu al contrario ordinata e ben organizzata. I detenuti garantirono la salvezza degli ostaggi. Elessero una commissione di cinque prigionieri incaricata di negoziare sulla base di un documento approvato da tutti i rivoltosi, The Attica Liberation Faction Manifesto of Demands, nel quale venivano avanzate 33 richieste, tra le quali il miglioramento del vitto, la libertà di culto, la possibilità di andare alle docce una volta al giorno, la fine delle violenze fisiche e degli abusi. Un giovane militante, Elliot “L.D.” Barkley, di appena 21 anni, diventò il portavoce pubblico dei detenuti ribelli. La sera stessa del 9 settembre lesse di fronte alle tv e alla stampa una dichiarazione che iniziava così: «Noi siamo uomini! Non siamo bestie e non intendiamo essere picchiati e trattati come se lo fossimo». La trattativa proseguì sino al 13 settembre. Il governatore dello Stato di New York, il miliardario repubblicano Nelson Rockefeller, nonostante le attese non si fece vedere. Molte richieste dei detenuti, 28 su 33, furono accolte: per un po’ sembrò che la vicenda, sulla quale era ormai concentrata l’attenzione non solo di tutta l’America ma del mondo, potesse concludersi positivamente. Invece due specifiche richieste bloccarono l’accordo: i detenuti volevano la rimozione del direttore della prigione e la garanzia di amnistia per i reati commessi durante la rivolta. Il negoziatore per lo Stato di New York, il responsabile del sistema carcerario Russell Oswald, rifiutò. I detenuti accettarono di ritirare la richiesta di dimissioni del direttore ma tennero duro sull’amnistia. Gli osservatori che di fatto gestivano la trattativa, in particolare l’avvocato William Kunstler, chiesero l’intervento diretto del governatore. Rockefeller respinse l’invito e nella notte tra il 12 e il 13 settembre, dopo essersi consultato con il presidente Nixon, disse a Oswald di ordinare l’attacco. Il coinvolgimento diretto del presidente nella decisione di sferrare l’attacco è rimasta nascosta sino a pochi anni fa, rivelata dalla giornalista Heather Ann Thompson nel suo libro Blood on the Water, definitiva ricostruzione dell’intera vicenda premiata nel 2016 col Pulitzer. Nixon voleva lanciare un messaggio «alla folla di Angela Davis». In privato, ma registrato su nastri emersi solo decenni dopo, Nixon commentò così la strage: «Penso che avrà un dannato effetto salutare sulle future rivolte nelle carceri, proprio come ha avuto un dannato effetto salutare la Kent State». Alla Kent State University, Ohio, 4 studenti erano stati uccisi dalla polizia, l’anno precedente, durante una manifestazione. Al mattino Oswald fece un ultimo tentativo di convincere i rivoltosi ad arrendersi, ma senza chiarire che si trattava appunto dell’ultima chance prima dell’attacco. Alle 9.46 di lunedì 13 settembre, fu ordinato alla polizia che circondava il carcere da quattro giorni di riconquistarlo. Sia Nixon che Rockefeller avevano messo nel conto la morte di alcuni ostaggi. I poliziotti incaricati di riconquistare Attica erano 550, ai quali fu detto di togliersi i numeri di identificazione. A questi si aggiunse un numero imprecisato di sceriffi e poliziotti di tutto lo Stato, molti con le loro armi personali, e le stesse guardie carcerarie assetate di vendetta. Molti fucili furono caricati con micidiali pallottole di diverso tipo, bandite dalla Convenzione di Ginevra. L’assalto fu lanciato con un pesantissimo lancio di fumogeni che cancellò ogni visuale. Gli assalitori aprirono il fuoco all’impazzata e alla cieca, nel fumo spesso. Furono uccisi 29 rivoltosi e 9 ostaggi. Un decimo ostaggio morì qualche giorno dopo in ospedale. I leader della rivolta, tra cui “L.D.” Barkley non furono però falciati nella prima sparatoria. Vennero uccisi a freddo, dopo essersi arresi. Tutti i detenuti furono selvaggiamente picchiati dopo la riconquista del carcere. Le autorità, governatore Rockefeller incluso, affermarono che le guardie perite erano state sgozzate dai rivoltosi. Meno di 24 ore dopo furono smentite dalle autopsie: tutte le guardie, eccetto quella uccisa nel primo giorno della rivolta, erano state colpite a morte dal “fuoco amico”. Le cause intentate dalle famiglie dei detenuti uccisi si prolungarono per decenni. Nel 2000 lo Stato concluse un accordo con un risarcimento collettivo di 8 mln di dollari. Le famiglie delle guardie uccise dovettero attendere fino 2005, prima di essere risarcite con 12 mln di dollari. La stessa Thompson ammette che per intero la verità su Attica non saprà mai. David Romoli

Da lastampa.it il 9 settembre 2021. Si sono concluse oggi per 120 persone le indagini preliminari sulle violenze andate in scena il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). L'inchiesta aveva portato lo scorso giugno a 52 misure cautelari, seguite dalla visita nel penitenziario casertano del premier Mario Draghi e del ministro della Giustizia Marta Cartabia. I reati contestati sono: tortura pluriaggravata ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico anche per induzione aggravato, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale, rivelazioni di segreti d'ufficio, omessa denuncia, e cooperazione nell'omicidio colposo ai danni di un detenuto di nazionalità algerina Hakimi Lamine. Tra gli indagati che rispondono di cooperazione in omicidio colposo figurano l'allora comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere Gaetano Manganelli, l'ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone (tuttora sospeso), e quegli agenti che erano nel reparto di isolamento. Per la Procura Hakimi sarebbe stato percosso violentemente dopo essere stato prelevato dalla cella e portato in quella di isolamento, quindi qui avrebbe assunto «in rapida successione e senza controllo sanitario un mix di farmaci, tra cui oppiacei, neurolettici e benzodiazepine» che ne avrebbero provocato dopo circa un mese la morte per un arresto cardiocircolatorio conseguente a un edema polmonare acuto. In una nota, la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha sottolineato che è in corso anche un altro procedimento per individuare agenti provenienti dagli altri istituti penitenziari presenti durante i pestaggi, ma sconosciuti ai detenuti e coperti da caschi e mascherina, difficili quindi da riconoscere.

La mossa della Procura. Torture in carcere, chiuse le indagini per 120 indagati a Santa Maria: c’è anche il caso di un detenuto morto dopo gli abusi. Redazione su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Chiuse le indagini sulle torture commesse nel carcere ‘Francesco Uccella’ di Santa Maria Capua Vetere dopo le rivolte dell’aprile 2020. La Procura sammaritana ha depositato oggi gli atti nei confronti di 120 persone, quasi tutti agenti della polizia penitenziaria, sottoposte ad indagini preliminari, apprestandosi così a chiedere il rinvio a giudizio. Gli indagati hanno 20 giorni per presentare memorie difensive. Pesantissimo l’elenco dei reati contestati a vario titolo: tortura ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti aggravati, lesioni personali aggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico anche per induzione, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale, rivelazioni di segreti d’ufficio, omessa denuncia. C’è inoltre la cooperazione nell’omicidio colposo ai danni di un detenuto algerino, Hakimi Lamine, morto in carcere 4 maggio dello scorso anno dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze. Tra gli indagati che rispondono dell’omicidio colposo vi sono l’allora comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere Gaetano Manganelli, l’ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone (ancora sospeso) e gli agenti che erano nel reparto di isolamento. L’indagine arrivata oggi a conclusione aveva portato il 28 giugno scorso all’esecuzione di 52 ordinanze di misura cautelare nei confronti di altrettante persone in servizio presso diversi uffici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Campania, principalmente presso la casa circondariale ‘Francesco Uccella’ di Santa Maria Capua Vetere. Di questi 8 sono finiti in carcere, 18 agli arresti domiciliari, 3 sono stati sottoposti all’obbligo di dimora e 23 sono stati sospesi dall’esercizio del pubblico ufficio tra i 5 e i 9 mesi. Il numero delle persone offese per la Procura è impressionante, ben 177, tutte all’epoca detenute nel carcere sammaritano. Il 6 aprile 2020 e nei giorni successivi sono stati commessi abusi, pestaggi, lesioni, maltrattamenti e comportamenti degradanti e disumani nei confronti di 41 detenuti, ma le indagini hanno mostrato anche maltrattamenti aggravati nei confronti di altri 26 detenuti e lesioni personali e volontarie per ulteriori 130. Tutti reati che per la Procura risultano aggravati dalla minorata difesa, dall’aver agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti la funzione pubblica, con l’uso di armi (i manganelli, ndr) e dell’aver concorso nei delitti un numero di persone di gran lunga superiore alle cinque unità. La stessa Procura, spiega in una nota il capo Maria Antonietta Troncone, sottolinea che “le misure cautelari disposte dal gip sono state, per la quasi totalità, confermate dal tribunale per il Riesame di Napoli, venendo così validata la sussunzione delle condotte rispetto ai delitti contestati nonché la riferibilità soggettiva delle azioni stesse agli indagati, destinata delle misure. Sedici misure cautelare sono state confermate, 6 sono state sostituite in forma gradata, 2 ordinanze sono state annullate per carenza delle esigenze cautelari, e solo una è stata annullata. Gli altri ricorsi sono stati dichiarati inammissibili”. La Procura  Santa Maria Capua Vetere ha anche sottolineato che è in corso un altro procedimento per individuare agenti provenienti dagli altri istituti penitenziari presenti durante i pestaggi, ma sconosciuti ai detenuti e coperti da caschi e mascherina, difficili quindi da riconoscere.

L'inchiesta sui fatti di Santa Maria Capua Vetere. Pestaggi in carcere, spunta anche un omicidio: 120 agenti rischiano il processo. Angela Stella su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Sono state chiuse le indagini preliminari sulle violenze commesse da agenti della polizia penitenziaria ai danni di diversi detenuti il 6 aprile del 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lo ha reso noto ieri la stessa Procura sammaritana con un ‘avviso importante’ sul proprio sito, dove ha pubblicato le 152 pagine di avviso di conclusione indagini a carico di 120 persone, tra poliziotti della Penitenziaria e funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria accusati a vario titolo di accuse gravissime: reati di tortura, lesioni, abuso d’autorità, falso in atto pubblico. La Procura contesta anche l’omicidio colposo a dodici indagati in relazione alla morte del detenuto algerino Hakimi Lamine, deceduto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze. Tra gli indagati che rispondono di cooperazione in omicidio colposo figurano l’allora comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere Gaetano Manganelli, l’ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone (tuttora sospeso), e quegli agenti che erano nel reparto di isolamento. Nella conferenza stampa del 28 giugno scorso, giorno in cui furono eseguite 52 misure cautelari per gli episodi dell’aprile 2020, gli inquirenti spiegarono, in relazione alla morte di Lamine, di aver contestato il delitto di «morte come conseguenza di altro reato» ad alcuni indagati, ma che il Gip Sergio Enea aveva bocciato tale impostazione ritenendo, in base agli elementi raccolti fino a quel momento, che la morte dell’algerino andasse classificata come suicidio; questa statuizione del Gip è stata però impugnata dalla Procura, che ha quindi aggiunto un’ulteriore grave contestazione al compendio accusatorio già molto rilevante. Per la Procura Hakimi sarebbe stato percosso violentemente dopo essere stato prelevato dalla cella e portato in quella di isolamento, quindi qui avrebbe assunto «in rapida successione e senza controllo sanitario un mix di farmaci, tra cui oppiacei, neurolettici e benzodiazepine» che ne avrebbero provocato dopo circa un mese la morte per un arresto cardiocircolatorio conseguente a un edema polmonare acuto. Per l’avvocato Leonardo Pompili che assiste un testimone delle violenze ma imputato in altro processo per ipotesi di resistenza ad agenti della penitenziaria nelle rivolte di giugno 2020, «il mio assistito ha sempre sostenuto che sussista una connessione fra le violenze subite e la morte di Hakimi Lamine, con il quale era legato da un’amicizia nota anche agli altri detenuti. Ipotesi che pare ora confermata dal comunicato della Procura. Il 2 novembre inizierà il processo contro i tre detenuti che hanno assistito alle violenze ma che paradossalmente sono accusati a loro volta. Fra i testimoni della Procura risultano alcuni nomi degli agenti destinatari del provvedimento di chiusura indagine di oggi (ieri, ndr)». Degli indagati, due sono attualmente nel carcere militare campano, sedici ai domiciliari. Adesso i 120 potranno accedere al fascicolo ed eventualmente preparare delle memorie. Seguirà poi la richiesta di rinvio a giudizio. Nello stesso giorno la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, partecipando in collegamento alla Mostra del cinema di Venezia alla presentazione del docufilm La Nave sul carcere di San Vittore, ha annunciato la costituzione di un gruppo di lavoro sulle carceri: «In giornata firmerò per la costituzione di un gruppo di lavoro che non sarà messo all’opera per ripensare le grandi teorie sul carcere ma per affrontare concretamente singoli specifici problemi, anche a legislazione invariata. Si comincia a capire l’importanza che il carcere ha nella società, ci sono sensibilità diverse, anche pregiudizi dovuti alla non conoscenza. Bisogna andare a vedere. C’è molto lavoro da fare – ha ammesso la Ministra – non credo che potremo fare miracoli è una realtà bisognosa nelle sue condizioni più varie, anche materiali. C’è un bisogno immane, non aspettatevi miracoli ma un cammino, in cui io avverto la disponibilità di tanti». E poi una considerazione, più volte espressa dalla Guardasigilli, sulla pena come pene: «La pena se deve esistere deve esistere al plurale, con la reale possibilità di una pluralità di sanzioni. A questo stiamo lavorando perché, dove è possibile, si possa evitare anche solo l’assaggio del carcere, nella riforma c’è questa strada delle sanzioni sostitutive per evitare questo passaggio». In realtà molte realtà sensibili al tema del carcere hanno chiesto un decreto di urgenza al Governo perché l’insofferenza nell’intera comunità penitenziaria  sta aumentando, soprattutto dopo una estate difficile che ha reso la vivibilità in cella estremamente complicata e poco dignitosa. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, ha commentato così l’iniziativa della Ministra: «attendiamo di saperne di più e soprattutto di capire come e di cosa tale gruppo di lavoro dovrà concretamente occuparsi e, soprattutto, in quali tempi. Le carceri, infatti, sono un malato allo stato terminale e non c’è più molto tempo per gli studi e le teorizzazioni, ma servono interventi tangibili e immediati». Angela Stella

Una storia incredibile. Protesta telefonicamente per le torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, finisce indagata. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Agosto 2021. Nel Cile di Pinochet era vietato andare a protestare davanti alle carceri dove avvenivano le torture: l’intralcio alla giustizia prevedeva l’arresto e la conseguente incarcerazione, dando vita al ciclo continuo dell’afflizione. Alla professoressa I.B. (usiamo le inziali, ha chiesto di non pubblicare il nome) in questi giorni sta succedendo qualcosa di non dissimile. Genovese, docente di ruolo di materie letterarie, I.B. è sensibile alla condizione in cui vivono i detenuti tanto da proporsi come insegnante in un carcere. Quando ha visto in televisione le immagini agghiaccianti dei pestaggi e delle violenze sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere, non ci ha dormito su. Ha cercato il numero della casa circondariale e ha telefonato per esprimere il suo sdegno. Si è qualificata come insegnante, ha declinato le sue generalità e detto che queste cose sono incivili. Andando dritto per dritto, punto per punto. E solo quando l’agente penitenziario le ha risposto irridendola – ci viene detto: «Venga lei a passare qualche ora con questi» – ha risposto a sua volta per le rime, dando vita a un breve diverbio. «La saluto, non ho tempo da perdere», l’avrebbe liquidata infine il centralino del carcere. «La saluto», ha attaccato lei. Salvo poi vedersi arrivare, qualche giorno fa, i Carabinieri a casa. Le notificano un mandato a comparire in caserma, per l’indomani. È lei stessa a raccontarlo al Riformista: «Non ho mai preso una multa in vita mia, mai un ritardo sulle tasse, mai una infrazione. Ero agitata, incapace di dare un senso a quest’obbligo di comparizione». La mattina dopo il comandante della stazione dell’arma le notifica un accertamento: è suo questo numero di telefono? Riconosce di averlo usato per fare una telefonata in quel giorno di fine giugno? Lei conferma tutto: «Perché, non si può fare una telefonata di protesta?», ha strabuzzato gli occhi. «Riceverà gli atti del procedimento», le ha detto l’ufficiale. Ieri I.B. ha contattato un avvocato penalista: si configura l’oltraggio a pubblico ufficiale. «Io non sono una persona volgare, non trascendo mai», specifica l’insegnante, serafica. «Ho detto di essere indignata per la violenza inaudita usata sui carcerati, per quei fatti estremamente gravi in un Paese civile, e peraltro mi sono qualificata con nome e cognome, mentre dall’altra parte non ho mai capito con chi stavo parlando. Pubblico ufficiale? Per quanto sapevo era un centralinista, tanto che al telefono avevo detto di non avercela con lui ma con il comportamento di quegli agenti». Adesso è in attesa di ricevere gli atti del procedimento e di capire meglio le fattispecie di reato. Per ora è arrivata la convocazione in caserma, con l’effetto di averle messo una gran paura addosso e l’incertezza per il seguito della vicenda. Che ha dell’incredibile, se andiamo a rileggere i verbali dell’informativa resa da Marta Cartabia, in aula: la Ministra della Giustizia ha usato le stesse parole che ci vengono riferite dalla professoressa. E non ha usato solo parole. Le unità di personale raggiunte complessivamente da misure interdittive sono state 52. Tra queste vi sono due agenti di Polizia Penitenziaria cessati dal servizio per i quali non sono stati adottati al momento provvedimenti (basta andare in pensione per uscire dai radar?). Per le restanti 50 persone – tra cui il Provveditore Regionale – sono state emesse misure interdittive tra cui sette misure cautelari applicative della custodia in carcere; 17 misure cautelari applicative degli arresti domiciliari; tre misure cautelari coercitive dell’obbligo di dimora nel comune di residenza nei confronti di tre poliziotti tutti in servizio presso l’istituto sammaritano; 23 misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio ricoperto per un periodo variabile dai 5 ai 9 mesi. Tutti immediatamente sospesi dal servizio. Le 3 unità sottoposte all’obbligo di dimora sono state sospese in via cautelare secondo la legislazione vigente (art. 7 comma 2 del d.lgs. 449/92). Tra questi provvedimenti va ricompreso il provvedimento di sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio rivestito per la durata di mesi otto, per i delitti di favoreggiamento, depistaggio e falso ideologico aggravato, a firma della Ministra della Giustizia Marta Cartabia, adottato nei confronti del dirigente generale Antonio Fullone, Provveditore regionale per la Campania. È stata rimossa martedì scorso anche Elisabetta Palmieri, la direttrice della casa circondariale, che però era assente per malattia nei giorni dei pestaggi. Ufficialmente la direttrice è stata rimossa con la motivazione di “anomala condotta” perché venerdì 23 luglio aveva consentito al suo compagno, ex funzionario di polizia in pensione e ora volontario nel carcere, di accompagnare la senatrice del Movimento 5 Stelle Cinzia Leone durante una visita ispettiva all’interno del carcere. Tutte le misure sono intervenute nell’ultimo mese, successivamente alla telefonata di protesta della docente genovese. Forse oggi, davanti alla risposta dello Stato con la Ministra Cartabia in prima linea, non la rifarebbe. Ma protestare con civiltà contro l’uso della violenza è ancora possibile o è stato introdotto un reato nuovo, di lesa maestà carceraria?

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

(ANSA il 14 novembre 2021) - La Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) per la vicenda delle violenze in carcere ai danni dei detenuti ha chiesto il rinvio a giudizio per 108 tra agenti e funzionari dell'amministrazione penitenziaria. Per 12 indagati ha chiesto l'archiviazione ma è probabile che ai 12 venga comunque notificato un decreto penale di condanna a pena pecuniaria per non aver, in qualità di pubblici ufficiali, denunciato quello che stava accadendo in carcere. L'udienza preliminare si terrà mercoledì 15 dicembre (9.30). Al centro della vicenda le violenze commesse da agenti della polizia penitenziaria nel carcere sammaritano il 6 aprile 2020. Tra coloro che rischiano il processo vi sono Pasquale Colucci, comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del centro penitenziario di Secondigliano e comandante del gruppo di 'Supporto agli interventi', tuttora agli arresti domiciliari, l'ex capo delle carceri campane Antonio Fullone, interdetto dal servizio, Tiziana Perillo, comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti di Avellino, Nunzia Di Donato, comandante del nucleo operativo 'Traduzioni e piantonamenti' di Santa Maria Capua Vetere; Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del reparto Nilo (ai domiciliari), l'ex comandante della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere Gaetano Manganelli (ai domiciliari). I reati contestati a vario titolo sono quelli di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell'omicidio colposo di un detenuto algerino. Per la morte del detenuto extracomunitario, tra le vittime delle violenze, l'accusa riguarda 12 indagati. L'udienza è stata fissata dal gip Pasquale D'Angelo nell'aula bunker dello stesso carcere.

LA PROCURA DI SANTA MARIA CAPUA VETERE HA CHIESTO IL RINVIO A GIUDIZIO PER 108 TRA AGENTI E FUNZIONARI DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA. Il Corriere del Giorno il 14 Novembre 2021. L’udienza preliminare è stata fissata dal gip Pasquale D’Angelo nell’aula bunker dello stesso carcere mercoledì 15 dicembre (9.30). I reati contestati a vario titolo sono quelli di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo di un detenuto algerino. La Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha chiesto il rinvio a giudizio per 108 tra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria per la vicenda delle violenze in carcere ai danni dei detenuti . Per 12 indagati ha chiesto l’archiviazione ma è probabile che ai 12 venga comunque notificato un decreto penale di condanna a pena pecuniaria per non aver, in qualità di pubblici ufficiali, denunciato quello che stava accadendo in carcere. L’udienza preliminare si terrà mercoledì 15 dicembre (9.30). Al centro della vicenda le violenze commesse da agenti della polizia penitenziaria nel carcere lo scorso 6 aprile 2020. I reati contestati a vario titolo sono quelli di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo di un detenuto algerino. Per la morte del detenuto extracomunitario, tra le vittime delle violenze, l’accusa riguarda 12 indagati. L’udienza preliminare è stata fissata dal gip Pasquale D’Angelo nell’aula bunker dello stesso carcere mercoledì 15 dicembre (9.30). Tra coloro che rischiano il processo vi sono Pasquale Colucci, comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del centro penitenziario di Secondigliano e comandante del gruppo di ‘Supporto agli interventi’, tuttora agli arresti domiciliari, l’ex capo delle carceri campane Antonio Fullone, interdetto dal servizio, Tiziana Perillo, comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti di Avellino, Nunzia Di Donato, comandante del nucleo operativo ‘Traduzioni e piantonamenti’ di Santa Maria Capua Vetere; Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del reparto Nilo (ai domiciliari), Gaetano Manganelli (ai domiciliari) ex comandante della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Accusati di tortura, lesioni e abuso di autorità per la repressione della rivolta. Violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, rinvio a giudizio per 108 tra agenti e funzionari. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Novembre 2021. Quella che si perpetrò nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 fu una “orribile mattanza”. Dopo le prime indagini, la Procura sammaritana ha chiesto il rinvio a giudizio per 108 persone, tra a genti e funzionari dell’amministrazione delle carceri. Gravi per loro le accuse a vario titolo: tortura, lesioni, abuso di autorità e falso in atto pubblico. Dodici agenti dovranno rispondere anche per la cooperazione nell’omicidio colposo di un detenuto algerino, Lakimi Hamine, deceduto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze. Per gli investigatori Lakimi, detenuto fragile, dopo aver subito le botte e poi messo in isolamento dove avrebbe assunto “in rapida successione e senza controllo sanitario un mix di farmaci, tra cui oppiacei, neurolettici e benzodiazepine”. Sarebbe stato questo a causare un mese dopo la morte per arresto cardiocircolatorio conseguente a edema polmonare acuto. L’udienza per questo caso è stata fissata dal gip Pasquale D’Angelo nell’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sono invece 12 gli indagati per i quali la procura ha chiesto l’archiviazione. Questi ultimi potrebbero essere condannati a una pena pecuniaria perché in quanto pubblici ufficiali non avrebbero denunciato le violenze in carcere. L’udienza preliminare si terrà il 15 dicembre. Un’indagine che si avvale delle testimonianze raccolte dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza interne che hanno ripreso quei momenti definiti “un’orribile mattanza” dal gip Sergio Enea che il 28 giugno scorso emise 52 misure cautelari, spedendo otto agenti in carcere, 18 ai domiciliari, e disponendo tre obblighi di dimora e 23 misure di sospensione dall’attività lavorativa per poliziotti e funzionari. Le telecamere ripresero i detenuti mentre venivano costretti a passare in un corridoio formato da agenti penitenziari con manganelli e caschi, subendo calci, pugni e manganellate; anche un detenuto sulla sedia a rotelle fu colpito mentre altri furono letteralmente trascinati per le scale e presi a calci. Condotte che per la Procura e il gip hanno integrato il reato, introdotto nel 2017, di tortura, mai contestato a così tanti pubblici funzionari.

Dopo il 6 aprile – ha accertato la Procura – iniziò inoltre l’attività di depistaggio da parte di agenti e funzionari con certificati medici falsificati per dimostrare che gli agenti avevano subito violenze dai detenuti; gli indagati provarono invano anche a manomettere le telecamere. Nel frattempo comunque, specie dopo l’avviso di conclusione indagini, qualche agente ha iniziato a collaborare permettendo alla Procura di “arricchire” l’altro filone d’indagine che mira ad indentificare quei quasi cento agenti rimasti finora senza un’identità, visto che dei 300 poliziotti intervenuti il 6 aprile 2020, oltre un terzo indossava caschi e mascherine e non è quindi mai stato individuato.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il caso del carcere casertano. Torture in carcere, si va verso il processo tra omertà e polemiche. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Novembre 2021. C’è la data dell’udienza preliminare: 15 dicembre. E ci sono i numeri di un processo che si annuncia lungo e complesso. Per mole di atti, per numero di imputati e parti lese, per quantità di silenzi complici o indifferenti, per numero di persone ancora da identificare. Ci sono ancora frammenti da ricostruire per definire quel che accadde il 6 aprile 2020 all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. La notizia della richiesta di rinvio a giudizio firmata dalla Procura sammaritana all’indirizzo di 108 fra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria ha messo una virgola, non un punto. Il 15 dicembre si celebrerà l’udienza preliminare, primo giro di boa dell’inchiesta sui pestaggi e le umiliazioni, i calci e le botte scatenate contro un centinaio di detenuti, i reclusi del reparto Nilo, che andavano puniti perché la sera prima, in pochi, osarono alzare la voce e qualche materasso dalle brande per chiedere tamponi e mascherine temendo la pandemia Covid. Tortura e lesioni sono tra i principali capi di imputazione che saranno al vaglio del giudice dell’udienza preliminare il mese prossimo. Ci sono poi, a vario titolo, i reati di abuso di autorità, depistaggio, falso in atto pubblico. Per dodici c’è anche l’accusa di omicidio colposo di Lamine Hakimi, l’algerino di 28 anni che morì un mese dopo il pestaggio, da solo in una cella. facendo un rapido conto si preannuncia un processo dai grandi numeri, il primo maxi processo sulle torture in un carcere: più di cento imputati, altrettanti parti lese, e poi testimoni. Si arriverà a una sentenza nei termini? Toccherà seguire un ritmo serrato. Intanto la Procura di Santa Maria Capua Vetere non si ferma. Il 26 novembre prossimo, davanti al Tribunale del Riesame di Napoli, i pm torneranno a chiedere la misura cautelare o una misura più severa per i 45 fra agenti e funzionari sotto accusa “graziati” dal gip. Sono 15 richieste di misure in carcere e 30 ai domiciliari. Nell’elenco dei possibili destinatari ci sono comandanti della penitenziaria che guidarono la spedizione all’interno del carcere e l’ex provveditore regionale Antonio Fullone, raggiunto a giugno dalla misura interdittiva della sospensione dall’incarico per sei mesi.

C’è poi ancora in corso il filone per individuare nomi e volti degli agenti ripresi dalle telecamere di sorveglianza durante la mattanza ma ancora sconosciuti agli inquirenti (sarebbero un centinaio, se non di più). «Ci sono stati troppi silenzi complici ai vertici alti. Penso alla politica, al Dipartimento, al Ministero della Giustizia: come facevano a non sapere?» tuona Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, tra i primi a raccogliere le drammatiche testimonianze dei detenuti picchiati ad aprile 2020 e a sottoporle alla Procura. «Contro di me – racconta – c’è stata una virulenta campagna di delegittimazione. Ancora mi indigna il fatto che dei 375 agenti entrati nel carcere quel giorno, soltanto uno si frappose tra i colleghi e i detenuti. Per non parlare del numero delle richieste di rinvio a giudizio: molto limitato». Molti agenti avevano il volto coperto dal casco. «Perché non mettiamo i numeri identificativi sui caschi? – propone il garante – Così se si consuma un reato gli inquirenti sanno chi è responsabile. Abbiamo visto consumare un reato, una tortura e non riusciamo a risalire all’autore?». I sindacati della polizia penitenziaria difendono il corpo e i tanti colleghi: «Chi ha sbagliato paghi ma tutto quello che si è detto su questi poliziotti è esagerato», sostiene il Sippe. Eppure, le scene dei pestaggi sono state immortalate dai video delle telecamere interne al carcere. L’Uspp punta invece l’attenzione sulla «fragilità del sistema penitenziario nella gestione delle criticità che giornalmente si verificano nelle strutture carcerarie» e chiede body cam in dotazione al personale penitenziario e «modifiche al modello custodiale aperto».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L'udienza sui pestaggi. Calci, pugni e torture in carcere Antigone e garanti: “Noi parti civili”. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. Centootto imputati fra poliziotti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria, circa duecento avvocati del collegio di difesa più un centinaio quelli delle vittime, con garante campano Samuele Ciambriello e associazione Antigone tre le parti civili perché «è una battaglia di civiltà tesa a restituire al sistema penitenziario la sua dignità, anche in nome di tutte le migliaia di operatori penitenziari che con grandi sacrifici, quotidianamente, operano nelle carceri del nostro paese» sottolinea il garante.

Inoltre, 43 faldoni, centinaia di chat e intercettazioni, capi di imputazione che vanno dalle lesioni all’abuso di autorità, dal falso in atto pubblico alla cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine, morto in cella a un mese dalle percosse. E infine un’accusa, tortura, che per la prima volta viene contestata in un procedimento che riguarda il mondo penitenziario e della quale saranno chiamati a rispondere circa cinquanta agenti. Sono questi i numeri del processo sui pestaggi del 6 aprile 2020, «l’orribile mattanza» come la definì il gip che firmò le misure cautelari. Si comincia questa mattina con l’udienza preliminare davanti al Pasquale D’Angelo. Aula bunker del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, è qui che si terrà il maxiprocesso sulle violenze subite dai detenuti del reparto Nilo del carcere sammaritano. Il presidente del Tribunale, Gabriella Casella, assicura «che tutto è pronto».

L’aula, di recente ristrutturata, potrebbe teoricamente ospitare tutti i 108 imputati. Di questi, solo venti si trovano ancora agli arresti domiciliari e oggi il gup D’Angelo deciderà se accogliere o meno la richiesta di proroga della loro misura cautelare avanzata dall’aggiunto Alessandro Milita e dai sostituti Daniela Pannone e Alessandra Pinto. Era il 28 giugno quando l’inchiesta arrivò a una svolta, ci furono i primi arresti e 23 misure di sospensione dal lavoro per poliziotti e funzionari, incluso l’allora capo del Dap in Campania, Antonio Fullone, tuttora sospeso dal servizio. Le telecamere interne al carcere ripresero i detenuti del reparto Nilo mentre venivano costretti a uscire dalle celle e imboccare corridoi di agenti in assetto antisommossa e pronti a picchiarli con calci, pugni e manganellate al loro passaggio. Non fu risparmiato nemmeno un detenuto sulla sedia a rotelle. Furono quattro ore di inferno.

Dopo la mattanza, molti dei picchiati furono messi in isolamento nel reparto Danubio ad aspettare che andassero via i segni delle percosse. Lakimi Hamine, un ventenne algerino con problemi psichici, da quell’isolamento uscì morto il 4 maggio, quasi un mese dopo i pestaggi: per la sua morte dovranno rispondere in dodici, fra funzionari, agenti e medici. Nella ricostruzione accusatoria, da domani al vaglio del giudice preliminare che dovrà decidere se e per chi disporre il rinvio a giudizio, c’è anche spazio per accuse relative a tentativi di depistaggio con cui alcuni agenti e funzionari avrebbero provato a falsificare certificati medici e tenere nascosta la mattanza di quel 6 aprile. Intanto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere la tensione continua a essere alta, e non solo perché si è alla vigilia dell’udienza preliminare. Da giorni c’è un focolaio Covid, 61 contagiati, e tra i detenuti è sempre più diffusa la paura.

L’altra sera nel reparto Tevere ci sono state tensioni alla notizia di un nuovo detenuto positivo e due agenti sono rimasti feriti. Il sindacato della polizia penitenziaria Sappe denuncia che dopo le violenze del 6 aprile 2020 nulla è cambiato, anzi la situazione è anche peggiorata. Il sovraffollamento continua a essere un grande problema, e in particolare nel carcere di Santa Maria Capua Vetere gli arresti e le sospensioni, dovute all’inchiesta sui pestaggi di un anno e mezzo fa, hanno dimezzato il numero già insufficiente di personale in servizio, e la penuria di educatori, psicologi e assistenti sociali sta avendo conseguenze ancora più gravi ora, con l’emergenza Covid in atto.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il ministero di Giustizia chiede di essere parte civile. Mattanza in carcere, processo al via e i sindacati di polizia penitenziaria diffondono fake: “Nessuna sommossa”. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. Oltre trecento nomi, tra imputati, avvocati e parti lese. Per fare l’appello ci sono volute due ore e più. E poi la verifica delle notifiche, le eccezioni per quelle non andate a buon fine. E ancora, le costituzioni di parte civile, i primi stralci, le istanze dei difensori per chiedere termini e verificare gli atti della costituzione delle parti civili. Insomma, l’udienza preliminare sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è cominciata ieri nel caos dei grandi numeri che la caratterizzano.

Centootto imputati, duecento avvocati, centosettantotto parti lese. Nella storia giudiziaria più recente si ricorda solo il processo Spartacus sulla camorra casertana con simili numeri. Sicuramente, però, questo sui pestaggi in carcere è unico per quel che riguarda le accuse. È infatti la prima volta che si contesta il reato di tortura, introdotto nel nostro codice penale dal 2017. Le altre accuse vanno dall’abuso di autorità alle lesioni, falso in atto pubblico fino alla cooperazione, contestata a dodici degli imputati, nell’omicidio di Lakimi Hamine, il detenuto algerino morto in cella il 4 maggio 2020 a un mese dai pestaggi. La mattanza ci fu la sera del 6 aprile 2020.

«Una mattanza di Stato» l’ha definita il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, che ieri era nell’aula bunker di Santa Maria Capua Vetere, con il suo avvocato Francesco Piccirillo, per chiedere di costituirsi parte civile. «Noi – sottolinea – chiediamo solo giustizia e verità, i processi servono a questo. Ringrazio il ministro Cartabia e il premier Draghi che quando in luglio vennero a Santa Maria Capua Vetere dissero che lo Stato non avrebbe dimenticato». Ieri all’udienza preliminare, al termine della quale bisognerà decidere sul rinvio a giudizio chiesto dalla Procura, era presente anche il Ministero della Giustizia che ha chiesto di costituirsi parte civile. Singolare circostanza: il Ministero potrebbe essere chiamato anche a rispondere come responsabile civile in questo processo. Per il resto, l’udienza è stata aggiornata all’11 gennaio per tutti gli imputati e al 18 successivo per i tre stralciati a causa di difetti di notifica. Cinquantasei fra i detenuti che il 6 aprile 2020 subirono i pestaggi hanno chiesto di costituirsi parte civile.

La richiesta è stata avanzata, oltre che dal garante campano e da quello nazionale, anche da Antigone, Il Carcere possibile, e associazioni che operano in difesa dei diritti dei detenuti. Le due aule bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere erano piene ieri. L’udienza si è svolta collegando telematicamente le due aule in modo da accogliere l’insolita e numerosissima platea. E, singolare coincidenza anche questa, l’udienza preliminare si è aperta a pochi metri dal luogo dove sono avvenuti i pestaggi al centro delle accuse. All’esterno dell’aula bunker c’era anche una piccola rappresentanza dei sindacati di polizia che chiedono di dotare gli agenti di webcam sulla divisa. E proprio tra sindacati e garanti si è consumata l’ultima polemica.

Perché se l’altro giorno i sindacati della penitenziaria avevano diffuso la notizia di proteste nel carcere sammaritano a causa di nuovi contagi, il garante campano Ciambriello e la garante di Caserta Emanuela Belcuore lo hanno smentito. «In mattinata siamo stati nel padiglione Tevere per verificare cosa fosse accaduto, il reparto ospita 132 detenuti. Abbiamo appurato che non c’è stata alcuna sommossa: quattro detenuti hanno provocato danni alla struttura, tre di loro subito dopo sono rientrati in cella, mentre uno di loro, con problemi psichici, ha continuato a protestare per l’isolamento sanitario e ha aggredito due agenti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Santa Maria Capua Vetere pestaggi verificati anche prima del 6 aprile 2020. Il 15 dicembre si svolgerà l'udienza preliminare per le violenze con 120 indagati, che potrebbero aumentare, e 177 vittime. Tra i soggetti offesi l’associazione Antigone, il Garante nazionale e “Il carcere possibile Onlus”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 19 novembre 2021. Il 15 dicembre si svolgerà l’udienza preliminare per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. In aula ci sarà anche l’associazione Antigone come parte offesa e chiederà di costituirsi parte civile. Com’è noto, il 9 settembre scorso è arrivata la chiusura delle indagini da parte della Procura della Repubblica, notificata a 120 tra agenti, funzionari di Polizia Penitenziaria e dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria. L’atto depositato inserisce l’associazione Antigone tra i soggetti offesi, assieme al Garante nazionale delle persone private della libertà e a “Il carcere possibile Onlus”. Era stata proprio Antigone a presentare il 20 aprile, a pochi giorni dagli eventi, un esposto in Procura nel quale denunciava quanto svariati famigliari di persone ristrette a Santa Maria Capua Vetere avevano raccontato agli avvocati dell’associazione, con ricostruzioni tutte coerenti tra di loro e dalle quali emergeva la drammatica portata dell’operazione punitiva. Contestualmente, Antigone aveva avvisato gli allora vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Lo scorso giugno ben 52 persone, tra le quali il provveditore all’Amministrazione Penitenziaria della Campania, erano stati raggiunti da misure cautelari. L’atto di chiusura delle indagini è ingente per mole e contenuti. Sono 176 pagine, nelle quali si trovano gli elenchi delle persone indagate e delle vittime. Le prime sono 120, cui devono aggiungersi tutti coloro che ancora non sono stati identificati a causa delle protezioni facciali che si possono vedere nel video diffuso nei mesi scorsi dalla stampa. Le seconde sono 177. Numeri che sono il segno dell’enormità dell’operazione, fatta passare come un ripristino dell’ordine ma in realtà avvenuta quando la pacifica rivolta del giorno precedente, nella quale i detenuti chiedevano mascherine per proteggersi dal Covid, era già del tutto rientrata. L’associazione Antigone, scorrendo le pagine dell’atto, scopre che comportamenti violenti si erano verificati in quel carcere già «circa 15/10 giorni prima del 6 aprile», quando «a seguito di una lite avvenuta tra due detenuti ristretti presso la sesta sezione del Reparto Nilo, 50 agenti circa della polizia penitenziaria, muniti di scudi e manganelli (…), sopravvenivano e picchiavano indistintamente i detenuti», e in particolare un uomo «mentre questi cercava di proteggere un detenuto più anziano». Le accuse: dall’abuso di autorità, al falso, al depistaggio, alla cooperazione in omicidio colposo, alle lesioni, alla tortura. Il documento si divide in 85 capi, ciascuno dei quali riguarda — in maniera intrecciata e sovrapposta — alcune delle persone indagate e si riferisce a specifiche fattispecie di reato, dall’abuso di autorità, al falso, al depistaggio, alla cooperazione in omicidio colposo, alle lesioni, alla tortura. Un capo di imputazione, quest’ultimo, già più volte utilizzato dai magistrati dal 2017, anno di entrata in vigore della legge che lo ha introdotto nel codice penale italiano, a oggi. Si legge nel documento: «…con una pluralità di violenze, minacce gravi ed azioni crudeli, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse, degradanti ed inumane, prolungatesi per circa quattro ore del giorno 6 aprile 2020, consistite in percosse, pestaggi, lesioni — attuate con colpi di manganello, calci schiaffi, pugni e ginocchiate, costrizioni ad inginocchiamento e prostrazione, induzione a rimanere in piedi per un tempo prolungato, faccia al muro, ovvero inginocchiati al muro — e connotate da imposizione di condotte umilianti (quali, ad esempio, l’obbligo della rasatura di barba e capelli)»

Indaga la procura. La tragedia di Francesco Palumbo, stroncato da una setticemia. La figlia: “Ho visto le sue sofferenze aumentare ogni giorno”. Viviana Lanza su il Riformista il 4 Agosto 2021. Sarà la magistratura a indagare sulla morte di Francesco Palumbo, detenuto del carcere di Secondigliano spirato in ospedale il 30 giugno scorso. La figlia ventunenne dell’uomo ha presentato un esposto alla Procura di Napoli per sapere se la condizione di detenuto del padre abbia o meno rallentato i tempi della diagnosi e della terapia della sua malattia, determinandone la morte. Francesco Palumbo, 55 anni, era in carcere da maggio 2013, stava scontando un cumulo di pene per un’estorsione e traffico di droga e tra poco più di un anno sarebbe tornato libero. In carcere stava seguendo un percorso di rieducazione, aveva conseguito il diploma, partecipato a corsi di teatro e nell’ultimo anno si era ammalato. Il decesso sembra sia stato causato da una setticemia dovuta all’infezione della massa che gli ostruiva la laringe rendendo sempre più difficile per lui parlare, mangiare, persino respirare. «Ho visto le sue sofferenze aumentare di giorno in giorno», racconta la figlia nella denuncia in cui chiede ai magistrati di fare chiarezza su quanto si sia fatto nell’ultimo anno per diagnosticare e curare la malattia del padre, tenuto in carcere nonostante un quadro clinico che andava peggiorando. Palumbo aveva scoperto di avere una massa a livello della laringe più di un anno fa e la tac, eseguita il 2 aprile 2020, aveva confermato la necessità di ulteriori esami, in particolare di una fibrolaringoscopia che fu fatta soltanto il 19 maggio 2021, poche settimane prima che la salute di Palumbo precipitasse in maniera irreversibile. Nel frattempo, sempre secondo la ricostruzione esposta nella denuncia dei familiari del detenuto, il 30 ottobre 2020 il detenuto si era sottoposto a una seconda tac che aveva evidenziato una sensibile crescita della massa nonché la presenza di diverse formazioni nodulari. E in tutti quei mesi le istanze alla Sorveglianza presentate dall’avvocato Raffaele Pucci, difensore di Palumbo, non portarono ad alcuna modifica della condizione di detenuto del 55enne, perché in mancanza dell’esito della fibrolaringoscopia i giudici ritennero che Palumbo fosse compatibile con il carcere. «Già le precedenti relazioni sanitarie – si legge nella denuncia dei familiari – sottolineavano come “la compatibilità col regime carcerario intramurali è compromessa sia dalla complessità clinica che affligge Palumbo sia dalla lentezza dell’espletamento delle consulenze specialistiche e/o diagnostiche territoriali che possono provocare ulteriore nocumento allo stato di salute di Palumbo”». «L’evoluzione negativa del quadro sanitario di mio padre – spiega la figlia Miriana – così come facilmente verificabile raffrontando gli esiti delle due tac effettuate il 2 aprile e il 30 ottobre 2020 evidenzia il grave ritardo della risposta sanitaria e il progressivo aggravarsi delle sue condizioni di salute». «La fribrolaringoscopia è stata eseguita a più di un anno dalla richiesta. E con non poche difficoltà perché l’ingrossamento della massa aveva reso difficoltoso l’inserimento del sondino nella laringe. Si ribadiva infatti la necessità di sottoporre mio padre a intervento chirurgico urgente ma nonostante ciò mio padre non veniva operato», denuncia la figlia di Palumbo, raccontando che l’intervento fu tentato come solo quando a inizio giugno suo padre fu portato d’urgenza in ospedale perché perdeva sangue dalla bocca. Da allora è passato dal coma farmacologico alla morte. Davvero c’è stata una relazione tra il tempo trascorso e l’aggravarsi della malattia di Palumbo? La magistratura dovrà dare fare chiarezza.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews). 

È la 29esima tragedia in un anno nelle carceri italiane. Stefan morto suicida in carcere a Benevento, aveva 30 anni: “Un fallimento per lo Stato”. Rossella Grasso su il Riformista il 4 Agosto 2021. A. Stefan aveva solo 30 anni. Era in carcere a Benevento nella sezione dell’articolazione psichiatrica. Ha deciso di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella in un caldo pomeriggio il 3 agosto. Stefan era di origini rumene, arrivato a maggio 2019 nel carcere di Benevento accusato di furto, ricettazione e oltraggio. È la quarta tragedia in Campania quest’anno, dopo i suicidi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Avellino, Poggioreale più il sedicenne agli arresti domiciliari che si suicidò in una comunità di accoglienza. Complessivamente in Italia siamo arrivati a 29 suicidi tra i detenuti, alcuni presenti nelle articolazioni psichiatriche delle carceri. “Il detenuto morto in articolazione psichiatrica è un fallimento per il sistema carcere, per il sistema sanitario e per la mancanza di idonee strutture terapeutiche alternative al carcere per i sofferenti psichici – ha detto Samuele Ciambriello –  Garante Campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale – Anzi, dovrebbe esserci per queste persone l’alternatività per la pena in carcere”. “In un recente convegno nazionale che ho promosso il 7 luglio sulla salute mentale nei luoghi privati della libertà personale ho sostenuto che l’efficacia di risposta ai bisogni di assistenza in carcere è davvero scarsa, a macchia di leopardo negli istituti dove, compreso Benevento, mancano psichiatri, progetti di inclusione sociale e un habitat fatto di spazi e relazioni – ha continuato Ciambriello – Quello che si richiede a tutti noi e alla politica in particolare è la capacità di operare un salto culturale che riporti al centro i diritti dei sofferenti psichici dentro e fuori ogni mura. La salute mentale è insidiata dalla costrizione fisica e dalla dipendenza totale per qualsiasi necessità della vita quotidiana. I luoghi chiusi comprimono i diritti individuali in maniera incontrovertibile”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

«Chiedo giustizia per mio padre, il primo morto di Covid in carcere». Antonio Ribecco era detenuto a Voghera, il figlio scrive alla ministra Giustizia Marta Cartabia perché si faccia chiarezza sulla vicenda. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 luglio 2021. È stato per quindici giorni con febbre e sintomi chiari di Covid 19 con un caso già confermato all’interno del carcere di Voghera il 7 marzo del 2020. Si chiamava Antonio Ribecco ed è stato il primo detenuto morto per Covid durante la prima ondata di marzo scorso, nella quale si sarebbero sottovalutati i sintomi, non rispettato l’utilizzo dei dispositivi e come se non bastasse, quando è morto, i familiari sono venuti a saperlo per caso. Un episodio poco chiaro, che tuttora non trova risposte. È accaduto nel carcere di Voghera e Il Dubbio diede la notizia senza però citare il nome. I famigliari seppero che si trattava del padre tramite i parenti di un altro detenuto. Non solo. Il figlio Antonio ha denunciato il fatto che non sono stati avvisati al momento del ricovero né quando è stato trasferito in terapia intensiva. Ma c’è molto di più, tanto che il 3 giugno 2020, il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, su segnalazione di Rita Bernardini del Partito Radicale, ha presentato un’interrogazione parlamentare sul caso. Una interrogazione fatta all’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che è rimasta però senza risposta. Per questo motivo, Antonio Ribecco, il figlio del primo detenuto morto per Covid, questi giorni ha inviato una lettera alla guardasigilli Marta Cartabia per avere risposte. «Le voglio raccontare che mio padre è stato abbandonato alla sua malattia e ad oggi ci troviamo totalmente sperduti di fronte a delle indagini che vanno a rilento e delle testimonianze che fanno rabbrividire», scrive Antonio alla ministra. Racconta che molti detenuti della VII sezione del carcere di Voghera, hanno sporto volontariamente querela in quel periodo, per denunciare quanto stava accadendo nell’istituto, ovvero presunti comportamenti omissivi e negligenti nei confronti del padre. «Molti ci hanno raccontato che non è stata presa in considerazione la sua malattia – denuncia il figlio di Ribecco nella lettera – ed anche dopo proteste ed evidenti sintomi di sofferenza, mio padre non è stato visitato tempestivamente da un medico, nonostante esplicite richieste; l’agente di polizia penitenziaria che ha assistito al diniego di visita, avrebbe fatto un esposto in sezione contro la condotta del medico». Altri detenuti hanno raccontato ai famigliari di Ribecco che non sarebbero stati forniti i dispositivi per prevenire il contagio. «E ovviamente – prosegue la lettera -, visto il sovraffollamento di oltre il 180%, non era consentita la distanza di sicurezza, dichiarando tutti che la direttrice avrebbe imposto il non uso delle mascherine per non creare allarmismo, nonostante il 07/03/2020 fosse stato ricoverato il cappellano del carcere per coronavirus». I famigliari denunciano anche il fatto che nei confronti di suo padre, detenuto in attesa di giudizio, non fosse stata rispettata la territorialità della pena. Sono umbri. Al carcere di Spoleto e Terni c’era posto, ma l’hanno mandato a Voghera, a 500 chilometri da casa. Da Voghera, Ribecco ha presentato ulteriore richiesta al Dap per essere trasferito più vicino alla famiglia. Ma nulla da fare. «Ora non chiedo compassione – precisa il figlio di Ribecco rivolgendosi alla ministra -, chiedo giustizia per i comportamenti disumani e degradanti che hanno portato alla morte mio padre, persona giovane ed in piena salute, sapevano che il cappellano aveva contatti con mio padre e sapevano che si poteva trattare di coronavirus perché mio padre era da 15 giorni che lamentava febbre, dolori e difficoltà a respirare. Se solo si sarebbe intervenuto tempestivamente, forse oggi sarebbe ancora con noi». Antonio, il figlio di Ribecco, sottolinea che il referto della positività del padre è del 15 marzo 2020, e che anche qui avrebbero tardato due giorni per comunicarlo ed intervenire, «mettendo a rischio la sua vita e quella di altre tre persone che condividevano la cella con lui in nove metri quadri – prosegue sempre Antonio -, due delle quali risultate positive, oltre a tutte le persone della VII sezione che frequentavano gli stessi ambienti». La lettera conclude che non si tratta solo di detenuti e detenute, «ma anche di tutti gli agenti di polizia penitenza e di tutte le persone che convivono nell’istituto».

Aveva 49 anni, si è tolto la vita in cella a Sanremo. “Vincenzo morto suicida, ci aveva già provato ma lo hanno lasciato solo”, la denuncia disperata dei fratelli. Rossella Grasso su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Vincenzo Sigigliano, originario di Secondigliano, Napoli, aveva 49 anni ed è l’ennesima vittima del carcere. Ha deciso di porre fine alla sua vita impiccandosi ad un lenzuolo attaccato alle grate della sua cella a Sanremo. “Da mesi ci diceva di continuo al telefono ‘non ce la faccio più, non sto bene’. A Sanremo ci stava da 5 mesi e 4 giorni fa aveva già tentato il suicidio. La penitenziaria si è limitata a spostarlo di padiglione e lo ha messo in quello dei ‘sex offender’. Lui era in carcere per truffe, faceva il ‘pacco del sale’. Perché lo avevano messo lì? Ma soprattutto perché quando si è impiccato non era piantonato?”. A denunciare questa situazione sono i fratelli di Vincenzo, Salvatore e Antonio Sigigliano. Vincenzo lascia due figli piccoli, altri tre più grandi e un nipotino appena nato. Aveva una pena breve: 7 anni di cui due già scontati. I due fratelli hanno denunciato l’accaduto ai carabinieri di Secondigliano. “Intendo presentare tale denuncia per eventuali responsabilità penali nei confronti del personale della Penitenziaria effettivo nella casa di reclusione di Sanremo per i fatti che L’Autorità giudiziaria competente intenderà ravvisare in merito – recita la denuncia sporta da Salvatore – Ho il fondato motivo di ritenere che lo stesso non sia stato piantonato da terze persone per scongiurare il terribile evento”. “Lo stesso nel corso di colloqui telefonici avvenuti negli ultimi giorni con i nostri familiari manifestava un grande senso di insofferenza ripetendoci spesso la frase ‘non ce la faccio più’ non sto bene’. Oltre al fatto che lo stesso presumibilmente ha tentato il suicidio già altre volte negli ultimi giorni, appare a mio avviso impossibile che il personale preposto alla sua vigilanza non abbia predisposto un servizio di osservazione nei confronti di Vincenzo per evitare il suo suicidio – continua la denuncia – Inoltre trovo assurdo che abbiano recluso mio fratello a 900 km da Napoli non permettendoci di effettuare i colloqui con lui, circostanze che avrebbero sicuramente aiutato la sua situazione psicofisica, e trovo altrettanto grave il fatto che Vincenzo, che era recluso per reati contro il patrimonio era di stanza nel padiglione riservato ai sex offender di quella casa di reclusione”. E chiedono all’Autorità di Imperia di fare luce sulla vicenda. I due fratelli al Riformista raccontano però anche dell’altro, non riportato nella denuncia. “Vincenzo soffriva per questa condanna relativa a reati di 20 anni fa – racconta Salvatore – Fu arrestato in Messico due anni fa e portato a Rebibbia. Durante una visita medica evase. Fu ripreso e da quel momento per lui non c’è stata pace: doveva pagare per quella evasione”. I due fratelli raccontano che è stato trasferito prima a Monza, poi a Opera e infine a Sanremo. “Chiedeva di continuo di essere avvicinato a Napoli per poter rivedere la sua famiglia, soprattutto nostra mamma. Ma niente, veniva solo trasferito in altri carceri – continua Vincenzo – Negli ultimi giorni sarebbe dovuta arrivare anche l’istanza di trasferimento a Civitavecchia dove è detenuto anche nostro padre. C’era quasi ma non gli hanno detto niente e lui si è suicidato”. “Abbiamo il sospetto che le guardie non lo trattassero bene – continua il racconto Vincenzo – da quando era evaso ci diceva sempre che si sentiva maltrattato. Se lui non stava già bene, tanto che ha tentato il suicidio per cui lo avrebbero trasferito di padiglione, perché non ci hanno chiamato? Perché non lo hanno fatto tranquillizzare dalla sua famiglia? Gli avranno solo dato medicine che lo avranno buttato ancora più giù. A questo si aggiunge che ci ha raccontato che lui chiedeva aiuto alle guardie ma loro non rispondevano”. “Quando è entrato in carcere stava bene, era lucido, mai avuto problemi – dice con rabbia Antonio, l’altro fratello – Poi è andato tutto sempre peggio finchè lo hanno spostato nel padiglione dei sex offender dove non sarebbe mai dovuto stare. Questo ha ulteriormente aggravato la sua sofferenza”. Antonio racconta che si trovava in carcere a Opera quando ci sono state le rivolte allo scoppiare della pandemia. “Lui non volle partecipare perché aveva una pena piccola da scontare e non voleva avere altri problemi – continua Vincenzo – e questo gli altri detenuti glielo fecero pagare dandogli filo da torcere. In questa situazione le guardie non hanno mai provato a tutelarlo allontanandolo dagli altri detenuti coinvolti. Addirittura quando lo hanno trasferito in un altro carcere con lui c’era anche uno dei detenuti che lo accusava di non aver partecipato alle rivolte: così avrebbe potuto avvisare anche i nuovi compagni di cella di quello che Vincenzo non aveva voluto fare insieme agli altri”. “Un detenuto napoletano di 49 anni si è impiccato stamattina nel carcere di Sanremo, di carcere si continua a morire”, ha detto il garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia.

Il caso del 49enne napoletano morto nel carcere di Sanremo: anni fa era evaso da Rebibbia. Detenuto muore suicida, la frase infelice del sindacato della penitenziaria: “Ha deciso di evadere dalla vita terrena”. Rossella Grasso su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Si chiamava Vincenzo Sigigliano ed era detenuto nel carcere di Sanremo. Lì, nella sua cella, ha deciso di togliersi la vita a soli 49 anni. È stato condannato a 7 anni, di cui 2 già scontati. Lascia due figli piccoli, tre più grandi e un nipotino appena nato. Quella di Vincenzo è l’ennesima tragedia, un dramma umano, frutto del disagio che vivono tanti detenuti nelle carceri italiane. La notizia è stata diffusa per prima, come spesso accade dalla polizia penitenziaria. Nella nota diffusa dall’Ansa si legge che è stato un agente, durante un’ispezione delle celle ad accorgersi che l’uomo non era a letto, mentre gli altri detenuti dormivano. “Nulla da fare per il detenuto, che ha deciso di evadere la scorsa notte dalla vita terrena – afferma il segretario regionale della Uil Polizia Penitenziaria, Fabio Pagani come riporta l’Ansa – malgrado gli immediati soccorsi della polizia penitenziaria e del personale sanitario”. Il segretario ha scelto una frase che rimbomba agghiacciante per dare il triste annuncio di questa ennesima tragedia delle carceri. “Ha deciso di evadere la scorsa notte dalla vita terrena”, risuona fuori luogo per commentare una tragedia di un uomo recluso, che non ce l’ha fatta a sopportare il peso di quella prigionia. I due fratelli di Vincenzo, Antonio e Salvatore Sigigliano, intervistati dal Riformista hanno raccontato che il loro fratello era stato trasferito in varie carceri: “Vincenzo soffriva per questa condanna relativa a reati di 20 anni fa – ha raccontato Salvatore – Fu arrestato in Messico due anni fa e portato a Rebibbia. Durante una visita medica evase. Fu ripreso e da quel momento per lui non c’è stata pace: doveva pagare per quella evasione”. Dopo questo racconto la frase del sindacalista della polizia penitenziaria risulta ancora più di cattivo gusto. “Ha deciso di evadere la scorsa notte dalla vita terrena” faceva forse riferimento al passato di Vincenzo, evaso dal carcere di Rebibbia? I fratelli Sigigliano intanto hanno sporto denuncia presso i carabinieri di Secondigliano, quartiere napoletano in cui vivono, chiedendo alle Autorità di Imperia di fare luce su quanto accaduto. “Intendo presentare tale denuncia per eventuali responsabilità penali nei confronti del personale della Penitenziaria effettivo nella casa di reclusione di Sanremo per i fatti che L’Autorità giudiziaria competente intenderà ravvisare in merito – recita la denuncia firmata da Salvatore – Ho il fondato motivo di ritenere che lo stesso non sia stato piantonato da terze persone per scongiurare il terribile evento”. Bisognerà fare chiarezza per sapere se quel detenuto che solo 4 giorni prima aveva già tentato il suicidio nello stesso carcere fosse stato lasciato solo e non piantonato. Nella denuncia i fratelli fanno anche riferimento allo spostamento di Vincenzo, detenuto comune, in carcere per la truffa del ‘pacco del sale’, nel padiglione in cui sono reclusi i sex offenders. “Non doveva essere lì – hanno detto i fratelli Sigigliano – forse quel trasferimento avuto dopo il tentato suicidio ha aggravato quello stato psicologico già fragile. Vincenzo stava male in carcere, ce lo diceva sempre, forse il trasferimento in quel padiglione potrebbe aver fatto precipitare tutto”. Forse Vincenzo aveva dei problemi che il carcere non ha saputo riconoscere o comunque nessuno è intervenuto per tempo con risposte concrete. Il sindacalista invece di parlare di “evasione dalla vita terrena” potrebbe interrogarsi sul perché di quel gesto estremo. E ancora chiedersi come è possibile che esseri umani muoiano mentre sono in custodia dello Stato, o peggio, nelle mani della polizia penitenziaria che non si è accorta in tempo di quell’uomo che arrotolava un lenzuolo intorno al collo per togliersi la vita.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

G8: RITORNO A GENOVA___________ 2001-2021 ___________ La Repubblica il 17 luglio 2021. Dal 19 al 22 luglio 2001 i leader dei paesi più industrializzati al mondo si incontrarono a Genova. E centinaia di migliaia di persone da tutto il pianeta arrivarono nel capoluogo ligure per chiedere agli “otto grandi” una globalizzazione più equa e sostenibile. Sono passati vent’anni dalle giornate del G8: torniamo nelle strade di Genova con i giornalisti che le raccontarono, i manifestanti che le hanno vissute nei cortei, i magistrati che hanno indagato nei processi, i rappresentanti delle forze dell’ordine. Cosa rimane di quella esperienza? Gli scontri, certo, le violenze, pagine tragiche e buie della nostra storia. Ma anche le proposte portate in piazza, i dibattiti, le discussioni di chi credeva che "un altro mondo" fosse possibile. Dove sono finite oggi quelle idee? Il nostro è un ritorno a Genova per ricordare, ma anche per capire cosa è rimasto, cosa è successo in questi venti anni

PALAZZO DUCALE

La tensione prima del G8. Pericu: “A Genova idee, non solo scontri”

Palazzo Ducale ospitò gli incontri dei leader politici più importanti del pianeta: in quelle sale l’allora sindaco di Genova Giuseppe Pericu ripercorre i mesi di tensione crescente, ma anche di dibattiti, che portarono all’appuntamento di luglio in una città blindata

PUNTA VAGNO

Il Public Forum: “Lavoro, ecologia, salute: le nostre sfide pericolose”

Attivisti e intellettuali di tutto il mondo si incontrarono per una settimana per parlare di cancellazione del debito dei paesi poveri, lavoro precario, privatizzazione della salute e dei beni pubblici. Quei temi e quelle proposte sono ancora attuali?

STADIO CARLINI

Nello stadio delle “tute bianche”: chi erano (e dove sono ora) i disobbedienti

Nel punto di ritrovo delle “tute bianche” che qui dormirono, fecero assemblee e partirono per i cortei. Cosa resta delle loro idee? E dove sono leader e simpatizzanti, da Casarini a Tsipras? Con gli interventi di Beppe Caccia e Giovanni Favia

PIAZZA SARZANO

Il corteo dei migranti: “La scoperta: eravamo un movimento globale”

In questa piazza è partito giovedì 19 luglio il primo grande corteo no global di quei giorni: quello per i diritti dei migranti. Da qui ci spostiamo nella sede della Comunità di San Benedetto per sfogliare l’agenda di Don Andrea Gallo: cosa scriveva in quei giorni?

PIAZZA PAOLO DA NOVI

I Black Bloc “rubano” la piazza dei Cobas: violenza al posto delle proposte

Piero Bernocchi, leader dei Cobas, torna per la prima volta dal 2001 nella piazza tematica che era stata assegnata ai sindacati di base. Venerdì 20 luglio però qui arrivarono i Black Bloc: cominciano le violenze

VIA TOLEMAIDE

La manifestante: “Una nube infinita di lacrimogeni, poi vidi i primi feriti”

Venerdì 20 luglio il corteo delle tute bianche viene caricato in via Tolemaide: partono ore di guerriglia che avranno esiti drammatici. Laura Tartarini, avvocato, nel 2001 manifestava con i disobbedienti

PIAZZA ALIMONDA

La tragedia di Carlo Giuliani. Il padre: “La mia ricerca della verità”

In piazza Alimonda le manifestazioni contro il G8 non sarebbero dovute arrivare. Qui si consuma il momento più tragico: la morte di Carlo Giuliani. Il padre, Giuliano Giuliani, racconta il punto di vista della sua famiglia, che non crede alle verità ufficiali

CORSO ITALIA

Il paradosso dell’ultimo grande corteo: quelle idee “bastonate” nel 2001 ma attuali nel 2021

Tobin Tax, aiuto ai paesi in via di sviluppo, l’ambientalismo di Julia Butterfly Hill, questioni di genere: sabato 21 luglio 300mila persone portano sul lungomare temi che sarebbero negli anni entrati nell’agenda politica, ma a un prezzo molto alto

Il segretario Silp Cgil: “Andavano accertate responsabilità di sistema”

Daniele Tissone, segretario generale Silp (Sindacato italiano lavoratori polizia) Cgil, era a Genova nella Polstrada nei giorni del G8. La sua analisi di quell’esperienza e dei diversi approcci in occasione di manifestazioni di piazza

SCUOLA DIAZ

“Non lavate questo sangue”

Entriamo nella palestra della scuola Diaz per ripercorrere l’irruzione della polizia nella notte tra il 21 e il 22 luglio. Le forze dell’ordine trovano ragazze e ragazzi, attivisti, giornalisti: vengono tutti picchiati con ferocia

Il pm Zucca: “In quei giorni tortura e falsificazione delle prove”

Il magistrato Enrico Zucca era il pm del processo Diaz. Lo incontriamo nell’aula del tribunale di Genova dove quel processo si svolse. Dopo la giustizia italiana arrivò a Corte europea dei diritti dell’uomo. “Ma resta – dice Zucca – un interrogativo inquietante”

Il questore Salvo: “Il G8 ha lasciato in me un segno pesantissimo. Oggi nuove strategie”

Sebastiano Salvo, oggi questore di Asti, genovese, nel 2001 era vicequestore a Genova, addetto all’ordine pubblico. Ricorda quei giorni e ripercorre l’autocritica e il percorso fatto da allora dalla polizia nella gestione dell’ordine pubblico

Il regista Vicari: “Se la democrazia rinuncia a se stessa: un film testimonianza”

“La sospensione dei diritti delle persone fa ormai parte delle nostre vite e non ce ne siamo resi conto”. Daniele Vicari ha realizzato nel 2012 il film “Diaz – Don’t clean up this blood”: “Ma ascoltando le vittime ho pensato di non farcela”

SCUOLA PASCOLI

Vittorio Agnoletto: “La storia ci ha dato ragione. Purtroppo.”

Queste aule erano la sede del Genoa Social Forum. Agnoletto, medico e docente, ne era il portavoce: vent’anni dopo fa un bilancio: “Già gli interventi di apertura del forum del 16 luglio anticipavano la crisi economica del 2008 e quella climatica”

CASERMA BOLZANETO

I pm: “Le indagini: poca collaborazione e tanta incredulità”

Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati sono i pm che hanno condotto l’inchiesta su quanto accaduto all’interno della caserma Nino Bixio di Bolzaneto, dove centinaia di fermati furono picchiati e umiliati per ore: “Fu tortura”.

Coordinamento editoriale Francesco Fasiolo 

Regia Leonardo Sorregotti 

Interviste e servizi Massimo Calandri - Arianna Finos - Jacopo Iacoboni - Matteo Indice

Matteo Macor - Giovanni Mari - Francesca Paci - Alberto Puppo - Massimiliano Salvo 

Riprese Leonardo Meuti - Luca Santagata - Alberto Maria Vedova 

Produzione Roberta Mosca - Anna Rutolo

Diaz. su La Repubblica il 17 luglio 2021. È la sera del 21 luglio 2001, a Genova. I giorni delle manifestazioni in occasione del G8 sono stati durissimi e quella sera centinaia di poliziotti assaltano l'istituto scolastico Diaz alla ricerca di black bloc. Trovano due bombe molotov, la dimostrazione della presenza dei violenti. Decine di ragazze e ragazzi vengono portati in Questura. Ma i magistrati, invece di convalidare gli arresti, li ascoltano e ricostruiscono quell'operazione di polizia: le violenze arbitrarie, la perquisizione e - soprattutto - la storia legata alle molotov, usate come prova regina per giustificare l'irruzione. E scoprono un'altra verità. Diaz è un podcast Gedi Visual, scritto e letto da Antonio Iovane - Supervisione editoriale di Anna Silvia Zippel - Musiche, sound design e montaggio: Gipo Gurrado - Indiehub studio.

Finse accoltellamento alla Diaz, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo respinge il ricorso contro la condanna.

di Alberto Puppo 

G8 RITORNO A GENOVA 2001-2021. La Repubblica il 15 luglio 2021. Gli scontri di via Tolemaide. La manifestante: "Una nube infinita di lacrimogeni, poi i feriti". Il corteo autorizzato delle tute bianche viene caricato in via Tolemaide: partono ore di guerriglia che avranno esiti drammatici. Laura Tartarini, avvocato, nel 2001 manifestava con i disobbedienti: "All’improvviso una nube di lacrimogeni, non si respirava. Poi ho visto gente che vomitava, verde in faccia, e arrivavano i primi feriti. Non avevamo avuto nessuna avvisaglia di questo scontro: pensavamo ci fermassero molto più in là, fin dove il corteo era consentito". "Abbiamo poi avuto conferma dell’utilizzo da parte delle forze dell’ordine di manganelli al contrario e sbarre di ferro, abbiamo visto le cariche con i blindati – ricorda – Da un punto di vista legale noi avvocati abbiamo fatto il possibile in questi anni. E’ la politica che deve ancora pronunciarsi seriamente su quello che è successo nel 2001".

A 20 anni dal G8 di Genova: l’inferno di un’intera generazione. A cura di Massimiliano Loizzi il 20 luglio 2021 su Fanpage.it. Mentre tutto accadeva, mentre un altro mondo possibile veniva fatto a pezzi ragazza dopo ragazzo, mentre correvo disperato, convinto fosse un colpo di stato, in quel maledetto 20 luglio del 2001 sentivo ovunque una canzone che mi era entrata in testa: “Dammi tre parole, sole cuore amore”, prima in classifica, dal luglio 2001 per otto settimane. Perché alla fine questa è l’Italia: un inferno pieno di canzonette. E fu questo per noi il G8 di Genova: un inferno vero e proprio. Mentre tutto accadeva, mentre un altro mondo possibile veniva fatto a pezzi ragazza dopo ragazzo, mentre correvo disperato, convinto fosse un colpo di stato, in quel maledetto 20 luglio del 2001 sentivo ovunque una canzone che mi era entrata in testa: “Dammi tre parole, sole cuore amore”, prima in classifica, dal luglio 2001 per otto settimane. Perché alla fine questa è l’Italia: un inferno pieno di canzonette. E fu questo per noi il G8 di Genova: un inferno vero e proprio. Mentre tutto accadeva, mentre un altro mondo possibile veniva fatto a pezzi ragazza dopo ragazzo, mentre correvo disperato, convinto fosse un colpo di stato, terrorizzato, pensando che forse non ne sarei uscito vivo, ricordo che in quel maledetto pomeriggio da cani del 20 luglio del 2001 sentivo in lontananza una canzone che, in quell’estate, mi era entrata in testa: “Dammi tre parole, sole cuore amore”, prima in classifica dal luglio 2001 per otto settimane. Perché alla fine questa è l’Italia: un inferno pieno di canzonette. E fu questo per noi il G8 di Genova: un inferno vero e proprio. Immotivato, cruento, disperato. E anche se qualche giornalista con il prurito alle mani ci ha voluto definire la generazione che ha perso la voce, la verità è un’altra.

Voi G8, noi sei miliardi. Vent’anni fa un'intera generazione è stata presa e chiusa in una gabbia per topi fatta di vicoli e stradine, il luogo ideale per massacrare indiscriminatamente: come ha detto Amnesty International, “la più grave sospensione dei diritti dell'uomo in un paese occidentale”. Un disegno chiaro che si realizza sotto gli occhi di tutti: la distruzione del Movimento antiglobalizzazione, il Social Forum, il totale schiacciamento dei diritti fisici e intellettuali. Un movimento troppo pericoloso per la sua stessa natura, perché per la prima volta insieme protestavano anime totalmente differenti: Pax Christi e antagonisti, pacifisti e anarchici, cattolici e radicali. Voi g8, noi sei miliardi come recitava uno degli striscioni più noti di quei giorni. Un altro mondo appariva davvero possibile e forse per questo andava fermato.

Piazza Alimonda h 17.27. Ed è questo uno fra i più grandi rammarici della mia generazione: quelli del Social forum sono stati fra i giorni più belli della mia vita, persone totalmente differenti fra di loro che dialogavano e parlavano non per migliorare la propria condizione ma per creare le condizioni per l’esistenza di un mondo diverso, sostenibile, condiviso, umano. Ma alle 17.27 cambia tutto: vengono sparati due colpi di pistola e un ragazzo viene ucciso in piazza Alimonda. E per molti Genova, il Social Forum, il Movimento si ferma per sempre lì, in quel pomeriggio, in quella piazza, cristallizzato in quella foto che ritraeva un ragazzo in canotta bianca e passamontagna scaraventare un estintore contro un defender dei carabinieri. Un “atto di violenza individuale” come continua a dire, ancora dopo vent’anni, chi non c’era e chi non vuole conoscere la verità o piuttosto non vuole che venga conosciuta.

Le verità nascoste. Da svariate ore venivano massacrate, indiscriminatamente, persone inermi e indifese di ogni età che manifestavano pacificamente: ragazzi, ragazze, anziani, uomini, donne, ragazzini e ragazzine con meno di 16 anni; da circa 2 ore venivano sparati di continuo lacrimogeni ad altezza uomo, per questo motivo molti di loro si coprivano il volto per proteggere naso, occhi e bocca alla "men peggio" e con mezzi di fortuna dai gas nocivi che procuravano orticaria, problemi respiratori, forti bruciori agli occhi; da più di 2 ore vengono fotografati diversi carabinieri intenti a sparare ad altezza uomo colpi che, per puro caso, non feriscono nessuno; da più di 2 ore svariate camionette passavano a tutta velocità tra la folla che manifestava, zigzagando fra coloro i quali cercavo di sfuggire; da qualche minuto in Piazza Alimonda un defender dei CC è fermo seppur avesse dietro di sé una via di fuga di sette metri dal muro più vicino (come dimostrano svariate foto e video) e i manifestanti, fra i quali Carlo Giuliani, si trovano a circa 5 metri di distanza dalla stessa; da svariati secondi un carabiniere all'interno di quella stessa jeep impugna una pistola, puntandola ad altezza uomo verso i manifestanti; è soltanto allora che Carlo si china per prendere un estintore vuoto con l'intento forse di lanciarlo verso il carabiniere che avrebbe potuto sparare verso qualche manifestante; alle 17.21 viene esploso un colpo che colpisce al volto Carlo Giuliani, un ragazzo di 23 anni con l'unica colpa di voler cercare di difendersi; da svariate ore, ovunque, manifestanti come Carlo venivano massacrati da carabinieri e poliziotti. Da 20 anni la maggior parte degli italiani e delle italiane parla a sproposito di Carlo Giuliani ignorando la montagna di prove foto e video che documentano i fatti, ma attenendosi a quell'unica ingannevole foto proposta da tutti i mass media per raccontare un'unica, sola versione distorta dei fatti.

Chi non sa nulla di Genova, taccia per favore. Ed è per questo che anch’io in quel pomeriggio mentre correvo disperato e mi fermavo terrorizzato perché mi accorgevo che la mia maglietta era zuppa di sangue e non volevo guardare perché avevo paura che fosse mio; mentre cercavo di telefonare alla mia mamma perché pensavo che sarei morto sicuramente, o mi avrebbero arrestato e non l’avrei più rivista e non avrei più potuto chiederle scusa per essere andato via senza tornare; mentre credevo di svenire ma cercavo di non farlo perché avevo paura che poi non mi sarei più svegliato; mentre mi domandavo perché tutto questo stesse accadendo, e mentre tutto questo accadeva, pensavo solo che, se avessi avuto una pistola, un fucile o un qualcosa di grosso, lo avrei raccolto e avrei cercato di difendermi o difendere quella povera ragazzina che stavano tirando per i piedi facendole sbattere la testa per terra, quella che non smetteva di sanguinare e urlare di terrore, pensavo che l’avrei raccolto, quell’oggetto, e l’avrei tirato con tutta la mia forza contro quegli animali. Perché in momenti come quelli puoi fare soltanto due cose: o scappi o ti difendi e non c’è giudizio su nessuna delle due. O scappi o ti difendi. Quindi, chi non sa nulla di Carlo Giuliani è meglio che taccia, per favore. Solo chi è stato a Genova può capire cosa vuol dire essere stato a Genova. Solo chi è stato a Genova sa cosa vuol dire mettersi a piangere senza motivo perché ti trovi in mezzo alla folla. Solo chi è stato a Genova può capire cosa vuol dire, anni dopo, sudare freddo, sentirsi male, avere nausea e vomito, solo perché dei carabinieri ti fermano di notte per un normale controllo di routine. Solo chi è stato a Genova conosce la differenza fra una mano che offende e la resistenza. Solo chi è stato a Genova sa cosa vuol dire Genova.

Vent’anni dopo. Sono passati vent’anni da quel 20 luglio del 2001, ho una ragazza, una bimba e un bimbo bellissimi, che sono un piccolo pezzo di quell’altro mondo che credevo e continuo a credere possibile, ma non c’è stato giorno in cui non abbia pensato anche solo per un istante che, se ci fossi stato io quel pomeriggio in piazza Alimonda forse non sarei scappato. Forse. Se ci fossi stato io quel giorno al posto di Carlo oggi non sarei qui a raccontare del mio piccolino grande e della mia piccolina piccola. Sono passati 20 anni e molti dei bambini e delle bambine che in quel luglio avevano pochissime primavere e in quell’estate giocavano a costruire castelli di sabbia, ora sono adulti, hanno poco di più vent’anni, l’età che avevo io durante i fatti di Genova, che aveva Carlo in quel 20 luglio. E la cosa che più mi ha commosso ed emozionato in questi giorni in cui ho riportato in scena il mio monologo sui fatti di quei giorni, è stato vedere tantissimi e tantissime giovani, applaudire in piedi a fine spettacolo ed aspettarmi per parlare ancora e abbracciarmi e ringraziarmi e parlare ancora. Perché alla fine, è vero, sono tantissime le persone che dopo quel pomeriggio non hanno mai più partecipato ad alcuna manifestazione, non hanno mai più preso parte ad alcuna attività politica o di piazza di nessun genere, ma che lo vogliate o no, nonostante tutto, siamo in tantissimi e tantissime a credere ancora che un altro mondo sia davvero possibile, anzi necessario. Non è vero che i ribelli muoiono a vent’anni anche quando non muoiono: non siamo la generazione che perso la voce, ci hanno strappato le corde vocali a mani nude. È vero, hanno ammazzato i nostri vent’anni e li hanno buttati per terra… ma un altro mondo è ancora possibile, cazzo se è possibile. Dammi tre parole: sole, cuore e amore. 

Il carabiniere che sparò al manifestante: "Non sono un carnefice". G8 di Genova, il padre di Carlo Giuliani: “Anche il carabiniere Placanica è una vittima”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Luglio 2021. A vent’anni dal G8, dai fatti di Genova, dalla morte di Carlo Giuliani, parlano il padre del manifestante ucciso e l’uomo, il carabiniere che ha esploso due colpi verso il 23enne. Una sorta di incontro a distanza, quello proposto da AdnKronos in due diverse interviste. Giuliano Giuliani in qualche modo racconta come anche Placanica sia stato una vittima di quel caos, di quella tragedia. Però non ha intenzione né desidera incontrare l’ex militare Mario Placanica. Quest’ultimo invece vorrebbe. “Vorrei incontrare il papà di Carlo – ha confessato – per dirgli che mi dispiace, che io li sostengo. Anche se molti mi criticano dicendo che non posso sostenere chi ha cercato di ammazzarmi. Ma io sostengo la famiglia, perché nessuno sa che significa perdere un figlio”. Dal 20 al 22 luglio capi di Stato e di governo delle maggiori potenze mondiali si incontrarono a Genova. Furono giorni di manifestazioni e contestazioni, in maggioranza pacifiche, che finirono però nel sangue. Un luogo e una data nella storia della Repubblica Italiana con la quale il Paese non ha mai smesso di fare i conti. A 20 anni quel bagno di sangue è ricordato soprattutto per tre tragedie: le irruzioni alla scuola Diaz, le violenze alla caserma di Bolzaneto e la morte di Carlo Giuliani. Un manifestante che aveva 23 anni. Una foto lo riprese con il volto coperto da un passamontagna mentre solleva un estintore davanti a una Land Rover Defender dei carabinieri. Piazza Alimonda. Era il 20 luglio ed era puro caos. Placanica aprì il fuoco. Giuliani non ebbe scampo. Il carabiniere è stato prosciolto sia dalla giustizia italiana che da quella europea: legittima difesa.

Il dolore di Giuliano Giuliani. “In qualche modo sono entrambi delle vittime – ha detto Giuliano Giuliani all’AdnKronos – anche perché io, se devo fare l’elenco dei responsabili dell’omicidio di Carlo, Placanica lo colloco all’ultimo posto. Al primo ci sono quelli che comandavano quel reparto, i due carabinieri ufficiali, che poi hanno fatto una carriera spettacolosa, e il vicequestore che per la polizia ‘associava’ il reparto. Perché la domanda ovvia è questa: se la camionetta viene assaltata, per usare una parolona, da cinque, sei, sette ragazzi, è possibile che a nessuno di quelli che comandavano sia venuto in mente di dire ai cento carabinieri che stavano a 10 o 15 metri di distanza, ‘andiamo a difenderla’? E allora i primi responsabili dell’omicidio di Carlo sono proprio coloro che comandavano quel reparto”. Per il padre del manifestante morto “é una stupidaggine” che i fatti della Diaz e di Bolzaneto e la morte di Giuliani abbiano causato una rimozione del ricordo delle violenze dei manifestanti. “La città è stata messa a ferro e fuoco da gruppetti di due o tre persone alla volta, i cosiddetti Black Bloc, che vengono lasciati liberi di farlo. Ci sono le telefonate, non soltanto della polizia e dei carabinieri, ma di moltissimi cittadini che denunciano questa cosa e che allarmati e anche un po’ arrabbiati indicano dove si trovano i violenti, ma poliziotti e carabinieri, a poca distanza, non intervengono. L’ordine era di lasciarli fare perché così aumentava nella popolazione, molto ingenua e in qualche caso persino stupida, la convinzione che quelli fossero i violenti che avevano organizzato le manifestazioni. E a nessuno è venuto in mente di dire che un indegno reparto che attaccò senza nessuna ragione il corteo delle Tute bianche, che era autorizzato e non aveva fatto assolutamente nulla di illecito. Un chilometro prima che arrivasse a Brignole venne assaltato, e lì cominciarono i disastri che portarono all’assassinio di Carlo”. A Mario Placanica Giuliano Giuliani non direbbe assolutamente niente, neanche oggi. “Per carità, non voglio fare questi incontri, la cosa non mi interessa. Io vorrei soltanto che i responsabili rispondessero finalmente delle loro colpe, e invece non è così. Sono tutti stati promossi. C’è persino un ufficiale che in un processo ai manifestanti è venuto a testimoniare parlando di ‘guerra’. L’avvocato lo ha interrotto facendogli notare che non si parla di guerra, ma di ordine pubblico, e l’ufficiale è arrivato a dire che ‘guerra’ e “ordine pubblico” sono la stessa cosa e cambiano solo gli strumenti dell’offesa. Ecco, quest’ufficiale non è stato sottoposto a un esame psichiatrico, no, è stato promosso. Così come molti dei condannati. Voglio ricordare che uno dei presidenti del Consiglio che passò per essere una delle persone più sobrie, parlo di Mario Monti, nominò uno di quelli responsabile all’interno del ministero. Robe penose, molto penose, che testimoniano di uno Stato che deve fare ancora tanta strada per essere uno Stato degno di questo nome”.

La versione di Placanica. “Quel giorno per me resta un trauma, trauma per la morte di un ragazzo come me, anche lui vittima in quel giorno tragico. Io non sono un carnefice, non sono un giustiziere. Quel giorno io non avevo la pistola per Mario Placanica, ce l’avevo per l’Arma dei carabinieri, per lo Stato italiano”, ha detto all’AdnKronos l’ex carabiniere ausiliario che ha appena pubblicato un libro – Mario Placanica, il carabiniere distrutto dall’ “atto dovuto” –  scritto con il carabiniere in congedo Andrea di Lazzaro (che ne è anche l’editore). “Quel giorno le cose si erano messe male – racconta Placanica all’AdnKronos – l’unico mezzo che avevo per allontanare chi ci stava aggredendo era la pistola. Io mi ritengo assolto, perché non ho sparato prendendo la mira. Io sono un bravo ragazzo, non un giustiziere. E forse lo era anche Carlo Giuliani. Io non ho colpe, non me le sento addosso, ma sono stato trattato peggio di Riina. Ma io ero un appartenente allo Stato, non ero Riina. Mi sono sentito abbandonato, nessun superiore ha salvaguardato il mio essere carabiniere, c’è stato solo silenzio. Mi sono sentito una pedina”. Placanica, poi, si commuove: “Io provo dolore, provo dolore perché quella divisa ancora sogno di portarla addosso. Ero gli ultimi degli ausiliari, ma quella fiamma me la sento accesa, ero motivatissimo”.

20 anni dopo. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha ieri dichiarato inammissibili i ricorsi presentati da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova. Dopo la morte di Carlo Giuliani il G8 non si fermò e fu portato a termine tra altri disordini. Il 21 luglio le irruzioni alle scuole Diaz e Pascoli. Violenze e arresti che sarebbero stati condannati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo come tortura. Solo dieci i manifestanti condannati dopo i tre gradi di giudizio per devastazione e saccheggio per un totale di 98 anni e 9 mesi di carcere.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da tg24.sky.it il 19 luglio 2021. Se avessi voluto uccidere, dalla mia pistola sarebbero volati almeno 15 colpi. Invece ne ho sparati solo due per difendermi, per allontanare i manifestanti e perché ho avuto paura". A vent'anni dai tragici fatti del G8 di Genova, Mario Placanica, nell'intervista rilasciata a Ketty Riga, ricorda la guerriglia urbana che il pomeriggio del 21 luglio 2001 culminò poi nella morte di Carlo Giuliani. Oggi Placanica è un uomo di 40 anni, segnato profondamente da quel terribile evento: esonerato dall'Arma dei Carabinieri, nel processo che lo vedeva indagato per omicidio è stato prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. "Il mio più grande rammarico - aggiunge -  è non aver saputo subito cosa fosse successo". "Altrimenti mi sarei messo il casco, sarei sceso dal Defender e avrei prestato soccorso a Carlo Giuliani: io ero lì non solo con la pistola, ma anche come volontario della Croce Rossa e avrei potuto fare qualcosa". Poi rivolgendosi ai genitori di Carlo Giuliani, dice: "Starò sempre dalla loro parte, comprendo il loro dolore, ma io non sono un assassino".

Placanica, il carabiniere che sparò a Giuliani: «Ho stretto la mano al padre di Carlo». Il Quotidiano del Sud il 20 luglio 2021. Ne’ CHI ha sparato, né chi manifestava contro il G8 con un estintore in mano a sei metri da lui, è mai stato in carcere. Né Mario Placanica, carabiniere ausiliario prosciolto dall’accusa di omicidio, né Carlo Giuliani, ragazzo rimasto ragazzo perché il 20 luglio del 2001 morì. Ma uno dei due dice di essere finito dentro lo stesso. In una prigione più solitaria e più scura.

“Vivo buttato come una cosa abbandonata”. “Io sono morto da quel giorno come Giuliani. Sono un uomo di 40 anni che vive buttato come una cosa abbandonata. Senza amici, li cerco su Facebook ma i loro nomi non li trovo più. Senza lavoro. Senza sbocchi”. Raggiunto al telefono dall’AGI nella sua abitazione di Catanzaro, Placanica si scusa per la voce roca, che, quando parla della sua condizione attuale, si tramuta in pianto: “Ho fumato tutta la notte perché non riuscivo a dormire. Sono giorni ancora più difficili, questi”. Stride il racconto di una vita immobile e “muta” rispetto alle sirene di piazza Alimonda, ai colpi che esplodono, alle immagini che atterrirono il mondo, preludio al rumore dei manganelli sulle ossa della notte alla Diaz. L’ex carabiniere, poi impiegato al catasto per qualche anno, è in sedia a rotelle, dopo un incidente d’auto. “L’unica distrazione che ho è guardare mio zio che annaffia le piante alle 4 e 30 del mattino. Che devo fare? Non lavoro dal 2014. Ero in graduatoria per un posto al Ministero dell’Interno ma poi sono stato dichiarato inabile. E da inabile, a differenza che da invalido civile, non posso avere un impiego pubblico. Sono bravino col computer, anche se ora pure la vista mi sta lasciando. Mi bruciano gli occhi perché sto troppo tempo davanti allo schermo”.

“Al papà di Carlo ho stretto la mano”. Per un periodo è stato in comunità, “i miei genitori mi hanno messo lì per aiutarmi a uscire dalla depressione, mi sentivo un po’ meglio”. Poi la prigione si è riaperta, c’è entrato anche il dolore per la scomparsa del padre: “E’ morto l’anno scorso, giovanissimo. Nei giorni successivi ho aspettato che si presentasse un rappresentante dello Stato, uno qualsiasi. A dirmi: “Signor Placanica, non si preoccupi, siamo con lei”. Bastava che suonasse anche un vigile del Comune. Ho sofferto tantissimo che nessuno abbia bussato”. Su Carlo Giuliani, sulla sua famiglia, sul loro di dolore Placanica si esprime in modo chiaro, netto: “Quello che è successo al G8 è stata una cosa molto brutta, eravamo due ragazzi che portavamo ideali diversi, ma due ragazzi. Io servivo lo Stato, Giuliani manifestava. Soffro pensando a Carlo, aveva 20 anni come me. Ho incontrato Giuliano (il padre di Carlo, lo chiama per nome, ndr) due volte, per caso o forse perché aveva organizzato la moglie, alla stazione Termini. Ci siamo stretti la mano. Ma sento di avere il dovere di incontrare anche la mamma”. “Per chiedere scusa, ma non perché sono un assassino – sottolinea – io non lo sono. Ho creduto che fosse impossibile difendermi e ho sparato due colpi in aria. Non mi rendevo conto di quello che stava accadendo, avevo 20 anni”.

“Vorrei tanto tornare a lavorare”. Una perizia ha stabilito che uno di quei due proiettili sarebbe stato deviato da un calcinaccio trafiggendo Carlo Giuliani. L’indagine su di lui si è chiusa presto, non è mai diventata processo. “Sono stati celebrati tanti processi sul G8 ma ci sono dei colpevoli mai scovati e mai andati a giudizio e nemmeno individuati in tutte le commissioni d’inchiesta in Parlamento. Sono persone ancora nell’Arma, sono quelli che sapevano e stanno in silenzio da 20 anni”. La versione di Placanica è contenuta in un libro appena uscito scritto dal suo collega Andrea Di Lazzaro. Si intitola “Distrutto dall’atto dovuto”. In fondo alla sua prigione l’ex ragazzo che sparò, e che ora dice “non mi va bene un giorno che sia uno, nella mia vita”, si nutre ancora di un velo di speranze. “Vorrei girare un po’ per parlare di questo libro e vorrei lavorare. Vorrei tanto che qualcuno mi aiuti a uscire da qui dandomi una possibilità”. 

La maglia del papà: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà giustiziato". Morte Carlo Giuliani, blitz di Manu Chao in piazza Alimonda: “Mai smettere di denunciare barbarie polizia”. Redazione su Il Riformista il 20 Luglio 2021. Bandiere rosse e oltre mille persone per ricordare alle 17.27 in piazza Alimonda a Genova il 23enne Carlo Giuliani, ucciso dall’ex carabiniere Mario Placanica, all’epoca dei fatti 21enne, nel corso delle manifestazioni contro il G8. A distanza di venti anni da quel drammatico 20 luglio 2001, il papà di Carlo, Giuliano Giuliani ha preso la parola per ricostruire la dinamica di quel giorno e chiedere quindi a tutti un minuto di silenzio seguito da applausi e commozione. Il genitore indossa una maglietta con la scritta “beato chi crede nella giustizia perché verrà giustiziato” e nel corso del suo discorso ha ricordato che il figlio Carlo “ha visto la pistola puntata e caricata (da parte di Placanica che si trovava a bordo del defender) raccoglie l’estintore da terra per cercare di disarmare. Compie, secondo me, un gesto di difesa, ma non fa a tempo perché dalla pistola partono due colpi e il primo proiettile s’infila nella faccia di Carlo, sotto l’occhio”. Poi è partito il coro “Carlo è vivo e lotta insieme a noi”. Uno striscione chiede la “libertà per Luca” (Finotti), ultimo ancora in carcere perché condannato per i reati di “devastazione e saccheggio”. Un altro striscione, in inglese, richiama la parola d’ordine di vent’anni fa “un altro mondo è ancora possibile”. Poco prima delle 16 sul palco era salito per un breve saluto per Carlo, anche Manu Chao, che a vent’anni dal celebre concerto che fece il 19 luglio 2001 ha replicato ieri sera ai Giardini Luzzati di Genova. C’è un anche lunghissimo striscione a ricordare le tante “vittime dello Stato”, da Carlo Giuliani a Federico Aldrovandi, da Stefano Cucchi a Giuseppe Pinelli, da Giorgiana Masi a Serena Mollicone.

Il blitz di Manu Chao. Sul palco allestito in piazza Alimonda si sono alternati Malasuerte, Cisco (ex voce dei Modena City Ramblers), Alessio Lega e l’Orchestrina del Suonatore Jones. Ma alle 15.30 ecco il blitz che non t’aspetti: a sbucare dal retro è l’artista francese (con origini spagnole) Manu Chao che sale sul palco, saluta la famiglia di Carlo Giuliani e il suo maestro storico, Don Andrea Gallo, poi intona Clandestino così come accaduto 20 anni fa e la piazza si scatena. “In questo giorno speciale, continuiamo a ricordare e a denunciare le barbarie della polizia a Genova nel 2001. Un abbraccio forte alla famiglia di Carlo Giuliani e al mio grande amico e professore di lotta Don Andrea Gallo. Sempre grato di averti conosciuto” scrive l’artista sui social.

La tragedia di Piazza Alimonda. Chi era Carlo Giuliani, il manifestante 23enne ucciso al G8 di Genova nel 2001. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Luglio 2021. “Carlo Giuliani Ragazzo” recita il cippo in un’aiuola in Piazza Alimonda a Genova. E una data: 20 luglio 2001. È l’unica traccia in città del G8 del 2001, un luogo verso il quale la storia d’Italia continua a fare i conti anche dopo vent’anni. “Genova”, per tanti, per una generazione almeno, è diventata soprattutto quei giorni. Giuliani morì, colpito da un colpo di pistola esploso dal carabiniere Mario Placanica. Fu il picco ma non il culmine delle violenze di quel G8: nei giorni seguenti vennero i fatti della Scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. Il G8 era previsto dal 19 al 22 luglio del 2001. Quattro giorni di riunione dei capi dei maggiori Paesi industrializzati. Il Presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi. Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. I manifestanti arrivarono da tutta Italia, da tutta Europa, da tutto il mondo. La sigla Genoa Social Forum riuniva associazioni anche molto diverse che operavano in campi diversi. Ambientalismo, anticapitalismo, anarchismo, sinistra radicale, no-global, organizzazioni contro le multinazionali e la grande finanza mondiale. “Un altro mondo è possibile”, uno slogan per tutti. Il movimento no-global era noto anche come “popolo di Seattle” dopo il G8 di due anni prima negli Stati Uniti. Anche in quel caso si erano verificati scontri. C’era anche il Blocco Nero, più noto come “Black Bloc”: più che manifestanti agitatori, che prendono nome da una tattica di protesta violenta. E quindi il clima era molto teso già prima che cominciasse il vertice. I primi cortei la mattina del 20 luglio. Pacifici. La situazione però cambiò rapidamente. Fecero il giro del mondo le immagini di manifestanti in fuga, insanguinati, e delle cariche violente delle forze dell’ordine. Lanci di oggetti e lacrimogeni. I Black Bloc cominciarono quasi subito con atti di vandalismo, attaccando banche e supermercati, picconando l’asfalto e i marciapiedi per fare scorta di pietre e sassi. Poliziotti e carabinieri sono stati accusati di aver lasciato fare i gruppi violenti e di aver attaccato duramente i cortei pacifici. Una delle cariche più violente dell’Arma si abbatté sul corteo di circa 45mila persone su via Tolemaide. Due ore di guerriglia. Un gruppo di carabinieri si trovò in piazza Alimonda muovendosi da una strada laterale, via Caffa, verso il fianco di uno dei cortei più grandi che era stato autorizzato dalle autorità. I militari erano pochi, indietreggiarono, mentre i manifestanti li inseguivano. Piazza Alimonda divenne un vicolo cieco. Due fuoristrada non blindati restarono bloccati. Tafferugli, barricate, lancio di oggetti. I defender non avrebbero dovuto trovarsi lì – avevano solo funzione di supporto – e furono presi d’assalto. Uno dei due restò intrappolato tra un cassonetto della spazzatura e la folla. All’interno il carabiniere Mario Placanica, 20 anni. Raccontò di essere andato nel panico, di aver estratto la pistola d’ordinanza e di aver minacciato i manifestanti che circondavano il veicolo. Una foto fece il giro del mondo: Carlo Giuliani, con il volto coperto da un passamontagna, che solleva un estintore verso la camionetta e sullo sfondo Placanica con l’arma in mano. Il militare sparò due colpi. Erano le 17:27. Giuliani era figlio di Giuliano Giuliani e Adelaide Cristina Gaggio. Entrambi militanti, insegnante e sindacalista. Era nato a Roma nel 1978. Si era diplomato al liceo scientifico e si era iscritto alla facoltà di storia. Aveva svolto il servizio civile presso Amnesty International a Genova ed era volontario dell’Anlaids, l’Associazione Nazionale per la lotta contro l’Aids. Aveva un costume sotto i pantaloni perché inizialmente il 20 luglio doveva andare al mare. “Intorno alle 15:00 del pomeriggio era a Piazza Manin – ha raccontato la sorella Giuliani a Limoni, podcast di Internazionale di Annalisa Camilli – Dove c’era il presidio pacifico della Rete Lilliput, che viene caricata a manganellate dalla polizia. Carlo presumibilmente prende lì le prime botte. Poi scende in zona Brignole e via Tolemaide e si incrocia con il corteo che già da ore è stato caricato da carabinieri e polizia”. Il primo dei proiettili esplosi da Placanica colpì Giuliani alla testa. La camionetta passò due volte sul corpo del manifestante, in retromarcia e poi per ripartire. Il 23enne era già morto quando l’ambulanza arrivò sul posto. Alle 18:00, nella prima conferenza stampa delle forze dell’ordine, la polizia parlò di un manifestante spagnolo probabilmente ucciso da un sasso. Si sarebbero inseguite e arricchite negli anni anche teorie alternative, depistaggi. Il frammento di proiettile che attraversò il cranio di Giuliani per uscire dall’altra parte non fu mai recuperato. Neanche la traiettoria del proiettile è mai stata chiarita del tutto. La famiglia ha sostenuto per anni che il colpo era stato esplicitamente mirato. La versione processuale parla di un sasso che intercetta il proiettile e lo devia sul volto del 23enne. Un’altra teoria solleva l’ipotesi del manifestante ferito con una pietra, appositamente, quando è già a terra, per mettere in atto un depistaggio. “Non so se sia stato colpito con un sasso – raccontò Bruno Abile, fotoreporter francese, collaboratore dell’agenzia Sipa Press, a Repubblica, presente in Piazza Alimonda – Di sicuro, perché l’ho visto con i miei occhi, un poliziotto o un carabiniere lo colpì con un calcio in testa quando era già morto. Ho fotografato l’ufficiale nell’istante di ‘caricare’ la gamba, come quando si sta per tirare un calcio di rigore”. Le sue due macchine fotografiche sarebbero state distrutte dagli agenti.

Il processo. Nessun agente è stato indagato o processato per la conduzione dell’azione in piazza Alimonda o per il presunto depistaggio. Mario Placanica è stato prosciolto in fase istruttoria dall’accusa di omicidio colposo: legittima difesa. L’archiviazione cita la perizia che sostiene che il proiettile, prima di colpire Giuliani, venne deviato da un calcinaccio tirato in aria. “Il carabiniere non poteva agire diversamente perché l’aggressione al defender era violenta e virulenta, quindi Placanica aveva la giustificata percezione di essere in pericolo di vita”, recita la richiesta di archiviazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso, ha accolto la ricostruzione italiana in merito ai fatti specifici della morte, ma ha criticato la gestione dei sistemi di sicurezza attorno al vertice da parte dell’Italia. La Corte ha disposto un risarcimento di 40.000 euro ai familiari di Giuliani a carico dello Stato italiano e ha assolto lo stato italiano con sentenza definitiva nel 2011. Placanica è stato dimesso dall’arma dei carabinieri nell’aprile 2005, perché valutato non idoneo al servizio, “per infermità dipendente da causa di servizio”, e per tale ragione “reimpiegabile nei ruoli civili dello Stato”. Placanica fece ricorso al TAR chiedendo una nuova perizia che lo dichiarò mentalmente sano. L’ex militare negli anni ha offerto versioni contrastanti, tra le quali quella secondo la quale non fu l’unico a sparare. “Quel giorno per me resta un trauma, trauma per la morte di un ragazzo come me, anche lui vittima in quel giorno tragico. Io non sono un carnefice, non sono un giustiziere. Quel giorno io non avevo la pistola per Mario Placanica, ce l’avevo per l’Arma dei carabinieri, per lo Stato italiano”, ha detto all’AdnKronos aggiungendo di essersi sentito “una pedina” e di voler incontrare la famiglia di Giuliani.

La famiglia. La famiglia non ha mai creduto alla versione ufficiale. “Un perito inventa lo sparo per aria deviato dal calcinacci – ha detto Giuliano Giuliani, padre di Carlo, a La Repubblica – La pistola è assolutamente parallela al suolo. Due foto dimostrano una pietra distante tre metri da Carlo moribondo ancora, e una successiva la pietra sporca di sangue vicino alla testa di sangue. È la chiara pietrata sulla fronte di Carlo per mettere in atto quello sporco tentativo di depistaggio che avviene un attimo dopo”. La giudice Daniela Canepa ha respinto questa tesi come “una pura congettura senza nessun elemento probatorio a suo sostegno”. Giuliano Giuliani ha detto quindi all’AdnKronos: “In qualche modo sono entrambi delle vittime anche perché io, se devo fare l’elenco dei responsabili dell’omicidio di Carlo, Placanica lo colloco all’ultimo posto. Al primo ci sono quelli che comandavano quel reparto, i due carabinieri ufficiali, che poi hanno fatto una carriera spettacolosa, e il vicequestore che per la polizia ‘associava’ il reparto. Perché la domanda ovvia è questa: se la camionetta viene assaltata, per usare una parolona, da cinque, sei, sette ragazzi, è possibile che a nessuno di quelli che comandavano sia venuto in mente di dire ai cento carabinieri che stavano a 10 o 15 metri di distanza, ‘andiamo a difenderla’? E allora i primi responsabili dell’omicidio di Carlo sono proprio coloro che comandavano quel reparto”. Giuliano Giuliani ha detto di non essere interessato a incontrare l’ex carabiniere Placanica.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Parla il leader dei Cobas. “Al G8 di Genova esplose un nuovo ‘68, poi la truffa 5S ha rovinato tutto”, intervista a Piero Bernocchi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Luglio 2021. Vent’anni fa, 20 luglio 2001, Genova. La Diaz. Piazza Alimonda, con l’omicidio di Carlo Giuliani. Ma soprattutto 250.000 persone che sfidano un po’ tutti, i partiti, i sindacati, la polizia. E invocano per la prima volta nell’era digitale un mondo unito nella lotta alle diseguaglianze. Ne parla con il Riformista il portavoce nazionale della Confederazione Cobas Piero Bernocchi, che torna a organizzare la piazza e prepara per ottobre la ripartenza di un movimento unitario della sinistra antagonista.

Come è nata la passione politica?

Nel 1968, ma ho iniziato prima: nel 1965 feci un giro d’Europa in autostop ed entrai in contatto con i primi movimenti anticapitalisti. Gli algerini che protestavano in Francia, il movimento alternativo in Olanda che occupava le case.

La scintilla?

Alla Sapienza, quando Paolo Rossi, militante socialista della lista Gogliardi e autonomi, venne spintonato dai fascisti mentre distribuiva volantini all’ingresso di Lettere. Cadde giù dai quattro metri di scalinata e morì. Io decisi in quel momento di dovermi impegnare.

E poi il mito di Che Guevara.

Una storia unica: un rivoluzionario che vince. E prima ancora: un medico argentino che veste i panni del rivoluzionario e si dedica alla guerriglia non perché costretto, ma perché decide che quello è giusto. E dunque lascia il suo appartamento, il suo lavoro, le abitudini borghesi per dedicarsi alla difesa di un ideale e degli oppressi.

Lei è stato un leader di una stagione allergica ai leader, il Sessantotto?

Di seconda fila. Ma ero un punto di riferimento perché guidavo la rivolta nella facoltà di ingegneria, che era la più controllata. C’era una quadratura su tutto, l’obbligo di frequenza, la distanza dai temi politici. Io rovesciai il quadro.

Gliela fecero pagare?

Eccome, appena i professori ripresero il comando me ne sono dovuto andare a Matematica. Poi capii che andare a insegnare mi avrebbe consentito anche di fare politica.

Come definirebbe il 1968?

La novità assoluta del mettere insieme pubblico e privato e che ti fa vivere come mai prima le cose del mondo.

Sembra la definizione dei social network.

Fu una illuminazione. La sensazione di poter toccare con mano un mondo che prima sembrava più distante. Ma c’è un senso nella sua provocazione: una volta si tolga la curiosità di andare a vedere i giornali dal 1967 in poi, dipingevano quei giovani che noi oggi raccontiamo con tanto impegno come dei perdigiorno, come delle anime perse dedicate alla musica, alle distrazioni, alla droga. La puzza sotto al naso che sempre le generazioni precedenti hanno verso le successive.

Fu soprattutto la sinistra a capire con ritardo l’essenza dei movimenti.

C’erano stati fino ad allora solo militanti ortodossi, che vivevano L’Unità, la festa de L’Unità, i riti di partito, i congressi come espressione unica della politica. Ritualità estranea ai giovani del 1968. E la stessa cosa è successa nel 2001. Quando è arrivata la rivolta di Genova nessuno ne aveva saputo cogliere i segnali.

Ci sono momenti in cui la storia prende a correre.

E quello fu il periodo 1965-1969, che noi riassumiamo con ’68. Accadevano contemporaneamente i più grandi sconvolgimenti: la decolonizzazione e le lotte di liberazione in Africa e Asia, la guerra del Vietnam, le tensioni razziali negli Stati Uniti… il mondo intero era in ebollizione. E uno da solo non ci avrebbe capito niente. Per quello si cercava di immergersi in un flusso di idee, di persone, di emozioni che era appunto il movimento che aiutava anche a comporre una visione organica, strutturale dell’enorme mole di eventi che vedevamo prodursi sotto ai nostri occhi.

La visione creava uniformità, forse anche settarismo, o no?

Questo è un paradosso vero. Si finiva per essere schiavi della collettività, si leggeva per forza il mondo in un certo modo. Si era anticonformisti fuori e conformisti dentro. Abbiamo iniziato il movimento come evoluzione della tradizione anarchica e l’abbiamo ricondotto al socialismo reale, con le stesse dinamiche di gruppo, di gerarchia, di organizzazione. Ci siamo messi infine in competizione con il Pci per fare a gara a chi era più comunista.

Quanto è durato davvero il ’68?

L’eterogeneità, la partecipazione, la diffusione è stata vasta. È partito tutto nel 1965, è finito nel 1977 e poi con il rapimento Moro. Solo a quel punto si può dire finito il movimento iniziato dieci anni prima. E poi è riemerso nel 2001…

Un attimo, i fatti di Genova non sono un movimento storico.

Vanno però inseriti in un flusso. C’è chi dice che Genova è stata un ’68 durato 48 ore. In realtà la traccia internazionale di Genova è che sull’onda di quel movimento, e dunque di Porto Alegre, si costruisce un movimento internazionale coordinato stabilmente. Nel ’68 non c’era un collegamento tra i movimenti dei diversi Paesi. Da Genova in poi c’è.

E dunque da piazza Alimonda alle piazze del mondo?

Esattamente. Da settembre successivo si riprende con più energia di prima, con tanta rabbia. A gennaio 2002 andiamo a Porto Alegre, per il Forum mondiale e vediamo esaltare l’esperienza italiana. Si decide di partire con un Forum Europeo che doveva essere assegnato alla Francia e invece viene assegnato all’Italia, lo organizziamo a Firenze. E lì convogliamo tutti, portiamo 700.000 persone vere, cioè il triplo di Genova, e soprattutto con un clima completamente cambiato. A febbraio 2003 il New York Times assegna al Social Forum il titolo di seconda potenza mondiale, ovvero di contraltare naturale dell’imperialismo americano. Naturalmente una iperbole, ma non priva di realtà.

C’è qualche successo che rivendica per i Forum mondiali?

Abbiamo fatto un lavoro unico sulla pace, sul disarmo, sullo sviluppo dei paesi emergenti. La conquista di cambiamenti di governo importanti in America Latina (penso a Maduro, anche se poi non ci ha più convinto) e le Primavere arabe sono figlie di questo processo di contaminazione globale.

A proposito di contaminazione globale, ha scritto un libro anche sulla pandemia.

Dove dico che non ne usciremo migliori: l’uomo è un animale sociale, isolare gli individui e regnare con la paura non ha mai reso migliore una società.

Perché sono nati i Cobas?

Siamo nati per dare una risposta ai conflitti sociali, per stare sulla tutela del lavoro e sulla missione educativa in modo organico e per provare ad alimentare una sinistra lontana dalla tentazione, incarnata da Fausto Bertinotti, di “portare il movimento operaio nella stanza dei bottoni”. Si era illuso Nenni molto prima, Bertinotti trent’anni fa. Crediamo piuttosto di dover agire con una iniziativa sociale e culturale, fatta di informazione, formazione, tutela dei diritti a partire da quelli dei lavoratori e dei più fragili.

Il Movimento 5 Stelle nasce anch’esso dalle delusioni a sinistra?

Nasce dal fallimento del governo Prodi e dall’incapacità della sinistra italiana di dare risposte nuove a problemi nuovi. Grillo si inserisce in un vuoto di rappresentanza e pesca a piene mani anche da ex sessantottini delusi e disorientati. Ma non nasce per caso.

Cosa intende dire?

Noi celebriamo il decennale dei fatti di Genova nel 2011 e portiamo in piazza 300 mila persone, tutte coalizzate contro Berlusconi e per una nuova sinistra. Arrivati a Genova, c’è chi spacca l’unità in nome di vecchie diatribe. E dal giorno dopo dilagano i Cinque Stelle. Berlusconi era già alla fine, il centrosinistra era impantanato. E abbiamo visto questo movimento sorgere dal nulla con una piattaforma informatica fortissima e un programma studiato a tavolino per inglobare pezzi di sinistra e di destra: la sovranità alimentare, l’acqua pubblica, le questioni dell’agricoltura biologica erano estranee alla sinistra tradizionale, combinate sapientemente con i temi legalitari e in qualche caso securitari.

Un cavallo di Troia per prendere a sinistra e portare a destra?

Sì, assolutamente. In realtà erano già di destra, hanno cavalcato un impianto ibrido per portare il nuovo Qualunquismo sulle piattaforme social e mescolare le carte di destra e sinistra.

Sulla giustizia hanno fatto strame di ogni valore garantista della Costituzione.

Ne hanno stravolto il senso. Hanno ereditato una visione antipolitica di destra e l’hanno data in pasto alla gente, come dicevo.

Gli ultimi degli ultimi in Italia sono i detenuti, sono un suo tema?

Centrale. Dobbiamo far ripartire una battaglia sulla giustizia per gli ultimi. Lo facciamo con il Centro Studi Scuola Pubblica, Cesp, che noi abbiamo iniziato a far lavorare nelle carceri. Nelle case di detenzione ci rendiamo conto della repressione vera. Abbiamo una rete di 62 scuole nelle carceri. In alcune carceri riusciamo a lavorare nelle biblioteche e nelle palestre. Veniamo a conoscenza di notizie non molto diverse da quelle di Santa Maria Capua Vetere; se avessi un video per ogni volta che un carcerato mi ha raccontato di pestaggi, avrei potuto far aprire non so quante inchieste.

Da dove riparte la mobilitazione?

Oggi vogliamo riproporre un nuovo appuntamento per il Forum mondiale con la premessa che la pandemia ha creato nuove povertà e maggiori diseguaglianze. C’è una sensazione di impotenza che ci mette davanti al dato che nessuno da solo può fare cose significative. Diamo un appuntamento alla mobilitazione internazionale per il 30 ottobre a Genova. Abbiamo creato una alleanza globale che abbiamo chiamato Recovery Planet, che ha presentato una piattaforma per il XXI secolo. Diamo un segnale quel giorno, con attenzione. Iniziamo insieme, e se decidiamo di fare percorsi diversi facciamolo senza farci la guerra. È un lavoro complicato per l’Italia, dove c’è il modello del partito unico e del sindacato unico, a sinistra. Invece manteniamo le diversità, le peculiarità, e proviamo a unirci nel momento giusto.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

“Al G8 di Genova. Genova 2001, dopo vent'anni parla Paolo Cremonesi: "Io, medico in prima linea, ho visto il massacro. Quel G8 fu una follia”. Massimo Calandri il 19 luglio 2021 su La Repubblica. Nella scuola Diaz ha tamponato il sangue e steccato le fratture di quei poveretti. Per tutto questo tempo ha scelto il silenzio perché non voleva "essere usato". Oggi racconta: "Raccolsi il bossolo che uccise Giuliani, ma nessuno mi ascoltò". Il dottore c'era. Sempre. Ha visto tutto, durante il G8. In piazza Alimonda ha raccolto il bossolo del proiettile che ha ucciso Carlo Giuliani. Nella scuola Diaz ha tamponato il sangue, steccato le fratture di quei poveretti: "Non andranno in carcere". Aveva soccorso i pacifisti caricati dalle forze dell'ordine nel corteo di corso Italia: "C'erano anche delle suore, delle nonne".

Massimo Nucera, agente del Reparto Mobile raccontò di essere stato assalito. Ma quegli squarci sul giubbotto erano opera sua. La Repubblica il 17 luglio 2021. Quello squarcio sul giubbotto avrebbe dovuto rappresentare la prova dell'aggressione, violenta e feroce, subita all'interno della scuola Diaz. Tale da giustificare una reazione ancora più brutale. Ma Massimo Nucera, agente scelto del Nucleo speciale del VII Reparto Mobile di Roma, quella coltellata alla giacca se l'era inferta da solo. E Maurizio Panzieri, allora Ispettore capo dello stesso Nucleo speciale, aveva firmato un verbale chiaramente fasullo, per avvalorarne la tesi. Entrambi erano stati condannati a 3 anni e 5 mesi di cui tre condonati. E avevano deciso di presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Istanza respinta proprio in queste ore, a vent'anni dal massacro con cui si chiuse il G8 genovese, Stessa sorte anche per i ricorsi presentati da Angelo Cenni, uno dei sette capisquadra del VII Nucleo del Reparto Mobile di Roma e da due suoi colleghi, capisquadra anch'essi. Nel ricorso presentato dal legale di Nucera e Panzieri si sottolineava che "l'esame condotto dalla Cassazione non è stato effettivo ed equo" e si accusa la Corte di non avere tenuto in considerazione la controversa perizia di Carlo Torre, Professore di Medicina Legale a Torino (lo stesso che si occupò della morte di Carlo Giuliani), che giudicò i tagli compatibili con l'ultima ricostruzione effettuata da Nucera davanti ai giudici.  Il difensore di Cenni sosteneva anche che l'intero processo fosse "basato su un materiale probatorio carente e lacunoso". Per Nucera e Panzieri la Corte europea dei Diritti dell'Uomo ha ritenuto che gli imputati abbiano "potuto presentare le sue ragioni in tribunale alle quali è stata data risposta con decisioni che non sembrano essere arbitrarie o manifestamente irragionevoli, e non ci sono prove che suggeriscano il fatto che il procedimento è stato ingiusto. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate" e quindi ha dichiarato il ricorso irricevibile". Per il caposquadra Cenni e i suoi due colleghi, la Corte Cedu "ritiene che i fatti presentati non rivelino alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi protocolli". Accuse "manifestamente infondate" e quindi la Corte "dichiara il ricorso irricevibile". Restano ancora pendenti, e già dichiarati ammissibili, i ricorsi di alcuni dirigenti di polizia condannati sempre per l'irruzione alla Diaz come l'ex capo dello Servizio Centrale Operativo, Francesco Gratteri e Filppo Ferri, ex capo della Squadra mobile di Firenze.

 Claudio Del Frate per il Corriere della Sera il 17 luglio 2021. A venti anni esatti dal G8 di Genova e nel giorno in cui le violenze di quei giorni tornano a essere al centro di discussioni e rievocazioni, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha chiuso definitivamente il capitolo processuale: è stato infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione alla scuola Diaz, uno degli episodi più sanguinosi legato alle manifestazioni del 2001. Gli agenti si erano appellati alla Cedu ritenendo che il processo a cui erano stati sottoposti sia stato ingiusto per aver violato alcune norme contenute nella Convenzione per i diritti umani. «Alla luce di tutte le prove di cui dispone - si legge nella sentenza -, la Corte ritiene che i fatti presentati non rivelino alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi Protocolli». Ne consegue che le «accuse» mosse dai ricorrenti «sono manifestamente infondate» e il ricorso è «irricevibile». Le motivazioni dei giudici europei sono molto tecniche e in sostanza affermano che la Cedu non può funzionare come «quarta istanza» rispetto ai tre gradi di giudizio dei tribunali nazionali. «La parte ricorrente - ecco un altro passaggio della sentenza - ha potuto presentare le sue ragioni davanti ai tribunali che hanno risposto con decisioni che non sembrano essere né arbitrarie né manifestamente irragionevoli, e non ci sono elementi per dire che il procedimento sia stato iniquo per altre ragioni». La decisione della Corte in composizione di giudice unico è definitiva e non può essere oggetto di ricorsi davanti a un comitato, a una camera o alla Grande Camera. Il fascicolo in questione sarà distrutto entro un anno dalla data della decisione, conformemente alle direttive della Corte in materia di archiviazione. La Corte di Cassazione italiana aveva confermato in via definitiva le condanne per l’irruzione alla scuola Diaz nel luglio del 2012: la sentenza aveva riguardato 25 appartenenti alla Polizia, dai piani più alti della catena di comando (a partire dal comandante del reparto mobile di Roma, Vincenzo Canterini) fino agli agenti ritenuti responsabili dei pestaggi ai danni delle persone che si trovavano all’interno della scuola (che in quei giorni funzionava come centro di accoglienza per i partecipanti alle manifestazioni no global). Gli episodi della scuola Diaz seguirono di poche ore la morte di Carlo Giuliani. Gli agenti entrarono nella scuola ritenendola un covo di «black bloc», arrestarono una novantina di persone (tutte poi prosciolte) e ne ferirono 60. La Corte europea dei diritti dell’uomo si era già dovuta occupare dei fatti legati al G8 di Genova, ma in seguito a un ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, uno dei manifestanti vittima delle violenze delle forze dell’ordine nel 2001. Nel 2015 la Cedu aveva condannato lo Stato italiano a risarcire Cestaro (che a causa dei pestaggi aveva subito la frattura di un braccio e di alcune costole) con 45.000 euro per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo («Nessuno può essere sottoposto a trattamenti degradanti»). In seguito alla sentenza Cestaro altre 29 vittime delle violenze alla scuola Diaz avevano presentato ricorso alla Cedu, ottenendo tutti risarcimenti tra i 40 e i 55mila euro.

La ricorrenza. Venti anni fa il G8 di Genova: la critica alla globalizzazione, i pestaggi, gli errori di Rifondazione. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 21 Luglio 2021. A Genova si è prodotto il punto più alto di un movimento che da Seattle ha invaso il mondo e che, passando per tutte le capitali occidentali e orientali, aveva messo in discussione in modo radicale il pensiero unico che si era formato sulla globalizzazione. All’epoca, le classi dirigenti consideravano la globalizzazione come una cornucopia che avrebbe distribuito ricchezze e progresso tecnico-scientifico a cascata e si apprestavano su questo a realizzare la loro egemonia politica e culturale. Contro questo pensiero unico, e il processo che lo animava, è nata una contestazione, soprattutto la contestazione di una generazione che associava soggetti critici assai diversi tra loro. Era una novità straordinaria che segnò uno spartiacque. La globalizzazione prendeva, attraverso la critica di fatto, la sua forma reale, sociale, ecologica, di potere dominante, a partire dalla definizione che le veniva finalmente attribuita: capitalistica. Genova è stata, sull’altro versante, un passaggio d’epoca. Finisce il Novecento, il secolo del Movimento operaio e comincia un’altra storia, un post, non meglio definito. Il movimento recupera, pur nella radicale discontinuità, un elemento decisivo di quella storia: l’idea della rivoluzione. Non è più la conquista del Palazzo d’Inverno, è invece l’idea di un processo senza la guida del partito e senza un centro motore, però un processo conflittuale che propone la trasformazione radicale della società: “Un altro mondo è possibile”, scandisce il movimento. Prende corpo una moltitudine innervata su soggetti forti, su luoghi di ricerca condivisi e su una diffusa pratica di democrazia diretta e partecipata. Genova è uno snodo cruciale, decisivo, in questo percorso. Lo decidono i potenti del mondo. A Genova viene messo in scena l’orrore, viene messa in atto una repressione sistemica e senza limiti, i suoi atti furono terribili: l’uccisione di Carlo Giuliani, la tortura alla Diaz e a Bolzaneto, le violenze continue e i pestaggi contro i manifestanti. Le forze dell’ordine furono chiamate alla guerra contro una mobilitazione pacifica e di massa, la direzione di quelle forze dell’ordine porta una colpa storica nei confronti della repubblica. Da Napoli a Genova era riaffiorata qualcosa di molto simile a ciò che denunciava la teoria del doppio Stato. Per supporlo, basta rifarsi al campionario delle frasi usate dai torturatori della Diaz nei confronti dei torturati, soprattutto delle donne, come di un anziano disabile. Quegli insulti hanno messo in luce la fascistizzazione di parti importanti delle forze dell’ordine praticata in funzione della repressione. Non solo, hanno mostrato anche che non si è mai realizzata una vera e compiuta bonifica democratica tra quegli uomini. L’idea di fondo che guidava i manganelli era che quando si è chiamati alla repressione bisogna rispondere “presente!” a un ordine che non è quello repubblicano e costituzionale, ma solo quello costituito, quando non peggio ancora. Si può aggiungere che questa stessa linea nera dentro le forze dell’ordine italiane rischia di non finire mai, come si vede quando si considera che da Genova può arrivare fino ai pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dei nostri giorni. Continuo a credere che quella repressione sistemica venne ordita a livello internazionale con le forze dell’ordine italiane che ne furono il braccio armato e non improvvisato. Non penso a un complotto, bensì proprio a una strategia preordinata. Si pensò che quel movimento era troppo minaccioso per l’ordine costituito, per il destino della stessa globalizzazione capitalistica e per i suoi poteri. Quell’ascesa del movimento dei movimenti sarebbe potuta diventare incontrollabile, si decise allora che essa doveva essere schiantata e lo si mise in pratica cinicamente contro qualsiasi idea di stato democratico e di paese civile. I suoi produttori sbagliarono però su un punto, avevano pensato di spingere il movimento in una spirale distruttiva, repressione violenta, replica con una risposta violenta, nuova repressione, questa volta demolitrice. Invece, il movimento reagì in modo sorprendente, per quanto aveva incorporato, nel suo percorso e nei nuovi soggetti che ne erano protagonisti, una pratica pacifista e non violenta. Ancora oggi, la cosa risulta sorprendente. Quante volte ho pensato che se le forze dell’ordine avessero reagito così nei confronti del movimento nato nel ’68-’69, negli anni Settanta, nella mia generazione, questo avrebbe innescato le tracce di una guerra civile e Genova sarebbe stata una strage. Ma il colpo risulta pesante e pesante sono le sue conseguenze politiche sulle stesse soggettività dei movimenti. Dopo la tragedia, il movimento regge ancora, però cambia la sua prospettiva. L’urto ha lasciato il segno. Ci sarà ancora la grande manifestazione di Firenze e da una sua costola nascerà quell’enorme movimento pacifista che nel 2003 porterà 110milioni di persone nello stesso giorno nelle piazze del mondo contro la guerra. Ci saranno ancora lotte sociali importanti, anche da noi in Italia, ma è la scena che cambia nel profondo, anche per come cambiano i suoi protagonisti principali. Entrambi i contendenti perdono qualcosa di importante. Il movimento non ce la fa, non riesce a mettere in discussione il paradigma della globalizzazione capitalistica né quello della guerra, ma questa e quella non vincono, mentre già si intravedono i segni della crisi della modernizzazione capitalistica, la tesi della guerra preventiva messa in atto dagli Usa si rivela tragica e fallace. Si affacciano le due perdite. Al movimento viene rubata l’innocenza dei giovanissimi che l’avevano caratterizzato e il movimento intero perde la potenza di una forza in ascesa in ogni parte del mondo e capace di riconoscersi unitario nelle proprie diversità. Il movimento perde la potenza. La globalizzazione capitalistica perde invece il futuro annunciato delle sue magnifiche sorti progressive e entra nel nuovo tempo che lo caratterizzerà fino ad ora, quello dell’instabilità e delle crisi. Quell’esito ci porterà al mondo della terza guerra mondiale a pezzi, delle ripetute crisi economiche e sociali, del venire al pettine della crisi ecologica. Viene di fronte a noi il capitalismo della crisi. L’incertezza prende il posto della presunzione di un futuro ininterrotto di crescita, i potenti del mondo conservano il potere, ma perdono l’egemonia. Ma i grandi sconfitti sono stati le istituzioni democratiche e la politica. Il movimento altromondista ha provato a cercare, dopo il rovesciamento del conflitto di classe della fine del secolo, un nuovo e fecondo rapporto tra il conflitto, la democrazia rappresentativa e la politica, per poter attraversare, con questo nuovo rapporto, proprio il cambiamento. Ma qui, si è registrata la défaillance. Le istituzioni stavano già subendo una duplice delegittimazione. Per un verso, Genova ne aveva rivelato tutta la distanza e l’avversità nei confronti del popolo; per un altro, dal basso stava nascendo una nuova e diversa contestazione delle istituzioni della politica. Ma l’occasione è mancata soprattutto dalle sinistre che subiscono due, seppur molto diverse tra loro, sconfitte. Una è stata quella bruciante della sinistra riformista, che proprio lì si è definitivamente persa. Essa si è separata, in quel frangente, del tutto dai movimenti e con ciò dalle ragioni della sua stessa nascita, così è finita sussunta dalle classi dirigenti della globalizzazione. È diventata, con il completamento di una vera e propria mutazione genetica, una pura forza governativista, tanto da vantare una migliore attitudine a governare la globalizzazione capitalistica persino rispetto alle destre. Ma anche la sinistra radicale, che pure aveva provato a innovarsi nel profondo, immergendosi nel movimento, non osò farlo fino in fondo. Per onestà intellettuale, non posso tacere della nostra Rifondazione comunista. Rifondazione comunista fu l’unico partito che sottoscrisse il Manifesto di Porto Alegre, tentò di stare nel movimento, non facendo mai prevalere una logica di partito. Eppure, a vent’anni di distanza, sento di portare una responsabilità. Anche noi perdemmo perché non osammo ciò che sembrava allora impossibile, cioè aderire a una nuova idea secondo cui “il movimento è tutto”. Avremmo potuto tentare di sciogliere il partito nel movimento, per provare a far nascere dal suo interno una nuova soggettività critica anticapitalistica, ma post-novecentesca, invece perdemmo l’occasione e tutto il resto. Forse, se insieme a Rifondazione comunista i soggetti politici e sociali organizzati che costituivano il telaio del movimento avessero insieme compiuto quella scelta, l’insorgente conflitto tra il basso e l’alto della società avrebbe potuto avere un corso diverso e la stessa storia di ciò che sono diventati i populismi in Europa sarebbe potuta essere del tutto diversa. Eppure, di quella storia non tutto è andato perduto. Oggi, la rivolta è accogliere la sfida del potere e lo sono anche le cento, mille esperienze sociali, ambientali, di solidarietà, di nuova e diversa economia, di conquista della qualità della vita, così come le nuove forme di lotta sul lavoro. Manca la potenza in campo, ma non sono del tutto scomparsi gli eredi di quella potenza critica. Anche se è sempre improprio parlare di eredi, si possono vedere le tracce nel movimento Black lives matter e in un certo senso anche in quello me-too, perché entrambi i movimenti, come altri che vivono nella nostra stagione, portano dentro essenzialmente una mozione critica dell’ordine esistente. Nel 2001, il G8 era il simbolo del potere costituito, della globalizzazione, e veniva contestato in radice. Oggi, quella critica non vive in potenza, ma vive in forme inedite nella pluralità delle esperienze critiche che cercano le loro strade. Vivono e ci parlano perché hanno capito anche vent’anni dopo quel grande conflitto, in un mondo del tutto cambiato, che senza la forza del contro e del fuori non c’è che l’adagiamento in un sistema che resta un pessimo sistema.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Marco Giusti per Dagospia il 21 luglio 2021. Il film che avrei voluto farvi vedere ieri e che non avete potuto trovare su nessuna rete è “Bella ciao”, il documentario sul G8 di Genova realizzato da me, Carlo Freccero e Roberto Torelli giusto vent’anni fa. Prodotto da Rai Due e mai andato in onda su Rai Due, ho cercato di farlo programmare sia dalla 7 che da Rai Play. Ho chiamato, ho scritto. Nessuna risposta. Poco elegante, ma va bene così. Censurato allora e censurato oggi. Vuol dire che ancora può dare noia. O magari è vecchio. Peccato, perché, come mi scrive Freccero e come penso anch’io, era “un vero servizio pubblico, una memorabile pagina di tv”, inoltre fatto a caldo, con tutto il materiale degli operatori Rai della sede di Genova che non andarono in onda nei tiggì per precisa scelta diciamo editoriale, e con tutto il materiale girato dai movimenti. Inoltre era il primo evento che venne filmato per strada dalla gente con le telecamerine (non c’erano ancora gli smartphone), come controinformazione. Per questo era una precisa ricostruzione di quei giorni e di cosa successe con immagini allora totalmente inedite. Chi l’ha visto, perché è molto girato allora, alla faccia della censura della Rai, lo sa bene. Ma non riuscimmo né a farlo uscire in sala né a farlo vedere in tv. Provammo Venezia. Ma Barbera, allora direttore della Mostra del Cinema, ci disse che non era il caso. Perse lo stesso il posto allora, tanto valeva farlo vedere. Ci dette una mano invece Steve Della Casa a Torino per una primissima proiezione e poi lo portammo come produzione di Rai Due, un meccanismo legato alle reti Rai che da allora, guarda un po’, venne abolito, a Cannes nel 2002 alla Sémaine de la Critique, dove fece il giusto scandalo con Sgarbi in sala e gli uomini di Rai Cinema che facevano finta di non vederci e non ci offrirono neanche un caffè. Ancora mi domando perché l’evento G8 di Genova non venne coperto da Santoro, che era ancora a Rai Due. Disse che era in vacanza, e mandò in onda in replica due giorni dopo una speciale sul sushi di Corrado Formigli. Magari era interessante. Provò a farlo, credo, anche Sara Scalia, ma non ce la fece. Così alla fine coprimmo l’evento noi che volevamo solo fare uno speciale di Stracult sul G8. E quando dicemmo, bleffando un po’, che avevamo molte immagini, ricordo, al Tg1 fecero uscire un quarto d’ora di macelleria perché non potevano nascondere oltre quello che era accaduto non sapendo quello che avevamo. Ma l’idea era stata da subito quella di insabbiare tutto. Inutile dire che quel che è accaduto a Genova ha cambiato radicalmente questo paese e chi aveva vent’anni allora. 

L'inferno di Bolzaneto. I pm: "Eravamo increduli: in un luogo democratico davvero è successo tutto questo?". Intervista di Massimo Calandri su La Repubblica il 21 luglio 2021. I magistrati Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati sono i pm che hanno condotto l'inchiesta su quanto accaduto all'interno della caserma Nino Bixio di Bolzaneto, dove centinaia di fermati sono stati picchiati e umiliati per ore. "La difficoltà consisteva anche nel fatto che il codice italiano non prevedeva all'epoca il reato di tortura – spiegano – e non c'è stata grande collaborazione da parte della polizia nel corso delle indagini. Ci siamo trovati a dover indagare anche su persone con cui avevamo lavorato. Quel processo ha messo in discussione il rapporto tra cittadino e istituzioni ma ha anche contribuito a riaccendere in Italia il dibattito sull'introduzione del reato di tortura".

A.P. per il "Corriere della Sera" il 22 luglio 2021. Il sindaco di Genova all'epoca del G8 era Giuseppe Pericu, avvocato e docente universitario oggi in pensione. Avvocato, che cosa ricorda di quel G8? «Ricordo un anno e mezzo di lavoro per preparalo, cantieri, dibattiti. Il primo giorno filò tutto liscio, sfilarono per la città i manifestanti in modo pacifico. A cambiare le cose fu la tragedia di Carlo Giuliani». 

Batterie antimissili, spazio aereo chiuso, acquedotti sorvegliati. Temeva l'evento?

«Ero un po' preoccupato ma non pensavo all'apocalisse. Erano filtrate delle notizie, credo dai servizi segreti tedeschi, sulla possibile presenza di Bin Laden. Da qui la misura antiaerea. Ma nessuno ci credeva. Sembrava una cosa assurda. E invece non lo era, visto cos' è successo due mesi dopo alle Torri gemelle».

I Black bloc hanno messo a ferro e fuoco la città.

«Mi chiedo ancora adesso come mai non fosse stato impedito il loro arrivo in città. Evidentemente i nostri servizi non avevano funzionato ben e». 

Pensa che sia stata fatta giustizia?

«Non del tutto. Le condanne penali non hanno accertato responsabilità individuali. Non si è mai capito però il perché dei Black bloc e della violenta repressione. Fu spontanea o ordinata da qualcuno? Noi come avevamo chiesto una commissione d'inchiesta che però non fu accolta». 

Perché non vi siete costituiti parte civile?

«Non c'erano i presupposti. Il danno fatto alla Diaz era nei confronti dell'umanità, non della città». 

Cosa le è dispiaciuto di più?

«Che si ricordi il G8 per le violenze e non per i grandi temi in discussione».

Giovanni M. Jacobazzi per “Il Riformista” il 23 luglio 2021. «Il capo della polizia, il prefetto Gianni De Gennaro, all'indomani dell'irruzione nella scuola Diaz, mi presentò le sue dimissioni. Io, però, le respinsi». Claudio Scajola, forzista della prima ora, a luglio del 2001 era il ministro dell'Interno del governo Berlusconi. Attualmente è sindaco di Imperia. Il Viminale è stato accusato di aver preventivamente pianificato la repressione del movimento no global che, vent' anni fa, si diede appuntamento a Genova in occasione del vertice del G8.

Onorevole Scajola, cosa risponde a chi dice che ci fu una volontà "politica" di punire i manifestanti a Genova, anche sulla scia di quanto accaduto in occasione di precedenti vertici internazionali, come quello di Seattle e Goteborg?

Ma quale volontà politica! Pensi che stanziammo risorse importanti, a favore del Comune e della Provincia di Genova, per contribuire all'ospitalità dei manifestanti che erano venuti da tutto il mondo. Parlano le carte dell'epoca, quelle dei giorni precedenti al summit. Nel pochissimo tempo a mia disposizione prima del vertice, ho dedicato i maggiori sforzi a dialogare con tutte le sigle della protesta. Consegnammo anche un vademecum alle Forze dell'ordine, alla vigilia del vertice, nel quale spiegavamo che i manifestanti non erano nemici, bensì persone che esprimevano il loro dissenso in un contesto democratico e che dovevano essere messe nelle migliori condizioni di sicurezza per poterlo fare.

Le cose andarono diversamente....

Purtroppo, come era successo nei vertici precedenti, si infilarono tra i manifestanti dei violenti e dei sovversivi con l'unica intenzione di devastare tutto. In questo senso, devo dire con rammarico che cadde nel vuoto la mia richiesta ai rappresentanti del dissenso pacifico di dividere maggiormente i cortei per evitare il rischio di infiltrati.

Veniamo alla gestione dell'ordine pubblico che definire fallimentare è poco.

Il governo Berlusconi, voglio ricordarlo, era in carica da solo tre settimane. C'erano i piani di sicurezza già pronti, era stato già fatto tutto, e stravolgerli in così breve tempo non sarebbe stato saggio. Manifestammo a più riprese dubbi anche sulla scelta di Genova, troppo complessa per garantire la gestione dell'ordine pubblico. C'erano grandi timori a livello internazionale, non dimentichiamo che soltanto due mesi dopo ci sarebbero stati gli attentati alle Torri Gemelle. 

Non potevate annullare il vertice allora?

Pensammo ad un annullamento del summit, ma la strada è risultata poi non percorribile. Da ministro dell'Interno, ripeto, scelta più infelice di Genova non poteva esserci. 

Torniamo alla gestione dell'ordine pubblico.

 Come ho detto, il governo era in carica da pochi giorni e dovemmo fare affidamento sugli uomini (il capo della polizia Gianni De Gennaro ed il comandante generale dell'Arma Sergio Siracusa, ndr) nominati dal precedente governo di sinistra. 

Ed era un problema?

Su mia proposta il Consiglio dei Ministri deliberò il comando del vice capo della polizia, il prefetto Ansoino Andreassi, presso la Presidenza del Consiglio, quale componente per la sicurezza della struttura di missione per l'organizzazione del G8. 

Ciò non toglie che la gestione dell'ordine pubblico fu un disastro.

Dopo poche ora la fine del vertice, convocai nel mio ufficio al Viminale, Andreassi, insieme al capo dell'antiterrorismo il prefetto Arnaldo La Barbera e il questore di Genova Francesco Colucci. Condivisero con me la necessità che si facessero da parte, anche per lasciare alla magistratura la più ampia libertà di movimento, senza rischi di interferenze, nell'accertare gli errori commessi nella gestione dell'ordine pubblico, nella quale ciascuno di loro aveva precise responsabilità. Lo feci con angoscia dal momento che avevo servito lo Stato con dedizione contribuendo ad infliggere duri colpi alla criminalità. Non so se la stessa cosa sia stata fatta, pochi giorni fa, dopo i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. 

In attesa che la magistratura facesse gli accertamenti, una domanda, ad esempio, sulla mattanza della Diaz se la sarà fatta? Decine di manifestanti picchiati selvaggiamente senza motivo.

Io fui avvisato da De Gennaro dopo il blitz e dopo che i giornalisti avevano dato la notizia dell'accaduto. 

Cosa chiese a De Gennaro?

Come mai non era stato avvertito e chi aveva deciso il blitz. 

Risposta di De Gennaro?

Che l'operazione era stata decisa perché dentro la Diaz, da informazioni precise, si trovavano gli elementi più pericolosi dei black bloc, e che quando si fanno le operazioni non vengono comunicate prima. 

Replicò che questi pericolosi black bloc non c'erano?

Si. E la risposta fu molto imbarazzata, con la disponibilità di De Gennaro a lasciare l'incarico di capo della polizia. 

Che lei, però, rifiutò?

Si. Non volevo creare ulteriori "scossoni" che potevano destabilizzare la polizia di Stato. Tenga presente che avevamo allarmanti rapporti informativi sul terrorismo. Si faceva il nome di Bin Laden che allora non conosceva nessuno.

In conclusione si può dire che l'esordio del governo Berlusconi nel 2001 non è stato dei migliori?

A parte il clima di pressione per la presenza dei capi di Stato esteri e gli allarmi dell'antiterrorismo, erano in molti a fare il tifo perché il vertice fallisse.

Vent'anni dal G8. La cultura della tortura, Genova 2001 è ancora qui. Riccardo De Vito su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Luglio 2021, vent’anni dopo. Genova non è ancora una città intera, a dispetto delle parole che rivolgeva, all’inizio della sua Litania, Giorgio Caproni: Genova mia città intera. I nomi dei luoghi, delle strade, delle piazze – Bolzaneto, Diaz, via Tolemaide, Piazza Alimonda (piazza Carlo Giuliani, ragazzo) – stanno lì a testimoniare un’espropriazione della democrazia subita dalla città medaglia d’oro della Resistenza e da tutta la Repubblica italiana ad opera dello stesso Stato che la dirige, di un suo apparato. Un’amputazione, prima di tutto, di vita, di salute, di dignità patita dalle vittime delle violenze, per le quali la toponomastica della città rimarrà la mappa mentale di un martirio, del risveglio sulla loro pelle – contro la barriera della loro pelle – del cuore di tenebra del Novecento annidato dentro le istituzioni democratiche. La “sospensione della democrazia” si manifesta prima di tutto nei loro denti rotti, nei polmoni perforati, nelle ossa fracassate dai manganelli. Ferite – hanno scandito i magistrati della Giunta ANM della Liguria davanti alla Diaz il 21 luglio (un gesto che vale più di un congresso per ricostruire la credibilità di tutta la magistratura) – che non basta l’attività giudiziaria a riparare. Non basta perché, come ci raccontano le frasi di Jean Améry custodite da Primo Levi, “la fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più”. Lo scrittore austriaco, per ritrovare un posto nel mondo dopo le torture dei campi di concentramento, aveva cambiato nome, anagrammando il tedesco Mayer nel francese Améry. Mark Covell, giornalista quasi ucciso dalla polizia la notte della “macelleria messicana”, di nomi è ancora in cerca. Sa quelli dei dirigenti condannati per i falsi e i depistaggi, sa quelli dei vertici della catena di comando – tutti regolarmente promossi nella scala delle loro carriere, nonostante gli accertamenti giudiziari –, ma non conosce ancora i nomi di tutti coloro che hanno infierito su di lui. Non li può sapere, dal momento che è mancata una leale collaborazione delle forze di polizia nell’identificazione dei responsabili e che la fedeltà allo spirito di corpo ha prevalso sulla fedeltà alla democrazia. “Lack of cooperation”, è questo il termine utilizzato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per stigmatizzare la condotta. Non è una novità. C’è una sentina nella storia d’Italia nella quale sono depositate le scorie delle vicende di violenza degli apparati di polizia accompagnate da falsi, depistaggi, ripudio dell’identificazione dei responsabili, rifiuto di avviare indagini e promuovere accertamenti interni: Padova, ai tempi della cattura del generale Dozier, il reparto “Agrippa” di Pianosa poco dopo l’arrivo dei 41-bis (alcuni dei quali indagati poi assolti con formula piena), Sassari nel 2000. E poi il carcere di Asti, la caserma dei carabinieri di Roma Casilina, la Raniero a Napoli, Genova. E ora Santa Maria Capua Vetere. A quasi tutte quelle vicende corrispondono sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Non tutte le pronunce hanno condannato il nostro Paese per violazione sostanziale dell’art. 3 CEDU – la norma che pone il divieto di trattamenti inumani o degradanti e tortura –, ma è stata sempre accertata e sanzionata l’assenza di “un’effettiva indagine ufficiale”. Indagine effettiva impedita da quella intenzionale mancanza di cooperazione di cui si possono inanellare esempi: a Genova, per l’identificazione dei responsabili, le amministrazioni di appartenenza avevano messo a disposizione dell’autorità giudiziaria foto degli agenti risalenti addirittura all’arruolamento; a Pianosa, chi si era dichiarato vittima di tortura aveva affermato di poter riconoscere il proprio aguzzino, ma ebbe la possibilità di effettuare la ricognizione fotografica soltanto su fotocopie sbiadite delle fotografie dei pubblici ufficiali denunciati. Nonostante questo a Genova, pur tra contrasti e qualche ostilità dei vertici degli uffici giudiziari, c’erano Pm indipendenti (all’interno del loro ufficio, prima di tutto) e giudici soggetti soltanto alla legge, ancora forti di un principio di obbligatorietà dell’azione penale tutto intero, non inciso da una maggioranza parlamentare che potesse dire con forza di legge di indirizzare l’azione verso altre priorità. È grazie a questo statuto costituzionale di garanzie che si è arrivati alle verità consacrate nelle sentenze sui casi Diaz e Bolzaneto. I rischi di attività giudiziarie sgretolate, non tempestive, scarsamente efficaci, tuttavia, sono sempre dietro l’angolo. Se vogliamo davvero sanare il debito nei confronti della città e della Repubblica, se vogliamo provare a ricostruire quell’interezza persa, occorre almeno che la politica assuma definitivamente la responsabilità di implementare l’imperfetta legge sul reato di tortura (l. 110/2017) con meccanismi che siano in grado di consentire quelle indagini: imprescrittibilità del reato, sospensione obbligatoria degli indagati e rimozione dei condannati, identificativi sui caschi e sulle divise. Sono prescrizioni messe nero su bianco in tutte le condanne e gli accertamenti europei nei confronti del nostro Paese. Sono dispositivi, peraltro, la cui necessità è confermata, proprio nell’anniversario del G8 ligure, dai fatti del carcere Santa Maria Capua Vetere. Quei pestaggi, nella loro tragicità, testimoniano anche un’altra esigenza ancora più profonda: fare i conti con una cultura, quella della tortura, che proprio a Genova ha messo definitivamente le sue radici e che si è sottratta anche alle prassi di addomesticamento linguistico (M. Menegatto) del vocabolo. Per comprendere appieno questo concetto bisogna spostarsi poco nello spazio e tanto nel tempo. Sempre a Genova: piazza Corvetto, ma nel 2019. Durante gli scontri tra estrema destra e antifascisti seguiti a un comizio di Casapound, il giornalista di Repubblica Stefano Origone, caduto a terra mentre era intento a svolgere il suo lavoro di cronista, viene accerchiato dagli agenti e colpito per circa venti secondi con i manganelli e gli scarponi in ogni parte del corpo. È bene chiarire che i responsabili sono stati condannati, in primo grado, a quaranta giorni di reclusione per eccesso colposo, non per reati dolosi (anche se pende appello della Procura). La vicenda, però, interessa qui per un altro aspetto, decisivo. Nel corso dell’interrogazione parlamentare richiesta da una parlamentare ligure, il sottosegratario all’Interno, dopo aver fornito qualche dettaglio dei fatti, ha espresso rammarico perché “i cronisti non erano riconoscibili”. Quella frase, ascoltata dopo i video che riprendono l’episodio, restituisce l’esatta misura di quella cultura per cui la tortura contro un cronista no; contro un cittadino onesto neppure; ma contro un terrorista, contro un devastatore, contro un mafioso, contro un nemico, allora sì. Poco importa se quel nemico sia una minaccia reale o, come accaduto a Genova in danno dei movimenti e come spesso accade in danno di chi agisce il conflitto sociale, sia una minaccia costruita, magari con l’aiuto di un’informazione rimasta nelle mani di troppo pochi proprietari. Conta il fatto che per il nemico valgono regole diverse, diverse soglie di accettabilità della violenza, sempre più sistematica, metodica e giustificata. Un diverso statuto di umanità, in fin dei conti, legittima che il ripristino dell’ordine comporti qualche sacrificio nei confronti di chi sta fuori dal recinto della cittadinanza. Sta qui il pericolo che la democrazia cova al suo interno e da qui sgorga il dovere – gravante su tutti, sulla parte sana delle agenzie di polizia e sulla magistratura (non immune da episodi di concorso nella costruzione di quell’ordine simbolico) – di ribadire che invece no, che è quella violenza a essere contro la democrazia e a metterne a nudo la precarietà della conquista. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo lo ha chiaro: il divieto di tortura non è mai derogabile, neppure in stato di guerra. Vale anche per la nostra Costituzione. Non c’è nemico che giustifichi la tortura, strumento con il quale la democrazia tradisce prima di tutto sé stessa. Riccardo De Vito

Diaz, il sangue e l’impunità. Dalle molotov sequestrate altrove e comparse a scuola al finto accoltellamento. Il piano della polizia di De Gennaro per legittimare la “macelleria messicana” tra prescrizioni, promozioni, e condanne europee per tortura. Ecco il secondo capitolo di una ferita che non dobbiamo dimenticare. Simone Pieranni su L'Espresso il 14 luglio 2021. Il 21 luglio, a Genova, la scena se la prende la polizia: i carabinieri vengono tenuti ai margini, c’è un morto e si sono fatti pochi arresti, bisogna rimediare. La polizia deve rimediare. Inizia il piano della scuola Diaz, che in realtà ben presto, in sede di indagine, si rivelerà improvvisato in riunioni cariche di tensioni, cui seguiranno anche accuse incrociate tra gli stessi appartenenti alle forze dell’ordine. Esaminando le relazioni di servizio dei poliziotti di turno quella sera del 21 luglio a Genova le omissioni sono incredibili: in alcuni casi mancano addirittura le firme. Alla richiesta della Procura di avere le foto dei poliziotti impegnati nell’irruzione, il pm Enrico Zucca riceve immagini prelevate dagli album dell’infanzia degli agenti. E soprattutto: ai procuratori non sfugge un particolare. Scartabellando tra le migliaia di pagine dei faldoni si accorgono di una cosa: Pasquale Guaglione, vicequestore a Gravina di Puglia (Bari) in servizio a Genova per il G8, riferisce di aver consegnato a un reparto della polizia due bottiglie molotov rinvenute in corso Italia durante i disordini nel tardo pomeriggio del 21 luglio. Guaglione lo scrive nella relazione di servizio, ma manca una cosa: il verbale di sequestro delle due molotov. L’assenza di questo documento insospettisce i pm che chiamano Guaglione. I pm gli mostrano le due molotov sequestrate alla Diaz ma omettono di dirgli che fossero proprio quelle provenienti dalla scuola. Guaglione ovviamente le riconosce subito: le aveva trovate lui in corso Italia. Lo può dire con certezza (ed è uno dei pochi a cui la memoria pare funzionare e infatti non sa di inguaiare i suoi colleghi) perché la marca delle bottiglie la ricorda bene. Disinnescare le molotov, significa abbattere l’intera operazione della Diaz, motivata dalla presenza dei black bloc e dalla presenza di armi da guerra (come sono considerate le molotov). Significa non avere più giustificazioni, se mai fosse possibile trovare giustificazioni alla mattanza, per motivare botte, violenze, arresti. Ma servivano arresti, a tutti i costi. Le molotov (che poi spariranno nel corso dei procedimenti dalla sezione reperti del tribunale di Genova) non sono l’unico “falso” della Diaz: ci fu anche un agente che inscenò un’aggressione subita, a colpi di coltello, rivelatasi poi un’invenzione. Si tratta di uno degli agenti del VII nucleo Massimo Nucera; nel rinvio a giudizio del 2004 fu accusato di falso e calunnia perché «falsamente attestava di essere stato attinto da ignoto aggressore con una coltellata vibrata all’altezza del torace, che provocava lacerazioni alla giubba della divisa indossata e al corpetto protettivo interno, così avvalorando quanto descritto negli atti di arresto e di perquisizione e sequestro circa il comportamento di resistenza armata posta in essere dagli arrestati». Anche nel caso del procedimento per l’irruzione alla scuola Diaz, nelle aule di tribunali genovesi la catena di comando della polizia finisce sotto la lente di ingrandimento di procura e parti civili, perché i poliziotti che materialmente fecero l’irruzione sono irriconoscibili e ancora meno possono essere riconosciuti partendo dalle foto della prima comunione mandate in procura. Per questo verranno puniti i livelli apicali, poliziotti riveriti e considerati integerrimi: come i loro colleghi carabinieri anche i poliziotti inviati a Genova a gestire la situazione avevano curriculum importanti, anni di lotta alla criminalità organizzata, alla mafia, quasi intoccabili. E infatti è l’impunità l’elemento che più forte emerge da tutti i processi, dal loro procedere in aula dimentichi di ogni cosa, elemento piuttosto inquietante se associato a persone che, al di là del G8, dovrebbero garantire la nostra sicurezza. In primo luogo il capo, Gianni De Gennaro: l’uomo che aveva riportato Tommaso Buscetta dal Brasile in Italia e che con Giovanni Falcone aveva contribuito a istituire il maxi processo che per la prima volta conclamerà l’esistenza di una struttura criminale ramificata dal nome Cosa Nostra, il capo della polizia dai mille dossier e dalla capacità di muoversi tra partiti e correnti politiche (non a caso, in seguito sarà Luciano Violante in commissione d’inchiesta a indicare a De Gennaro una strada per la sua difesa, basata sull’impossibilità per il capo di sapere i dettagli di certe operazioni; bizzarro considerato che qualche anno dopo De Gennaro sarà incriminato per aver tentato di depistare il processo). Le indagini della procura di Genova portano al rinvio a giudizio alcuni esponenti di spicco della polizia italiana (e molto vicini a De Gennaro): Francesco Gratteri (all’epoca a capo dello Sco, il servizio centrale operativo anti crimine), il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Giovanni Luperi, Gilberto Calderozzi (che in seguito prenderà il posto di Gratteri), Filippo Ferri (allora  capo della squadra mobile di La Spezia, uno dei tanti che successivamente sarà promosso) e Fabio Ciccimarra (che era già imputato a Napoli per le violenze sugli arrestati nella Caserma Raniero a maggio del 2001). Insieme a loro ci sono gli altri firmatari dei verbali, l’allora questore di Genova Spartaco Mortola, il vicequestore Massimiliano Di Bernardini, il vicequestore Pietro Troiani e l’agente Alberto Burgio. Tutti chiamati a rispondere per abuso di ufficio per la gestione dell’intera operazione nonché dei reati di falso e calunnia in relazione al falso ritrovamento delle due bottiglie molotov. Per i pestaggi all’interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini, Michelangelo Fournier e gli otto capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone. Il primo a finire sotto accusa è proprio Canterini, a capo del Settimo nucleo e chiamato per partecipare all’azione. L’intervento, infatti, era stato deciso in Questura a seguito di un episodio poco chiaro e dai contorni piuttosto fumosi, ovvero un presunto agguato a una pattuglia nella zona vicina al complesso Diaz-Pertini. Grazie agli atti del processo sappiamo che nella riunione in questura viene deciso l’intervento presso la Diaz. Secondo la testimonianza di Ansoino Andreassi (deceduto nel gennaio 2021), «la riunione si chiuse con la decisione circa i reparti da impiegare: si telefonò a Donnini che ci disse che era disponibile la squadra speciale del reparto mobile di Roma. Tale squadra era stata costituita in occasione del G8 di Genova con una selezione dei volontari; una commissione aveva scelto i membri, accertandone la loro lucidità, capacità ed assenza di precedenti negativi. Io quindi, proprio per tali motivi, ritenni tale squadra adatta al compito. Non doveva procedere alla perquisizione, ma soltanto essere utilizzata in caso di necessità per ordine pubblico. Io non ipotizzavo la necessità di un’irruzione». Canterini ha idee diverse, come emerge dalla sua testimonianza: «Mi venne detto che vi era stata l’aggressione di una pattuglia da un edificio scolastico in cui si riteneva che vi fossero i black bloc. Da parte mia ritenevo che la cosa non fosse particolarmente semplice perché si sarebbe dovuto fare un cordone intorno alla scuola, avere una planimetria ecc. Dissi quindi che a mio parere poteva essere più idoneo utilizzare alcune bombe lacrimogene per far uscire tutti dall’edificio senza che nessuno si facesse male; La Barbera (Arnaldo La Barbera all’epoca era a capo dell’ex Ucigos, deceduto nel dicembre 2002, ndr) escluse subito tale possibilità. Scesi e davanti alla Questura vidi con un certo stupore un apparato immenso formato da diversi corpi, una macedonia di reparti mobili». Di sicuro i Canterini boys sono tra i primi a entrare: peccato che non si sappia, ancora oggi, chi fossero i singoli agenti protagonisti dell’irruzione. Non bastassero i racconti fumosi, le omissioni, lo scaricabarile, ci sono poi le testimonianze delle vittime, terribili nel raccontare quei momenti concitati e di vero terrore. «Sentii rompersi vetri e quindi colpi sulla porta!, ha raccontato in aula una vittima, «finché non si aprì. Entrano quindi alcuni poliziotti in uniforme che si dirigono verso di noi, che alziamo le braccia e indietreggiamo contro il muro; un poliziotto ci lancia contro una sedia; ci circondano e iniziano a colpirci con manganelli e calci. Ho visto due poliziotti che colpivano una persona che peraltro non si stava proteggendo la testa con il manico del manganello che aveva la forma di “T”. Il manganello veniva impugnato dalla parte lunga e questo è il particolare che mi ha colpito». Se non bastassero le deposizioni delle vittime, il 13 giugno 2007 in aula a Genova arriva Michelangelo Fournier, all’epoca del G8 del 2001 a Genova vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma. La sua deposizione in tribunale è importante per diversi motivi: intanto perché Fournier riconosce che durante le indagini non aveva avuto il coraggio di denunciare comportamenti così gravi da parte dei poliziotti «per spirito di appartenenza» e poi perché parlerà chiaramente di «macelleria messicana», raccontando ai giudici un particolare fondamentale: «Non ho visto comportamenti di resistenza da parte degli occupanti, non ho visto lanci di oggetti». Si tratta di una smentita in piena regola dell’impianto difensivo degli agenti a processo (che accusarono i manifestanti, tra l’altro, di avere già ferite pregresse). Sappiamo come è andata, alla fine: condanne in prescrizione, promozioni, carriere che non si sono fermate, sentenze europee di condanna per la tortura e gli abusi. Ma le parole dei processi – per fortuna – sono lì a ricordarci cosa successe: dovrebbero essere un monito perché certe cose non accadano più. E come capita spesso ai moniti, anche quello uscito dal processo per l’irruzione alla scuola Diaz, viste le sequenze dei fatti di cronaca con protagonisti agenti avvenute dal 2001 in avanti, pare sia rimasto piuttosto inascoltato.

Chiedi cos’era la Diaz. Marco Damilano su L'Espresso il 2 luglio 2021. Vent’anni fa i fatti del G8 di Genova: le violenze e la menzogna di stato, la sospensione della Costituzione. E una generazione che ha perso per sempre fede nella politica e nelle istituzioni. Allora si è aperto il vuoto che dura ancora oggi. Chiedi cos’era la Diaz, chiedi che cosa è successo a Genova. Chiedilo a un ragazzo di venti anni che nel 2001 era appena nato. Cosa successe in quell’estate breve durata due mesi. Dal pomeriggio del 20 luglio, quando Carlo Giuliani cadde in una pozza di sangue, al pomeriggio dell’11 settembre a New York. «L’intero mondo abitato cambiò», sono le parole che lo storico Ibn Khaldun scrisse quasi sette secoli fa a proposito dell’epidemia di peste nera del 1348 che gli aveva strappato i genitori, tornate tragicamente attuali nell’ultimo anno con la pandemia di Covid-19. Ma il mondo intero era già cambiato venti anni fa, all’alba del secolo e del nuovo millennio. Quando la globalizzazione lucente degli anni Novanta - la caduta dei muri, la Rete nuova agorà democratica - aveva mostrato il suo volto violento. A New York. E prima ancora per le strade di Genova. Un’intera generazione ha vissuto un Sessantotto accelerato, durato 48 ore: la spinta al cambiamento di massa, che coinvolgeva la società civile, i centri sociali, le reti cattoliche, le organizzazioni giovanili dei partiti, le manifestazioni popolari e pacifiche devastate con l’uso feroce delle violenze di piazza, quei black bloc venuti dal nulla e nel nulla tornati. L’omicidio, il massacro, la sospensione delle garanzie costituzionali in una scuola e in una caserma, sotto gli occhi di ministri della Repubblica. La menzogna di Stato che mise al riparo i responsabili di vertice della macelleria messicana, primo fra tutti il capo della Polizia dell’epoca Gianni De Gennaro che non ha mai trovato il modo di dire una parola almeno di scuse, a differenza di quanto fece undici anni dopo il suo successore Antonio Manganelli e poi quattro anni fa con nettezza Franco Gabrielli, oggi sottosegretario: «Se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia». E infine il riflusso di chi aveva allora venti o trenta anni e che non ha più voluto sapere di un’impresa collettiva dopo l’incontro con la politica e con le istituzioni violento e bugiardo. Genova è anche questo: l’occasione perduta, la fine dell’impegno, la voragine. Il buco nero in cui è precipitato tutto. «Ho cominciato a scavare nella memoria e mi sono ricordato di qualcosa che non ho mai tirato fuori. Quando dico che quelle giornate hanno cambiato il mio rapporto con l’autorità e con le divise non penso al fatto soltanto che ci hanno menato, e di più e più duramente, ma ci sono due fatti specifici che su me ragazzino ebbero un effetto devastante. La sera, dopo la morte di Carlo Giuliani, i cori delle forze dell’ordine: siete uno di meno. E sul corpo di Carlo Giuliani c’erano i segni delle sigarette spente su di lui», mi ha detto qualche mese fa Michele Rech Zerocalcare che firma la sconvolgente copertina di questo numero dell’Espresso. «Quello che è scomparso dopo Genova è stata la società civile. Quando succedeva qualcosa c’erano l’Arci, i cattolici e i centri sociali, assemblee cittadine, ognuno con le sue modalità declinava lo stesso tema. Gli unici che hanno resistito sono quelli che non avevano un approccio naif alla violenza. Tutti gli altri sono stati spazzati via». La Repubblica italiana, con gli uomini che oggi sono ai vertici delle istituzioni, ha il dovere di fare verità su quelle giornate di venti anni fa, anche a questo servono le ricorrenze. Soprattutto se le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere rilanciano l’orrore di funzionari dello Stato in divisa che picchiano, oltraggiano, sputano, fanno inginocchiare detenuti a loro affidati. Lo Stato ha il dovere di ricucire la ferita di quelle giornate di sospensione della democrazia. E noi in questo e nei prossimi due numeri ripercorriamo con la memoria e il rigore di Simone Pieranni quelle giornate di Genova 2001: Piazza Alimonda e Carlo Giuliani, la scuola Diaz, la caserma Bolzaneto. Le sevizie, gli insulti, le umiliazioni, ancora il sangue. La tortura che ha portato l’Italia fuori dall’Europa. Ma quello che non si può recuperare è la generazione rimasta senza politica. E finita nell’anti-politica. «Il giorno prima dell’ultimo grande Flash del G8 a Genova, ero a Pegli con Gino Paoli: un bancomat finto, una macchina da demolire e Gino con una tuta bianca e una mazza che lo sfasciava, mentre dal palco io cantavo “Senza fine”. Il consiglio che davo a tutti era di stare alla larga dal G8, sarebbe stato pericoloso, ed è stato inutilmente terribile. È stato l’ultimo fenomeno spontaneo di massa che prevedesse il futuro prossimo in cui erano rappresentati tutti. C’era la rappresentazione di come sarebbe diventato il mondo da li a breve». Lo scrisse Beppe Grillo sul suo blog il 10 aprile 2017. Lui, genovese, al G8 non c’era, era sul palco dell’arena estiva di villa Doria a Pegli con l’amico Gino Paoli, faceva ancora l’uomo di spettacolo, nessuno avrebbe mai immaginato la sua metamorfosi in capo politico. Ma parlò, anche in quei giorni, un mese dopo il G8, in un’intervista alla Stampa. «Avrei voluto che quelli del Social Forum avessero finto di andare a Genova a manifestare e poi trasferirci tutti al mare lasciando migliaia di poliziotti schierati a controllare strade e piazze vuote. Ma io sono un privilegiato: guardo a distanza. Gli altri, e sono ormai centinaia di migliaia di persone, hanno bisogno di rendersi visibili. E hanno ragione... In che cosa consiste la differenza tra oggi e il ’68? La differenza è che questo è un movimento che ha mille anime: Greenpeace, Lilliput, il commercio equo-solidale, i cattolici, le tute bianche. La sua forza sta nella frammentazione. E nel volere cambiare qualcosa subito, non tutto domani. Per questo temo molto che qualcuno possa mettersi alla sua testa e modificarlo imponendo una strategia comune. Ho paura di un leader. E ne ho più paura ancora se va a parlare da Costanzo». È lo stesso Grillo che oggi, venti anni dopo, ha fondato il primo partito italiano e ha distrutto la figura dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dopo averlo creato. La paura del leader è anche la paura di dover lasciare la creatura Movimento 5 Stelle e il potere a un altro. In mezzo ci sono questi due decenni. In cui è stata sconfitto il sogno di un altro mondo possibile, di un’altra politica, come la chiamò Stefano Rodotà, all’indomani della vittoria referendaria su nucleare, acqua pubblica e giustizia quando la sera del 13 giugno 2011 ventisette milioni di persone escono di casa per votare sui referendum sull’acqua pubblica, sull’energia, sulla giustizia uguale per tutti. «Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla... Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri» (Repubblica”, 16 giugno 2011). Non una rivolta anti-politica, ma la richiesta di politica, di un’altra politica. Sconfitta in questi anni, dopo essere stata violentata a Genova. Lo si vede nelle classi dirigenti dei partiti del centro-sinistra, lontane da quelle esperienze, a differenza di quanto successo in altri paesi mediterranei, in Spagna, in Grecia, dove Pablo Iglesias e Alexis Tsipras, comunque si voglia giudicare la loro parabola, sono arrivati al governo dei loro paesi partendo dalle strade di Genova. Lo si vede nella società civile che si è tenuta lontana dalla politica. E dalla qualità delle battaglie e delle campagne. Oggi le piazze si riempiono dei ragazzi e delle ragazze dei Gay Pride che manifestano in modo collettivo per i loro diritti individuali, a partire da quello di non essere discriminati. E poi la libertà di scegliere la propria identità, il genere, la felicità personale. È come se l’altro mondo possibile si fosse ristretto per ognuno nei confini della propria esistenza. I cortei giovanissimi dei Fridays for Future sono evaporati durante la pandemia: forse proprio per l’impossibilità di un rapporto con la politica. E in Italia, da ultimo, il movimento delle Sardine è stato un sintomo della malattia, la separazione tra la società e la politica, ma anche la dimostrazione di una impossibilità di rapporto. Perché l’altra politica è l’aspirazione a un cambiamento, ma anche costruzione di politica: le regole del conflitto, una generazione che si scontra con l’altra, la conquista del potere, non un pranzo di gala. L’altra politica è la politica. Senza la politica c’è la pura gestione, l’affidamento a sedi decisionali estranee ai meccanismi democratici, o l’inseguimento del popolo di cui parla lo storico Giovanni Orsina con David Allegranti in un libro appena uscito per Luiss University Press: «Se l’antipolitica si regge sulla politica, finisce anche per collocarsi allo stesso livello. Se scende la qualità dell’una, cala di conseguenza pure quella dell’altra». È la storia di questi ultimi anni e degli ultimi giorni. Tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, il vero anti-politico è stato il secondo, l’ex premier che ha preteso di farsi capopartito in virtù del fatto di aver guidato il governo. Una leadership calata dall’alto, artificiale, plasmata dagli strateghi della comunicazione e dagli adulatori che l’hanno costruita sui giornali, ma senza radice nel reale. Mentre Beppe Grillo, ancora una volta, ha dimostrato di aver del capo politico carismatico il senso del tempismo, la ferocia e il cinismo, la difesa strenua di quanto costruito. La tempesta che agita il Movimento 5 Stelle, il centro dello schieramento politico, minaccia di investire tutto il sistema, quando partirà il semestre bianco di Sergio Mattarella e si potranno rovesciare i tavoli senza pagare il prezzo del voto anticipato. Ma il vuoto di politica è cominciato da lì, da quelle strade di Genova venti anni fa. E da quella domanda di cambiamento stroncata con la violenza dagli uomini che indossavano la divisa dello Stato democratico.

“Io, pestato nella caserma di Bolzaneto. Tra le risate dei poliziotti e le urla di dolore degli altri ragazzi”. Valerio Callieri su L'Espresso il 7 luglio 2021. Il racconto delle violenze subite nei giorni del G8 di Genova del 2001. “La cosa peggiore è sentire quello che stavano subendo gli altri arrestati”. Il 21 luglio 2001 vengo arrestato dalla polizia e portato nella caserma di Bolzaneto. È mezzogiorno e nell’aria sono svanite le nuvole di lacrimogeni del giorno precedente, quando un colpo di pistola sullo zigomo ha ucciso Carlo Giuliani. (…). Confesso che non conoscevo bene la storia del G8, prima di andare a Genova a protestare contro il suo ventisettesimo vertice. Se guardo le facce dei leader di allora, oltre a Berlusconi mi appare il suo amico, il sempiterno Putin, gli sconosciuti (a me tuttora) Koizumi e Chrétien (rappresentanti rispettivamente del Giappone e del Canada), il francese Chirac e il suo centro-destra lontanissimo dagli standard estremi della destra europea attuale, Gerhard Schröder e Tony Blair, simili a souvenir di una sinistra vincente che non ha più vinto forse proprio a causa della loro eredità (tutto ciò è volutamente ambiguo, anche perché ci vorrebbero diverse centinaia di pagine per gettare luce sull’argomento), e poi George W. Bush che da lì a poco traghetterà gli Stati Uniti nel terzo millennio privando milioni di uomini, donne e bambini di scuola, sanità e sicurezza – oltre a ucciderne centinaia di migliaia, alla ricerca di inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq e Afghanistan (a proposito: in compagnia del leader della sinistra della terza via, Tony Blair). Sembra incredibile a raccontarla così, ma per giustificare l’invasione militare inventarono la presenza di armi chimiche o batteriologiche in Iraq e in molti credettero veramente a questa storia, e con “molti” intendo politici, giornalisti, professori, persone che in teoria dovrebbero avere dimestichezza con certi giochini di guerra governativi. Gli Stati Uniti non crearono un casus belli iconico come la defenestrazione di Praga, né romantico quanto il ratto di Elena, ma nemmeno tentarono di infilare di soppiatto un paio di bombe sporche nella cantina di Saddam Hussein. Le forze dell’ordine italiane a Genova, invece, cercarono di fare proprio così. La scuola Diaz era un edificio che il comune di Genova aveva dato in gestione ai manifestanti. La sera del 21 luglio alcuni di loro lo usarono per farsi una dormita prima di tornare a casa. Quando la polizia irruppe, piazzò delle bottiglie molotov per mostrare che coloro che poi massacrò erano individui violenti, famigerati black bloc che per due giorni si erano dedicati alla meticolosa distruzione di vetrine e simboli multinazionali. Quando ci penso, mi appare sempre una scena del genere: i poliziotti entrano alla chetichella nell’edificio con una busta della spesa contenente due molotov e si domandano dove piazzarle esattamente per far sì che la busta risulti proprietà legittima dei manifestanti; uno di loro ha la vocina petulante di Steve Buscemi nel film “Fargo” e avanza tutte ipotesi improbabili – «Le mettiamo qua nel sacco a pelo? Nella tasca della tizia tedesca? Ci scriviamo sopra il nome con il pennarello, tipo festa della scuola media? Ma se poi riconoscono la mia calligrafia?» –, mentre l’altro ha la faccia ottusamente feroce del suo collega criminale Peter Stormare e dice solo «No!» e fuma, ed entrambi hanno la barba ben rasata, gli occhi stanchi e la convinzione – giustissima, tra l’altro – di essere abbastanza intoccabili. Chissà se osservano o partecipano al pestaggio collettivo in atto? Non lo descriverò. Mi torna sempre in mente la foto del termosifone giallastro sporco di sangue con ciuffi di capelli appiccicati. (…). Io ho preso diversi colpi, calci e pugni, sono stato costretto a stare in piedi con le mani sopra la testa e appoggiate al muro per diverse ore – quasi un giorno – senza mangiare né bere, ho ricevuto insulti abbastanza prevedibili (l’immancabile zecca, tua madre fa questo e quello, sfasciavetrine) e ascoltato canzoncine che inneggiavano alla morte degli ebrei e dei negri e alla grandezza di Pinochet e del duuu-ce (...). Credo di essere stato fortunato: non mi hanno spaccato i denti a calci, non mi hanno fratturato un braccio, non mi hanno inondato gli occhi di spray al peperoncino, non ho riportato un’emorragia cerebrale o toracica, non mi hanno minacciato di stupro, non mi hanno lanciato per le scale a testa in giù, non mi hanno spento sigarette sulla pelle, non sono andato in coma e non mi hanno sventolato un cazzo a pochi centimetri dal naso. In realtà, se devo dirla tutta, la cosa che più mi ha terrorizzato della mia permanenza a Bolzaneto non è stato quello che ho subìto, ma quello che sentivo stavano subendo gli altri. Nella nostra cella arrivavano le urla terribili di altri manifestanti, urla che sono rimaste per diverso tempo aggrappate ai ricordi delle settimane successive. Devo anche ammettere il sollievo codardo di non essere là e la paura tremenda che sarebbe presto toccato a noi, cosa che in parte accadde, e poi l’arrivo improvviso dell’elemento che più di tutti mi spinge a chiedermi cos’è un essere umano: le risate. Insieme alle urla di dolore, sentivo le risate. È qualcosa che non t’aspetti, perché le grida di dolore di tante persone in qualche strage o film le abbiamo sentite, però le risate, le risate no. Ovviamente la scena de Le iene con lo psicopatico che tortura ridendo il poliziotto l’abbiamo vista, ma le urla provenivano da una persona sola e lo psicopatico era caratterizzato come psicopatico appunto, perfino gli altri rapinatori lo schifavano. Poi ci sono il pestaggio del barbone e lo stupro di gruppo di “Arancia meccanica”, però, anche lì, gli autori erano ragazzotti iperstimolati e violenti, non propriamente forze dell’ordine. A mia memoria, ma potrebbe essere soltanto uno stereotipo del mio immaginario, i film con nazisti mostravano sempre personaggi molto freddi che ascoltavano Beethoven durante o dopo lo svolgimento delle loro mansioni. Anche se la realtà delle foto sbucate dal carcere di Abu Ghraib con i sorrisi dei militari americani davanti a corpi umani accatastati e abusati in maniera orripilante ha raccontato altro. Come per le armi di distruzione di massa e le molotov, quelle foto sembrano essere la versione pornografica proiettata su un maxischermo di ciò che accadde a Genova due anni prima. E poi: sono risate di scherno verso la vittima o sono risate di reale divertimento per il dolore inflitto alla zecca-negro-puttana-nano-frocio? Sono risate per cementare una relazione tra duri, tra uomini in divisa che ne hanno viste così tante che questi ragazzini fanno semplicemente ridere? Sono risate del bambino che può permettersi il piacere di fare ciò che vuole? Davvero, mi fa impazzire: non riesco a capire come è possibile ridere mentre si infligge dolore e si vede il dolore negli occhi di un’altra persona immobile. (...)

 LA RICOSTRUZIONE. Genova, 20 luglio 2001.

“Massacrateli”: vent’anni fa, nei giorni del G8, la carica dei Carabinieri al corteo No Global in via Tolemaide e la morte senza giustizia di Carlo Giuliani. L’inizio di una guerra dentro le forze dell’ordine in cui furono stroncati i movimenti democratici. Simone Pieranni su L'Espresso il 2 luglio 2021. «Di Furia, quanti siete? Siamo 72 incazzati come bombe. Ok va bene signor maggiore. Mandateci a lavorare per Dio. Va bene». Il maggiore Di Furia scalpita. È fermo da ore, senza ricevere ordini, mentre i suoi «colleghi» stanno affrontando quella che poi verrà descritta alla stregua di una guerra. Il 20 luglio 2001 Di Furia ha un problema: «Io ho già tutto il personale sui mezzi, i mezzi accesi, mi basta solo un via libera da parte vostra quando volete. Dobbiamo ricattare la questura per farci liberare. Perché io lo ammazzo questo funzionario, odio più lui dei no global, se dessero fuoco alla questura farei festa». Hanno voglia di buttarsi nella bolgia, lui e i suoi uomini. Le sue dichiarazioni passano inosservate all'interno di processi che proveranno a dipanare – con l'utilizzo di oltre 300 ore di video e 15 mila fotografie, perché il G8 di Genova fu anche un evento mediatico benché in un mondo senza ancora i social - quanto successo in quei tre maledetti giorni, a Genova, nel 2001; dinamiche via via sporcate da testimonianze reticenti, da un'omertà di corpo e da ben più congegnati tentativi di depistare alcuni rivoli dei procedimenti. Mentre Di Furia cerca un modo per partecipare, finendo per lanciare un augurio ai suoi colleghi, «massacrateli», si consuma la carica più terribile del 20 luglio (il giorno dopo ce ne sarà un'altra in corso Italia, con il corteo spezzato in due e i manifestanti rincorsi perfino sulla spiaggia). Il corteo autorizzato dei Disobbedienti sta attraversando via Tolemaide: è la trappola perfetta perché da una parte c'è il muro della stazione, dall'altra c'è il reticolo di piccole vie e cortili interni di palazzi. Più avanti c'è un tunnel, che porta verso lo stadio (e il carcere). Ma soprattutto il problema è dietro: migliaia di persone ammassate. I carabinieri incrociano il corteo; in teoria dovrebbero andare oltre, le comunicazioni dalla questura sono chiarissime. Nell'ordine pubblico comandano i poliziotti e l'invito ai carabinieri è esplicito: attraversate il tunnel e andate verso Marassi dove c'è un gruppo di manifestanti che sta assaltando il carcere. Ma i carabinieri girano a sinistra e poi a destra e caricano. «Sò da Rai», è l'urlo di un giornalista, uno dei primi a essere colpiti, lì accanto al plotone. La carica è durissima, così come la risposta del corteo: da lì, gruppi di manifestanti e carabinieri cominceranno una danza macabra tra le vie di Genova che avrà il suo epilogo in piazza Alimonda. Carlo Giuliani muore a seguito della carica di via Tolemaide. I manifestanti sotto processo per devastazione e saccheggio verranno condannati con centinaia di anni di pene, ma i procedimenti hanno avuto se non altro il merito di svelare le tante guerre che in quei giorni si sono svolte all'interno delle forze dell'ordine, un mondo chiuso, i cui movimenti democratici hanno finito per soccombere all'interno di una «organizzazione» che non prevedeva altro che un vero e proprio scenario di battaglia a Genova. E durante i processi, carabinieri e poliziotti hanno testimoniato tra una miriade di «non ricordo», contraddizioni rispetto a relazioni di servizio incomplete, affannate, talvolta palesemente differenti da quanto, in aula, mostreranno i video. La sfilata di uomini delle forze dell'ordine – con personale della Digos sempre presente nel tribunale di Genova, pronto a registrare qualsiasi presenza e comportamento, tanto della difesa quanto degli spettatori – ha caricato di tensione uno degli aspetti più indagati dalla difesa dei manifestanti, ovvero la formazione di reparti speciali dei carabinieri, creati ad hoc per Genova. Il curriculum dei capi di queste formazioni era di tutto rispetto. Dalla Fiera, a Genova comandava il generale Leonardo Leso. Si trattava di un'autorità: fondatore e capo in Bosnia e Kosovo delle Msu, Multinational specialized unit, la polizia internazionale finanziata dalla Nato, era anche a capo della seconda brigata mobile dell'Arma che aveva lo scopo di addestrare e coordinare i reparti in missione di guerra. Tra i suoi uomini, parà Tuscania, teste di cuoio dei Gis e Ros. Con Leso ci sono Claudio Cappello, poi maggiore, e Giovanni Truglio: nel 1994 sono tutti insieme in Somalia e vengono citati nel memoriale dell'ex parà Aloi fra «gli autori o persone informate delle violenze perpetrate contro la popolazione somala». L'inchiesta fu archiviata. Cappello, dopo Genova, venne mandato a comandare l'unità militare a Nassiriya (si salvò dalla strage perché era in bagno) e ad addestrare la nuova polizia irachena. A Genova c'erano i capi delle missioni italiane all'estero. Era lecito dunque presupporre una certa esperienza nel gestire una piazza ribollente, ma sono proprio i carabinieri a fare il disastro: uccidono un manifestante. Non solo, perché il 16 novembre 2004 nelle aule genovesi c'è una piccola svolta. A testimoniare arriva il capitano dei carabinieri Antonio Bruno; di fronte al materiale video e fotografico, Bruno non può far altro che confermare una cosa mai emersa prima: i carabinieri che hanno caricato il corteo delle tute bianche oltre ai normali manganelli in dotazione all'Arma, hanno utilizzato oggetti contundenti «fuori ordinanza», tra cui mazze di ferro. Un altro elemento che conferma certe intenzioni, emerse da tutto il materiale agli atti dei processi genovesi, nonché particolare rilevante pensando a quanto succederà da lì a poco. La dinamica dei fatti da via Tolemaide a piazza Alimonda è stata al centro del processo contro i manifestanti: gli avvocati difensori hanno provato a scardinare il blocco di carabinieri e polizia al riguardo, per aprire uno squarcio dal grande anello mancante dei processi genovesi, quello per la morte di Carlo Giuliani le cui indagini partirono subito con l'avviso di garanzia a per omicidio volontario ai carabinieri Mario Placanica (ausiliario, in quel momento al sesto mese di servizio) e Filippo Cavataio (l'autista del Defender). Nel dicembre 2002, però, il procuratore Silvio Franz avanza la richiesta di archiviazione per Mario Placanica (per legittima difesa) e per Filippo Cavataio (nel referto dell'autopsia di Carlo Giuliani, i medici legali Marcello Canale e Marco Salvi escludono che il doppio passaggio del Defender sul corpo di Carlo gli abbia potuto procurare lesioni mortali). Il procedimento per l'omicidio di Carlo Giuliani viene infine archiviato il 5 maggio 2003 dal giudice per le indagini preliminari Elena Daloiso che accoglie la richiesta del pm per legittima difesa, ma anche per «uso legittimo delle armi in manifestazione». Questo vuoto processuale viene colmato, in parte, dal procedimento contro i manifestanti. A sfilare nelle aule di Genova, infatti, sono i video e le foto dei momenti precedenti a piazza Alimonda: proprio quella girandola di movimenti di plotoni e Defender che nella sentenza di archiviazione di Daloisio non sono presi in considerazioni. I momenti del processo nelle aule genovesi sono drammatici, specie quando è il momento dei principali protagonisti. Mario Placanica, chiamato a deporre nel 2005 si avvale della facoltà di non rispondere; la seconda volta, nel giugno 2007, decide di parlare. Racconta che «praticamente io dovevo lanciare dei lacrimogeni e il capitano Cappello non ha voluto che li lanciassi, si è preso dalle mie mani il lanciagranate e ha iniziato a sparare lui con il lanciagranate; la granata vera e propria si divide in due con un nastro, io dovevo togliere quel nastro e darglielo al capitano Cappello, in questo caso io mi sono sentito male e mi hanno fatto andare sulla camionetta». È così che Placanica finisce sul Defender: in stato confusionale, nel mezzo delle cariche. La percezione, dalla sua testimonianza e da quella di altri carabinieri, è quella di una totale perdita del controllo sulla situazione. Riavvolgiamo rapidamente il nastro: i carabinieri caricano un corteo autorizzato, da lì si entra in una serie di scontri tra manifestanti e carabinieri. I Defender si muovono in modo goffo e complicato, fino ad arrivare a «piantarsi» in piazza Alimonda. Come ci arrivano? La deposizione di Placanica a questo punto si fa più interessante: «Noi eravamo dietro, seguivamo… non capisco perché a noi che eravamo feriti… non feriti, eravamo feriti, sì, perché io ero allucinato, non mi hanno soccorso, non capisco perché non mi hanno soccorso e invece hanno continuato a seguire il plotone». Il racconto di Placanica in pratica conferma una sua deposizione del settembre 2001 secondo la quale a un certo punto il plotone che stavano seguendo con il Defender, scappa, se ne va e lascia isolato «il mezzo». E chi c'è dentro. La situazione secondo Placanica era la seguente: «Ero allucinato io dai gas, non è che potevo… non avevo nemmeno acqua da mettere agli occhi per poter asciugarli, per poter lavarli, come facevo, ho intuito tutto quel casino, però non… non so nemmeno chi sono i no global». A quel punto l'autista decide di fare retromarcia, per scappare. Ma non ci riesce; Placanica a proposito usa il termine «incagliato». C'era un cassonetto, dice al pm, «però non lo so che manovra abbia fatto l'autista, non ero davanti seduto con lui». Quindi il Defender si è fermato?, chiede il magistrato. «Sì, si è fermato, si è spento». Poi arrivano i due spari, in aria, dice Placanica. Dopo gli spari, entrano in scena il sasso, la ferita «a stella» che compare sulla fronte di Carlo e soprattutto la confusionaria e a tratti dilettantesca «cristallizzazione» della piazza da parte di carabinieri e polizia (si scoprirà poi, anni dopo, che presente in piazza nell'immediatezza dei fatti c'era Renato Farina, la fonte "Betulla" del Sismi smascherata dall'indagine su Abu Omar). Il famoso sasso appare vicino a Carlo solo dopo che le forze dell'ordine hanno «bonificato» la piazza. Poi scompare, per riapparire, insanguinato, a fianco al corpo nelle foto della scientifica. Durante il suo esame nelle aule genovesi il vicequestore aggiunto Adriano Lauro ha riconosciuto la pietra: l'avrebbe vista al fianco di Carlo, mentre i sanitari toglievano il passamontagna. Peccato che le foto mostrate dalla difesa in aula abbiano dimostrato che invece, in quel momento, il sasso non c'era. Ma attenzione a Lauro: è lui che urlò ai manifestanti «lo hai ammazzato tu, sei stato tu con il sasso, pezzo di merda». Ma è lo stesso Lauro che in aula di tribunale si riconosce in un video mostrato dalla difesa. A quel punto l'avvocato Emanuele Tambuscio sfodera un piccolo colpo di scena: Lauro viene ripreso mentre scaglia pietre contro i manifestanti. È uno dei tanti momenti imbarazzanti per le forze dell'ordine nelle aule genovesi. L'ipotesi del sasso che devia il proiettile fu inoltre smentita dal medico legale della procura genovese Marco Salvi, che fece l'autopsia: «Lo sparo apparve diretto e non deviato». Lo stesso Salvi lo confermò in aula di tribunale, specificando che la Tac cui fu sottoposto il corpo di Carlo Giuliani «evidenziò un frammento radio-opaco nel cranio del ragazzo», frammento «assolutamente metallico» che però non venne trovato in sede di autopsia. Ma su tutto questo, sui tanti dubbi, sulle contraddizioni, non si è potuto fare di più: Carlo Giuliani muore e la sua morte rimane senza un processo. E secondo tanti, senza giustizia.

Il ricordo. Genova fu premeditata, dopo 20 anni ne restano le macerie che nessuno vuole toccare…Nicola Biondo su Il Riformista il 19 Luglio 2021. Entrare al Viminale due giorni dopo la mattanza di Genova fu una lezione indimenticabile. Era lunedì 23 luglio, passai i controlli e con qualche centinaia di passi raggiunsi la palazzina della DCPP – Dipartimento Centrale di Polizia di Prevenzione – l’ex-Digos, la polizia “politica”, il sancta sanctorum di mille storie italiane. Tutti, dalla portineria agli uffici dei dirigenti, avevano letteralmente i visi segnati, lividi. E no, non erano i segni della battaglia genovese. Perché nessuno di quei poliziotti a Genova ci aveva messo piede. E i loro visi lo testimoniavano: nessun graffio, solo tracce evidenti di furia e vergogna. Questo è uno dei segreti di Stato che tutti conoscono, che pochi hanno raccontato ma con il quale la politica e la stessa polizia non hanno mai voluto fare i conti. Genova fu premeditata. Una gigantesca esercitazione senza regole. E a rivederla adesso dopo un ventennio non salva nessuno: forze dell’ordine, politica, magistratura e media. Fu premeditata da una parte, quella assai minoritaria dei black block ma soprattutto dall’altra, quella che avrebbe dovuto garantire due diritti fondamentali: sicurezza e libera espressione. Facendoli a brandelli entrambi. “Nessuno di noi va a Genova, nessuno di noi che conosce la piazza, che lavora a stretto contatto con l’attivismo politico andrà a Genova. Chiediti il perché. Perché sarà un’esercitazione, senza alcuna regola”. Queste furono le parole precise che pubblicai poco dopo i fatti e che da vent’anni si sono conficcate nella mia testa. Alle quali si aggiunsero queste. “Rimaniamo tutti a casa e in compenso acquistano 300 sacchi da morto e mandano plotoni di ragazzini della celere ideologicamente schierati”. Appartengono ad un alto dirigente della Polizia di Prevenzione, scandite una settimana prima del 19 luglio 2001. Prevenzione se si parla di Genova è una parola che sa di beffa. Perché tutto era previsto e tutto si fece per evitare di prevenire. Tutti giocarono alla guerra simulata finché la guerra diventò reale. Genova per la sua morfologia urbana fu il campo di battaglia perfetto e l’esercitazione iniziò settimane prima, con un obiettivo: intrappolare l’avversario. Le due parti in campo, gli stati maggiori delle forze dell’ordine e del Social Forum che trattarono percorsi, logistica e una serie di azioni simboliche, provarono ad irretire l’avversario, a mostrarlo come un trofeo conquistato. Giocarono alla politica, costruendosi ognuno un alibi se le cose fossero deragliate. Perché un patto tra le due parti c’era, chiaro e sottoscritto. Percorsi stabiliti con un simbolico “sfondamento controllato” della zona rossa da parte di pochi manifestanti autorizzati in favore di telecamere. Il Fort Apache dei potenti della Terra sarebbe stato violato in mondovisione e poi tutti sarebbero tornati nella loro bolla. La domanda a cui nessuno dei vertici delle forze dell’ordine ha mai voluto rispondere è questa: perché l’accordo è saltato? Il retro-pensiero lo avevano entrambi i protagonisti. Gli organizzatori non avevano previsto un servizio d’ordine per possibili infiltrazioni violente (è un problema di ordine pubblico in capo alla polizia, spiegavano) e forti di quell’accordo mantenevano la sicurezza data dalla presenza di migliaia di telecamere che avrebbero documentato ogni possibile violazione da parte degli apparati. Questa semplice dicotomia ovviamente franò da ogni parte. A distanza di venti anni sono dieci le cose che vanno ricordate, dieci gli avvenimenti principali della storia della più lunga sospensione dei diritti costituzionali avvenuta sotto il regime repubblicano. Eccoli.

1) Il livello della tensione fu fatto salire artificiosamente attraverso i media: rischio attentati, sacche di sangue infetto da tirare contro gli agenti, allarmi bombe. Per oltre un mese si apparecchiò la tavola. Ovviamente non successe nulla di questo.

2) Gli apparati di sicurezza si lasciarono “sfuggire” centinaia di contestatori violenti che misero a ferro e fuoco Genova. Indisturbati. Nessuno del blocco nero venne mai arrestato in flagranza di reato, chi in primo grado venne condannato fu assolto perché non c’erano prove. Non vi fu, notate bene, alcun contatto tra black block e forze dell’ordine.

3) Il corteo autorizzato delle Tute Bianche, quello che secondo i patti sarebbe dovuto sfociare in una breve invasione simbolica nella zona rossa, venne caricato con una violenza mai vista. Il motivo non è mai stato spiegato. Senza la carica di Via Tolemaide la storia di quei giorni sarebbe stata diversa. Piccolo particolare: su quella via alla fine di ore di scontri si conteranno decine di bossoli a terra. Un unicum nella storia degli scontri di piazza, una scena degna di Bava Beccaris.

4) L’esercitazione senza regole, prevista da alti dirigenti del Viminale, si dispiegò domenica 22 luglio. Avendo schierato “l’artiglieria pesante” le forze di polizia non potevano proteggere Genova e i manifestanti dalla velocità da guerriglieri di strada dei black block. Incassato il fallimento del giorno prima e lo sdegno per la morte di Carlo Giuliani, si videro agenti armati e bardati in modo non legale picchiare selvaggiamente adolescenti, signori di mezza età, finanche portatori di handicap. La macchina mediatica fu dispiegata a pieno regime: nelle redazioni dei giornali mentre andava in scena la mattanza genovese arrivò la notizia che il leader delle Tute Bianche, Luca Casarini, si trovava placidamente assiso in un ristorante di Genova altezzosamente lontano dai lacrimogeni e dalle mazzate.

5) Le centinaia di arresti di cui ci si vantava nella sala globale della questura di Genova prevedevano il reato di saccheggio e devastazione, pena massima quindici anni. Centinaia di persone vennero picchiate e torturate nelle carceri secondo un protocollo parallelo. Ad ogni visita dell’inviato del Dap Alfonso Sabella nei luoghi di detenzione gli agenti tiravano su il sipario celando l’orrore. Quando Sabella provò a dimostrare di non aver mai messo piede nei luoghi delle torture si scoprì che i tabulati del suo telefono erano stati cancellati.

6) La mattanza del 22 luglio aveva fatto breccia nell’opinione pubblica. Pur con la lentezza dei modem di allora foto e video invasero internet arrivando ovunque nel mondo bucando la cortina dei media. Bisognava correre ai ripari. La scuola Diaz, il quartier generale degli attivisti e dei media del Social forum fu letteralmente presa d’assalto. Con una semplice scusa: lì ci sono le prove che la devastazione di Genova era un loro disegno. Ma era un depistaggio, fatto pure male. Che se non ci fossero di mezzo sangue, ossa rotte e disturbi da stress durati anni verrebbe in mente Totò-truffa: alla Diaz la polizia lascia bombe molotov e si inventa che un agente sarebbe stato accoltellato. Mezza Italia tira un sospiro di sollievo: i soliti facinorosi, se la sono cercata.

7) Non serve tirare le fila. Basti ricordare che i vertici della Polizia erano rispettivamente Gianni De Gennaro e Arnaldo La Barbera, responsabile della Polizia di Prevenzione. Nel 2001 erano due eroi della lotta alla mafia. La Barbera non si era mai occupato di ordine pubblico, era un “mobiliere”, una vita passata alla Squadra mobile. Non solo: di lì a poco si scoprì che aveva “storto”, depistato le indagini sulla strage palermitana di via D’Amelio obbedendo ad ordini rimasti senza padrone e senza un perché. Anche per Genova La Barbera obbedirà ad ordini superiori e lascerà a casa i suoi uomini più capaci: come per via D’Amelio serviva “vestire il pupo” e spiattellare il colpevole perfetto. Serviva il caos per l’esercitazione senza regole contro migliaia di civili. De Gennaro ha una mente politica, dove La Barbera era un semplice esecutore. Chi conosce l’ex-capo della Polizia sa bene che non è uso prendere ordini dalla politica, semmai è il contrario. Il fallimento della strategia di ordine pubblico rimane ancora adesso una macchia indelebile. Con una semplice domanda come conseguenza: nel 2001 avevamo una polizia composta da dilettanti?

A Genova non ha sbagliato qualcuno. Genova doveva andare così. Si è fatta politica con la violenza e sospendendo le leggi. Risultato? Dopo il 2001 non si è mai più vista in Italia una mobilitazione di massa simile, scollegata dai partiti e di natura internazionale. La lezione di Genova spiega molte cose avvenute in questo inizio millennio.

8) La macchia indelebile è rimasta anche sulla magistratura. Il procuratore di Genova mise a punto, prima del G8, un provvedimento illegale che, preventivamente, vietava i colloqui tra arrestati e difensori. Ne consigliamo la lettura al Ministro Marta Cartabia. Dei 280 arresti del 22 luglio 2001 nessuno venne convalidato, la procura di Genova chiese per tutti la conferma del fermo senza prove e non emise alcun decreto di liberazione. Per tutta la durata del G8 furono sospesi i più elementari diritti, fatto che permise le torture sistematiche nelle carceri. Il caso fu sollevato fino al Csm che stese il suo velo pietoso.

9) La politica di qualcosa si accorse. Rimasero inascoltate le parole di Giancarlo Galan, centro destra, allora presidente del Veneto come quelle del sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, centro sinistra: amministratori capaci di governare il dissenso. Ma la sinistra istituzionale lasciò che tutto venisse gestito “manu militari” quando invece Genova era politica. Sempre per l’insano vizio di scegliere l’accreditamento politico invece che la tenuta del sistema dei diritti. Lo ha fatto negli anni ’70, nei ’90 con Mani Pulite, a Genova nel 2001. Mai stare a sinistra degli eredi del Pci, la prendono come un’offesa personale.

10) Nessuna di queste domande ha avuto soddisfazione nelle aule di tribunale perché era compito della politica, farle e ottenere risposta. E se questo non è avvenuto è per un semplice motivo che si chiama Antonio Di Pietro, proprio lui, il giudice che sognava di ripulire l’Italia. Nel 2006 si oppose, con la sponda di Luciano Violante, alla commissione d’inchiesta sui fatti di Genova che promise nel suo programma di governo. La politica delle questure e delle toghe vinse su quella del Parlamento. E’ così che le macerie di Genova sono ancora tutte lì e nessuno le ha mai volute toccare. Nicola Biondo 

La guerriglia urbana. Chi sono i Black Block, le azioni del “Blocco Nero” e le devastazioni al G8 di Genova del 2001. Vito Califano su Il Riformista il 19 Luglio 2021. Qualsiasi persona indossasse abiti neri, e spesso (strumentalmente) qualsiasi persona manifestasse, diventò un membro del “Black Bloc”. Erano i giorni del G8 del 2001 e Genova era totalmente nel caos e l’Italia guardava in televisione gli scontri di un evento con il quale il Paese deve fare ancora i conti, dopo vent’anni. Il “Blocco Nero” era raccontato come una sorta di organizzazione, anche se un’organizzazione non è. Più una tattica di guerriglia urbana che cerca lo scontro e il vandalismo. “Un altro mondo è possibile”, era lo slogan del movimento riunitosi a manifestare sotto l’egida del Genoa Social Forum che riuniva realtà diverse tra loro: anarchici, sinistra, ambientalisti, anticapitalisti, no-global, contestatori della grande finanza mondiale. Le manifestazioni, inizialmente pacifiche, degenerarono rapidamente per via dell’impostazione disastrosa e violenta delle forze dell’ordine e dell’apporto di frange estreme della contestazione. Genova era divisa in tre zone, in quei giorni: la Zona Rossa, interdetta; quella Gialla, dove i movimenti erano limitati; quella Verde, dove le manifestazioni erano state permesse e autorizzate. Il vertice tra gli otto Grandi della Terra – George W. Bush, Vladimir Putin, Tony Blair, Jacques Chirac, Gerhard Schröder, Junichiro Koizumi, Jean Chrétien e Silvio Berlusconi – iniziò ufficialmente venerdì 20 luglio. Scoppiò comunque il caos: manganellate, molotov, negozi saccheggiati, auto distrutte, cassonetti divelti, lacrimogeni e sangue. Il termine “Black Bloc” divenne rapidamente popolare. Era nato in Germania (Schwazer Block) all’inizio degli anni ’80: la polizia tedesca usava il termine per indicare gli Autonomen, estremisti di sinistra che alle manifestazioni indossavano maschere e abiti nere. Il termine fu quindi adottato nelle manifestazioni contro il Pentagono nel 1988, contro la Prima Guerra del Golfo nel 1991 e in occasione del G8 di Seattle nel 1999, tutte negli Stati Uniti. E quindi a Praga durante la riunione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale nel 1999; in Québec, Canada, contro il vertice delle Amercihe; a Goteborg, in Svezia, contro il Consiglio Europeo dell’Unione Europea. Più che un movimento, una vera e propria organizzazione, si tratta (o almeno così sono sempre stati considerati) come singoli individui che agiscono in gruppo ma uniti nelle intenzioni. Le manifestazioni diventano occasione di guerriglia urbana per il Blocco, che cerca lo scontro violento con le forze dell’ordine. La strategia definita come quella principale del blocco: infiltrarsi nei cortei pacifici e quindi dividersi per agire. Il “Blocco” si è ispirato anche al gruppo anarchico DAN (Direct Action Network) attivo negli USA negli anni ’90. Sono vestiti di nero, per l’appunto, e in maniera da celare l’identità. Spesso armati: spranghe, bastoni, molotov. Di solito il “Blocco” viene agitato da un piccolo gruppo iniziale che si compatta e comincia l’azione. A questo si uniscono spontaneamente altri in seguito. Gli obiettivi dei Black Bloc sono di solito le istituzioni, le banche e i negozi delle multinazionali. A Genova cominciarono puntellando i marciapiedi e l’asfalto fino a staccarne pezzi da usare negli scontri, nel lancio di oggetti. Poliziotti e carabinieri, in occasione del G8 di vent’anni fa, sono stati accusati di aver lasciato fare i gruppi violenti – anche per ore e prima dell’inizio delle manifestazioni e nonostante le telefonate dei cittadini – e di essere invece intervenuti duramente (i processi dimostreranno con violenza e perfino con armi improprie) contro i cortei pacifici. I “Black Bloc” sono diventati famigerati dopo i fatti di Genova 2001 che degenerarono con la morte del 23enne Carlo Giuliani e l’irruzione e le violenze della scuola Diaz. Altre occasioni nelle quali è stata riportata la loro azione in Italia sono state in particolare il corteo degli Indignados a Roma dell’ottobre 2011 e le proteste in occasione dell’inaugurazione dell’Expo nel maggio 2015 a Milano, nella zona di Corso Magenta, con una cinquantina di automobili incendiate e una trentina tra negozi, vetrine e abitazioni private devastate. Repubblica scrisse che furono circa 800 i Black Bloc che accesero gli scontri. 10 i fermati dalla polizia e 11 feriti tra gli agenti.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 19 luglio 2021. A guardare nei ricordi, viene in mente l'ultimo momento di quiete prima della tempesta. Erano le nove del mattino di un venerdì soleggiato. Il colonnello dei Carabinieri Giorgio Tesser e il questore di Genova Francesco Colucci si erano presentati nella hall dell'hotel di Genova che raccoglieva i giornalisti venuti da tutto il mondo. Per «un caffè tranquillizzante», questa la frase che resta su un taccuino ormai scolorito, che doveva fugare i timori e le ansie che i media diffondevano «con inspiegabile esagerazione». Parlò solo il militare, ex giocatore di rugby. «Fidatevi, non succederà nulla». Strizzando l'occhio, spiegò che era recita, che i Black bloc avrebbero fatto un po' di casino, ma con gli altri, gli organizzatori del grande corteo che sarebbe sceso nel centro della città partendo dallo stadio Carlini, c'era un accordo. Li avrebbero fatti sfilare, avrebbero consentito a qualcuno di violare la zona rossa che proteggeva gli otto grandi della terra giunti nel capoluogo ligure per discutere tra loro. Dietro di lui, il questore che non aveva pronunciato parola, si mise la mano nella tasca dei pantaloni e procedette a un gesto scaramantico che rivelava i suoi dubbi. Appena fuori dall'hotel, i Black bloc stavano cominciando a picconare l'asfalto per fare scorta di pietre e sassi. Sono passati vent' anni, da quei giorni. Il G8 di Genova fu il punto d'arrivo e l'inizio della fine del movimento no global, chiamato così perché si batteva contro la globalizzazione. Era così grande che aveva molte anime, forse troppe. All'interno della sigla del Genoa Social Forum (GSF) confluirono associazioni che operavano in campi molto diversi l'uno dall'altro, unite però da una visione condivisa, ecologista, anticapitalista, contro il potere delle multinazionali e la perdita di controllo del singolo individuo rispetto ai meccanismi spesso oscuri della grande finanza mondiale. Lo slogan valido per tutti era che «un altro mondo è possibile». Ci arrivarono male, i no global, a quell'appuntamento così in anticipo sui tempi di una esperienza fatta di embrioni che ancora dovevano coagularsi in una sola entità. Nell'anno precedente il G8 di Genova, divenne chiaro che il movimento era diventato veicolo anche di soggetti indesiderati, come il cosiddetto Blocco nero, termine che in origine indica una tattica di protesta violenta. I segni che qualcosa di brutto sarebbe potuto accadere erano ovunque. Ma il G8, la riunione annuale dei grandi della terra, era ormai diventato una ossessione. Bisognava esserci, anche se ormai si parlava quasi solo di ordine pubblico. I capi del GSF caddero nella trappola, che era anche mediatica. Dichiararono guerra, in senso figurato, imposero condizioni, esercitando un potere che non avevano. Se questa è la premessa, quel che accadde dopo non ha alcuna giustificazione. Esistono i torti di una parte, lo Stato italiano, e le ragioni delle vittime, al netto dei loro peccati di presunzione. Ma quella mattina, le manifestazioni sembravano andare come previsto dal colonnello dei Carabinieri. I Black bloc avanzavano devastando ogni cosa sul loro percorso. Le pattuglie li accompagnavano scansandosi al loro passaggio. Tutto cambia all'improvviso nel primo pomeriggio. Come se il copione fosse stato riscritto senza avvisare la maggior parte degli attori. A poca distanza dai Black bloc, le quarantacinquemila persone che stanno scendendo dallo stadio Carlini vengono attaccate da una carica laterale dell'Arma che spezza il corteo. È un attacco violentissimo, che ancora oggi non trova alcuna spiegazione plausibile. Cosa è successo per giustificare un tale cambio di strategia? L'unica cosa certa è che mentre venivano trasmesse in mondovisione le immagini delle devastazioni dei Black bloc, l'allora vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini si presenta alla caserma San Giuliano dei Carabinieri, una visita non prevista. Alle 14.58 dalla centrale operativa dei «cugini» della Polizia si sentono le bestemmie del dirigente genovese che doveva coordinare le varie mosse delle pattuglie. «Noo... hanno caricato l'altro corteo... I Carabinieri non dovevano andare in via Tolemaide, che c... ci fanno lì, ma perché attaccano?». La domanda non ha ancora trovato risposta. Muore un ragazzo di 23 anni, ucciso in piazza Alimonda da un colpo di pistola sparato da una giovane recluta rimasto intrappolato in una Jeep assediata dai manifestanti inferociti. Aveva 23 anni, si chiamava Carlo Giuliani. In quello che ormai è diventato un delirio di violenza, anche lui lancia pietre, raccoglie un estintore, sta per scagliarlo verso la Jeep blu. Muore sul colpo. Il suo corpo verrà sfregiato da alcuni ufficiali desiderosi di dissimularne la causa della morte. La faccia che talvolta riaffiora sui muri delle città italiane è la sua. Carlo non era un no global, ne sapeva poco di quella storia. Ma ne diventerà un simbolo. Il peggio è accaduto, il peggio deve ancora accadere. Il giorno seguente, durante la manifestazione di chiusura del GSF i Black bloc infiltrano il corteo. La Polizia, alla quale è stato affidato il compito di sostituire i Carabinieri, li insegue e non fa distinzioni tra manifestanti pacifici e infiltrati. A sera, sembra finita. Invece no. All'interno della scuola Diaz ci sono un centinaio di no global che stanno trascorrendo la loro ultima notte a Genova. L'irruzione del reparto mobile di Roma guidato da Vincenzo Canterini verrà ricordata con la definizione data al processo da uno dei suoi uomini, una macelleria messicana. Una spedizione punitiva, una vendetta. Il tentativo maldestro di giustificare quell'intervento fabbricando prove false sarà oggetto di una lunga vicenda processuale che si concluderà con la condanna dell'intera catena gerarchica della Polizia per falso, mentre le accuse di lesioni sono andate prescritte. Per le violenze della Diaz e per le sevizie accadute nella caserma di Bolzaneto, dove venivano portati i manifestanti arrestati, pagheranno in pochi. A quell'epoca non esisteva ancora nel nostro Codice penale il reato di tortura, l'unico adatto a definire ciò che accadde. Sono passati vent' anni, e non è vero che non sappiamo nulla. Almeno esiste una percezione chiara di chi fu l'aggredito e di chi era l'aggressore. Il movimento no global sopravvisse alla ferita cambiando pelle. Fu obbligato a farlo, perché due mesi dopo ci fu l'undici settembre di New York. Iniziò la stagione delle grandi mobilitazioni contro la guerra. Poi ognuno andò per la sua strada, disperdendosi in mille rivoli. L'eredità di quei giorni è nella legge che introduce il reato di tortura, approvata nel luglio del 2017, sedici anni dopo. Genova 2001 non è stato l'inizio di nulla, anche se qualcuno sostiene che quei fatti hanno aperto la strada al populismo. Al massimo, ha segnato l'inizio di un modo di fare politica, o di un modo della politica di commentare ogni vicenda, dove i fatti vengono ignorati e si può dire ogni cosa e il suo contrario. E allora, perché raccontare questa storia un'altra volta? Forse, per quell'esercizio necessario della memoria che in Italia viene quasi sempre trascurato. Perché fu una pagina ignobile della democrazia, che allontanò dalla partecipazione alla vita pubblica una intera generazione. E perché ricordare è l'unico modo possibile per dire che non deve accadere mai più.

Nel lager di Bolzaneto. Violenze, torture, umiliazioni, minacce. Per i fermati ai cortei una prigione in stile cileno, in balia delle squadre Gom della penitenziaria. L’omertà dei responsabili: «Non sapevamo nulla». Le testimonianze: «Alle donne urlavano “Vi stupriamo come in Bosnia”». Simone Pieranni su l'Espresso il 19 luglio 2021. Prima di Bolzaneto, prima di arrivare alla caserma di Bolzaneto, c’era il viaggio. Durante questo tragitto «venivamo insultati ripetutamente, ci dicevano che andavamo in un posto dove ci avrebbero fatto morire e che eravamo delle zecche, comunisti, cioè insulti sopra la famiglia, cose così. E cose tipo zecche comunisti, vostra madre è una puttana. Cosa cazzo ci facevate qua? Vi porteremo in un posto dove morirete! Ve la faremo pagare». Con particolari più o meno simili si sono espressi in tanti che al termine delle giornate del G8 si ritrovarono a Bolzaneto, squarcio periferico genovese, nella Valpolcevera profonda e distante tanto dai luoghi degli scontri, quanto dalla scuola Diaz.

G8, 20 ANNI DOPO: IL DOSSIER. Arrivati alla caserma quasi tutti i testimoni hanno raccontato del benvenuto, il «comitato d’accoglienza» in un corridoio. «Vuole descriverci la situazione del corridoio come la ricorda?», chiede il Pm a un teste. «La situazione», risponde, «è che era appunto un corridoio, da quando si superavano i primi tre gradini si iniziavano a subire percosse e violenze dalla prima stanza». Dopo il «comitato d’accoglienza» era il turno delle «ali di corvo», un’altra espressione che abbiamo imparato a conoscere udienza dopo udienza, strazio dopo strazio. «Ci facevano stare a gambe larghe e fronte al muro. Mani alzate, sopra la testa, appoggiate contro il muro». A un testimone il pm chiede quanto tempo sia stato costretto in questa posizione. «So che sono rimasto in questa posizione», risponde in aula una vittima, «a lungo ed anche fuori dalla cella prima della…, della visita medica. Tanto da farmi svenire prima della visita medica». Altri frammenti di testimonianza sul clima respirato nella caserma, il cui scopo originario doveva essere quello di «smistamento» degli arrestati, prelevati a grappolo dalle manifestazioni: «Mi ricordo che è arrivata una ragazza che era molto spaventata, era molto impaurita, non capiva cosa stava succedendo e s’è sentita male, tipo le è venuta nausea, penso, aveva… le veniva da vomitare, ha chiesto più volte “posso andare in bagno, sto male, posso andare in bagno?”, le hanno sempre detto di no, finché non ha vomitato poco più… cioè lì vicino a dove stava inginocchiata, al che ha chiesto uno straccio, ha chiesto qualcosa per pulire, e le han detto no più volte, le han detto pure “ora pulisci con la lingua, a noi non ce ne frega se tu hai sporcato, ti tin ta ta” e… niente, alla fine non so, qualcuno le ha dato un fazzoletto, probabilmente qualcuna delle ragazze che stava nella cella, e ha pulito con quello. Poi dopo so che l’hanno fatta andare in bagno, ma dopo». Bolzaneto arriva nella storia italiana dopo la morte di Carlo Giuliani e l’irruzione alla scuola Diaz. Arriva dopo, ma arriva perché, al contrario di altri procedimenti, qualcuno che era lì e ha visto tutto, parla. Agenti e personale medico consentono ai pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati di allargare il campo nel procedimento sulle torture all’interno della caserma. In precedenza, nei 43 avvisi di chiusura indagini, i reati ipotizzati erano soltanto quelli di abuso d’autorità sui detenuti, abuso d’ufficio e falso ideologico; le rivelazioni di chi decise di parlare portano a nuove richieste di rinvio a giudizio. Questa volta sono indirizzate a 47 persone con accuse ben più pesanti: abuso d’ufficio, abuso d’autorità su arrestati, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce e falso ideologico (perché nei verbali si dava conto di avere informato dei loro diritti gli arrestati e che rinunciavano ad avvisare parenti e consolati). Secondo la memoria depositata a marzo del 2005 dai procuratori, nelle stanze della caserma di Bolzaneto fu violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti (ipotesi poi confermata dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2017). Di fronte ai giudici alla fine finiscono in 45: quattordici sono agenti della polizia penitenziaria, poi ci sono dodici carabinieri, quattordici tra agenti e dirigenti della polizia e cinque medici e paramedici, tra i quali Giacomo Toccafondi che delle strutture mediche della caserma era il responsabile. Riconosciuto da molti testimoni, il «medico in divisa», come racconteranno anche persone all’epoca impiegate come personale medico, era accusato anche di «aver effettuato e aver comunque consentito che altri medici effettuassero i controlli e il cosiddetto “triage” e le visite mediche al primo ingresso con modalità non conformi ad umanità e tali da non rispettare la dignità della persona visitata, così sottoponendo le persone ad un trattamento penitenziario, anche sotto il profilo sanitario, inumano e degradante». Una delle vittime ha raccontato in aula che di fronte alla sua mano gonfia e insensibile, il dottore «la strinse ancora più forte». L’infermeria era quasi peggio delle celle: flessioni, insulti, umiliazioni e il dottor Toccafondi a collezionare ricordi, ciocche di capelli ad esempio, o a ricordare, una volta in aula, l’origine napoleonica del «triage». Le testimonianze delle vittime rendono bene l’idea di impunità presente nella caserma, compreso l’utilizzo di spray al peperoncino nelle celle, e un clima generale che le cronache quotidiane delle ultime settimane ci hanno straordinariamente riconsegnato, riportando alla mente quanto accaduto ormai venti anni fa. Come accaduto con gli altri procedimenti, per i testimoni appartenenti alle forze dell’ordine a Bolzaneto non sarebbe successo niente, in realtà. Molti di loro «dimenticarono» quanto accaduto, altri provarono a minimizzare, altri mentirono a tal punto da passare dall’altra parte: da testimoni a indagati. Eppure dai procedimenti è emerso di tutto: l’obbligo di cantare canzonette fasciste («un due tre via Pinochet»), insulti e minacce nei confronti delle donne presenti nella struttura: alle ragazze all’interno di una cella, secondo il racconto di un testimone, gli agenti urlavano «che le avrebbero dovute stuprare come in Bosnia», oltre a insulti ripetuti: troie, puttane. Le minacce di stupro furono talmente tante che i pm nella loro memoria sottolinearono come questi e altri atteggiamenti «come in ogni caso di tortura» avvennero grazie a «quel meccanismo fatto di omissioni per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti». L’accanimento avvenne con chiunque, anche contro un uomo di 52 anni, poliomielitico e con una protesi alla gamba, che nella sua testimonianza ha ricordato i pestaggi, prima e dopo essere stato costretto a stare in piedi al muro per tutta la notte. Crollato a terra, ha raccontato - confermato poi da altri testi - di essere stato di nuovo picchiato, inerme, accovacciato sul pavimento. Ci sono alcune particolarità, naturalmente, anche nel procedimento di Bolzaneto. Una prima ha a che fare con la presenza di un corpo speciale (ne avevamo già visti alcuni creati ad hoc per il G8 nelle strade di Genova) all’interno della caserma. Si tratta dei Gom, un corpo nato nel 1997 «per fare fronte alle esigenze derivanti dalla gestione dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, concorrere alla sicurezza delle traduzioni di detenuti ad elevato indice di pericolosità e adottare misure idonee a prevenire e impedire fatti o situazioni pregiudizievoli per l’ordine e la disciplina degli istituti penitenziari». I Gom, anziché rimanere fuori, furono invece protagonisti di quanto accaduto nei corridoi; per mancanza di prove sufficienti però, nessuno dei Gom è finito tra gli imputati. Una seconda particolarità è che in quelle giornate a Bolzaneto passarono persone importanti, ma che a quanto pare non si accorsero di niente: si tratta dell’allora ministro della giustizia Roberto Castelli e del magistrato Alfonso Sabella. Il ministro, ovviamente, non vide nulla, niente. Anni dopo, nel 2015, al Messaggero dirà: «A Bolzaneto arrivai alle tre di notte, a sorpresa. Il massimo che vidi erano alcuni ragazzi tenuti in piedi con la faccia contro il muro. Non c’era sangue né altro. Se quella è tortura che cosa dovrebbero dire i metalmeccanici che stanno in piedi per otto ore?». Più o meno simili furono le dichiarazioni di Sabella (la cui posizione venne archiviata), all’epoca dirigente del Dap, ovvero «coordinatore dell’organizzazione, dell’operatività e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria in occasione del G8 in Genova», comprese dunque le due carceri provvisorie del G8, Forte San Giuliano, dove nella giornata del 20 luglio era presente Gianfranco Fini, leader di An e allora vice presidente del Consiglio) e Bolzaneto. Sabella anni dopo accennerà al fatto che non gli fecero vedere nulla: ipotesi sostenuta anche dalla procura nella richiesta di archiviazione, perché secondo i pm gli agenti occultarono quanto stava accadendo di fronte e un superiore.

Ma proprio quell’archiviazione costituisce ancora oggi il tarlo del magistrato che di recente al Domani, ha spiegato che il giudice «mi infama gratuitamente scrivendo che ero responsabile delle violenze per colpa e non per dolo». C’è una verità storica e c’è una verità giudiziaria: non sempre combaciano, specie quando le violenze rendono le vittime quasi incapaci di credere a quello che si è subito e soprattutto completamente incerte circa la possibilità di essere credute. Una vergogna, altro colpo alla dignità, squarciata da testimonianze in grado di consegnare ai traumi patiti una goccia di splendore, di umanità, di verità. La verità di chi c’era, di chi ha visto, di chi ricorda.

Quando l'Italia divenne per due giorni stato di polizia. G8 di Genova, cosa successe e di chi sono le responsabilità del massacro di 20 anni fa. David Romoli su Il Riformista il 20 Luglio 2021. I più sbigottiti di tutti, il 21 luglio 2001 a Genova, furono i manifestanti già di una certa età, con esperienza diretta degli scontri anche violentissimi con la polizia degli anni ‘70. Un simile comportamento da parte delle forze dell’ordine non lo avevano mai visto: poliziotti e carabinieri provocavano a freddo, cercavano lo scontro, attaccavano all’improvviso e senza ragione una manifestazione neppure troppo bellicosa. A ogni traversa partivano una carica violenta o un lancio a pioggia di micidiali candelotti lacrimogeni urticanti, dagli effetti più brevi ma molto più sconvolgenti di quelli usati nei decenni precedenti. Era come assistere al capovolgimento della logica abituale, in base alla quale le forze dell’ordine cercano per principio, e di solito anche per precisa disposizione, di evitare lo scontro o almeno di impedire che si trasformi in battaglia. L’assioma, stracciato dalla polizia quel giorno, è di solito tanto più imperativo in situazioni potenzialmente esplosive, e in particolare all’indomani di una tragedia come l’uccisione di Carlo Giuliani nel corso dei durissimi scontri del giorno precedente. Quel 20 luglio, era la data centrale nella tre giorni di manifestazioni organizzate dal Genoa Social Forum in occasione della riunione del G8 nella città ligure. Giovedì 19 c’era stata la prima manifestazione, quella dei migranti. Colorata, festosa, pacifica: tutto era filato liscio ma non c’erano mai state preoccupazioni in proposito. La data cerchiata in rosso era quella di venerdì 20. Le Tute bianche si erano erano concentrate allo stadio Carlini, tra i pochi spazi concessi dal Comune al Genoa Social Forum. Da lì sarebbe partito il corteo che prometteva di sfondare la “zona rossa”, chiusa, blindata e presidiata in forze. La “zona rossa” comprendeva praticamente il cuore del centro storico di Genova. Era stata interamente ingabbiata con sbarre e inferriate pesantissime e tornelli stretti stretti. Imprendibile. Era una vera dichiarazione di guerra? Negli anni successivi, con la dovuta discrezione, alcuni alti funzionari della polizia hanno parlato di un accordo con le Tute bianche per mettere in scena una sorta di scontro mimato. I manifestanti avrebbero dovuto violare simbolicamente la zona rossa per pochi metri, la polizia avrebbe risposto caricando e respingendo “gli invasori” ma senza calcare troppo la mano. Sia i leader delle Tute bianche che i vertici delle forze dell’ordine hanno sempre smentito quell’intesa. Si trattava però di una pratica all’epoca diffusa. Gli scontri avevano spesso valenza più simbolica e spettacolare che reale e rispondevano all’esigenza avvertita sia dagli organizzatori che dalla polizia di lasciare il meno spazio possibile alle frange più bellicose. Comunque, che l’accordo ci fosse come è in definitiva probabile o meno, a Genova non funzionò e non poteva funzionare. Troppa la tensione accumulatasi e montata in modo dissennato per settimane dai media. Troppo forte la decisione, da parte di tutti i governi, di stroncare a ogni costo quel movimento internazionale. Nelle settimane e nei mesi precedenti un po’ in tutte le parti del mondo, anche forze di polizia tra le più “gentili”, come quella svedese, avevano adoperato una brutalità inaudita. Gli scontri, venerdì 20 luglio, iniziarono ancora prima che il corteo principale partisse dal Carlini, con le Tute bianche in assetto da combattimento nelle prime file. Gruppi incontrollati di manifestanti avevano lanciato sassi contro la polizia, bruciato alcune macchine, distrutto vetrine e bancomat intorno alla stazione di Brignole, poi intorno al carcere di Marassi. Erano i famosi “Black bloc”, sui quali i media avrebbero poi favoleggiato per anni anche se, come area organizzata, il Blocco nero non è probabilmente mai esistito. Il corteo principale tentò di forzare i cancelli della zona rossa in piazza Dante. Ci riuscì, aprì uno spiraglio attraverso il quale passarono quattro manifestanti: la violazione simbolica della “zona rossa”. Ma le cariche continuarono anche quando il corteo si era ormai allontanato dai cancelli della zona rossa. I video girati quel giorno mostrano cariche della polizia lanciate a freddo, senza che ce ne fosse reale bisogno, e gestite, per imperizia o per calcolo, nel modo peggiore, senza lasciare ai manifestanti via di fuga e costringendoli quindi comunque allo scontro frontale. In piazza Alimonda i dimostranti contrattaccarono, costrinsero la polizia a ripiegare, trasformarono quelle che sino a quel momento erano state cariche e scaramucce in una vera battaglia di strada. Le forze dell’ordine persero completamente il controllo. I contatti con la sala di comando centrale saltarono, due Land Rover dei carabinieri finirono isolate. I carabinieri schierati a pochi metri, non intervennero. L’autista di uno dei due automezzi perse la testa, spense involontariamente il motore, il Defender fu circondato e assaltato. Un carabiniere di 20 anni, Mario Placanica, in preda al panico sparò uccidendo Carlo Giuliani, 23 anni, il ragazzo che lo minacciava con un estintore. Negli anni si sono moltiplicate ipotesi più o meno fantasiose secondo cui a sparare non fu il terrorizzato Placanica ma sembra improbabile che questa versione vada oltre la perenne passione italiana per il complotto e il mistero. La notizia della morte di Carlo Giuliani raggelò tutti e caricò di ulteriore minaccia le manifestazioni previste per il giorno seguente, sabato 21, alle quali presero parte centinaia di migliaia di persone. Fu in quel sabato che la parabola di Genova diventò un evento unico nella storia repubblicana. La tragedia del giorno precedente poteva ancora essere vista solo come conseguenza di una manifestazione particolarmente tesa e di una gestione dilettantesca della piazza da parte delle forze dell’ordine. Ma il 21 polizia e carabinieri fecero il possibile per impedire che la tensione calasse e per massimizzare il rischio di una nuova battaglia. Si comportarono cioè all’opposto esatto della prassi consolidata. Dopo tragedie come quella del 20 luglio, le forze dell’ordine cercano di solito di mantenere un profilo per quanto possibile basso, mirano a contenere la rabbia dei manifestanti. Il 21 luglio, al contrario, polizia e carabinieri fecero di tutto per far esplodere quella rabbia. A differenza del giorno precedente non ci fu nessuna battaglia di strada. Solo una serie interminabile di cariche a freddo, rastrellamenti nei bar e per le strade anche a manifestazione conclusa, lancio continuo di lacrimogeni urticanti, con centinaia di feriti e di arresti. Ci furono macchine messe di traverso e a volte bruciate ma solo per frenare e rallentare gli attacchi immotivati della polizia. Nel pomeriggio, secondo la versione ufficiale, furono trovate nascoste dietro un cespuglio due bottiglie molotov, la cui consegna non fu verbalizzata. Quelle due Molotov, portate dalla polizia stessa nel cortile della scuola Diaz, furono poi usate per giustificare l’irruzione, i pestaggi senza precedenti, la “macelleria messicana” della notte. La Diaz era uno degli spazi concessi dal Comune al Genoa Social Forum. Tra il 21 e il 22 luglio nei locali e in quelli dell’adiacente scuola Pascoli si trovavano 93 persone che non avevano potuto o voluto lasciare Genova. Nella notte circa 500 tra poliziotti e carabinieri irruppero nei locali letteralmente massacrando gli ospiti inerti e addormentati. Arrestati senza motivo e senza diritto, dal momento che le Molotov senza le quali gli arresti sarebbero stati illegali le aveva piazzate lì proprio la polizia, furono trasportati nella caserma di Bolzaneto. Le torture nella caserma Nino Bixio di Bolzaneto arrivarono molto al di là dell’immaginabile in un Paese democratico. Non furono solo botte, ossa fratturate, denti rotti ma anche vessazioni di ogni tipo: persone denudate, degradate, costrette ai comportamenti più umilianti e intanto picchiate sbattute contro il muro pestate senza requie, tra cori e slogan fascisti, inni razzisti, esaltazioni dei lager nazisti. Le “spiegazioni” delle forze dell’ordine – per l’assalto alla Diaz – furono la classica toppa quasi peggiore del buco. Dissero che si trattava di una perquisizione alla ricerca dei fantomatici “black bloc”, senza dettagliare perché si fossero presentati bardati di tutto punto con scudi e manganelli. Giustificarono le botte, parlando di sassi e bottiglie tirati contro le volanti nel cuore della notte, senza fornire il minimo riscontro e furono sbugiardate. Brandirono le Molotov da loro stessi depositate nella scuola come prova della pericolosità dei ragazzi massacrati nel sonno. Fu senza dubbio un’azione decisa ai massimi livelli. Nella notte, il direttore di un quotidiano avvertito della mattanza ancora in corso, telefonò al portavoce del capo della polizia De Gennaro, per avvertirlo di cosa stava succedendo. Si sentì rispondere che in effetti anche lui si trovava alla Diaz in quel momento. Dagli attacchi indiscriminati del pomeriggio sino alla folle macelleria della notte, il 21 luglio di Genova non fu una situazione “sfuggita di mano”. Fu una scelta precisa, arrivata dall’alto, che però, a distanza di vent’anni resta ancora inspiegata. Anche perché la nessuno ha mai voluto individuare la catena di comando e presentare il conto di quegli ordini. Per cercare una spiegazione di quella “sospensione della democrazia”, bisogna inserire Genova nel suo appropriato contesto. Tutti, ancora oggi, ricordano quel che successe il 20 e il 21 luglio. Quasi nessuno, invece, rammenta i fatti di Napoli del 17 marzo dello stesso anno, in occasione del vertice del Global Forum. Da un anno e mezzo, a partire dalle manifestazioni e dagli scontri del novembre 1999 a Seattle, dove era riunito il vertice del WTO, ogni riunione degli organismi sovranazionali era accompagnata da controvertici, manifestazioni di massa, proteste e spesso scontri anche molto duri tra la polizia e il “popolo di Seattle”, ribattezzato dai media “movimento no global” anche se in realtà protestava non contro la globalizzazione ma contro la sua gestione neoliberista. A Napoli, con al potere un governo di centrosinistra, Giuliano Amato presidente del consiglio ed Enzo Bianco ministro degli Interni, la repressione fu durissima. Anticipò nei particolari, sia pur in forma meno estrema, quel che sarebbe successo quattro mesi dopo a Genova: i pestaggi indiscriminati, le retate e le botte a manifestazione già conclusa, la brutalità nelle caserme. Genova non arrivò per caso e non fu conseguenza della vittoria della destra nelle elezioni politiche del maggio 2001. I piani per la gestione dell’ordine pubblico nei giorni del G8 erano stati messi a punto dal governo precedente e collaudati a Napoli. È molto probabile che la presenza di un governo di destra abbia aggravato la situazione ma sia la scelta di reprimere con inaudita violenza sia i numerosi errori tecnici erano parto dell’esecutivo Amato. La scelta di Genova come città ospite del vertice era di per sé insensata. Napoli era stata scartata perché considerata logisticamente troppo pericolosa. Il capoluogo ligure presentava gli stessi inconvenienti. Roma, città più facilmente governabile in termini di ordine pubblico, era stata considerata “troppo calda”. La temperatura era in realtà identica. Il tentativo di impedire l’afflusso dei manifestanti, sospendendo dal 14 al 21 luglio le regole di Schengen, fu un fallimento totale. La divisione della città in zone, con la “zona rossa” e quella “gialla” proibite ai manifestanti, salvo poi ripensarci all’ultimo momento e aprire quella “gialla”, si rivelò controproducente, anzi disastrosa. Ma non si trattò solo di errori e imperizie dei governi italiani succedutisi nel 2001. C’era senza dubbio una disposizione internazionale, a stroncare con ogni mezzo un movimento che stava montando in tutto il mondo occidentale con una rapidità e una potenza che ricordava la fine degli anni ‘60 del secolo precedente. Tra il 14 e il 16 giugno del 2001, a Gothenborg, la solitamente pacifica polizia svedese attaccò le manifestazioni contro la riunione del Consiglio europeo della Ue con una violenza unica nella storia del Paese: attacchi indiscriminati, cariche a cavallo, uso delle armi da fuoco. Un ragazzo di 19 anni fu gravemente ferito dai colpi sparati dalla polizia. Per prudenza la Banca Mondiale annullò il vertice già fissato a Barcellona dal 25 al 27 giugno. Da Seattle a Genova fu un crescendo assurdo di violenze, di solito con l’alibi dei “Black bloc”. In Italia l’informazione ci mise parecchio di suo. Per tutto giugno, con raro senso d’irresponsabilità, i media italiani soffiarono sul fuoco, contribuendo in modo d terminate a creare il clima parossistico che avrebbe portato alla tragedia. Scrissero che i manifestati si preparavano a lanciare palloni pieni di sangue infetto dal virus dell’Aids sulla polizia, che Bin Laden aveva inviato i suoi uomini per portare lo scontro alle estreme conseguenze, che manipoli di neofascisti si erano infiltrati per provocare inimmaginabili violenze. Le forze dell’ordine ma anche i manifestanti arrivarono all’appuntamento con Genova aspettandosi due giorni di guerra e in un contesto così teso sperare di poter limitare lo scontro a poco più di uno spettacolo mediatico e simbolico non poteva che rivelarsi illusorio. Gli errori dei governi italiani e l’irresponsabilità dei media possono spiegare la tragedia del 20 luglio. Non lo stupro della democrazia del giorno seguente. Ma quella spiegazione non è mai stata cercata. In settembre fu istituita una “indagine conoscitiva” del Parlamento ma, senza veri poteri di inchiesta, non servì a niente. Dopo il 2006 la maggioranza di centrosinistra provò a istituire una vera commissione d’inchiesta ma la proposta fu respinta dalla destra a cui si unirono i parlamentari di Antonio Di Pietro. Sotto processo sono finiti molti degli esecutori ma pochi sono stati condannati e nessuno ha mai scontato un solo giorno di prigione. Al processo per le torture di Bolzaneto i condannati furono 7: tutti gli altri imputati erano in prescrizione. I vertici della polizia, a cominciare da De Gennaro, hanno proseguito una brillante carriera. In galera ci sono finiti solo i manifestanti arrestati durante gli scontri. I quali hanno scontato molti anni. È un altro esempio di come funziona da noi la giustizia: la polizia e i carabinieri violando la Costituzione e le leggi aggrediscono, provocano, bastonano e persino uccidono. la magistratura interviene e spedisce in galera le vittime. David Romoli

Ma io dico, da quei processi sulla macelleria messicana del G8 arrivò anche un po’ di luce. Genova raccontata da un avvocato. Dal processo per la morte di Carlo Giuliani a quelli per i pestaggi alla Diaz e a Bolzaneto. Tra giustizia negata e i pronunciamenti della Cedu: su tutti quello che impose all’Italia l’introduzione del reato di tortura. Ezio Menzione su Il Dubbio il 20 luglio 2021. I processi del G8, per noi del Genoa Legal Forum (così si era chiamato quel gruppo di avvocati che avevano tentato, nei giorni della manifestazione di arginare gli abusi delle forze dell’ordine) sono cominciati il martedì successivo, un giorno solo di pausa per fare la doccia, tirare il fiato e mettersi la giacca, e poi di corsa nelle carceri di Alessandria, Voghera e Pavia dove i Gip genovesi dovevano convalidare gli arresti effettuati il venerdì e, soprattutto, il sabato, in piazza e alla Diaz. Difficile dire cosa provammo a vedere sfilare occhi tumefatti, ecchimosi su tutto il corpo, qualche osso rotto, ma soprattutto la paura e lo sgomento nello sguardo di quel centinaio di giovani. Anche i Gip, dopo le prime disattente convalide, cominciarono a vedere le ferite, e le contusioni e a chiederne ragione: i ragazzi, quasi esitando, iniziarono a narrare il trattamento ricevuto a Bolzaneto, alcuni piangendo, altri senza riuscire ad articolare un discorso. Anche i verbali di arresto, tutti uguali e stereotipati, iniziarono ad apparire sospetti e i Gip si convinsero che ciò che vi stava scritto era una falsità e non convalidarono più niente. Ci vollero due giorni, ma poi tutti furono liberi. Anche quel povero gruppo di teatranti tedeschi, fermati sulle montagne intorno a Genova che se ne stavano tornando in Germania con i loro vestiti di scena, guarda caso neri: tedeschi, con abiti neri, dunque black bloc, arrestati. I processi del G8 di Genova ci misero molto di più a decollare: mesi ed alcuni (Diaz e Bolzaneto) anni e furono sostanzialmente tre: quello contro 25 manifestanti, quello sull’irruzione alla Diaz e quello sulla detenzione a Bolzaneto. Molti altri contro singoli manifestanti si snocciolarono nel corso degli anni, furono per lo più seguiti dai colleghi genovesi e si conclusero tutti con assoluzioni. Il processo contro i manifestanti, etichettati frettolosamente black bloc, aveva tre punti giuridici di rilievo: la maniera in cui erano stati fatti i riconoscimenti, la contestazione di devastazione e saccheggio, l’applicazione dell’esimente della risposta all’atto arbitrario del pubblico ufficiale. Nessuno degli imputati era in vincoli né era passato per l’arresto; molti erano stati individuati sulla base di video, magari inviati alle singole questure per scovare a chi somigliassero quei dimostranti: in genere non erano individuati per avere commesso qualcosa di specifico e di grave, ma per lo più per essere stati presenti mentre i black bloc erano in azione. Ma apparve subito chiaro che essi non appartenevano ai veri e propri black bloc. Quanto alla devastazione e saccheggio – art. 519 del codice penale, con un minimo altissimo (8 anni) e un massimo spropositato (15 anni, quasi un omicidio) – la difesa sostenne a spada tratta che il reato non c’era. Era un’ipotesi delittuosa che era stata introdotta soprattutto per colpire il saccheggio di interi borghi durante lo sfollamento bellico e postbellico, e non poteva adattarsi a una città che già era stata messa a soqquadro dall’organizzazione del G8 e dove gli episodi di “spesa proletaria” (furto collettivo al supermercato) era stato uno solo e i molti danneggiamenti non assurgevano certo a devastazione. Quanto all’esimente del decreto luogotenenziale della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, fu il tema che occupò di più l’istruttoria dibattimentale. Il collegio giudicante era molto attento e curioso della prospettazione difensiva su questo punto. Il Presidente ebbe a dirmi un giorno, chiacchierando durante una pausa, che lui non aveva mai letto e mai visto nulla di ciò che riguardava quelle giornate, per non essere influenzato nel caso, poi verificatosi, che avesse dovuto condurre un processo su di quei fatti: chapeau! verrebbe da dire. Ma sapevamo bene quanto rigido era se si fosse giunti a delle condanne. Invocare l’esimente in quel contesto sembrava azzardato: sappiamo tutti con quanta parsimonia essa venga riconosciuta anche nelle dinamiche testa a testa, uno a uno. Figuriamoci un’intera manifestazione contro una carica dei carabinieri, come era avvenuto il venerdì pomeriggio in via Tolemaide. Eppure noi difensori eravamo convinti che il processo poteva avere un esito in tutto o in parte positivo se avessimo dimostrato che “tutto era cominciato per colpa dei carabinieri”. E così facemmo e il Tribunale ci venne dietro, solo in parte e solo coprendo gli episodi immediatamente circoscritti a via Tolemaide e adiacenze, non per i fatti di Piazza Alimonda, purtroppo, ma fu abbastanza per alleggerire o mandare indenni 15 posizioni. Con le altre dieci fu durissimo: del resto la sanzione prevista dal 519 non lasciava scampo: furono irrogate pene da 8 a 13 anni. Ed alcuni le stanno scontando ancora adesso. La nostra ricostruzione del reato non fu accolta. E così pure non fu riconosciuto che essere presenti a ciò che combinavano i black bloc non poteva essere considerato partecipazione, ma il Tribunale, in certi casi, si spinse a dire che lo stare lì in strada in più punti del percorso a guardare mentre i black bloc compivano le loro scorribande andava a rafforzare la volontà di questi e se ne doveva rispondere. Concorso morale, a prescindere da ciò che avevi fatto in quei giorni: una sorta di presunzione di colpevolezza per chi era anche solo nelle adiacenze dei fatti criminosi, ma non vi aveva materialmente partecipato. Appello e Cassazione sostanzialmente avallarono il primo grado, per il bene e per il male. Giunsero al dibattimento più tardi i processi sulla Diaz e su Bolzaneto, quando l’eco delle imprese dei black blokc era ormai scemato, l’opinione pubblica riconosceva ormai che la massa dei manifestanti era stata pacifica, ma soprattutto quando erano ormai emerse le nefandezze perpetrate nelle due occasioni dalle forze dell’ordine sia alla Diaz che a Bolzaneto. Ma un conto era far emergere la verità sui giornali e in tv, altro in un’aula di Tribunale, specialmente quando la polizia non collabora affatto per individuare i responsabili dei macelli. Eppure la tenacia dei Pm e dei difensori delle parti civili la ebbe vinta. Ma erano le accuse di semplici lesioni che comportavano pene non adeguate ai fatti, tant’è che questi reati andarono in prescrizione nei gradi successivi del giudizio e rimasero i falsi, ben dimostrati nell’istruttoria: i verbali d’arresto falsi, le molotov messe apposta alla Diaz dai funzionari di polizia per accusare chi era dentro alla scuola e “giustificare” il massacro compiuto, le attestazioni dei medici ed infermieri di Bolzaneto e tanto altro.Fu nel processo di Bolzaneto che la difesa degli agenti propose, dopo che qualche vittima era stata sentita, di non acquisire i verbali delle dichiarazioni di decine di altri, per evitare l’impatto psicologico e giuridico che i racconti avrebbero avuto sul Tribunale. La difesa delle vittime non diede il consenso, nella convinzione che almeno il “risarcimento” del potere raccontare ciò che avevano subìto era dovuto a quei giovani picchiati e torturati. Era il primo piccolo passo verso una “giustizia riparativa” che altre esperienze, ben più gravi, ci avevano insegnato. Mancava, all’evidenza, la possibilità di invocare l’accusa di tortura, perché il nostro Paese, pur avendo firmato la relativa convenzione, non aveva mai introdotto il reato specifico. Non restava che rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e così fecero i difensori di quello che era stato più di una dozzina di anni prima il Genoa Legal Forum, con l’aiuto di validi avvocati specializzati in diritto internazionale. E la spuntammo, rifiutando le offerte governative per comporre la vertenza ed esigendo che il reato fosse introdotto. E lo fu nel 2017, anche se in maniera non del tutto soddisfacente. L’intera vicenda processuale, vista nel suo complesso, dalle convalide del 24 luglio fino alla pronuncia della Cedu, presenta molte ombre, ma anche qualche luce. Non solo era doveroso sostenere la battaglia, ma fu anche interessante e qualche esito positivo lo ebbe. Certo, riguardando indietro ai processi, non può soddisfarci constatare come per i reati contro le persone siano state comminate pene inferiori a quelle per i reati contro le cose, quale in fin dei conti è il 519. Là dove la giustizia fu proprio negata, fu per l’omicidio di Carlo Giuliani: negata nel vero senso della parola, perché il dibattimento, cioè un vero giudizio, non vi fu mai e la vicenda fu chiusa con un non luogo a procedere per avere il carabiniere Placanica sparato facendo uso legittimo dell’arma e per legittima difesa, pur avendo puntato dritto al volto di Carlo, ma il Gip sostenne che aveva sparato in aria e la pallottola era rimbalzata su un sasso volante, andando a colpire dritto dritto il povero Carlo. Anche questa vicenda fu portata alla Cedu, ottenendo una sentenza di primo grado che riconosceva le responsabilità statuali nell’intera vicenda; ma in secondo grado, davanti alla Grand Chambre, sia pure 6 a 5 e con una bellissima dissenting opinion, la decisione fu malamente rovesciata. Peccato.

L'aria che tira, Toni Capuozzo: "Con tutto il rispetto per il papà di Carlo Giuliani". La verità sul G8 di Genova 2001: quello che la sinistra ha sempre nascosto. Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. "Con tutto il rispetto per il padre di Carlo Giuliani". In collegamento con L'aria che tira Estate su La7, Toni Capuozzo ricordo con dolore ma con l'obiettività del grande giornalista i fatti di Genova 2001, 20 anni dopo. Lo storico inviato del Tg5 c'era, in piazza, per il G8. Prima di lui ha parlato il padre del no global ucciso durante gli scontri con le forze dell'ordine in piazza Alimonda. Fu l'unica vittima di quel weekend di guerriglia urbana, quasi un miracolo. Ma Capuozzo ricorda quei giorni di drammatica follia collettiva distinguendo i piani. "Una cosa furono gli scontri di piazza, un'altra cosa fu la vergognosa irruzione alla scuola Diaz, la vendetta della polizia in un posto dove dovevano dormire centinaia di ragazzi innocenti, altra cosa ancora fu Bolzaneto, la peggiore, un luogo dello Stato dove per si verificarono i fatti di Santa Maria Capua Vetere con 20 anni di anticipo". Queste tre situazioni, spiega Capuozzo, "vanno analizzate separatamente senza nessuna bandiera, come la vidi da cronista". "Credo che ci fu un concorso di colpa politico di tutti. Del centrodestra appena salito al governo, che voleva dimostrare di sapere gestire l'ordine pubblico. Del centrosinistra a cui non dispiaceva rovinare la festa e che scelse di lasciare tutto in mano al Genoa Social Forum. Se ci fosse stato il Partito comunista, o non si sarebbe fatto il G8 a Genova o ci sarebbe stata una grande manifestazione di piazza ma senza incidenti, perché il cordone di sicurezza dei metalmeccanici avrebbero tenuto a bada tutti. Fu una sconfitta per tutti, per l'intero Paese". E non solo della Polizia, dei Carabinieri e del centrodestra, come per due decenni ha cercato di far passare chi di quei tragici fatti vuole ostinatamente ricordare solo una parte della verità.

Maurizio Belpietro per "la Verità" il 20 luglio 2021. Confesso: mi fanno orrore le celebrazioni del ventennale del G8. Nel luglio del 2001, Genova fu messa a ferro e fuoco e un ragazzo venne ucciso mentre stava lanciando un estintore contro un carabiniere, dopo che i suoi compagni erano riusciti a far schiantare contro un muro l'auto delle forze dell'ordine. Che c'è da celebrare, dunque? Che cosa bisogna ricordare, se non la vergogna di un movimento che, sfruttando l'ingenuità di tanti giovani che volevano cambiare il mondo, li portò a una manifestazione che si rivelò violenta ed eversiva? Che dopo una giornata di scontri, la polizia arrestò centinaia di giovani e, commettendo dei reati, provò a incastrare i manifestanti mettendo le molotov nell'edificio in cui i manifestanti avevano trovato riparo? Che cosa c'è da ricordare, se non il fatto che gli organizzatori di quel corteo avevano torto e che riuscirono, grazie al contributo di vari sfascisti, a trascinare nel fango anche le forze dell'ordine? A leggere in questi giorni le rievocazioni di ciò che accadde vent' anni fa, pare che un gruppo di bravi ragazzi si fosse dato appuntamento a Genova per manifestare il proprio punto di vista sulla globalizzazione. E gli apparati di uno Stato simil-cileno mobilitarono una polizia simil-golpista per manganellare i partecipanti al corteo, costruendo poi prove false contro di loro. So che ci sono sentenze e anche che vari dirigenti della polizia sono stati riconosciuti colpevoli di vari reati, depistaggi compresi. Tuttavia, la verità dei tribunali è una cosa e quella dei fatti un'altra. A Genova si diedero appuntamento i peggiori contestatori d'Europa, i quali non avevano altro obiettivo se non di distruggere tutto ciò che avrebbero incontrato sulla loro strada. Auto, vetrine, uffici: tutto. Un saccheggio in nome di un movimento che si opponeva alla globalizzazione, ritenendola il simbolo dello sfruttamento dei Paesi poveri da parte delle multinazionali. Come la storia ha dimostrato, i No global non avevano capito niente, perché grazie alla globalizzazione i Paesi ricchi non si sono arricchiti ancora di più alle spalle di quelli poveri, semmai è successo il contrario. Il Terzo mondo ha fatto piccoli passi avanti sulla via dell'emancipazione e l'Occidente ha fatto dei grandi passi indietro sulla via della decrescita infelice. Dunque, quei giovani che sfilavano ritenendo di essere i buoni, avevano torto. Se il mondo avesse dato retta a loro, oggi milioni di persone avrebbero un reddito inferiore a quello attuale, perché i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, a causa del blocco della globalizzazione, non avrebbero visto aumentare il loro Pil e dunque i redditi dei loro cittadini. Chiarito questo, e cioè da che parte stessero gli interessi dei Paesi deboli, a Genova si radunarono gruppi di casseur, cioè di teppisti, con l'obiettivo di sfasciare tutto e di accodarsi a chi aveva intenzione di violare la zona rossa, ossia il perimetro dichiarato inviolabile dalle autorità, in quanto ritenuta area di sicurezza per i capi di Stato riuniti sotto la Lanterna. Ma gli sfascisti non avevano alcuna intenzione di rispettare gli stop imposti dall'autorità: volevano solo rompere vetrine, distruggere bancomat, sradicare cartelli segnaletici, incendiare auto. Tradotto: volevano lo scontro per lo scontro, per poter dire che l'Italia è una dittatura e la sua polizia è uguale a quella di Augusto Pinochet. Ovviamente tutto ciò è falso. Le forze dell'ordine commisero vari errori e alcuni dirigenti anche reati, ma lo sbaglio più grande è essere cascati nel tranello dei black bloc, dei teppisti rossi, della marmaglia di contestatori con il sanpietrino. Il risultato è che a vent'anni di distanza, celebriamo Carlo Giuliani come fosse un eroe e non un hooligan con la bandiera rossa. A lui è dedicata una stanza del Parlamento e non si capisce perché il Parlamento non ne abbia dedicate altre alle vittime delle Br o dei Nar. La realtà è che il G8 di vent' anni fa è stato un fallimento da ogni punto di vista. Prima perché ha consentito che una città fosse messa a ferro e fuoco e poi perché purtroppo - anche a causa degli errori commessi dalle forze dell'ordine - ha consentito e consente alla sinistra di raccontare la favola bella di un Paese che si è schierato contro uno Stato autoritario. No, l'Italia di quegli anni non era un Paese autoritario, semmai senza autorità. E la sinistra che oggi celebra il ventennale del G8 è una sinistra di reduci: un po' come quei compagni di classe che a distanza di tempo si ritrovano per raccontarsi quanto erano giovani e quanto erano forti, ma soprattutto per dirsi quanto sono invecchiati oggi. Ecco perché, tra i reduci e i poliziotti, io starò sempre con questi ultimi.

G8 a Genova, la verità 20 anni dopo su Carlo Giuliani e i no global: ecco chi cercava lo scontro a ogni costo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Vent' anni fa ci fu il G8 di Genova. Le rievocazioni di quei giorni tendono a sacralizzare le manifestazioni, identificano gli eroi nelle schiere degli antagonisti e i carnefici tra le forze dell'ordine. Non andò così. Chi incendiò la città, organizzò assalti, programmò feriti e magari il morto stava dalla parte dei rivoltosi, che seppero sfruttare come marsupio accogliente la massa convogliata lì dai Democratici di sinistra e dalle sigle dell'ingenuo volontariato cattolico. Poi ci fu una pessima strategia da parte del ministero degli Interni e dal capo della Polizia, e lo scrivemmo su Libero immediatamente. Ma il peso dell'orrore spetta ai capi della sinistra parlamentare che, dopo i primi scontri provocati dagli anarchici -terroristi greci, insistette nell'invitare il loro popolo ad accodarsi ai vari Luca Casarini e don Della Sala, detto don Pistola, che insistevano nel grido di guerra, spezzandola linea rossa in difesa della cittadella dei potenti, da Bush a Putin, e specialmente Berlusconi. Ah, farla pagare a Berlusconi! Durante tutti questi vent' anni una martellante campagna di stampa, una serie di film e documentari diffusi soprattutto dalla Rai, ha occultato mandanti e killer degli eventi di quei giorni di manifestazione nella fosca luce dei crudeli pestaggi della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, ingiustificabili da qualsiasi angolo li si giudichi, ma quella fu un'altra storia. Non da occultare, per carità, è stata una macelleria, condanne definitive hanno sanzionato dirigenti della Pubblica sicurezza e hanno sfiorato i massimi vertici della polizia. Ma l'infamia della Diaz non può coprire l'orrore dei giorni precedenti, il cui colore è il rosso di chi ha voluto porre le premesse del sangue. 

LA TRAGEDIA - Invece delle analisi, ripropongo quello che ho visto da cronista. Insieme a Toni Capuozzo di Mediaset, fui il primo ad arrivare a piazza Alimonda. Carlo Giuliani giaceva a terra, aveva il nero passamontagna immerso nel sangue. Mi spostai vicino a lui, e a un passo da quel corpo dissi un requiem. C'era un silenzio tremendo alle 17 e 35 di quel venerdì. Poi tornarono le urla. Ma quei minuti furono di ghiaccio. Era il naturale epilogo di quei giorni. Fin dal giovedì era chiaro quel che sarebbe accaduto. Lo scrissi su Libero: sarà il giorno del morto. Non c'erano bambini in giro per Genova, non una sola carrozzina. Sul mio taccuino: «Questa città è un imbuto desolato, la vita è stata prosciugata, le strade sono ridotte a set cinematografico, dove non ci saranno controfigure il sangue non sarà sugo di pomodoro». Mi avvicinai a Vittorio Agnoletto per dirgli: come dice Umberto Eco avete già vinto la battaglia dei media, è inutile insistere, una massa così grande, dove la grande maggioranza dei contestatori dei potenti del mondo non farebbe male a una mosca, funzionerà come l'acqua per i pescecani. Agnoletto rispose: «Mano, oggi stiamo dimostrando che il movimento del Genova Social Forum è una festa. Certo c'è un po' di tensione, ma poi passa...». C'erano nella folla patetici dinosauri di altre battaglie, insieme a quelli che si provavano le tute imbottite per resistere ai colpi. Erano tutti meccanismi dell'orrendo orologio a cucù caricato in vista dell'ora x. Ed eccoci al venerdì. Genova sin dal primo mattino, come facilmente prevedibile, era diventata una terra in mano alla follia anarchica. Le tute bianche (gli antagonisti buoni di Casarin, Venezia; Agnoletto e Farina, Milano; Caruso, Napoli) avanzavano con i loro marchingegni da guerra di Troia in quattro punti per forzare la famosa zona rossa. Ma la loro schiera fintamente brancaleonesca serviva da filtro di protezione per le scorrerie dei Black Bloc (italiani, tedeschi, greci, serbi). Costoro avevano campo libero. Incendi, saccheggi. Genova era diventata loro. I vecchi appunti di allora sono precisi. In via Piasacane le tute nere assaltano i carabinieri. Sassi per ammazzare. Prendono di mira Capuozzo e me che non abbiamo scudi. Sfondano una vetrina della Banca nazionale del lavoro. Sradicano computer, appiccano fiamme. Sono italiani. Ci gridano: «Bastardi». Tre molotov. Macchine incendiate. Dalle finestre la gente grida ai carabinieri: «Sparategli, sono assassini». Il commando riesce a rifugiarsi nel seno dei cinquemila dei Cobas. Sono la loro mamma. Che li sgrida, ma li protegge. Dalla parte della stazione di Brignole, oltre il sottopasso, ci imbattiamo in un altro manipolo, svaligiano un negozietto, portano via ridendo liquori, vino, prosciutti. Disegnano stelle a cinque punte, scrivono "Fuck the police". 

SCENE DI GUERRIGLIA - Un balzo di qualche ora. Da vecchi arnesi da corteo, sappiamo, Toni più di me, che gli scontri più gravi non sono mai alla testa del corteo, il cozzare può essere duro e spettacolare, ci si mena. Ma le viscere della violenza bisogna andarle a trovare oltre il fumo dei lacrimogeni. Un segnale pauroso: c'è una camionetta bruciata. L'odore della morte è orribilmente attraente. Corriamo. Un gruppo di ragazzi in fuga, vedono la telecamera, dicono: «Correte là, c'è un morto». Piazza Alimonda. Immobilità assoluta. Poi, ecco. Due gambe inerti, innaturalmente larghe. Una canottiera bianca, la testa stretta dal passamontagna adagiata nel sangue bruno. C'è un sasso, un estintore rosso. Grida di ragazzi e di carabinieri. Arriva una inutile ambulanza. Cercano di rianimarlo. Gli applicano una specie di cerotto sul petto. Il volto, finalmente lo vediamo. È un ragazzo, ha il volto candido come quello di tutti iragazzi coi capelli rossi. Scrivo: «Viene in mente sua madre. Vengono in mente i furbi che hanno messo su questa baraonda». Libero titolerà quel giorno l'editoriale di Vittorio Feltri: "È legittima difesa". Il carabiniere Placanica ha sparato per non venire ammazzato da Giuliani. Il giorno dopo è prevista la seconda, ancor più grande manifestazione. Il buon senso, una certa idea di umanità, consiglierebbe di fermarsi. Non c'è da abbattere una tirannia. Anzi forse sì, ad ascoltare la sinistra, occorre sputtanare davanti al mondo intero il dittatore Berlusconi. I dirigenti dei Democratici di sinistra (segretario Piero Fassino) non disdicono l'adesione, non intendono fermare l'afflusso. Tanti bravi figlioli e figliole dell'oratorio. Ci sono state provocazioni di scalmanati e violenti, che si sganciavano e si rifugiavano tra di loro, ma duole dirlo ho assistito a pestaggi gratuiti di ragazzini da una polizia mal governata. E poi la Diaz. 

LA BOMBA DELLA RIVOLTA - Alla fine di quel mese di luglio, Berlusconi mi telefonò alle 7 del mattino: «Ha visto che ho liquidato i capi della polizia incapaci?». A che gioco avevano giocato quel sabato sulle strade e poi alla Diaz? L'idea ce l'ho chiara: fottere Berlusconi, mostrare un volto del centrodestra speculare a quello degli antagonisti. Occhio per occhio. Non funziona così, la democrazia. Ma, diciamolo, la bomba della rivolta l'ha piazzata coscientemente la sinistra. C'è da dire che da allora gli organizzatori dei G8 hanno appreso la lezione. Tengono i summit in luoghi inaccessibili. E la stampa adesso, chissà perché, invece di attaccare questi assembramenti di potenti, li venera.

G8 di Genova, parla l’allora Questore: «Il blitz alla Diaz fu deciso per riscattarci». Fabrizio Capecelatro il 19/07/2021 su Notizie.it. A 20 anni dal G8 di Genova parla a Notizie.it l'allora Questore Francesco Colucci: «Mi sono comportato da funzionario dello Stato, ma il blitz alla Diaz fu deciso per riscattare l'immagine della Polizia e si è rivelato un autogol». Quando il dottor Francesco Colucci è stato nominato Questore di Genova non sapeva che lì, poi, si sarebbe svolto il “G8 di Genova”. «Ma – dice – avrei accettato anche se lo avessi saputo, come poi, 2 anni dopo il G8 di Genova, ho accettato di fare il Questore di Trento sapendo che a Riva del Garda si sarebbe svolto il “G8” dei Ministri degli Esteri». Dopo essere stato rimosso da Questore di Genova, proprio a causa dei fatti del G8 del 2001, non ne ha praticamente più parlato con nessuno. Prima di ora. Dopo 20 anni esatti da quegli avvenimenti, infatti, il dottor Francesco Colucci, diventato poi Prefetto e oggi in pensione, accetta di fare una chiacchierata e raccontare dal suo punto di vista, assolutamente preferenziale per la ricostruzione dei fatti, quello che successe fra il 19 e il 22 luglio 2001. «Mentre ero Questore di Genova, – racconta – venne in visita Massimo D’Alema, che era presidente del Consiglio dei Ministri, e annunciò che lì si sarebbe svolto il G8. Iniziammo a organizzarlo e spesso venivano alcuni funzionari ministeriali da Roma per aiutarci nell’organizzazione. È chiaro che nell’organizzazione di una manifestazione così importante il Dipartimento e il Ministero mettessero non uno ma 100 sguardi. Per questo non mi sentivo commissariato». «Forse un po’ meno spesso mi invitavano a Roma, soprattutto quando facevano gli incontri preliminari con i capi dei manifestanti. Mentre – spiega il dottor Colucci, che in seguito è stato nominato anche Prefetto – a Trento gli incontri preliminari con i manifestanti li organizzai e gestii direttamente io e non ci fu alcun disordine in piazza». Probabilmente, però, da Roma non furono inviate le persone giuste, visto che durante i giorni del G8 c’erano, oltre al vicecapo vicario della Polizia, Ansoino Andreassi, il capo dello SCO Francesco Gratteri, che però è un organo di polizia giudiziaria e quindi non esperto di ordine pubblico, e lo stesso capo dell’Ucigos aveva in realtà svolto la maggior parte della propria carriera presso la Squadra Mobile. «Immagino – dice Colucci – che ci fossero contatti diretti fra l’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro, e il suo vice Andreassi, così come con Gratteri e La Barbera. Contatti che, in qualche modo, mi scavalcavano». Nonostante gli aiuti da Roma, i rinforzi da tutta Italia e i “100 sguardi” dei funzionari Ministero al G8 di Genova le cosE vanno male sin dall’inizio e la Polizia mostrò il suo lato peggiore. «Quello che hanno fatto i nostri uomini in piazza non ha giustificazioni – ammette – e, secondo me, è frutto di come erano stati esaltati prima dell’inizio del G8. Nei mesi precedenti erano, infatti, avvenuti alcuni atti di intimidazione nei nostri confronti che contribuirono a creare una situazione di tensione». «Si diceva anche – racconta Colucci – che i manifestanti avrebbero buttato contro di noi sacche di sangue infetto; si parlò addirittura di sale refrigerate per conservare le salme di quelli di noi che non ce l’avrebbero fatta. La maggior parte di queste voci erano delle stupidaggini, ma sicuramente contribuirono a diffondere un senso di paura e agitazione per quello che sarebbe potuto succedere». «Un altro problema – conclude l’ex Questore – era che moltissimi funzionari non erano di Genova, ma provenivano da altre Questure e quindi non avevano una conoscenza diretta del territorio. Un territorio per di più difficile, dove ci incasinavamo anche noi che conoscevano la città. Infatti per ogni reparto c’era un equipaggio del posto, ma l’assenza di via di fughe complicò ugualmente la situazione». La situazione degenera però con la morte di Carlo Giuliani. «Quando seppi della morte di Carlo Giuliani rimasi molto amareggiato. Il Carabiniere era rimasto isolato e ha perso la calma». Il problema fu che, probabilmente anche per riscattarsi da quel fatto e dai tanti scontri di piazza avvenuti nei giorni precedenti, fu deciso di entrare alla scuola Diaz. «E, così facendo, – spiega Francesco Colucci – abbiamo fatto ancora peggio». «Il G8 era ormai finito – racconta Colucci – quando un equipaggio riferì di essere stato aggredito davanti alla scuola Diaz da alcune persone vestite con le tute nere. È da lì che fu decisa l’irruzione». «L’allora dirigente della Digos di Genova, prima dell’irruzione e a ulteriore conferma, telefonò a uno dei rappresentanti dei No Global per chiedergli se loro avessero lasciato l’istituto e quello rispose che ormai non erano più lì. Subito dopo quel dirigente mi disse che ci saremmo andati a mettere in un casino e, in effetti, aveva ragione». Ma c’erano troppe pressioni affinché si facesse quel blitz. «Che l’obiettivo fosse quello di riscattare l’immagine della Polizia – spiega il Prefetto – è confermato dal fatto che Roberto Sgalla, che era il Responsabile dell’Ufficio Relazioni esterne, avvisò i giornalisti, e lì ce n’erano da tutto il mondo, del blitz e lì portò perfino sul posto». «Ma mai – aggiunge – mi sarei aspettato quello che poi è successo e ho avuto conferma della nostra vigliaccheria quando, tempo dopo, ho scoperto che le molotov sequestrate all’interno della Diaz erano in realtà state sequestrate nei giorni precedenti. Così come venni a sapere il poliziotto che mi fece vedere il giubbotto con le coltellate in realtà se l’era procurate da solo». «Alcuni oggi, con il senno del poi, mi dicono che non avrei dovuto accettare alcune ingerenze di Roma. Queste sono cose che si dicono, ma che in realtà non si fanno: io mi sono comportato da funzionario dello Stato», conclude il Prefetto Francesco Colucci.

DOPO 20 ANNI STESSA SOLFA.

I Black Bloc oggi diventano hacker. E il web dei Grandi “zona rossa” da violare. Paolo Berizzi su La Repubblica il 23 luglio 2021. Da Genova a Milano e Roma, gli ex violenti delle piazze si sono trasformati in guastatori, “Riciclati”, “Anonymous". Martine arrivò a Genova da Liegi: oggi ha 42 anni e fa parte di Anonymous. Johann, tecnico informatico di Amburgo, vive in una città dei Paesi Bassi, ha messo su famiglia e ha abbracciato la causa ambientalista. Dice che «la violenza non è più la via per cambiare le cose». Dice. Stefano e Tommaso, sulla cinquantina, sono ancora in contatto con Albéric che da Lione o forse da Nantes, a metà luglio 2001, scese con un Van e passò a prenderli in Piemonte per poi raggiungere la città della Lanterna.

Massimiliano Peggio per "La Stampa" il 2 agosto 2021. Tre fronti d'attacco. Una strategia organizzata a tavolino per colpire il presidio di forze dell'ordine ed Esercito che protegge l'area strategica nazionale in Val di Susa, dove sorge il cantiere dell'Alta Velocità. Il bilancio della guerriglia scatenata dall'ala violenta No Tav sabato scorso è di tre poliziotti feriti e un mezzo dell'8° Reggimento alpini danneggiato. Rubato anche uno zaino militare con attrezzatura tattica per un valore di oltre 10 mila euro: un visore notturno, un binocolo a telemetro, maschera antigas. I No Tav, attraverso i loro canali social, esultano all'impresa: «Non basteranno 10mila agenti per fermarci». Cifra che fa riferimento alle dichiarazioni fatte nei giorni scorsi dalla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese, annunciando l'invio di nuovo personale in divisa in provincia di Torino. Poliziotti, carabinieri e soldati necessari a difendere l'allargamento del cantiere di Chiomonte, dove si realizzerà il tunnel di collegamento con la Francia, e un secondo cantiere avviato di recente a San Didero, a metà valle, per ospitare opere complementari. L'azione di sabato è una delle più violente messe in atto dal 2013, quando fu violato il cantiere con un lancio di bombe molotov e razzi che provocò l'incendio di un macchinario. In questi ultimi anni i No Tav hanno dato vita a numerose incursioni periodiche, costringendo prefettura, questura e Telt, la società italo francese incaricata di realizzare la linea ferroviaria, a incrementare i dispositivi di sicurezza e le protezioni passive. Nell'ultima incursione, però, i manifestanti sono riusciti insinuarsi nell'area strategica, a ridosso del cantiere. Hanno bersagliato i mezzi con una pioggia di pietre, bulloni, razzi e bombe carta. Sono riusciti a colpire l'edificio che ospita la control room gestita dall'esercito. L'attacco su tre fronti è stato organizzato da circa 150 attivisti, tutti vicini all'area antagonista, con solidi rapporti con il centro sociale Askatasuna di Torino, in prima fila da anni contro l'Alta Velocità. L'occasione, come già era avvenuto in passato, è stata offerta dal festival Alta Felicità, in corso a Venaus con il patrocinio del Comune, diventato spazio musicale di lotta. La manifestazione ha attirato molti antagonisti provenienti da vari centri sociali italiani. «Il patrocinio al Festival? È un contributo a un festival di spettacolo e musica con cui collaboriamo - afferma il sindaco di Venaus, Avernino Di Croce - Condivido che la Tav sia un'opera violenta per il territorio e inutile. Sono scientificamente No Tav, anche se la violenza non mi appartiene e non la condivido né da una parte né dall'altra». Dice invece il sindaco di Susa, Pier Giuseppe Genovese: «La violenza non ha nulla a che vedere con la protesta pacifica espressa negli anni dai cittadini e dalle amministrazioni della Valle. È espressione di una forma organizzata che arriva da fuori dal territorio. Una spaccatura nel movimento No Tav comincia ad esprimersi».

Tutti contro i No Tav violenti. Ma i grillini stanno in silenzio. Nadia Muratore il 2 Agosto 2021 su Il Giornale. Soltanto la Appendino condanna le violenze. L'ira del ministro Lamorgese: "Sono episodi inaccettabili". Per gli attivisti No Tav, Il festival dell'Alta Felicità fa rima con guerriglia urbana. E anche per questa edizione il copione è stato replicato nel piccolo comune di Venaus. Ma quest'anno il bilancio di un pomeriggio di violenza ha superato anche le peggiori aspettative: in due ore di attacchi, gli antagonisti hanno ferito tre poliziotti, distrutto un mezzo dell'Esercito, rubato zaino e danneggiato sei blindati. Una escalation di violenza che ha portato a poche ore di distanza ad una unanime condanna da parte di tutto il mondo politico. Tutto o quasi, visto che a tacere sono stati i rappresentanti del Movimento Cinque Stelle che da sempre strizza l'occhio ai No Tav e di fatto, senza condanne ufficiali, ne giustifica anche le mosse più azzardate, quelle che sfociano in tafferugli e violenze. Unica voce lontana dal coro è stata quella di Chiara Appendino che è il sindaco di Torino. La stessa questura di Torino ha dichiarato che «contro le forze dell'ordine e i militari schierati a protezione del cantiere della Torino-Lione in Val di Susa è stato un violento attacco senza precedenti». Immediata la condanna del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese: «Sono assolutamente inaccettabili episodi di gravissima violenza - ha dichiarato - che mettono in pericolo l'incolumità degli operatori di polizia e che nulla hanno a che vedere con il diritto di manifestare liberamente». Il ministro, inoltre, ha espresso «vicinanza e solidarietà ai due agenti rimasti feriti negli scontri di ieri sera nei pressi del cantiere di Chiomonte», ringraziando «tutte le donne e gli uomini delle Forze dell'ordine e dell'Esercito impegnati quotidianamente per tutelare la sicurezza e l'ordine pubblico in Val di Susa». Lamberto Giannini, il Capo della Polizia, «ha costantemente seguito» le fasi della «violenta aggressione da parte di gruppi No Tav nei confronti delle forze dell'ordine impegnate a presidio del cantiere di Chiomonte». Giannini ha seguito la complessa gestione dell'ordine pubblico, tenendosi in contatto col questore di Torino, Giuseppe De Matteis. «Il popolo no Tav, come quello no vax, ha tutto il diritto di manifestare il proprio dissenso - ha detto la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini - ma rispettando le leggi dello Stato. Invece sempre più spesso si assiste a episodi gravissimi di chi pretende di imporre il proprio concetto di libertà ricorrendo alla violenza. Gli ennesimi scontri in Val di Susa sono la riprova di quanto stia crescendo il livello di intolleranza, e di quanto sia necessaria una risposta forte per ripristinare la legalità e tutelare le forze dell'ordine che difendono un'infrastruttura strategica». Categorica la condanna del governatore piemontese Alberto Cirio: «Chi rispetta la propria terra non la mette a ferro e fuoco. Chi rispetta la democrazia non calpesta il diritto di esprimere le proprie idee, di manifestare, trasformandolo in guerriglia e non ne prende a sassate chi gli dedica la vita ogni giorno con indosso una divisa. Perché le scene che abbiamo visto in Val Susa si chiamano in un solo modo: delinquenza». Una proposta concreta è arrivata dalla Cisl, che ha chiesto di organizzare «una grande manifestazione in Val Susa per difendere la Tav e sostenere le forze dell'ordine e i lavoratori impegnati nella realizzazione dell'opera». Nadia Muratore

Proteste e traffico paralizzato in città. G20, gli attivisti bloccano lo svincolo dell’A3 Napoli est: fermata anche raffineria Q8. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Nelle ore in cui è iniziato il G20 Ambiente, Clima ed Energia a Napoli, attiviste, attivisti, comitati territoriali hanno bloccato gli ingressi delle raffinerie di S. Giovanni a Teduccio, della zona est di Napoli e lo svincolo autostradale A3. “È esattamente questa la nostra idea di transizione ecologica: fuoriuscita dal fossile, senza compromessi, al di fuori di ogni operazione di greenwashing. Le multinazionali sono alleate dei governi, ma decisamente nemiche dell’ambiente e della nostra salute” tuonano i manifestanti, che danno appuntamento alle 16 per un grande corteo a piazza Dante. Gli attivisti di Beesagainstg20 hanno l’obiettivo di contestare la riunione del G20. Bloccata anche la raffineria Q8 di via Galileo Ferraris da un centinaio di attivisti ambientali per dire “no all’ipocrisia del G20 e delle politiche di greenwashing” e per dire “basta ai combustibili fossili”. “Il continuo rinvio nel tempo degli obiettivi minimi sulla riduzione di Co2 e dei combustibili fossili – spiegano alla Dire -, la costruzione ovunque di nuovi gasdotti, l’imperversare senza regole di attività e impianti inquinanti, il potere delle compagnie petrolifere e delle elite che grazie a esse costruiscono ricchezze senza fondo, il cinismo delle multinazionali e delle compagnie di trasporto che usano i paesi più poveri del mondo come discarica tossica ci racconta come quelle di cui ci parla in questo momento a palazzo reale siano semplicemente politiche di greenwashing, il tentativo di utilizzare l’allarme climatico e ambientale e strumentalizzare la domanda di cambiamento solo per specularci sopra”. “La biografia del ministro Cingolani, una carriera nell’industria degli armamenti, è – proseguono – una perfetta fotografia dell’ipocrisia di questo consesso. È urgente mettere in discussione questo modello di sviluppo per non lasciare alle nuove generazioni un mondo sempre più tossico e invivibile come ci dicono i disastri climatici che si riproducono in questi giorni e l’emergere di nuove pandemie legate proprio alla distruzione degli ecosistemi. Giustizia ambientale e giustizia sociale sono due lati della stessa medaglia”. Si aspettano due giorni davvero infernali per la mobilità e il traffico in città.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

G20 Ambiente: da antagonisti lancio oggetti contro Ps. (ANSA il 22 luglio 2021) Momenti di tensione si sono avuti poco fa all' arrivo del corteo degli antagonisti - in corso a Napoli contro il G20 - in piazza Bovio. La testa del corteo ha cercato di spostarsi verso via Depretis, con l'obiettivo di raggiungere piazza Municipio e di qui entrare facilmente nella zona rossa. La Polizia li ha fronteggiati con un doppio cordone di agenti del reparto mobile in assetto antisommossa, che avevano alle spalle furgoni cellulari messi di traverso sulla carreggiata. Dai manifestanti sono stati lanciate buste d'acqua, sacchetti dell'immondizia e altri oggetti contro i poliziotti, che si sono protetti con gli scudi. (ANSA).

AGI il 22 luglio 2021. Si apre in una Napoli blindata la prima giornata del G20 su Ambiente, Clima ed Energia sotto la presidenza italiana. Una due giorni in cui la sostenibilità del Pianeta e la transizione ecologica saranno centrali. E protagonista sarà anche l’economia circolare. La riunione ministeriale oggi si focalizzerà sul tema ambiente mentre domani il focus sarà su clima ed energia che per la prima volta marceranno insieme.

Napoli blindata per l'evento e le proteste. Ma non mancano le proteste. Un gruppo di attivisti dei movimenti ambientalisti e dei centri sociali, che partecipano al controforum in coincidenza con il summit che si svolge a Palazzo Reale, stamattina ha bloccato il traffico nella zona del porto. Tutto l'area che va da piazza Trieste e Trento a piazza del Plebiscito e dintorni è transennata ed è bloccato l’accesso al traffico e ai pedoni.

Cingolani incontra Kerry e il ministro francese. A fare gli onori di casa e ad accogliere i colleghi dell’Ambiente del G20 è stato il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Prima dell’avvio dei lavori Cingolani ha avuto due incontri bilaterali: un colloquio con l’inviato speciale Usa per il clima John Kerry e uno con il ministro della Transizione ecologica francese, Barbara Pompili.  "Italia e Usa insieme per un'alta ambizione e per azioni stringenti in questa decade per tenere la temperatura del pianeta a 1,5 gradi", ha scritto il ministro su Twitter al termine dell’incontro con Kerry. “Difendendo l'ambiente abbiamo la possibilità reale di migliorare la vita delle persone e siamo alla vigilia del maggior cambiamento dalla rivoluzione industriale", ha detto in un'intervista a Repubblica l'inviato speciale Usa sul clima la cui impressione è' che i singoli Paesi vogliono fare meglio nella protezione dell'ambiente e vogliono riuscirci adesso". Secondo Kerry, "siamo di fronte alla possibilità della più grande trasformazione dalla rivoluzione industriale”.

Cingolani, "Ruolo chiave dell'ambiente per il post-pandemia". Aprendo i lavori, dal canto suo, Cingolani ha sottolineato che "Il ruolo dell'ambiente non è mai stato così importante". "Siamo qui riuniti oggi in un contesto che sottolinea il ruolo chiave svolto dai ministeri dell'Ambiente di tutto il mondo nel garantire le basi della società post-pandemia", ha aggiunto il ministro. La ministeriale del G20 su Ambiente, Clima ed Energia, ha proseguito, si svolge "in circostanze senza precedenti che hanno richiesto e richiedono ancora un'azione globale coraggiosa, congiunta e immediata". "Impossibile ignorare le prove scientifiche delle relazioni Ipcc e Ipbes (i due organi intergovernativi che si occupano di biodiversità e di cambiamenti climatici ndr) sui cambiamenti climatici. I tragici eventi meteorologici cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi e, persino giorni - ha evidenziato ancora Cingolani - dimostrano che il nostro sistema climatico sta subendo gravi perturbazioni. Lo stesso vale per gli ecosistemi naturali e la biodiversità, dove i nostri sforzi finora non sono stati in grado di rallentare lo scivolone verso l'estinzione di massa delle specie e la ripartizione dei principali servizi ecosistemici". Secondo il ministro, "è fondamentale resistere alla tentazione di ricostruire le nostre economie sul modello pre-pandemia. In effetti – ha osservato il ministro - come possibile unico aspetto positivo, la pandemia ci ha offerto l'opportunità di ripensare le nostre vite, immaginare nuovi, migliori, modi di organizzare le nostre società ed economie, costruirle meglio e su basi e valori diversi. Questo nuovo approccio richiede economie robuste che operino ancora entro i limiti imposti dai confini planetari e dal fondo sociale, e garantiscano la cura del nostro Pianeta sempre al centro dello sviluppo umano". Cingolani ha quindi ribadito che "soluzioni basate sulla natura e approcci ecosistemici per affrontare il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e la povertà sono "uno strumento permanentemente cruciale, ma non dovrebbero sostituire l'urgente e prioritaria necessità di decarbonizzazione e riduzione di tutte le emissioni di gas serra".  "Attenzione prioritaria - ha osservato il ministro - dovrebbe anche essere prestata alla protezione, alla conservazione, alla gestione sostenibile e al ripristino delle terre degradate, alla gestione sostenibile delle risorse idriche, gli oceani e i mari. Inoltre, è fondamentale riconoscere il grave impatto dei rifiuti marini – e in particolare dei rifiuti di plastica marini – sugli ecosistemi marini, le zone costiere, la pesca e il turismo". “La sfida centrale – ha quindi ammonito - riguarda il funzionamento del sistema finanziario e la misura in cui si allinea alle esigenze di sviluppo sostenibile. In parole povere, se il sistema finanziario può essere allineato a queste esigenze, la transizione verso uno sviluppo sostenibile può essere raggiunta. Senza tale allineamento, lo sviluppo sostenibile rimarrà al di fuori della nostra portata, con conseguenze catastrofiche che lasceremo alle generazioni future”. 

Al centro del summit il cambiamento climatico e la transizione ecologica. Alla ministeriale spetterà il compito di esprimere la sintesi di questi lunghi mesi di incontri, confronti e discussioni tra le delegazioni e i tecnici internazionali impegnati nella ricerca di risposte coordinate, eque ed efficaci, capaci di porre le basi per un futuro migliore e sostenibile. La Presidenza italiana del G20 ha presentato proposte importanti sul piano globale per stimolare la comunità internazionale verso “obiettivi ambiziosi”. I temi centrali della discussione saranno il contrasto al cambiamento climatico, l’accelerazione della transizione ecologica, le azioni necessarie per rendere i flussi finanziari coerenti con gli obiettivi dell’accordo di Parigi, una ripresa economica sostenibile ed inclusiva grazie alle opportunità offerte in campo energetico da soluzioni tecnologiche innovative, l’implementazione delle città intelligenti, resilienti e sostenibili. Le delegazioni stanno lavorando per produrre, al termine di ogni giornata, un comunicato condiviso tra i venti Paesi che contenga la traccia di visioni e impegni comuni. Al termine dei lavori oggi è prevista una conferenza stampa di Cingolani.

·        I responsabili dei suicidi in carcere.

E sui giornali neanche una riga...Strage nelle carceri, da gennaio 109 detenuti morti nel silenzio: 3 suicidi nell’ultima settimana. Giulio Cavalli su Il Riformista il 3 Novembre 2021. Eppure la storia ci insegna che il giornalismo funzionerebbe così, ogni volta che accade qualcosa e che poi si ripete diventa tutto una fanfara che mitraglia notizie simili per creare una sensazione (spesso un sensazionalismo) che induca a vendere copie e a collezionare clic. Siamo il Paese che all’improvviso si appassiona agli incidenti di treni per un mese, da quello che è stato una strage agli incidenti sui binari fuorivia di qualche sconosciuto paesello in cui non si è fatto male nemmeno un bullone: siamo il Paese in cui non può accadere nulla di più goloso di un evento che si ripete il giorno dopo. In fondo, pensandoci bene, non è nemmeno un male: la perseverante ripetizione è un elemento fondamentale per esercitare pressione su chi governa e su chi deve intervenire. Eppure il carcere no, il carcere non riesce mai a diventare “mainstream” come si usa dire in questi tempi, non riesce mai ad appassionare i politici, non infiamma il dibattito, non merita nemmeno una manciata di minuti in qualche trasmissione popolare pomeridiana. Peccato, perché negli ultimi 7 giorni in carcere si sono suicidate 3 persone e 3 morti in 7 giorni nei luoghi in cui la gente viene affidata alla tutela e alla vigilanza dello Stato sono un pilotto che fa accapponare la pelle. Il 25 ottobre scorso un detenuto italiano di 36 anni si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Pavia. Il 30 ottobre si è suicidato un internato nella Casa di Reclusione di Isili e il 31 ottobre un detenuto nella Casa Circondariale di Monza. Non perdete nemmeno tempo a cercare la notizia sui giornali perché nessuno si è preso la briga di riportarlo. Si sa, i detenuti sono periferie sociali che al massimo vengono pianti da qualche parente, se ne hanno qualcuno in giro, e rientrano nelle statistiche dei garanti che provano ad alzare la voce con pochissimo successo. Anche perché i 3 detenuti suicidi sono solo una briciola dei 47 finora dall’inizio dell’anno, gente che aveva in media 40 anni (l’età che si definisce “ma dai, ma così giovane” per quelli qui fuori) e che sono parte dei 109 del totale delle persone recluse decedute per suicidio, malattia o “cause da accertare” (età media 46 anni). La rivista Ristretti Orizzonti (che di carcere si occupa dalla nascita) ha cominciato a tenere conto dei morti in carcere fin dall’anno 2000 con il dossier “Morire di carcere” e da allora ha registrato 3.288 morti (età media delle vittime 45 anni), delle quali 1.215 sono ascrivibili a suicidio (età media delle vittime 41 anni). Per dare un’idea delle proporzioni i decessi causati dal virus Covid-19 sono stati 21 (con un’età media di 65 anni) mentre sono 13 (di 40 anni d’età media) i morti solo durante le rivolte scoppiate tra il 9 e il 10 marzo dell’anno scorso. Scorrendo i numeri si scopre che tra il 26 e il 27 settembre scorso si sono suicidati Alexandro Riccio nel carcere di Ivrea, Emanuele Impellizzeri a Verona e Mirko Palombo a Benevento. Tutto nel giro di due giorni. Oppure si scopre che Alberto Pastore, che di anni ne aveva solo 24, il 14 maggio di quest’anno si è suicidato nel carcere di Novara. Come scrivono giustamente quelli di Ristretti Orizzonti (che sono anch’essi detenuti) «questa catena di cifre ricorda tanto le cronache di guerra, con le dimensioni degli eserciti, dei “corpi speciali” di combattenti e, infine, con il bilancio di morti e di feriti. La propaganda bellica si cura di far apparire i nemici come semplici quantità numeriche e, allo stesso tempo, di umanizzare i propri soldati, riprendendo la loro partenza – tra abbracci, baci e lacrime -, magari mostrandoli mentre soccorrono gente bisognosa, mentre pregano o giocano a carte». Infine viene da chiedersi perché i molti cultori di “verità e giustizia” (quelli leali e quelli presunti) non balzino sulla sedia vedendo le decine di casi di morti per motivi “da accertare” che rimangono impolverati negli anni a venire, come se in fondo il carcerato suicida rientri nella normalità delle cose, nell’inevitabile danno collaterale della detenzione come sistema. L’Organizzazione mondiale della sanità (così in voga in questi anni di pandemia) ha ripetuto decine di volte che i detenuti «rappresentano un gruppo ad alto rischio suicidiario» e noi continuiamo a non riuscire ad affrontare il rischio: «anche se molte volte – scrive l’OMS – non ci è dato di prevedere con precisione se e quando un detenuto tenterà il suicidio o lo porterà a termine, gli agenti di custodia, gli operatori sanitari e il personale psichiatrico possono essere messi in grado di identificare detenuti in crisi suicidaria, stimare il loro rischio e trattare eventuali gesti suicidari». Ma noi continuiamo a non farcela.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano. 

Suicidio in Questura a Milano, «guardavano il telefonino mentre il detenuto si impiccava»: due agenti a giudizio per omicidio colposo. I poliziotti, giovanissimi e alle prime armi, dovevano controllare tramite i monitor le persone trattenute in Questura in attesa dell’identificazione, ma si distrassero e persero di vista il 34enne algerino. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 3 novembre 2021. Più ancora della decisione del giudice delle indagini preliminari - che non accoglie la richiesta di archiviazione e impone invece alla Procura di formulare nei confronti di due agenti di polizia l’imputazione di omicidio colposo per non aver impedito la mattina del 23 agosto 2020 il suicidio di una persona accompagnata in Questura per essere identificata -, pesa l’argomento valorizzato dal gip Roberto Crepaldi: i due agenti, giovanissimi e peraltro alle prime armi, invece di controllare con attenzione i monitor di sicurezza avrebbero avuto lo sguardo concentrato per lo più sugli schermi dei propri telefonini. La contestazione penale è dunque costruita sull’ipotesi che nei due poliziotti, addetti a controllare le persone trattenute nelle camere di sicurezza in attesa della identificazione, il non aver impedito un evento che avevano l’obbligo giuridico di impedire sia equivalso a cagionarlo. Per il giudice, intanto, non è vero che i due poliziotti non potevano avere sentore degli intenti autolesionistici del 34enne algerino, visto che la stessa annotazione di servizio segnala come l’uomo (la cui famiglia è ora patrocinata dall’avvocato Roberto Lopa) colpisse con mani e piedi la porta e la finestra della camera di sicurezza: «Uno stato di agitazione che avrebbe richiesto una vigilanza ancora più attenta e mirata» rispetto a quella richiesta dalle circolari ordinarie. Poi il giudice valorizza la tempistica, visto che da un lato l’uomo cominciò ad attuare le manovre per il suicidio alle 10.47 ed esse durarono molti minuti, e «gli spasmi causati dallo strozzamento impegnarono altri tre minuti e sono chiaramente visibili dal video della sorveglianza», mentre dall’altro lato la relazione medico-legale ha quantificato in 30 minuti il lasso di tempo nel quale sarebbe potuto essere soccorso l’algerino, che fu invece trovato senza vita un’ora e 10 minuti dopo il suicidio. «Non può allora non sottolinearsi - ritiene il gip - la scarsissima attenzione dedicata degli agenti agli schermi della videosorveglianza, impegnati com’erano nella maggior parte del tempo a osservare lo schermo del proprio telefono». È vero che la posizione dell’uomo, impiccatosi da seduto, poteva apparire ambigua, tanto più che il colore della maglia si confondeva con le sbarre, «ma, se gli agenti avessero prestato attenzione continuativa allo schermo che proiettava in tempo reale le immagini della videosorveglianza, si sarebbero certamente avveduti delle articolate, durature e inequivoche azioni preparatorie ed esecutive dell’impiccamento da parte dell’uomo». La Procura per chiedere l’archiviazione rilevava anche che i due agenti (difesi dai legali Riccardo Truppo e Giuseppe Barillà) nello stesso periodo di tempo avevano dovuto badare alle pratiche burocratiche per l’arrivo di un altro fermato in camera di sicurezza, ma sul punto il giudice obietta che sarebbe bastato che un agente sbrigasse le pratiche e l’altro mantenesse la sorveglianza del fermato sui monitor di sicurezza interna. Il giudice concorda invece con il pubblico ministero Paola Pirotta sul fatto che anche altri fattori, più strutturali e indipendenti dal ruolo dei due agenti, abbiano concorso al tragico esito, primo fra tutti il fatto che in Questura «fosse consentito che in una camera di sicurezza vi fossero sbarre orizzontali alle finestre, certamente congeniali a chi abbia intenti di suicidio». Allo stesso modo ha pesato la scarsa esperienza degli agenti tutti molto giovani e all’inizio della carriera, una addirittura ancora in formazione, il che «li ha portati a una franca sottovalutazione del rischio che si stava concretizzando sotto i loro occhi e a concentrarsi invece su adempimenti meno noiosi o sul loro telefonino». Infine ci sono anche oggettivi «limiti nelle dotazioni tecniche», con «la visione delle immagini attuata mediante uno schermo di medie dimensioni, suddiviso ulteriormente in nove quadranti, sicché anche l’osservazione delle singole celle risultava certamente faticosa, e mancano anche sistemi automatici di segnalazione di comportamenti anomali che pure la tecnologia offrirebbe». Ma se questo da un lato per il giudice non eliderebbe ugualmente la responsabilità dei due agenti a titolo di colpa, dall’altro lato per il giudice resta comunque dirimente il fatto che «le immagini delle telecamere installate nella sala controllo consentano di appurare come i due agenti prestino al monitor un’attenzione soltanto sporadica e invece occupino la maggior parte del tempo utilizzando ciascuno il proprio telefono cellulare oppure conversando».

Il caso di Luca Campanale arriva alla Cedu: si suicidò in carcere 12 anni fa. Il giovane era affetto da seri disturbi psichici. In primo grado furono inflitti otto mesi di reclusione per omicidio colposo a una psichiatra: per la prima volta un tribunale italiano riconobbe una responsabilità di questo tipo. Il Dubbio il 21 giugno 2021. È da 12 anni che il padre Michele e i fratelli Andrea e Vincenzo chiedono che sia fatta giustizia sulla morte di Luca Campanale che morì impiccandosi nel 2009 a 28 anni nel carcere di San Vittore dove era recluso per uno scippo. Ora, attraverso un ricorso firmato dall’avvocato Andrea Del Corno, la vicenda approda alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiamata a dirimere un caso con esiti giudiziari “storici” e controversi. Nel 2014, in primo grado, una psicologa venne assolta mentre a una psichiatra furono inflitti otto mesi di reclusione per omicidio colposo. Inoltre, il Ministero della Giustizia fu condannato al pagamento di una provvisionale da 529mila euro. Fu, quella, la prima volta che un tribunale italiano riconobbe una responsabilità di questo tipo per un suicidio dietro le sbarre. Ma in appello, confermato dalla Cassazione, entrambe le imputate furono scagionate con la revoca delle statuizioni civili. Il ricorso punta su una «sequenza degli avvenimenti ritenuta di per sé esplicativa: Campanale si suicida il 12 agosto 2009 a mezzanotte e mezzo, dopo l’esecuzione del provvedimento di revoca della Sorveglianza a vista e della permanenza nella zona delle celle a rischio, quindi con declassamento del regime di controllo». Responsabili sarebbero state, nella lettura della parte civile, le dottoresse R.D.S., psicologa, e M.M., psichiatra, perché avrebbero sottovalutato il rischio che il giovane si suicidasse. In particolare, non avrebbero dato il giusto peso al fatto che Campanale fosse affetto da seri disturbi psichici e avesse compiuto «numerosi gesti autolesivi» nel carcere di Pavia dove era detenuto in precedenza. Dalla ricostruzione di Del Corno emerge che il 30 luglio del 2009 la psicologa «aveva revocato la sorveglianza a vista e l’inserimento nelle celle a rischio», mentre la psichiatra «non aveva disposto alcun regime di sorveglianza ma aveva ridotto il presidio farmacologico sulla base di una non riscontrata alleanza terapeutica». Il 2 e il 4 agosto Campanale aveva compiuto «numerosi gesti autolesivi» senza che venisse cambiatala scelta di non sottoporlo a un’osservanza più stretta. In totale nel ricorso si citano nove episodi, documentati, di «reiterati gesti autolesionistici, aggressivi nei confronti di altri e tentativi di suicidio tra il maggio e l’agosto dell’anno in cui il giovane si tolse la vita. 

·        I non imputabili. I Vizi della Volontà.

Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 3 ottobre 2021. Prima bistrattata ("La famiglia è un'associazione a delinquere"); poi dileggiata (“La vita familiare è un’interferenza nella vita privata”); ed ora bagnata di sangue e lastricata di omicidi (“Una famiglia non è che un anticipo dell’infermo”). Ormai è ufficiale: da “La morte della famiglia”, un saggio degli anni Settanta di David Cooper, pioniere dell'antipsichiatria, siamo finiti alla ‘’morte in famiglia’’. Ecco una interminabile sequenza quotidiana di vite cancellate a colpi di tubi di ferro, di bloccasterzo per auto e perfino a colpi di pentole in testa. Figli che strangolano i genitori. Padri che fanno fuori un’intera famiglia, nonna compresa. Sorelle che uccidono la madre e poi vanno a “Chi l’ha visto?” per chiedere aiuto. Posato il fiasco, un disgraziato ha ucciso la sua compagna perché si rifiutava di dimagrire. Gesti atroci. E senza provare sensi di colpa. Ma ciò che più sgomenta è che i nuovi mostri siano in maggior parte giovani che vengono da famiglie che hanno alle loro spalle vite normali, limpide e laboriose; genitori che ogni giorno hanno piegato la schiena per dare un’esistenza migliore ai loro figli. Quale turbolenza mentale, in loro, determina l’assenza assoluta di umanità, di valori, di pietà? Quando il gesto omicida si accompagna alla freddezza e alla capacità di esibizionismo, rifugiarsi nella malattia mentale o nel raptus di follia non spiega tutto. Anche l’interesse economico è una facile copertura: seguendo le classifiche degli uomini più ricchi della terra anche John Elkann e Silvio Berlusconi potrebbero essere candidati al delitto. Quale guasto ha potuto portare dalla quotidianità famigliare al gesto estremo? Cosa è successo alla ‘’più piccola molecola della società’’, dove l'8O per cento dei ragazzi italiani vive ancora attaccato alle gonne di mammà? Quel che è certo è che le radici del male di quei giovani assassini affondano in un terreno malato. Essì, sembra ormai un bel ricordo del passato il "formato famiglia”, l’unica rete salda anche se spesso infastidita, turbolenta, disperata, che legava le persone, le generazioni, il sol luogo degli affetti sia pure conflittuali e della normalità sociale sia pure in difficile equilibrio. Obsoleta come un gettone telefonico anche quella storiella: "Sapete perché Gesù Cristo era italiano? Per tre motivi. Primo, perché solo un figlio italiano può credere che sua madre sia vergine. Secondo, perché solo una madre italiana può credere che suo figlio sia un dio. Terzo, perché solo un figlio italiano può vivere con la mamma fino a trentatré anni". Che cos'è successo? Eppure le mamme contemporanee non sono più babbione che brontolano contro un mondo moderno che non capiscono; sono più colte, più aperte all'esterno, e più sveglie. Tutto sommato, anche i padri sono più cordiali e meno oppressivi, così giovanilisti da assorbire qualsiasi scossone dei loro pupi. E allora non sarà che i giovani killer dei nostri giorni, demenze a parte, siano anche il risultato di un “formato famiglia” saltato in aria? "La mia famiglia" qui, "la mia famiglia" là, gli otto giorni al marito "che non va", i figli sminuzzati da una casa all'altra, una madre qui, un padre là. Nuclei familiari che si tramandano il fallimento da un matrimonio all'altro. Persone di ogni campo sociale che considerano ormai il divorzio non come l'ultima irrimediabile soluzione ma come il digestivo Antonetto: una "pasticca" che si può prendere anche in tram. I marmocchi oggi non sono mica i ragazzotti di una volta che ripetevano il lamento di Nanni Moretti nel film "Palombella rossa": "Mamma, sono tutti infelici, vienimi a prendere". Oggi sono loro che li vanno a prendere. In altre parole, possono non sopportare i genitori, ma non possono vivere senza famiglia.

Gli altri Benno. Da liberoquotidiano.it il 26 aprile 2021. Si chiama Marco Eletti il principale sospettato della morte di Paolo, il padre 58enne trovato priva di vita nella sua casa a San Martino in Rio, Reggio Emilia. L'uomo è stato rinvenuto con il cranio fracassato a martellate. Poco lontano, su un divano, la moglie Sabrina. La donna invece aveva i polsi tagliati, incosciente, ma era ancora viva quando sono arrivati i soccorsi. Fermato il figlio della coppia 33enne noto a tutti per essere uno scrittore di thriller, nonché un ex concorrente de L’Eredità, programma di Rai 1 oggi condotto da Flavio Insinna. È stato proprio lui a rinvenire i corpi nella serata di sabato 24 aprile e lanciare l'allarme. Marco lavora in un’azienda di Rubiera, ma vive a Reggio Emilia con la compagna, che nel tardo pomeriggio ha chiamato i soccorsi, anche per un principio d’incendio che si stava sviluppando nel garage. Quando i carabinieri, coordinati dalla pm Piera Giannusa, sono arrivati sul posto, lo hanno trovato in stato di choc, ma i sospetti si sono concentrati subito su di lui. Per gli investigatori è poco probabile l’ipotesi di un omicidio seguito a un tentato suicidio. Il giovane, con alle spalle ben quattro libri pubblicato, è stato interrogato per tutta la notte. Troppe le versioni contraddittorie che ha fornito agli investigatori impegnati a ricostruire gli spostamenti del ragazzo e il drammatico accaduto. Secondo i carabinieri e la pm il movente sarebbe di questioni patrimoniali, relative a una porzione della casa, dai quali sarebbero poi scaturiti parecchi litigi. La madre di Marco, Sabrina, è ancora in gravissime condizioni, ricoverata in coma farmacologico indotto. Mentre Marco continua a negare, le indagini sperano in una svolta dopo l'autopsia sul corpo del padre. Marco aveva partecipato nel 2019 al programma della Rai: "Rivedermi in televisione mi ha fatto un certo effetto - erano le sue parole sul suo blog - e purtroppo la mia uscita continua a intristirmi ancora oggi. Sono sempre abbastanza severo con me stesso, e questo episodio non fa eccezione. Era più che un gioco, era una sfida bellissima che però avrebbe appagato per intero solo arrivando in finale".

Gianluigi Nuzzi per “Specchio - la Stampa” il 22 agosto 2021. "Appena io metteva loro le mani sul collo avea l'erezione. Spaccai la Motta con un rasoio e provai nel farlo un gran piacere succiai il sangue che era salato, con che godei moltissimo Poi asportai il polpaccio per poterlo continuare a gustare a casa e arrostirmelo". Chissà se lo scrittore americano Thomas Harris si è ispirato a Vincenzo Verzeni per conquistare la paura del grande pubblico quando creò la mitologia di Hannibal Lecter, interpretato poi da un inarrivabile Anthony Hopkins. Certo, Lecter è di celluloide e rappresenta un dotto psichiatra manipolatore, mentre Verzeni, nato l'11 aprile del 1849, era un contadino dabbene della Bergamasca, figlio di un padre anaffettivo e alcolista, nativo di Bottanuco e serial killer già all'età di 21 anni, conquistando il soprannome de "lo strangolatore di donne" o "il vampiro della Bergamasca". Sia Lecter, sia Verzeni coltivano l'irresistibile passione del saziarsi con il corpo umano, tanto che l'ultimo, ancora oggi, rappresenta uno dei più fulgidi e rari casi di vampirismo in Italia. E forse andrebbe ben scandagliato il passato di questo ragazzo che subiva umiliazioni, vessazioni e botte del padre senza reagire, per trovare uno spiraglio d'interpretazione alla perfida normalità del male, persino del peggiore, come quello che Verzeni rappresentava. Infatti a noi comuni cittadini un individuo che pratica e prova piacere nel cannibalismo è un folle da internare, ma all'epoca il giudice ritenne il contadino vampiro capace di intendere e volere.  Una pronuncia conforme al perito d'ufficio, il noto Cesare Lombroso, che pur sollecitava per "il divoratore di carne umana" una riduzione della responsabilità per evidente alterazione del quadro psichico. "Verzeni è affetto da necrofilomania o pazzia per atti mostruosi e sanguinari cinque o sei casi conosciuti esseri in cui non esiste quasi una linea di confine tra il delitto e la pazzia". Insomma, il fondatore dell'antropologia criminale leggeva nella psiche di questo assassino e nel suo agire una lucidità organizzativa, compromessa dall'incapacità di gestire un impulso omicida, sebbene consapevole dell'illeceità e della gravità del delitto. Uno squilibrato compulsivo ostaggio dei suoi istinti più bradi: il piacere erotico del togliere la vita non era arginabile. E, in effetti, lo scempio era indescrivibile. In nove mesi, l'uomo aveva colpito due volte, strangolando una domestica di 14 anni e una casalinga di 28 anni. In entrambi i casi il tipo di approccio era stato banale: la vittima veniva individuata se percorreva da sola una strada di campagna, quindi avvicinata con un pretesto e, dopo un brevissimo e impacciato dialogo, aggredita e uccisa. Verzeni non torturava la predestinata, non forzava, sembra che nemmeno pretendesse prestazioni sessuali. Il piacere si coagulava in due precisi momenti. Nel "mentre", ovvero nell'attimo della privazione dell'altrui vita, quando giungeva all'orgasmo stringendo le mani al collo della vittima. E se questo non arrivava, la vittima finiva inevitabilmente strozzata. E poi in quelle dinamiche perverse di accanimento sul cadavere: eviscerazione, necrofagia, sventramento, depezzamento, asportazione degli organi genitali. Il serial killer prima di abbandonare il corpo, lasciando intorno parti di esso, firmava anche l'omicidio con una serie di spilloni, alcuni conficcati nelle membra, altri posti vicino, come se tutto avesse una sua ritualità, un ordine profondo, un'oscura magia - si direbbe - se non fossimo di fronte a uno dei più atroci assassini che il nostro Paese abbia mai patito. L'escalation criminale si consuma tra il 1867 e il 1869, quando Verzeni firma sei aggressioni sessuali con tentato omicidio e un furto. Tra le prime azioni c'è di certo quella ai danni della cugina Marianna che, ignara, stava dormendo fino a quando Verzeni cerca di morderle il collo. La ragazza urla al punto da far scappare l'aggressore. La storia non finisce all'attenzione della magistratura perché nessuno presenta denuncia, preferendo ricomporre tra familiari. Invece, siamo nel 1869 quando Barbara Bravi, contadina, racconta di esser stata aggredita da un uomo fuggito davanti alla sua tenace resistenza. Dopo qualche mese un episodio fotocopia con vittima Margherita Esposito. Anche lei resiste, si difende, graffia al volto il suo aggressore che verrà identificato nel Verzeni. Ma la giustizia non sembra intervenire né con rapidità, né con efficacia. Così, dopo poche altre settimane, alle guardie si presenta Angela Previtali: vuole denunciare Verzeni perché è stata rapita da lui e portata in una zona disabitata. La donna riesce però a convincere il suo aguzzino di lasciarla libera, riuscendo a salvarsi. Poi, nel 1870, il salto di qualità e gli ultimi segnali d'allarme, rimasti sempre inascoltati. È il 7 dicembre, ovvero proprio alla vigilia del primo omicidio, quando Verzeni già è in preda a una compulsione predatoria. Prende di mira la cugina di secondo grado di 19 anni, che aggredisce sessualmente. Cerca di strangolarla per il suo piacere sessuale, ma per fortuna ha un attimo di esitazione: lei non se lo fa sfuggire, si divincola e si salva. Sotto choc, la donna non svelerà mai a nessuno quanto accaduto. Così Verzeni sarà pronto a colpire. L'indomani è il giorno dell'Immacolata, Verzeni in uno sterrato di campagna incontra Giovanna Motta, una ragazzina di appena 14 anni che si occupa di servire in una casa di benestanti della zona. Sta tornando dai genitori a Suisio, dopo che il suo datore le ha lasciato la giornata libera. La giovane verrà ritrovata quattro giorni dopo completamente nuda, con la bocca colma di terra. Ma era soprattutto il corpo a lasciare esterrefatti e tormentare la vista: sezionato in più parti, eviscerato. E poi, a qualche metro di distanza, su un sasso dieci spilli disposti a cerchio. La firma dell'assassino. Eppure, le macabre scoperte purtroppo non erano finite: sotto del frumento erano nascosti i vestiti, dall'interno di un albero sbucano i visceri, in una baracca spunta un polpaccio. Verzeni non si controlla più, gli episodi si fanno sempre più incalzanti. E così, il 10 aprile 1871, Maria Galli, altra contadina, lo segnala alla polizia perché Verzeni la infastidiva pesantemente, mentre il 26 agosto punta su Maria Previtali, l'afferra, strattona e spintona. Cerca di in ogni modo di morderla al collo, ma la donna riesce a fuggire. È il preludio. Non sono passati nemmeno nove mesi dal primo omicidio e a fine agosto in un campo coltivato, poco distante, nuda viene ritrovava Elisabetta Pagnoncelli, 28 anni. Vicino ai piedi una corda che per diametro combacia con l'ecchimosi del segno lasciato sul collo. Anche qui l'assassino ha sventrato il corpo per conficcarvi tre spilli, lasciandone altri lì vicino. Per fortuna le precedenti aggressioni aiutano gli inquirenti che riescono a stringere il cerchio nel 1873 proprio su questo giovane contadino. Lui all'inizio nega. Indica altre persone che meriterebbero certo l'attenzione delle indagini. Poi però confessa, anche nei dettagli, quanto compiuto, le pulsioni avute. E quando si arriva a processo, si dichiara colpevole. Certo non si pente, non mostra rimorsi, anzi implora i giudici di non lasciarlo uscire perché è ben consapevole che tornerebbe a colpire di nuovo, a uccidere altre donne. Il piacere nero è prevaricante, ha scavato nella sua coscienza fino a spegnerla per sempre. Per capire come si può arrivare a tanto, come un individuo può precipitare nell'ultimo girone della violenza più brutale, si indagò sul contesto familiare del serial killer. La famiglia di Verzeni pativa un profondo disagio economico, era molto rigida, avara nelle relazioni e nelle comunicazioni. Il contadino - prossimo assassino - si ritrova un padre con tracce di pellagra, che picchiava il giovane senza che lui reagisse, una madre con crisi epilettiche, due zii cretini. Nell'infanzia il ragazzo è assai remissivo, tranquillo, sensibile se vengono maltrattati degli animali davanti ai suoi occhi. È facile dedurre che potesse mancare quindi quell'affetto e di quel calore che proteggono un figlio nella crescita. Passati i 12 anni cambia in modo inaspettato. Sempre defilato, silenzioso, viene descritto sia come violento nell'uccidere polli e galline, traendo piacere erotico, sia come molto concentrato sulla propria sessualità e sull'autoerotismo. I suoi sentimenti maturano in modo disordinato con un'adolescenza irrequieta, rapporti sessuali anche con bambine, relazioni che si incendiano e spengono in pochi giorni. Certo, non basta tutto ciò a spiegare, anzi non si contano i figli di genitori problematici che hanno avuto successo nella vita. Lo studio della psiche umana rimane la scienza ancora oggi più incerta, immaginiamoci a metà dell'800 cosa si poteva conoscere. Anche perché in questa storia il male non aveva confini: "Io ho veramente ucciso quelle donne - aveva concluso Verzeni la sua confessione a processo - e ho tentato di strangolare quelle altre, perché provavo in quell'atto un immenso piacere. Le graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte colle unghie ma con i denti, perché io, dopo strozzata la morsi e ne succhiai il sangue che era colato, con cui godei moltissimo".

Pietrini: «Pazzi o criminali? La neuroscienza sfida il diritto penale». Lo psichiatra Pietrini: «In inglese si dice “bad or mad”, cattivi per scelta o perché malati, più andranno avanti gli studi delle neuroscienze e più la lancetta si sposterà da “bad a mad”. Valentina Stella su Il Dubbio il 19 agosto 2021. È possibile identificare dei fattori biologici e mentali alla base di comportamenti criminali? E se sì, che effetto avrebbe questa scoperta sulla imputabilità dell’individuo? Come riscrivere lo scopo della pena per un individuo ‘ determinato’ alla violenza? Ne parliamo con lo psichiatra di fama internazionale Pietro Pietrini, Direttore presso la Scuola IMT Alti Studi di Lucca. Il suo nome è legato al caso di Stefania Albertani, dichiarata colpevole, nel maggio 2011 con rito abbreviato, per omicidio e occultamento di cadavere della sorella, e per il doppio tentativo di uccisione di entrambi i genitori. La pena comminata fu di venti anni di reclusione invece che l’ergastolo, essendo stato riconosciuto un vizio parziale di mente anche per la presenza di «alterazioni» in «un’area del cervello che ha la funzione» di regolare «le azioni aggressive» e, dal punto di vista genetico, di fattori «significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento». La decisione fu supportata oltre che da accertamenti psichiatrici tradizionali, anche da analisi neuroscientifiche, che indagarono la morfologia del cervello e il patrimonio genetico dell’imputata. Si trattò di uno fra i primi casi al mondo della validità delle neuroscienze per l’accertamento dell’imputabilità. Il caso fu trattato anche sulla prestigiosa rivista scientifica Nature. Oggi il professor Pietrini assiste Benno Neumair, ma di questo parleremo in un’altra occasione.

In base alla sua esperienza, quali conclusioni si possono trarre in merito al rapporto tra neuroscienze, responsabilità penale e imputabilità?

La valutazione dell’imputabilità è conditio sine qua non perché possa esserci un giusto processo. In termini giuridici stabilire l’imputabilità significa verificare se il soggetto era capace di intendere e volere al momento della commissione del reato. La capacità di intendere è quella di comprendere la natura delle azioni che si compiono e le loro conseguenze, mentre la capacità di volere è quella di controllo che l’individuo ha sulle proprie azioni. Secondo l’articolo 89 cp un individuo non è imputabile anche se una sola delle due capacità viene meno. Esiste anche la terza possibilità di una capacità di intendere o volere gravemente scemata ma non totalmente abolita. In questo caso l’individuo è imputabile ma ha diritto ad uno sconto di pena fino ad un terzo. Fatta questa premessa, il ruolo delle neuroscienze è quello di cercare di dare il più possibile una base oggettiva, un correlato misurabile alle conclusioni che si raggiungono in termini di imputabilità. In sintesi: ridurre il margine di soggettività. Questo perché in psichiatria forense manca ancora, rispetto alle altre branche della medicina, la possibilità di avere un riscontro oggettivo. Non possiamo, ad oggi, misurare la capacità di intendere e di volere, il libero arbitrio o la capacità di autodeterminazione, come misuriamo la glicemia. Invece nel nostro campo, possiamo trovare pareri anche diametralmente diversi sullo stesso soggetto: quello del perito del giudice e quelli delle parti. L’obiettivo delle neuroscienze diventa quello di integrare le tecniche ordinarie – il colloquio clinico, l’uso di test psicometrici, la raccolta di dati amnestici contribuendo al processo diagnostico e riducendo la variabilità soggettiva di giudizio dei singoli esperti. Oggi, ad esempio, grazie alle moderne tecniche neuroradiologiche, abbiamo la possibilità di misurare la densità neuronale in aree del cervello che sono cruciali per il controllo degli impulsi.

Una simile informazione cosa rileva o non rileva ai fini del giudizio di imputabilità?

Le neuroscienze portano un contributo complementare, integrativo. Nessuno di noi ha mai sostenuto che una persona non è imputabile semplicemente perché presenta una ridotta densità neuronale nella corteccia.

Noi diciamo che, a riprova di quello che clinicamente abbiamo riscontrato, nell’individuo vi è anche un correlato cerebrale o un rischio genetico che offre un quadro completo delle sue capacità. Nei casi di patologia conclamata, come ad esempio un tumore in una certa area del cervello, o una demenza frontale è certamente più facile stabilire l’esistenza di una relazione causale tra la patologia e il comportamento tenuto dal soggetto. Tuttavia, non sempre il giudice penale ritiene che la presenza della patologia abbia esercitato un ruolo causale rilevante sulla condotta criminosa. Non vi è nulla di deterministico. Tornando alla sua domanda: dipende dal tipo di lesione e dalla sua reversibilità e dalla possibilità di controllare, qualora non fosse rimovibile, gli effetti della lesione.

Però leggevo su DirittoPenaleeUomo, sempre a proposito di un suo intervento, del caso di un insegnante americano che a causa di un tumore ha iniziato a manifestare un comportamento inopportuno, estremamente disinibito nei confronti prima delle colleghe e, poi, anche dei suoi giovani allievi. Tolto il tumore, il paziente ha ripreso una vita normale e anche il suo comportamento è tornato quello di un tempo.

In ambito scientifico, questo si chiama “esperimento perfetto”, o test- retest. Come ho detto in quell’occasione, quando vogliamo dimostrare che tra A e B c’è un nesso di causa, si guarda innanzitutto se, in presenza di A, B compare; poi si toglie A e si vede se anche B viene meno; infine, si mette nuovamente A e si verifica se anche B ricompare. Il verificarsi di questa condizione consente di stabilire il rapporto eziologico tra i due fattori con certezza pressoché assoluta. Tuttavia, simili eventi non sempre hanno un impatto significativo in sede giuridica, probabilmente perché, semplicemente, non siamo ancora pronti ad accettare queste circostanze.

Professore Pietrini ogni caso va giudicato singolarmente?

Certamente. Premesso che ogni individuo è diverso, il nostro obiettivo è cercare di mettere insieme fattori diversi – genetici, di morfologia cerebrale, di funzionamento cerebrale, di abuso di sostanze, di deprivazione di sonno, ecc. – che concorrono a determinare la capacità di controllare il comportamento.

Quindi non si nasce già predisposti a compiere dei crimini? C’è sempre l’influenza del fattore ambientale?

Questa è una domanda importante. Nei secoli c’è stata sempre questa dicotomia tra natura e cultura, che gli studi moderni stanno dimostrando essere priva di senso. Dal punto di vista genetico, noi abbiamo tutti lo stesso genoma ma il motivo per cui siamo tutti diversi è perché sui 22mila geni insistono oltre 30 milioni di variazioni. Alcuni dei geni che controllano i neurotrasmettitori cerebrali hanno anch’essi varianti alleliche che rendono un individuo più o meno plastico, permeabile all’ambiente.

Voglio dire che gli effetti dell’ambiente possono avere conseguenze minori o maggiori su certi individui rispetto ad altri. Se il concetto è quello di geni di plasticità, ossia di favorire o meno una permeabilità alle condizioni ambientali, questo ci porta a concludere che genetica e ambiente non sono inscindibili. L’unico caso di determinismo è stata la famosa famiglia descritta da Brunner nel 1993: nei maschi di una famiglia olandese con una pesantissima storia di comportamento antisociale vi era un allele nullo per il gene MAOA. Poiché questo gene si trova sul cromosoma X che, come noto, è presente in singola copia nel maschio, coloro che avevano questa mutazione non producevano alcun enzima MAOA, ed erano estremamente aggressivi e violenti. Questa mutazione così grave è fortunatamente estremamente rara.

Data la complessità della materia, non dovrebbe esserci una riflessione più approfondita su come il nostro sistema carcerario debba affrontare casi in cui alla base del comportamento antisociale c’è un fattore biologico/ culturale?

In inglese si dice bad or mad, cattivi per scelta o perché malati, incapaci di fare altrimenti. Più andranno avanti gli studi delle neuroscienze e più la lancetta si sposterà da bad a mad. Nel ‘ 800 l’epilettico – e ancora oggi in alcuni paesi dell’Africa – veniva considerato un indemoniato. Poi la scienza ha dimostrato che l’epilessia è una banale malattia neurologica. Il concetto non è molto diverso per il comportamento socialmente deviante. Ci sono criminali psicopatici che non provano quelle emozioni e sentimenti che sono alla base della vita sociale e del rispetto degli altri. Herbert Maudsley, famoso psichiatra inglese vissuto a fine 1800, scriveva che "Così come ci sono persone che non possono distinguere certi colori, affette da quella che chiamiamo cecità per i colori, ed altre che non distinguono un tono musicale da un altro, essendo privi di orecchio per la musica, ce ne sono alcuni che sono congenitamente privi di qualsivoglia senso morale". Le neuroscienze oggi offrono la possibilità di una verifica oggettiva di queste osservazioni, anche se all’interno della comunità scientifica ci sono psichiatri forensi che escludono, a mio avviso erroneamente, la psicopatia come causa di imputabilità perché sostengono che in carcere sono quasi tutti psicopatici. Penso, invece, che il fatto che dietro a molte azioni criminali ci sia la psicopatia ci deve far riflettere: può non essere un attenuante ma esiste qualcosa che spinge a compiere gesti criminali, non avendo la capacità di apprezzare i valori morali, che non può essere considerata una variante di normalità. È più facile segregare una persona per "proteggere" la società dal diverso, come abbiamo fatto con gli appestati fino al 1600 e con i malati di mente fino a qualche decennio fa. Poi abbiamo capito che le persone si possono curare e riabilitare così da rendere possibile il loro reinserimento nella società.

Alla luce di tutto questo, come è possibile rieducare uno psicopatico?

Il discorso è complesso. Cerchi di educarlo, di inserirlo un contesto. Negli Stati Uniti stanno sperimentando per i giovani psicopatici, insensibili alla punizione, sistemi di gratificazione. Il tentativo è quello di far loro migliorare il comportamento dando loro dei premi. Questo procedimento sembra agire su meccanismi primordiali di gratificazione, gli stessi che già si ritrovano nei bambini piccoli, che prescindono dalla presenza o meno di un sistema di valori morali.

Quelle voci che uccidono: quando i "demoni" esistono davvero. Sofia Dinolfo il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. Di fronte a un omicidio accade che l'assassino dica di essere stato spinto dalle voci. A chiarire a IlGiornale.it questo problema è la psichiatra Donatella Marazziti: "Un sintomo di vari disturbi psicopatologici". La cronaca nera racconta diversi eventi. Ogni crimine è un caso a sé, con tratti che lo rendono unico rispetto a centinaia di altri casi simili. Talvolta accade però che ci siano specifici elementi che rendono comune il motivo che spinge a commettere l’azione criminosa. È il caso delle “voci”. Succede che gli assassini dichiarino di aver commesso un omicidio perché hanno sentito una voce interiore che comandava loro di farlo. Ultimo caso ad esempio quello dell’assassinio di Chiara Gualzetti. Il suo autore, un 16enne, ha affermato di aver agito perché spinto da una voce: “È stato un demone a dirmi di uccidere Chiara. L’ho fatto per calmarlo”. In alcuni casi dalle perizie psichiatriche è stato riscontrato che gli assassini abbiano reso questo tipo di dichiarazioni allo scopo di ottenere l’infermità mentale e quindi la riduzione della pena. In altri casi, al contrario, gli imputati hanno avuto veramente la sensazione di aver udito delle voci. Di che problema si tratta? A spiegarlo a IlGiornale.it è la psichiatra Donatella Marazziti.

Cosa sono le voci?

"Le cosiddette 'voci' sono dei fenomeni psico-sensoriali abnormi che, con il termine tecnico giusto, si definiscono allucinazioni uditive. Sono un sintomo di vari disturbi psicopatologici".

In che modo si manifesta questo disagio?

"Le allucinazioni uditive sotto forma di voci possono essere voci dialoganti, negative o positive, che commentano il comportamento del soggetto o che incitano a fare qualcosa".

Chi sono i soggetti vulnerabili? Perché in loro si manifesta questo problema?

"Le allucinazioni sono un sintomo che è tipico dei disturbi psicotici, come la schizofrenia, o di quelli indotti dalle sostanze d’abuso, ma si possono ritrovare anche nella depressione o dopo una deprivazione sensoriale in soggetti normali. Parte di pazienti psichiatrici, che possono presentare allucinazioni uditive, sono soprattutto i consumatori di droghe, compresi i derivati della cannabis e marijuana".

Quando è necessario ricorrere all’aiuto di uno specialista?

"Sempre, si tratta infatti di un sintomo molto importante e grave".

Chi sente le voci ha inevitabilmente dei disturbi psichiatrici?

"Sì".

Quando le voci diventano un problema per l’incolumità altrui?

"Quando sono aggressive e incitano a compiere azioni violente nei confronti degli altri o di se stessi, ma soprattutto quando sono sottovalutate e poco esplorate nel colloquio psichiatrico e quindi non trattate adeguatamente, se si accompagnano a mancanza di consapevolezza di malattia".

Più volte sono stati commessi omicidi “comandati da voci”. Nel recente assassinio di Chiara Gualzetti ad esempio, l’omicida dice di aver ricevuto l’ordine di un demone. Come si può spiegare un’azione del genere assieme ad altri casi simili?

"Non posso e non voglio fare nessun commento su un caso così atroce e recente che non conosco adeguatamente per dare un giudizio tecnico. Posso solo dire che casi simili esistono".

Come fa lo psichiatra a capire quando queste dichiarazioni vengono rese dall’imputato per ottenere l’infermità mentale e quando è veramente presente la convinzione di averle sentite?

"La perizia psichiatrica volta ad accertare l’eventuale infermità mentale di un imputato non si basa solo su un sintomo come le allucinazioni uditive, ma è una procedura complessa che prende in considerazione la storia familiare e fisiologica del soggetto, le sue eventuali patologie mediche pregresse e/o attuali, la sua personalità, il temperamento, e soprattutto un esame psichiatrico accurato".

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurispru…

Proposta di legge per abolire i “folli rei” istituiti dal codice Rocco. Riccardo Magi di +Europa è il primo firmatario della proposta di legge per abolire i "folli rei", sostenuta da un manifesto indirizzato alla società civile. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 maggio 2021. C’è sul tavolo una proposta di legge, primo firmatario Riccardo Magi di +Europa, che si prefigge di cancellare il Codice Rocco relativo ai “folli rei”. In sostanza si tratta di completare la legge 81 che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma che non ha intaccato il sistema del “doppio binario”: quello che riserva agli autori di reato – se dichiarati incapaci di intendere e di volere per infermità mentale- un percorso giudiziario speciale, diverso da quello destinato agli altri cittadini. Una carenza che non ha reciso la logica sottesa al trattamento dei “folli rei”. La proposta di legge, presentata dall’onorevole Riccardo Magi, è frutto di un’elaborazione collettiva, sostenuta da un manifesto-appello indirizzato alla società civile, promosso da La Società della ragione, l’Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, il Coordinamento delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e dei dipartimenti di salute mentale (Dsm) e Magistratura democratica e firmato da giuristi, avvocati, operatori nel campo psichiatrico e militanti delle associazioni per la riforma della giustizia. Come ha ben spiegato Magi durante la presentazione in Parlamento, l’idea centrale della proposta di legge è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti. «Il riconoscimento della responsabilità cancellerebbe una delle stigmatizzazioni che comunemente operano nei confronti del folle. La capacità del folle di determinarsi non sarebbe completamente annullata in ragione della patologia e si verrebbe a rompere una volta per tutte quel nesso follia-pericolo che è stato alla base non solo delle misure di sicurezza, ma anche dei manicomi civili», ha spiegato Magi. L’abolizione della nozione di non imputabilità è stata sostenuta da alcuni psichiatri e attivisti per la salute mentale, proprio come forma di riconoscimento di soggettività al malato di mente, in questo caso autore di reato. Il riconoscimento della responsabilità è anche ritenuto essere un atto che può avere una valenza terapeutica. Dopo cinque anni dalla chiusura degli Opg è quindi necessario un passo ulteriore. «Occorre rispondere alle spinte regressive, che mettono in discussione alcuni dei capisaldi della Legge 81/2014, come il numero chiuso nelle Rems e il principio di territorialità delle strutture, proseguendo nella direzione della riforma e superando il “doppio binario” pena-misura di sicurezza», conclude il parlamentare di +Europa.

Vittorio Feltri, basta menzogne: "L'unica ragione per cui ammazzi i genitori". Benno, la più brutale delle verità. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. Ci sono casi di cronaca nera incomprensibili, che si spiegano soltanto con la follia dei protagonisti. Il giallo di Bolzano, due coniugi uccisi e gettati nell'Adige, è stato risolto: l'assassino, il figlio, ha confessato dopo un paio di mesi dalla tragedia. È stato lui, Benno, per sua ammissione, a compiere il duplice omicidio per una faccenda di soldi. Si vede che il carcere preventivo qualche volta può essere risolutivo. Ora si dice che il giovanotto sarà sottoposto a perizia psichiatrica per verificare se abbia qualche filo staccato nel cervello. Il che mi pare probabile perché solo un matto da legare è in grado di stecchire mamma e papà in modo brutale e per oltre 60 giorni negare di aver commesso simile gesto. Ci domandiamo se in passato egli avesse già dato segno di essere squilibrato. Pensiamo di sì nonostante il suo aspetto non tradisca una fragilità che faccia sospettare una malattia mentale. Ma c'è un fatto strano che segnalo. Il ragazzo insegnava matematica e con gli alunni si comportava bene, dicono, tuttavia la sua mania di frequentare le palestre a scopo culturistico, cioè per dotarsi di una muscolatura esagerata e un corpo scultoreo, come se nella vita non ci fosse qualche attività migliore, ci lascia basiti. Ovvio, ciò non basta per affermare che il giovane fosse balengo, però certe forme di ossessione indicano un disagio. Dalla prigione in cui è custodito giunge la notizia che a confessione avvenuta, l'omicida abbia dimostrato di essere pentito e addolorato. Mah! Sono convinto, personalmente, che in realtà sia depresso a causa della reclusione, non certo perché si è reso volontariamente orfano sopprimendo con violenza i genitori. I detenuti colpevoli, una volta in cella e isolati dal mondo, non sono sereni perché rimpiangono la libertà, non perché la loro coscienza si sia risvegliata e riconosca la gravità del crimine. Immagino che se uno è pazzo lo sia a tempo pieno e se aspetta due mesi per raccontare la verità significa che la sua aspirazione era di farla franca ed essere prosciolto, per tornare in palestra a fare il bullo. Però l'ultima parola spetta agli psichiatri e non a me. Attendiamo il referto. Un altro episodio sconcertante è accaduto a Faenza, dove un uomo balordo ha assoldato un killer per uccidere la moglie da cui si era separato. Tra loro era in atto un contenzioso naturalmente per soldi. Anche qui verrebbe voglia di dire che il committente e l'esecutore dell'ammazzamento sono soggetti da manicomio. Indubbiamente si tratta di due personaggi dal cervello bacato, ma non credo possano invocare la seminfermità mentale. Siamo di fronte a due delinquenti con l'aggravante (non l'attenuante) della imbecillità.

Cristina Bassi per "il Giornale" il 16 giugno 2021. Si condanna «una vera e propria esecuzione, un atto di giustizia sommaria che, con diverso movente, anche solo un regolamento di conti fra pregiudicati, avrebbe condotto l'autore materiale all'ergastolo. E invece, a suo favore si è fatto passare in secondo piano il sentimento di vendetta e prevalere quello di un padre comunque offeso e ferito, valorizzando, ai fini della sanzione inevitabile, il principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui gli stati emotivi e passionali possono essere eventualmente rilevanti ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche (così la Cassazione, ndr)». La Corte d' assise d'appello di Milano motiva la pena di 18 anni di carcere a Emanuele Spavone, 37 anni, per l'omicidio dell'ex suocero Antonio Crisanti, a sua volta denunciato dalla figlia per aver abusato della nipotina. Il movente dei quattro colpi di pistola sparati contro il 63enne a Rozzano il 25 febbraio 2019 sono state infatti le violenze sulla figlia piccola dell'imputato di cui era accusato il nonno. Il presidente della Corte Ivana Caputo e il giudice relatore Franca Anelli spiegano poi che «l'asprezza» della condanna «può essere mitigata» per Spavone e per il complice Achille Mauriello per effetto di un ricalcolo degli effetti della continuazione tra il reato di omicidio e quello di porto abusivo d' arma. In Appello il 28 maggio scorso Spavone è stato condannato a 18 anni di carcere (in primo grado, con il rito abbreviato, a 20) mentre Mauriello a 12 anni (dagli iniziali 18). I giudici hanno comunque confermato, come già successo in primo grado, l'aggravante della premeditazione. «Nessuna occasionalità - scrivono - è ipotizzabile se la vittima è stata appositamente cercata» e i due «hanno transitato più volte» nei luoghi frequentati dall' anziano ucciso. Si legge inoltre che «tutti i presenti si avvidero che non erano incontri casuali bensì perlustrativi al rintraccio di taluno». Spavone poi poco dopo il delitto disse a un conoscente: «L'ho fatto, questa volta l'ho fatto, adesso sono sereno». Secondo la Corte infine, la notizia degli abusi sessuali subiti dalla figlia piccola avrebbe ingenerato «nell' animo dell'imputato» un «sordo rancore, un ferale livore e, soprattutto, irrinunciabili propositi di vendetta nei confronti dell'autore di tali spregevoli azioni». Il 37enne avrebbe così deciso di farsi giustizia da sé e non di scegliere, come ha fatto invece la ex compagna, parte civile nel processo assistita dall' avvocato Lara Benetti, di denunciare gli abusi e l'incesto del nonno (padre della donna) nei confronti della nipotina.

In cella per l'omicidio del marito: "Ho coperto mia figlia, aveva un rapporto con lui". Francesca Bernasconi il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Nel 2010 Montserrat Gimeno venne accusata per l'omicidio del marito e condannata a 20 anni di carcere. La lettera della donna, recapitata al ilGiornale.it, rivela: "Sono innocente, ho coperto mia figlia" . Era l'8 agosto del 2010, una domenica. Due imbianchini, come raccontato anche da Altaveu, vennero chiamati al quinto piano del numero 40 di via Fiter i Rossell, ad Andorra, per dei lavori. Ad un certo punto, la proprietaria dell'appartamento chiese loro di spostare una borsa pesante, ma i due uomini si resero conto di qualcosa di strano: il pacco conteneva un cadavere. La polizia avrebbe scoperto così l'omicidio consumatosi undici anni fa, per cui la moglie della vittima, Montserrat Gimeno, è stata condannata a una pena di 20 anni di carcere. Ma ora, la donna si professa innocente e svela, in una lettera inviata a ilGiornale.it, uno scenario diverso da quello contenuto nelle carte dei processi e delle sentenze.

L'omicidio. José Alfonso Gimenez aveva 41 anni, quando venne ritrovato morto. Aveva deciso di restare per qualche tempo ancora a casa, per aiutare la moglie reduce di un intervento alla spalla, ma era probabilmente convinto a lasciarla. Secondo i racconti fatti all'epoca dai giornali che seguirono il processo, "l'opposizione alla separazione e la vendetta sono stati i due elementi principali" che avrebbero spinto Montserrat Gimeno ad agire. Prima, la donna avrebbe colpito il marito sulla testa, con un manubrio con cui effettuava alcuni esercizi di riabilitazione, e poi gli avrebbe inferto decine di coltellate, alcune delle quali recisero la giugulare, portando alla morte. La sentenza di condanna, riportata da Altaveu, ricorda che il cadavere era stato avvolto "con un totale di sei sacchetti di plastica nera distribuiti tre a tre, tre dalla testa alla vita e tre dai piedi alla vita, uniti al centro e rinforzati ai lati con nastro adesivo". Dopo aver avvolto in questo modo il corpo del marito, si legge nel testo della sentenza, "l'imputato trasferì il pacco su un carrello pieghevole in alluminio a forma di L, a base quadrata e situato nella sala da pranzo" e nascosto in mezzo ad altre borse. Il giorno dopo, la donna chiamò due imbianchini perché effettuassero dei lavori e chiese loro, stando alla sentenza visionata da ilGiornale.it, un aiuto "per trasportare due borse, una grande e una piccola che si trovavano su un carrello, nel bagagliaio del suo veicolo", specificando di fare attenzione al contenuto, presentato come una scultura di cartapesta a forma di persona. A causa del peso della borsa, uno dei lavoratori decise di trascinarla a terra, notando "una macchia di liquido rosso che ha sporcato il pavimento" e poco dopo del liquido dello stesso colore iniziò ad uscire dal sacco. Per questo, sospettando un cadavere, una volta usciti dalla casa, i due imbianchini si recarono in un punto di polizia a sporgere denuncia. Quando le forze dell'ordine entrarono nell'appartamento, trovarono "il corpo senza vita del marito, che mostrava segni di estrema violenza", raccontarono al tempo i Diari d'Andorra. In una delle stanze, inoltre, giaceva anche la donna, 52 anni, che aveva ingerito dei farmaci, forse nel tentativo di suicidarsi. L'uomo era morto, mentre la moglie venne trasportata in ospedale e poi accusata dell'omicidio del marito. La donna venne ritenuta colpevole e condannata a 20 anni di carcere e all'espulsione dal principato di Andorra per i successivi 20 anni. Ma ora, dopo 10 anni passati in galera, Montserrat Gimeno ha raccontato un'altra verità, dichiarando di non aver ucciso il marito e chiedendo che il suo caso venga riaperto. "Nonostante la mia innocenza, ho accettato la sentenza a 20 anni di carcere per un omicidio che non ho commesso, col solo scopo di coprire il crimine di mia figlia", scrive la donna in una lettera arrivata a ilGiornale.it e il cui contenuto è stato confermato anche dal legale che segue la sua causa. Nella missiva inviata dalla donna condannata vengono elencati una serie di motivi per i quali sarebbe stato impossibile per lei uccidere il marito: innanzitutto, spiega, "non potevo usare il braccio sinistro per una recente operazione chirurgica" e, inoltre, "mio marito era molto più forte di me", dato che praticava arti marziali e boxe. Non solo. I giudici non avrebbero preso in considerazione alcuni elementi importanti: per esempio, "nel corso del processo non sono emerse evidenze del fatto che avevo organizzato il crimine", così come sembra non sia stato appurato se i resti biologici presenti sul corpo della vittima e sulla scena del crimine appartenessero alla condannata o meno. Inoltre, "non venne effettuato nessun esame con lo scopo di verificare se mia figlia avesse graffi o colpi compatibili con la lotta che è stata dimostrata aver avuto luogo prima della morte". Infine, "non è stata fatta alcuna indagine con lo scopo di identificare una terza persona presente sulla scena del crimine, nonostante ci fosse un'evidenza".

La richiesta di revisione. Montserrat Gimeno si trova in carcere da 10 anni, pur definendosi innocente: ha dichiarato di aver inizialmente accettato la sentenza di condanna per coprire il crimine che avrebbe commesso sua figlia. Ma "ogni cosa è cambiata radicalmente dopo 10 anni di carcere", rivela la donna, quando ha chiesto l'aiuto di un avvocato "e lui mi ha informato che mia figlia e mio marito avevano una relazione incestuosa senza che io ne fossi a conoscenza". Il legale, sentito da ilGiornale.it, ha confermato di essere stato contattato dalla signora Gimeno: "Dopo aver studiato il suo fascicolo l'abbiamo informata che, con tutta probabilità, sua figlia ha avuto un rapporto sessuale incestuoso con suo padre", ha dichiarato l'avvocato. Ma riguardo all'omicidio, aggiunge, "anche la figlia della signora Gimeno ha il diritto di beneficiare della presunzione di innocenza". A quel punto, la donna ha deciso di chiedere la revisione del processo, in quanto "non sussistono nel procedimento penale elementi atti a dimostrare che la signora Gimeno sia l'autore del reato", spiega l'avvocato, e "ci sono state importanti indagini che non sono state prese in considerazione per chiarire i fatti". Per questo, a gennaio del 2021, la donna ha presentato ricorso in Cassazione, precisando di non essere l'autore dell'omicidio e sostenendo che il caso dovesse essere riaperto, dato che non sarebbe stato rispettato il diritto alla presunzione di innocenza. Successivamente, esaurite le possibilità nei confronti delle autorità giudiziarie di Andorra, a inizio 2021 la Gimeno ha depositato una dichiarazione davanti alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU). Il giudice però ha respinto le richieste della donna: "Non emerge alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione", si legge nel testo della sentenza, che precisa anche la mancanza dei criteri di ammissibilità. Respinta quindi anche la richiesta effettuata alla CEDU, che conserverà il fascicolo solamente per un anno, dopodiché verrà distrutto. Alla luce delle considerazioni raccolte dalla difesa, precisa il legale, "la Gimeno vuole essere nuovamente giudicata e beneficiare di un procedimento paritario". E chiede la riapertura del processo.

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza.

Quella sentenza su Gozzini che sfida la “furia della moltitudine” con la civiltà del diritto. Piero Calabrò, ex magistrato, e Biagio Riccio, Avvocato, su Il Dubbio il 29 gennaio 2021. Contro l’assoluzione, pronunciata dalla Corte d’assise di Brescia, dell’ottantenne che ha ucciso la moglie, si sono levate prevedibili grida di scandalo. Ma la Giustizia deve saper resistere, e affrontare “la notte buia dell’ignoranza” evocata da Manzoni ne “La colonna infame”. Hanno suscitato un acceso dibattito le motivazioni della sentenza (n. 2/2020) depositate in data 21.12.2020 sul caso Gozzini, signore ottantenne che ha ucciso la propria moglie, Cristina Maioli. Il processo si è tenuto alla Corte di Assise di Brescia e l’imputato, nonostante l’efferato crimine dispiegatosi in modo crudele e atroce, è stato assolto, perché l’omicidio, secondo l’organo giudicante, è stato compiuto in totale infermità di mente, derivante da delirio di gelosia. Sia sulla stampa che attraverso i social, il caso giudiziario è stato interpretato in modo strumentale e si è impropriamente ritenuto che fossimo al cospetto di un uxoricidio o di un femminicidio. Il ministro della Giustizia Bonafede, senza neppur leggere le motivazioni del decisione e senza alcuna seria informazione sulle carte processuali, ha minacciato l’invio di ispettori, così supinamente cavalcando l’onda della demagogia volta ad assecondare le grida di quella moltitudine che, invece della verità, vuole un colpevole a tutti i costi, per il solo fatto che l’omicidio ha avuto come vittima una donna. Le motivazioni del verdetto sono, invero, di una chiarezza cristallina e si snodano su un’intelaiatura caratterizzata da un percorso argomentativo privo di faglie, dipanato in una ragionata sistemazione degli elementi che fanno emergere la civiltà giuridica del provvedimento, senza dare eccessivo peso all’aspetto squisitamente psichiatrico del processo. Ecco perché il suo estensore, il presidente Roberto Spanò, ha perseguito, riuscendovi, l’intento di suffragare e motivare -attraverso le confluenti consulenze tecniche del pubblico ministero e della difesa dell’imputato- la deliberazione di assoluzione adottata dalla Corte che, è bene rammentarlo, è composta in prevalenza da giurati laici. Ebbene, proprio il consulente tecnico di parte della pubblica accusa ha messo in evidenza che Antonio Gozzini è stato ossessionato, pervaso dal “lato oscuro” (come lo definisce Andreoli) del delirio di gelosia, che ha generato l’assoluta mancanza della capacità di intendere e di volere, al momento in cui è stato compiuto l’atroce crimine. Siamo alla totale parificazione tra ciò che è stato prefigurato e nutrito idealmente, con quello che realmente è accaduto, con una perfetta corrispondenza tra l’ideale e il reale, senza cesura, senza taglio, con una simmetrica sovrapposizione di piani tra loro identici. Perde ogni valore l’aspetto volitivo, non vi è conflitto tra apparenza e realtà, tra il detto e il non detto, tra il rivelato e il sottaciuto, tra l’esplicito e il rimosso. Si espande sino al totale annichilimento delle facoltà di intendere e di volere il mostro della gelosia, presente nei recessi dell’animo dell’omicida e invece creato dal nulla e, soprattutto, sul nulla. Si attua disperatamente il dramma della follia che porta all’impazzimento di shakespeariana memoria, come è avvenuto con Otello. “Guardatevi dalla gelosia, il mostro dagli occhi verdi che irride il cibo di cui si nutre”. Ma, mentre nel dramma di Otello la pulsione si esprime nel progetto predisposto da Iago a causa della perdita di un fazzoletto che Desdemona giammai avrebbe dovuto smarrire e che, addirittura, si ritrova nelle mani del presunto amante Cassio, nella fattispecie del Gozzini non vi è alcunché, perché la mente è piatta e, nel contempo, vuota e si insidia, penetra in essa il demone della gelosia, per un motivo che non rinviene alcun fondamento. “Non sono mai gelosi per un motivo, ma gelosi perché sono gelosi. È un mostro concepito e generato da se stesso”. Non c’è nemmeno una dinamica patologica nell’omicidio, la finalità si concreta nel fatto stesso dell’organizzazione dell’azione delittuosa, senza un disegno precostituito. La modalità, infatti, si accentua proprio nell’aver soppresso, mentre dormiva, la moglie e, per colorarne il tradimento anche con la sua mortificazione fisica, le azioni più cruente sono state perpetrate attorno all’inguine della vittima. È un omicidio senza alcun movente, senza circostanze e situazioni dalle quali potesse tralucere una preparazione. Ecco perché non si può parlare di uxoricidio, né di femminicidio. Nella sentenza (pag. 21) è ben scritto che il primo “contrassegna la mera uccisione di una donna (moglie: ndr), mentre il secondo, avente contenuto criminologico, si riferisce all’uccisione di una donna in quanto tale, per motivi legati al genere, e ciò, a causa di situazioni di patologie relazionali, dovute a matrici ideologiche, misogine e sessiste, e ad arretratezze culturali di stampo patriarcale”. La sentenza è ben motivata, incentrata su una confessione dell’imputato che ha descritto tutta la dinamica del fatto, con una lucidità impressionante (quando prende i coltelli procurati anzitempo dalla cucina, quando inferisce numerosi colpi con forza inaudita all’inguine, mentre la vittima dorme, il fatto stesso di voler dopo suicidarsi, senza che però ciò sia avvenuto, il dormire tranquillamente e al risveglio chiamare la domestica per raccontare l’efferatezza del proprio gesto). Da essa si può desumere che il tema della gelosia, il suo delirio, ha avuto campo libero per la realizzazione dell’omicidio, e in questo hanno dato man forte la consulenza dell’imputato e perfino quella del pm (pur sminuita dallo stesso pubblico committente). Non è stata reputata indispensabile una consulenza tecnica d’ufficio, giacché il consulente della parte offesa (gli eredi della vittima) si è sottratto al confronto nel momento più importante (l’interrogatorio dell’imputato), senza poterne modificare le argomentazioni, anche perché -forse- ne aveva ben donde. Da qui, per assenza del dolo e della colpa, e, dunque, dell’imputabilità sottesa e necessaria, l’assoluzione del Gozzini, alla luce dell’articolo 85 c.p., a tenor del quale “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se al momento in cui l’ha commesso non era imputabile”. Perciò, in luogo del carcere, l’applicazione della -non certo premiale- misura di sicurezza del ricovero in residenza per l’esecuzione (Rems). Il ministro della Giustizia e gli intempestivi altri “illustri” critici dovrebbero ben sapere che la civiltà del diritto sfida la notte buia dell’ignoranza, la furia della moltitudine (di cui discettava Manzoni ne “La storia della colonna infame”), perché la follia è contro il limite che invoca la giustizia e perché l’insano di mente non ha la consapevolezza della forza della pena che gli viene inferta e che comunque dovrebbe, per la nostra Carta Costituzionale, avere una funzione rieducativa.

Maria Novella De Luca per "la Repubblica" l'11 febbraio 2021. Una bara bianca e un cuscino di roselline rosa. Roberta Siragusa, 17 anni, è stata sepolta così, nel cimitero di Caccamo, in Sicilia. Pietro Morreale, 19 anni, il suo assassino, è in carcere. Nell' ordinanza che ha portato all' arresto di questo giovanissimo e spietato killer, c' è scritto più volte che sarebbe stato mosso "da una fortissima gelosia". E per gelosia dunque Morreale l' avrebbe bruciata viva e buttato il suo corpo in una scarpata quella gelida notte tra il 24 e il 25 gennaio. Parole che pesano. Soprattutto se scritte in un atto giudiziario che costituirà poi l' ossatura di tutta la vicenda processuale di questo femminicidio. Come se la gelosia, parola che in questo inizio del 2021 già insanguinato dall' omicidio di cinque donne da parte dei loro partner o ex, viene citata dietro ognuna di queste vite spezzate, potesse costituire un movente, o addirittura un' attenuante per gli autori di questi delitti. Perché "gelosia" (spesso seguita da aggettivi come incontenibile, morbosa, patologica) è una parola- spia di quanto nelle nostre aule dei tribunali, resistano pregiudizi e stereotipi contro le donne. Uccise non da lucidi killer, ma da maschi "accecati" ora dalla gelosia, ora dalla rabbia, in re-azione a un loro comportamento: una separazione, una nuova relazione. «La nostra cultura è intrisa di sessismo e anche una parte della giustizia, di conseguenza, lo è», denuncia Paola Di Nicola, magistrata, che a questo disvelamento ha dedicato un libro fondamentale, "La mia parola contro la sua". «IL pregiudizio contro le donne porta spesso i giudici ad attenuare le condanne perché la violenza viene letta non come pura sopraffazione, ma come reazione a un comportamento della vittima.

Il famoso "raptus" ad esempio. O l' impulso sessuale. Uno studio del Ministero della Giustizia rileva che nel 70% delle sentenze dei femminicidi vengono concesse le attenuanti, è davvero un dato che fa riflettere ». Infatti. Nella lotta che sembra a volte perduta contro la violenza maschile, analizzare cosa accade nei tribunali è diventato, oggi, un punto centrale. Può aiutarci a capire la resistenza delle donne italiane nel denunciare. Secondo il report della Polizia di Stato "Questo non è amore" del 2019 nel nostro paese ogni giorno 88 donne sono vittime di violenza. Ma di questa persecuzione soltanto poco più del 10% dei casi si trasforma in una denuncia». La commissione d' inchiesta sul femminicidio del Senato sta ultimando un' indagine su oltre 200 sentenze per comprendere le cause dei femminicidi. E sono recentissimi i dati di una ricerca dell' università della Tuscia, in collaborazione con "Differenza Donna" che ha dimostrato come nella rappresentazione giuridica della violenza di genere ci siano tre "pregiudizi" ricorrenti: la lite familiare, la gelosia e il raptus. Per spiegare in che cosa consista il sessismo giudiziario, Paola Di Nicola fa l' esempio di alcune sentenze. La prima riguarda un femminicidio avvenuto a Genova nel 2018, in una coppia dell' Ecuador. La difesa afferma che l' uomo non avrebbe "agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso, ma come reazione al comportamento della donna, che l' ha illuso e disilluso nello stesso tempo, con la promessa di un futuro insieme. Tale contesto, giustifica, la concessione delle attenuanti generiche". Dunque, in sostanza, sottolinea Paola Di Nicola, "questo femminicidio è stato in un certo senso provocato dalla vittima stessa". E' incredibile ma è così. Un secondo caso riguarda il processo a due stupratori di Viterbo, esponenti del gruppo neofascista di Casapound, Francesco Chricozzi e Riccardo Licci, che nel 2019 picchiarono e violentarono per ore una ragazza conosciuta in un pub. Nella sentenza vennero applicate le attenuanti generiche. Semplicemente perché i due ventenni «avevano riaccompagnato a casa la ragazza» e per i giudici questa sarebbe stata «conferma della loro inconsapevolezza del rilievo penale della loro condotta... non determinata da dispregio della persona, ma da impulsi esclusivamente sessuali". «Qui, addirittura - dice Di Nicola - ci troviamo di fronte a due aggressori inconsapevoli di compiere uno stupro». La terza sentenza riguarda un caso di maltrattamenti. Nonostante 9 referti di pronto soccorso il tribunale di Torino, nel 2017, assolve un uomo che picchiava e terrorizzava la moglie, affermando che in più occasioni questa si era difesa, quindi, evidentemente "non era in stato di prostrazione fisica e morale". Conclude Paola Di Nicola: «La violenza sulle donne bisogna saperla leggere. È fondamentale che tutti coloro che operano in questo settore siano formati, altrimenti nei tribunali continuerà ad agire lo stereotipo culturale per cui quello stupro, quelle botte sono la reazione a un comportamento della vittima. Gli aggressori vengono condannati, certo, ma ridimensionando la violenza e quindi la pena. O addirittura, in certi casi assolti. Ma c' è anche una parte importante della magistratura impegnata ogni giorno a disvelare nelle aule questi limiti per superarli".

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 14 febbraio 2021. Li continuano a chiamare delitti passionali, e il movente sarebbe l'amore. Molti femminicidi che hanno riempito le cronache di questi ultimi anni sono stati definiti dai media "omicidi eseguiti per gelosia", come se questo sentimento, citato accanto ad ognuna delle vite spezzate, implicasse un connubio scontato e indissolubile con azioni liberticide violente e definitive. La gelosia invece, pur essendo una delle forme più diffuse e sottovalutate di violenza, sebbene con varie gradazioni, è un sentimento naturale e istintivo che non include affatto una implicita valenza criminale e non "acceca" gli assassini, poiché coloro che uccidono la propria moglie, compagna o fidanzata sono dei lucidi killer permeati da uno "spirito punitivo" e di sopraffazione, che nulla ha che vedere con la gelosia, in quanto produttivo di aberranti reazioni emotive e comportamentali verso le vittime percepite come "insubordinate" che affonda le radici in un sentimento deviato di appartenenza. La gelosia non è mai "sana" come spesso si dice, bensì sempre patologica, poiché deprime e inquina la qualità di vita mentale e personale del soggetto che la prova, che soffre, si tormenta e non ragiona, e lede la libertà fisica e psicologica di chi la subisce, che la vive come una forma di violenza morale, ma non è mai un sentimento criminale che spinge all' omicidio per risolvere l' ansia da separazione. L'amore che viene difeso con la gelosia infatti, si vuole salvarlo, preservarlo, magari recuperarlo, ma non ucciderlo. Nella nostra società purtroppo vengono ancora diffusi messaggi positivi rispetto a questo sentimento, tipo "se non sei geloso non è vero amore", "un po' di sana gelosia è necessaria", "se non provi gelosia non tieni alla persona amata" ecc, tutte frasi di Neocinismo che sono indicative di una mentalità arretrata e sessista, incapace di trovare una visione coerente della vita. Si può discutere sul grado di gravità della gelosia, un comportamento mai equilibrato, ma questa reazione non è una prova d' amore, perché l' amore, quello vero, non può prescindere dal lasciare all' altro la libertà, libertà che include anche quella di non volersi più bene. Difficile da accettare certo, ma la limitazione della libertà altrui è una tipica espressione della violenza psicologica, ma non di una violenza criminale. Chiunque desideri che il partner sia un po' geloso ha in realtà una visione dell' amore con catene che è tipica delle persone deboli, fragili ed insicure, prive di un solido carattere e timorose dell' abbandono. Recenti studi hanno dimostrato che c' è un rapporto tra il tipo di attaccamento sviluppato con i genitori durante l' infanzia e la gelosia provata da adulti, nel senso che chi ha avuto genitori poco presenti, poco accudenti, inaffidabili e anaffettivi, una volta adulto è più propenso alla gelosia, e inadatto a vivere relazioni stabili basate sulla fiducia, a causa della propria insicurezza e della paura della privazione affettiva. Ciò che fa scattare la gelosia infatti, è il timore di essere traditi, di perdere la persona amata, di essere abbandonati, ed essa viene vissuta come una ferita ai propri sentimenti, un attacco al proprio orgoglio e una lacerazione dell' anima, nella sua parte più fragile ed indifesa. Inoltre la gelosia porta con sé un ventaglio di emozioni diverse e contraddittorie, come odio e amore, tristezza e gioia, dolore, rabbia, speranza e rassegnazione, paura e coraggio, vergogna e risentimento. La gelosia è patologica in quanto in grado di modificare i pensieri, sentimenti e comportamenti anche quando mancano prove oggettive che dimostrino l' infedeltà, diventando un pensiero fisso che domina le giornate, il quale induce a mettere in atto azioni che inquinano la relazione affettiva tra i partner, quali scoppi d' ira, minacce o violenze verbali o fisiche. Quando questo sentimento naturale, finalizzato a proteggere la propria relazione, diventa invece ossessivo e morboso, può diventare incontrollabile, assumendo le caratteristiche dell' ossessione, e la mente del geloso patologico viene invasa da contenuti mentali come, pensieri, immagini e ricordi di tipo intrusivo e ruminante; e da uno stato di perenne e gravosa preoccupazione si generano interminabili scene di strazio, richieste di spiegazioni, fino a tutta una serie di azioni per spiare il partner, dal cellulare al pedinamento online e sui social network. Nella gelosia ossessiva inoltre, tutte le rassicurazioni del partner, per quanto esaustive e convincenti, risultano inefficaci, e destinate a crollare al manifestarsi di un nuovo ed eventuale dubbio. Essendo strettamente legata all' ansia, a una bassa autostima e al timore di essere lasciati soli, la gelosia si trova in tutti i disturbi d' ansia, in quelli depressivi e di personalità, e tali pazienti spesso iniziano ad avere attacchi di panico, che sono la forma più estrema dell' inconscio per scaricare le molte tensioni ed emozioni negative accumulate e non liberate. La gelosia accompagna l' essere umano fin dalla prima infanzia, e viene alimentata via via da situazioni diverse durante la crescita, verso le figure genitoriali per esempio, verso fratelli o sorelle, e si evidenzia in particolari contesti sociali quali l' ambiente scolastico o di lavoro (gelosia da competizione) fino ad arrivare a quella provocata da eventi che minacciano la propria vita affettiva. Spesso tale sentimento è associato all' invidia, con la differenza che nella gelosia l' oggetto del contendere è qualcosa che si possiede e si ritiene proprio, cosa che stimola l' istinto alla possessività, mentre nell' invidia quell' oggetto è qualcosa che qualcun' altra possiede, ma al quale si aspira fortemente, sia esso una posizione sociale, una qualità o una persona specifica. Uomini e donne provano differenti tipi di gelosia, in quanto i primi temono di più il tradimento sessuale, mentre le seconde quello sentimentale, ma in ogni caso anche se tale sentimento rende "incapaci di intendere e di volere" il suo senso di possesso non può in alcun modo giustificare la violenza contro il partner o addirittura la sua uccisione. Queste sono giustificazioni frutto di una cultura patriarcale di cui il "delitto d' onore" è stato per anni il simbolo, e dal quale da anni l' Italia ha preso le distanze, anche giuridiche, e dal quale si è emancipata. Eppure quanto più la donna si afferma come uguale in dignità, libertà, valori e diritti all' uomo, tanto più alcuni uomini reagiscono in modo violento, minacciandola, picchiandola e talvolta uccidendola. Per fortuna questo accade sempre meno frequentemente in tutti coloro che sono insicuri, che non hanno fiducia in se stessi, e che invece di capire cosa non va nella propria vita e nella propria mente, pensano di salvaguardare la propria illusoria virilità negando all' altro la possibilità di esistere senza di loro. Ma per favore non parliamo più di delitti d' amore, di amore criminale o di gelosia, perché la causa di un omicidio "passionale" non consiste tanto nell' intensità di un sentimento o di una emozione, quanto piuttosto in un fattore patologico che ha compromesso la consapevolezza e la pericolosità dell' omicida, anche perché è lui e lui solo ad essere affetto da una sindrome psichiatrica ansiosa talmente grave da alimentare desideri egoistici, perlopiù deliranti ed appunto omicidi.

·        Gli scherzi della memoria.

Dagotraduzione dal Scientific American il 13 giugno 2021. Si dice che «gli occhi sono lo specchio dell'anima», ma una nuova ricerca suggerisce che potrebbero essere anche una finestra sul cervello. I nostri occhi rispondono a qualcosa di più della semplice luce. Indicano eccitazione, interesse o esaurimento mentale. La dilatazione della pupilla viene persino utilizzata dall'FBI per rilevare l'inganno. Il lavoro condotto nel nostro laboratorio presso il Georgia Institute of Technology suggerisce che la dimensione della pupilla di base è strettamente correlata alle differenze individuali nell'intelligenza. Più grandi sono le pupille, maggiore è l'intelligenza, misurata con prove di ragionamento, attenzione e memoria. In tre studi diversi abbiamo scoperto che la differenza nella dimensione della pupilla di base tra le persone che hanno ottenuto il punteggio più alto nei test cognitivi e coloro che hanno ottenuto il punteggio più basso era abbastanza grande da essere rilevata a occhio nudo. Abbiamo scoperto per la prima volta questa sorprendente relazione studiando le differenze nella quantità di sforzo mentale che le persone usavano per completare gli esercizi di memoria. Abbiamo usato le dilatazioni della pupilla come indicatore dello sforzo, una tecnica che lo psicologo Daniel Kahneman ha reso popolare negli anni '60 e '70. Quando abbiamo scoperto che c’era una relazione tra la dimensione della pupilla di base e l'intelligenza, non eravamo sicuri che fosse reale e neanche che cosa significasse. Incuriositi, abbiamo condotto diversi studi su larga scala in cui abbiamo reclutato più di 500 persone di età compresa tra 18 e 35 anni della comunità di Atlanta. Abbiamo misurato le dimensioni della pupilla dei partecipanti utilizzando un eye tracker, un dispositivo che cattura il riflesso della luce sulla pupilla e sulla cornea utilizzando una fotocamera e un computer ad alta potenza. Abbiamo misurato le pupille dei partecipanti a riposo mentre fissavano lo schermo di un computer vuoto per quattro minuti. Per tutto il tempo, l'eye tracker stava registrando. Utilizzando il tracker, abbiamo quindi calcolato la dimensione media della pupilla di ciascun partecipante. Per essere chiari, la dimensione della pupilla si riferisce al diametro dell'apertura circolare nera al centro dell'occhio. Può variare da circa due a otto millimetri. La pupilla è circondata dall'area colorata nota come iride, che è responsabile del controllo delle dimensioni della pupilla. Le pupille si restringono in risposta alla luce intensa, tra le altre cose, quindi abbiamo mantenuto il laboratorio buio per tutti i partecipanti. Nella parte successiva dell'esperimento, i partecipanti hanno completato una serie di test cognitivi progettati per misurare "l'intelligenza fluida", la capacità di ragionare attraverso nuovi problemi, la "capacità della memoria di lavoro", la capacità di ricordare le informazioni per un periodo di tempo e il "controllo dell'attenzione”, la capacità di focalizzare l'attenzione in mezzo a distrazioni e interferenze. Durante uno dei test di controllo dell'attenzione i partecipanti dovevano individuare sul lato dello schermo di un computer una serie di lettere che apparivano velocemente senza lasciarsi distrarre dall’asterisco tremante presente nell’altra parte dello schermo. Abbiamo scoperto che una maggiore dimensione della pupilla di base era correlata con una maggiore intelligenza fluida, con il controllo dell'attenzione e, in misura minore, con la capacità di memoria di lavoro, indicando un'affascinante relazione tra il cervello e l'occhio. È interessante notare che la dimensione della pupilla era correlata negativamente con l'età: i partecipanti più anziani tendevano ad avere pupille più piccole e più ristrette. Una volta standardizzata per età, tuttavia, la relazione tra dimensione della pupilla e capacità cognitiva è rimasta. Ma perché la dimensione della pupilla è correlata all'intelligenza? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo capire cosa succede nel cervello. La dimensione della pupilla è correlata all'attività nel locus coeruleus, un nucleo situato nella parte superiore del tronco cerebrale con connessioni neurali di vasta portata al resto del cervello. Il locus coeruleus rilascia noradrenalina, che funziona sia come neurotrasmettitore che come ormone nel cervello e nel corpo, e regola processi come la percezione, l'attenzione, l'apprendimento e la memoria. Aiuta anche a mantenere una sana organizzazione dell'attività cerebrale in modo che regioni cerebrali distanti possano lavorare insieme per svolgere compiti e obiettivi impegnativi. La disfunzione del locus coeruleus, e la conseguente rottura dell'attività cerebrale organizzata, è stata correlata con diverse patologie, tra cui il morbo di Alzheimer e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. In effetti, questa organizzazione dell'attività è così importante che il cervello dedica la maggior parte della sua energia per mantenerla. Un'ipotesi è che le persone che hanno pupille più grandi a riposo abbiano una maggiore regolazione dell'attività da parte del locus coeruleus, che avvantaggia le prestazioni cognitive e la funzione cerebrale a riposo. Sono necessarie ulteriori ricerche per esplorare questa possibilità e determinare perché le pupille più grandi sono associate a una maggiore intelligenza fluida e al controllo dell'attenzione.

Robert Nash per it.businessinsider.com il 12 giugno 2021. La vostra memoria non è così buona come probabilmente pensate. Ci affidiamo ai nostri ricordi non solo per condividere avvenimenti con gli amici o imparare dalle nostre esperienze passate; li usiamo anche per cose importanti come la creazione di un’identità individuale. Eppure, l’evidenza mostra che la nostra memoria non è così coerente come ci piacerebbe pensare. C’è di peggio: cambiamo spesso i fatti aggiungendo falsi particolari, senza accorgercene minimamente. Per capire un po’ come funzionano i ricordi, proviamo a pensare al gioco del passa parola. In questo gioco, una persona sussurra un messaggio all’orecchio della persona accanto, che a sua volta lo trasmette alla successiva, e così via. Ogni volta che il messaggio passa da una persona all’altra alcune parti possono essere confuse o non capite, altre invece alterate in modo innocente, migliorate, o dimenticate. Passaggio dopo passaggio il messaggio può diventare molto diverso dall’originale. Lo stesso può accadere ai nostri ricordi. Ci sono infinite ragioni per le quali ogni volta che richiamiamo gli eventi passati compaiono errori o abbellimenti: da cosa crediamo sia vero a ciò che vorremmo lo fosse; per qualcosa che qualcun altro ci ha detto sull’evento in questione, o per ciò che vorremmo quella persona pensasse. Ogni volta che si manifesta una lacuna, ciò può avere effetti a lungo termine su come in seguito saremo in grado di richiamare quel ricordo. Prendete ad esempio il raccontare. Quando descriviamo i nostri ricordi ad altre persone, usiamo modi diversi di raccontare secondo chi sta ascoltando. Potremmo esserci chiesti se fosse importante attenerci ai fatti, piuttosto che far ridere il nostro interlocutore. Secondo il carattere dell’ascoltatore o la sua opinione politica potremmo voler cambiare alcuni particolari della storia. Alcuni studi mostrano che quando raccontiamo i nostri ricordi a uditori differenti non è solo il messaggio a cambiare, ma a volte anche il ricordo stesso. Questa cosa è conosciuta come “effetto sintonia con l’ascoltatore”. In uno studio sull’effetto sintonia con l’ascoltatore, ai soggetti è stato mostrato un video di una rissa in un bar. Nel video, due uomini ubriachi vengono alle mani dopo che uno dei due ha litigato con un amico, e l’altro ha visto la sua squadra di calcio preferita perdere una partita. I partecipanti allo studio sono poi stati invitati a raccontare a un estraneo ciò che avevano visto. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi. A un gruppo è stato detto che all’estraneo in questione non piaceva uno dei due contendenti nel video. All’altro gruppo che lo stesso personaggio gli era invece gradito. In modo prevedibile, questa informazione aggiuntiva ha plasmato il modo in cui le persone avrebbero descritto il video all’estraneo. Convinti che fosse sgradito all’estraneo, i soggetti descrivevano negativamente il comportamento di quel determinato contendente. E, ancora più importante, il modo in cui le persone hanno in seguito raccontato la loro storia ha finito per influenzare il ricordo del comportamento di quel contendente. Quando più tardi i partecipanti hanno tentato di ricordare quella rissa in modo neutrale e imparziale, i due gruppi hanno comunque fornito resoconti in qualche modo divergenti su ciò che era accaduto, riflettendo l’atteggiamento del pubblico presente la prima volta. In una certa misura, le storie raccontate dai partecipanti avevano finito per diventare i loro stessi ricordi. Risultati come questi mostrano come i nostri ricordi possono cambiare spontaneamente nel tempo, per effetto del come, quando e perché vi abbiamo avuto accesso. A volte, il semplice atto di riorganizzare un ricordo può essere esattamente ciò che lo renderà suscettibile di un’alterazione. Questo fenomeno è noto come “retrieval-enhanced suggestibility” (suggestionabilità aumentata dal richiamo). In un classico studio su questo effetto, ai partecipanti è stato fatto vedere un breve film, per poi fare un test di memoria qualche giorno più tardi. Nei giorni tra l’aver visto il film e fare il test di memoria sono però successe altre due cose. A una metà dei partecipanti è stato somministrato un test di memoria per allenarsi, mentre a tutti è stato fatto leggere un riassunto del film contenente falsi particolari della storia. L’obiettivo di questo studio era capire quanti falsi dettagli sarebbero passati nel test di memoria definitivo. Centinaia di ricerche già dimostrano che le persone aggiungono involontariamente falsi dettagli di questo tipo ai loro ricordi. Questi stessi studi dimostrano però anche qualcosa di ancora più affascinante. Sono stati i partecipanti che avevano fatto il test di allenamento appena prima di leggere le false informazioni a mostrare le maggiori probabilità di riprodurle nel test finale. In questo caso, la pratica rende imperfetti. Perché mai? Secondo una teoria, riorganizzare un ricordo di eventi passati può rendere malleabile il ricordo stesso per un certo tempo. In altre parole, richiamare qualcosa alla memoria è come tirare fuori dal congelatore un gelato e lasciarlo al sole per un po’. Nel tempo che il nostro ricordo impiega a tornare nel freezer si può facilmente avere una deformazione, specialmente se nel frattempo qualcuno s’intromette. Questi risultati ci insegnano molto sul modo in cui i nostri ricordi si formano e si conservano. Potrebbero anche portarci a chiederci quanto dei nostri ricordi più cari sia cambiato dalla prima volta che li abbiamo ricordati. O forse no. Dopo tutto, la ricerca fatta da me e altri colleghi mostra che generalmente le persone sono abbastanza riluttanti a controllare la precisione dei propri ricordi. Che vi accorgiate o no dei cambiamenti grandi o piccoli già avvenuti, è poco probabile che i vostri ricordi più cari siano precisi al 100%. Dopotutto, ricordare è un po’ come raccontare. I nostri ricordi sono affidabili quanto la storia più recente che abbiamo raccontato a noi stessi.

Denise, i Diavoli e Aldo Moro: quando il falso ricordo sembra vero. Angela Leucci il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Nei casi di cronaca il "falso ricordo" gioca un ruolo importante: "È una rievocazione distorta di un ricordo preesistente o addirittura di un evento mai accaduto realmente". Talvolta nella narrazione di un caso di cronaca nera può capitare di incontrare l’espressione “falso ricordo”. Se n'è parlato durante le nuove indagini relative al rapimento di Denise Pipitone, oppure in relazione ai “diavoli della Bassa Modenese” ed è spuntato decenni dopo il rapimento e l'omicidio dello statista Aldo Moro. “Ciò che ricordiamo - spiega a IlGiornale.it la psicoterapeuta Marianna Tarantino - può essere accurato ma non necessariamente esatto. Può essere verosimile ma completamente falso: si parla di falsi ricordi. Sono una rievocazione distorta di un ricordo preesistente o addirittura di un evento mai accaduto realmente. Il falso ricordo è vivido e autentico similmente ai normali ricordi e sarà vissuto dal soggetto come veritiero”. Il falso ricordo quindi esiste: la nostra memoria è imperfetta anche per colpa dell’emotività. “Spesso - prosegue Tarantino - con i falsi ricordi accade che esperienze che diamo per vissute non sono mai avvenute o si sono consumate in modo diverso. Una ragione del fenomeno è la codifica disturbata. Se durante un'esperienza siamo distratti o la prospettiva non era chiara sarà più facile che anche nella rievocazione vi siano degli errori". Un altro ruolo lo giocano alcuni eventi che possono interferire: un trauma, un incidente, un forte stato d'ansia possono alterare e oscurare elementi della scena. Inoltre non è detto che un ricordo possa essere recuperato in un tempo limitato. "Esistono poi alcuni effetti psicologici più subdoli - ci spiega ancora l'esperta - Uno è l'effetto dell'informazione fuorviante. In un famoso esperimento della psicologa statunitense Elizabeth Loftus, venne chiesta a un gruppo di studenti la velocità di due auto che si scontrano e a un altro gruppo la velocità quando si urtano. Gli studenti del primo gruppo dissero che le auto procedevano a una velocità maggiore rispetto a quelli del secondo gruppo. La psicologa chiese anche se avessero visto vetri rotti e i volontari li ricordarono, anche se non ce n'erano stati”.

Denise e lo strano caso dei turisti romani. Negli scorsi mesi una coppia di turisti romani ha affermato di aver avvistato una bambina, che a loro avviso avrebbe potuto essere Denise Pipitone, dietro una tenda all’interno dell’hotel Ruggero II di Mazara del Vallo. L’albergo era lo stesso nel quale, alla scomparsa avvenuta il 1 settembre 2004, lavorava Anna Corona, ex moglie di Pietro Pulizzi (il padre naturale di Denise) e attualmente pare sotto indagine a Marsala. Tuttavia i due turisti si sbagliavano: a quella data erano già rientrati a Roma. Il loro legale ha fatto sapere che la coppia aveva generato un falso ricordo, forse sotto la spinta della nuova pressione mediatica del caso. “Il falso ricordo può essere influenzato da più variabili - chiarisce la psicoterapeuta, che non è in nessun modo legata professionalmente a questi casi - e nel caso della testimonianza su Denise è possibile che la pressione mediatica, e quindi stati d’ansia, abbia distorto il ricordo della turista. Naturalmente starà agli inquirenti e ai criminologi stabilire cosa sia accaduto realmente, noi possiamo solo cimentarci in ipotesi”.

Quei "Diavoli" della Bassa Modenese mai esistiti. Negli anni ’90 un grosso caso di presunti abusi su minori e satanismo sconvolse la Bassa Modenese: diversi genitori furono accusati di vari reati e i loro figli furono affidati dapprima ai servizi sociali, poi ad altre famiglie. Il caso, finito al centro del documentario Veleno, ha sollevato diverse perplessità e nel tempo ci sono stati processi, morti, suicidi e in alcuni casi ricongiungimenti. Il cosiddetto bambino zero però, colui dal quale partirono le accuse, una volta adulto ha affermato di essersi inventato tutto. Altri ex bambini continuano invece a sostenere le accuse. “Anche in questo caso possiamo procedere solo per ipotesi - sostiene la dottoressa - Un parametro centrale per stabilire se una memoria infantile è falsa o vera è lo sviluppo del cervello: fino a 4-5 anni non è possibile formare ricordi stabili. Il ricordo che risale all’infanzia risulta poco affidabile, dal momento che da adulti le memorie infantili vengono spesso ‘corrette’ e arricchite da particolari legati alle aspettative e alle fantasie dell’individuo. Avere un ricordo articolato sotto l’età di 3 anni è un falso ricordo quasi per definizione a dire di molti esperti". A meno di casi limite o interferenze esterne, quindi, i ricordi attendibili sono quelli dei bimbi più grandi: "Dai 4 anni di età si può avere un ricordo libero (non sollecitato da domande) molto accurato con elementi corretti. I bambini ricordano meglio aspetti più salienti. E quando ripetono il loro resoconto non aggiungono elementi di fantasia o invenzioni, a meno che non considerino la situazione un gioco fantastico". L'importante è non sottoporre i bimbi a colloqui contententi nuove informazioni o il ricordo ne potrebbe essere inquinato. Il tema dell’innesto del falso ricordo è particolarmente interessante se pensiamo ai movimenti religiosi criminali come pure ad alcuni regimi dittatoriali che hanno cercato di istillare falsi ricordi su un’intera popolazione, per esempio il regime stalinista. “Esiste - prosegue la psicoterapeuta Tarantino - la procedura dell'innesto di falsi ricordi: ad esempio se ci convincono che da bambini ci ammalammo per aver mangiato un uovo sodo, tenderemo a evitare i sandwich che lo contengono, anche se quel fatto non è mai avvenuto. Questo fenomeno può accadere maggiormente ai bambini e agli anziani perché hanno una memoria ancora in fase di sviluppo, o soggetta a cambiamenti ma anche le persone con una vivida immaginazione, quelle che perdono facilmente la cognizione del tempo o hanno pensieri ricorrenti, o chi preferisce assecondare coloro che li stanno interrogando”.

Aldo Moro e l’esercito mai visto. In un saggio del marzo 2021 si ricorda la seduta spiritica di Zappolino, in cui alcuni professori universitari chiesero agli spiriti dove fosse nascosto Aldo Moro, rapito dalle Brigate Rosse, e emerse il nome di Gradoli, paesino vicino a Viterbo, ma anche via in cui era uno dei covi delle Br. La perquisizione della zona fu resa nota tempo dopo e solo su alcuni giornali, ma esistono persone convinte di aver visto nei telegiornali l’esercito irrompere nella cittadina. Come accadde in realtà solo nel film “Il caso Moro”. Così come molti italiani credono di aver visto Luigi Tenco esibirsi il 26 gennaio 1967 al Festival di Sanremo, prima di suicidarsi. Ma la diretta di Rai 2 era terminata, il Festival fu trasmesso solo in radio. Si trattò di una “nevrosi collettiva”, una sorta di trauma causato dal cordoglio per la morte dell’artista. “Diversi studiosi hanno dimostrato che è possibile manipolare la memoria e creare ricordi di fatti mai accaduti nella mente delle persone - spiega ancora Tarantino - Si chiama effetto ‘nocebo’. È una reazione negativa generata da qualcosa di nocivo che però esiste soltanto nell’immaginazione". E poi ci sono i traumi: "Sembra che le emozioni negative date da un certo evento addirittura ‘proteggano’ dalle distorsioni. Molto interessante è la teoria proposta da Poster nel 2008, chiamata ‘Paradoxical Negative Emotion Hypothesis’, comunemente nota come Pne: le emozioni negative facilitano la memoria in generale, ma allo stesso tempo la rendono più fragile e soggetta a distorsioni. Le informazioni negative saranno quindi ben ricordate ma facilmente influenzabili". Perché succede? Come chiosa la dottoressa, questo avviene in una prospettiva evoluzionistica, che spiega anche il motivo della maggior suscettibilità dei falsi ricordi: gli eventi a valenza emotiva negativa vengono integrati maggiormente con una maggior quantità di informazioni provenienti da varie fonti ritenute affidabili, al fine di prevenire ulteriori pericoli.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

·        Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

La presunzione di innocenza appena nata e già violata. I finanzieri di Palermo primi trasgressori della legge sulla presunzione di innocenza. La norma è durata giusto il tempo di un amen. Ora chi li punirà? Davide Varì su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Una settimana o poco più, tanto ha resistito la norma sulla presunzione di innocenza approvata dal nostro parlamento con tanta fatica e grazie a una generosa spintarella dell’Europa. E in effetti noi del Dubbio stavamo facendo il conto alla rovescia: “Quanto tempo smetteranno a violarla? ci chiedevamo. E chi sarà il primo a sgarrare? Sui tempi dei trasgressori abbiamo detto, per quel che riguarda la paternità, il premio va alla Guardia di finanza del comando provinciale di Palermo che ieri, con tanto di comunicato stampa ufficiale, ha fatto sapere di aver portato in porto l’operazione denominata “Relax”. Intendiamoci, l’inchiesta è assai seria e riguarda presunti (permetteteci il dubitativo almeno fino al giudizio finale) “maltrattamenti e torture ai danni di pazienti psichiatrici ricoverati presso l’Asp di Palermo”. Ma tanto è più seria l’inchiesta quanto più è insopportabile la violazione della norma sulla presunzione di innocenza da parte delle autorità. Eppure la legge è chiarissima. All’articolo 4 è specificato che “sia il solo Procuratore della Repubblica ad intrattenere rapporti con la stampa, preferibilmente tramite comunicati ufficiali”. E ancora più chiaro il divieto di dare nome alle inchieste. Insomma ricordate “Angeli e demoni”. “Mafia Capitale”, “Fust” e tutte le altre operazioni battezzate dagli inquirenti per avere un impatto mediatico e orientare fin da subito la pubblica opinione e , perché no,  per provare a condizionare i giudici? Ecco, quella roba lì non dovrebbe più esistere. E invece, come temevamo, la norma è durata giusto il tempo di un amen. Ma ora la domanda è che: chi punirà i trasgressori?

La presunzione d’innocenza? È già messa a dura prova. Tre operazioni sembrano non rispettare del tutto i criteri imposti dalla legge “chiesta” dall’Europa che garantisce gli indagati. Valentina Stella su Il Dubbio il 18 dicembre 2021. Sono passati quattro giorni dall’entrata in vigore della nuova norma che ha recepito la direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Ancora presto per dire se ci sia un vero e proprio cambiamento della comunicazione, anche perché il monitoraggio nazionale delle attività delle polizie giudiziarie e delle varie procure è complesso da effettuare. Per questo l’onorevole Enrico Costa di Azione aveva fatto un appello a tutti gli avvocati sul territorio per ricevere segnalazioni di eventuali violazioni e il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, aveva promesso il sostegno dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria. Però qualcosa possiamo dirla già da oggi. Quello che emerge è che la norma fornisce principi a cui ispirarsi ma lascia ampio spazio di interpretazione per la sua applicazione e non consente, tra l’altro, un controllo diretto sul rispetto degli articoli in essa contenuta. Come ci spiega il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, «ci muoviamo in una zona grigia. Capire in che termini si superi la previsione normativa è complicato da dire. E poi nelle prime fasi dall’entrata in vigore è difficile ricondurre immediatamente comportamenti stratificati nel tempo in ambiti comunicativi più restrittivi»; quindi dovremmo attendere per fare una valutazione più a lungo raggio. Ma vediamo perché è complesso al momento districarsi nell’applicazione concreta della norma. Ci siamo iscritti al portale della Sala Stampa della Guardia di Finanza, molto funzionale a dire la verità. Dal 14 dicembre, data dell’entrata in vigore della norma, fino a ieri pomeriggio sono stati pubblicati e diffusi 28 comunicati stampa. Ricordiamo che la norma prescrive che 1: «La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico». 2: «Il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano». Il sequestro di luminarie natalizie non a norma o quello di 400 calzature riproducenti la foggia di famosi marchi, quali “Converse” modello “All Star” e “Superga” a quale dei due canoni risponde: prosecuzione di indagine o interesse pubblico? Tanto è vero che il professor Spangher ci dice: «immagino l’interesse pubblico come qualcosa di più alto, più pregnante». Inoltre per tutti i 28 comunicati non c’è scritto se sono stati autorizzati dal procuratore, bisogna darlo per scontato. Anzi, parlando con un tenente colonnello della Gdf ci è stato spiegato che un comunicato di due giorni fa era della Procura e loro hanno chiesto di caricarlo sul loro portale: ma di tutta questa trafila non c’è traccia. In più non c’è l’atto motivato che li giustifichi – la norma non prevede che venga inserito da qualche parte – e quindi non possiamo desumere le ragioni dell’interesse pubblico. La norma prevede anche che «nei comunicati e nelle conferenze stampa è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Ieri tre sono le operazioni a cui è stato dato un nome: «All black», «Cavallo di Troia» e «Relax»: la prima si riferisce all’individuazione di 22 lavoratori in nero in un centro termale, la seconda ad arresti e sequestri alla ‘ndrangheta, la terza a presunti maltrattramenti e torture nei confronti di pazienti psichiatrici. Sono queste denominazioni lesive della presunzione di innocenza? Apparentemente no, in quanto non sembrerebbero essere in diretta correlazione con degli indagati, di cui non sono presenti i nomi. A meno che la gente del posto non riesca a risalire alle persone coinvolte. Rispetto al linguaggio sottoponiamo alla vostra attenzione questa espressione, tratta dal comunicato sull’operazione «Cavallo di Troia»: «sulla base del quadro accusatorio delineatosi nel corso delle investigazioni, allo stato in fase di indagini preliminari e fatte salve le successive valutazioni di merito, gli indagati risulterebbero aver gestito…». Questo passaggio sembra chiaramente rispettare la previsione normativa per cui «Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata». Tuttavia nello stesso comunicato leggiamo che 8 persone sono «tutte ritenute responsabili, a vario titolo, di reati fiscali, fallimentari – aggravati dall’agevolazione mafiosa – e, per 2 di loro, anche di concorso nell’associazione mafiosa denominata “ndrangheta”». In questo caso, evidenzia Spangher, «siamo in presenza di una pre-imputazione che potrebbe configurarsi oltre il limite della comunicazione consentita». Inoltre nel comunicato sull’operazione «Relax», prosegue Spangher, – «la Guardia di Finanza ha comunicato l’esecuzione di un’ordinanza applicativa di misure cautelari emessa dal gip. Perché lo ha fatto? In questo caso l’attività è esclusivamente in mano al pm e al giudice». Infatti, ad esempio, come previsto dalla circolare emanata dal Procuratore Cantone, secondo la sua interpretazione della legge, gli atti di indagine su cui la polizia giudiziaria può fornire direttamente notizie sono quelli posti in essere prima dell’iscrizione della notizia di reato. E i video celebrativi delle operazioni della Gdf? Su 28 operazioni ne abbiamo trovati 15. La maggior parte di essi mostra le volanti che escono dalla caserma e vi rientrano, tralasciando quella che fino a poco tempo fa era la parte ‘migliore’ ossia l’atto dell’operazione vera e propria. In alcuni casi però si vedono gli indagati, ripresi col volto coperto, mentre starebbero commentando il presunto reato o mentre vengono condotti in caserma. In conclusione, in questi comunicati qualche precisa ed identificabile persona viene messsa alla gogna? Quasi sicuramente no. C’è una eccessiva comunicazione, oltre l’interesse pubblico? Molto probabilmente sì. Ci dice Spangher, «nessuna norma è in grado di coprire tutte le variabili concrete. E quindi dovremmo fare i conti con questo». Intanto l’onorevole Costa ci ha partecipato: «sto raccogliendo i comunicati stampa e facendo un archivio delle conferenze stampa per una approfondita analisi. Chiederò al Ministero di verificare gli atti dei Procuratori su cui si fondano, in modo da comprendere le argomentazioni sulle specifiche ragioni di interesse pubblico».

PRESUNZIONE D’INNOCENZA: PUBBLICATE LE NUOVE NORME SULLA GAZZETTA UFFICIALE. E’ FINITO IL GIUSTIZIALISMO DEI PM E DEI GIORNALISTI “MANETTARI”. Il Corriere del Giorno il 2 dicembre 2021. La Procura potrà informare il pubblico “esclusivamente” attraverso comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, attraverso conferenze stampa. La diffusione di notizie riguardanti i procedimenti penali potrà avvenire solo in due casi: se risulta “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini”, se “ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Il decreto legislativo n. 188/2021 sulla presunzione di innocenza è stato pubblicato in Gazzetta ed entrerà in vigore dal prossimo 14 dicembre. Queste le principali novità: Divieto per le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.

La Procura potrà informare il pubblico “esclusivamente” attraverso comunicati ufficiali o, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, attraverso conferenze stampa. La diffusione di notizie riguardanti i procedimenti penali potrà avvenire solo in due casi: se risulta “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini”, se “ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico“.

Ecco il testo integrale del decreto

DECRETO LEGISLATIVO 8 novembre 2021, n. 188(G.U. 29 novembre 2021 n.284)

DiMartedì, Alessandro Sallusti inchioda Davigo: "Ecco chi ci passava le carte dei processi". Libero Quotidiano il 17 novembre 2021. Botta e risposta "piccante" a DiMartedì tra Alessandro Sallusti e Piercammilo Davigo. "Sallusti? L'ho incontrato di persona qualche volta, credo - spiega l'ex magistrato di Mani pulite -. In tribunale il mio avvocato certamente, visto che è stato condannato più volte per diffamazione nei miei confronti poi il presidente della Repubblica ha commutato la pena da detentiva in pecuniaria". Risposta per le rime del direttore di Libero: "Ricordo altri momenti, altrettanto belli, quando Davigo era giovane magistrato alla Procura di Milano. Noi giornalisti aspettavamo non lui, perché sennò parte un'altra querela, ma gli altri magistrati perché ci passassero carte da pubblicare il giorno precedente. Io c'ero e so benissimo che è andata così". "Ha mai preso una carta dal dottor Davigo?", chiede Giovanni Floris. E Sallusti precisa: "No, no, no. Gliela faccio breve: io ero nel pool che pubblicò sul Corriere della Sera quel famoso avviso di garanzia contro Silvio Berlusconi, era un avviso di garanzia nella disponibilità della Procura di Milano e non ce lo diede né il salumaio né l'avvocato di Berlusconi". "Gliela deste voi la notizia che fece crollare la reputazione dell'allora premier, indagato?", incalza Floris. "Che ragione avremmo avuto, visto che il giorno dopo gli sarebbe stato notificato?". Poi, rivolto a Sallusti: "In quei tempi, io ricordo che insieme a Goffredo Buccini andò a Santo Domingo a intervistare Manzi, presidente della Sea latitante. Quella intervista fece un tale scalpore che obbligò il governo di Santo Domingo a farlo arrestare. Come mai Sallusti, che una volta andava a cercare i latitanti, adesso ha questa sfrenata passione per corrotti e corruttori? Solo questione di soldi o c'è qualcosa nella sua indole che gli fa preferire i cattivi ai buoni?". "No guardi, io non ho alcuna passione per corrotti, corruttori e indagati. A Manzi dicemmo: 'Se lei ritiene, aspetteremmo i giorni che lei ritiene prima di pubblicare, per permetterle di andare via o fare quello che crede'. Lui disse: 'No, no, pubblicate pure domani perché così mi liberate da un peso'". 

La presunzione d’innocenza è legge: ora fate in modo che i pm la rispettino. Da oggi cambia il rapporto tra Procure e informazione. L’esultanza del deputato di Azione Enrico Costa: «Questo è un provvedimento di portata storica». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. Da oggi cambia il rapporto tra Procure e informazione: entra finalmente in vigore la norma di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Per celebrare l’evento il deputato di Azione Enrico Costa ha convocato ieri una conferenza stampa alla Camera: si tratta di «un provvedimento di portata storica», ha detto il parlamentare, tra i maggiori sostenitori della nuova norma che ora «non vorremmo venisse svilita sul campo». Per questo occorrerà vigilare, in quanto «il pericolo più grande è l’elusione del provvedimento». Sarà fondamentale l’apporto che tutti gli avvocati potranno dare per verificare il rispetto della legge. E su questo il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza, tra gli intervenuti alla conferenza, ha assicurato che l’Osservatorio Informazione Giudiziaria farà la sua parte. Costa ha presentato ai giornalisti un modulo, scaricabile dal sito presuntoinnocente.com, con cui qualsiasi cittadino potrà segnalare al ministero della Giustizia eventuali violazioni della norma. Insomma, massima volontà affinché la nuova legge non venga aggirata, come già successo in passato per altre disposizioni che pure limitavamo la comunicazione delle Procure. Certo, le perplessità non mancano.

David Ermini due giorni fa, ad un evento organizzato da Unicost, ha infatti detto: «Parlando a titolo personale e di avvocato, non da vicepresidente del Csm, sono un po’ scettico. Se esce la notizia che un personaggio noto è indagato, il danno è già fatto». Abbiamo chiesto un commento al presidente Caiazza alla fine della conferenza: «Che un evento dannoso possa comunque causarsi è fuori discussione; però aver fissato un divieto di rappresentare una indagine in termini pregiudizievoli per l’indagato è un dato assolutamente importante perché si è rafforzato un principio di civiltà contro una deriva tipica del nostro Paese». Presente alla conferenza anche il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, che ha rilanciato chiedendo la modifica di due articoli della Costituzione, il 27 e il 13: «Per mantenere viva la fiammella di questo cambiamento culturale che investe tutti, i politici devono assumere una iniziativa di modifica costituzionale perché due punti sono assolutamente inadeguati: trasformare la presunzione di non colpevolezza in “considerazione di innocenza” e sostituire la carcerazione preventiva in “misure cautelari”. La semantica è importante. Dico questo perché la ministra della Giustizia Cartabia è una costituzionalista e non credo che si troveranno ostacoli in Parlamento».

Invece, per il deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri, «questo è solo un primo passo, il secondo saranno i referendum, verso il traguardo di un ritorno alla civiltà e della fine della cultura del sospetto, del torbido, agitata da una piccola parte di magistrati che hanno danneggiato la sacralità della funzione giudiziaria». L’onorevole Roberto Giachetti di Italia Viva ha proseguito: «Questa norma è un aiuto al Paese per recuperare le radici di una civiltà giuridica e una sponda anche all’interno della magistratura per chi si sentiva isolato e che ora ha uno spunto legislativo cui agganciarsi». Ma un cambiamento deve interessare anche la stampa, che non è direttamente coinvolta dalla nuova norma, come ha sottolineato il giornalista Alessandro Barbano: «Questo è un provvedimento storico, il cui valore è una semina a futura memoria. È evidente però che l’altro corno del problema è la deontologia del giornalismo. La più grande riforma garantista deve essere quella che punti alla qualità del giornalismo pubblico televisivo, perché è il mezzo con cui si forma l’opinione pubblica. Volendo concepire una nuova responsabilità per i giornalisti. Credo che sia indifferibile nella prospettiva di revisione costituzionale qualificare la mediazione giornalistica e attribuirle valore costituzionale, che significa ovviamente anche un impegno a regolare la formazione, il livello di controllo deontologico, senza violare ovviamente la libertà di pensiero».

Post scriptum

L’on. Costa ha redatto un modulo per segnalare eventuali violazioni della nuova norma, che saranno raccolte e sottoposte al ministero della Giustizia. 

Valentina Errante per "Il Messaggero" il 14 dicembre 2021. Stop scoop e indiscrezioni giornalistiche su inchieste e indagati. Da oggi solo i procuratori potranno intrattenere rapporti con la stampa, esclusivamente tramite comunicati ufficiali. Le conferenze stampa dovranno essere limitate ai casi di rilevanza pubblica dei fatti e convocate con un atto motivato. Ossia, solo se la notizia sia strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o in presenza di altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le stesse regole varranno anche per la polizia giudiziaria, che potrà parlare con i giornalisti, solo se delegata dai capi delle procure. La legge sulla presunzione di innocenza entra in vigore oggi, il decreto approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso novembre dà questa forma alla direttiva europea del 2016 che, se non recepita, avrebbe messo in gioco una parte dei fondi del Pnrr. Il provvedimento, fortemente voluto dal parlamentare Enrico Costa di Azione, ha avuto parere favorevole dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato e del Csm, ma in tanti sono perplessi: dal presidente dell'Anm a molti magistrati. 

I DIVIETI

La legge vieta ai magistrati di «indicare pubblicamente l'indagato come colpevole» in una qualsiasi dichiarazione che non sia una sentenza. In caso ciò avvenga e non arrivi una rettifica entro 48 ore, il procuratore in questione rischia delle conseguenze disciplinari e può essere condannato ad un risarcimento danni. Mentre nelle ordinanze di misura cautelare l'autorità giudiziaria dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento». Infine, non sarà più possibile «assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». 

GLI ATTI PUBBLICABILI

Le norme stridono tuttavia con l'articolo 114 del Codice di procedura penale: «È sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto». Un principio che consentirà di pubblicare ancora frammenti di ordinanze e intercettazioni, così come decreti di perquisizione dove sono riportati i nomi degli indagati. Per i giornalisti sarà soltanto più difficile procurarseli. Agli avvocati non sarà vietato parlare con la stampa e fornire gli atti. Ma non sarà più possibile verificare le notizie girate dai legali con chi abbia svolto le indagini. 

LE REAZIONI

Enrico Costa, che rivendica il recepimento della direttiva europea come un successo di Azione, ha già preparato un modello di segnalazione che i cittadini potranno inoltrare, in caso di presunte violazioni, al ministero della Giustizia. E ieri, in una conferenza stampa, a fianco del presidente dell'Unione camere penali, Giandomenico Caiazza, ha mostrato la sua soddisfazione: «È un provvedimento di portata storica, perché queste norme cercano di stabilire regole di buon senso alle quali si devono adattare le autorità pubbliche nel confrontarsi con il tema della presunzione di innocenza. Vorremmo - ha aggiunto Costa - che la riforma non fosse svilita sul campo. Abbiamo visto procuratori che hanno considerato le norme come se fossero acqua fresca, altri invece come Cantone le hanno affrontate sul serio».

E Caiazza ha commentato: «Non so se sia una pagina storica, certamente è una pagina di grande importanza e di grande rilievo».

Già a settembre il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia aveva espresso i suoi dubbi sullo schema della norma durante l'audizione in commissione Giustizia alla Camera. Così come hanno fatto molte toghe.

All'indomani dell'approvazione del decreto legislativo, Santalucia era tornato sulla questione nella relazione che, a novembre, ha aperto il comitato direttivo centrale dell'Associazione: «Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la stampa dei procuratori della Repubblica, che potranno servirsi esclusivamente di comunicati ufficiali e, nei casi di particolare rilevanza pubblica, di conferenze stampa - ha osservato Santalucia - Regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all'esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini». 

Presunzione di innocenza, parla Cantone: "La legge non va usata contro la libertà di stampa”. Liana Milella su La Repubblica il 15 dicembre 2021. Intervista al procuratore di Perugia: "La nuova norma non è un bavaglio, ma può burocratizzare troppo il rapporto tra media e pm. Il caso Maresca a Napoli? Lui ha fatto una scelta legittima che un legislatore serio  avrebbe dovuto impedire".  La legge sulla presunzione d’innocenza? «Non è un bavaglio, ma burocratizza i rapporti tra giornalisti e procure». Spariranno i fatti dai giornali? «Se uno stupratore viene arrestato, la notizia deve uscire». Caso Maresca? «Scelta legittima ma che un legislatore serio avrebbe dovuto impedire». La riforma del Consiglio superiore della magistratura? «No ai consiglieri dell’Anm che vanno al Csm».

Presunzione d’innocenza, Bartoli: «Norma spropositata, cancella le notizie». Il presidente dell'Ordine dei giornalisti: «La presunzione d'innocenza va salvaguardata, ma la norma è rischiosa per la democrazia e per i cittadini». Il Dubbio il 16 dicembre 2021. Il neo presidente dell’ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, eletto al posto di Carlo Verna, storico cronista Rai, non approva la normativa sulla presunzione d’innocenza. In un’intervista al “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio, il rappresentante nazionale dei giornalisti italiani fa una distinzione tra la necessità di salvaguardare il principio d’innocenza delle persone che finiscono sotto indagine o che sono imputate e il dovere e il diritto della stampa di pubblicare notizie di interesse pubblico riguardanti inchieste giudiziarie, senza omettere nulla. «L’esigenza alla quale prova a rispondere questa nuova legge – afferma Bartoli – è assolutamente giusta e la condividiamo tutti. Va certamente salvaguardata la presunzione d’innocenza»

«Il punto è: come la si salvaguarda? È questo il vero strumento, o per salvare la presunzione di innocenza si è disposti a ridurre la possibilità di dare conto di quella che è l’attività della giustizia? Perché, al di là di ogni altra considerazione, una delle preoccupazioni di uno Stato è sicuramente quella di dimostrare ai cittadini che esercita l’azione della giustizia in maniera imparziale, senza guardare in faccia a nessuno. Il solo fatto di non poterlo raccontare, secondo me, rappresenta un grave problema» dichiara Carlo Bartoli.

Secondo Bartoli, la norma sulla presunzione d’innocenza «è spropositata», perché «le notizie rischiano di scomparire dietro questo paravento. Ma io voglio dire una cosa e la voglio dire molto chiaramente: i giornali sicuramente talvolta hanno commesso degli errori, anche gravi. Poi ciascuno paga. Ma non ci si è accorti che sono altri gli ambiti che vedono la presunzione di innocenza massacrata, a cominciare da trasmissioni televisive che non hanno alcun carattere giornalistico. Forse dovrebbero cominciare da lì, non dal limitare la fruizione di informazioni su inchieste, indagini e processi».

«Questa norma va ben oltre, è molto rischiosa per la democrazia e per il senso che i cittadini devono avere della giustizia. Ormai la norma è in vigore. Cosa si può fare per limitare i danni adesso? L’ideale sarebbe la possibilità di ridiscutere, di rivalutare questa norma, ma nel frattempo bisogna chiedere ai magistrati di applicarla con molto buon senso. Vediamo che conseguenze pratiche avrà e poi prenderemo una decisione. Forse l’Ordine dei giornalisti avrebbe dovuto fare qualcosa prima.

A settembre scorso, convocati in Commissione Giustizia dove si stava discutendo lo schema di decreto legislativo, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della Stampa non si sono presentati. In questo c’è del vero. Io sono stato eletto presidente da pochi giorni, ma mi prendo la responsabilità anche per quello che non è stato fatto in precedenza. Se è stato fatto poco me ne assumo la responsabilità».

Salvi: «Sì alla presunzione d’innocenza, ma informare è un dovere». Il procuratore generale Giovanni Salvi prende posizione sulla presunzione d'innocenza ricordando che la norma prevede il rispetto delle parti processuali. Il Dubbio il 21 dicembre 2021. «Informare l’opinione pubblica non è manifestazione della libertà di espressione del magistrato ma è un preciso dovere d’ufficio come più volte affermato anche dalle fonti europee». Lo sottolinea la procura generale della Corte di Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, in un comunicato diffuso oggi che dà conto di una nota inviata lo scorso 6 dicembre a tutti gli uffici di procura per «accoglierne esperienze e valutazioni, al fine di raggiungere orientamenti condivisi che diano piena attuazione alla presunzione di innocenza e al rispetto delle vittime e dei testimoni». «La nuova disciplina richiede agli uffici del pubblico ministero un approccio uniforme consapevole al diritto di informazione», ricorda la procura generale, evidenziando che «l’informazione deve essere rispettosa della dignità della persona e dunque degli imputati, delle vittime e di tutti coloro che prendono parte al processo; essa deve essere corretta e non basarsi su canali privilegiati tra magistrati e giornalisti».

Al tempo stesso, «l’informazione deve essere tempestiva completa e tale da fornire all’opinione pubblica in maniera aperta e trasparente tutto ciò che è proporzionato alla rilevanza della notizia. Non si può neppure abdicare al dovere di fornire con continuità le informazioni necessarie nelle varie fasi di un procedimento basato sul contraddittorio tra le parti, al fine di evitare – conclude la nota – che questo si trasformi in processo a mezzo stampa o peggio nei salotti televisivi senza che sia possibile una completa conoscenza dei fatti».

Quel processo al Dubbio è un processo al giornalismo libero. Il nostro Damiano Aliprandi è alla sbarra per la sua inchiesta antimafia e qualche giudice protesta perché diamo voce all'avvocatura e al diritto di difesa umiliato. Davide Varì su Il Dubbio il 21 dicembre 2021. C’è un pezzo di magistratura – un pezzo minoritario per la verità – che ha ancora qualche problemino con la libertà di stampa, che urla al bavaglio se viene approvata una legge a tutela della presunzione di innocenza degli indagati, ma non si fa scrupoli a portare alla sbarra giornalisti che fanno il proprio dovere: ovvero il pelo e contropelo al potere, a tutto il potere, anche a quello giudiziario. Noi del Dubbio in queste ore siamo finiti al centro delle attenzioni di chi non tollera critiche o un presunto “eccesso di libertà”. Niente di drammatico per la verità: di certo non consideriamo intimidatorio un comunicato di una sezione dell’Anm che si è mobilitata perché la nostra Valentina Stella ha osato dar voce ad avvocati che denunciano “censure” da parte di alcuni giudici; né ci spaventa il processo che sta subendo il nostro Damiano Aliprandi, il quale, in questi anni, ha provato a far luce su uno degli eventi più drammatici della storia del nostro paese: parliamo delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E qui occorre la massima chiarezza, perché se è vero che non siamo intimiditi, è altrettanto vero che la questione è terribilmente seria.

Il processo ad Aliprandi, infatti, non riguarda soltanto lui e il nostro giornale: sul banco degli imputati c’è infatti il giornalismo italiano e in gioco c’è la credibilità del nostro sistema giudiziario. Chi legge il Dubbio conoscerà di certo la storia: Aliprandi – forse il più preparato e scrupoloso giornalista antimafia – è stato querelato da due magistrati che si sono sentiti denigrati da una inchiesta a puntate sulla vicenda del dossier “Mafia e appalti”. Cos’è “Mafia e appalti”? Probabilmente è il buco nero dell’antimafia italiana, una vicenda che potrebbe aver giocato un ruolo determinante nelle morti di Falcone e Borsellino. Riassumiamo in due parole: Giovanni Falcone e il colonnello Mario Mori – sì, proprio lui, il servitore dello Stato trattato come un criminale – indagavano da anni sui legami tra Cosa nostra e un pezzo di economia italiana. Il 23 maggio del ‘92 Falcone viene trucidato a Capaci e, poche settimane dopo cominciavano a redigere la richiesta di archiviazione, tanto che l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco – e parliamo di colui che venne accusato da un magistrato limpido come Caponnetto di aver emarginato, umiliato e isolato Falcone -, ecco quel Giammanco avrebbe avuto uno scontro in procura con lo stesso Borsellino sulla “gestione” di “Mafia e appalti”. E qui abbiamo la testimonianza di Domenico Gozzo, uno dei magistrati presenti a quella riunione, che parla esplicitamente di “contrasto più che latente”. Qualche giorno dopo lo stesso Borsellino strappa la promessa di poter proseguire l’indagine, ma di lì a poco viene trucidato con la sua scorta a via d’Amelio. Quante coincidenze. Solo molti anni dopo la storia viene ripresa da Damiano Aliprandi, il quale, grazie a un lavoro certosino e allo studio incrociato di migliaia e migliaia di atti giudiziari, ne coglie la straordinaria e sinistra importanza. Insomma, capite bene che questa inchiesta non solo fa emergere un filone dimenticato che potrebbe far luce sulle reali ragioni per le quali Falcone e Borsellino vennero uccisi, ma conferma ancora una volta l’inconsistenza del teorema Trattativa Stato-mafia, una indagine che del resto è già stata demolita dalla recente sentenza con cui sono stati assolti Mori, De Donno e Subranni.

Noi del Dubbio siamo certi che il nostro Damiano Aliprandi verrà assolto – troppo evidente la forza della sua inchiesta – eppure non possiamo non constatare il fragoroso silenzio della stampa italiana. Un silenzio assenso che rischia di assecondare un’azione giudiziaria capace – stavolta sì – di “imbavagliare” un’operazione giornalistica che ha l’ambizione di districare quel groviglio opaco di poteri e interessi che si sono mossi dietro la morte di Falcone e Borsellino. Ma quali sono i motivi di tanta inquietudine nei confronti di un lavoro giornalistico così rigoroso e trasparente? Il problema è dato dal fatto che l’inchiesta di Aliprandi riscrive il racconto ufficiale di quella vicenda e chi si discosta e contesta la Bibbia dell’antimafia diventa nemico, addirittura complice. Ed evidentemente non basta che quel “testo sacro” stia crollando anche nelle aule dei tribunali; né bastano gli appelli alla “continenza” da parte di magistrati più illuminati.

Una prova? I nuovi apostoli dell’antimafia di Stato se ne fottono anche di personalità cristalline come il procuratore De Raho che appena qualche giorno fa ha ricordato come sia dannoso per la credibilità della giustizia continuare ad alimentare “il protagonismo di alcuni magistrati attraverso la partecipazione ad alcuni circoli mediatici che tendono alla costruzione di verità alternative mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazioni”. Più chiaro di così. Ma è evidente che qui la lotta alla mafia c’entra poco: chi difende quel racconto – e non parliamo solo di magistrati – in realtà difende se stesso, la propria immagine pubblica, la propria posizione di potere. Insomma, siamo di fronte a una vicenda incandescente e non vorremmo che fossimo gli unici a dover ricordare, soprattutto all’ordine dei giornalisti, che in ballo non c’è solo il Dubbio ma l’articolo 21 della nostra Costituzione: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Avete presente?

Il silenzio della stampa. Molestie di Creazzo, i giornali censurano la notizia per ordine del partito delle Procure. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Il Csm – come voi sapete e pochi altri sanno, tra poco vedremo perché – ha riconosciuto il Procuratore di Firenze colpevole di violenza sessuale verso una sua collega. Il Csm ha inflitto al Procuratore di Firenze, per questa (diciamo così) malefatta, una pena che consiste in due mesi di perdita di anzianità. Il relatore nella sezione disciplinare che doveva giudicare e punire era Giuseppe Cascini, Torquemada contro i reati della pubblica amministrazione (tipo l’imperdonabile traffico di influenze). Il Presidente era David Ermini, cioè il capo del Csm. Il Csm ha dichiarato anche che l’aggressione del Procuratore di Firenze nei confronti di una sua collega è da considerare un “fatto privato”. Bene, non so se avete mai frequentato una scuola di giornalismo. Anche se non l’avete frequentata, capite bene che questa è una notizia clamorosa, se vera. Naturalmente aspettiamo la Cassazione prima di dare per certa la colpevolezza del Procuratore di Firenze. Però sappiamo per certo che il Csm ha giudicato “un fatto privato” l’incontro violento tra il Procuratore e la magistrata che avrebbe subito violenza sessuale. E di conseguenza il Csm ha stabilito che non era necessario nessun intervento sulla carriera del Procuratore, né tantomeno la sua rimozione, ma solo – così, proprio per non fare figuracce – la pena minima ipotizzabile. Questa dei due mesi tagliati via da una pensione che sarà ridotta circa del 0,4 per cento. Tutti i grandi giornali hanno considerato questa notizia una notizia da pagina 32, piccola piccola, infondo alla pagina (parlo del Corriere della Sera). Più o meno come si dà la notizia di un modesto furto in un supermercato, o di un ingorgo, o qualcosa del genere. L’esempio del Corriere è stato seguito dagli altri grandi giornali, Repubblica, il Messaggero, La Stampa.

Io però conosco i miei colleghi. Sanno fare il loro lavoro, almeno i più anziani lo sanno fare, lo hanno fatto per tanti anni e bene. A nessuno di loro può venire neppure in mente che quella notizia non fosse una clamorosa notizia da prima pagina. Sia per l’enormità del fatto che coinvolge un Procuratore della repubblica, cioè una delle massime autorità del paese (che, tra l’altro, sta indagando su Renzi e Berlusconi ) sia per l’ignominia di un Csm che definisce “fatto personale” una molestia o una violenza sessuale, cosa che non avrebbe fatto neppure un pretore di campagna degli inizi del secolo scorso. Del resto il silenzio non ha riguardato solo la stampa: la politica ha fatto altrettanto. E allora, tutto questo come si spiega? In un solo modo: con la consapevolezza che oggi il sistema delle Procure, che purtroppo comprende anche il Csm, dispone di un controllo ferreo e inaggirabile sulla politica e sull’informazione. I grandi giornali sono tenuti ad obbedire, e obbediscono, come sotto giuramento. Mai un piccolo gesto di ribellione. Se Procuratore, o Csm comanda, giornalista obbedisce. Naturalmente non c’è nessuna possibilità, in queste condizioni, di parlare di libertà di informazione. La libertà d’informazione, in Italia, esiste su molti piani. Ma esclude la possibilità di critica al potere più grande. Cioè al potere giudiziario. Chi ha voglia di contrastare questa tendenza totalitaria – come noi, per esempio – deve convincersi che dovrà farlo più o meno dalla clandestinità, come facevano i nostri nonni che si opponevano al Minculpop.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Nordio: «Ma quale stampa libera, i giornali erano diventati megafoni delle Procure». L’ex procuratore aggiunto di Venezia, da anni tra i più autorevoli commentatori sulla giustizia, smonta gli allarmi sulle nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza. Errico Novi Il Dubbio il 23 dicembre 2021. «La libertà di stampa? Nel caso concreto dell’informazione giudiziaria, è una favola vuota». Carlo Nordio non concede sconti. L’ex procuratore aggiunto di Venezia che oggi, da editorialista del Messaggero, è tra i più ascoltati commentatori sulla giustizia, non si lascia commuovere dagli allarmi sulle nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza. Controbatte con impietoso realismo alla tesi per cui la recente riforma colpirebbe il diritto di informare: «I giornalisti», obietta, «scrivono quello che gli inquirenti lasciano trapelare dopo aver selezionato le notizie secondo le proprie convenienze. È una divulgazione pilotata, spesso a favore di cronisti amici e a scapito di altri». Una replica alle preoccupazioni espresse non solo dal mondo dell’informazione, ma soprattutto dalla magistratura, Anm in testa, e da partiti come il Movimento 5 Stelle che considerano una iattura qualsiasi argine allo strapotere delle Procure.

Appena presentato, il decreto sulla presunzione d’innocenza sembrava fin troppo blando, soprattutto per le sanzioni assai remote: ma visti i recenti allarmi, soprattutto della magistratura, comincia a venire il sospetto che si tratti di un provvedimento efficace.

Come le altre recenti riforme della ministra Cartabia, anche questa è un piccolo passo per la risoluzione del problema, ma un balzo gigantesco nella giusta direzione. È proprio questo cambiamento di rotta che preoccupa la magistratura, che vede ridotto uno dei suoi poteri di cui ha talvolta fatto uso improprio: quello cioè di tenere in pugno un cittadino, attraverso la divulgazione di notizie riservate. In ogni caso un effetto positivo, sia pure limitato, ci sarà.

Parte dei divieti esisteva già dal 2006, come quello che preclude ai singoli pm la divulgazione di notizie, ma nessuno se n’è accorto. Perché stavolta dovrebbe andare diversamente? È la perdita di autorevolezza sofferta in questi anni che potrebbe impedire alla magistratura di aggirare le norme?

È vero che una norma simile esisteva già nell’ordinamento giudiziario, nel senso che i rapporti con l’esterno potevano esser tenuti solo dal capo dell’Ufficio o dal suo Aggiunto. Ma poiché è stata spesso disattesa senza conseguenze, si è ritenuto opportuno rafforzarla. Questo risultato è possibile oggi per due ragioni complementari: la prima è l’autorevolezza e la credibilità della ministra proponente, che la rende immune da qualsiasi sospetto di cointeressenze ambigue. La seconda è proprio l’indebolimento della credibilità della magistratura. Dopo lo scandalo Palamara, e quello ancora più grave della Procura di Milano, la sua forza contrattuale è grandemente scemata. E non è nemmeno finita. Il fatto che la Procura di Roma sia stata fino a poche ore fa senza un titolare, e che quella di Firenze abbia un capo sanzionato disciplinarmente, contribuiscono a questo sfacelo. Ora ci mancava il ritorno del nome di Berlusconi per fatti di mafia di trent’anni fa. Siamo nel grottesco più estremo, ed è doloroso, per chi ha rivestito la toga per oltre 40 anni, vedere che rischiamo di coprirci di ridicolo.

Cosa risponde alle preoccupazioni dei giornalisti secondo cui l’impossibilità di acquisire, d’ora in poi, notizie sulle indagini in modo informale pregiudicherà la libertà di stampa?

Cominciamo col dire che finalmente il sistema si occupa anche dei diritti dell’indagato, che spesso finisce sui giornali come presunto colpevole, perde l’onore e magari il lavoro o la carica politica, e dopo mesi o anni viene archiviato senza neanche le scuse. Quanto alla libertà di stampa, questa, nel caso concreto è una favola vuota: perché i giornalisti scrivono quello che gli inquirenti lasciano trapelare dopo aver selezionato le notizie secondo le proprie convenienze. È una divulgazione pilotata, spesso a favore di cronisti amici e a scapito di altri. La libertà sarebbe quella di aver a disposizione tutto il materiale, lasciando al giornalista la discrezione di scegliere quale pubblicare.

In un’intervista radiofonica lei ha ricordato che anche Marco Pannella, in passato, aveva fatto un discorso del genere.

È un po’ quello che accade quando la tv riprende un processo. Lo spettatore non vede quello che vuole lui, ma quello che gli dà la regia. E se questa, ad esempio, inquadra le mani sudaticce e agitate di un teste, manda un messaggio, più o meno subliminale, di inaffidabilità. Per questo io non ho mai consentito i montaggi, ma solo la telecamera fissa in aula. Così lo spettatore guarda dove e come vuole.

Secondo la circolare inviata lo scorso 6 dicembre dal Pg Salvi alle Procure, il dovere di informare è legato, per la magistratura inquirente, anche alla necessità di contrastare ricostruzioni fantasiose che, sulle indagini, potrebbero altrimenti essere proposte nei vari “quarti gradi televisivi”: è d’accordo?

Condivido l’idea che alle limitazioni per le esternazioni dei magistrati faccia riscontro quella dei talk show sui processi in corso. Negli ordinamenti anglosassoni, che abbiamo scopiazzato, questo non è consentito: costituirebbe il reato di Contempt of Court, disprezzo della Corte. Il giusto equilibrio dev’essere trovato dai capi degli uffici, proprio per evitare che i giornalisti lavorino di fantasia, e così assicurare un’informazione adeguata.

Cosa pensa delle proposte di limitare anche il contenuto degli atti d’indagine?  Chi lo chiede, ritiene vadano scongiurati casi come quello dell’inchiesta su Open, in cui la Procura, senza fornire informazioni sottobanco ai cronisti, lascia nel fascicolo una messe di informazioni con cui i giornali costruiscono comunque la gogna mediatica.

Questa è una riforma fondamentale, che deve integrare quella attuale, perché ora i pm possono diffondere, nella più perfetta legalità, notizie che screditano il cittadino. Essi infatti sono arbitri assoluti nel decider cosa sia utile all’indagine e cosa no. E con questo alibi posso depositare documenti, e addirittura intercettazioni, che vulnerano l’onore di una persona, senza avere alcuna giustificazione riferibile all’economia dell’indagine. Ma sulla disciplina delle intercettazioni questo Parlamento non ha né la volontà né la possibilità di intervenire. Aspettiamo il prossimo.

Sarebbe opportuno inasprire le sanzioni per il misconosciuto reato di “pubblicazione arbitraria di atti giudiziari”, che oggi un giornale può cancellare col versamento di una modestissima oblazione?

No. Ho sempre sostenuto e sostengo che è ingiusto e inutile prendersela con il cronista o con il direttore. Se vi è violazione del segreto istruttorio, il primo a risponderne dev’esser chi ne era depositario e ne ha consentito la divulgazione, o non ha vigilato abbastanza affinché ciò non avvenisse. Quindi in primo luogo proprio il magistrato. Ma introdurre la sua responsabilità civile e l’obbligo al risarcimento serve a poco, anche perché è assicurato. Un magistrato inetto, inabile o infedele deve solo cambiare mestiere.

La norma sulla presunzione di non colpevolezza. Si alla gogna, l’appello del capo dei giornalisti al Csm: insieme per continuare a violare la Costituzione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. Giornalisti che chiedono aiuto alle toghe per poter continuare a violare insieme, in combutta, la Costituzione. Che cosa può essere, se non una proposta di continuare nella complicità del mercato delle notizie e delle intercettazioni, la lettera inviata dall’Ordine dei giornalisti al vertice del Csm e al capo nazionale degli inquirenti? Un “pizzino”, lo definirebbe sicuramente Marco Travaglio, se non facesse parte anche lui della combriccola.

Sarà mica un caso, se il neo-eletto Presidente dell’Ordine, Carlo Bartoli, ha regalato proprio al suo quotidiano la prima intervista. Contro la presunzione d’innocenza e a favore delle gogne mediatiche. Era solo l’antipasto, un atto dovuto, quasi a porre rimedio alla tirata d’orecchi che la categoria, sindacato compreso, aveva subìto da parte del Fatto per aver disertato le audizioni alla Commissione giustizia della Camera. Quelle in cui si erano invece esibiti i big delle Procure presenti e passate, tutti allineati con il travaglio-pensiero. Tutti contro la Costituzione e il suo articolo 27. Tutti contro L’Europa e il suo sistema dei diritti. Tutti contro la ministra Cartabia e la sua legge sulla presunzione d’innocenza.

Dopo l’antipasto-intervista del Presidente alla testata “giusta”, un vero autodafé su quell’assenza, ecco il timbro dell’ufficialità con un comunicato dell’Ordine dei giornalisti. Alla faccia della libertà di stampa, si chiede aiuto alla magistratura per poter continuare ancora insieme, stretti stretti, cronisti e pm, a violare le regole, a calpestare la Costituzione. Al Presidente del Csm David Ermini e al Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, la categoria chiede aiuto perché, in seguito all’applicazione della nuova legge sulla presunzione di innocenza, non “cali il silenzio su inchieste, magari proprio quelle su personaggi importanti”. È abbastanza chiaro che cosa preoccupa la Casta dei cronisti giudiziari (da tempo veri grumi di comando nelle redazioni), che insieme a quella dei Pm costituisce un vero “combinato disposto” di complicità nell’uso di gogne mediatiche a fine politico. Quel che preoccupa è la perdita di potere. Quello conquistato sulle pelle degli unici soggetti deboli, gli indagati, gli arrestati, gli imputati. Gli assolti e i condannati, gli innocenti e i colpevoli. La forza di poter distruggere le reputazioni, spesso le vite, degli odiati “poteri forti”. I politici, gli imprenditori, i manager delle grandi aziende. Da Craxi a Berlusconi e Renzi, fino a Descalzi e Scaroni.

Della storia dei rapporti tra pubblici ministeri e cronisti giudiziari ha di recente fatto una sintesi molto veritiera Carlo Nordio, un magistrato che ha tra l’altro il merito di aver sempre rifiutato candidature al Parlamento e che ha svolto l’intera carriera, fino al vertice, come pubblico ministero a Venezia. Ha raccontato come fino al 1992 esistesse “Un rigorismo formale mitigato dalla convenienza pragmatica”. Era proprio così, lo potrebbe confermare chiunque abbia frequentato i Palazzi di giustizia in quegli anni. Il pm raccontava il succo dell’inchiesta ai cronisti giudiziari, in regime di par condicio di ogni testata, i giornalisti facevano domande, il magistrato rispondeva quel che poteva, nel rispetto del segreto istruttorio.

Tutto è cambiato con Tangentopoli e con Mani Pulite. Lo sappiamo bene, ma è importante che ce lo dica un ex Procuratore. Uno che c’era, che aveva sempre rispettato il gentlemen’s agreement. Ma poi alcuni pm hanno cominciato a scegliersi i cronisti, “quelli più disponibili, più utili, più acquiescenti”. In cambio “il patto scellerato prevedeva che la figura di queste toghe venisse esaltata e beatificata…magari aprendo la strada a una buona candidatura politica”. Così è andata. Ma la degenerazione più grave ha riguardato “la selezione delle notizie”. “Perché le redazioni ricevevano quel tanto che il sapiente divulgatore voleva che ricevessero, pilotando così il lettore verso un’interpretazione ingannevole”. C’è bisogno di fare esempi? Li conosciamo uno per uno. E’ dunque questo Sistema, quello che l’Ordine dei giornalisti (che dovrebbe rappresentare anche noi) vuole mantenere, con la garanzia dei vertici della magistratura?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La legge sulla presunzione aggirata. Giornalisti e magistrati vogliono distruggere la presunzione d’innocenza: basta un sospetto e scatta la gogna. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. L’Anm è in rivolta contro la legge sulla presunzione di innocenza. L’Ordine dei giornalisti la segue a ruota. La Corte di Cassazione frena un po’, perché probabilmente è formata, almeno ai suoi vertici, da persone più acculturate, ma nella sostanza segue il fiume vorticoso e impartisce istruzioni che servono comunque ad aggirare la legge.

Il principio sacrosanto della non colpevolezza in assenza di condanna è considerato dal mondo giornalistico-giudiziario una specie di abominio. Perché smantella il principio opposto, quello sul quale ha funzionato la giustizia negli ultimi trent’anni, e cioè l’idea che un fondato sospetto sia sufficiente per procedere contro una persona, punirla attraverso la gogna mediatica, e il carcere, e i sequestri, e la messa in pubblico di tutta la sua vita privata e intima, perché poi, alla fin fine, questo è il solo modo di amministrare la giustizia senza impigliarsi nelle maglie “levantine” delle difese che, di solito, sono complici dei “rei”.

Nessuna legge avrebbe mai potuto fare così male al potere giornalistico-giudiziario quanto questa legge sulla presunzione di innocenza, imposta dalla Costituzione e voluta dall’Europa, e che ristabilisce alcuni punti fermi dello Stato di diritto. Per questo il potere giornalistico-giudiziario ha reagito con il gruppo di testa del suo partito (l’Anm) e poi con la manovalanza (l’Ordine dei giornalisti), il quale si è rivolto direttamente al Csm e alla Cassazione chiedendo di intervenire per spezzare le reni a questa legge.

La Cassazione ha risposto ieri con un comunicato della procura generale, che certamente riafferma alcuni dei principi della legge, respingendo i toni eversivi dell’Ordine dei giornalisti, riconosce i diritti degli imputati, chiede la fine dei processi mediatici, ma poi stabilisce che ogni procuratore, se vuole, può superare la legge con conferenze stampa e quant’altro, a condizione che ritenga che questo valga a garantire l’interesse generale dell’essere informati. E in questo modo, anche la Procura generale della Cassazione, indica la via per gabbare la legge e lo santo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il Partito dei Pm e dei giornalisti indignato. Il presidente dei giornalisti Carlo Bartoli si schiera contro la Costituzione: guerra alla presunzione d’innocenza. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. Il nuovo presidente dell’Ordine dei Giornalisti si chiama Carlo Bartoli. Viene dalla Toscana, dove ha lavorato nelle redazioni della Nazione e del Tirreno, ha insegnato giornalismo all’Università ed è stato per molti anni presidente regionale dell’Ordine. Personalmente non lo conosco. Avevo riposto molte speranze nel cambio al vertice perché comunque la sua elezione poneva fine al precedente mandato, che non avevo molto apprezzato. Mi ricordo di una presa di posizione del Presidente dell’epoca, circa un anno fa, con una dichiarazione un po’ scombiccherata, a favore dei magistrati che querelano i giornalisti (in quel caso il giornalista ero io). Però la prima uscita pubblica di Carlo Bartoli, francamente, mi ha gettato nello sconforto. Ha rilasciato un’intervista al Fatto quotidiano sulla presunzione di innocenza. Al Fatto? Sì. Il Fatto Quotidiano, per capirci, oltre a essere notoriamente l’organo ufficioso dell’Anm (cioè del partito dei Pm) è il giornale dove scrive – e sul quale esercita molto ampiamente la sua influenza – Piercamillo Davigo. A me, dopo tanti anni, Davigo – ora che è in pensione – è anche diventato simpatico. Tuttavia la sua teoria giuridica è nota: quando una persona finisce a processo, specie se è un politico o un imprenditore, è colpevole. Poi può succedere – e spesso succede – che sia assolto, ma questo vuol dire solo che l’ha fatta franca, non certo che sia innocente. Ho un po’ rozzamente sintetizzato il pensiero di Davigo, ma la sostanza mi pare che sia quella. E il Fatto quotidiano, di solito, accoglie senza sfumare – ma anzi enfatizzando – il pensiero di Davigo. Siamo sicuri che se uno vuole esprimere la sua posizione sulla presunzione di innocenza, come atto di inaugurazione del suo mandato a capo dei giornalisti italiani (è entrato in carica la settimana scorsa) debba rivolgersi proprio al Fatto? Carlo Bartoli, nell’intervista, si scaglia contro la legge sulla presunzione di innocenza appena entrata in vigore, approvata dal Parlamento e chiestaci dall’Europa. Perché l’Europa ci aveva chiesto questa legge? Per permettere all’Italia di allinearsi in qualche modo agli altri paesi europei dove vige lo Stato di diritto e dove la presunzione di innocenza è un dogma. Credo che l’Italia fosse l’unico paese nel quale un Pm poteva sventolare la colpevolezza di un suo indiziato (nemmeno imputato: indiziato), con una conferenza stampa o con una trasmissione in Tv o con un’intervista sui giornali, senza dare neppure all’indiziato la possibilità di difendersi, Era palese a tutti la condizione di inciviltà e di contrasto con le norme europee e con la stessa Costituzione italiana. I precedenti governi, a guida 5 Stelle, non avevano ovviamente avuto la possibilità di intervenire, perché fortemente subordinati al partito dei Pm, il quale non ha mai sopportato la presunzione di innocenza e l’ha sempre considerata un ostacolo (da eliminare) al corretto sviluppo delle indagini e alla punizione preventiva dei presunti colpevoli. Però poi si è insediato il governo Draghi ed è stato impossibile evitare l’approvazione della nuova norma che riporta l’Italia nel rispetto della Costituzione italiana ed evita una pesante sanzione da parte dell’Europa. La norma ha prodotto molti dissensi tra i magistrati e i giornalisti giudiziari (categorie che spesso hanno un confine assai evanescente). Ma anche alcuni consensi molto autorevoli. Perché è bene che si sappia: la magistratura, è vero, è nelle mani di un pugno di Pm giustizialisti che ne condizionano gli assetti, le decisioni e la sistemazione del potere; ma dentro la magistratura esistono moltissime persone assennate e non assetate di manette. Così persino il capo della Procura nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, ha espresso il suo parere favorevole alla legge, ha stigmatizzato gli atteggiamenti sceriffeschi e poco seri dei Pm che amano gli show, e ha chiesto che con un processo in corso nessun magistrato agisca sui media in modo da condizionare in qualche modo la giuria a sfavore degli imputati. Dicono che la cosa sia stata accolta con molto fastidio in diversi palazzi di giustizia. Ma soprattutto nelle redazioni dei giornali. Cioè, non esattamente nelle redazioni: nelle stanze dei cronisti giudiziari, i quali però, ormai, purtroppo, sono i padroni incontrastati di molti quotidiani e di moltissimi servizi giornalistici delle Tv. Forse proprio questo fastidio ha spinto Carlo Bartoli a schierarsi, in modo netto, contro la legge approvata dal Parlamento, contro la Costituzione (articolo 27) e contro l’Europa. Bartoli sostiene che con questa legge, proibendo ai Pm di fare spettacolo o anche semplicemente di avere rapporti confidenziali (ricambiati con articoli amichevoli) coi cronisti giudiziari, si lede il diritto di cronaca. Bartoli dice anche che la pubblicità del processo e dell’azione penale è un cardine dello stato di diritto. E questo è, in parte, vero. Cioè, è vero che la pubblicità del processo è un cardine della stessa Costituzione. Ma la nuova legge non mette in discussione la pubblicità del processo. La pubblicità di tutta l’azione penale invece non è stabilita da nessun principio, e anzi, una parte dell’azione penale è – per un periodo o per sempre – coperta da segreto. Questo segreto, immagino che Bartoli lo sappia bene – spesso è violato dai giornalisti in combutta coi Pm. Spesso è violato addirittura con intenti che non hanno niente a che fare col processo: serve solo a gettare fango. Un esempio recente? Beh, tutte le intercettazioni marginali (e illegali) che servono a ritrarre Matteo Renzi come un poco di buono molto spregiudicato – anche se non si delinea nessun reato – offerte graziosamente ai giornalisti che, graziosamente, le hanno pubblicate. La pubblicità del processo invece – dicevamo – non è in discussione. Purtroppo questa pubblicità non è certo garantita dalla stampa. Volete qualche cifra, ad esempio, sui giornalisti che hanno partecipato alle conferenze stampa che presentavano il processo “Mafia Capitale” fornendo esclusivamente la versione dell’accusa? Due o trecento. Volete le cifre dei giornalisti che hanno poi seguito il processo vero e proprio, dove si confrontavano accusa e difesa? Tre. Sì, avete letto bene: tre, di cui solo una costantemente. Pubblicità del processo? Ma non diciamo bubbole. Dico così, eh, senza accusare nessuno, solo per spiegare qual è lo scrupolo professionale di noi cronisti. Detto questo, voglio capire: noi giornalisti dobbiamo quindi sentirci parte di una squadra, guidata dai vertici dell’Ordine dei giornalisti, che si schiera contro la legge, contro la Costituzione, e vuole il mercato libero della gogna e del pettegolezzo?

Se qualcuno di noi – magari una ventina…- volesse dissociarsi che cosa potrebbe fare?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'analisi sulla nuova normativa. La presunzione d’innocenza non è un bavaglio alla stampa ma un diritto. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 16 Dicembre 2021. Il 14 dicembre scorso è entrato in vigore il Decreto Legislativo per il compiuto adeguamento della normativa italiana alle disposizioni della direttiva dell’Unione europea numero 343 del 2016, sul rafforzamento della presunzione d’innocenza. Il termine fissato dal testo europeo era il 1° aprile 2018. Il nostro Paese giunge, pertanto, a recepire la direttiva dell’Ue con un ritardo di oltre tre anni. Invero, nella nostra Costituzione – e quindi dal 1948 – vi è già il principio di “non colpevolezza”, indicato dal secondo comma dell’articolo 27: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Si rafforza, dunque, un elemento cardine di civiltà giuridica e sociale, che dovrebbe essere di pacifica evidenza. Ma così non è! Non a caso, infatti, in questi giorni si è riacceso il dibattito sulla libertà di stampa, sul diritto di cronaca, sulla necessità d’informare l’opinione pubblica in relazione al secondo comma dell’articolo 21 della Costituzione, che prevede che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Invero, il primo comma del medesimo articolo disciplina la “libertà di pensiero” e recita testualmente: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Il secondo comma non può che essere messo in relazione con il primo, nel senso che ai media non può essere impedito di esprimere opinioni e devono essere liberi da qualsiasi bavaglio che ne condizioni la libertà. È questo un fondamento imprescindibile di civiltà, che non può certamente essere soppresso. Siamo, però, nel campo della libertà di opinioni e non certo in quello della cronaca giudiziaria, che consiste nell’informare l’opinione pubblica di fatti veri e di pubblico interesse. Il nodo da sciogliere è, quindi, se il diritto di cronaca può essere ritenuto forma di manifestazione del pensiero. Lascio al lettore il giudizio, non è sulle pagine di un giornale che la questione può essere approfondita. Vale la pena, invece, verificare quali siano le indicazioni di “rafforzamento” del principio di non colpevolezza, ovvero di presunzione d’innocenza, che la norma appena entrata in vigore stabilisce. Innanzitutto il decreto non coinvolge gli organi d’informazione, ma esclusivamente le autorità pubbliche. Queste hanno il divieto d’indicare come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con provvedimento di condanna definitivo. Vengono poi rivisti i rapporti tra le Procure della Repubblica e gli organi d’informazione, nel senso che il procuratore capo, ovvero un suo delegato, potrà informare esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare e motivata rilevanza pubblica dei fatti, con conferenze stampa. La diffusione delle informazioni sui procedimenti penali è consentita, inoltre, solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o se ricorrono altre specifiche ragioni d’interesse pubblico. In ogni caso le persone coinvolte non possono essere indicate come colpevoli. Ove ciò non avvenga, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione resa ed eventualmente il risarcimento del danno causato dalla notizia. L’autorità dovrà provvedere, non oltre le 48 ore dalla richiesta, alla rettifica che deve essere resa pubblica con le stesse modalità della dichiarazione. Letta la norma, dunque, non può certo affermarsi, come qualcuno ha fatto, che si è voluto limitare il diritto di cronaca, ovvero mettere il bavaglio alla stampa. I media restano liberi di pubblicare le notizie che ricevono. Il giusto limite è stato messo alla fonte, che ha il dovere di tutelare la persona indagata che, non solo non dovrà far apparire come colpevole, ma dovrebbe ritenere, anche nel corso dell’indagine espletata o da espletare, innocente e da tutelare sempre e in ogni caso, perché spetterà poi ai giudici valutare gli atti del procedimento e giungere a sentenza. Una rivoluzione culturale che sarà difficile da ottenere. Solo pochi giorni fa, su un quotidiano, vi era notizia dell’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di una persona indicata con nome e cognome e subito dopo veniva precisato «…il provvedimento è in corso di notifica». Tra il dire e il fare, nel nostro Paese ci sarà sempre il mare… Riccardo Polidoro

Se le toghe diventano fan della libertà d'informazione. Luca Fazzo il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. E adesso, improvvisamente, i magistrati si scoprono fan della libertà di informazione. E adesso, improvvisamente, i magistrati si scoprono fan della libertà di informazione. Si tratta degli stessi magistrati che - con poche, lodevoli eccezioni - fino a ieri amavano così tanto i diritti della stampa da querelare ad ogni piè sospinto chi osasse anche timidamente criticarli. E che oggi invece in convegni e interviste si preoccupano delle esigenze dell'informazione messe a rischio dal decreto legislativo che l'8 novembre scorso ha cercato di riportare un po' di civiltà nei rapporti tra giustizia e informazione. Un decreto cui l'Italia era obbligata da una direttiva europea, ma che secondo le toghe è andato ben oltre il mandato di Bruxelles. In realtà il decreto dice poche e in fondo banali cose: che le notizie degli arresti e di quant'altro le può dare solo il capo della Procura, e che non può darle in corridoio o chiacchierando con questo o quel cronista, ma con una conferenza stampa o con un comunicato; che può farlo solo se la notizia ha rilievo pubblico; e che dando la notizia si dovrà rispettare il criterio costituzionale della presunzione di innocenza, quella buffa cosa per cui un malcapitato ha diritto di non essere considerato colpevole finché non lo si dimostra: in un processo, e non in un mandato di cattura o in un talk show. Sono misure così ovvie da rendere fondato il timore che cambierà poco: chi ama spifferare lo scoop al reporter contiguo continuerà a farlo, perché in 75 anni di repubblica non un solo magistrato è stato condannato per fuga di notizie; e il tributo alla presunzione di innocenza diventerà un vezzo formale, un preambolo di prammatica alle conferenze stampa; esaurito questo fastidio, per la serie «Bruto è un uomo d'onore», si tornerà a presentare come prove quelle che nessun giudice ha ancora ritenuto tali, e a offrire in pasto all'opinione pubblica semplici indagati. Il decreto appartiene insomma a quella cerchia di norme nobili e inutili su cui in genere nessuno storce il naso. Eppure l'indignazione serpeggia tra i magistrati; specie (e non a caso) tra i pubblici ministeri, che temono l'affievolirsi dei riflettori sul teatro delle manette. In un convegno, uno di loro ha detto che la conferenza stampa in «certi territori» serve a «rappresentare la presenza dello Stato». Un altro ha detto che «ci si dimentica che il pm fa indagini anche a favore dell'indagato». La cosa dolorosa è che nessuno è scoppiato a ridere...

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

«Non è un bavaglio, e i magistrati non sono i tutori della morale». Maddalena (Anm): «Il sistema giudiziario deve parlare all'esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico». Simona Musco su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. «Nessun magistrato dovrebbe mai ricoprire il ruolo di moralizzatore, non gli compete assolutamente. Ha un ruolo diverso: ricerca le prove, la verità, accerta i fatti e rende giustizia nell’interesse dei cittadini. Non è compito del magistrato esprimere giudizi morali». A dirlo al Dubbio è Alessandra Maddalena, vicepresidente dell’Anm ed esponente della corrente Unicost, secondo cui «il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico: la giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno».

Oggi entra in vigore il decreto legislativo che disciplina la diffusione di informazioni sulle indagini giudiziarie. Come interpreta questa novità?

Lo spirito di fondo è assolutamente condivisibile. L’informazione giudiziaria è necessaria, in quanto è uno strumento di controllo democratico del modo in cui viene esercitata la giustizia. E sicuramente è importante anche informare sui successi investigativi, perché serve a rafforzare la fiducia dei cittadini e la loro voglia di collaborare. In questo modo, in certi territori, si combatte l’omertà e non lasciamo soli i magistrati di trincea, che rischiano la vita. Ma l’altro aspetto del discorso è la tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato fino a sentenza definitiva.

Il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico, al sensazionalismo. Che produce l’effetto contrario: abbassare la fiducia nella giurisdizione, perché può creare l’impressione che si vada in cerca di popolarità attraverso l’indagine e che la stessa sia uno strumento per costruire carriere. La giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno.

Cosa bisogna fare per scongiurare abusi e strumentalizzazioni?

È necessario che l’informazione sia resa sempre in maniera chiara, continente, sobria, evitando anche giudizi morali, che talvolta leggiamo anche in atti giudiziari e che poi vengono portati all’esterno. Bisognerebbe anche intervenire sulla formazione, a partire dalla Scuola superiore della magistratura. Il primo dovere del magistrato è rendere un’informazione corretta, perché un’informazione impropria può essere resa ancora più scorretta da un’eventuale alterazione ed enfatizzazione, producendo una visione totalmente distorta della giustizia e creando nel pubblico la certezza di colpevolezza di chi è indagato, con la lesione della presunzione d’innocenza.

Quando nella fase delle indagini si utilizza questo tipo di comunicazione potrebbero rimanerne vittima anche i giudici e si potrebbe dare l’immagine di una giurisdizione arbitraria, perché di fronte ad una aspettativa di condanna, un’assoluzione fa nascere un sentimento di diffidenza. E il problema è talmente serio che anche il Csm, nel 2018, aveva dettato delle linee guida proprio sulla corretta comunicazione istituzionale, segnalando la necessità di una comunicazione essenziale e oggettiva.

Alcuni magistrati hanno interpretato questa direttiva come un bavaglio, sia per le toghe sia per la stampa. Cosa risponde ai suoi colleghi?

Non mi sento di parlare di bavaglio e non immagino che l’intento del legislatore fosse quello di imbavagliare qualcuno, ma di attuare una direttiva che voleva un rafforzamento della tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato. Se poi mi chiede se questo strumento possa realizzare questo obiettivo o non possa produrre addirittura effetti pregiudizievoli allora le dico che qualche dubbio lo nutro.

Perché?

La modalità di comunicazione è stata ristretta al comunicato ufficiale, limitando la conferenza stampa a casi particolari. La cosa di per sé è comprensibile e anche giustificata, perché assicura la comunicazione mettendo gli organi di stampa in parità di condizioni ed evitando la precostituzione di canali riservati con organi di informazione. Ma non lo è in questa forma così assoluta. Neanche la direttiva europea prevedeva questo tipo di restrizione e potrebbero porsi dei problemi quando ci sono situazioni di tale urgenza e rilevanza pubblica per cui da una parte potrebbero non esserci i tempi minimi per organizzare una conferenza stampa e dall’altro potrebbe risultare non efficace un comunicato scritto. Sarebbe stato opportuno quantomeno prevedere un’eccezione nel caso di particolari urgenze. Il dubbio è anche che mettendo paletti troppo stretti in qualche modo le notizie continuino a circolare in maniera poco trasparente, aggirando il problema. Quello della comunicazione è un problema innanzitutto culturale, deontologico.

I rimedi che sono stati introdotti da un lato potrebbero non essere effettivamente risolutivi, perché una volta che una comunicazione errata è stata resa non sarà la rettifica a risolvere il problema e dall’altra parte la stessa rettifica, con la possibilità di ricorrere al giudice con la procedura d’urgenza, probabilmente si traduce in un appesantimento complessivo della macchina giudiziaria, che potrebbe non essere risolutivo davvero. Inoltre la previsione generica di un obbligo di risarcimento del danno potrebbe in qualche modo indurre il magistrato ad ammorbidire sempre la propria posizione per evitare azioni risarcitorie in caso di dichiarazioni extrafunzionali, ma anche nei provvedimenti cautelari: si potrebbe essere indotti ad evitare delle espressioni più decise, anche se funzionali alla motivazioni sulla gravità indiziaria, per non incorrere nella violazione di quella regola non chiarissima introdotta nel decreto e quindi evitare richieste strumentali di correzione di passaggi semplicemente sgraditi all’indagato.

Il procuratore de Raho, in un’intervista, sostiene che i magistrati devono stare fuori dai circoli mediatici. Eppure ci sono magistrati molto esposti mediaticamente.

Condivido le dichiarazioni del procuratore e il giudizio negativo sulla spettacolarizzazione e l’eccessiva presenza dei magistrati nei talk show televisivi, che non credo assolutamente serva a rafforzare la credibilità della giustizia o a recuperare il prestigio dell’ordine giudiziario. Sensazionalismo e protagonismo sono da respingere. E penso alle parole di Livatino, che parlava del magistrato che lavora nelle sue stanze senza preoccuparsi di apparire. Il magistrato deve dare l’immagine di chi è alla ricerca della giustizia, in un senso o nell’altro, né colpevolista né innocentista, ma in maniera oggettiva, nella sostanza e nella comunicazione.

Lo schiaffo della Rai alla presunzione di innocenza. Sigfrido Ranucci sfida Cafiero de Raho: per Report la legge non conta, l’imputato è colpevole. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Bel colpo della Rai, nel giorno in cui entra in vigore la legge sulla presunzione di innocenza, nelle stesse ore in cui il procuratore nazionale antimafia denuncia come “patologia del giustizialismo” e “sollecitazione a una giustizia sommaria” certa stampa. Proprio nello stesso giorno il servizio pubblico emette una sentenza di condanna nei confronti dell’avvocato Giancarlo Pittelli, oltre a tutto per fatti per cui non è neppure indagato. Bel colpo, da parte di chi ci estorce ogni mese il canone in bolletta, cioè il servizio di cui ogni cittadino è finanziatore. Dobbiamo per forza sostenere economicamente Report e la sua puntata di lunedi sera, così come quella di Presa Diretta del marzo scorso? E la Commissione di vigilanza ha qualcosa da dire?

Giancarlo Pittelli è un cittadino innocente. Non colpevole secondo la Costituzione, per la precisione. Imputato solo del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. Arrestato tre volte con una pervicacia torturatrice di stile egiziano. Vittima costante di gogna mediatica, nonostante la Costituzione, nonostante le leggi. Viviamo in un Paese in cui, per costringere la magistratura ad applicare i principi della Carta fondamentale, dobbiamo aspettare le ripetute condanne da parte della Corte Europea e poi anche far approvare dal Parlamento leggi specifiche. In poche parole, per convincere il procuratore di Catanzaro, che ha già dichiarato di infischiarsi della Cedu e delle leggi sulla presunzione di innocenza (e almeno lui non è un ipocrita) a non denunciare in conferenze stampa gli indagati come già colpevoli, dobbiamo metterlo nero su bianco. Se no, né lui né i suoi colleghi lo capiscono. Quindi tutto continuerà come prima, nelle aule di giustizia così come in quelle dei cronisti giudiziari? A giudicare da quel che è successo il primo giorno dell’entrata in vigore della nuova legge, pare proprio di si.

Giancarlo Pittelli entra nella puntata di Report mentre una musica assordante, di quelle dei più trucidi film di Netflix, accompagna la parola “Potere”. Si parla di Monte dei Paschi, di Banca D’Italia, di traffico di diamanti e c’ è sempre il Buono contro i Cattivi, quando improvvisamente si annuncia l’ingresso di “Lui”, il Potere. E ha la faccia dell’avvocato Pittelli. Il viso compare e resta sullo schermo per un bel po’. Non è tanto rilevante la storia che viene narrata, che non pare aver nulla di illegale, e che parla di un progetto di costruzione di un centro turistico su terreni di sua proprietà a Copanello, sulla costa jonica della Calabria, quanto la presentazione del personaggio. Una sorta di scheda biografica che pare un mattinale di questura. Il conduttore Sigfrido Ranucci, che pare sempre accaldato nella fatica della sua lotta di Puro contro gli Impuri, è accompagnato da un altro giornalista di quelli che amano e si indentificano con la toga del pm, Pietro Comito dell’emittente calabrese Lactv.

Ecco come il combinato-disposto giornalistico presenta il cittadino innocente Giancarlo Pittelli: anello di congiunzione tra poteri forti, massoneria, ‘ndrangheta e finanza. Naturalmente pare obbligatorio citare esponenti delle famiglie Piromalli e Mancuso come persone assistite professionalmente dall’avvocato “fin dal 1980”. Il che deve essere un grave reato, secondo la solita vulgata sbirresca dell’ottocento, per cui se l’imputato deve essere identificato con il reato per cui lo si accusa, a maggior ragione tale commistione deve valere per il legale. Mafioso l’assistito, mafioso l’avvocato. Peggio ancora se questi è anche “anello di congiunzione” tra ambienti sospetti quanto la ‘ndrangheta, cioè la massoneria e la finanza. Tutti delinquenti. E chi lo dice che l’avvocato calabrese svolge questo ruolo così importante? Lo dice il procuratore Gratteri, naturalmente. Ah, ma parliamo della stessa persona che nei giorni scorsi ha già detto di considerarsi “legibus solutus” e di conseguenza di non tenere in nessun conto le decisioni del Parlamento? Lo stesso che nella trasmissione di Riccardo Iacona del marzo scorso ha parlato in lungo e in largo, intervistato ben sei volte nel corso della puntata, dell’inchiesta “Rinascita Scott” di cui lui stesso è titolare?

Le premesse ci sono tutte perché la svolta garantistica sulla presunzione d’innocenza fortemente voluta dalla ministra Cartabia sia una strada tutta in salita. Troppo antica, almeno trentennale, è la complicità tra la casta dei pubblici ministeri e quella dei giornalisti fondata sul mercato nero delle notizie coperte da segreto e delle intercettazioni. Tanti cronisti ci campano e ci fanno carriera, anche perché ormai nessun editore o direttore chiede più loro di saper scrivere e parlare in buon italiano per essere assunti e poi emergere nella professione. Si chiede lo scoop, e quello te lo può dare solo il rappresentate del vero potere, il magistrato. La moneta di scambio per il pm che ti rifila le notizie sottobanco, che ti passa le intercettazioni, che ti fa virgolettare le ordinanze (così si sommano i due analfabetismi) è la sua visibilità.

La popolarità che un domani lo può portare anche alla carriera politica. Sarà possibile spezzare questo vincolo “mafioso” con una legge che vieta le conferenze stampa ma, come ogni forma di proibizionismo (anche quello più ricco di buone intenzioni) non può rompere il contrabbando e il mercato nero? Difficile, a vedere quel che è successo il primo giorno. Difficile, ma non impossibile, se è sceso in campo addirittura il procuratore nazionale antimafia. Ora aspettiamo i vertici dell’Ordine e dell’Associazione dei giornalisti. Coraggio, colleghi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La polvere sotto il tappeto. Certi pm sono come i sicofanti: quanto fango in nome della giustizia. Otello Lupacchini su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Non posso nascondere di nutrire delle remore a condividere le riflessioni alle quali mi ha indotto la rilettura, a quasi quindici anni dalla sua pubblicazione, dell’interessante saggio di Clarine Doganis, Aux origine de la corruption (edito da Presses Universitaires de France, Paris. 2007). I numeri impietosi delle statistiche, anche le più recenti, certificano il disastro culturale dell’Italia e, oltre tutto, gli italiani hanno un’idea assai distorta della realtà: nessuno si scandalizza più per le troppe esilaranti affermazioni «storico-scientifiche-sanitarie» dei detentori del potere; al contrario, la denuncia dell’ignoranza e dell’incompetenza di chi ci governa è considerata orgoglio da establishment, reazione aristocratica di una classe dirigente moralmente corrotta, che complotta contro «il governo del cambiamento».

Chiunque abbia il consenso della maggioranza degli elettori, o riesca comunque a manipolare l’opinione pubblica è libero, insomma, di dire e di fare qualsiasi cosa gli venga in mente: la verità non è più adaequatio rei et intellectus, ma adaequatio rei et consensus. Il che è la base epistemologica del totalitarismo. In breve, viviamo in tempi in cui il più banale, il più fiacco e risaputo dei disegni è cambiare gli uomini a ceffoni, riformare il mondo a bastonate; in cui del normale endemico pregiudizio si fa una dottrina, sublimando il carbone del mugugno e dell’intolleranza stracciona; in cui il «popolaccio» si eccita ad ascoltare discorsi da osteria elevati ad altezze sataniche, ballando in essi il demone della volgarità, della mezza cultura, del rancore nei confronti di tutti quei fantasmi che, nelle bettole di tutto il mondo, hanno sempre incarnato la diversità e lo spavento culturale, tanto più minacciosi quanto più indecifrabili: «Potessi sbatterei tutti al muro!» biascica il filosofo da birreria, picchiando il pugno sul tavolo, con la bocca impastata e l’occhio a palla; e «Popolo» è la parola magica, l’«Apriti Sesamo» del demagogo, la chiave di volta dei discorsi da osteria.

Da medio intellettuale educato in ottime scuole, abituato, dunque, a piatti metafisici ben più ricchi e raffinati, mi rifiuto di accettare la brutalità eretta a sistema di giudizio, l’odore rancido della banalità fatto supremo criterio del gusto, la mediocrità elevata a «Spirito Assoluto».

Rompo, pertanto, ogni indugio, ponendo un’imprescindibile premessa: il tema affrontato nel libro della Doganis, la corruzione, sollecita senz’altro, la curiosità del lettore, facendo subito pensare a coeve «affaires» sia in Francia sia in altre democrazie occidentali, non ultima l’Italia; inoltrandosi nella lettura, però, ci si accorge che l’oggetto del saggio non ha nulla a che vedere con un «mondo degli affari» inesistente nell’Atene classica, ma è la conseguenza, piuttosto, di una peculiare caratteristica del sistema giudiziario ateniese: il posto accordato in esso alla pratica dell’accusa pubblica volontaria, la «sicofantia». Il che induce a convenire con Leonardo Sciascia, per il quale «Il problema della giustizia è sempre esistito; e chi c’è andato dietro ne ha scoperto le assurdità, le corruzioni, insomma tutto quello che noi sappiamo (…)». L’età dell’oro dell’impegno civile, della partecipazione alla vita pubblica, dei dibattiti costruttivi che consentono a ognuno di prendere la parola, come s’immagina accadesse nell’Atene dell’epoca classica, avverte Carine Doganis, è riferimento familiare a politologi, filosofi, storici o giuristi, all’interno di una tradizione preoccupata di accertare le origini delle moderne democrazie, che guardano quel «modello» da un punto di stazione quasi esclusivamente positivo, spesso trascurando schiavitù, esclusione delle donne e degli stranieri, imperialismo a spese degli altri greci. Non v’è dubbio, tuttavia, che anche a causa delle sue derive, delle sue défaillances e delle sue crisi, la democrazia antica, tanto generosamente idealizzata, possa servire comunque da modello per comprendere meglio l’odierna politica.

A partire dalla metà del V secolo a.C., il ruolo centrale dei tribunali popolari e dell’accusa volontaria nel sistema politico ateniese provocò un vivace dibattito sugli abusi legali, i cui riflessi si colgono con chiarezza sulla scena comica: in primo piano è, per l’appunto, la maschera del Sicofante, campione dell’inganno perpetrato ai danni del demos, avido delatore che coglie ogni occasione, grazie alla sua abilità retorica, per accrescere le proprie ricchezze a scapito della polis. Ed è questo l’indicatore d’analisi adottato dal libro della Doganis: a seconda del modo in cui si ricorreva all’accusa pubblica volontaria, l’istituzione poteva funzionare come un pubblico ministero «cittadino» o, al contrario, trasformarsi in delazione. Poiché essa, di volta in volta, era tanto il risultato del ricorso da parte del cittadino a un’istituzione concepita all’origine come eminentemente democratica, quanto il sintomo della corruzione di questa stessa istituzione, la sicofantia pone la questione dell’affidabilità istituzionale. La delazione, peraltro, mette in evidenza la corruzione dell’ideale di una società affidabile, che era quella della città di Atene all’epoca classica, che si ritroverà nell’ideale di trasparenza tipico delle democrazie contemporanee.

Fonte privilegiata alla quale attingere sono le commedie di Aristofane, che mettono assai bene in evidenza le criticità della democrazia ateniese: l’ignoranza dei governanti, la mancanza di scrupoli morali in alcuni di essi, l’interesse dei giudici per il denaro o la libertà di parola concessa ai meteci e agli schiavi. Se Gli Acarnesi e I Cavalieri aggrediscono rispettivamente la politica estera e la politica interna della democrazia ateniese, ma anche l’assemblea e l’esecutivo, è Le Vespe, invece, a mettere sotto accusa l’altro cardine del sistema, il potere giudiziario. Tutto il teatro di Aristofane è, del resto, attraversato dall’attacco a tale sistema, che non si focalizza tanto sulla sua negatività etico-politica, data per scontata, ma si scarica sulla proliferazione dei processi implicante un’esclusività all’interno delle attività pubbliche degli Ateniesi, qualcosa, insomma, di equivalente nella dimensione collettiva alla mania del singolo, che occupa l’interezza del suo spazio emotivo. Così, se ne Gli Acarnesi (v. 375), Diceopoli mette sotto accusa i vecchi Ateniesi che «Non badano a niente altro che a mordere con il voto»; nel quadro panellenico di Pace, il rimprovero di Ermes agli Ateniesi è «non fate altro che processi» (v. 505); ne Le Nuvole, l’illetterato Strepsiade non riconosce Atene sulla carta geografica, perché, spiega, «non vedo i giudici in seduta» (v. 208); Evelpide, ne Gli Uccelli, motiva con l’ossessione giudiziaria il disgusto ormai irreversibilmente maturato nei confronti di Atene: «le cicale cantano sui rami un mese o due; gli Ateniesi cantano nei tribunali per tutta la vita» (vv. 39-41).

Il testo de Le Vespe indaga con sottigliezza e in profondità la relazione tra politici e giudici, leggendola non nei termini anodini dell’alleanza, ma in quelli di strumentalizzazione: «Vogliono che tu sia povero, e ti dirò il motivo: così ti abitui a riconoscere il padrone, e quando fischia per aizzarti contro un suo nemico, tu gli salti addosso furiosamente» (vv. 703-705). Evidente come ci si trovi nel bel mezzo della polemica politica, il cui presupposto è che la giustizia viene gestita, cioè mistificata, non secondo principi etici, ma secondo l’interesse della parte politica dominante. Nella folgorante intuizione che il fine delle malversazioni private risulta essere non solo il personale profitto, ma l’impoverimento delle masse, si saldano il motivo economico e quello politico: l’indigenza dei giudici è l’esito di uno scaltro calcolo dei demagoghi inteso a convertire la loro frustrazione in rabbia da indirizzare nei processi contro i propri avversari politici. Già ne I Cavalieri, del resto, Demo ringiovanito veniva invitato a prendere posizione contro le malversazioni giudiziarie (vv. 1358-1360).

La persistente polemica di Aristofane verso il sistema giudiziario, come accennato, si saldava e insieme si determinava nella demonizzazione ancora più frequente del Sicofante, che, sebbene teoricamente utile alla causa dello Stato, con il suo eccesso di zelo, se non anche con i suoi abusi legali, incarnava un tipo di comportamento decisamente inviso, se non addirittura nocivo, alla società ateniese: «odiare il sicofante», che nell’immaginario della polis costituiva l’ipostasi delle più diffuse e palesi espressioni distorsive dell’amministrazione della giustizia, era, come ricordava Aristotele, un sentimento condiviso da «tutti» (cfr. Retorica, 1382a.6-7). È forse temerario intravvedere in tutto ciò una certa analogia con il presente?

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Giudici contro pm-star, la nuova battaglia in magistratura. C’è qualcosa di più profondo che agita le toghe, e le cui tracce si possono scovare nello scontro latente tra pm e giudici. I quali hanno da tempo capito che l'indagato non è l'unica vittima del protagonismo mediatico di alcune procure. Davide Varì su Il Dubbio il 14 dicembre 2021. Tira una strana aria in magistratura, un clima da resa dei conti. E non parliamo di guerre di potere, di nuove galassie correntizie in conflitto tra di loro per riempire il vuoto lasciato dal sistema Palamara. Questa è una lettura effimera, frivola, buona per qualche bel titolo a effetto. C’è qualcosa di più profondo e delicato che agita le toghe, e le cui tracce si possono scovare nello scontro latente – sempre meno latente e sempre più esplicito per la verità – tra pm e giudici, tra requirenti e giudicanti, e i cui effetti sono visibili anche in Anm. I giudici hanno infatti capito da tempo che l’indagato – presentato come colpevole ben prima di un semplice rinvio a giudizio – non è l’unica vittima del protagonismo mediatico di alcune procure; l’altro bersaglio è il giudice stesso che, dopo lo show del collega, si ritrova a fare i conti con quella massa di accuse in un’aula di tribunale, a testare la tenuta del materiale probatorio e a decidere se accoglierla o respingerla: se condannare gli imputati o se invece assolvere. Insomma, la smania di visibilità mediatica di alcuni pm non è solo una sbavatura istituzionale e una scorrettezza nei confronti dell’indagato; questo protagonismo mette infatti in moto anche una pressione mediatica che cade tutta sulla testa di chi dovrà giudicare. Lo ha detto in modo ancora più cristallino il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho nel corso del recentissimo convegno organizzato da Unicost, e ripetuto alla Stampa di ieri nella bella intervista di Francesco Grignetti: «L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa – ha spiegato De Raho – rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria». E poi, ancora più esplicito: «Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione. Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o che anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti».

Insomma, è difficile spiegare un’assoluzione quando per mesi, spesso anni, i pm hanno occupato con la propria inchiesta giornali, talk show e social. Ma qualcosa si muove e l’impressione è che il vuoto lasciato dal “Sistema” Palamara, tutto puntato sui pm e su una visione colpevolista della giustizia, abbia favorito la scalata di una nuova generazione di giudici abituati a “parlare solo con le sentenze”. Che poi è quello che dovrebbe accadere in un paese normale.

Parla il procuratore nazionale antimafia. Frecciata di Cafiero de Raho a Gratteri: “Il pm non deve sostenere tesi che orientino la sentenza”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. “Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti”. Mittente: Federico Cafiero De Raho, su La Stampa del 13 dicembre 2021. Destinatario colui che sul Corriere del 23 gennaio 2021 dichiarò: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. ..Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. Ci sono giudici indagati? “Su questo ovviamente non posso rispondere”. Disse il Procuratore.

È un po’ anche per questo -per il ricordo di quell’intervista di quasi un anno fa- che, quando si pensa per esempio a chi ha mandato nel carcere speciale (alta sicurezza 3, quella dei narcotrafficanti) di Melfi, in Basilicata, l’avvocato Giancarlo Pittelli, più che alla dirigenza del Dap o al tribunale di Vibo Valentia, il pensiero corre a “lui”. A colui da cui tutto partì e che –ma sono voci di palazzo di giustizia- nei confronti dell’imputato più illustre della sua inchiesta “Rinascita Scott” nutre un po’ di malanimo, di scarsa simpatia insomma. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. A lui corre il pensiero, anche perché siamo nei giorni in cui è entrata in vigore quella norma che, dando attuazione a un dispositivo imposto dall’ Europa, mette in riga forze dell’ordine e magistratura, procuratori in particolare, sulla comunicazione. Basta conferenze stampa. E guai a presentare l’indagato come colpevole. E se al dottor Gratteri, nonostante almeno due recenti denunce al Csm da parte delle Camere Penali, nessuno ha ancora osato tirare le orecchie, ecco che oggi si prende la briga di farlo, con tono tutt’altro che allusivo, se pur senza fare nomi, il vertice massimo dell’Antimafia, il procuratore Federico Cafiero De Raho, che andrà in pensione proprio nei giorni in cui i grandi elettori sceglieranno il nuovo Presidente della Repubblica.

Un’intervista tagliente, neppure travestita da un pizzico di bonomia, quella rilasciata a La Stampa. Mentre si sta per gettare la toga, si può fare. E non è necessario fare nomi e cognomi. Anzi, obbligatorio precisare che si sta parlando “in generale”. Tanto, non si corre il rischio di esser trattato come Otello Lupacchini, l’alto magistrato che alla quiescenza fu accompagnato da un Csm cui Gratteri evidentemente è più simpatico, mettiamola così. Ma in quel caso non c’era malizia, c’era un giudizio severo su un certo modo di condurre le inchieste, sull’applicazione delle norme del codice di procedura penale, il “codice dei galantuomini”. La malizia di oggi porta a ricordare che il dottor Gratteri nutre come propria massima ambizione quella di andare a occupare, nel mese di febbraio, il ruolo occupato oggi da Federico Cafiero de Raho, capo assoluto dell’antimafia. È il luogo adatto a un procuratore che mostra di sentire quasi come un’offesa personale qualunque sconfessione alla propria ipotesi accusatoria? Forse si, a guardare il comportamento tenuto fino a ora nei suoi confronti, fin dai tempi di Palamara quando ci fu lo scontro con Lupacchini, dal Csm. Inutile girarci intorno. I suoi metodi al Consiglio piacciono, se ne faccia una ragione, dottor Cafiero. E anche le sue dichiarazioni che gettano ombre di sospetto sui tutti i giudici che hanno modificato le decisioni del combinato-disposto pm-gip. Quando, su oltre 224 misure cautelari dell’inchiesta “Rinascita Scott”, circa 200 erano state modificate dal tribunale della libertà e dalla cassazione. Erano tutte “condizionate” da qualcuno di quei giudici? E che iniziative ha assunto a loro tutela il Csm, cui si rivolsero le Camere Penali? Oltre a tutto l’intervista al Corriere della sera era grave non solo per le insinuazioni nei confronti del colleghi del settore giudicante.

L’attenzione in quel momento era infatti concentrata soprattutto sull’informazione di garanzia al segretario dell’Udc Lorenzo Cesa nel momento in cui il premier Giuseppe Conte stava cercando affannosamente voti di parlamentari “responsabili” per tentare il suo terzo mandato, e la piccola truppa dei senatori Udc faceva gola. Le dimissioni di Cesa dalla segreteria del partito aveva bloccato l’operazione politica e poi aperto le porte al governo Draghi. L’attenzione era quindi tutta concentrata sulla domanda: processi a orologeria politica? Non una domanda secondaria. Non si sa se la battuta infida del procuratore Gratteri sui giudici sia stata un’abile mossa per distogliere l’attenzione dall’aspetto politico della vicenda. Di certo il magistrato era riuscito una volta di più a tenere alta l’attenzione mediatica su di sé e sulle proprie iniziative giudiziarie. Fatto sta che il mondo politico era troppo impegnato e fare e disfare maggioranze e lasciò agli avvocati il compito di indignarsi e di gestire lo scandalo. Era già la seconda volta in cui la Camere penali, la loro giunta e lo stesso presidente Gian Domenico Caiazza, intervenivano a causa delle dichiarazioni straripanti e veramente scandalose del procuratore di Catanzaro.

Il 24 dicembre del 2019, pochi giorni dopo il blitz “Rinascita Scott” con 334 arresti e 416 indagati, quell’inchiesta che avrebbe dovuto rendere il dottor Gratteri più famoso di Giovanni Falcone, e il suo Maxiprocesso più importante di quello di Palermo, il procuratore non è contento. Non è soddisfatto perché, nonostante lui sia riuscito a infilare tra gli arrestati un pugno di politici (il più famoso è proprio Pittelli) e di imprenditori, quella che chiama la “zona grigia”, la cinghia di trasmissione tra la mafia e le istituzioni, le notizie non hanno la rilevanza desiderata. Così lui si mette disperatamente a twittare e a lamentarsi. Non le manda a dire. “La mia maxi-operazione scompare dalle prime pagine dei grandi giornali…è stata boicottata, un grave errore, bisognerebbe chieder conto ai direttori delle testate più importanti di questo buco”. Ce l’aveva con Repubblica e La Stampa e più tiepidamente con il Corriere. Non aveva mancato però di elogiare i complimenti che gli avevano elargito gli amici del Fatto quotidiano.

Reazioni politiche? Interrogazioni al ministro? Intervento del Csm? Macché, aumentano solo le interviste. È l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria delle Camere penali a intervenire: “Siamo al parossismo del processo mediatico. Non solo si divulgano notizie sulle indagini come se le ipotesi investigative fossero sentenze passate in giudicato, ma si pretende che i giornali ne parlino in prima pagina”, scrivevano gli avvocati. Non dimenticando di elencare i tanti flop che il procuratore aveva già portato a casa. E oggi, ma due anni dopo quell’esibizione sgangherata e la protesta isolata degli avvocati, il procuratore capo dell’antimafia Cafiero de Raho gli risponde che “…si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative…”. Già, quelle “verità” deformanti che mettono a rischio lo stesso Stato di diritto. Perché “L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa, rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria”, sentenzia Cafiero de Raho. Perfetto, con due anni di ritardo da quel blitz del 19 dicembre 2019 e tutto quello che ne è seguito, compresi i tre arresti dell’avvocato Giancarlo Pittelli.

 Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cafiero de Raho contro i pm “moralizzatori”: «Applichino la legge». Cafiero de Raho non approva l'imminente riforma del Csm: «L'ideale sarebbe il sorteggio, che esclude la possibilità di interferenze da parte di chiunque». Il Dubbio il 13 dicembre 2021. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, prossimo alla pensione, dice sì al sorteggio per l’elezione dei nuovi membri del Consiglio Superiore della Magistratura e approva la normativa sulla presunzione d’innocenza. «Sono perfettamente d’accordo con i principi enunciati dalla direttiva europea. Bisogna escludere dalle nostre comunicazioni qualunque indicazione che possa far apparire come colpevoli i soggetti coinvolti in un’indagine. Personalmente, l’ho sempre fatto ad ogni conferenza stampa che ho tenuto. Ho sempre sottolineato che le responsabilità sarebbero state accertate in modo definitivo solo con le sentenze».

Presunzione d’innocenza, magistrati e Csm: parla Cafiero de Raho

«Abbiamo assistito addirittura a suicidi di persone indagate, che si ritenevano del tutto innocenti. D’altra parte, sapere è un diritto del cittadino. È necessario dare diffusione della notizia di ordinanze cautelari. Ed è necessario che tutto questo avvenga in modo da conseguire la finalità prima delle informazioni, cioè dare al cittadino un senso di sicurezza e di protezione, di efficienza del sistema giudiziario. Aggiungo che in terre di mafia, serve anche mandare il messaggio che delinquere non conviene», ha affermato Cafiero de Raho alla “Stampa” di Torino, ritenendo che il magistrato non è depositario della morale collettiva. Un concetto che il procuratore nazionale antimafia ha spiegato così. «Al magistrato spetta solamente di applicare la legge; è questo il suo dovere, non fare il moralista. L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa, rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria. Probabilmente anche la stampa dovrebbe trovare un maggiore temperamento. Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione».

Infine, il sorteggio del Csm: «Credo che una riforma sia necessaria e su questo sono tutti d’accordo. Penso però che la modalità più lineare e più obiettiva per comporre il Consiglio sarebbe quella del sorteggio, c he esclude la possibilità di interferenze da parte di chiunque. Mi è chiaro che il quadro porta in altra direzione: si vuole modificare la situazione, ma non nella direzione del sorteggio. Continuo a pensare, però, che il sorteggio corrisponda esattamente alla capacità del magistrato medio. Non mi scandalizzerei, anzi credo che sarebbe la modalità attraverso cui escludere qualunque eccessiva interferenza o condizionamento».

Il PD lo scaricò dopo l'indagine. Pittella assolto dopo 3 anni da “mostro in prima pagina”: l’ex governatore arrestato e costretto a dimettersi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. Giustizia è fatta, ma a che costo? Marcello Pittella, ex presidente della Regione Basilicata, è stato assolto dal tribunale di Matera nell’ambito del processo su quella che era stata nominata ‘Sanitopoli lucana’, in cui era accusato di falso e abuso d’ufficio in un’inchiesta su nomine e concorsi nella sanità regionale.

Per Pittella, attualmente consigliere regionale del Partito Democratico, il pm Salvatore Colella aveva chiesto tre anni di reclusione. Di diverso avviso i giudici, che hanno assolto l’ex governatore. 

Le accuse nei confronti di Pittella, fratello del senatore Dem Gianni, era gravissime ma evidentemente non hanno retto nel processo: nell’ordinanza l’ex governatore era definito dal gip, che accolse le tesi della procura, il “deus ex machina” di una “distorsione istituzionale”. Secondo gip e procura Pittella aveva “influenzato le scelte gestionali delle aziende sanitarie e ospedaliere interfacciandosi direttamente con i direttori generali che sono stati nominati con validità triennale dalla sua giunta”.

Pittella venne anche arrestato e posto agli arresti domiciliari nel luglio 2018 e nel gennaio dell’anno seguente si dimise. Ex governatore che venne quindi ‘abbandonato’ dal suo stesso partito: Pittella aveva infatti tentato di ricandidarsi per le Regionali del marzo 2019 alla guida del centrosinistra, dovendo fare marcia indietro per le divergenze nell’alleanza e ‘retrocesso’ dunque alla candidatura per il Consiglio regionale. La Basilicata andò poi al centrodestra, con la vittoria di Vito Bardi. 

Commosso, Pittella uscendo dal Palazzo di Giustizia di Matera ha ricordato gli “anni difficili, duri, sono stato un mostro sbattuto in prima pagina. Ma ho sempre avuto la fiducia che il tempo potesse restituire la verità”. L’ex presidente lucano ha quindi ringraziato  suo avvocato, Donatello Cimadomo, che “mi ha consegnato una grande gioia”.

Ovviamente soddisfatto anche il fratello, il senatore Dem Gianni Pittella: “Mio fratello Marcello assolto da ogni accusa. Tre anni di calvario, mediatico-giudiziario. Sono molto felice per lui, per il nome che portiamo, per la memoria di mio padre, per le sofferenze di mia madre. Sono felice e non so dire altro”.

Partito Democratico che, dopo averlo scaricato nella corsa alla Regione, oggi plaude all’assoluzione dell’ex governatore. “L’assoluzione di Marcello Pittella è una bellissima notizia. Abbracciamo Marcello che ha provato la sua innocenza affrontando a testa alta il processo, dimostrando l’infondatezza delle pesanti accuse ricevute. La sua comunità politica lo aspetta per riprendere il cammino interrotto. In questi anni abbiamo assistito a storie simili a quella che ha toccato Marcello e ciò è fonte di una preoccupazione a cui e’ necessario dare risposte chiare e inequivoche”, dice Enrico Borghi, della segreteria Dem.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Pittelli: «Contro di me campagna mediatica senza precedenti».  Nuova lettera di Giancarlo Pittelli dal carcere di Melfi. L'ex senatore: «Mi hanno dipinto in maniera totalmente distorta: nessuno ha voluto sentirmi». Il Dubbio il 20 dicembre 2021. Rompe il silenzio Giancarlo Pittelli, l’ex parlamentare imputato cardine del maxi processo “Rinascita Scott” contro la ’ndrangheta. Pittelli è intervenuto in udienza nell’aula bunker di Lamezia Terme in videocollegamento dal carcere di Melfi, dove si trova detenuto. Il primo aspetto ha riguardato la lettera inviata al ministro Mara Carfagna che gli è costata il carcere per avere violato le restrizioni degli arresti domiciliari: »Ho scritto la lettera ad una vecchia amica ed è stata vista con una improbabile e grave violazione che è stata sanzionata con durezza e severità. I contenuti di quella lettera, nella parte in cui fanno riferimento alla disattenzione della giurisdizione a favore della pubblica accusa – ha aggiunto Pittelli – non hanno nulla a che fare con il collegio. Ma si riferivano alla fase della misura cautelare lunghissima che io ho subito. Non ho mai tentato di intervenire nel processo e per il processo – ha proseguito – e vi spiegherò, quando i miei avvocati mi autorizzeranno a rendere dichiarazioni spontanee nel merito della vicenda, le ragioni per le quali lamentavo e lamento ancora un trattamento particolare e immotivato».  Pittelli, che è anche un noto penalista, ha poi detto: «Da dicembre 2019 esisto solo negli atti del processo e nei servizi televisivi e giornalistici che hanno inteso rappresentarmi in maniera completamente distorta. Sono stato sottoposto ad una campagna mediatica che in 43 anni di professione non ho mai visto. Esisto da dicembre 2019 solo negli atti e nel clamore mediatico creato anche e non solo per questioni di audience e di notorietà. La mia voce non è stata ascoltata da alcuno. L’avvocato Staiano (suo difensore, ndr) – ha concluso Pittelli – sostiene che avessero accordi sul fatto che io non venissi interrogato, io non ne conosco la ragione e pensavo diversamente».

Alfonso Sabella: «Io, pm finito alla gogna, dico: basta massacri mediatici». Simona Musco su Il Dubbio il 13 novembre 2021. Intervista ad Alfonso Sabella, il magistrato accusato ingiustamente per il G8: «Ora una riforma per ripulire gli atti d’indagine da quanto serve solo a infangare». «Ho capito sulla mia pelle quanto sia importante la presunzione d’innocenza. Dobbiamo valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza alcun riferimento al procedimento penale». A parlare della pubblicazione degli atti del caso Open è Alfonso Sabella, ex magistrato del pool antimafia di Palermo che catturò Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Pietro Aglieri, oggi giudice a Napoli. Che chiarisce: il Fatto quotidiano non ha commesso nessun illecito nel rendere note le strategie di Matteo Renzi per contrastare i propri avversari. Ma «c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e se necessario vanno introdotti dei limiti».

Gli atti pubblicati dal Fatto Quotidiano su Renzi sono, da un lato, un documento di enorme interesse per l’opinione pubblica, ma dall’altro rimangono comunque privi di rilievo penale. C’è un cortocircuito tra diritto all’informazione e privacy?

Quando gli atti sono noti all’indagato viene meno qualunque tipo di divieto di pubblicazione, ma è chiaro che ci muoviamo in un terreno minatissimo, in cui, da un lato, c’è l’interesse all’accertamento della verità da parte della procura e, dall’altro, l’interesse all’informazione in ordine a notizie che possono avere un interesse pubblico. Ma c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e credo che, in certi casi, vada rispettata. Le faccio un esempio: quando arrestai Pietro Aglieri, numero due di Cosa Nostra, ci riuscii seguendo un prete che andava a dire messa nel suo covo. Feci settimane di intercettazioni delle telefonate di quel convento e quelle telefonate, che non erano rilevanti, le ho mandate al macero. E nessuno le ha mai conosciute, ancorché ci potessero essere delle cose pruriginose che potevano interessare a varie persone. Occorrerebbe verificare se non ci siano spazi per introdurre, in qualche caso, dei divieti di pubblicazione. Penso, ad esempio, alle notizie che riguardano i conti correnti bancari.

Anche questo è avvenuto nel caso che riguarda Renzi. Si sarebbe potuto evitare?

Se non è utile ai fini dell’indagine, per quale ragione renderli noti? Dovrebbero esserlo solo i dati che vengono utilizzati nel provvedimento cautelare, ai fini del rinvio a giudizio o ai fini della prova nel procedimento penale. Ammettiamo che in un conto corrente ci sia un addebito per una notte in albergo con l’amante: perché dovrebbe venire a saperlo la moglie? Mi sono confrontato spesso con dati di questo tipo e ho cercato sempre, per quanto consentitomi dalla legge, di mantenerli riservati. Ma è chiaro che non posso fare una valutazione del genere da solo. Come pm posso cercare di omettere cose di questo tipo, ma quello stesso dato potrebbe essere utile alla difesa. E questa, però, a volte diventa la foglia di fico per utilizzare o pubblicare dati riservati.

Come si potrebbe fare?

Per le intercettazioni telefoniche è prevista, ad esempio, un’udienza stralcio in cui, sostanzialmente, la difesa evidenzia quali sono i file che possono servire e quali, invece, possono essere mandati al macero. Probabilmente, per altri dati sensibili che vengono acquisiti nel corso delle indagini, bisognerebbe pensare a qualcosa di questo tipo.

Secondo lei è fattibile?

Il problema è che tutto questo va fatto avendo un occhio al funzionamento del processo penale, perché introdurre ancora paletti e limiti significa andare a gravare su un’unica figura processuale: il gip. O si capisce che i gip devono essere tanti quanto i pm oppure faremo un buco nell’acqua, perché il sistema non potrà mai reggere. Se vogliamo delle riforme che tutelino realmente il diritto all’informazione, il diritto alla privacy e l’esercizio dell’azione penale, allora dobbiamo cercare di avere una struttura che sia in grado di gestire tutto questo. Perché tutto va fatto, ovviamente, nel contraddittorio delle parti: tornando all’esempio di prima, magari quella ricevuta che attesta un tradimento viola la privacy, ma può essere l’alibi per una persona accusata di omicidio. E per carità, mi rendo conto che non è bello, ma forse bisognerebbe anche introdurre qualche divieto di pubblicazione.

C’è il rischio anche di entrare a gamba tesa nelle strategie politiche di un partito, deprecabili o meno che siano?

Faccio un esempio brutale: quando ero assessore alla legalità, l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino decise di pubblicare le sue spese, i famosi scontrini, senza consultarmi. Ed è una cosa che non gli perdonerò mai, perché se mi avesse consultato glielo avrei impedito.

Per quale ragione?

Per la violazione della privacy del commensale. Per quale ragione Marino doveva far sapere all’ambasciatore del Vietnam che aveva pagato la cena a quello della Cambogia e non a lui? Per quale ragione doveva far sapere ai suoi compagni di partito che aveva offerto un pranzo ad un parlamentare dell’opposizione? Erano elementi di grande riserbo e anche di esercizio libero dell’attività politica.

Nel caso di Renzi è la stessa cosa?

È chiaro che, allo stato attuale delle norme, il Fatto quotidiano ha fatto il suo dovere. Se io fossi stato un giornalista avrei pubblicato quelle notizie. Probabilmente vanno inseriti dei limiti nel sistema, limiti commisurati alla capacità stessa del sistema di reggere. Oppure diventerebbero una farsa, perché il giudice non avrebbe il tempo materiale di valutare quali sono le informazioni che possono essere eliminate. Dobbiamo pensare un sistema penale con un doppio binario serio, con tutte le garanzie del mondo agli illeciti importanti e un grado di giudizio più la Cassazione per gli illeciti bagatellari o tutto ciò che non comporta pene detentive, facendo una depenalizzazione serissima. Anche il rispetto delle garanzie e della privacy passa per una riforma radicale del sistema giustizia, ma non ne siamo in grado. Se oggi introducessero un altro limite o un’altra verifica il risultato sarebbe la paralisi. Ma dobbiamo anche valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza riferimenti al procedimento penale.

Cosa ne pensa del recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza? Molti suoi colleghi l’hanno definita un bavaglio.

Se io non avessi vissuto la mia storia personale, sarei con i miei colleghi a pensare che tutte queste norme, probabilmente, limitano l’esercizio corretto dell’azione penale. Ma avendo capito quanto sia importante la presunzione d’innocenza sulla mia pelle, sono perfettamente d’accordo sull’introduzione di queste norme e che se ne facciano altre. Senza la mia esperienza avrei ipotizzato il mondo ideale di una giustizia che non sbaglia mai e che dà a tutti la possibilità di difendersi. Ma a me, in 20 anni, non è mai stata data. Su di me si è creata una presunzione di colpevolezza fondata sul nulla. E la maggior parte delle persone che mi ha rovinato la vita ha la toga.

La protervia dei Pm: “Meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà”. Otello Lupacchini su Il Riformista il 16 Novembre 2021. La credibilità della magistratura non soltanto appare, ma, purtroppo, è in caduta libera. E non solo a causa del marciume certificato dal trojan, funzionante misteriosamente a intermittenza, inoculato nel cellulare di colui che, sino a un paio di anni or sono, era il riconosciuto e imprescindibile punto di riferimento di tutti i magistrati rampanti, impegnati allo spasimo nelle più invereconde partite di potere per l’accaparramento e l’occupazione, spesso in barba al merito e anche alla decenza, delle poltrone dirigenziali nella geografia giudiziaria nazionale, oggi, invece, ingenerosamente additato, magari da quegli stessi petulanti e irriconoscenti clientes, come causa unica di tutti i mali che affliggono il Terzo Potere. Ma soprattutto, almeno per chi abbia a cuore la civiltà del diritto, a causa dell’inarrestabile e intollerabile deriva inquisitoria del processo penale, sempre più luogo di frode, se non addirittura di violenza, naturalmente entrambi «sante». E questo, a prescindere dal fatto che l’opinione pubblica è invelenita, su un versante, dal calcolo politico e, sull’altro, dagli umori corporativi. Emblematiche, a tale ultimo proposito, le vicissitudini giudiziarie della «Loggia Ungheria», asserita associazione segreta, dai connotati delinquenteschi, finalizzata a condizionare gli equilibri democratici tra i poteri dello Stato, governando il sistema delle nomine ai vertici degli Uffici giudiziari e gli esiti dei processi, svelata da un avvocato, ritenuto fonte attendibilissima da molti magistrati in svariati processi, a un sostituto procuratore, il quale, a sua volta, racconta di averne parlato al suo capo, venendone ostacolato nelle indagini, tanto da doversi rivolgere a un membro allora eminente del Consiglio Superiore della Magistratura, consegnandogli tutte le carte. Col risultato che, allo stato, innescata una guerra per bande, tanto violenta quanto dagli esiti incerti, tra esponenti dell’aristocrazia togata, non si sa ancora se si sia o meno in presenza di una manovra diffamatoria e torbida, inscenata da un settore della magistratura, intenzionato a restare solo al comando e a eliminare i nemici. Non meno inquietante la sinergia tra magistratura e intelligence, considerato che questi organismi hanno in comune la mancanza di legittimazione democratica che li candida a una potenziale supplenza nei confronti del potere politico in senso stretto. Di tale sinergia si rinviene un esempio, naturalmente si vera sunt exposita, in quanto narrato da Bruno Vespa, nel suo ultimo libro, Perché Mussolini rovinò l’Italia e come Draghi la sta salvando, con riguardo all’asse tra servizi e procure venuto a emersione in occasione dell’ultima travagliata crisi di governo, che alla fi ne ha partorito il gabinetto Draghi: il terzo governo Conte doveva nascere a ogni costo; il segretario di un piccolo partito politico di centro, nei giorni in cui si cercavano «i Responsabili» per dare vita a una maggioranza raccogliticcia, venne sottoposto a incredibili pressioni, alle quali, tuttavia, resistette; per pura coincidenza, tre giorni dopo il rifiuto a entrare in maggioranza, il temerario fu destinatario di una perquisizione domiciliare disposta da una Dda nota per le inchieste roboanti, ipotizzandosi a suo carico il delitto di associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso; residuando ancora seppur esiguo un margine per ripescare Conte. «Subito dopo la perquisizione», racconta l’informatissimo giornalista, il politico «ricevette la visita di un importante agente segreto che conosceva da tempo e che gli avrebbe detto, più o meno: non preoccuparti, questa storia si risolve, ma cerca di comportarti con saggezza». Ma torniamo al punto. Regna un’efferata delinquenza e la giustizia penale, ogni tanto, inscena riti granguignolesci; i funzionari dell’accusa, impegnati in partite capitali dove soltanto occasionalmente può dirsi sia in gioco l’accertamento della verità, filano tele quasi sempre intese esclusivamente alla condanna; e, convinti che ogni altro esito li umilierebbe nell’onore professionale, ritengono di tradire la propria missione se non usassero qualche sordido espediente. Imbarazzante l’entusiastica, acritica accoglienza riservata alle reiterate e compulsive esternazioni di raffinata rozzezza, di taluni esponenti di quell’aristocrazia togata, prodotta dal «sistema Palamara», secondo la fredda chirurgia del relativo manuale spartitorio, le quali catalizzano il consenso complice di moralisti insediati nell’organo di autogoverno; di «colleghi» viscidi, servili e vigliacchissimi, forti con i deboli ma sempre pronti a chinare il capo e a correre in soccorso del presunto «vincitore»; di politicanti truffaldini, accolita di gente mediocre e miserabile che splende per ridicola incompetenza, la cui scelta, se non al capriccio è dovuta all’omertà, alla mancia data al delitto; di gerarchie poliziesche infellonite. È purtroppo ormai un classico: quando, prima o poi, ma comunque sempre più spesso, gli impianti accusatori di ecatombali «operazioni» contro asseriti «sistemi masso-mafiosi» vengono irrimediabilmente demoliti sotto i colpi del maglio impietoso della giurisdizione, ecco questi eroi soi disants, intonare a canto fermo litanie del tipo «Finché indaghi su nomi e cognomi noti della ’ndrangheta tutti ti dicono che sei bravo, che hai coraggio. Ma se vai a toccare i centri di potere oliati che si interfacciano con la ’ndrangheta e la massoneria deviata allora diventi scomodo. E cominci a dare fastidio». Ovviamente, guardandosi bene dal precisare a cosa e a chi si riferiscano quando parlano di «centri di potere oliati»; e dal fare i nomi di chi ne «ostacola» il lavoro; e dall’indicare in quali zone grigie delle istituzioni si nascondano quelli a cui danno fastidio. Quel che è peggio, tuttavia, è che nessuno pone loro queste domande, appagandosi, piuttosto, di amplificarne il rutilante grido di dolore, ammissione, non si sa quanto voluta, della vacuità delle proprie mirabolanti inchieste e collaudato topos lamentoso della pubblicità ingannevole che le accompagna. Agghiacciante è, del resto, il consenso mediatico di cui godono simili energumeni. Essi possono dichiarare che gli oltre mille innocenti certificati che ogni anno finiscono in prigione sono una cifra «fisiologica». Che le vite distrutte e gli indennizzi milionari che lo Stato deve elargire alle vittime della malagiustizia sono il prezzo da pagare se si vogliono avere dei giudici in grado di contrastare la dilagante «impunità di chi comanda»; tradotto: meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà. Che, in Italia, «non c’è alcun giustizialismo, ma solo l’applicazione rigorosa delle sentenze», dando mostra così di ignorare che la somministrazione della pena in virtù di una sentenza di condanna, atto terminativo del processo, non potrà mai dare luogo a indennizzo per ingiusta detenzione, diversamente dall’errore che inficia, invece, l’atto genetico della privazione della libertà personale, come il provvedimento di fermo o l’ordinanza di custodia cautelare, che non sono «sentenze», anche se qualcuno lo creda o lo voglia far credere o ardentemente lo desideri. Che le «critiche» alle loro inchieste, provenienti magari da diversi esponenti della magistratura, sarebbero la dimostrazione del loro aver ragione e del loro lavorare bene, per il principio «tanti nemici, tanto onore». E nessuno fiata. Quando poi le «critiche» provengono dalla Corte di cassazione, che annullando «senza rinvio» le ordinanze cautelari alla base delle «catture» di massa che portano lustro alla bottega, sottolinea l’evanescenza dei relativi «impianti accusatori», pronto è il ricorso agli avvertimenti ingiuriosi veicolanti neppure troppo velate minacce, del tipo: sono le «mele marce» che tentano di ostacolare il loro «lavoro». Per nulla colpiti da queste esternazioni che tradiscono mancanza di lucidità argomentativa e pesanti deficienze teoriche, paludati maître-à-penser del giornalismo nazionale commuovono per come scodinzolano estasiati e guaiscono solidali di fronte al dilettantismo parolaio, querimonioso, incolto, traffichino, ammiccante, ingordo, intellettualmente opaco. Ma si sa, alle botteghe, anche a quelle istituzionali, giovano gli affari confusi e la teoria esige un lavoro faticoso illuminato da qualche talento, perciò è vomitata da una pratica ingaglioffita.

Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato in pensione

Presunzione d’innocenza, c’è una aristocrazia delle toghe al di sopra della Costituzione. Otello Lupacchini su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Il Consiglio dei Ministri, il 4 novembre scorso, ha dato il via libera definitivo al decreto legislativo di recepimento della Direttiva 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza, volto, tra l’altro, programmaticamente, a cambiare i rapporti tra indagini preliminari, dove il protagonismo di alcuni pubblici ministeri e/o dirigenti di polizia giudiziaria spesso porta all’intollerabile affievolimento dei diritti dell’indagato, presunto innocente fino a sentenza definitiva, e giudizio. Ed è soprattutto su questo che si sono registrate le maggiori polemiche. Non ritengo valga la pena di schierarsi né con coloro che nel provvedimento legislativo vedono la panacea di tutti i mali che affliggono la giustizia, ma neppure con coloro che paventano che esso non consenta, ma al contrario allontani, il raggiungimento dell’equilibrio fra i due fondamentali principi della dignità delle persone, e, dunque, anche di chi è sottoposto a un’indagine processuale, in cui si rinviene la ratio della stessa presunzione di non colpevolezza, e del diritto all’informazione in entrambe le facce in cui si sostanzia, quello di informare e quello di essere informati. Meglio lasciare, invece, libero sfogo al cupo ottimismo di chi, per parafrasare Francesco Carrara, «un tempo ingenuo» credette che «la politica dei liberi reggimenti non fosse la politica dei despoti», ma a cui «le novelle esperienze (…) hanno pur troppo mostrato che sempre e dovunque quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra per tornarsene al cielo».

Sono, infatti, pienamente consapevole e fermamente convinto che esista un’aristocrazia togata, fatta di personaggi che, per dirla con Augusto Murri, «godono di tutti i privilegi, anche l’immunità dalla logica! (…) Per costoro quel che piace lice. E tanto più meravigliose e sciocche e false sono le cose affermate, tanto più la folla si volge stupita a questi privilegiati! Ed essi allora si sentono ammirati. Come l’oca, uscita appena dai sogni ambiziosi della notte, sbatte sconciamente le ali impotenti e crede di mandare fino al cielo i suoi clamori ridicoli, tali allora son costoro, spettacolo miserevole di vacuità stupida, presuntuosa, tracotante e maligna!». Mi chiedo, dunque, se rispetto a questi signori le norme introdotte in ottemperanza alla direttiva europea potranno mai trovare effettiva applicazione. A sentir loro, no. Una voce, per tutte, si leva infatti dal coro dei dissenzienti, per avvertire: la direttiva «a me non lega niente e non chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto». Si tratta magari di un modo di argomentare piuttosto grossier, che i filosofi Antoine Arnauld e Pierre Nicole avrebbero potuto addurre, nella loro Logique de Port Royal (1662) quale preclaro esempio di come non si dovrebbe ragionare, ma i precedenti non sono rassicuranti e danno purtroppo ragione ai normofobi. «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? | Nullo, però che ‘l pastor che procede, | rugumar può, ma non ha l’unghie fesse», verrebbe da chiedersi con Marco Lombardo (Purg. XVI, 97-99), di fronte al meccanismo di attenzione-disattenzione selettiva, tipico d’ogni «polizia del pensiero», che parrebbe ispirare l’opus dei titolari dell’azione disciplinare, quando condotte in violazioni di legge o di norme deontologiche appartengano a esponenti di quell’aristocrazia togata, la quale si sente, ed è considerata da chi dovrebbe istituzionalmente contenerne la bulimia e gli eccessi, al di sopra della Costituzione e delle leggi. Non è un caso, infatti, che essa sia rimasta sin qui indifferente ai moniti che il Capo dello Stato lancia ciclicamente, per ricordare ai magistrati l’importanza di esercitare le proprie funzioni nel rispetto della Costituzione. E abbia dato continuamente mostra d’ignorare le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, adottate dal Consiglio Superiore della Magistratura, nelle quali si stabilisce che «la comunicazione (…) deve essere obiettiva, sia che provenga da tribunali o corti sia che provenga da uffici di procura»; che «la presentazione del contenuto di un’accusa deve essere imparziale, equilibrata e misurata, non meno della presentazione di una decisione giurisdizionale»; che, dunque, «vanno evitate la discriminazione tra giornalisti o testate, la costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione, la personalizzazione delle informazioni, l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi». Linee-guida, nelle quali, spicca il richiamo, per un verso, al dovere di assicurare il rispetto della presunzione di innocenza, dovendo evitarsi «tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata ad un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate»; e, per altro verso, al rispetto di altri princìpi fondamentali, quali «La chiarezza nella distinzione di ruoli», tra magistratura requirente e giudicante; «la centralità del giudicato rispetto agli altri snodi processuali», indagini preliminari, misure cautelari, rinvio a giudizio, requisitorie e arringhe; e, ancora, «il diritto dell’imputato di non apprendere dalla stampa quanto dovrebbe essergli comunicato preventivamente in via formale»; nonché «il dovere del pubblico ministero di rispettare le decisioni giudiziarie, contrastandole non nella comunicazione pubblica bensì nelle sedi processuali proprie e, specificamente, con le impugnazioni». Quel che occorrerebbe veramente per l’effettiva tutela della presunzione d’innocenza è un radicale cambiamento di mentalità, implicante l’abbandono dell’idea che la magistratura, quando è massimo l’allarme, talvolta addirittura enfatizzato ad hoc, nei confronti di una determinata manifestazione criminale, debba svolgere un improprio compito di supplenza, quale il muovere guerra contro il nemico del momento. Solo così si bandirebbero definitivamente subturpicula del tipo: «il nostro compito», inteso come compito delle procure della Repubblica, «è quello di derattizzare, non con il colpo di spillo ma con la scimitarra, che è un’arma diversa dal fioretto, perché solo la scimitarra si capisce; il colpo di spillo non si sente perché ci si è assuefatti, a furia di reiterare i comportamenti di faccendieri, di ingordi che non si saziano di nulla»; situazione che «noi (…) stiamo cambiando e la cambieremo, alla grande, abbiamo la cartucciera piena» avendo «la possibilità e l’onore di dirigere pezzi della migliore polizia giudiziaria italiana»; ovvero del tipo «I centri di potere si sono accorti in ritardo, ma ormai il gioco è fatto: i centri di potere non mi hanno preso sul serio (…) e li ho fregati. Oggi è tardi, oggi la macchina non si ferma più, nessun centro di potere (…) la può fermare. Siamo una macchina da guerra». In mancanza di tale rivoluzione culturale ci si dovrà rassegnare a continuare ad assistere, come se nulla fosse, alle pletoriche conferenze stampa del procuratore capo di turno, circondato da una folta schiera di militari e di funzionari, che tanto ricordano le «società corali» descritte da Piero Calamandrei, i cui membri, in occasione delle autocelebrazioni, si assiepavano ad arculas intorno al gerarca come «lugubri bandisti da funerale», a voler ostentare l’orgia del proprio potere. Con questo articolo Otello Lupacchini, magistrato in pensione da pochi mesi ed ex procuratore generale di Catanzaro, inizia la sua collaborazione con il Riformista.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il mostro togato. In Italia l’esercizio del potere è sottoposto alla sorveglianza della magistratura deviata. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'8 Novembre 2021. Tutti sanno che negli ultimi decenni il percorso di accreditamento di tanti leader politici è stato intralciato dalle trame di chi preparava dossier su di loro, sul loro staff e sui loro familiari. Ma, con l’eccezione delle lamentazioni personali di chi, come un certo senatore toscano, viene colpito, nessuno dice niente. Forse bisognerebbe smetterla di far finta che non sia così. Sappiamo tutti perfettamente che da qualche parte c’è un pubblico ministero – e forse più d’uno – con un dossier pronto al bisogno su Mario Draghi. Sappiamo tutti perfettamente che altrettanto è in cottura per ciascuno dei nomi che da qui alle prossime settimane e mesi potrebbero essere ritenuti in posizione per giungere a presiedere la Repubblica, o il prossimo governo. Sappiamo tutti perfettamente che l’accesso al potere e l’esercizio del potere in Italia sono sottoposti alla sorveglianza spionistica e ricattatoria della magistratura deviata, una associazione nemmeno tanto segreta che si è costituita in una centrale di contro-potere che intimidisce la vita istituzionale e ne orienta il corso giocando sporco, contaminando con la propria corruzione, con la propria malversazione, con la propria irresponsabilità, ogni angolo libero della vita pubblica. Tutti sappiamo perfettamente che il percorso di accreditamento di leader importanti degli ultimi decenni è stato intralciato dalle trame del mostro togato, e che, con sistema perfettamente mafioso, nessuno vi era risparmiato: i collaboratori, lo staff, i parenti, il coniuge. La magistratura equestre, burattinaia del manipolo milanese, che ingiungeva a chi avesse “scheletri negli armadi” di starsene buono, fu l’esempio nobilitato di un malcostume che di lì in poi sarebbe divenuto l’abito costituzionale del travestimento eversivo di stampo giudiziario, con il magistrato eponimo incaricato di “resistere, resistere, resistere” all’assalto di questo nemico temibilissimo, il sistema della democrazia rappresentativa. Ma che tutto questo sia perfettamente noto a tutti non basta ancora a far cambiare l’andazzo, e al più c’è spazio per le lamentazioni personali di un senatore toscano indispettito per certe manovre inquirenti giusto perché spulciano in casa sua, giusto come l’assedio delle toghe rosse costituiva un pericolo per il Paese nella misura in cui circondava un parco brianzolo. È esattamente come nelle società sottoposte allo strapotere della criminalità: dove tutti sanno tutto; dove nessuno dice niente. Ma in questo caso sono uomini dello Stato a imporre quel giogo.

Verbali Open source. Con la riforma della presunzione di innocenza non è cambiato nulla. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta l'8 Novembre 2021. I garantisti della maggioranza sono ingenui e non capiscono che ogni volta che si introduce una misura di civiltà in campo giudiziario ecco che i fan della gogna (e i loro house organ) cercano una contromisura, sfruttando i punti deboli delle norme, come l’articolo 114 del codice di procedura penale. Il caso Renzi ne è la conferma. Neanche il tempo di esprimere la doverosa soddisfazione per lo strombazzato varo del decreto legislativo sulla presunzione di innocenza che la vicenda che coinvolge Matteo Renzi e la fondazione Open ci richiamano alla dura realtà dello sputtanamento perenne dell’imputato a mezzo verbali giudiziari sapientemente distribuiti. Il recente provvedimento del governo Draghi, attuativo di una specifica direttiva europea ormai vecchia di anni, prevede che «è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». Ogni comunicazione verso la pubblica opinione è riservata al procuratore capo «solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico» che peraltro egli dovrà indicare e motivare per iscritto. Spiace deludere l’ottimo deputato Enrico Costa, fautore strenuo della legge che pure si spera porrà rimedio alle indecenze delle conferenze stampa messianiche dei vari procuratori che denunciano la “liberazione” di pezzi del Paese dai fenomeni criminali, ma lo stillicidio dei verbali dell’indagine fiorentina sulla fondazione Open dimostra che le contromisure della solita compagnia giustizialista e forcaiola sono ancora in vigore e la renderanno inutile. Sui vari house organ delle procure sono stati ampiamente pubblicati i contenuti dei verbali delle indagini condotte dalla Guardia di Finanza sotto la direzione della procura di Firenze sui conti della Fondazione Open, ivi compresi conti correnti personali e mail dei vari indagati, tra cui Renzi, sospettati di elusione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Tali atti, va subito precisato, non sono coperti dal segreto perché depositati per i difensori e dunque, secondo una corrente e prevalente interpretazione dell’articolo 114 del codice di procedura penale, come tali pubblicabili. Qualche mese fa, questo giornale è stato facile profeta nell’indicare che senza la modifica di uno degli articoli più ambigui e peggio scritti del codice, proprio il 114, anche l’applicazione della nuova direttiva sarebbe servita a poco. È quello che sta succedendo: forse in futuro avremo commenti agli arresti più sobri e qualche nickname meno evocativo per le inchieste più importanti che secondo il decreto del governo non potranno essere battezzate con «denominazioni lesive della presunzione di innocenza», qualsiasi cosa ciò voglia dire, ma basterà anticipare agli organi fidati il contenuto di indagini non ancora conosciute dagli indagati né sottoposte al vaglio di un giudice per ottenere lo stesso effetto di indebito indirizzo di un processo. Un’autorevole corrente di pensiero sostiene che, poiché lo stesso articolo 114 prescrive che «se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento , se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello», il segreto venga meno solo per le parti e sia da mantenere per il pubblico, almeno sino a che le prove non siano mostrate al giudice. È la teoria mutuata dal diritto anglosassone della virgin mind del giudice che dovrebbe arrivare al dibattimento avvolto da un “velo di ignoranza” sul contenuto degli atti. In Inghilterra e negli Stati Uniti è una cosa seria e le violazioni sono punite severamente fino all’invalidazione degli atti di indagine. Invece, in Italia il giudice arriva al processo già reso edotto di cosa vi troverà e quando alla verifica del dibattimento troverà ridimensionato il materiale di accusa che gli è stato presentato come granitico, dovrà affrontare l’opinione pubblica che non capirà decisioni finali che smentiscono le verità diffuse sui media con conseguente pioggia di critiche cui non sempre si ha la forza di sottostare. Basta pensare a cosa diffondono le redazioni televisive di programmi dedicati al gossip giudiziario in chiave colpevolista, ma il fenomeno della pubblicazione di atti, intercettazioni, pedinamenti e foto delle indagini, sapientemente distillati, costituisce la più clamorosa e radicale smentita al principio della presunzione di non colpevolezza sicché la legge appena approvata rischia di essere solo un palliativo di una patologia grave. Resta da chiedersi come mai i garantisti presenti in Parlamento e nella compagine di governo continuino a commettere le solite ingenuità, a disattendere ciò che studiosi e avvocati denunciano da tempo. La risposta è altrettanto nota. Nel Ministero di Giustizia, negli uffici legislativi del governo e delle commissioni sono presenti in misura schiacciante magistrati che rappresentano la loro esclusiva visione culturale, con le ricadute che si vedono nella maggior tutela concessa al ruolo degli inquirenti rispetto a quello della difesa. Lo stesso fenomeno si osserva anche nelle commissioni che il ministro Marta Cartabia ha nominato per realizzare la sua riforma penale: sono cinque, dirette da tre eminenti magistrati ex presidenti della suprema Corte di Cassazione e della Consulta che hanno creato, governato e regolato la giurisprudenza penale degli ultimi venti anni, più due illustri docenti universitari tutti lontani da tempo dalle aule di giustizia, per via degli alti incarichi, della pensione e della condizione di puri studiosi di due dei tre docenti.

Con loro ci sono una cinquantina di giuristi, di cui soltanto sei avvocati: un evidente squilibrio che suscita un qualche legittimo interrogativo sull’adeguata valutazione delle esigenze di garanzia dei cittadini sottoposti a processo. Fino a che questa discriminazione culturale e intellettuale non verrà colmata, sarà difficile pensare a un reale cambiamento. Ovviamente c’è da augurarsi che non sia così, ma c’è un problema di fondo nella cultura giuridica di questo Paese che va corretto prima di tutto dalla politica, altrimenti è inutile lamentarsi, perché ne avremo altri di casi come quello di Renzi o di Luca Morisi.

Da "Delitto e castigo" alle intercettazioni. Rileggere Dostoevskij è un balsamo contro il giustizialismo. Angela Azzaro su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Non tutti sanno che il grande romanzo Delitto e castigo sia ispirato fin dal titolo al saggio Dei delitti e delle pene del nostro Cesare Beccaria. Pubblicato nel 1764 è considerato uno dei capisaldi del diritto moderno che ha ispirato leggi e costituzioni di moltissimi Paesi. Fëdor Dostoevskij non lo incontra in maniera casuale. Anche in Russia il libro è molto diffuso e quelle pagine lo spingono a creare uno dei romanzi più potenti della letteratura mondiale. Beccaria così ragiona: «Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi». Dostoevskij lo legge, forse lo capisce bene anche per le sue vicissitudini personali, lo condivide e ci scrive un libro magistrale sul delitto, sulla colpa, sul perdono. Sul fatto che la pietas vince anche la violenza, la pietas che si esercita nei confronti di chi ha sbagliato, di chi – come in questo caso – ha ucciso. Rodion Romanovič Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia e la sorella testimone del primo delitto come atto superomistico, come prova di forza del suo stare al di sopra delle regole, come un dio. La colpa sarà la sua prima condanna. Poi l’incontro con Sonja che rappresenta il perdono, la possibilità di riscatto. Sono innumerevoli le letture che si possono proporre di questo romanzo, ma una cosa è certa: quando lo scrittore russo racconta, lo fa sempre senza giudicare. E questo non giudicare, questo racconto che ci fa empatizzare è la più grande scommessa che si possa fare rispetto all’essere umano. Noi siamo Raskol’nikov. Siamo lui. Diventiamo lui. Non significa giustificare il delitto, pensare che quell’atto sia qualcosa che ci appartiene. Ma sentendo la sua colpa, il peso che porta dentro, assistendo e facendo nostro il suo travaglio compiamo un viaggio unico, fondamentale, bellissimo nella vita dell’altro. E fare un viaggio nella vita dell’altro significa aprirci al perdono, alla comprensione, all’idea che la vendetta, la violenza non possono mai essere una risposta adeguata. Ogni volta che oggi si legge Dostoevskij e si alza la testa dal libro, quello che si vede e si sente è esattamente il contrario. Si giudica, si mette alla gogna, si lincia. Ma è successo qualcosa anche di più grande, di grave, gravissimo, esattamente l’opposto della lettura di Delitto e castigo o dei Fratelli Karamazov: non ci identifichiamo più nell’altro, non siamo capaci di entrare nella sua testa, nel suo cuore, di condividerne le debolezze. Peccato, peccato davvero. La letteratura, potente macchina che ci consente di vivere le vite che non sono le nostre, è stata sostituita dal banale voyeurismo, da lettori e spettatori che guardano dal buco della serratura, senza mai entrare in scena, senza mai provare a recitare le parole più distanti dalle proprie. La letteratura è stata sostituita dalla lettura dei giornali che riportano le intercettazioni, anche quelle che non servono a niente, quelle che dovrebbero essere usate solo nelle aule del tribunale e quelle che dovrebbero invece andare al macero. Sentiamo, leggiamo e l’effetto è quello opposto all’identificazione, alla comprensione, al viaggio nell’essere umano: osserviamo dall’esterno, distanti, giudicanti, pronti a ridere delle altrui debolezze. Dimentichi che le stesse debolezze sono anche nostre, dimentichi che chi non ha peccato scagli la prima pietra. Le pietre sono quelle virtuali che vengono lanciate sui social, sono quelle che i pm hanno tirato con violenza in tutti questi anni, facendo carta straccia della presunzione di innocenza. Ora (forse) non sarà più così e anche le procure dovranno rispettare le norme minime di civiltà. Ma la nostra testa è cambiata, è cambiato anche il modo di fare cultura, di scrivere, di raccontare, sembra che anche gli scrittori o i registi abbiano perso questa intenzione, questa aspirazione. Non tutti e tutte, certo. Ma la cifra stilistica di questo decennio è ben lontano da quello che Dostoevskij ha fatto con le sue opere, farci toccare la carne viva, l’abisso e la rinascita. In Italia uno degli scrittori che ha resistito a questa tendenza è sicuramente Alessandro Piperno di cui è stato di recente pubblicato da Mondadori l’ultimo romanzo, Di chi è la colpa, che fin da titolo è come se volesse aprire un sfida culturale contro il giustizialismo che ha invaso il senso comune. Ma ancora prima con il dittico Il fuoco amico dei ricordi (Persecuzione – Inseparabili) con cui ha vinto il Premio Strega nel 2012 ha messo a nudo la cultura contemporanea rispondendo al circo mediatico con la tragedia dei sentimenti, con il dolore delle accuse ingiuste, delle sentenze anticipate dai media. Una boccata di aria fresca. Ricordare Dostoevskij a duecento anni dalla nascita, rileggere le sue pagine, ha soprattutto questo valore: ritrovare la possibilità di specchiarci nella letteratura, di trovare nelle parole dei grandi scrittori il balsamo contro ogni forma di moralismo. «All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio. La padrona dell’appartamento, invece, dalla quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi, viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle scale. E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia. Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d’incontrarla». Questo è l’incipit di Delitto e Castigo, uno dei più famosi della storia della letteratura. Dal generale al particolare: e in quel particolare ci siamo anche noi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

La biografia. Chi era Fëdor Michajlovič Dostoevskij, uno dei più grandi romanzieri russi di tutti i tempi. Redazione su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Fëdor Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) è stato uno scrittore e filosofo russo. È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri russi di tutti i tempi. Secondo di otto figli, perde la madre appena sedicenne. Il 16 gennaio 1838 entra alla Scuola Superiore del genio militare di San Pietroburgo, frequentandola però controvoglia. Il 12 agosto 1843 Fëdor si diploma, ma nell’agosto 1844 dà le dimissioni, lascia il servizio militare e rinuncia alla carriera che il titolo gli offre. Lottando contro la povertà e la salute cagionevole, comincia a scrivere il suo primo libro, Povera gente, che vede la luce nel 1846. Il 23 aprile 1849 viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi: viene condannato alla pena capitale tramite fucilazione, ma il 19 dicembre lo zar Nicola I commuta la condanna a morte in lavori forzati a tempo indeterminato. Il 18 marzo 1859, congedato dall’esercito, lo scrittore ottiene il permesso di rientrare nella Russia europea stabilendosi a Tver’. Nel 1866 inizia la pubblicazione, a puntate, del romanzo Delitto e castigo. Nel 1867 sposa la sua stenografa Anna e parte con lei per un nuovo viaggio in Europa, a Firenze, dove comincia a scrivere L’idiota. Nel 1868 nasce la figlia Sonja, che vive solo tre mesi. Nel 1879 inizia sulla rivista «Russkij vestnik» la pubblicazione de I fratelli Karamazov, il suo canto del cigno. Muore improvvisamente, in seguito all’aggravarsi del suo enfisema, il 28 gennaio 1881.

Archiviati e offesi. La crociata contro la presunzione d’innocenza e l’anima nera del populismo giudiziario. Francesco Cundari su l'Inkiesta il 5 novembre 2021. I video montati ad arte dagli inquirenti a scopo comunicativo e i surreali titoli del Fatto sugli «ex indagati», breve antologia degli orrori che rendono necessario recepire la direttiva europea, rispettare la Costituzione e superare lo stato incivile della giustizia italiana. In Italia, da tempo, si discute accanitamente di un decreto legislativo che recepisce le disposizioni di una direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, principio peraltro previsto dalla nostra Costituzione. Il testo voluto dalla guardasigilli Marta Cartabia, approvato dal governo in agosto, impone agli inquirenti di parlare dei procedimenti in corso nelle sedi deputate e senza violare il suddetto principio, vale a dire senza presentare un semplice indagato come colpevole. In pratica, il decreto cerca di limitare la possibilità di pm e forze dell’ordine di fare quello che fino a cinque minuti fa hanno sempre fatto, ma proprio sempre-sempre-sempre, da che sono bambino. E cioè, per l’appunto, presentare il semplice indagato come colpevole. Allestire solenni conferenze stampa in cui diffondersi per ore sulla sua spietata volontà criminale e sulla bassezza delle sue motivazioni. Scandire in ogni modo davanti a microfoni e telecamere che razza di disgraziato, cinico, implacabile, rivoltante, schifoso essere sia questo Mario Rossi. Quello stesso Mario Rossi per il quale, secondo la nostra Costituzione, vige la presunzione d’innocenza. L’iniziativa, come ogni tentativo di mettere un freno agli abusi di pubblici ministeri e giornalisti da qualche decennio a questa parte, è stata prontamente etichettata come «bavaglio». Immancabile, in proposito, l’intervento del Consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha parlato – non scherzo – di «svolta illiberale» e di «bavaglio alla possibilità che all’informazione contribuisca anche l’autorità pubblica». In proposito, Maurizio Crippa sul Foglio di ieri ha ricordato l’incredibile vicenda del video che mostrava il camion di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, girare attorno alla palestra della ragazza. Video mandato in onda da tutti i tg, di cui si è scoperto che era stato montato ad arte dai carabinieri. Luigi Ferrarella, che ha ricostruito la vicenda sul Corriere della sera, ha notato tra l’altro che di recente il tribunale di Milano ha assolto alcuni giornalisti dall’accusa di aver diffamato il capo del Ris parlando di «patacca» e video «taroccato». In particolare, il gip ha osservato che la «diffusione mediatica» di quel video, «il cui scopo era dichiaratamente non probatorio» (non faceva parte degli atti) «ma comunicativo», di fatto lese «il fondamentale principio della presunzione d’innocenza dell’imputato che, anche in base alla direttiva Ue n. 343 del 2016, deve proteggere gli indagati da mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo». Esattamente la direttiva che il decreto vorrebbe attuare. Decreto contro il quale è scattata, puntualmente, la campagna del Fatto quotidiano.

Va detto che quella contro la presunzione di innocenza, più che una battaglia, è la ragione sociale del Fatto. Una crociata combattuta con una passione paragonabile solo a quella con cui da un po’ in qua – cioè da quando a Palazzo Chigi non c’è più Giuseppe Conte – continua a sparare sfilze di titoli allarmisti sui vaccini (l’apertura di ieri, per dire, era un incredibile «63 morti e fuga dalla terza dose», a metà tra fantascienza e poliziottesco anni Settanta).

Ma tutto questo è ancora niente in confronto al modo in cui mercoledì il Fatto ha dato la notizia della nuova giunta capitolina di Roberto Gualtieri. Titolo: «Un indagato e 3 ex inquisiti: Gualtieri sceglie il passato». Nel caso vi fosse sfuggito il neologismo, ve lo ripeto: «Ex inquisiti». Occhiello: «Inchiesta a Roma per abuso d’ufficio sul nuovo city manager. Nella giunta gli archiviati del Mondo di Mezzo». Ripetiamo anche questa, tutti in coro: «Gli archiviati».

Ricapitolando, da un lato, a quanto scrive lo stesso articolo del Fatto, abbiamo un indagato, un manager proveniente dal Poligrafico dello Stato, che deve ancora essere sentito dai pm («qualora venisse accertata la buona fede dei manager del Poligrafico, la Procura potrebbe archiviare»), dall’altro «tre persone sfiorate dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo, tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Avete letto bene.

Altro che presunzione, qui siamo semmai alla rimozione d’innocenza. Nemmeno il fatto che sia la stessa Procura a stabilire che non ci sono ragioni per procedere basta a risparmiare ai nuovi assessori la messa all’indice, bollati con la surreale definizione di «ex inquisiti». Il fatto di essere stati semplicemente indagati, anni prima, come macchia perpetua e incancellabile, indipendentemente dalle conclusioni degli stessi inquirenti. Dalla presunzione d’innocenza alla colpevolezza a prescindere. Semel «sfiorato», semper «sfiorato». 

Neolingua. La malizia giustizialista di chiamare «ex inquisiti» gli archiviati. Guido Stampanoni Bassi su l'Inkiesta il 5 novembre 2021. Nella logica ribaltata del processo mediatico non basta la gogna nei confronti di imputati e indagati. Ora il bersaglio è diventato persino chi viene solo sfiorato dalle indagini. Sarebbe come definire «ex vivo» un morto o un «ex sano» un malato. In un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano si valorizzano le peculiari qualità di alcuni della nuova giunta comunale di Roma scelta dal neo sindaco Roberto Gualtieri. Si inizia in prima pagina con «Giunta Gualtieri: un indagato e tre ex del caso Buzzi» e si prosegue a pagina 6, dove, al grido di «Romanzo Campidoglio» – a proposito di nomi a effetto – si parla di «prima grana giudiziaria per la squadra del neosindaco della Capitale» e si ricorda come, oltre a un indagato (vade retro Satana!), nella squadra del neosindaco vi sarebbero, udite udite, addirittura ben tre «ex inquisiti». Colpevoli anch’essi (come l’indagato, s’intende) di avere avuto «grane con la giustizia», sono stati «sfiorati dall’inchiesta sul Mondo di mezzo», sebbene – si precisa – siano poi stati «tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Colpisce il lessico (preciso e per nulla casuale).  «Grana giudiziaria»: quale? «Sfiorati dall’inchiesta»: e quindi? E poi la ciliegina sulla torta, il colpo di genio che vale da solo l’acquisto del quotidiano: «ex inquisiti» (in grande e in bella mostra). È vero che la fantasia non ha limiti, ma come può venire in mente di definire «ex inquisito» chi, dopo essere stato indagato, sia stato oggetto di un provvedimento di archiviazione? Certo, è tecnicamente definibile come un «ex inquisito», così come è tecnicamente definibile «ex imputato» chi sia stato assolto con sentenza definitiva; così come era un «ex vivo» un morto o un «ex sano» un malato. La prospettiva da cui si guarda alla vicenda tradisce una logica ribaltata degna del celebre libro di Joseph Heller: se sei stato indagato, significa che sotto sotto non sei proprio così innocente e, a quel punto, neanche una archiviazione potrà evitarti il marchio di ex inquisito. Ancora una volta, contano solo le indagini – altrimenti che senso avrebbe riportare negli articoli di stampa il contenuto di intercettazioni telefoniche di procedimenti che, nel frattempo, hanno visto intervenire anche la Cassazione? – e le assoluzioni (ma, a questo punto, anche le archiviazioni) sono buone al massimo per i casellari.  Viene il dubbio che si sia iniziata a prendere sul serio la direttiva sulla presunzione di innocenza – di cui tanto si discute in questi giorni – nella parte in cui vieta di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la sua colpevolezza non sia stata accertata in via definitiva. Forse stiamo iniziando a prenderla finalmente sul serio, appunto. Stiamo iniziando a prendercela anche con gli archiviati. Scusate, con gli ex inquisiti.

Le toghe restano in trincea e adesso gridano al bavaglio. Lodovica Bulian il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Anm contro le nuove norme sulla presunzione di innocenza: irrigidita la comunicazione dei pm. «Distorsioni». «Scelte discutibili». E rischi per la «corretta informazione nella fase delicatissima delle indagini». L'Associazione nazionale magistrati reagisce al decreto legislativo approvato dal governo sulla presunzione di innocenza. Le nuove norme, che recepiscono una direttiva europea del 2016, limitano il rapporto tra magistrati e stampa sui procedimenti penali, d'ora in poi regolato «esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa». Possibili solo con un «atto motivato» del procuratore che le giustifichi. Nessuna informazione, dunque, al di fuori di questo contesto. «Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la stampa dei procuratori - ha detto ieri il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia in apertura del direttivo - Sono regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all'esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini». Per questo l'Anm «dovrà essere pronta a rilevare le distorsioni applicative che oggi da più parti si prefigurano e non lasciare che siano soltanto i procuratori a tenere alta l'attenzione su questi temi assai sensibili per l'effettività dell'assetto democratico della giustizia penale, di cui un tassello importante è proprio il rapporto con la stampa». Del resto voci fortemente critiche arrivano dalle Procure e anche dall'interno dello stesso Csm, che alla fine ha dato parere favorevole pur sollevando perplessità, con il consigliere ed ex pm antimafia Nino Di Matteo che ha parlato di «svolta illiberale» e «bavaglio» per gli inquirenti. Il rafforzamento del principio della presunzione d'innocenza viene tradotto anche nel divieto per magistrati e polizia giudiziaria «di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l'imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili». L'indagato ha il diritto di chiedere una rettifica antro 48 ore. Le parole vanno pesate però, dice il decreto, anche nelle ordinanze di applicazione di misure cautelari: l'autorità giudiziaria dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l'adozione del provvedimento». È qui che si rischiano ancora «distorsioni applicative» secondo l'Anm. Una posizione che innesca lo scontro politico: «È sconcertante e sostanzialmente eversivo l'atteggiamento dell'Anm. Tentare di stroncare il protagonismo di alcune toghe non è apprezzato dall'associazione - attacca Maurizio Gasparri, Forza Italia - Che l'associazione assuma una posizione di aperta sfida è davvero preoccupante. Si rispettino la democrazia e la volontà del Parlamento». Ma l'Anm, che ieri ha deciso all'unanimità di costituirsi parte civile nel processo a carico dell'ex pm Luca Palamara, critica anche la riforma del processo penale, che per superare l'abolizione della prescrizione ha introdotto il principio dell'improcedibilità: le norme, attacca Santalucia, «potrebbero rallentare l'iter dei processi e mettere a dura prova gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà organizzativa». Lodovica Bulian 

L'associazione magistrati ricomincia a lamentarsi: "Vogliamo parlare delle indagini". Il Tempo il 06 novembre 2021. Ritornano le lamentele dei magistrati italiani. A parlare è in prima persona il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, che si è rivolto al Comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe: “Tra pochi giorni sarà in vigore il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. Anche qui, entro una cornice di apprezzabile rafforzamento di alcuni presidi di garanzia, sono state compiute scelte discutibili. Santalucia si è poi espresso sui rapporti con i media: “Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la Stampa dei Procuratori della Repubblica, che potranno servirsi esclusivamente di 'comunicati ufficiali' e, nei casi di particolare rilevanza pubblica, di 'conferenze stampa'. Regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all’esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini". Per Santalucia, quindi, “l’Associazione dovrà essere pronta a rilevare le distorsioni applicative che oggi da più parti si prefigurano e non lasciare che siano soltanto i Procuratori della Repubblica a tenere alta l’attenzione su questi temi assai sensibili per l’effettività dell’assetto democratico della giustizia penale, di cui un tassello importante è proprio il rapporto con la Stampa”. “La riforma del processo penale è già legge, l’orologio dell’improcedibilità è già in azione, ed è tarato nell’applicazione di una parte della disciplina transitoria, per i processi i cui atti siano già pervenuti, al momento di entrata in vigore della legge, presso il giudice dell’impugnazione, sui tempi più brevi, di un anno per il giudizio di cassazione e di due anni per il giudizio di appello a far data dal 19 ottobre scorso, che metteranno a dura prova gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà organizzativa” ha proseguito presidente dell'Anm Santalucia in apertura della riunione odierna del comitato direttivo centrale. "Non abbiamo notizie della costituzione del Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, previsto dalla legge di riforma, e credo si possa tutti convenire nell’auspicarne la rapida costituzione, perché gli uffici giudiziari non possono essere lasciati soli nell’affrontare una riforma, per dire eufemisticamente, complicata", ha concluso.

Il decreto sulla presunzione di innocenza. Poveri Pm, resteranno senza più riflettori. Alberto Cisterna su Il Riformista il 6 Novembre 2021. La presunzione d’innocenza non sarà certo scudata dal decreto legislativo approvato dal Governo, ma è un primo passo. Un passo timido per qualcuno, una sterzata pericolosa per altri. In mezzo non ci può che stare la constatazione atavica che il processo provoca danni che nulla hanno a che vedere con l’accertamento dei fatti e, invece, troppo hanno a che vedere con la reputazione delle persone coinvolte. E non sono gli imputati, si badi bene, i più esposti. In troppe occasioni sono le vittime a finire nel tritacarne, a essere passate al setaccio, a dover rendere conto dei propri comportamenti agli occhi di un’opinione pubblica che morbosamente è alla caccia di particolari, di pruderie, di risvolti. La costruzione mediatica del mostro non è mai unidirezionale e, a volte, è impossibile stabilire a priori lungo quale piano incrinato scivolerà la biglia della benevolenza o quella delle stimmate contro il carnefice o contro la sua preda. Come e perché processo e media si siano incontrati e quando abbiano intrecciato questo insalubre connubio non è questione che possa essere risolta in poche battute. Sul perché sia così difficile spezzare questo legame, però, possono essere dette alcune cose. Le nuove norme non stanno tutte nel codice di procedura penale. Strano, penserà qualcuno. Ma come la presunzione d’innocenza è uno dei principi cardine del diritto e il suo “rafforzamento” non cade nel perimetro del processo? È proprio così. Le norme che hanno alimentato più polemiche non stanno nel codice del rito, ma in un oscuro ai più decreto del 2006 che riguarda l’organizzazione del pubblico ministero. E queste nuove regole disegnano una nuova disciplina dei rapporti del procuratore della Repubblica con la stampa e sono inserite in un grappolo di disposizioni tutte volte, come dire, a contenere gli slanci mediatici degli investigatori. Riassumiamo in poche battute il percorso a ostacoli che il Governo ha immaginato per tutelare la presunzione d’innocenza. Fin dall’inizio niente frasi roboanti per intitolare le indagini; una moda presa in prestito dalle operazioni militari e dalla polizia americana, ma lì il pubblico ministero conta poco o nulla e un giudice è lontano chilometri. La soggezione del pubblico ministero a queste titolazioni guerresche non è casuale e rispecchia una pericolosa tendenza all’assoggettamento dei magistrati dell’accusa ai modelli operativi e lessicali delle forze di polizia. Per carità, nulla di sacrilego, ma se si vuol parlare anche di giurisdizione inquirente è bene recuperare un certo stile e non trattare gli indagati come “nemici”. Quindi, secondo pilastro, negli atti di polizia e in quelli dei giudici niente frasi taglienti e giudizi irrevocabili sul tema della responsabilità. L’indagato parlerà dopo, nel processo, ed è bene non servirlo alla pubblica opinione e ai tribunali come fosse bello e cotto, destinato all’immancabile condanna. Troppi condizionamenti, dentro e fuori le mura dei palazzi di giustizia, trovano origine dal peso mediatico che il pubblico ministero ha impresso all’indagine, per cui diventa – come dire – difficile sganciarsi da questo cliché e arrivare con serenità a una scarcerazione o a una assoluzione. Senza contare il dramma delle vittime e dei loro parenti che, tante volte, ingiustamente suggestionati dalla propaganda mediatica che accompagna le loro vicende processuali, credono che il colpevole stia lì davanti a loro e che qualcuno lo aiuti a scampare la giusta pena. Quindi la comunicazione del risultato delle indagini diventa cruciale e su questo versante il decreto del Governo è prodigo di raccomandazioni e inviti alla cautela, più che di veri e propri strumenti di tutela. Naturalmente ci sarà chi se ne fregherà altamente e, in quel caso, stando alle norme, rischierebbe di brutto sul versante disciplinare, penale e risarcitorio. Difficile che qualcuno si mette contro un peso massimo del genere, ma comunque la via c’è e qualche potente di turno metterà mano alla pistola per far espiare al reprobo le sue colpe e rendergli il conto di averlo maltrattato innanzi alla pubblica opinione. I poveracci mi pare difficile trovino anche solo qualcuno che sia disposto a far causa a polizia giudiziaria, pubblico ministero e giudici, ma tra gli avvocati non mancano i coraggiosi. sia detto per inciso, è il vero vulnus al regime della responsabilità civile dei magistrati cui aspira il referendum leghista; non rifletta sul fatto che si tratta di uno strumento per ricchi dalle spalle forti. A occhio e croce, si potrebbe dire che non si capisce perché si parli di bavaglio all’informazione, di blackout sul lavoro delle procure, del pericolo di ammutolire gli investigatori. A occhio e croce. Perché a leggere con più attenzione il decreto governativo c’è uno snodo che preoccupa oltremodo alcuni settori della pubblica accusa ed è proprio il fatto che le disposizioni più severe non siano state collocate nel codice di rito, ma nella legge che governa le carriere. Si fosse trattato di norme del processo ai più disinvolti sarebbe importato poco o nulla. Con quel che si sente da qualche tempo in tema di violazione delle più elementari norme sorge il dubbio che il processo sia inteso da qualcuno come un circuito in cui – troppe volte – qualunque sbrego sia tollerato, giustificato e, quindi, metabolizzato, salvo incontrare un giudice. Ma se si mette mano all’ordinamento delle carriere la questione cambia, eccome. Nella lotta all’ultimo sangue per un posto direttivo, così ben narrata nella Batracomiomachia del dottor Palamara, è chiaro che incorrere in una violazione delle disposizioni sulle conferenze stampa può costare caro se un avversario la può lanciare sulla bilancia. Il nocciolo della questione sta nel nuovo articolo 5 del decreto del 2006 che sino a oggi prevedeva che il procuratore della Repubblica mantenesse personalmente, o tramite un delegato, i rapporti con gli organi di informazione. Questo giustificava il bivacco dei giornalisti nei corridoi di alcune procure della Repubblica alla ricerca di un contatto, di una chiacchierata, di un caffè propiziatorio. La mano del Governo Draghi ha aggiunto che questi rapporti con l’informazione debbono essere mantenuti «esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa». Già la pandemia aveva assottigliato le fughe di notizie con quei palazzi di giustizia trasformati in bunker sanitari, oggi si è tracciata una linea di demarcazioni quasi invalicabile. Si dice che ogni rapporto con i media potrà essere mantenuto solo attraverso comunicati e, in rari casi, con conferenze stampa. Quindi, per dire, addio interviste, addio chiacchierate e ammiccamenti. Si potrà, per carità, parlare di leggi, di criminalità, di sport, di cucina, ma non delle indagini di cui si è titolari per magnificarle o pubblicizzarle. In queste poche righe si annida un grave problema e c’è chi lo ha capito molto bene. Una grande occasione per i tanti, tanti pubblici ministeri che in silenzio e con serietà conducono le loro indagini senza riflettori e senza svolazzi. Alberto Cisterna

Spataro: «Processi in Tv, troppi magistrati trai i “nuovi mostri”». La lezione dell’ex procuratore Armando Spataro alla Scuola superiore della magistratura, che ha anticipato il recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza. Simona Musco su Il Dubbio il 6 novembre 2021. «Il magistrato sia protagonista virtuoso di corretta comunicazione e di ogni utile interlocuzione nel dibattito sui temi della giustizia! Ma sia capace di esserlo con misura». A dirlo non è la ministra della Giustizia Marta Cartabia, né il deputato di Azione Enrico Costa, che pure, di certo, non si troverebbero in disaccordo con tale affermazione. L’esortazione è invece contenuta nella lezione tenuta a gennaio scorso dall’ex procuratore di Torino Armando Spataro alla Scuola superiore della magistratura, anticipando così di diversi mesi il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. Un vero e proprio vademecum, rappresentato, in primis, dalle circolari della stessa procura di Torino, che sotto Spataro, dal 2014 al 2018, ha fatto della comunicazione sobria ed essenziale, rispettosa dei diritti di tutti, una regola aurea. Nessuna generalizzazione, né scivoloni nel populismo, solo una certezza: le toghe non possono e non devono aspirare al ruolo di moralizzatori della società. E la stampa, se vuole fare un buon lavoro, deve evitare il processo mediatico, i titoloni ad effetto, verificando i fatti e accedendo alle notizie senza tentare di creare, magari violando i doveri deontologici, dei canali privilegiati: solo così renderà un vero servizio alla giustizia. L’invito di Spataro ai colleghi è quello di «evitare i tentativi di “espansione” a mezzo stampa del proprio ruolo fino ad includervi quelli degli storici e dei moralizzatori della società». Un rischio concreto, per quanto i magistrati showman, secondo l’ex procuratore, siano comunque una minoranza. Ma tanto basta a creare quel meccanismo perverso che distorce l’immagine della giustizia.

La febbre da talk show

Il dovere di informare è naturalmente irrinunciabile, evidenzia, «purché esercitato nei limiti della legge, del rispetto della privacy e delle regole deontologiche, ma è anche necessario che i magistrati si guardino bene dal contribuire a rafforzare un’ormai evidente degenerazione informativa, che spesso determina febbre “giustizialista”, alimentata da mostruosi “talk-show” ed attacchi alla politica ingiustificatamente generalizzati». Una vera e propria deriva, denuncia Spataro, di cui i magistrati non sono, ovviamente, gli unici responsabili: anche la polizia giudiziaria, i giornalisti, i politici e gli avvocati possono contribuire alle «strumentalizzazioni», con il risultato di produrre «informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche, e che sono caratterizzate dalla ricerca di titoli e di forzature delle notizie al solo scopo di impressionare il lettore». Il rapporto tra giustizia ed informazione è infatti tutt’altro che secondario nell’amministrazione della giustizia ed è anzi, secondo Spataro, uno dei pilastri della sua credibilità. E in caso contrario, l’effetto è quello di generare tra i cittadini «errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità». Ecco perché, dunque, la direttiva sulla presunzione d’innocenza non appare peregrina, nonostante i timori di chi vede in essa un tentativo di imbavagliare pm e stampa. La mediatizzazione dei magistrati, infatti, può rappresentare la spia di una propensione «ad accrescere, per quelle vie, la popolarità della propria immagine, anche a costo di non rispettare il dovere di riservatezza proprio dell’attività giudiziaria». E se l’informazione sulla giustizia è «certamente necessaria», occorre precisarne «contenuti e confini, anche nel rispetto dei principi che disciplinano la tutela della privacy».

Giusto processo e processo mediatico: le conferenze stampa

Il giusto processo, afferma l’ex magistrato, non dipende solo da quanto avviene in aula, ma anche da ciò che accade fuori, ovvero «grazie a notizie giuste e vere, conoscibili entro i limiti previsti per le varie fasi processuali e contenenti esclusivamente riferimenti ai fatti che sono oggetto del processo». Ma lo stesso può essere inficiato dalla «tendenza al protagonismo individuale», un problema reale, ammette, «connesso alla convinzione di alcuni pm di potersi proporre al Paese, attraverso la diffusione mediatica di notizie sulle proprie indagini, spesso enfatizzate, come eroi solitari, unici interessati alle verità che i poteri forti intendono occultare». Un atteggiamento da cassare, mentre «sono preferibili quei magistrati che non cercano consenso (specie nelle piazze gremite) e che lavorano con riservatezza e determinazione». Su tutti prevalgono i doveri di «verità e sobrietà informativa, specie quando i fatti sono oggetto di indagine e non ancora di una sentenza, sia pure di primo grado». Ed è obbligo dei procuratori «intervenire per correggere le fake news», che rischiano di compromettere anche la funzione giudiziaria.

Altro capitolo quello delle conferenze stampa, che Spataro, in tutta la sua carriera, ha convocato solo tre volte: «La prima per denunciare pubblicamente, insieme agli avvocati, il grave deficit di personale amministrativo dell’Ufficio; la seconda per illustrare i risultati ostensibili delle indagini sui gravi fatti verificatisi in Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017 (che avevano scosso l’intera città) e l’ultima per presentare pubblicamente le direttive emesse il 9 luglio 2018 in tema di priorità da accordare alla trattazione dei reati connotati da odio razziale ed al fine di velocizzare le procedure relative ai ricorsi avverso il rigetto delle richieste di protezione internazionale (argomenti, cioè, che richiamavano attualità e diritti fondamentali delle persone)». Da qui la critica alle conferenze-show con tanto di forze di polizia schierate in divisa dietro ai magistrati.

Informazione e giustizia, il principio dell’essenzialità

La critica di Spataro è dura, anche e soprattutto contro l’inaccettabile prassi lanciare proclami, «del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord”, così proponendosi come icone – categoria purtroppo in espansione – per le piazze plaudenti». Ma anche i comunicati stampa, spesso, cedono al sensazionalismo, offrendo alla stampa anche stralci di intercettazioni o spunti critici verso giudici o avvocati, «oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm esposte nei comunicati rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata, insomma un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, insomma, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice». Limitarsi all’essenziale e ricordare «la provvisorietà delle valutazioni del giudice (non del pm) sulle responsabilità delle persone sottoposte a misura cautelare, evitando citazione di nomi e diffusione di fotografie o comunicazione di dati sensibili almeno ove tali nomi ed immagini non siano noti per altri fatti oggettivi» è invece il metodo giusto.

Ma Spataro invita i colleghi anche a rifuggire da quella tendenza che spinge i magistrati a ritenersi «depositari della morale collettiva». Il loro compito è infatti un altro: «Mettere a nudo la verità con prove inconfutabili». E questo comporta un limite: «Se quelle prove non si raggiungono, il magistrato, pur se convinto del fondamento della ipotesi accusatoria da cui si è mosso, ha esaurito il suo ruolo, deve considerare i limiti della giustizia umana e se è un pubblico ministero deve saper ragionare come un giudice e comunque rimettersi alla decisione finale dei Tribunali e delle Corti rispettandola fino in fondo». Ciononostante, per una minoranza dei magistrati il rilievo mediatico del proprio lavoro è quasi più importante del suo esito: «La pubblicazione della notizia di una indagine sui giornali, specie se con modalità tali da captare l’attenzione del lettore, rischia in tal modo di diventare per molti più importante della futura sentenza». E prova ne è anche l’invasione delle sale da talk-show da parte di magistrati o ex magistrati, definiti da Spataro «i nuovi mostri», un’ulteriore ragione «di perdita di credibilità dell’ordine giudiziario». 

Quella condanna a mezzo stampa tra stereotipi di genere e ipocrisia. La bagarre mediatica dopo la sentenza del Tribunale di Livorno che ha assolto un Carabiniere dall’accusa di violenza sessuale. Il commento di Aurora Matteucci, presidente della Camera penale di Livorno. Aurora Matteucci su Il Dubbio il 6 novembre 2021. Se ne parla da un mese: ha fatto notizia la sentenza del Tribunale di Livorno che ha assolto un Carabiniere dall’accusa di violenza sessuale e corruzione, perché – si legge sul giornale – il sesso orale non può essere violenza. Titoli che rimbalzano sui social, fiumi di inchiostro per dare forma all’indignazione. Il mainstream mediatico ha già deciso: il carabiniere deve essere condannato. Ne nasce una saga a puntate, pubblicata dal quotidiano livornese il Tirreno che domenica scorsa interviene di nuovo sul tema: ad essere oggetto di attenzione, stavolta, i contenuti dell’atto di appello dei difensori della parte civile. Eravamo convinti/e, ma ci dobbiamo essere distratte/i, che la richiesta di pena fosse appannaggio dello Stato, nelle mani della pubblica accusa. E che i difensori delle parti civili potessero al più dolersi del mancato risarcimento dei danni. Ma tant’è: il vittimocentrismo pretende oggi la sua più alta soddisfazione. Privatizzare la giustizia penale e farne un terreno di scontro tra “per bene” e “per male” (T. Pitch). È vero. L’affermazione che il sesso orale non possa essere violento, in sé, merita critica ed è figlia di stereotipi inaccettabili. Ma da qui a dire che per questo il carabiniere è stato assolto, come invece sembra ricavarsi dalla lettura di questa ennesima epopea mediatica, spazio ne corre. Il quotidiano si diffonde in un accorato j’accuse dando in pasto ai lettori la convinzione che questo sia il motivo principale dell’assoluzione e, cosa ancor più deprecabile, che sia una donna ad aver esteso quella motivazione. Di qui, uno scivoloso avvitamento inverso: l’imputata, sui media, diviene proprio la giudice, in quanto donna e, come tale, colpevole di aver deciso di assolvere un uomo accusato di violenza sessuale e concussione. Se ormai è vox populi che non esistono innocenti, ma solo colpevoli che la fanno franca, c’è poco spazio per i nostalgici della presunzione di innocenza. Hai voglia a pubblicare i numeri delle ingiuste detenzioni (uno ogni otto ore finisce in carcere ingiustamente, M. Feltri), i costi delle condanne che lo Stato, quindi noi, dobbiamo pagare per aver sbattuto dentro innocenti (ogni anno 988 errori che alla collettività sono costati, dal 1991 a oggi, 869.754.850 euro). L’assoluzione avrà sempre il sapore di una sconfitta. Ho letto quella sentenza, non ho seguito il processo. Non conosco gli atti di quel dibattimento che darebbero migliore contezza della complessità di quella vicenda umana ricostruita dai Giudici livornesi. Mi guardo bene dal dire se questa è o meno una sentenza giusta. Ma un tentativo di riflessione su binari diversi può essere fatto, dopo quella lettura: e cioè che il ragionamento con il quale i giudici, a torto o a ragione, ritengono di assolvere l’uomo, il cui nome e cognome è ormai dominio pubblico, è certamente più complesso della semplificazione indebita riportata dalla stampa. L’inattendibilità della persona offesa viene ancorata a diversi profili sui quali solo incidentalmente si innesta l’affermazione, non condivisibile, secondo cui il sesso orale non può essere violento: non vi sarebbe prova per il Tribunale che il carabiniere abbia esercitato pressioni sulla donna per ottenere prestazioni sessuali in cambio di un insabbiamento dell’indagine per sfruttamento della prostituzione; vi sarebbero al contrario elementi per ritenere che la donna fosse spinta da sentimento vendicativo nei confronti dell’imputato che, a torto, era stato ritenuto responsabile del sequestro del centro benessere di cui era titolare. Descrizione non convincente dei rapporti sessuali che si assumono violenti, alibi dell’imputato che si trovava altrove in occasione di uno dei racconti di violenza. E molti altri passaggi che di per sé soli, costituiscono l’ossatura portante della motivazione. Sentenza giusta? Sbagliata? Lo stabilirà una Corte d’appello. Di certo il compito di ribaltarla non spetta alla testata di un quotidiano locale che si spreca in ricostruzioni sibilline, con tanto di stralci dell’incidente probatorio sbattuti in calce all’effige evocativa del corpo nudo e stilizzato – un fumetto – di una donna toccata da molte mani (disegnate anche queste). Un inno alla semplificazione estrema, facile, troppo facile della complessità, ridotta alla solita guerra tra vittima e imputato – già reo – destinati a giocare sempre lo stesso ruolo, guai a cambiarne il destino, guai ad assolvere, guai a non sacralizzare l’ovvio: e cioè che una donna che denuncia è sempre e solo vittima e per questo deve essere creduta, a prescindere. Dobbiamo, invece, intavolare discussioni ben più profonde e sensate sugli stereotipi di genere, emblematici di una società tristemente, anacronisticamente, patriarcale. Parliamo di questo nelle sedi della politica, affrontiamo con coraggio, una buona volta, il problema del sessismo nella lingua italiana e nei costumi di questo ipocrita paese. Trattiamo la violenza di genere come un problema strutturale e non con strumenti emergenziali buoni per raccattare consensi. Usciamo dal circuito asfittico della bulimia repressiva, dal vortice del diritto penale simbolico, dalla tendenza inesausta a semplificare la complessità. E restituiamo il processo alle aule dei Tribunali. I dibattimenti, salve rare eccezioni, sono pubblici. Ma le sedie, destinate al pubblico, sono sempre vuote: non ci sono quasi più giornalisti, non ci sono quasi mai lettori. Le sentenze, non a caso, sono pronunciate in nome del popolo italiano. Per carità: le decisioni possono essere criticate, ci mancherebbe altro. Si può persino ritenere che siano scritte “non in nostro nome”. Vanno lette, studiate, analizzate e poi, solo poi, criticate, anche ferocemente, persino additandone le scelte linguistiche. Può farlo una pubblica opinione, purché adeguatamente informata, deve farlo un difensore che ritenga ingiusta una pronuncia e in tal caso ha il dovere (non è un placet) di ricorrere agli strumenti che l’ordinamento assegna: l’atto di appello o il ricorso per Cassazione. Circuito tecnico e ristretto che non ha niente a che vedere con il processo mediatico. Occorre augurarsi che a giudicare questo processo, in grado d’appello, allora siano persone capaci di restare impermeabili alla bagarre mediatica. Aurora Matteucci è presidente della Camera penale di Livorno

Presunzione di innocenza, dagli atti giudiziari alle interviste: più garanzie per chi è sotto inchiesta. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2021. Stop alla giustizia show e maggiore tutela per chi è sottoposto a indagine: così, recependo la direttiva europea del 2016, il Consiglio dei ministri presieduto da Mario Draghi ha approvato ieri sera, in esame definitivo, dopo il previsto passaggio parlamentare, il decreto legislativo sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Una soluzione di compromesso tra tutte le forze politiche, che continuerà però a suscitare polemiche. Il testo approvato prevede, ad esempio, che il procuratore capo mantenga «i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa». Dunque, almeno in teoria, non potranno più essere fornite informazioni al di fuori di questi contesti. Poi c’è il passaggio che le voci più critiche, a partire dal togato indipendente del Csm, , hanno definito «il bavaglio lessicale» messo a pm e forze dell’ordine. L’articolo 4 del testo modifica il codice di procedura penale inserendo un nuovo articolo 115-bis («Garanzia della presunzione d’innocenza») che impone, infatti, ai magistrati di pesare le parole. Perché, recita il testo, non possono «indicare pubblicamente l’indagato come colpevole», in un atto che non sia una sentenza, ma anche solo in un’intervista, a pena di richieste da parte dell’interessato di «rettifica della dichiarazione resa» entro 48 ore. Ma non solo: sono previste anche conseguenze disciplinari e risarcimento danni in questi casi a carico di chi indaga. Il rischio, allora, già paventato da rappresentanti dell’Anm, è che potranno aprirsi così nuovi fascicoli che di certo non aiuteranno a velocizzare la macchina della giustizia. Super cautela, d’ora in poi, anche nelle ordinanze di applicazione di misure cautelari: «L’autorità giudiziaria» dovrà limitare «i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento». Lo schema di decreto mercoledì aveva ricevuto il parere positivo del Csm (con l’opposizione dei soli consiglieri Di Matteo e Ardita). Nei confronti del documento il Consiglio superiore della magistratura due giorni fa aveva espresso «apprezzamento» evidenziando però «alcune criticità tecniche». «Ci avviamo a una situazione nella quale fino alla sentenza definitiva i processi in tv li possono fare soltanto gli imputati e i parenti degli imputati — aveva detto il consigliere Di Matteo — mentre nessuna notizia potrà essere data dai procuratori e dalle forze dell’ordine». Il decreto appena approvato prevede «che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita soltanto quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico». Inoltre «è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Come Mafia Capitale o Pizza Connection, per capirci. Sul rispetto del dettato legislativo, infine, sarà chiamato a vigilare il procuratore generale presso la Corte d’Appello, inviando una relazione «almeno annuale» alla Corte di Cassazione, che potrà costituire base per procedimenti disciplinari.

Archiviati e offesi. La crociata contro la presunzione d’innocenza e l’anima nera del populismo giudiziario. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. I video montati ad arte dagli inquirenti a scopo comunicativo e i surreali titoli del Fatto sugli «ex indagati», breve antologia degli orrori che rendono necessario recepire la direttiva europea, rispettare la Costituzione e superare lo stato incivile della giustizia italiana. In Italia, da tempo, si discute accanitamente di un decreto legislativo che recepisce le disposizioni di una direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, principio peraltro previsto dalla nostra Costituzione. Il testo voluto dalla guardasigilli Marta Cartabia, approvato dal governo in agosto, impone agli inquirenti di parlare dei procedimenti in corso nelle sedi deputate e senza violare il suddetto principio, vale a dire senza presentare un semplice indagato come colpevole. In pratica, il decreto cerca di limitare la possibilità di pm e forze dell’ordine di fare quello che fino a cinque minuti fa hanno sempre fatto, ma proprio sempre-sempre-sempre, da che sono bambino. E cioè, per l’appunto, presentare il semplice indagato come colpevole. Allestire solenni conferenze stampa in cui diffondersi per ore sulla sua spietata volontà criminale e sulla bassezza delle sue motivazioni. Scandire in ogni modo davanti a microfoni e telecamere che razza di disgraziato, cinico, implacabile, rivoltante, schifoso essere sia questo Mario Rossi. Quello stesso Mario Rossi per il quale, secondo la nostra Costituzione, vige la presunzione d’innocenza. L’iniziativa, come ogni tentativo di mettere un freno agli abusi di pubblici ministeri e giornalisti da qualche decennio a questa parte, è stata prontamente etichettata come «bavaglio». Immancabile, in proposito, l’intervento del Consigliere del Csm Nino Di Matteo, che ha parlato – non scherzo – di «svolta illiberale» e di «bavaglio alla possibilità che all’informazione contribuisca anche l’autorità pubblica». In proposito, Maurizio Crippa sul Foglio di ieri ha ricordato l’incredibile vicenda del video che mostrava il camion di Massimo Bossetti, condannato all’egastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, girare attorno alla palestra della ragazza. Video mandato in onda da tutti i tg, di cui si è scoperto che era stato montato ad arte dai carabinieri. Luigi Ferrarella, che ha ricostruito la vicenda sul Corriere della sera, ha notato tra l’altro che di recente il tribunale di Milano ha assolto alcuni giornalisti dall’accusa di aver diffamato il capo del Ris parlando di «patacca» e video «taroccato». In particolare, il gip ha osservato che la «diffusione mediatica» di quel video, «il cui scopo era dichiaratamente non probatorio» (non faceva parte degli atti) «ma comunicativo», di fatto lese «il fondamentale principio della presunzione d’innocenza dell’imputato che, anche in base alla direttiva Ue n. 343 del 2016, deve proteggere gli indagati da mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo». Esattamente la direttiva che il decreto vorrebbe attuare. Decreto contro il quale è scattata, puntualmente, la campagna del Fatto quotidiano. Va detto che quella contro la presunzione di innocenza, più che una battaglia, è la ragione sociale del Fatto. Una crociata combattuta con una passione paragonabile solo a quella con cui da un po’ in qua – cioè da quando a Palazzo Chigi non c’è più Giuseppe Conte – continua a sparare sfilze di titoli allarmisti sui vaccini (l’apertura di ieri, per dire, era un incredibile «63 morti e fuga dalla terza dose», a metà tra fantascienza e poliziottesco anni Settanta). Ma tutto questo è ancora niente in confronto al modo in cui mercoledì il Fatto ha dato la notizia della nuova giunta capitolina di Roberto Gualtieri. Titolo: «Un indagato e 3 ex inquisiti: Gualtieri sceglie il passato». Nel caso vi fosse sfuggito il neologismo, ve lo ripeto: «Ex inquisiti». Occhiello: «Inchiesta a Roma per abuso d’ufficio sul nuovo city manager. Nella giunta gli archiviati del Mondo di Mezzo». Ripetiamo anche questa, tutti in coro: «Gli archiviati». Ricapitolando, da un lato, a quanto scrive lo stesso articolo del Fatto, abbiamo un indagato, un manager proveniente dal Poligrafico dello Stato, che deve ancora essere sentito dai pm («qualora venisse accertata la buona fede dei manager del Poligrafico, la Procura potrebbe archiviare»), dall’altro «tre persone sfiorate dall’inchiesta sul Mondo di Mezzo, tutti archiviati su richiesta della Procura nel 2016». Avete letto bene. Altro che presunzione, qui siamo semmai alla rimozione d’innocenza. Nemmeno il fatto che sia la stessa Procura a stabilire che non ci sono ragioni per procedere basta a risparmiare ai nuovi assessori la messa all’indice, bollati con la surreale definizione di «ex inquisiti». Il fatto di essere stati semplicemente indagati, anni prima, come macchia perpetua e incancellabile, indipendentemente dalle conclusioni degli stessi inquirenti. Dalla presunzione d’innocenza alla colpevolezza a prescindere. Semel «sfiorato», semper «sfiorato».

Ora la presunzione d’innocenza è un obbligo per i pm. Con le nuove norme, vietato alle Procure presentare indagati e imputati già come colpevoli. Conferenze stampa consentite solo in casi particolari. Errico Novi su Il Dubbio il 4 novembre 2021. È una piccola rivoluzione. E forse neanche tanto piccola. Il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza prova a correggere il vizio fatale della giustizia italiana: la sostituzione del processo mediatico all’accertamento penale. Il Consiglio dei ministri ne ha deliberato ieri l’approvazione definitiva: testo integrato (e trasmesso al Capo dello Stato per la firma) con le correzioni chieste dal Parlamento, ma non in base a quelle suggerite giusto due giorni fa dal Csm. Rispettata dunque la scadenza prevista dalla delega, fissata all’8 novembre. Dopo l’ok del Colle, sarà legge il «divieto di indicare pubblicamente come colpevole l’indagato o l’imputato» fino a che non arrivi una sentenza definitiva. Vale per tutte le «autorità pubbliche», ma visto che i parlamentari godono dell’insindacabilità sulle opinioni, riguarda essenzialmente i magistrati. Ci sono molti meriti da distribuire. Certamente alla ministra della Giustizia Marta Cartabia che ieri ha sostenuto l’importanza del provvedimento, e scongiurato qualche “ritocco al ribasso”. E poi al sottosegretario Francesco Paolo Sisto, che ha favorito una non facile mediazione sul parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, e al deputato di Azione Enrico Costa, che già un anno fa aveva sollecitato il recepimento della direttiva europea, la 343 del 2016, a cui il testo approvato ieri assicura il “compiuto adeguamento”. L’Italia ha impiegato la bellezza di cinque anni per conformarsi alle misure, dettate sia dal Parlamento di Strasburgo che dal Consiglio Ue. Inerzia che di qui a poco avrebbe potuto innescare una procedura d’infrazione, come la guardasigilli ha più volte ricordato. Va detto che la presunzione d’innocenza è tutelata, oltre che in modo solenne dall’articolo 27 della Costituzione, anche da una sottovalutatissima norma già scolpita nel Codice disciplinare dei magistrati. I quali possono rispondere per «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui». Un’incredibilmente disattesa anticipazione (inserita, tanto per essere precisi, nel decreto legislativo 109 del 2006) del nuovo testo. Non è un caso che la vecchia norma fosse stata richiamata nel parere delle Camere, come motivo che avrebbe reso necessaria, innanzitutto secondo il relatore Costa, una stretta anche più severa. Ed è vero pure che si potrebbe temere una nuova disapplicazione, se non fosse che nei rapporti fra magistratura e altri poteri gli equilibri sono cambiati parecchio, nel frattempo. E poi comunque il decreto appena approvato a Palazzo Chigi definisce meglio il rispetto della presunzione d’innocenza, anche grazie a un diritto di rettifica introdotto, in favore dell’indagato, nei casi in cui il magistrato violi i nuovi limiti; servirà un ricorso ex articolo 700. Quando gli abusi sono in atti formali di un giudice, è possibile chiederne una «correzione», su cui decide lo stesso ufficio in sole 48 ore, con possibilità di opporsi prevista per le parti in causa, dunque anche per il magistrato ritenuto responsabile. Procedura accessibile anche per gli atti di un pm, pur soggetti a limiti meno stringenti. Ma lo stesso magistrato dell’accusa è tenuto comunque a riferirsi in modo “limitato” alla colpevolezza, giusto quanto basta per «soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento». Il cuore delle nuove norme però riguarda i rapporti con l’informazione. Che continuano a poter essere gestiti, nelle Procure, dai capi o da pm delegati, ma d’ora in poi solo attraverso comunicati ufficiali. Si possono convocare conferenze stampa solo «nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti» e, come chiesto dal Parlamento nel parere, con atto motivato da ragioni «specifiche». Aggettivo che costringe i procuratori a spiegare in modo non troppo generico l’esigenza di convocare i giornalisti. Le Camere hanno chiesto, e ottenuto, di vedere introdotto il termine «specifiche» anche rispetto alle «ragioni» stesse per le quali si sceglie di informare la stampa, a cui i magistrati potranno rivolgersi appunto solo quando ricorrono ben definite motivazioni «di interesse pubblico» o quando tale “pubblicità” è «strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini». Limiti fotocopia anche per i casi in cui il procuratore affida alla polizia giudiziaria la comunicazione con i media, sempre con la necessità di un atto motivato per le conferenze stampa. In ogni caso, toghe e agenti devono sempre preoccuparsi di chiarire «lo stato del procedimento» e di non equivocare sulla colpevolezza, e sulla necessità di accertarla nel processo. Fino al dettaglio normativo che impone la cesura forse più netta rispetto al passato: il divieto di assegnare alle indagini «denominazioni lesive della presunzione di innocenza». I suggestivi nomignoli con cui, senza bisogno d’altro, già si presentava l’indagato come inesorabilmente reprobo. È una griglia fitta. Destinata a cambiare l’approccio anche culturale dei magistrati, al di là delle sanzioni che potranno essere davvero applicate. Fino all’ultimo ieri si è discusso sull’opportunità di mantenere nel testo il passaggio, sollecitato sempre dal parere parlamentare, che elimina il nesso fra il ricorso alla facoltà di non rispondere e il mancato riconoscimento del ristoro per ingiusta detenzione. Di sicuro, solo fino a pochi mesi fa, un argine così puntuale alla mediaticità dei pm sarebbe stato impensabile. Il fatto stesso che diventi legge apre un orizzonte diverso per la giustizia italiana.

Diritti civili. La presunzione di innocenza e l’odiosa pratica del processo mediatico. Guido Stampanoni Bassi su L'Inkiesta.it il 29 Ottobre 2021. Una direttiva europea impone alle nostre procure di rispettare un principio sacrosanto: le autorità pubbliche non devono riferirsi all’indagato (o all’imputato) come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata definitivamente provata. Non è un bavaglio alla cronaca giudiziaria ma uno dei pochi modi per evitare la gogna dei pm in cerca di visibilità. Una direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2016 – avente a oggetto il rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza nonché il diritto a presenziare al processo – ha invitato gli Stati membri ad adottare una serie di misure volte a riconoscere, in capo a chi sia accusato di un reato, la «presunzione d’innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza». Tra queste misure, un’attenzione particolare è riconosciuta ai «riferimenti in pubblico alla colpevolezza», stabilendo che gli Stati membri garantiscano che, nelle dichiarazioni pubbliche rese dalle autorità pubbliche, non ci si riferisca all’indagato (o all’imputato) come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata definitivamente provata. Sembra una considerazione banale, quasi ovvia, ma così non è. Per adeguare il nostro ordinamento alla direttiva, il Governo, nell’agosto di quest’anno, ha presentato uno schema di decreto legislativo che è appena passato al vaglio delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, non senza polemiche e discussioni. Diverse le novità che deriverebbero dall’entrata in vigore del provvedimento, a partire dal divieto, per le autorità pubbliche, di presentare all’opinione pubblica come colpevole una persona sottoposta a indagini o a processo sino a quando – come richiesto dalla direttiva – la sua colpevolezza non sia stata accertata in maniera definitiva. Si prevede, poi, d’intervenire sul piano dei rapporti tra Procura e organi d’informazione stabilendo che la diffusione d’informazioni sui procedimenti penali sia consentita solo se strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o in presenza di ragioni d’interesse pubblico e che il Procuratore (o un suo delegato) possa interagire con la stampa solo attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa. Soprattutto sotto quest’ultimo versante – ossia, quello relativo ai rapporti tra autorità inquirente e organi d’informazione – si sono registrate le maggiori polemiche. Da un lato, la Associazione Nazionale Magistrati che ha parlato di «ingessatura eccessiva» potenzialmente lesiva del diritto a una corretta informazione; dall’altro, gli avvocati penalisti che, in sede di audizione, pur considerandolo il provvedimento un «passo avanti» hanno evidenziato perplessità sulla reale efficacia delle misure. Da un lato, alcuni giornali che hanno parlato d’inaccettabile bavaglio («vogliono delinquere e vietarci di scriverlo», «addio notizie», ecc…); dall’altro quelli che vedono nel recepimento della direttiva uno strumento in grado di contrastare processi show e gogna mediatica («giustizia show, varata la norma anti-Gratteri»). Il 20 ottobre le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno dato il via libera allo schema di decreto legislativo, esprimendo parere favorevole (sebbene non sia vincolante) subordinato ad alcune condizioni. Vediamo quali.

Anzitutto, si prevede che la decisione d’indire una conferenza stampa – ipotesi già subordinata al fatto che si tratti di fatti di «particolare rilevanza pubblica» – dovrà essere assunta dal Procuratore della Repubblica «con atto motivato in ordine alle specifiche esigenze di ragioni di pubblico interesse che lo giustificano». In secondo luogo – ed è questo un argomento più tecnico – si prevede che la condotta di chi, in sede d’interrogatorio, abbia scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere «non possa costituire, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita».

Prevedibili alcune delle obiezioni.

Chi stabilisce quali siano i casi di «particolare rilevanza pubblica»? Chi stabilisce quali siano le «ragioni di pubblico interesse» tali da giustificare l’organizzazione di una conferenza stampa? 

La Procura, ossia la stessa autorità che sta portando avanti le indagini, con una innegabile commistione tra controllore e controllato.

In ogni caso, in attesa di vedere come procederà il Governo, il compromesso raggiunto in Commissione Giustizia – perché di questo si tratta – rappresenta senz’altro un passo avanti verso l’adeguamento del nostro ordinamento a un pieno riconoscimento della presunzione d’innocenza.

Imponendo delle restrizioni – peraltro non difficilmente superabili dalla Procura, alla quale si richiederà solo di motivare il perché si è reputata necessaria una conferenza stampa ad hoc – non si va a ledere alcun diritto (e certamente non quello di chi si trova sotto procedimento, il quale semmai ne uscirà maggiormente tutelato). Così come non potrà essere considerata lesiva di un qualche diritto la necessità di adottare maggior cautela (tanto da parte delle autorità pubbliche quanto dagli organi di stampa) nel non presentare pubblicamente come colpevole un soggetto solo perché indagato o imputato.

Non si tratta, dunque, di voler impedire ai giornalisti di raccontare fatti di cronaca giudiziaria, bensì di evitare o quantomeno contenere gli effetti (forse indesiderati, ma comunque ampiamente prevedibili) del processo mediatico.

Processo mediatico che annovera tra le proprie vittime non solo gli indagati o gli imputati (che vedono lesa la loro presunzione d’innocenza nel momento in cui vengono presentati come colpevoli all’opinione pubblica), ma anche gli stessi giudici, i quali – come ha efficacemente ricordato Vittorio Manes – al momento della loro decisione «dovranno decidere da che parte stanno: se dalla parte della pubblica opinione oppure dalla parte di un imputato che ormai si presume colpevole».

Si tratta, peraltro, di un intervento in linea con il pensiero della ministra della Giustizia Marta Cartabia, la quale ha sottolineato la necessità che «l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale».

È la soluzione di tutti i problemi? Certamente no.

Rimangono (e rimarranno) ancora aperte una serie di ulteriori rilevanti questioni su cui il provvedimento non interviene, ma che meritano tuttavia attenzione.

Penso, ad esempio, al tema delle cosiddette fughe di notizie dalle procure – argomento su cui pende la proposta di legge presentata dall’Onorevole Catello Vitiello (nella quale si affrontano anche tanti altri temi) – che, a oggi, nonostante la presa di posizione e gli impegni concreti di autorevoli magistrati, rimane irrisolto.

Stop al tritacarne mediatico. Basta giustizia show, troppe carriere sono state distrutte da indagini e titoloni. Catello Vitiello su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Un servizio al telegiornale, un titolo in prima pagina, una conferenza stampa e la vita cambia. Forse per sempre, forse finisce. Sarebbe semplice, quasi banale, snocciolare nomi e cognomi di tutti coloro che hanno subito una gogna mediatica per poi risultare innocenti. Ricordo bene, per ragioni territoriali, il caso di Stefano Graziano, accusato di voto di scambio e di essere fiancheggiatore dei Casalesi e poi prosciolto. Ne abbiamo letto in qualche trafiletto. Voglio, invece, affermare un principio che si spinge un po’ più oltre. Basta gogna mediatica anche per coloro che poi risulteranno essere colpevoli del reato imputatogli. Il recepimento della direttiva 343/2016, infatti, ci riporta a principi già tutti contenuti nella nostra Costituzione che, però, col passare del tempo e l’evolversi dei nuovi mezzi di informazione, sono stati svuotati di significato. Direi elusi, diventati lettera morta. Ed ecco allora il processo mediatico, la notizia sparata in prima pagina, le veline che dalle scrivanie dei pm passano alle scrivanie dei giornalisti, le conferenze stampa delle Procure che narrano di un imputato già colpevole. La vita che cambia. Forse per sempre, forse finisce. Perché, come bene ha detto Luciano Violante nei giorni scorsi, il problema della presunzione d’innocenza è legato a doppio filo a quello di un’informazione spesso lesiva della dignità umana e della privacy. Consapevole del fatto che non abbiamo bisogno di generalizzazioni, sento di rivolgere un interrogativo (molto probabilmente retorico) a chi ci legge: quante carriere sono state costruite sull’onda della rilevanza mediatica? Quante narrazioni di vicende che involgevano amministratori pubblici hanno caratterizzato il dibattito politico degli ultimi anni? Quanto è stata stimolata l’emotività rispetto a fatti che andavano letti solo con la chiave della logica e del diritto? Quante intercettazioni abbiamo letto o ascoltato indebitamente, quanto materiale probatorio sottoposto a segreto investigativo abbiamo visionato? Ve lo dico io: tante volte. Ricorderete i video dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere o, ancora più di recente, le intercettazioni nell’ambito delle indagini sul “sistema De Luca”, in onda a Non è l’Arena di Massimo Giletti. I verbali dell’interrogatorio reso dall’imprenditore Fiorenzo Zoccola, da ieri ai domiciliari, sono di dominio pubblico e girano in tutte le redazioni, coinvolgendo anche persone non indagate. Il giudizio politico può anche restare sospeso, ma perché la giustizia deve diventare uno show? E la cronaca giudiziaria si è trasformata da cane da guardia della democrazia a cane da compagnia (o “da salotto”, come direbbe un cronista di lungo corso). E allora, finalmente, proviamo a ritornare allo Stato di diritto. L’imputato avrà diritto a essere rappresentato come innocente fino a quando non interverrà una sentenza definitiva di condanna; niente utilizzo in pubblico di strumenti di coercizione se non strettamente necessari; nessuna conferenza stampa se non per specifiche (non più solo rilevanti, come pure qualcuno aveva proposto) ragioni di pubblico interesse. Ritorniamo alla civiltà giuridica e alla civiltà di cronaca. Perché una vita non può e non deve finire per una notizia in prima pagina. Può essere, questo, sufficiente? Può, da sola, la direttiva europea rendere questo Paese più civile? Credo proprio di no: non si può risolvere l’intero problema affrontandone solo una parte. Bisognerebbe avere il coraggio di mettere mano a una nuova disciplina, ampia, strutturata, che riequilibri il rapporto tra vicende giudiziarie e media. Giace, incardinata in Commissione Giustizia, una proposta di legge a mia prima firma sul tema, condivisa da esponenti di tutti i partiti rappresentati in Parlamento: senza pretese, può rappresentare un punto di partenza per una discussione che involge aspetti non contemplati dal decreto attuativo della direttiva 343. Solo quando avremo stabilito un punto di equilibrio, infatti, potremmo dire di vivere in un Paese che tutela tutte le libertà in gioco. Catello Vitiello

Da Mafia Capitale a Geenna, così lavorano i titolisti delle procure. I nomi delle indagini non solo evocano i reati ipotizzati ma, a volte, hanno più successo e più effetti dell'intera inchiesta. Ora potrebbero sparire per sempre. Simona Musco su Il Dubbio il 25 ottobre 2021. Super evocativi. In alcuni casi «sentenze anticipate», dice chi, come Marco Scarpati, è uscito pulito da un’inchiesta che ancora lo perseguita, con tanto di minacce di morte online e sguardi storti dei passanti. Sono i nomi delle indagini, spesso frutto di fantasia, giochi di parole che evocano i reati ipotizzati ma che, a volte, hanno più successo e più effetti più dell’intera inchiesta. E ora, con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, potrebbero sparire per sempre. Per Enrico Costa, deputato di Azione e viceministro della Giustizia durante il governo Renzi, l’ansia di trovare un nome in grado di rimanere impresso nella memoria, capace di riassumere in sé le accuse e anche i giudizi su chi capita nelle maglie della giustizia, si tratterebbe di una vera e propria forma di “marketing giudiziario”. «Il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali – ha scritto recentemente in un intervento sul Foglio -. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico».

Mani Pulite

Di esempi ce ne sono a centinaia. Il più famoso di tutti è, senz’altro, “Mani Pulite”, inchiesta che cambiò le sorti politiche dell’Italia e che contribuì a creare quell’immagine della toga moralizzatrice e giustiziera alla quale molti giovani laureati in giurisprudenza si ispirarono pensando ad un futuro in magistratura. Quell’inchiesta deve il suo nome ad una risposta data dal deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata al Mondo nel 1975: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non le abbiamo mai messe in pasta». E come se non bastasse il nome scritto sul fascicolo in mano al famoso pool milanese, anche la stampa ci mise del suo, coniando un nuovo termine con il quale identificare l’inchiesta: Tangentopoli. Ma il ruolo dei media non si limitò a questioni di etichetta: quell’indagine si trasformò in un vero e proprio evento mediatico e la stampa contribuì ad affossare i partiti della Prima Repubblica. Le notizie sulle indagini riguardanti politici e manager arrivavano nelle redazioni a ritmo incessante. In quel periodo verificare le notizie, oltre a non essere mai stato definito esplicitamente come un obbligo dei giornalisti, era particolarmente difficile proprio per i ritmi serrati. Fu un’epoca di grandi eccessi, ammessi dalla stessa categoria giornalistica, e di grandi dibattiti nelle redazioni sull’opportunità di pubblicare o meno, in un regime di concorrenza spietata, notizie non accuratamente verificate. Il caso esplose quando il deputato socialista Sergio Moroni e il manager dell’Eni Gabriele Cagliari si suicidarono. In una lettera indirizzata al presidente della Repubblica e scritta poco prima del suicidio, Moroni etichettò come un’ingiustizia il fatto che «una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie».

Mafia Capitale

A Roma l’inchiesta col nome più evocativo è forse quella relativa al “Mondo di Mezzo”, al quale veniva contestata una mafiosità alla fine smentita dai tribunali. La sentenza di Cassazione, nel 2019, ha infatti certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura, cioè quell’associazione di stampo mafioso che, con violenza, si è occupata di usura, riciclaggio, corruzione mettendo le mani su attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati assieme all’ex Nar Massimo Carminati, cui si deve il nome dell’inchiesta: «È la teoria del mondo di mezzo, compà – si sente dire durante un’intercettazione -. Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo». Ma per i giudici, la teoria investigativa che ha di fatto cambiato le sorti della politica capitolina, spianando la strada all’ascesa del M5S al grido “onestà”, non ha trovato riscontri.«I risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma “fama” criminale mafiosa», si legge nelle motivazioni della sentenza.

Geenna

A svelare l’esistenza della ‘ndrangheta in Val d’Aosta è l’inchiesta “Geenna”. Un nome di una potenza incredibile, se si pensa che tale termine significa letteralmente inferno. Si tratta della valletta scavata dal torrente Hinnom sul lato meridionale del monte Sion, maledetta dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di sacrificare i bambini dopo averli sgozzati. La valle divenne quindi una discarica e “cimitero” per le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti, che venivano bruciati. Insomma: in quella valle, laddove la ‘ndrangheta aveva preso piede, tutto era da considerare maledetto, stando al nome dell’inchiesta. Ma lì in mezzo, tra gli arrestati e i processati, c’è anche gente come Marco Sorbara, ex consigliere regionale, assolto a luglio scorso dall’accusa di essere un concorrente esterno alle cosche. Per lui «il fatto non sussiste», ma prima che ciò venisse provato ha dovuto trascorrere 909 giorni in custodia cautelare. Insomma, un inferno il suo, quello per davvero. Una sofferenza tale da pensare anche al suicidio: «Dopo due settimane ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo – ha raccontato al Dubbio -. Perché non aveva più senso la mia vita». Per un innocente, ha sottolineato, «anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso».

Angeli e demoni

L’indagine sugli affidi in Emilia Romagna ha rappresentato un altro buco nero per la politica e l’informazione italiane. Una vicenda iniziata nel 2018 – a giorni il gup si pronuncerà sulla richiesta di rinvio a giudizio – che ha fatto irruzione sulla campagna elettorale per le regionali in Emilia provocando un vero e proprio dispiegamento di forze contro il Pd, reo, in quell’occasione, di avere tra i propri tesserati un sindaco indagato, anche se per fatti non legati agli affidi dei minori. Era il sindaco di Bibbiano, paese che all’improvviso si ritrovò sconvolto e sulla bocca di tutti, complice anche la stampa, che ribattezzò l’indagine dandole il nome del piccolo centro emiliano. M5S e Lega, ai tempi insieme al governo, piombarono lì, scatenando una vera e propria tempesta mediatica contro il Partito democratico e dando il là ad una campagna discriminatoria contro gli assistenti sociali, da quel momento in poi minacciati, inseguiti e screditati. Tra gli indagati anche Scarpati, tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, docente universitario, consulente per diversi governi e autore di libri sul tema, finito nell’inchiesta con l’accusa di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza e per singoli incarichi per la difesa di minori. Fu la stessa procura a chiedere e ottenere la sua uscita di scena dall’inchiesta più mediatizzata degli ultimi anni, ma nonostante ciò gli effetti della macchina dell’odio continuano. «Qualche giorno fa, davanti al tribunale, un uomo, passandomi vicino, ha sputato per terra insultandomi – raccontò al Dubbio a gennaio dello scorso anno -. E tutto questo è spaventoso». Fu lui a chiarire quanto il nome di quell’inchiesta incidesse sulla percezione della vicenda nell’opinione pubblica: «Quel nome è una follia – spiegò ancora -. Chi chiama un’inchiesta con quel nome sta già emettendo una sentenza. Io sono figlio di un poliziotto, orgoglioso di esserlo. E mio padre mia ha sempre detto una cosa: ricordati che quando arresti una persona gli hai tolto la libertà, il bene supremo. E non devi togliergli altro, come la dignità, perché quell’uomo è un tuo prigioniero. Mio padre è stato prigioniero per anni durante la guerra e ricordava perfettamente cosa volesse dire. Ora non ti tengono più prigioniero, cercano di toglierti la libertà. Io faccio l’avvocato e l’idea che qualcuno pensi a togliere la dignità ad una persona sottoposta ad indagini è inaccettabile».

Spes contra spem

Il nome “Spes contra spem”, dato ad un’indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria, non è soltanto evocativo. La locuzione latina di San Paolo, che significa “la speranza contro la speranza”, è «la storia di Caino sul quale il Signore pose un segno perché nessuno lo toccasse che, nella stessa vita, divenne finanche costruttore di città», spiegò in una nota l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Che accusò l’antimafia dello Stretto di aver usurpato le parole di San Paolo, violentandole. L’inchiesta racconta di come il boss Pasquale Zagari di Taurianova, tornato in libertà dopo trent’anni di reclusione, avrebbe tentato di riprendere il controllo del territorio. Ma per l’associazione, l’utilizzo di quel termine rappresenta quasi uno smacco all’attività di chi si impegna a garantire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, veniva evidenziato come Zagari, dopo esser ritornato in libertà, «aveva avviato un apparente percorso di riabilitazione sociale, partecipando a dibattiti, convegni e incontri, come testimone di redenzione, pentendosi del suo passato criminale, e contro l’ergastolo ostativo, in ultimo a Taurianova, nel settembre 2020». Ovvero quando Nessuno tocchi Caino si trovava in Calabria per la presentazione del libro “Il viaggio della speranza”: il racconto del Congresso di Opera che ha celebrato la sentenza Viola contro Italia della Corte Edu. «“Spes contra spem” è l’archetipo antropologico della nostra civiltà – scriveva l’associazione in una nota -. Ridurlo a un’operazione repressiva è un sacrilegio nel senso etimologico: si porta via qualcosa di sacro, per credenti e non, di inviolabile. Si chiudono porte e finestre, nel nome della diffidenza e della paura. Non è ironia, che per Calvino è sempre “annuncio di un’armonia possibile”. È maltolto che, presto o tardi, va sempre restituito». 

Creiamo un terzo organo. Contro la gogna mediatica ci vuole il garante di indagati e processati. Giorgio Varano su Il Riformista il 3 Ottobre 2021. Sul rispetto effettivo del principio della presunzione di innocenza i vari dibattiti, sui rimedi legislativi per dare concreta attuazione alla direttiva europea, sembrano partire tutti da alcuni presupposti errati. La tutela del diritto alla presunzione di innocenza delle persone sottoposte a indagini o processo non può essere attuata solo attraverso il controllo del giudice sulla grammatica degli atti, o attraverso sanzioni per la pubblicazione di atti o del loro contenuto. Questa tutela, perché sia piena, deve accompagnarsi anche al diritto a non subire un processo mediatico, cioè la traslitterazione populista del processo penale nell’alfabeto giustizialista. Occorre, perché ci sia una tutela effettiva, la creazione di un luogo e di un momento di riflessione esterni alla magistratura, all’avvocatura, alla politica e ai media, e che tutto questo sia gestito da un soggetto terzo e indipendente. Prevedere, inoltre, la legittimazione esclusiva della parte debole – indagato o persona processata – nel richiedere tutela, non risolverà in alcun modo il problema all’interno delle indagini e del processo. Appare evidente, infatti, che la posizione di debolezza psicologica di queste persone non stimolerà l’attivazione dei blandi rimedi previsti. Sembra che si parta da due errati presupposti: che il processo penale sia solo “un affare” tecnico e delle sole parti, e non anche un rito che rappresenta una riflessione della società su sé stessa, e che la presunzione di innocenza sia un principio da tutelare solo all’interno del limitato spazio delle indagini e del processo. La giustizia, per essere tale, deve mantenersi alla giusta distanza dai conflitti e dalle passioni. A maggior ragione, dunque, tali distanze devono essere richieste a chi deve controllare il rispetto delle norme che non attengono solo al processo penale propriamente inteso ma al vivere civile, in materie che richiedono inoltre competenze specifiche non solo di diritto ma anche, tra le altre, di giornalismo, sociologia, scienze cognitive e comunicazione. Non a caso la direttiva europea lascia ampia libertà ai singoli stati membri nell’individuare i soggetti controllori del rispetto dei principi stabiliti in tema di presunzione di innocenza. Le persone sottoposte ad indagini e processo rappresentano una minoranza debole, perché non solo sono “attenzionate” dallo Stato con tutta la forza invincibile che lo contraddistingue ma anche da vasti settori dei media, della politica e della società, e sono vittime spesso di processi di piazza e anche di un linguaggio dell’odio proveniente non solo da una parte dell’opinione pubblica, ma persino da una parte della politica e da alcune istituzioni del nostro Paese (ministri, presidenti di commissioni, etc.). La magistratura e l’avvocatura non dovrebbero occuparsi della tutela di tali diritti al di fuori del processo. Perché hanno interessi confliggenti, non ne hanno le competenze e sono già parti all’interno dello spazio previsto per il loro agire: le indagini e i processi. Tale “tutela esterna” andrebbe inoltre evitata anche per non incidere negativamente sul processo. Questa competenza andrebbe affidata ad una autorità garante esterna, indipendente, collegiale, composta da esperti in tante materie. Una autorità nominata dal Presidente della Repubblica e non dal Ministro della Giustizia, perché sia quanto più possibile indipendente e non collegata, e non collegabile un domani, alla stessa. L’istituzione di un Garante, per i diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo, potrebbe rappresentare la creazione di un organo “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico. Al Garante dovrebbe essere riconosciuta anche la possibilità di adire in via diretta – come alla parte interessata – l’Autorità garante per le comunicazioni, le cui competenze andrebbero ampliate. Il processo mediatico è un virus che non colpisce solo il diretto interessato ma tutta la società, nella quale si diffonde – attraverso tutti i vari tipi di media – a ritmi incontrollabili e con effetti a lungo termine non rilevabili nell’immediato. La competenza ad intervenire, dunque, non può essere relegata al solo spazio di indagine o processuale. L’attività di denuncia, di tutela ma anche di studio e di raccolta dei dati del Garante rappresenterebbe un momento di riflessione importante, e potrebbe essere concretamente utile ad arginare gli effetti del processo mediatico e quindi ad attuare una più vasta ed effettiva tutela del principio della presunzione di innocenza. Giorgio Varano

Ai cronisti il file di Word della sentenza: processo mediatico 4.0. Giallo a La Spezia sul "documento di lavoro" (che doveva restare nei pc della Corte d'Assise) della condanna di Marzia Corini per la morte del fratello.  Errico Novi su Il Dubbio il 30 settembre 2021. Vabbe’, una certa concomitanza fra uffici giudiziari e redazioni giornalistiche è ormai acclarata. Ma nonostante la cronaca ne offra continui esempi, ci sono sempre nuove assonanze da scoprire. C’è un caso recente, relativo a un processo di grande clamore: quello che ha visto condannata l’anestesista Marzia Corini per l’omicidio, così qualificato dalla sentenza, del fratello Marco Valerio, morto esattamente 6 anni fa, il 25 settembre del 2015. Storia che aveva tutti i numeri per attrarre l’attenzione dei giornali. Una persona, il compianto avvocato Corini, notissimo, oltre che facoltoso: era stato difensore fra gli altri di Gianluigi Buffon e grande amico di Zucchero. Un destino tragico, quello del professionista, spentosi a soli 50 anni per un tumore. Un’eredità consistente. Una sorella anestesista, Marzia appunto, che gli ha praticato una sedazione profonda quando il povero avvocato Corini era già alle cure palliative, consumato dal cancro. La morte che per l’accusa, e la Corte d’assise di La Spezia, sarebbe conseguenza non della gravissima malattia ma dei farmaci somministrati dalla sorella. Una tragedia, ma non priva dunque di aspetti in grado di catturare l’attenzione, anche un po’ morbosa, dei media e del grande pubblico. Fin qui nulla di diverso da tanta letteratura mediatico-giudiziaria. C’è però un dettaglio: la sentenza, appena depositata, è finita quasi in tempo reale, lo scorso 10 agosto, in file di Microsoft Word alle redazioni dei giornali, senza che alla cancelleria risultassero richieste di copia depositate da altri se non dai difensori degli imputati. Curioso. Una novità, appunto, considerato che non risulta alcun soggetto esterno all’Ufficio giudiziario che fosse in possesso della sentenza nel suo formato digitale consueto, il Pdf, e che potesse quanto meno consentire ai media di convertirlo nella più fruibile versione Word. A poche ore dal deposito delle motivazioni, avvenuto il 9 agosto, il file nell’insolito — per una sentenza — formato “di lavoro”, era a disposizione della Nazione e del Secolo XIX, dalle cui redazioni è stata inoltrata ad altri quotidiani. Eppure atti del genere non sono certo disponibili in quella modalità. E costano: 250 euro. Vanno richiesti in cancelleria: in quella del Tribunale di La Spezia, ad agosto, non si sono presentati altri se non gli avvocati di Marzia Corini e dell’altra donna condannata, Giuliana Feliciani. Insomma, non si sa come sia stato possibile che in così poche ore, il tempo di acquisirlo e riversarlo negli articoli dei giornali locali liguri, toscani e lombardi, il documento digitale sia arrivato in quell’insolito formato ai certamente abili cronisti.

Esposto dei legali al Csm: «Quel file era editabile»

Non si sa, e vorrebbe saperlo però la difesa della dottoressa Corini. La 57enne anestesista è stata a lungo in servizio all’ospedale Cisanello di Pisa, da molti anni è volontaria per Medici senza frontiere e Croce rossa internazionale, si è sempre professata innocente e già prepara ricorso in appello contro la pesante condanna: 15 anni di carcere. Così l’avvocata Anna Francini, professionista dello studio del professor Tullio Padaovani, difensori di Marzia Corini, ha rivolto al Csm quella stessa domanda: com’è possibile che la stampa sia entrata in possesso di un “file di lavoro” che avrebbe dovuto essere nella sola disponibilità del collegio giudicante? Soprattutto, non è anomalo che un documento così delicato circoli in un formato per definizione modificabile? Sono interrogativi che la professionista del Foro di Pisa rivolge all’organo di autogoverno dei magistrati in un esposto. Inviato, lo scorso 21 settembre, anche ai due titolari dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe: la guardasigilli Marta Cartabia e il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.L’avvocata Francini segnala come l’11 agosto scorso — cioè il giorno dopo quello in cui i legali avevano chiesto alla cancelleria del Tribunale spezzino copia della sentenza, ritirata in cartaceo il giorno stesso dalla difesa Feliciani e solo il 31 agosto dalla difesa Corini — sia la Nazione che il Secolo XIX «hanno dato la notizia del deposito della sentenza riportando ampi stralci della stessa, con citazioni fedeli e puntuali, con tanto di virgolettato, e hanno riportato alcuni passaggi della motivazione».

«Violate le norme sui rapporti coi media»

Leggi alla mano si tratta di un’anomalia. Perché, come ricorda la legale di Corini, i rapporti fra Uffici giudiziari e stampa sono regolati da norme ben precise, e «nei fatti come sopra esposti non sembra di poter rilevare il rispetto» di quelle regole. Si tratta di un «fatto estremamente grave», si legge nell’esposto, considerato che i cronisti sono venuti in possesso «dell’indice della sentenza e della sua parte motiva in forma word, quindi liberamente editabili».

È alquanto singolare, per Francini, che «i due files, in quella forma, siano pervenuti nella disponibilità di una pluralità di soggetti diversi dai componenti del Collegio della Corte d’Assise, tant’è che una copia degli stessi (senza intestazione né timbro di deposito né sottoscrizione) è stata inoltrata a un collega di una testata del Nord Italia», come l’avvocata documenta con una mail, riportata nell’esposto. Uno dei passaggi più delicati, nella segnalazione inviata a piazza Indipendenza, riguarda il fatto che il file (sarebbe meglio dire il doppio file) in formato Word sia giunto «quanto meno» ai giornali. Un atto delicatissimo come una pronuncia di primo grado nella sua “forma digitale grezza” su un caso di omicidio, insomma, avrebbe ballato in modo imprecisato e perciò preoccupante, segnala la penalista. In Word, quel documento, poteva essere solo nei pc della Corte d’assise. È finito in giro come se niente fosse, nella forma in cui non sarebbe mai dovuto arrivare all’esterno dell’Ufficio. Una liberalizzazione degli atti giudiziari. Che a qualcuno potrà suonare come segno di progresso. Ma che in realtà è l’ennesima, disarmante anomalia della giustizia penale italiana.

ABRACARTABIA.  Marco Travaglio Fatto Quotidiano il  29 Settembre 2021. In attesa del prossimo film di Woody Allen, chi vuol farsi qualche sana risata può vedersi le audizioni alla Camera sul dlgs Cartabia per “rafforzare la presunzione di innocenza”. Cioè per abolire la cronaca giudiziaria. Ormai, fra depenalizzazioni, prescrizioni, improcedibilità, cambi di giurisprudenza à la carte, minacce ai giudici e altre porcherie, il rischio che un potente sia condannato è inferiore a quello che Italia Viva superi il 3%. Infatti ciò che spaventa lorsignori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno. Quindi i pm e le forze dell’ordine potranno parlare delle loro inchieste “solo quando è strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. Cioè: meglio per loro se si stanno zitti, così i media non scrivono più nulla e la gente non sa più una mazza. Ogni tanto – abracadabra! – sparirà qualcuno da casa, parenti e amici penseranno al peggio e chiameranno Chi l’ha visto?, i giornali segnaleranno il curioso fenomeno dei desaparecidos come nell’Argentina anni 70: anni dopo si scoprirà che era stato arrestato, ma non era strettamente necessario dirlo. Nel caso in cui un pm o un agente temerario si ostinino a informare di un’indagine, dovranno astenersi "dall’indicare pubblicamente come colpevole” l’indagato o l’imputato. Uno spasso: per legge il pm che chiede al GIP di arrestare tizio deve indicare i “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico: ora dovrà aggiungere che sembra colpevole, ma è sicuramente innocente. Anche se l’ha colto in flagrante o filmato o intercettato mentre accoltellava la moglie, o spacciava droga, o frugava negli slip di un bambino. E persino se ha confessato. Formula consigliata: “È innocente, arrestiamolo”. Severamente vietato poi “assegnare ai procedimenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Retata di narcotrafficanti, mafiosi, terroristi, scafisti, papponi, pedofili, tangentisti? Operazione “Giglio di Campo” o “Tutta Brava Gente”. Anche fra i reati da contestare, evitare quelli che fanno pensar male: non più “associazione per delinquere”, ma “sodalizio conviviale”. La stampa dovrà cospargere le pagine di vaselina, evitando termini colpevolisti quali “criminalità organizzata” (tutt’al più disorganizzata, ecco). Ma questo già avviene su larga scala, infatti ieri l’Ordine dei giornalisti e la Fnsi han dato buca alla Camera. Se già i media chiamano statisti i pregiudicati, esuli i latitanti e perseguitati i colpevoli prescritti, il dlgs Cartabia è pleonastico. Anche grazie ai giudici che si portano avanti col lavoro e cancellano brutture come la trattativa Stato-mafia, condannando solo i mafiosi. Che trattavano sì, ma da soli. Infatti ora si chiama “trattativa mafia-mafia”.

Travaglio. L'altra bestia. Marco Travaglio Fatto Quotidiano il  30 settembre 2021Morta prematuramente la Bestia salviniana in un festino con coca e romeni nella cascina di Morisi, consoliamoci con l’altra formidabile macchina spara merda, attiva da cinque anni a edicole e reti unificate contro una sola persona: Virginia Raggi. Il celebre titolo di Libero “Patata bollente”, stigmatizzato con raccapriccio dall’intero tartufismo nazionale, è solo l’apice di un’ignobile campagna iniziata il giorno dell’elezione di una sindaca “rea” di essere donna, grillina e per giunta onesta. Le ridicole accuse penali, tutte cadute in tribunale e in appello, non bastavano: bisognava dimostrare che era pure corrotta (Corriere, Repubblica e Messaggero, per una storiella di nomine e polizze, evocarono Tangentopoli e il Giornale annunciò il suo arresto) e mignotta (Repe l’assessore Berdini su La Stampale inventarono una liaison col dirigente Romeo). Qualunque cosa accadesse a Roma (ma anche fuori) era colpa sua. Lei però restò in piedi, allora si cominciò a dire che aveva i giorni contati, prossima al ritiro per un posto da sottosegretario, scaricata da Grillo, Conte&C. Infatti. Così si disse che non la rivotava nessuno: poi arrivarono i sondaggi e si capì che se la poteva giocare. Panico. Così si ricominciò a inventare. Il disastro dell’Atac (ereditata in fallimento e risanata), gl’impianti per i rifiuti (competenza regionale), i cinghiali (idem), la “discarica fuorilegge” ad Albano (legittima per il Tar), lo stadio della Roma (da quando c’è lei, farlo è il male assoluto, ma anche non farlo), la grande occasione persa delle Olimpiadi (cioè del default della capitale indebitata per 15 miliardi da quelli bravi di prima), i “no a tutto”(ha candidato Roma a Expo2030 e Draghi ha appena firmato), la strage di pesci nel Tevere (li ammazza lei uno per uno), la città inondata dalle bombe d’acqua (a Roma sono colpa sua, a Milano della pioggia), le piste ciclabili “elettorali”(bandi di due anni fa), il museo della Shoah “elettorale”(progetto del ‘97, lavori iniziati con Veltroni nel 2005), i fuochi d’artificio pagati dal Municipio di Ostia per la sua cena elettorale (si fanno ogni anno e dal ristorante manco si vedono), la cena “fuorilegge perché senza Green Pass”(in una terrazza all’aperto dove la legge lo esclude), il mancato vaccino perché “No Vax ” o “Ni Vax”(è guarita dal Covid e ha gli anticorpi ancora alti). Ignazio Marino ricorda che la Raggi si è scusata mentre il Pd ricandida i suoi pugnalatori? Rep risponde per Gualtieri che lei candida il cameriere che testimoniò sulle cene a sbafo: come se andare in tribunale per fare il proprio dovere fosse uguale ad andare dal notaio per cacciare Marino. E ora tutti in coro: viva i buoni, abbasso la Bestia! Anzi, morta una Bestia ne resta un’altra. Marco Travaglio FQ 30 settembre 2021

“Il processo mediatico è un diritto intangibile!”, Travaglio si gioca il tutto per tutto. Clamoroso editoriale firmato dal direttore del Fatto. Il quale dichiara che i politici “non temono più di finire in galera ma sui giornali”, e che dunque la sputtanopoli quotidiana può anche prescindere dall’accertamento processuale. È un proclama estremo, una rivendicazione di chi si sente prossimo alla sconfitta. Ma che non per questo va sottovalutato. Errico Novi su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Marco Travaglio firma sul Fatto quotidiano un editoriale che sembra una rivendicazione. Proclama il diritto, a suo giudizio intangibile, al processo mediatico. Attacca le norme sulla presunzione d’innocenza. Con contorno di dileggio per la ministra Cartabia. Come ha scritto Daniele Zaccaria sul Dubbio di oggi, un quotidiano-manifesto dell’intransigenza come il Fatto si trova in questi giorni a reagire contro la botta della sentenza di Palermo. Tutto bene, nel senso che, a parti invertite, un giornale garantista farebbe lo stesso. Ma nell’altolà di Travaglio al decreto sulla giustizia mediatica c’è qualcosa che va oltre la polemica: c’è il segno di una sconfitta che incombe. Di un vento che è cambiato forse irreparabilmente. Dichiarare “ciò che spaventa lorsignori non è più di finire in galera, ma sui giornali: cioè che si sappia quel che fanno” ha del clamoroso, e può spiegarsi solo con la logica del tutto per tutto. È la difesa di un mondo e di un modo di intendere l’informazione giudiziaria forse al tramonto. Una certificazione di sconfitta.Non possiamo essere certi che andrà così. Ma come nelle partite decisive, meglio mettere al sicuro il risultato che cantare vittoria in anticipo.

Ma sì, adottiamo il lodo Travaglio: addio processi, basta la gogna. Per il direttore del Fatto Quotidiano il diritto al processo mediatico è sacro, altro che presunzione d'innocenza. Scrive l'avvocato Giuseppe Belcastro.  Giuseppe Belcastro, avvocato, co-responsabile Osservatorio Informazione giudiziaria Ucpi, su Il Dubbio il 29 settembre 2021. Tra frizzi e lazzi, nello spassoso editoriale di ieri, il Direttore Travaglio declina molti esilaranti esempi di ciò che accadrebbe se il decreto Cartabia – che recepisce la direttiva europea sulla presunzione di innocenza – fosse approvato così com’è (degli “inasprimenti” richiesti dall’Unione Camere penali italiane non parliamone neppure). Non avendo una penna così acuminata, né una verve satirica bastevole a contrastare tanto simpatico umorismo, direi che la partita è persa a tavolino. Per abbandono. Una riflessione però, forse mi riesce. Tutto questo divertentissimo arringare si regge sull’idea che rafforzare la presunzione di innocenza equivalga ad abolire la cronaca giudiziaria. Certo, se la cronaca giudiziaria è l’acritico amplificatore della narrazione di una parte (l’accusa), in un momento in cui nessuno ha ancora accertato un bel niente (le indagini) e senza il minimo rispetto di chi, alla fine, può anche essere assolto (l’indagato) e proprio per questo resta fino a sentenza presunto innocente, beh, allora ha perfettamente ragione Travaglio. E anzi, visto che le cose stanno così, anche il problema dei tempi della giustizia è finalmente risolto: a che serve il processo? A nient’altro che a dileggiare quei Giudici che, con sfrontata tracotanza, osassero affermare infine che le narrazioni di cui si diceva sono storielle; il che, per inciso, accade anche troppo spesso. Non resta allora che ringraziare per la brillante idea capace, in un sol colpo, di raggiunge gli obbiettivi primari che affaticano da anni studiosi e politici, i quali saranno pure preparati, ma mancano di spirito. Era semplice in fondo, solo che sbagliavamo la formula. Altro che Abracadabra. Sim Sala Bim e il processo è sparito! (Qualcuno, intanto, dica a Michael Giffoni di non aversene a male: da queste parti le cose vanno così).

“Non capisci nulla”, “Devi saper perdere”. Furiosa lite Travaglio-Sallusti.  Redazione di Libero Quotidiano il 25 Settembre 2021. Ieri ci eravamo chiesti: chissà se basterà ripetere per tre volte la parola “assoluzione” per riportare a più miti consigli gli irriducibili manettari di questo Paese. La risposta, non che ne attendessimo una differente, ce l’ha fornita ovviamente il Re della categoria: Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano, sconvolto dall’assoluzione di Dell’Utri&co., non si capacita di come i giudici della corte d’Assise di Palermo possano aver cancellato 25 anni di teoremi sulle stragi di mafia del 1992-93. E così s’ostina a ripetere una cantilena: quella del “la trattativa c’è stata, ma per le toghe trattare coi delinquenti non è reato”. Tradotto: comunque vada, ho ragione io. Ieri sera Travaglio ha ripetuto la scenetta anche di fronte alle telecamere di La7. I giudici hanno assolto gli ex ufficiali dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni perché “il fatto non costituisce reato”? Poco importa. Le toghe hanno smontato le accuse contro l’ex senatore Marcello Dell’Utri perché “non ha commesso il fatto”? Chi se ne importa. In fondo la “stampa delle procure” sulla Trattativa ha costruito un filone mediatico, così come il partito delle manette, il Movimento Cinque Stelle, ha cavalcato festante le condanne in primo grado nel 2018. Dunque ammettere la sconfitta per loro deve essere davvero doloroso. Se non impossibile. Ospite nel salotto di Lilli Gruber, Travaglio ha fatto trapelare tutto il nervosismo accumulato con la batosta. E ne è nato un duro scontro col direttore di Libero, Alessandro Sallusti. “Vedi che non riesci a capire – ha attaccato Travaglio mostrando i fogli del dispositivo – sono due pagine, ci vuole tanto sforzo? Te le mando se non ce le hai”. Immediata la replica di Sallusti: “Io capisco che noi giornalisti siamo dei tuttologi, ma non possiamo insegnare ai migliori investigativi del Paese” come fare il loro mestiere. A quel punto il direttore del Fatto non ci ha visto più. Ed è partito con le offese: “Tu sei un nientologo, non capisci nulla di quello che c’è scritto. Il fatto non costituisce reato vuol dire che il fatto c’è, ma non è illecito. Vuol dire che hanno trattato a nome tuo e a nome mio con la mafia senza dircelo. Mentre lo Stato faceva finta di combattere la mafia. E la mafia si è convinta che trattando con lo Stato le conveniva fare altre stragi. E ha fatto fuori Falcone, Borsellino, gli uomini della scorta e le stragi del ’93”. Perfetti i due affondi di Sallusti. Primo: il “fatto non costituisce reato” vuol dire che “non costituisce reato, punto”. Quindi il processo non andava nemmeno celebrato, con tanti saluti ai vari pm che sulla Trattativa hanno costruito carriere. E secondo: caro Travaglio, a un certo punto, “bisogna pure saper perdere”.

Stato mafia, Renato Farina: Travaglio e i manettari rosicano, la trattativa non c'era e loro minimizzano. Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. Si è illuminata la scena di un delitto. Ma il delitto non è quello che la Procura pretendeva di aver delineato. Il delitto è stato il processo. Per i danni che ha causato a persone innocenti, per la diffamazione insistita di persone e istituzioni, e soprattutto perché, sotto la maschera di procedure formalmente legali, si è consumato un tentativo di rovesciare l'ordine costituito. Diciamolo: un putsch togato. La Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha infine placcato, con mossa decisa e chiara come il sole, questo pasticciaccio infame a pochi metri dalla meta. Deo gratias. Davanti a questa sentenza si sono manifestati diversi livelli di scontento. Individuarli è molto istruttivo. Prima però, anche se note a tutti, è il caso di ricordare, con una certa personale soddisfazione, le decisioni della Corte sicula. L'accusa, esponendo immediatamente le sue tesi con intonazioni definitive, ha conficcato un cuneo d'acciaio nel cuore dello Stato, identificandolo come complice di Cosa nostra. Con l'aria di fare un processo locale, con procedure buone per un furto di banane, ha impegnato polizia giudiziaria e forze investigative enormi. Un normale processo? Mezzi abnormi. Intercettazioni arrivate fin nelle stanze del Quirinale, con morti di crepacuore. In realtà abbiamo assistito per la durata di dieci anni, da quando cioè i locali pm formalizzarono le loro tesi, a una sorta di scommessa sulla pelle della democrazia. Ingroia, quindi Di Mat- g teo e poi tanti altri hanno so. stenuto che i carabinieri al servizio di vertici istituzionali hanno venduto l'Italia alla mafia, aiutandola a far stragi. Non uso il condizionale perché questo modo verbale non è mai stato usato, neppure nella formulazione delle ipotesi peggiori. Torquemada era un moderato e un cultore del dubbio, rispetto a costoro.

UNA STORIA SEMPLICE - I giudici hanno ribaltato l'assunto colpevolista, un kappaò senza resurrezione. Hanno stabilito che la trattativa c'è stata, ma non è stata affatto un reato. Forse, aspettiamo le motivazioni, doverosa. Ci piace qui citare un giurista con i fiocchi e i controfiocchi, Giovanni Fiandaca, che lo scrisse ben otto anni fa su Il Foglio, e cercò invano di strappare i predestinati alla dannazione, e perciò subito vilipesi, dalle mani ungulate di pm e loro appendici mediatiche. Fiandaca fu sommerso dal silenzio dei grandi (?) giornali e dalle contumelie dei mozzaorecchi e delle loro tricoteuses. Scrisse il giurista: «Gli intermediari non mafiosi della trattativa Stato-mafia agivano sorretti dalla prevalente intenzione di contribuire a bloccare futuri omicidi e stragi: un obiettivo, dunque, in sé lecito, addirittura istituzionalmente doveroso». Do-ve-ro-so. Si erano posti l'«obiettivo salvifico di porre argine alle violenze mafiose - e non già di supportare Cosa nostra nei suoi attacchi contro lo Stato». È così semplice, una storia semplice, intitolò Leonardo Sciascia un suo racconto. Ma certo. Gli ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno dinanzi a chi spargeva morte si erano mossi per salvare gli ostaggi, cioè gli italiani. Invece i mafiosi Bagarella, Cinà, Brusca hanno trattato, loro sì, per attentare allo Stato. C'è una differenza o no tra i terroristi che tengono la pistola alla tempia di innocenti e chi cerca di mettere al sicuro la gente, prende tempo, appronta una scappatoia? Basta la buona fede, non c'è bisogno del quoziente intellettuale di Cartesio. Il processo era in sé stesso dunque, assai prima della sentenza, una trappola dettata dal pregiudizio politico e culturale contro chi lottava contro la mafia senza essere della parrocchia togata. In questo modo si è aperta la strada giudiziaria alla delegittimazione dello Stato, alla sua parificazione morale a Cosa Nostra. Non c'è bisogno di avere le lampadine in testa come Archimede Pitagorico o Eta Beta per arrivarci. A questo punto per i sostenitori sperticati o coperti di questo colpo al cuore dello Stato si è posto il problema di salvare i soldatini Ingroia, Di Matteo ed epigoni. Sono state due le tecniche praticate per dribblare l'ostacolo di una sentenza che ghigliottina il Robespierre che la stava manovrando.

DUE TECNICHE - 1) C'è quella volgarotta di quanti la buttano sul ridere al loro funerale. Rovesciano la vacca e si sganasciano perché ha le tette. È il caso del Fatto Quotidiano, che nei giorni scorsi aveva lanciato con tono limaccioso un altolà alla Corte perché si guardasse bene dal dare torto alla procura. Davanti alla mala parata, Travaglio cambia tono e sceglie quello della barzelletta sfigata da seminarista in gita per provare a scansarsi. E sostiene a tutta pagina e maiuscolotto: «IMPAR CONDICIO. Trattare con la mafia si può, con lo Stato no». Capita la battuta? Grande satira, non è vero? Per Marco Travaglio lo Stato e la mafia sono la stessa cosa. Chi cercava di negoziare per liberare dei bambini in mano ai banditi è uguale ai killer. E se promette un salvacondotto, è complice. Ma va' là, l'insuccesso ti ha dato alla testolina. Non spiace qui notare che i natali del processo sulle trattative coincidono, ma guarda un po', con quelli del Fatto: dieci anni buttati via, affinità elettive. 2). C'è un altro modo per edulcorare il colpo, ovattarne l'enormità, impedire che abbia strascichi fuori di Palermo e della piccola vicenda di uomini assolti. Minimizzare. Il campione di questa dottrina dell'incipriare il bernoccolo, zuccherare il fiele è con ampio distacco Carlo Bonini su Repubblica. Inizia con il dire che qui non si è attraversato nessun Rubicone. Nessuna partita decisiva. Nessun contraccolpo a Roma. In fondo la sentenza non chiarisce un tubo, dice. I titoli sembrano il risultato di un corso accelerato di depistaggio, odi opacità omertosa, come usa scrivere lui quando è in forma: «La verità impossibile nella stagione delle ombre». Ancora: «La sentenza e la zona grigia». Nel testo abbondano aggettivi come «labirintico», crescendo irresistibili di avverbi come «psicologicamente e compiutamente», manca lapalissianamente. Insomma: siamo al porto delle nebbie. Il Corriere della Sera? Giovanni Bianconi una cosina la dice. E cioè che il processo, al di là della sentenza, è stato «un errore». Forse citava il capo della polizia di Napoleone, Joseph Fouché che a proposito dell'esecuzione senza prove del duca di Enghien disse: «È peggio di un crimine, è un errore». Sia quel che sia, non si può cercare di impiccare impunemente la brava gente e lo Stato con lei.

Presunzione d’innocenza: finalmente uno scudo per l’accusato dato per colpevole prima della sentenza. Il decreto che attua la direttiva Ue rafforza il principio dell’articolo 27 anche rispetto all’esuberanza dei pm. Che dovranno rettificare le frasi troppo sbrigative sugli indagati. Alessandro Parrotta (direttore ISPEG) su Il Dubbio il 20 settembre 2021. “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, è quanto sancisce l’articolo 27 comma 2 della Costituzione, un principio purtroppo molte volte disatteso dal caos creato dalla costante mediatizzazione dei procedimenti penali. Le conseguenze, come ovvio, sono disastrose per chi è sottoposto alla gogna mediatica: dall’erosione della sfera personale, al danno reputazionale, fino a ledere la dignità personale. Condannato dall’opinione pubblica ancor prima che intervenga la sentenza passata in giudicato: è questo l’esito che travolge indagati/ imputati. E non sono pochi. Già su queste pagine lo scrivente evidenziava come persone ritenute poi innocenti si ritrovino con una magra consolazione, per lo più un trafiletto sull’assoluzione che, come noto, non fa scalpore. Spesso, infatti, nemmeno la sentenza di assoluzione piena ha il potere di ripulire la reputazione frantumata, atto lo scemare dell’interesse per il grande pubblico di casi che vengono consumati, discussi ed interpretati integralmente in una fase processuale embrionale e priva di contraddittorio: quella delle indagini. Il problema è noto tanto agli operatori del settore, quanto agli osservatori operanti nelle sedi Ue, i quali hanno emesso la direttiva 363 del 9 marzo 2016, che intende rafforzare il principio sulla presunzione d’innocenza ex articolo 27 Cost. A distanza di 5 anni le Commissioni parlamentari si sono finalmente viste assegnare il testo del Decreto legislativo in esame, volto per l’appunto ad adeguare la normativa nazionale alle disposizioni della succitata direttiva Ue e relativo al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza”, segnando un notevole cambio di passo rispetto al passato esecutivo, noto, in ambito Giustizia, soprattutto per iniziative assai discusse come il blocco della prescrizione. Ad ogni modo, sarà necessario apprezzare tutte le suesposte intenzioni all’atto pratico, valutando come il Legislatore abbia intenzione di tradurle sul piano positivo. Di primaria rilevanza è l’articolo 2 del testo in esame il quale dispone il divieto per l’Autorità pubblica di additare come “colpevole” la persona sottoposta ad indagini o imputata fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza di condanna o decreto penale di condanna irrevocabili. Il testo è una valida traduzione dell’articolo 27. L’intenzione del Legislatore è qui palese: tradurre sul piano del diritto positivo una norma costituzionale di principio, che, come noto, non gode dello stesso ascolto. Paradossale, sicuramente, ma così è. Ad ogni modo, come noto, ogni disposizione necessita di essere accompagnata da norme sanzionatorie, affinché il diritto sostanziale possa trovare reale e concreta applicazione. A tal fine il comma 2 del medesimo articolo introduce una sanzione dalla funzione che chi scrive definisce ibrida: preventiva, punitiva e riparatoria. Mantenuto fermo, infatti, l’obbligo del risarcimento del danno, nonché le sanzioni disciplinari ed eventualmente penali – le quali richiederanno il classico iter di accertamento in ordine alle responsabilità del magistrato nella divulgazione di informazioni lesive per l’indagato, ovvero imputato – il Legislatore ha inteso creare un procedimento ad hoc che conferisce all’interessato la possibilità di chiedere al magistrato inquirente una rettifica delle dichiarazioni rese. In pratica: il pubblico ministero, obbligato a rispondere entro e 48 ore dalla ricezione della richiesta, può accogliere così come rigettare l’istanza, dandone avviso all’interessato. In caso di rigetto, infine, è data facoltà all’interessato di impugnare il provvedimento adendo il Tribunale ai sensi dell’articolo 700 c.p.c., articolo disciplinante la tutela cautelare d’urgenza. Come esposto il Legislatore non va ad introdurre vere e proprie sanzioni, le quali potranno essere comminate secondo i classici metodi già offerti dall’ordinamento nostrano, ma si spinge oltre, creando un rimedio ad hoc, rapido e immediato in considerazione della natura del bene leso e l’urgenza della riparazione. Il focus, insomma, si sposta dal piano della forza preventiva della sanzione, al piano della riparazione, concedendo al magistrato di rimediare tempestivamente ad errori talvolta fatali per la reputazione di un soggetto, con tutto ciò che ne consegue. Lo stigma del procedimento penale, come noto infatti, è la prima pena che i coinvolti nella macchina giudiziaria sono chiamati a scontare in via anticipata, indipendentemente che questi siano innocenti o colpevoli, stigma che risulta esponenzialmente amplificato nel caso di dichiarazioni pubbliche dal tenore colpevolizzante. Si sa: un procedimento penale pesa, non solo economicamente, ma in termini di anni di vita per chi -a qualsivoglia titolo- si trova ad affrontarlo. L’esigenza di celerità in casi simili non può attendere i tempi della Giustizia e del tutto vana risulta una successiva sentenza di assoluzione, anche se piena, emessa a distanza di anni. Non a caso, come si anticipava, l’articolo in esame tratta il bene giuridico della presunzione di innocenza come un bene da tutelare in via d’urgenza, consentendo di impugnare il rigetto della pubblica accusa alle rettifiche, ai sensi dell’articolo 700 c.p.c…Come rilevato da uno dei principali fautori del decreto, il collega e onorevole Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario alla Giustizia, in un’illuminante intervista offerta sempre su queste pagine, la norma, a carattere prevalentemente riparatorio, gode tuttavia anche di forza preventiva derivante dalla circostanza che un Tribunale, se adito ex art. 700 c.p.c., possa obbligare il Procuratore a rettificare a proprie dichiarazioni, contrariamente alle intenzioni dello stesso. Secondo Sisto – e sul punto chi scrive è concorde – la “posizione d’imbarazzo” a cui verrebbe sottoposto il magistrato rappresenterebbe elemento tale da conferire alla norma il giusto carattere punitivo e conseguentemente preventivo. A ciò si aggiunga che le eventuali rettifiche andranno rese con gli stessi mezzi utilizzati all’atto della violazione della presunzione d’innocenza. Relativamente all’impugnazione del rigetto ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. è apprezzabile l’intento del Legislatore di ricondurre la violazione della presunzione d’innocenza alla tutela d’urgenza. Sul punto va tuttavia detto che la tutela potrà ritenersi realmente efficacie sulla base del Foro presso cui si fa richiesta ex art. 700 c.p.c., in considerazione delle differenti velocità con la quale viaggiano le Corti sparse sul suolo peninsulare. Pertanto, se i tempi dettati dal Tribunale interessato dovessero risultare eccessivi, si andrebbe a vanificare la reale innovazione del Decreto legislativo in esame, la riparazione tempestiva del danno tramite rettifica. Beninteso, lo schema di D.L. rappresenta in ogni caso un notevole passo avanti rispetto all’attuale situazione normativa, e avrà indubbiamente il pregio di diffondere il sostrato culturale giuridico da cui proviene, quello garantista e coerente col dettato costituzionale, il quale potrà vedersi eventualmente migliorato in futuro qualora la sua reiterata applicazione dovesse portate alla luce dei difetti procedurali. Volendo essere pragmatici, oggettivi e il più lucidi possibili nell’analisi, non si possono non evidenziare quelle che sono le potenziali criticità di un Decreto legislativo necessario che, si auspica, entri in vigore il più celermente possibile, così da adeguare l’Italia a quanto Ue e Carta costituzionale impongono.

Presunzione d’innocenza, le regole le decidono i magistrati. E l’avvocatura? Le istituzioni forensi sono lasciate fuori dal dibattito a Montecitorio sul testo che recepisce la direttiva europea. Tra i convocati c'è anche il procuratore Nicola Gratteri. Valentina Stella su Il Dubbio il 22 settembre 2021. Archiviate senza troppi intoppi le riforme del processo civile e penale, sarà poi la volta dell’infuocata discussione per la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Ma prima ancora, le commissioni Giustizia dei due rami del Parlamento dovranno fornire al Governo i loro pareri non vincolanti per l’elaborazione dei decreti attuativi dell’atto che recepisce la direttiva europea per il “Rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. A tal proposito, mentre a Palazzo Madama ancora nulla si muove, alla Camera esiste già l’elenco dei prossimi auditi. Indovinate chi non mancherà? Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, Nicola Gratteri, indicato dall’onorevole e avvocato Andrea Colletti, transitato dal Movimento Cinque Stelle al gruppo più ortodosso de L’Alternativa c’è. Era stato già audito per la riforma del processo penale: a causa dei suoi allarmi sui processi di mafia, il Governo ha apportato delle modifiche all’istituto dell’improcedibilità che per diversi giuristi pongono profili di incostituzionalità. Quello che ci pare singolare è che venga ascoltata propria una figura tra le più in vista mediaticamente della magistratura requirente. Gratteri è quello che ha esordito così alla conferenza stampa dell’operazione Rinascita Scott: «Silenziate tutti i telefonini – disse ai giornalisti – Sarete voi i testimoni e i divulgatori di una giornata storica non solo per la Calabria. Non è una frase fatta, ma è il mio modesto pensiero di un uomo di 61 anni che ha dedicato più di 30 anni del suo lavoro a questa terra. Questa indagine è nata il 16 maggio del 2016, il giorno in cui mi sono insediato perché per me era importante avere una idea, una strategia, un progetto, un disegno, un sogno, una rivoluzione: smontare la Calabria come un trenino Lego e poi rimontarla. Abbiamo arrestato 334 persone, guardate come siamo bravi». E da lì poi la descrizione delle azioni delittuose: tutti colpevoli già, ovviamente. Gratteri è sempre quello che al Corsera fece allusioni circa pericolose complicità tra malavita e giudici, quando quest’ultimi non avallano le sue richieste. «È un magistrato individualista che non fa bene al sistema giustizia», ci dicono spesso i suoi colleghi off the record. Chissà se Luigi Ferrajoli al Congresso di Magistratura Democratica si riferiva a lui quando ha detto: «C’è poi un aspetto ancor più grave che di solito ha accompagnato le cadute di garanzie: il protagonismo di molti magistrati, soprattutto pubblici ministeri e il conseguente populismo giudiziario, cioè la ricerca della notorietà per effetto dell’azione o del giudizio penale, che per di più ha alimentato l’anti-politica che da anni sta avvelenando la nostra vita politica. Con un’aggravante rispetto al populismo politico. Quanto meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pure demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici. Ben più grave è il populismo giudiziario, che contraddice radicalmente le fonti di legittimazione della giurisdizione». E allora perché dovrebbe essere audito, se la direttiva sulla presunzione di innocenza serve proprio a limitare esternazioni pubbliche come le sue e quelle di altri suoi colleghi? Ci farà piacere ascoltarlo, se accetterà l’invito in Commissione. Anche perché talvolta dice cose giuste: come quella sui magistrati fuori ruolo che dovrebbero essere richiamati ai loro posti per smaltire gli arretrati. Ma il vero problema di queste audizioni è che manca una rappresentanza istituzionale dell’avvocatura. Abbiamo riscontrato questo problema anche nelle Commissioni istituite presso il ministero di via Arenula per la riforma delle diverse direttrici della giustizia: alcuni avvocati c’erano, ma in qualità di professori universitari, tuttavia è mancata una rappresentanza dell’avvocatura tout court. Adesso, il presidente della Commissione Giustizia della Camera, il grillino Mario Perantoni, ha invitato l’Anm e l’Ordine nazionale dei giornalisti per discutere di presunzione di innocenza. Perché lo stesso invito non è stato rivolto al Cnf e/o all’Unione Camere Penali italiane? Gli unici avvocati presenti saranno il professor avvocato Oliviero Mazza, richiesto dall’onorevole di Azione Enrico Costa, il professor avvocato Vittorio Manes, indicato da FI, il civilista Mario Tocci, per la Lega. Poi sempre dalla magistratura: Nello Rossi, voluto dal pentastellato Ferraresi, e Alfredo Mantovano, su input di FdI. Il Pd ha fatto richiesta di sentire un rappresentante della Federazione nazionale della stampa, invece Italia Viva il costituzionalista Alfonso Celotto. «Sarà stata una omissione freudiana quella del presidente Perantoni che sceglie di audire i due principali attori del processo mediatico e dimentica l’avvocatura, che effettivamente in quella fase non tocca palla. Noi ascolteremo le osservazioni di tutti, ma sono convinto che non possiamo perdere questa occasione per rendere davvero coerente il nostro ordinamento con la presunzione di innocenza», ci dice l’onorevole Costa. Non sarà una partita facile, e il risultato non è scontato se questi sono i presupposti metodologici: Repubblica due giorni fa lo descriveva come “dibattito che ancora una volta divide le toghe dalla politica”. Noi abbiamo un’altra impressione: come sempre toghe e politica a braccetto contro i principi professati dall’avvocatura.

Operazioni show, Costa: ora stop alla informazione a senso unico. Sul sito delle forze dell'ordine ci sono 2240 comunicati su indagini, denunce, arresti, perquisizioni, sequestri in tutta Italia. Nulla sull’esito di quei processi. Valentina Stella su Il Dubbio il 21 settembre 2021. «Il sito dell’ufficio stampa di una forza dell’ordine esibisce, al fine di “informare il cittadino-contribuente”, 2240 comunicati su indagini, denunce, arresti, perquisizioni, sequestri in tutta Italia. Non sarebbe male informare il cittadino anche sull’esito di quei processi». Arriva da twitter l’affondo dell’onorevole Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, nei confronti della Guardia di Finanza. Lui non ne fa cenno esplicitamente ma non ci è voluto molto a scoprire a chi si riferisse. Si tratta di una criticità che abbiamo sollevato spesso, anche su segnalazione delle Camere penali territoriali, per le quali “la giustizia non è una serie tv” in riferimento ai video degli arresti: primo piano sulla caserma, poi sirene spiegate in strada, arrivo sul posto con dispiegamento di forze e infine riprese degli arrestati. Lo show è servito: ma la presunzione di innocenza? «Qui si pongono due problemi – ci dice l’onorevole Costa -: il primo è che non sappiamo come vanno a finire queste operazioni, che costituiscono una parte dell’indagine. Le persone arrestate sono state poi condannate, ad esempio? Se assolte o prosciolte, è stato aggiornato il comunicato o cancellata la vecchia notizia, in rispetto del diritto all’oblio?». Sono tutte questioni inerenti il dibattito sul recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. «Il secondo problema: i trailer e i nomi evocativi delle operazioni investigative che siamo abituati a vedere in televisione e leggere sui giornali – prosegue Costa – devono essere ripensati nell’ottica della direttiva. Comunicazioni di questo genere sono molto sbilanciate dal punto di vista dell’accusa. Posto che il lavoro delle forze di polizia è indiscutibile, ragioniamo però insieme se debba continuare ad esserci una forma di comunicazione così impattante». Abbiamo chiesto un commento all’ufficio stampa della Guardia di Finanza, ma non ha fornito una risposta perché non c’è un esplicito riferimento a loro nel post social. Per quanto riguarda l’esito delle operazioni, le Fiamme Gialle non sanno come vanno a finire perché non vengono avvisate dai Tribunali e dalle Procure. Una proposta da fare potrebbe essere allora quella di creare una prassi di aggiornamento.

Cartabia frena i magistrati showmen. La Giustizia non è una fiction: verso l’addio alle inchieste dai nomi spettacolari. Antonio Lamorte su Il Riformista l'8 Settembre 2021. È da oggi all’esame delle Camere un nuovo regolamento depositato in Parlamento dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Guardasigilli vuole dettare regole più stringenti ai magistrati sulle inchieste: niente più nomi a effetto, da fiction, spettacolo invece che Giustizia. È anche l’Europa a chiedere ai 27 Paesi membri di rafforzare il principio della presunzione d’innocenza verso i propri cittadini. Potrebbe quindi essere la fine di un’epoca, per magistrati e giornalisti, d’oro. Un’era durata almeno tre decenni e che potrebbe essere scandita dai nomi a effetto delle inchieste. Che cosa prevede il Regolamento? Poche ma semplici regole. Per esempio le conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi a casi di “particolare rilevanza pubblica dei fatti”, durante le quali il magistrato non dovrà presentare l’indagato come colpevole; si dovrà spiegare il punto al quale è arrivata la verità giudiziaria; l’indagato potrà chiedere di modificare un atto tramite il suo avvocato se si sentirà leso perché presentato come colpevole. E questo solo per cominciare. All’articolo 3 del Regolamento si legge infatti: “È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. La Stampa, che riporta la notizia, ricostruisce una breve cronologia a partire dalla celeberrima Pizza Connection degli Anni Ottanta – con l’Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani dagli Stati Uniti e la polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in Italia a colpire la Mafia tra i due continenti. La paternità di quel titolo fu tutta americana. Per Falcone e Borsellino il fascicolo era ancora “Abbate Giovanni+ 706”, al massimo “Maxiprocesso”. Quel nome suonò come il rumore di una bottiglia appena stappata. Da dettagli, particolari, virgolettati di protagonisti o estrapolati dalle intercettazioni, o dalla semplice fantasia delle forze di polizia. Sono arrivati negli anni “Mani Pulite”, “Why not”, “Aemilia”, “Geenna”, “Poseidone”, “Vallettopoli”, “Vipgate”, “Crimine-Infinito”, “Savoiagate”, “Mafia Capitale”. Quest’ultimo caso anche spendibile nel marketing, a prescindere dalla stessa inchiesta: la Cassazione, per esempio, dopo anni di fiction sui giornali e sugli schermi, ha sancito che il “Mondo di Mezzo” al centro di quelle indagini non era un’associazione di stampo mafioso. E Amen. “Questa spettacolarizzazione della giustizia – l’osservazione citata del deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera – produce danni immensi a chi finisce nell’ingranaggio. Quando infatti a un’inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all’infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizioni con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo i titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Francesco Grignetti per “La Stampa” l'8 settembre 2021. Un'epoca sta per finire. Quella delle inchieste penali con i nomi ad effetto. Basta spettacolarizzazione: la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha depositato qualche settimana fa in Parlamento un nuovo Regolamento, da oggi all'esame delle Camere, che vuole dettare regole più stringenti ai magistrati. È un qualcosa che l'Europa impone a tutti i Ventisette Paesi membri, di rafforzare in ogni aspetto la presunzione d'innocenza dei propri cittadini. Ma se nell'ordinamento italiano la presunzione di innocenza è ben presente, non può dirsi lo stesso per gli aspetti mediatici. E qui interviene il Regolamento. Con alcune nuove semplici regole: nelle conferenze stampa dei procuratori, da limitarsi ai casi di «particolare rilevanza pubblica dei fatti», il magistrato non dovrà mai presentare la figura di un indagato o arrestato come di un «colpevole», e anzi dovrà chiarire in che fase del procedimento ci si trova. Se si è soltanto alle prime battute, si dovrà spiegare chiaramente che una verità giudiziaria ancora non c'è e che si dovrà aspettare l'esito finale. Se poi un indagato o imputato si sentisse leso da qualche atto giudiziario (salvo gli atti del pubblico ministero) che precede una sentenza, perché presentato come colpevole, potrà chiedere di modificarlo tramite il suo avvocato. Ma la rivoluzione culturale targata Cartabia viene all'articolo 3 del Regolamento: «È fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». Fine di una moda che ha fatto la gioia dei titolisti di giornali. Capostipite dei nomi ad effetto fu senza dubbio l'inchiesta «Pizza Connection», negli Anni Ottanta. Di là c'erano l'Fbi, il procuratore Luis Freeh e il procuratore federale Rudolph Giuliani. Di qua, il drappello della polizia giudiziaria di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Assieme, i quattro magistrati smantellarono buona parte della mafia dell'epoca. E furono gli americani a inventarsi quel titolo così evocativo. Per Falcone e Borsellino, invece, era ancora il fascicolo «Abbate Giovanni+706».  Al massimo, i giornalisti lo chiamavano «Maxi-processo». La lezione americana però piacque molto e negli anni seguenti, sempre più spesso si diede un marchio ai procedimenti. In genere sono le forze di polizia che trovano il titolo, partendo da un dettaglio o una intercettazione. E c'è da dire che chi ha inventato alcuni di questi nomignoli è un genio del marketing. L'esempio più celebre è forse «Mafia Capitale», sintesi folgorante tra il basso e l'alto, tra la peggiore forma di criminalità e la più illustre delle istituzioni. Ma onore al merito per chi inventò il titolo «Aemilia» sull'infiltrazione della 'ndrangheta calabrese in Emilia-Romagna, reminiscenze di cultura classica sulla colonizzazione romana in val padana. Oppure per chi ha battezzato «Geenna» un'indagine sulla mafia in Valle d'Aosta, dimostrando una profonda cultura biblica per associare una valle maledetta vicino Gerusalemme con la Valle incontaminata degli stambecchi. «Questa spettacolarizzazione della giustizia - dice il deputato Enrico Costa, Azione, relatore alla Camera - produce danni immensi a chi finisce nell'ingranaggio. Quando infatti a un'inchiesta viene dato un titolo accattivante, e spesso la conferenza stampa è accompagnata da spezzoni di video con pedinamenti e intercettazioni che sembrano un trailer perfetto, la pubblicità è garantita. I media e i social moltiplicheranno quel titolo e quel trailer all'infinito. Come il lancio di un film. Tutto è ben studiato. Pare che da qualche parte ci sia perfino un ufficio che esamina la proposta di marchio e verifica che non ci siano sovrapposizioni con altre inchieste precedenti. Peccato però che di questo film si diano solo i titoli di testa, e mai quelli di coda che arriveranno con le sentenze. E intanto, se si finisce indagati, associati a un marchio di tale successo, anche se poi uno è assolto, il danno è irrimediabile». 

La norma sulla presunzione di innocenza. Repubblica rimpiange la gogna, che grana la norma sulla presunzione d’innocenza. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Settembre 2021. «Perché, se prima faceva figo arrestare mafiosi e tangentisti, adesso fa figo dire che tutti, anche costoro, sono sempre presunti innocenti?». Bel quesito, quello posto dalla giornalista di Repubblica Liana Milella (che, nonostante il linguaggio, non è una dodicenne) a Nello Rossi, storico leader di Magistratura democratica e direttore della rivista online Questione giustizia. Pare che, dunque, finalmente “faccia figo” applicare l’articolo 27 della Costituzione sulla presunzione di non colpevolezza, più che sbattere il mostro in prima pagina. Come mai? Forse perché è arrivata una ministra che si chiama Marta Cartabia e che, il 5 agosto scorso, ha fatto approvare dal governo uno schema di decreto legislativo che attua, con cinque anni di ritardo, una direttiva dell’Unione Europea vincolante per tutti gli Stati membri, “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”. Ora il testo è nelle mani dei deputati e senatori delle commissioni giustizia, che dovranno dare al governo pareri non vincolanti in tempi piuttosto stretti, visto che la versione definitiva del decreto dovrà essere approvata entro l’8 novembre. E che l’Europa sta aspettando che l’Italia dia una vera svolta anche sull’esibizionismo di alcuni procuratori e sul vincolo finora più stretto di un matrimonio tra di loro e certi cronisti giudiziari. Possibile però che un po’ di agitazione ci sia anche in Parlamento, magari negli ambienti dell’ex ministro or ora convolato a nozze con grande sfarzo (150 invitati e 70 uomini di scorta) e a cui facciamo i nostri auguri. Ma intanto Milella ha già buttato il sasso nello stagno, battendo sui tempi persino l’occhiuto Travaglio, che se c’è da dare la mazzata finale al nemico che sta a terra è sempre pronto. Figuriamoci se poi il suo bersaglio è una che ha finora mostrato di avere in mano la scala reale come Cartabia. «Sta per esplodere la grana sulla presunzione di innocenza», comunica la cronista di Repubblica all’imbarazzato Nello Rossi, cercando di fargli dire che questo provvedimento è scandaloso perché non si potranno neanche mettere più i cittadini innocenti alla gogna e neanche continuare a passare le veline a cronisti giudiziari come Milella che sulle fotocopie (e poi sulle chiavette) hanno costruito la loro carriera. Uno è persino diventato direttore di un quotidiano! Intanto va detto che alla giornalista di Repubblica non viene neanche in mente di temere un “bavaglio” alla stampa quando vengono arrestate persone accusate di omicidio, rapina, stupro o addirittura strage. Chi se ne frega di assassini e stupratori. Al cronista giudiziario passacarte del pm –lo posso dire per ventennale frequentazione di palazzi di giustizia- interessano solo “mafiosi e tangentisti”, laddove per mafiosi non si intendono tanto i capi di Cosa Nostra quanto piuttosto il consigliere comunale indagato per concorso esterno. Su questa distorsione mentale e politica, prima che professionale, sono campati fino a tempi recenti un certo giornalismo italiano e alcune trasmissioni televisive sempre pronte a celebrare il processo mediatico e a emettere la propria sentenza di condanna. Potremmo citarne una recentissima della Rai contro l’avvocato Giancarlo Pittelli e in onore di sua maestà reale il procuratore Gratteri. Va detto che il magistrato Nello Rossi, artigliato con una certa virulenza dalla cronista, si difende come può, ricordando che, sebbene non sia stata (almeno questa volta) avviata dall’Unione Europea una vera procedura di infrazione della direttiva nei confronti dell’Italia, nella relazione con cui la Commissione europea un anno fa dava conto della situazione dei diversi Paesi, rispetto a noi ha fatto scattare “un campanello d’allarme”. Che evidentemente non ha turbato i sonni dell’allora guardasigilli Bonafede, e neanche dell’ex presidente del consiglio Conte. I quali forse preferivano continuare ad assistere a un andazzo che considerava più “figo” che giornali e tv campassero di gogne di innocenti e che i pm costruissero carriere politiche passando le carte segrete al cronista amico . La parola “innocente” scandalizza la povera Milella, disperata perché Rossi non le dà corda. Lui arriva a parlare, preoccupato, di come viene presentato l’indagato sottoposto a custodia cautelare. «Il governo si è chiesto –ipotizza- se la presunzione di innocenza non sia vulnerata e contraddetta, prima di una sentenza definitiva, da dichiarazioni colpevoliste delle autorità pubbliche o dalle stesse motivazioni dei provvedimenti giudiziari adottati nel corso dei procedimenti, ad esempio per l’adozione delle misure cautelari». Crolla un mondo, se anche un magistrato usa queste parole. Addio a orgasmi nelle conferenze stampa di Gratteri. Addio con rimpianto alle storiche incursioni di cronisti nell’ufficio dove Tonino Di Pietro in ciabatte sgranocchiava moncherie, addio veline sulla (molto presunta) vita sessuale di Massimo Bossetti. Tralasciando un intero mondo di veline, da Craxi a Berlusconi. Ma che già mostravano un sistema al tramonto nei tentativi scandalistici contro Matteo Salvini e la Lega. Non molta fortuna hanno avuto finora infatti la vicenda dei 49 milioni o le intercettazioni in terra russa, piuttosto che le forniture di camici in Regione Lombardia. Con il decreto dovrebbe cambiare tutto. Si dovrebbe ristabilire il rapporto gerarchico tra il procuratore capo e i sostituti (ma anche le forze di polizia). Le uniche “veline” consentite dovranno essere i comunicati ufficiali, e le conferenze stampa dovranno essere limitate a casi “di particolare rilevanza pubblica”. Bye bye Gratteri! Come farai a raccontare di aver fatto un blitz di presunti mafiosi? E come potrai dire che c’erano presunti legami con il politico di zona? L’intervista della cronista al magistrato “amico” sembra quasi una causa di separazione di carriere, se non di divorzio. «Lo ammetta –incalza ancora la giornalista di Repubblica, sempre più disperata, che non vuol mollare la sua preda- sta per scattare un potente bavaglio per la cronaca giudiziaria». Ovvio, il giornalista può presentare all’opinione pubblica l’indagato o l’arrestato o l’imputato solo come colpevole. Un po’ come fa il Fatto quotidiano quando sostiene che sia “impresentabile” chiunque (a meno che non sia Virginia Raggi o qualche altro amichetto loro) abbia subìto un’inchiesta giudiziaria, anche se ne fosse uscito prosciolto. È un po’ un’ossessione, questa del bavaglio alla stampa. Nel corso dei decenni di vita parlamentare nessuno è mai riuscito a emanare, e soprattutto a fare osservare, qualche norma sulla responsabilità di magistrati, forze dell’ordine e giornalisti, sul rispetto della dignità delle persone e sulla fuga di notizie, neanche se bufale. I cronisti dicono sempre “se ho una notizia, ho il dovere di darla”, e i pubblici ministeri, che dovrebbero essere i custodi della riservatezza della notizia coperta da segreto, non vengono mai indagati dai loro colleghi quando lo scoop prende la strada dell’edicola. Quindi, se Nello Rossi pensa di essersela cavata, con questa intervista, non ha fatto i conti con la domanda delle cento pistole, che in realtà non è una domanda, ma uno sberleffo della storia. Ma lei non era una toga rossa, chiede Milella, cioè uno dei quelli che stanno dalla parte degli onesti e non dei delinquenti? Un colpo basso. Ma ancora più inquietante e significativa è la risposta, che cancella in un sol colpo tutta la saggezza delle risposte precedenti: «Le cosiddette toghe rosse sono oggi le più interessate e le più impegnate al pieno rispetto delle garanzie processuali, ma a molti fa comodo non prenderne atto». Due domande gliele poniamo noi, allora, dottor Rossi. Che cosa vuol dire il fatto che la sinistra giudiziaria è attenta ai principi costituzionali solo “oggi”? E chi sarebbero coloro cui fa comodo non prenderne atto? Dobbiamo rileggere la storia tramite i racconti del dottor Palamara?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

"Io assolto, ma distrutto dal Sistema". Lodovica Bulian il 17 Febbraio 2021 su Il Giornale. Laudati accusato di favorire il Cav: "Contro di me scatenato l'inferno". «Nessuna sorpresa, solo il riacutizzarsi di un dolore mai sopito». Le rivelazioni di Luca Palamara ne «Il Sistema» di Alessandro Sallusti sono una ferita che si riapre per Antonio Laudati, oggi sostituto procuratore alla direzione nazionale Antimafia, ma dieci anni fa un'altra «vittima» del sistema raccontato dall'ex magistrato. Nel 2009 Laudati era stato appena nominato procuratore a Bari quando scoppiò il caso D'Addario con l'inchiesta sulle escort a carico dell'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini. «Ero il più giovane d'Italia e un magistrato nel pieno della carriera», ricorda. Ignaro allora che dopo quella nomina avrebbe dovuto affrontare un calvario di processi in tribunale e procedimenti disciplinari al Csm lungo dieci anni, sempre assolto da ogni accusa. Quando si insedia a Bari, Laudati trova «clamore mediatico e una fortissima tensione politica perché l'inchiesta riguardava indirettamente l'allora premier Berlusconi (non indagato a Bari, ndr)». Tutte le indagini «erano sistematicamente riportate sui media». Laudati tenta di fermare le fughe di notizie, di distinguere tra intercettazioni rilevanti e non: «Decido disporre che fossero custodite presso la mia segreteria e che si utilizzassero solo le quelle pertinenti al fatto reato. Da quel momento non vi furono più fughe di notizie. Pensavo di aver fatto rispettare il codice di procedura penale. Non era così». Contro di lui partono gli esposti al Csm. Anche quello dell'allora collega sostituto procuratore di Bari, Giuseppe Scelsi. Laudati viene accusato di rallentare l'inchiesta e finisce sotto procedimento disciplinare. L'accusa è anche quella di aver tutelato così l'immagine istituzionale dell'allora premier Silvio Berlusconi. Per lo stesso motivo finisce imputato a Lecce, per abuso d'ufficio e favoreggiamento personale. Sempre assolto. E oggi può sfogarsi su «Quarta Repubblica» a Rete4. È Palamara a rivelare come quel tentativo di fermare le fughe di notizie gli costò il sospetto «di connivenza con Berlusconi. Allora non era possibile difenderlo», ricorda l'ex magistrato. «Avrebbe significato fare passare Berlusconi come vittima di magistrati scellerati». Infatti, «da quel momento contro di me si è scatenato l'inferno - rammenta il procuratore - Non era possibile ammettere che le accuse nei miei confronti erano infondate perché ciò avrebbe significato ammettere che il diverso comportamento tenuto da altre Procure e da altri magistrati nei confronti di Berlusconi costituiva una forzatura. In quel momento storico, in cui la magistratura era governata dalle correnti di sinistra unitamente a Palamara, mi è piombata addosso la accusa più grave e più infamante per un magistrato: quella di aver aiutato Berlusconi. Ovviamente era del tutto infondata, avevo solo applicato la legge, ma fu tutto inutile sono stato estromesso da tutto. D'altra parte colpirne uno per educarne cento». Si è ritrovato così da inquirente a imputato, sia in sede disciplinare al Csm che penale nell'inchiesta aperta a Lecce: «Un'esperienza terribile. Ci ho messo dieci anni per essere assolto da tutto. Ho sempre pensato: se questo è successo a me che sono un Procuratore figuriamoci cosa può succedere al cittadino qualunque». Lodovica Bulian

Quel “marketing giudiziario” che Costa vuole combattere…Da Costa arriva una forte critica al "marketing giudiziario" che coinvolge sia le procure sia i giornalisti. «La vera sentenza non interessa a nessuno». Il Dubbio il 19 agosto 2021. Il deputato di Azione, Enrico Costa, lo chiama “marketing giudiziario”, ovvero la prassi ormai consolidata dalle varie procure italiane, specie quelle che si occupano di indagini antimafia, di applicare alle inchieste un nome convenzionale. L’ex viceministro della Giustizia, in un intervento affidato al “Foglio”, parla dal “marketing giudiziario” per affrontare il caso di Marco Sorbara, di cui si è occupato ampiamente il Dubbio.

Sorbara e il “marketing giudiziario”. «Geenna è il nome di un’inchiesta li che scosse la Valle d’Aosta nel 2019. Come osservava la Stampa, “L’operazione “Geenna” prende il nome dalla Bibbia e significa luogo di eterna dannazione: deriva da una valle alle porte di Gerusalemme che fu segnata di anatema dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di bruciare in olocausto i bimbi dopo averli sgozzati, diventando scarico dei rifiuti della città e luogo dove gettare le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti”. Appare evidente il parallelismo studiato con la morfologia della regione oggetto delle indagini. Marco Sorbara è il nome di un ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, arrestato nell’inchiesta “Geenna”, che ha trascorso oltre 900 giorni in custodia cautelare prima di essere assolto in Appello perché il fatto non sussiste. Non credo che per Sorbara sarà semplice scrollarsi di dosso quell’abbinamento».

Il ruolo della stampa. L’affondo di Enrico Costa si sposta poi sulla stampa che amplifica il cosiddetto “marketing giudiziario”. «Chiunque si trovi sulla traiettoria del marketing giudiziario, perché di questo si tratta, è bollato per sempre. Perché il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico. Molte inchieste vengono rappresentate come fossero dei film. C’è un titolo, un trailer, una conferenza stampa nella quale si proiettano gli arresti, le perquisizioni, i pedinamenti, le intercettazioni anche vocali». «Infine, c’è il botteghino di questo capolavoro che è la rete. Eppure si tratta un film in cui parla solo la campana dell’accusa, la difesa non viene citata nemmeno nei titoli di coda. Ma va sottolineato anche che buona parte dei pm lavora silenziosamente, e soffre la spettacolarizzazione che fanno pochi, ma rumorosi colleghi (che poi magari si buttano in politica)».

I nomi più famosi delle inchieste giudiziarie. Ed ecco che passa in rassegna i nomi di alcune operazioni venute alla luce dell’opinione pubblica negli ultimi anni. «Le cronache ci danno un riscontro quotidiano della fantasia a senso unico nel battezzare i fascicoli. Dall’operazione Waterloo a quella Petrolmafie, piuttosto che Evasione continua, Metastasi, Farmabusiness, Crimine, Pelli Sporche, Appaltopoli, Università Bandita, Sotto Scacco, Conte Ugolino, Sistemi criminali, Ecoboss, Falsa politica sono inchieste che finiscono con condanne, ma talvolta anche assoluzioni o proscioglimenti prima del processo. E uno stato di diritto deve pensare a chi, innocente, finisce in questo ingranaggio. Il marketing giudiziario è quanto di più pericoloso, incivile, illiberale, arbitrario».

«La vera sentenza non interessa a nessuno». Per concludere, arriva anche una critica ai giornalisti che si occupano di giudiziaria. «Con quale spirito critico molti giornalisti seguono le indagini e assorbono le informazioni trasmesse dagli inquirenti? L’interesse immediato non è quello di approfondire, ma di pubblicare al più presto. Nome dell’inchiesta prima di tutto. E a seguire l’impostazione accusatoria, visto che in quella fase la difesa ancora non è pervenuta. Sarebbe questa la massima espressione del diritto di cronaca dovere di informare? Recepire e basta? Scordarsi che dopo le inchieste ci sono i processi? Spegnere il rubinetto delle notizie quando finalmente si apre il dibattimento? La vera sentenza per molti giornalisti è la conferenza stampa della Procura, perché la sentenza vera, quella pronunciata dopo il processo, non interessa più a nessuno». Tranne per il Dubbio…

Come limitare gli show delle Procure. Contro la gogna mediatica servono uffici stampa delle Procure. Paolo Itri su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Giunge notizia che proprio in questi giorni il Parlamento italiano ha recepito la direttiva dell’Unione europea numero 343 del 2016. Con tale direttiva, che punta a rafforzare la presunzione di innocenza, il Parlamento europeo ha stabilito che tale presunzione sarebbe violata se, con dichiarazioni rilasciate da autorità pubbliche come le Procure, l’indagato venisse presentato alla pubblica opinione come colpevole prima della sentenza definitiva. Secondo il legislatore europeo, pertanto, le tradizionali conferenze stampa e i comunicati delle Procure, emessi per lo più in occasione dell’esecuzione di ordinanze cautelari, non dovrebbero mai rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole, almeno fino a quando non intervenga una sentenza del giudice, fatta comunque salva la tutela della libertà di stampa e dei media. L’obbligo, nel fornire informazioni ai media, di non presentare gli indagati come colpevoli, non impedirà tuttavia alle Procure di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato. Fin qui le novità introdotte dalla direttiva europea che, se da un lato produrrà sicuramente l’effetto di contenere il numero delle conferenze stampa delle Procure, dall’altro non inciderà per ovvi motivi né sull’attitudine specifica dei capi delle Procure stesse a gestire i rapporti con gli organi pubblici di informazione né, più in generale, sulla qualità dell’informazione nel nostro Paese. Mi spiego meglio. Il problema del cortocircuito mediatico-giudiziario nasce nel nostro Paese all’epoca di Tangentopoli, cioè quando l’emersione di un profondo ed endemico sistema di corruzione politica determinò una profonda trasformazione anche dei rapporti tra Procure e organi di informazione. L’eccezionalità del momento finì per legittimare, anche nell’opinione comune, una sorta di stato di eccezione in forza del quale tutto divenne lecito, dalle reiterate violazioni del segreto istruttorio alla instaurazione di rapporti privilegiati tra magistrati e giornalisti. Le confessioni a raffica e l’uso distorto del carcere preventivo completarono l’opera, facendo passare in secondo ordine la presunzione di innocenza, quasi si trattasse di una inutile formalità burocratica da abolire il prima possibile: tale era il ritmo con cui dalle indagini emergevano fatti sempre più nuovi e sempre più gravi. Vivevamo in un’epoca in cui chiunque venisse raggiunto da un’informazione di garanzia era per definizione colpevole e non aveva alcun senso parlare di giusto processo o della sua ragionevole durata. A trent’anni di distanza, è oggi possibile – anzi, direi doveroso – cercare di recuperare un rapporto più corretto ed equilibrato tra giustizia e media, nel rispetto dei principi di continenza, interesse pubblico all’informazione e rispetto dei diritti della persona. Non sono altrettanto convinto, però, che la strada indicata dall’Ue sia la migliore, considerate le specificità del nostro Paese. Principalmente, non mi convince l’idea di un bavaglio alle Procure alle quali, per una più corretta informazione – se non si vuole peraltro correre il rischio di creare dei pericolosissimi canali informativi occulti – dovrebbe invece essere consentito fornire in maniera chiara e trasparente ogni notizia utile a comprendere i passaggi delle vicende di maggiore interesse per l’opinione pubblica, seppure ovviamente nel più totale rispetto della verità processuale, della presunzione di non colpevolezza e dei diritti di tutte le persone coinvolte (e quindi, inutile dirlo, anche di quelle già raggiunte da sentenze di condanna). Soprattutto, non vorrei che il divieto di divulgare informazioni sui procedimenti penali in corso, salvo che sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine, si trasformasse automaticamente in un bavaglio alla libera stampa, tenuto soprattutto conto dei tempi biblici che quasi sempre nel nostro Paese intercorrono tra indagine e sentenza del giudice. Un modo più equilibrato di risolvere il problema potrebbe essere quello di istituire, almeno presso le Procure più grandi, dei veri e propri uffici stampa, simili a quelli già esistenti presso le Questure, in maniera da instaurare un rapporto più formale e trasparente tra organi di informazione e procuratori della Repubblica, ognuno quindi per la propria parte responsabile rispettivamente della gestione dell’informazione – in conformità alle leggi e al codice – e delle modalità di diffusione della notizia – in conformità del codice deontologico dei giornalisti. Perché i magistrati potranno anche essere a volte degli ottimi giuristi, ma troppo spesso appaiono come dei pessimi comunicatori. Paolo Itri

Giustizialismo mediatico: anche per il Codacons è il vero fascismo di cui si dovrebbe parlare e avere davvero paura. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 10 Agosto 2021. «Gli squadristi facevano così. Andavano in sette otto, prendevano un avversario solo solo e lo bastonavano con ferocia. I giornalisti del Fatto e di Repubblica hanno fatto la stessa cosa con Renato Farina. Per invidia, credo: Farina è molto migliore di loro». Lo ha scritto Piero Sansonetti in un suo tweet di lancio dell’articolo pubblicato oggi sul Riformista. Il titolo corrisponde alle aspettative di chi scrive: «Farina Linciato, ora i nomi dei giornalisti al servizio dei pm». Ho poco meno di mezzo secolo di esperienza in questioni legate all’informazione giudiziaria. Certamente degenerata negli ultimi tre decenni. E trovo nella richiesta di Sansonetti, uomo di sinistra, la propria vecchia e immutata stima per la sua onestà intellettuale e professionale. Pur non avendo esitato a manifestarne pubblicamente il dissenso, quando ho ritenuto doveroso farlo. Nonostante offra spesso, e liberamente, la mia firma al Riformista. Neppure io, convintamente antifascista come Sansonetti, avendo giurato due volte fedeltà alla Repubblica, assieme all’osservanza della Costituzione e delle leggi repubblicane, temo il fascismo dei vari Casapaound. Temo invece più reali e pericolose forme di autentico fascismo post moderno. Ben descritte da Sansonetti, riferendosi al linciaggio mediatico subito dall’indifeso e isolato Renato Farina. Giornalista che non conosco personalmente. Mentre conosco invece tanti altri giornalisti che, portavoce più o meno occulti delle procure, hanno fatto in tale modo carriere spesso folgoranti. Al pari di tanti magistrati, e anche appartenenti alle forze dell’ordine, delle quali ho io stesso fatto parte, che hanno costruito le loro unicamente sul triangolo incestuoso e cancerogeno per la democrazia e le libertà fondamentali: PM-Polizia Giudiziaria-Media. Sansonetti parla di almeno un migliaio di giornalisti al servizio delle procure. E persino di un centinaio di giornalisti che, secondo lui, hanno collaborato e addirittura ancora collaborano coi servizi segreti. Cosa che, come per i preti, se fossero a libro paga, sarebbe vietata dalla legge. Qualche anima candida mi ha obiettato: se Sansonetti ne conosce i nomi li faccia, oppure taccia per sempre. Gli ho risposto che basterebbe leggere il Riformista per sapere che lo fa da tempo. Mentre di chi continua a credere di essere un giornalista investigativo limitandosi a pontificare sul povero Farina e aspettando che altri scrivano sulle tante altre complicità giornalistiche con procure e servizi, perché lui non lo sa, penso solo due cose. O che é in malafede o che vive col prosciutto sugli occhi. Tertium non datur. E nessuna delle due cose è degna di vero giornalismo. A prescindere dal possesso del tesserino di iscrizione all’ordine e dalla frequenza delle troppe scuole di giornalismo. Mestiere che un tempo, come quello dello sbirro, si imparava soprattutto consumando le suole. Non dietro uno schermo a copiare e incollare, spesso fuori contesto, i verbali e le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali delle indagini preliminari. Che in altri paesi civili nessuno si sognerebbe di poter fare. Il vero giornalismo investigativo dovrebbe stare nella capacità di fare le pulci a tutto e tutti. Senza essere il portavoce occulto di niente e nessuno. Almeno quando non lo si è ufficialmente e alla luce del sole. Anche il Codacons, la principale associazione a difesa dei consumatori, è da tempo sceso in campo per una giustizia giusta. Che non può prescindere da un’informazione corretta. E da un giornalismo che sia il vero cane da guardia delle libertà e dei diritti dei cittadini. E non il cane obbediente ai piedi del padrone del momento. Abbiamo voluto chiedere un suo commento in proposito. E ci hanno risposto tramite Claudio Cricenti, responsabile dell’ufficio Legale.

Avvocato Cricenti, i giornalisti, per legge, non possono lavorare per i servizi di sicurezza. Ma non dovrebbero neppure essere i portavoce di fatto delle Procure, come denuncia Sansonetti. Qual’é al riguardo la posizione del Codacons?

Siamo assolutamente d’accordo con Sansonetti. E purtroppo abbiamo dovuto denunciare diversi episodi spiacevoli di connivenza tra giornalisti e potere. I consigli regionali dell’ordine dei giornalisti archiviano tutto. Applicando il principio del “cane non mangia cane”. E approfittando della legge che non consente se non al procuratore generale di appellare le archiviazioni.

Ci può fare un esempio?

Un giornalista Vip del Corriere della Sera da noi denunciato per presunte scorrettezze deontologiche ha subito incassato la sua brava archiviazione. E si é vendicato presentando una querela per diffamazione contro l’associazione. Il Pm, più veloce della luce, ha subito avviato il procedimento contro di noi. Manco fossimo stupratori seriali.

I consumatori lo sono anche di informazioni. Quale ruolo vuole avere ed ha il codacons a difesa dell’informazione e contro le fake news?

Lottiamo per eliminare la giurisdizione domestica disciplinare. Sia di giornalisti che dei magistrati.

Cosa pensa il Codacons dei due pesi e delle due misure denunciate da Sansonetti? É noto che molte carriere di magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine e giornalisti siano state create da un perverso triangolo di reciproci scambi di favori. Cosa intende fare il Codacons a tutela del cittadino consumatore di informazione, oltre che di giustizia giusta?

Istituiremo, dopo lo sportello “sos malagiustizia”, lo sportello “sos malainformazione”. Ma serve cambiare la legge che è fatta per le categorie professionali. E non tutela i fruitori dell’informazione: i consumatori.

Pensa che il referendum sulla giustizia giusta, sostenuto dal Codacons, possa avere un impatto positivo anche su un’informazione non disinformante?

Se i magistrati saranno responsabili dei loro errori anche l’informazione, oggi succube per paura delle caste, ne trarrà vantaggio.

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 agosto 2021. Caro Dago, abituato come sono da sempre ad accorrere in difesa dei “vinti” ti confesso che mi ha stupito fin dall’inizio questo subbuglio attorno al nome e alla figura di Renato Farina. E tanto più mi spiace che la goccia che ha fatto traboccare il vaso (che lo ha spinto a dimettersi dall’incarico che gli aveva dato Renato Brunetta, di gran lunga uno dei migliori ministri del governo Draghi) sia stata l’intervista che Farina aveva dato al mio amico Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera, un giornalista sulla cui lealtà professionale sono disposto a mettere tutt’e due le mani sul fuoco, ma anche le gambe, il naso e entrambe le orecchie. Farina ha giudicato che quella intervista avesse le movenze di un attacco personale, un attacco che avveniva sul gran quotidiano lombardo dopo quelli che lui aveva subito dalla Repubblica e dal Fatto, dove Marco Travaglio gli aveva dedicato un articolo la cui virulenza io non la metterei neppure in un articolo su Adolf Hitler. A quel punto Farina ha rassegnato le dimissioni da un incarico che gli sarebbe stato pagato 18mila euro lordi l’anno e Brunetta quelle dimissioni le ha accettate. Del resto “Giuseppi” Conte quelle dimissioni le aveva chieste come una delle condizioni del suo appoggio al governo Draghi. Caro Dago, perdonami se parto da lontano. Il fatto è che ho i capelli bianchi. Ai tempi del processo a Gesù Cristo non c’ero, ma a tutto quello che è venuto dopo sì. Della mia fraterna amicizia con Fabrizio Roncone ho detto. Quanto a Farina, lo conosco da almeno quarant’anni. Erano i tempi in cui tra loro orgogliosi militanti cattolici di Comunione e liberazione e noi laici c’era un’avversione frontale. Al punto che loro rifiutavano qualsiasi contatto con un giornalista laico. Erano i tempi in cui il professore Augusto Del Noce, una delle figure intellettuali più limpide degli anni Settanta e da me venerato (il suo libro su Antonio Gramsci è un gioiello), rischiava grosso a fare una conversazione pubblica sul divorzio (cui lui diceva di no) perché immancabilmente dal pubblico qualcuno inveiva contro di lui. (Farina che negli ultimi anni della vita di Del Noce gli faceva da autista mi ha raccontato di essere stato testimone di alcune di quelle scenate.) Sin da subito non mi accodai a quell’atteggiamento e ne assunsi uno di rispetto verso cattolici che avevano tutto il diritto di esserlo orgogliosamente. Tanto che loro mi accordarono la primissima intervista mai fatta da Roberto Formigoni a un giornalista laico. Fu in quel contesto che ho conosciuto Renato Farina, di cui tutto dimostrava che era un intellettuale che aveva ragionato a lungo sulle sue scelte. Punto. Poi è accaduto quel che è accaduto. Che sia stato dimostrato che Farina a un certo punto era per metà giornalista e per metà agente dei servizi segreti, che in un paio di occasioni ha confuso in un unico mazzo le due attività, tutte cose non encomiabili ma che io ritenevo facessero parte del tutto conseguentemente del suo “interventismo” politico-culturale, del suo atteggiamento fondamentalmente “estremista”, da cui il suo linguaggio polemico nei confronti di alcuni “ostaggi” italiani che il nostro governo aveva recuperato dalle mai dei terroristi pagando suon di milioni. Detto questo, per me Farina rimaneva l’orgoglioso intellettuale cattolico che avevo conosciuto più di quarant’anni fa. Ci mandavamo saluti e auguri. Gli dicevo talvolta che mi era particolarmente piaciuto qualche suo articolo su Libero. Nella materia la penso esattamente come il Togliatti del 1947, che firmò un provvedimento di amnistia per reati minori compiuti da fascisti repubblichini. Renato ha già pagato per le sue colpe e non c’è che ne venga perseguitato a vita dai babbei che distinguono tra BUONI (che lo sono per nascita) e CATTIVI (che lo sono per nascita). Punto. Succede poi che stamattina Farina mi mandi via mail la lettera con cui ha rassegnato le dimissioni e che io subito dopo telefoni a Roncone. Al quale ho fatto un’unica osservazione, che da intervistatore aveva fin troppo assunto il cipiglio di chi vuole mantenere le distanze dal suo interlocutore. L’espressione usata da Fabrizio nel corso dell’intervista, che sceglie lui gli interlocutori a cui dare “del tu” e che Renato non è uno di quelli, io non l’avrei usata. Una frase del genere ci sta in un giornale militante (il Foglio, il Manifesto, il Fatto), non sul Corsera. Detto questo Roncone è un bravissimo giornalista e lo stesso Farina mi ha detto che lui ha enormemente apprezzato il libro giallo scritto a quattro mani da Roncone e Aldo Cazzullo, che lui avrebbe firmato riga per riga l’articolo assai elogiativo che di quel libro scrisse Vittorio Feltri su Libero. Mi spiace per Renato, che avrebbe fatto benissimo il suo lavoro. Mi spiace per Brunetta, il cui operato da ministro al momento merita nove. Mi spiace ogni volta che sui giornali corre del sangue. Sarà perché sono un bonaccione, anche se in sessant’anni di attività nessuno se n’è mai accorto.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2021. Questo è il tormentato sabato pomeriggio dell'ex agente segreto Betulla (da civile: Renato Farina, di anni 66), che - dopo due giorni di polemiche roventi - si è dimesso da consigliere per la comunicazione istituzionale del ministro Renato Brunetta. Il racconto comincia alle 16,45. Con una telefonata. Betulla era del ramo, certi trucchetti dovrebbe conoscerli. E invece ci casca. Legge sul display del telefonino «Numero Privato», e risponde. «Ah! Mhmm Sei tu. Sono a messa, sto pregando. Ho visto un numero sconosciuto e ho risposto pensando fosse il presidente Draghi. Possiamo sentirci tra un po'?» (voce soffiata, curiale). Betulla è di parola, almeno stavolta. Richiama cinque minuti dopo. Dice di essere appena uscito dal santuario di Santa Maria del Fonte, a Caravaggio, nella pianura bergamasca. Ansima. «Sono ore un po' complicate». Non un po': molto. Il suo curriculum è tornato di attualità. Un personaggione: ciellino, prima al Sabato e poi all'Indipendente e al Giornale, tipologia di giornalista ossequioso, nel 2004 è arruolato da Pio Pompa nei ranghi del Sismi diretto da Niccolò Pollari. Inizia una nuova carriera. Buia. Chicche sparse: riserva un trattamento di scherno per gli ostaggi italiani rapiti in Iraq - Simona Pari e Simona Torretta («le vispe terese»), Giuliana Sgrena («rapita dai suoi amici terroristi»), Enzo Baldoni («un pirlacchione» da «vacanze intelligenti»); poi, nel maggio del 2006, tre anni dopo il sequestro a Milano di un imam dalla vita bizzarra, Abu Omar, Farina - qualificandosi come giornalista - va al palazzo di Giustizia di Milano e incontra i magistrati Armando Spataro e Ferdinando Pomarici che, sul rapimento organizzato dalla Cia, conoscono già moltissimi dettagli. Fingendo di intervistarli, gli racconta un po' di balle. E, soprattutto, prova a coinvolgere il pm Stefano Dambruoso (sperando così di spostare la competenza dell'indagine a Brescia). Poi esce e, invece di telefonare al suo direttore, chiama Pio Pompa: «È stata durissima, ma ce l'ho fatta». Invece sono loro che l'hanno fatta a lui: la sua visita era attesa, sotto le scrivanie dei giudici, due microspie. Farina, che lavoro fai? Ma lui, niente. Continua e scrive il falso contro Romano Prodi, assicurando che, sul caso Omar, quando era premier fosse d'accordo con gli Usa e i nostri Servizi. Al processo patteggia una condanna a sei mesi per favoreggiamento. Però al Sismi sanno essere riconoscenti: così gli rimediano due biglietti di tribuna per Italia-Ghana, ai mondiali di Germania; lui ringrazia sulla prima pagina di Libero, in codice non troppo cifrato: «Ho usato amici che la sanno lunga. Fatta! Grazie a Pio e a Dio» (intanto, tra dimissioni e reintegri, è tornato a far parte dell'Ordine dei giornalisti). Ora bisogna immaginarselo che cammina sotto il sole a picco. Verso il parcheggio del santuario. Al cellulare. «Sai che io di te mi ricordo un sacco di cose? Per esempio, nel 2014 scrivesti un articolo su Berlusconi e». Sono io che faccio le domande. 

Lei, se vuole, risponde: come nasce la sua collaborazione al ministero della Pubblica amministrazione?

«Mi dai del lei? Siamo colleghi, dovremmo darci del tu».

Decido io a quali colleghi dare del tu.

«Come vuole. Allora: io e Renato collaboriamo da quando ero vicedirettore di Libero e insieme lanciammo una collana di libri che ha venduto milioni di copie...». 

Mi sfugge il nome della collana.

«Eh, ora sfugge pure a me. Sono un po' teso».

Brunetta.

«Mi stima, lo stimo. Intesa intellettuale forte. Siamo stati insieme nel Pdl, io come deputato. Con lui, da tempo, esercito l'arte del ghostwriter, gli scrivo testi e discorsi».

Quale sarà il suo compito al ministero?

«Renato mi chiederà dei pareri: che espressioni usare in pubblico, su cosa insistere...». 

Quanto guadagnerà?

«18 mila euro lordi. All'anno, non al mese».

Lei non teme, con il suo passato, di mettere in difficoltà il presidente Mario Draghi?

«L'ho detto a Renato: se dovessi essere un problema, mi tiro indietro. Certo non m' aspettavo subito tanta cattiveria Chiaro che vogliono indebolirlo, minare il lavoro grandioso che ha fin qui svolto». 

Questa telefonata dura 16 minuti e 15 secondi. Alle 17,44, però, Betulla richiama. Stavolta è risoluto.

«Volevo comunicarti che ho sbagliato a parlare con te: un errore che un consigliere per la comunicazione non può e non deve fare. Mi sono confrontato, poco fa, con Brunetta. Mi dimetto». Fino a sera, poi, un rosario di WhatsApp in cui l'ex agente segreto Betulla chiedeva di poter rileggere i suoi virgolettati (se ci pensate, una bella faccia tosta). 

Renato Farina al Corriere della Sera: "Intervista odiosamente falsa", ecco tutte le frasi inventate sul caso-Brunetta. Libero Quotidiano l'8 agosto 2021. Di seguito, la lettera inviata da Renato Farina a Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, in seguito alla pubblicazione sul Corsera di oggi, domenica 8 agosto, di un'intervista alla firma di Libero smentita però in più punti. La vicenda è quella delle polemiche sorte dopo la nomina a consigliere per la comunicazione di Renato Brunetta di Renato Farina, polemiche dovute alla vergognosa campagna di stampa montata dal Fatto Quotidiano e Repubblica. In seguito al polverone, Farina ha lasciato l'incarico.

Caro Direttore, l’intervista come risulta sulla pagina del Corriere a firma di Fabrizio Roncone è odiosamente fasulla. Sfido l’autore a pubblicare l’integrale audio sul sito del Corriere se mai abbia registrato. Più che un’intervista è un ritratto tipo body shaming della mia persona. Non ho mai detto che ho scritto i discorsi di Renato Brunetta, né che io stavo pregando. Ero banalmente a Messa e ho richiamato per gentilezza. La mia risposta su Draghi era ovviamente una battuta, e ho detto pure qualcosa come: figuriamoci se un nessuno come me è in grado di dare un problema a Draghi. Sant’Anselmo sosteneva che si può tranquillamente scrivere che la Bibbia dice: «Dio non esiste». Basta togliere le tre parole che precedono la negazione: «Lo stolto dice: Dio non esiste». Ho sbagliato a mettermi nelle mani di chi dal primo istante della conversazione mi ha trattato con disprezzo. Le dimissioni nascono dal fatto di cui mi sono reso immediatamente conto chiusa la telefonata: se dopo gli articoli tossici del Fatto e di Repubblica anche il Corriere si affida a chi ridicolizza programmaticamente l’interlocutore, come l’esito documenta, l’unico modo per non essere un bersaglio utile per colpire di rimbalzo il ministro, è togliermi di mezzo. Questo ho fatto con una nota inviata alle agenzie, il resto sono bubbole di fango. Con stima per il suo lavoro. E amarezza per il torto che ho subito io e che ha offeso la buona fede mia e dei suoi lettori.

Renato Farina

LA REPLICA DI RONCONE per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2021.

Confermo tutte le parole e i sospiri ascoltati ieri durante i colloqui avuti con l’ex agente segreto Betulla (Renato Farina). Certo comprendo la sua amarezza per essere finito al centro di un’altra sconcertante vicenda. 

Tra Sallusti e Travaglio botte da orbi: Il direttore di Libero: «Sciacalli del Fatto, fatevi schifo». Redazione sabato 7 Agosto 2021 su Il Giornale. «Guardatevi allo specchio e fatevi schifo». A Roma dicono “quando ce vò ce vò“. E in questo caso ce vò tutta. È infatti successo che al Fatto Quotidiano non abbia digerito la nomina di Renato Farina a consulente del ministro Renato Brunetta. Per il giornale di Travaglio sarebbe a dir poco inopportuna, alla luce di vecchi legami con i nostri Servizi, struttura in cui Farina operava sotto il nome convenzionale di “agente Betulla”. Il neo-consulente, una legislatura in Parlamento con il PdL, è soprattutto una delle firme di punta di Libero, giornale ora diretto da Alessandro Sallusti. È stato proprio quest’ultimo a replicare sull’edizione online del suo quotidiano con le parole prima riferite.

Lite sulla nomina di Farina a consulente di Brunetta. Sallusti e Travaglio incrociano spesso la lama davanti alle telecamere dello studio di Lilly Gruber su La7. Ma quasi mai il duello tra i due raggiunge i toni fatti registrare dalla vicenda insorta sulla nomina di Farina. Nella sua replica Sallusti lamenta infatti la «consueta ferocia» esibita dal Fatto Quotidiano nell’attacco mosso al «nostro prestigioso collaboratore». Ma il direttore di Libero non si accontenta di difendere Farina e il rigo successivo decide di passare al contrattacco.

Sallusti: «Giornalisti dalla doppia morale». «Sappiano questi sciacalli – dice all’indirizzo della redazione di Travaglio – che noi siamo orgogliosi di ospitare la firma di Renato, che in quanto a collaborazioni improprie (l’agente Betulla, ndr) è un dilettante rispetto a tanti colleghi legati a filo doppio non solo con i Servizi ma pure con magistrati e politici». Addirittura col botto la conclusione che Sallusti dedica a quelli che definisce «giornalisti faziosi e dalla doppia morale». Eccola: «Che dire, guardatevi allo specchio e fatevi schifo». Aspettiamoci ora la controreplica al curaro da parte di Travaglio. La Gruber è ancora in vacanza, ma la singolar tenzone tra i due direttori continua.

Alessandro Sallusti per “Libero Quotidiano” il 7 agosto 2021. Ieri il Fatto Quotidiano, con la sua consueta ferocia, ha attaccato Renato Farina, nostro prestigioso collaboratore, perché in maniera legittima e trasparente ha avuto una collaborazione professionale (poche migliaia di euro all'anno) con il ministero guidato da Renato Brunetta. Sappiano quegli sciacalli che noi siamo orgogliosi di ospitare la firma di Renato, che in quanto a collaborazioni improprie (una vicenda del passato legata ai Servizi) è un dilettante rispetto a tanti colleghi legati a doppio filo non solo con i Servizi ma pure con magistrati e politici. Che dire, guardatevi allo specchio e fatevi schifo, giornalisti faziosi e dalla doppia morale.

Pietro Colaprico per “la Repubblica” il 7 agosto 2021. Professione reporter: non è la sua. Non di Renato Farina. Avete presente il concetto americano del giornalista come "cane da guardia della democrazia"? Siamo agli antipodi. E non ce ne dovremmo occupare se un altro Renato, il Brunetta ministro forzista del governo in carica, non avesse nominato come consulente proprio lui, il fu "agente Betulla", anche se agente non è stato mai. I suoi ruoli erano l'informatore a libro paga e l'agente provocatore, entrambi svolti con incredibile sprezzo del ridicolo. Lo stesso Vittorio Feltri gli dette del "vigliacco", quando Farina non volle ammettere di essere l'autore di un articolo che poteva costare il carcere a un altro collega del loro giro, Alessandro Sallusti. Ora, senza emettere giudizi a casaccio, vanno segnalate alcune "faccende". La prima riguarda Enzo Baldoni. Come si ricorderà, fu il primo reporter italiano (era un free lance) a morire in zona di guerra afgana per mano degli assassini che sostengono di agire in nome di Allah. Betulla raccontò per filo e per segno la sua morte: s' era divincolato, ribellato e perciò ucciso. Tutto falso. Era una "manipolazione". I nostri servizi segreti erano lì lì per liberarlo e Baldoni, che non sapeva, che non capiva, l'ha pagata cara. Una versione ispirata - ma l'abbiamo saputo tempo dopo - da un altro factotum del potere, Pio Pompa. Un plenipotenziario manutengolo (e quindi perfetto capro espiatorio) del potente Niccolò Pollari, boss dei servizi segreti militari per volere di Berlusconi. E veniamo alla seconda faccenda, esilarante se non fosse tragicomica e perversa. Maggio 2006, tre anni dopo il sequestro a Milano di un iman della stramba vita, chiamato Abu Omar. Farina telefona come giornalista ai magistrati che indagano. Chiede con insistenza un'intervista. Va a palazzo di giustizia e incontra Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, che sul sequestro, organizzato dalla Cia, sanno già moltissimo. Racconta loro alcune panzane, cerca di coinvolgere il pubblico ministero Stefano Dambruoso (mossa per spostare la competenza a Brescia) e quando esce chiama non il suo direttore, ma Pio Pompa: «È stata durissima, ma ce l'ho fatta». "Betulla" si sbagliava: non immaginava di essere già intercettato, che la sua venuta al palazzo di giustizia fosse attesa e che sotto la scrivania dei magistrati ci fossero le microspie. Veniamo alla terza faccenda, simile a molte altre: scrive il falso contro Romano Prodi, assicurando che quando era presidente del consiglio fosse d'accordo con gli alleati americani e i nostri servizi per il rapimento di Abu Omar. Articolo, anche questo, scritto per compiacere Pompa. Al processo, patteggiò una condanna a sei mesi per favoreggiamento. E poi, giocando tra dimissioni e reintegri, è tornato a far parte dell'Ordine dei giornalisti. Ovviamente Farina, a malefatte compiute, era già entrato in Parlamento, eletto in Forza Italia. E la sua giustificazione è sempre stata di aver combattuto per la patria. Per la patria o per chi più volte ha provato, come voleva Pio Pompa, a «disarticolare la magistratura»? Anche contro Ilda Boccassini ha composto numerose infamie, la sua cifra professionale è in effetti l'attacco violentissimo su notizie che gli trovano altri. In Italia ci sono tantissimi giornalisti. Se Brunetta ha scelto uno con una carriera talmente screditata avrà le sue ragioni. Il ministro fa sapere che Farina ha già pagato il conto per il suo passato. La simpatia, o l'amicizia, o essere stati sotto le stesse bandiere forziste non sembrano però sufficienti per far accedere nella zona dell'attuale governo, stretto intorno a Mario Draghi, uno con quel curriculum. Uno che, con protervia, mai ha chiesto scusa a chi ha infangato, ferito, umiliato.

Ora i nomi dei giornalisti al servizio dei pm. Fatto e Repubblica linciano Renato Farina: il giornalista lascia la collaborazione con Brunetta. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Agosto 2021. La decisione presa nei giorni scorsi da alcuni nostri colleghi di linciare Renato Farina, secondo me è vile e sconsiderata. Cosa è successo? Il ministro Brunetta ha chiamato Renato Farina, giornalista di Libero con alle spalle una quarantina di anni di carriera, offrendogli una collaborazione al ministero come consulente per l’informazione. Una specie di ufficio stampa. Tutti i ministri e anche molti sottosegretari e molti parlamentari hanno un proprio ufficio stampa. Un paio di giornali hanno scoperto la cosa (è un’opera giornalistica che richiede grandi qualità investigative scoprire chi si nasconde dietro un ufficio stampa…) e hanno iniziato una campagna feroce contro Farina. Perché? Credo per le seguenti ragioni: Farina è un giornalista piuttosto isolato; Farina è una persona molto mite; Farina è un giornalista di notevoli qualità, e oltretutto possiede una dote piuttosto rara nella nostra categoria (scrive molto bene); infine Farina ha subito alcune condanne in tribunale. Essenzialmente ne ha subite due. Una per aver introdotto in un carcere, durante la sua breve esperienza parlamentare, una persona spacciandola per sua assistente, mentre non lo era, e permettendo in questo modo che un non addetto ai lavori potesse conoscere gli orrori del carcere che invece devono restare segreti. Per questo reato è stato condannato in primo grado a una pena di due anni e otto mesi di carcere. È più o meno la pena che di solito viene affibbiata a uno stupratore con qualche attenuante. L’altra condanna, la più nota, è a seimila e seicento euro di multa per aver favoreggiato due dirigenti dei servizi segreti. Precisamente Pollari e Mancini. Accusati per il sequestro di Abu Omar. Farina non è stato ovviamente condannato per avere partecipato al sequestro, ma per avere favoreggiato i due alti dirigenti dei servizi. I quali sono stati prosciolti da tutte le accuse. Quindi, se la logica funziona ancora, Renato è stato condannato per aver favoreggiato degli innocenti. Per questa ragione Farina è stato anche radiato dall’ordine dei giornalisti, e per diversi anni non ha potuto scrivere sui giornali, cioè non ha potuto svolgere il suo lavoro, né ricevere un regolare stipendio. Io, personalmente, sono entrato due volte clandestinamente in carcere, fingendomi portaborse di alcune parlamentari. Quindi non mi scandalizzo. Non ho mai collaborato, invece, coi servizi segreti. Che sono organi dello Stato e che dipendono dal governo. Sono però assolutamente certo che siano almeno un centinaio i miei colleghi che hanno collaborato e collaborano coi servizi segreti. Molti di loro sono firme assai autorevoli che influenzano la pubblica opinione. E collaborano coi servizi segreti su questioni italiane, non di politica estera come faceva Farina (che, a quanto si sa, aiutò gli 007 a liberare alcuni ostaggi), e quindi su temi molto delicati che possono modificare il corso della politica italiana. Non ho mai pensato di esprimere disprezzo, per loro. È una scelta che non condivido, come non condivido neppure la scelta che fece a suo tempo Renato (che però comprendo e trovo che avesse molte ragioni per essere fatta). Stop. Non capisco perché verso Farina si è scatenato l’inferno e verso gli altri 99 no. Vogliamo poi fare l’elenco dei giornalisti al servizio delle Procure? Credo almeno mille. E questi giornalisti sono tenuti a riferire su grandi casi giudiziari e anche politici, o economici, attenendosi solo alla versione dei loro Pm di riferimento, e in questo modo distorcono in maniera evidentissima e robusta la realtà delle cose, e trasformano l’informazione in disinformazione, spesso ai danni di imputati innocenti. Non è una novità: lo sapete tutti. Nessuno di loro però è stato chiamato a rispondere di questo, moltissimi anzi sono stati premiati.  L’Ordine dei giornalisti non mi pare sia mai intervenuto per stigmatizzare episodi clamorosi di linciaggio mediatico verso gli innocenti, né mai ha preso misure disciplinari in questi casi. Sbaglio? Le uniche eccezioni che conosco sono Farina e Feltri. A me va bene che l’Ordine non abbia mai preso misure disciplinari verso i giornalisti al servizio dei Pm: io sono allergico alle misure disciplinari (un po’ sono allergico anche agli Ordini), ma perché contro Farina sì? Ora assistiamo a questo nuovo episodio di squadrismo giornalistico, guidato dal Fatto quotidiano con Repubblica alla scorta. Realizzato con inaudito disprezzo per le persone che lavorano e vivono del loro lavoro. Hanno invocato il licenziamento di Farina, il quale, peraltro, percepiva un compenso di circa 750 euro al mese coi quali doveva pagarsi anche treni, aerei, vitto e alloggio a Roma (lui vive a Milano). Io, lo confesso, e poi lo sapete, sono un vecchio antifascista. Per storia, per tradizione, per convinzione. Oggi non mi fa paura Casapound: mi fanno paura questi. Questi che vanno a cercare nemici isolati e li bastonano ferocemente e poi se ne vanno soddisfatti e chiedono l’applauso.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

E’ FINITA FINALMENTE LA PASSERELLA “MEDIATICA” DELLE PROCURE? ERA ORA! Il Corriere del Giorno il 4 Agosto 2021. Il decreto del Governo italiano recepisce la Direttiva Europea 343 del 2016 permetterà le comunicazioni dell’autorità giudiziaria soltanto in casi residuali. Proibite le conferenze stampa dei pubblici ministeri e forze di polizia, ammesse solo in casi eccezionali. Saranno questi – a quanto anticipa Repubblica – i contenuti del decreto del Ministero della Giustizia che il prossimo Consiglio dei ministri approverà per trasformare in legge la direttiva Ue 343 del 2016, sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”, atto recepito dal Parlamento italiano con tre anni di ritardo di (il termine scadeva il 1° aprile 2018) inserito in extremis nella legge di delegazione europea votata il 31 marzo scorso. Delega che a propria volta sta per scadere: il Governo la deve esercitare entro il prossimo 8 agosto – la data più probabile è oggi giovedì 5 – con un decreto legislativo aperto a successivi aggiustamenti delle Camere. La formulazione del decreto dovrebbe consentire le conferenze stampa soltanto per indagini di “rilevante interesse pubblico”, un requisito che forse potrà essere valutato direttamente dall’autorità giudiziaria. Una norma a garanzia del presupposto d’innocenza con l’avvallo dell’Unione Europea. Ecco cosa prevede il testo della direttiva europea, che in realtà, è addirittura più stringente di come lo si vorrebbe declinare in Italia. Al considerando 16 si osserva che “la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche (…) presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni (…) non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole”. Al considerando 18, ecco che Parlamento e Consiglio europeo piantano i paletti: le “autorità pubbliche” (cioè gli inquirenti) possono parlare soltanto “qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico“. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia esprime qualche dubbio “Non vorrei che limitazioni troppo stringenti si traducessero in un ostacolo al diritto all’informazione”, dice “Sono d’accordo, però, col fatto che sia necessaria una comunicazione volta a tutelare in ogni caso la presunzione di non colpevolezza, che è un principio sacrosanto e tutelato in Costituzione. Serve trovare un punto d’incontro tra le due esigenze”.

Giro di vite sulle procure che trattano l’indagato da colpevole: il bis garantista di Cartabia. Arriva in Consiglio dei Ministri il testo che attua la direttiva UE sulla presunzione d’innocenza: obblighi di rettifica per pm e gip. Valentina Stella su Il Dubbio il 5 agosto 2021. Dopo l’approvazione del ddl penale alla Camera, un altro passo avanti nella direzione di una normativa ispirata ai principi costituzionali si sta per compiere oggi in Consiglio dei ministri, dove sarà discusso il decreto legislativo per l’attuazione della direttiva Ue 2016/ 343 “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, recepita lo scorso 30 marzo, con voto pressoché unanime, nella legge di delegazione europea.

Il bis garantista di Cartabia. Si tratta di uno degli obiettivi elencati dalla ministra Marta Cartabia nelle proprie linee programmatiche, e che arriva con cinque anni di ritardo rispetto al dettato comunitario. Lo schema prevede innanzitutto che le autorità, magistrati inclusi, non potranno indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato, fino a quando la colpevolezza non sarà stata accertata con sentenza irrevocabile. Qualora tale principio fosse violato, “ferma l’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno, l’interessato ha diritto di richiedere all’autorità pubblica la rettifica della dichiarazione”.

La diffusione dei procedimenti penali alla stampa. Se l’autorità condivide, deve procedere alla rettifica entro 48 ore, garantendo la medesima diffusione e rilievo della dichiarazione oggetto di modifica. Se l’autorità rigetta, l’interessato si può rivolgere al Tribunale. Si prevede poi una modifica al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (“Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero”) incentrata sulla comunicazione alla stampa: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende, e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

Non tutto sarà “notiziabile”. In questi casi sarà il procuratore della Repubblica a poter “autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato”. In pratica non tutto sarà considerato notiziabile, come accade adesso, ma solo i fatti di grande rilevanza: si tratta di un passaggio importante perché la Procura sarà chiamata a motivare le ragioni di interesse pubblico della comunicazione. In più, se prima sulle conferenze stampa vigeva una sorta di deregulation, con il recepimento effettivo della direttiva, in assenza di autorizzazione, i vertici di polizia e carabinieri non potranno tenere alcuna conferenza stampa con i loro ben noti video di arresti autocelebrativi. E, secondo una possibile interpretazione della norma, il giochetto delle conferenza stampa sarà tolto dalle mani dei sostituti procuratori per impedire eccessi di protagonismo e di personalizzazione nell’esercizio delle funzioni requirenti.

Modifiche al codice di procedura penale. Lo schema di decreto legislativo prevede anche una modifica al codice di procedura penale laddove si prevede un 115- bis (“Garanzia della presunzione di innocenza”) secondo cui “nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Se così non fosse “l’interessato può, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi alla conoscenza del provvedimento, richiederne la correzione, quando è necessario per salvaguardare la presunzione di innocenza nel processo”. I provvedimenti a cui si fa riferimento potrebbero essere le richieste di misure cautelari, le successive ordinanze dei gip ma persino le proroghe che il giudice dovrà richiedere per portare a termine processi complessi, come previsto dal nuovo istituto dell’improcedibilità. Sta di fatto che entrambe le modifiche incidono soprattutto quando la gogna mediatica imperversa, ossia nella fase delle indagini preliminari, la cui dimensione garantista è stata rafforzata nella riforma appena approvata.

Il parere di Enrico Costa. Secondo il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che per primo indicò il tema come prioritario nell’agenda di politica giudiziaria, «si tratta di un testo di partenza che può essere considerato già un passo avanti: se il Cdm lo licenzierà farà molto meglio del passato. Ora sarà fondamentale il lavoro delle commissioni parlamentari che dovranno fornire gli altri elementi per rafforzarlo». Quelli delle commissioni non sono pareri vincolanti, ma un governo che ha fatto del dialogo una prerogativa importante sarà sicuramente aperto ai correttivi. In linea generale siamo nella stessa condizione della riforma penale: come per il testo della “mediazione Cartabia”, anche questo schema non è l’optimum ma rappresenta sicuramente un discreto punto di partenza per rafforzare la cultura garantista e lanciare un messaggio a certa magistratura requirente impegnata troppo spesso a cercare le luci della ribalta mediatica a scapito della presunzione di non colpevolezza.

Quel video terribile sui pestaggi andava pubblicato? Difficile trovare un compromesso tra diritto di cronaca e rispetto delle regole. Ma una cosa dobbiamo chiedercela: chi ha fatto arrivare alla stampa quelle immagini di Santa Maria Capua Vetere? Valentina Stella su Il Dubbio il 30 giugno 2021. È innegabile la portata di drammaticità emersa dal video pubblicato dal quotidiano Domani in cui si vedono chiaramente le violenze subìte dai detenuti lo scorso 6 aprile 2020 per mano di centinaia di agenti di polizia penitenziaria. Quelle sequenze di aggressività e sopraffazione dei (finti) custodi verso i loro custoditi, la riproposizione del «sistema Poggioreale» come metodo illegale di punizione, lo svilimento della dignità dei detenuti: tutto ciò è stato un pugno nello stomaco per moltissimi di noi, che pure da anni ci occupiamo di queste vicende, ma soprattutto per altri colleghi che spesso si mostrano indifferenti alle criticità dell’esecuzione penale, e per una grande fetta della società civile. Probabilmente quelle immagini hanno anche spinto la Ministra Cartabia a prendere una posizione più netta nei confronti di quegli accadimenti. Sicuramente quel video ha disvelato qualcosa per molti inimmaginabile. Come spesso ricorda il sociologo dei fenomeni politici, Luigi Manconi, «il carcere e la caserma sono istituzioni totali, secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica». Ora invece tutti possono vedere. Ma nonostante il valore pedagogico, siamo sicuri che quel video andava pubblicato? Ci siamo posti la stessa domanda relativamente alle immagini degli ultimi istanti di vita dei passeggeri nella funivia del Mottarone. Non è semplice dare una risposta: c’è il gioco il diritto di cronaca, la necessità di denunciare pubblicamente misfatti così terribili, ma non dobbiamo dimenticare il rispetto delle regole e del codice di rito. Si tratta di un documento che, seppur non coperto da segreto istruttorio, ai sensi dell’articolo 114  comma 2 c.p.p. non può essere pubblicato, in quanto relativo a procedimento in fase di indagine preliminare. E allora ci si chiede: chi ha fatto arrivare ai colleghi del Domani il video? La procura aprirà un fascicolo di indagine per stabilire eventuali responsabilità?

La spettacolarizzazione delle indagini. Agenti indagati, vanno processati in aula non in piazza. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Finalmente i media si occupano di carcere! Ci sono volute immagini tremende e messaggi raccapriccianti per sollevare lo sdegno dell’informazione e quello dell’opinione pubblica. Anche i sostenitori storici del “buttare la chiave” hanno dovuto ammettere che la crudeltà di quanto visto e letto non lascia spazio a interpretazioni. Uno squarcio di luce intrisa di sangue sta attraversando il carcere, lasciato solo e abbandonato a se stesso da tempo immemorabile. Ora è necessario tenere alta l’attenzione per evitare che le tenebre tornino ad avvolgere quel mondo sconosciuto o, comunque, dimenticato. Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere ha confermato l’importanza della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e quella di una Magistratura di Sorveglianza attiva, oltre che in ufficio, anche negli istituti di pena. Dal loro tempestivo intervento, infatti, hanno preso vita le indagini che sono state coordinate e svolte nei necessari tempi rapidi. Dai messaggi scambiati tra gli indagati, emerge l’esistenza di un “sistema Poggioreale”, in relazione alle violenze da far subire ai detenuti. Il riferimento è alla famigerata “cella zero” del carcere napoletano, oggi oggetto di un processo, ancora in corso, nei confronti di alcuni agenti di quell’istituto. La violenza della “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere ci fa comprendere come gli autori fossero convinti della loro impunità. Detto ciò, credo che vadano fatte almeno due riflessioni di natura politica. La prima è relativa alle dichiarazioni di coloro che hanno affermato che si sarebbe trattato di «poche mele marce» e che il resto della polizia penitenziaria è sano, come lo è la dirigenza dell’amministrazione. Ciò è del tutto fuorviante.  A essere “marcio” da tempo è il sistema penitenziario. In questo malessere sono costretti – e sottolineo costretti – a vivere detenuti e agenti. I primi trattati come animali, privati di un progetto di responsabilizzazione e rieducazione, stipati in spazi angusti e antigienici; i secondi messi a guardia di persone abbrutite e private anche della dignità e, pertanto, da educare senza rispetto e, quando serve, a mazzate. Non a caso le numerose condanne inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo fanno riferimento alla necessità di un intervento di sistema che non c’è mai stato, per colpa di una politica cieca che non guarda al di là di uno strumentale interesse elettorale. La stagione degli Stati generali dell’esecuzione penale, iniziata dopo l’ennesima condanna inflitta dalla Cedu e culminata con il lavoro di ben tre Commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, si è chiusa con un nulla di fatto e le modalità di approccio della politica al pianeta carcere non sono mutate. Occorre riprendere quei lavori, frutto di un serio e serrato confronto tra persone esperte e provenienti dai diversi settori del mondo della giustizia. Per la seconda è bene chiarire preliminarmente che chi scrive si occupa da anni della tutela dei diritti dei detenuti e oggi è co-responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. Non è, pertanto, sospettabile di alcun pensiero avverso la popolazione detenuta né di favorire l’amministrazione penitenziaria. Fermo restando l’importanza – e l’abbiamo già detto – di tutto quello che è derivato dalla pubblicazione di messaggi e video (in merito ai quali il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha anticipato che ce ne sarebbero altri ancora più violenti), occorre evidenziare, ancora una volta, che la spettacolarizzazione della giustizia e i processi di piazza non giovano al Paese. Si tratta di giustizia sommaria, che – pur per episodi gravissimi – travolge vite umane e con esse i loro familiari, dinanzi a quella che è la verità parziale di un’ipotesi accusatoria. Mentre dovrebbe essere il processo, con tutte le sue garanzie, ad accertare la verità. Si obietterà: ma come, vi sono i messaggi, i video, la colpevolezza è certa! No, signori, la giustizia non funziona così. Altrimenti continueremo ad alimentare un istinto brutale di linciaggio popolare che, senza alcun intervento di un giudice, vuole la condanna del colpevole. Non possiamo accettare questa deriva che lentamente ci sta portando all’abbrutimento della nostra civiltà giuridica. Comprendo le ragioni che hanno indotto la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere a diffondere il comunicato stampa di ben 13 pagine, in cui venivano testualmente riportati i messaggi degli indagati, e comprendo pure le ragioni della pubblicazione del video delle torture, ma non le condivido. Sono il frutto di una politica che è rimasta indifferente dinanzi alle notizie apprese nel corso delle indagini, lasciando convivere per un anno intero vittime e carnefici. Una politica che, dinanzi alle denunce delle torture dell’aprile scorso, ha dichiarato che la legalità nel carcere di Santa Maria Capua Vetere era stata ripristinata. Oggi il Ministero della Giustizia ha una guida nuova, certamente orientata verso i principi costituzionali. Basterà? Riccardo Polidoro

Dalla Uno bianca a SanPa la "nera" degli Ottanta in tv. Matteo Sacchi il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Arriva su History il documentario sulla feroce banda che insanguinò la Romagna. È segno di una tendenza. Quando la cronaca diventa Storia? Quando le generazioni che vengono dopo i fatti, avendone sentito parlare diventano curiose, quando chi quei fatti li ha vissuti, a colpi di radio e telegiornali, vuole vederseli rimettere davanti, con una luce nuova (si spera più fredda e più pacata). Questo fenomeno è chiaramente in corso per le vicende dell'Italia degli anni 80/90. Lo prova la fortuna che hanno fiction, docufiction e documentari dedicati a quel periodo. Ultimo in ordine di tempo arriva su History Channel La banda della Uno bianca, documentario che andrà in onda domani e dopo domani alle 21 e 50. La vicenda ricostruita è quella della banda, composta da poliziotti, che tra il 1987 e il 1994 terrorizzò l'Emilia Romagna con una escalation di rapine ed omicidi. È un racconto a più voci, tra cui spiccano soprattutto quelle del sostituto commissario Luciano Baglioni e del sovrintendente capo Pietro Costanza, i due agenti che con perseveranza condussero l'indagine, sino a rendersi conto che la lunga scia di sangue - 103 atti criminali, 102 feriti, 24 morti - portava verso dei loro colleghi. Ovviamente in questo caso ad attirare l'attenzione del pubblico, allora come oggi, è l'incredibile dimensione e la ferocia «militare» della banda. Ferocia che Baglioni e Costanza furono tra i primi ad incontrare, nel 1987. Quando il nome «Banda della Uno bianca» non era stato ancora inventato, indagavano, con altri colleghi della questura di Rimini, sulle misteriose e violente rapine notturne ai caselli lungo la A14. I rapinatori tentano un'estorsione contro un commerciante che, però, si fa scortare dagli agenti lungo l'autostrada dove i banditi hanno previsto lo scambio. Il risultato è un tremendo scontro a fuoco, dove viene ucciso il sovrintendente di polizia Antonio Mosca. Se questa è la partenza della vicenda, a rendere particolarmente interessante La banda della Uno bianca (prodotto da Stand By Me) è la capacità del documentario di dar spazio a molti protagonisti di quell'epoca, tra cui l'allora sindaco di Rimini Giuseppe Chicchi, che ricostruiscono il contesto in cui si mosse la banda. Una Romagna sospesa tra il divertimento e la fame di denaro, tra il lavoro duro e la voglia di saltare le tappe, tra l'allegria e una rabbia cupa carica di malessere. Una spaccatura che non si è mai davvero chiusa e che nelle parole dei sopravvissuti alla violenza dei tre fratelli Savi (che erano il cuore feroce del gruppo della Uno bianca), come Francesca Gengotti, emerge con chiarezza. Un pezzo d'Italia rimase incredulo e terrorizzato, sotto le raffiche di colpi, non più ideologiche, come negli anni Settanta ma proprio per questo ancora più brutali. E bruciante risulta il contrasto tra i veri servitori della legge e dello Stato, ma potremmo dire più in generale della comunità, e chi usò la divisa per mascherare meglio la sua natura e trasformò il suo addestramento in mezzo di sopraffazione per prevalere in un mondo dove non conta nulla se non dimostrare la propria forza. In modo diverso queste complessità, queste sottili linee di faglia che caratterizzarono quel periodo sono quelle che emergono anche in altri prodotti. La serie Alfredino. Una storia italiana (Sky), come spiegava in queste pagine il collega Alessandro Gnocchi, ha messo ben in luce come attorno al pozzo dove era caduto il piccolo Rampi si agitassero diverse Italie: quella generosa, quella pasticciona, quella che voleva a tutti costi vedere in diretta il lieto fine, quella che si impegnò allo spasimo e quella che si perse nei cavilli. Ancora prima, la serie SanPa (Netflix), per quanto sbilanciata nel suo puntare il dito contro gli errori di Muccioli senza vederne i meriti, ha raccontato altre fratture tremende che hanno attraversato il nostro Paese negli anni Ottanta. Il gorgo di una generazione sprofondata nella droga, l'assenza di un sistema sanitario che a parte il metadone aveva poco da offrire, lo spontaneismo di una comunità, San Patrignano, che cresce a dismisura e perde il controllo di se stessa. Non stupisce quindi che quel pezzo di vicende italiane, rimaste a lungo schiacciate tra gli anni di piombo e i grandi rivolgimenti degli anni Novanta, sia tornato ad essere d'attualità. Proprio al concludersi di quel decennio lo storico Francis Fukuyama ha costruito l'idea di «fine della Storia». Era un'idea poco feconda per descrivere gli anni a seguire il crollo del Muro di Berlino. Ma risulta falsa anche per gli «immobili» anni 80. La storia italiana, forse, si era fatta cronaca. Ma ora capiamo quanto quella cronaca ci abbia cambiato.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Denise Pipitone: giornalisti denunciati per violenza privata da dieci mazaresi. Debora Faravelli il 21/06/2021 su Notizie.it. Alcuni giornalisti che si occupano del caso di Denise Pipitone sono stati denunciati da dieci mazaresi: l'accusa è di violenza privata. Dieci cittadini di Mazara del Vallo hanno denunciato i giornalisti di Ore14, aggrediti mentre stavano realizzando un servizio sul caso di Denise Pipitone, per violenza privata. Ad annunciarlo è stato il conduttore Milo Infante che sul suo profilo Instagram ha affermato che nella puntata di lunedì 21 Piera Maggio, la madre della bimba scomparsa nel 2004, approfondirà insieme a lui le figure di Gaspare Ghaleb e Francesca Adamo, rispettivamente il compagno di Jessica Pulizzi e la collega di Anna Corona che ha messo l’orario falso di uscita dal lavoro della stessa Anna. “Parleremo poi dei 10 mazaresi che hanno denunciato i giornalisti per violenza privata. Tra questi c’è anche l’aggressore del nostro inviato”, ha aggiunto. Il riferimento è all’aggressione subita da Fadi El Hnoud, sul posto per realizzare interviste sul caso. Un uomo lo ha minacciato (“Vi uccido”) per poi aggredirlo fisicamente. Quest’ultimo ha denunciato subito l’accaduto alla locale caserma dei Carabinieri che hanno identificato l’aggressore, ripreso in volto dalle telecamere. A rendere noto l’episodio era stata una nota di Unisgrai in cui, esprimendo solidarietà ai colleghi aggrediti, gli autori si erano detti pronti ad essere parte civile contro chi li ha minacciati. “A Mazara del Vallo le telecamere della Rai danno fastidio a chi non vuole che i cittadini siano informati”, aveva poi aggiunto un comunicato di Fnsi.

La tv del dolore ha superato ogni limite. Andrea Valesini su L'Eco di Bergamo Domenica 20 Giugno 2021. Appena 54 secondi, ma è un pugno nello stomaco. Il video che ritrae gli ultimi istanti del viaggio della funivia del Mottarone (fino allo schianto a terra) e di vita di 14 dei suoi 15 passeggeri è andato in scena in tv, con sovrapposta in un angolo la scritta «Esclusiva Tg3», firma dello scoop e ostentazione dell’orgoglio. Poi quel macabro documento è finito su altri media e sui social, visto da milioni di persone. A giustificare la messa in onda si è ricorsi al solito, ipocrita e pigro «diritto di cronaca». Ma quel diritto se non è accompagnato dal dovere di rispettare le persone e di non esporle al pubblico almeno in punto di morte, apre alla barbarie. Un limite invalicabile ormai invece superato. Nemmeno i parenti delle vittime del Mottarone avevano ancora visionato il video. È strano che uno scrittore sensibile come Ferdinando Camon difenda la diffusione delle terrificanti immagini perché «la verità non va nascosta». Proprio lui che vive di un uso sapiente delle parole dovrebbe sapere che gli ultimi istanti del viaggio della funivia sono stati raccontati dai giornali fin nei dettagli e che altri video simulano perfettamente l’accaduto, praticamente sovrapponibili senza sbavature all’originale. La verità poi non sono quelle immagini che ne costituiscono una parte, ma la risposta alla domanda: se dei freni di emergenza manomessi sappiamo molto, perché la fune si è spezzata? Peraltro in questa vicenda c’è anche un risvolto penale. La Procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, in un comunicato ha sottolineato come la pubblicazione del video sia vietata dalla legge, trattandosi di atti di indagine che, benché depositati per le parti e non più coperti da segreto, «sono relativi a procedimenti in fase di indagini preliminari». Ora però la Procuratrice dovrebbe andare fino in fondo: essendo la diffusione un reato penale, appurare da dove è uscito il materiale riservato. La vicenda è tanto più grave perché l’osceno e irrispettoso «scoop» è stato realizzato dal tg di un canale della tv pubblica, che non dovrebbe rispondere a logiche di audience greve. Andrea Valesini

Eriksen a terra e la tragedia del Mottarone: tv e social sbattono la morte in diretta. Oltre il limite. Hoara Borselli domenica 20 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Le immagini di Christian Eriksen disteso a terra che lotta tra la vita e la morte. E il video shock della tragedia della funivia del Mottarone sono solo alcuni tra gli ultimi casi di cronaca che accendono il faro sul tema della spettacolarizzazione dell’informazione. Quale è il confine etico e morale tra ciò che è idoneo o meno rendere pubblico? La tragedia della funivia del Mottarone ci ha ricordato ancora una volta come in molti preferiscano i dettagli più macabri rispetto ad un’informazione vera e attendibile. Accendendo i riflettori sull’istante in cui le persone perdono la vita in modo così sconvolgente si compie un doppio errore: di deontologia e anche di difesa del giornalismo. Sono diventate virali in pochi istanti le immagini che durano poco più di un minuto: la cabina che sale. Che sembra essere arrivata a destinazione. Ma che poi scivola velocemente verso giù e cade nel vuoto. E dentro, visibili, le 15 persone che sono precipitate giù: 14 delle quali hanno perso la vita. Un’immagine drammatica che tutti, mentalmente, avevamo ricostruito dopo il resoconto giornalistico della tragedia. E che adesso rimbalza su tutti i social andando ad alimentare quella morbosità macabra di cui sembra non si riesca più a fare a meno. Il video, pubblicato in esclusiva dal Tg3, e rilanciato da tutte le testate, ha generato una sorta di corsa alla condivisione per non rimanere indietro su nulla. Altrettanto sconvolgenti le scene del malore di Christian Eriksen, il giocatore danese trasmesso in diretta tv, con le immagini che si soffermano sul volto esanime dopo il malessere, a cercare quell’istante morboso di chi si trova a vivere un dramma sotto i riflettori. Un Truman show del dolore che con il diritto di cronaca segna una distonia netta. Emblematico l’abbraccio con cui i compagni di squadra di Christian hanno preservato la privacy per la tragicità del momento. Dando una lezione al mondo e alla stessa informazione che per diritto di cronaca non si ferma. Invece quel momento andava fermato. Raccontato per capire come stesse il calciatore, ma spegnendo immediatamente i riflettori per non alimentare quel voyeurismo insano, maniacale. I commenti indignati da parte degli utenti social dei canali delle testate che hanno fatto la scelta di mandare in onda sia le immagini della funivia che quelle del calciatore danese a terra, a distanza di poco tempo hanno suscitato un’indignazione comune legata dal filo invisibile della spettacolarizzazione del dolore. Rendere fruibile le immagini che documentano gli istanti di vita dei drammi non aggiunge niente all’informazione. Ma fa emergere l’assioma della “pornografia del dolore”. Esemplificative in questo senso sono le parole riportate da Mario Morcellini, direttore della Scuola di Comunicazione Unitelma Sapienza: «Mettere in diretta le grida della disperazione, a me sembra che non sia un esercizio di informazione». La questione sulla sulla deontologia giornalistica diventa centrale. Il giornalismo che riesce a raccontare senza eccedere nel morboso dell’occhio che non deve spegnere mai la luce, è un punto focale. Ci vuole responsabilità. Essere in diretta con il dolore ha poco a che fare con la rappresentazione dell’informazione a livello di cronaca giornalistica. È innegabile che stia cambiando il rapporto tra verità in diretta e dramma del momento comunicativo. I social ci seguono ovunque, amplificando ciò che parte dalla tv. E la drammaticità morbosa diventa protagonista. L’ultimo tassello della cronaca nera in diretta sta diventando la nostra informazione quotidiana.

Eitan, l’ultima foto nella funivia è la morte del giornalismo. Giuseppe Gaetano il 26/05/2021 su Notizie.it. Da parte nostra l’augurio di scattarne di belle, di fotografie, negli anni che verranno. Da incorniciare e conservare nella memoria. Il bimbo in mare preso in braccio dal soccorritore a Ceuta, quello morto sulla spiaggia libica, quello che guarda la finestra della cabina di una funivia. Che forse sta per morire. Oggi il peggio per Eitan sembra passato. O forse deve ancora venire. Risvegliarsi a 5 anni senza genitori e fratelli è uno choc che lo segnerà per tutta la vita. Ma quando martedì il Corriere della Sera ha dato via allo spam della sua “ultima immagine” prima della strage – com’è stata presentata a ruota da ogni media – non si sapeva ancora bene se Eitan ce l’avrebbe fatta, e come ne sarebbe uscito. Tra le tante foto di bambini diffuse online ogni giorno, quella nella cabina, dove altre 14 persone hanno trovato la fine, non aggiunge nulla all’informazione: non ha valore documentale, né umano né investigativo. Non è una notizia. In quello scatto, seguito da quel titolo, non c’è rispetto che per il clic. E non è una questione di deontologia, giacché tecnicamente il sopravissuto minore è girato di spalle e irriconoscibile. Sarà pruriginosa, ma è anche una questione di discrezione, tatto, pudore, buon gusto. Se ancora contano qualcosa. Possiamo dire di non esserci accodati, per quel che vale. Forse qualcuno aveva già pronto l’album di famiglia da pubblicare. Invece è andata bene: Eitan è vivo e la sua privacy salva. Certo quell’istantanea spalmata ovunque resterà impressa in Rete e lo rincorrerà, rispuntando continuamente fuori, come il dramma che ha vissuto e vivrà. Potevamo evitargli la “delicatezza” di consegnarla al web. Da parte nostra l’augurio di scattarne di belle, di fotografie, negli anni che verranno. Da incorniciare e conservare nella memoria. E di provare, un giorno, a risalire senza paure su una funivia. Per i giornali, invece, quella della cabina della morte resterà davvero l’ultima, e unica, foto che potranno più pubblicare.

Fabio Giuffrida da open.online.com il 16 giugno 2021. Sono state diffuse le immagini delle telecamere di videosorveglianza che mostrano, per la prima volta, cosa è accaduto davvero nell’incidente della funivia che collega Stresa con il Mottarone. Una tragedia in cui sono morte 14 persone. Come mostra il video, la cabina numero 3 ha praticamente completato il suo tragitto. Poco prima dell’arrivo, però, rallenta: nelle immagini, a quel punto, si vedono i passeggeri all’interno – in tutto quindici, tra cui anche il piccolo Eitan, l’unico sopravvissuto alla strage – attendere la conclusione del viaggio, ignari di quanto sarebbe accaduto poco dopo. Improvvisamente la cabina si blocca, si impenna e inverte la rotta per tornare a scendere, a fortissima velocità, sganciata da uno dei cavi. Fino all’impatto con il pilone e la caduta (che non si vede perché avviene dietro al rilievo). Il filmato fa parte del dossier nelle mani degli inquirenti della procura di Verbania che indagano sul gestore della funivia, Luigi Nerini, il direttore di esercizio Enrico Perocchio, e il capo servizio, Gabriele Tadini. L’accusa è di concorso in omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravissime, falso in atto pubblico e rimozione dolosa di sistemi di sicurezza.

Mottarone, Tg3 e Tg La7 pubblicano il video con la dinamica del disastro. La procuratrice Bossi: “Scelta illegittima e inopportuna”. Il Fatto Quotidiano il 16 giugno 2021. In un filmato registrato dalle telecamere di sorveglianza e pubblicato dai due notiziari si vede la cabina che, a qualche metro dalla stazione di arrivo, si rovescia su se stessa e precipita a velocità folle per un centinaio di metri. Il magistrato inquirente ricorda in una nota come sia "vietata la pubblicazione anche parziale" di quelle immagini, "trattandosi di atti relativi a procedimento in fase di indagini preliminari", che dunque non potrebbero essere riportati integralmente sugli organi di stampa. La spaventosa dinamica della strage della funivia Stresa-Alpino-Mottarone, descritta tante volte a parole, è immortalata in un video registrato dalle telecamere di sorveglianza e pubblicato in esclusiva da Tg3 e Tg La7. La cabina numero tre dell’impianto a fune, intorno a mezzogiorno di domenica 23 maggio, si trova a qualche metro dalla stazione di arrivo. All’improvviso, con un movimento quasi fluido, si rovescia su se stessa: precipita a velocità folle per un centinaio di metri, scarrucola all’altezza dell’ultimo pilone e precipita nel vuoto. Sullo sfondo le acque del lago Maggiore. Altre immagini mostrano una persona in attesa nella stazione, che osservando il disastro, in preda al panico, si precipita di corsa fuori dalla struttura. La pubblicazione del video è stata definita illegittima e inopportuna dalla procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, che conduce le indagini sull’incidente. Nonostante le immagini siano atti “non più coperti da segreto in quanto noti agli indagati”, scrive il magistrato in una nota, ne è “comunque vietata la pubblicazione anche parziale” ai sensi dell’articolo 114, comma 2 del codice di procedura penale, “trattandosi di atti relativi a procedimento in fase di indagini preliminari”, che dunque non potrebbero essere riportati integralmente sugli organi di stampa. “Ancor più del dato normativo – prosegue Bossi – mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese “per il doveroso rispetto che tutti, prati processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità”. A far precipitare la vettura l’effetto combinato della rottura della fune traente e della disattivazione del sistema frenante d’emergenza per mezzo di “forchettoni” che bloccavano le ganasce. Gli indagati per omicidio colposo, al momento, sono il gestore dell’impianto Luigi Nerini, il direttore dell’esercizio Enrico Perocchio e il capo operativo del servizio Gabriele Tadini. Nelle prime ore di mercoledì i Carabinieri di Verbania, coordinati dalla procuratrice Bossi e dal sostituto Laura Carrera, si sono presentati nella sede della Leitner, la società incaricata della manutenzione dell’impianto, per acquisire i documenti relativi agli interventi svolti negli ultimi anni.

Mottarone, diffuso il video integrale: scoppia l'ira sui social.  Strage Mottarone: diffuso il video della cabina che viaggia a velocità folle prima di schiantarsi contro un pilone. Da notizie.virgilio.it il 16 giugno 2021. Divulgato il video della tragedia della Funivia del Mottarone, in cui nella mattinata di domenica 23 maggio hanno perso la vita 14 persone, dopo che la cabina n.3, spezzatosi il cavo che la trainava, ha iniziato a viaggiare all’indietro a velocità folle, senza essere bloccata dai freni fuori uso per via del “forchettone” . Dalle immagini, pubblicate dal Tg3, si nota la cabina arrivare praticamente a destinazione. Ed è proprio in quel momento che la fune cede e da avvio al drammatico incidente. Un viaggio terrificante lungo circa 300 metri e durato una manciata di infernali secondi, fino all’epilogo tragico contro un pilone della struttura della stessa funivia. Il filmato è stato registrato da due telecamere di sorveglianza della stazione a monte dell’impianto. I due video, uno ripreso dall’esterno della stazione, l’altro dall’interno, sono agli atti dell’inchiesta che sta svolgendo la Procura della Repubblica di Verbania. Nel registro degli indagati ci sono tre persone su cui pendono le accuse di omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime e disastro dovuto a rimozione di sistemi di sicurezza. Trattasi del titolare delle Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, il capo servizio Gabriele Tadini (per ora unica persona in custodia cautelare agli arresti domiciliari) e il direttore di esercizio dell’impianto, Enrico Perocchio.

Ira social: “Che senso ha trasmettere questo video?”

Sui social, tantissimi gli utenti che non hanno apprezzato la scelta del Tg3 di divulgare il video integrale della tragedia. “Ma il senso di trasmettere un video del genere?”; “Pessima cosa del Tg3 condividere interamente il video sul profilo”; “Il video della funivia che precipita? Anche no grazie, non lo guarderò”; “Mi aspetto che venga ritirato. Che pena”. Sono solo alcuni dei tweet – seguiti da molti altri – che hanno trovato poco azzeccata la decisione di trasmettere il video in forma integrale.

E poi: “Perché mostrare quel video? Cosa aggiunge, cosa racconta che già non sia stato ampiamente e non sempre garbatamente raccontato”.

Un altro tweet recita: “Questa cosa che ve la sentite di guardare la gente che muore io non la capirò mai”.

Video Mottarone: le reazioni di politici e giornalisti

Enrico Borghi del Pd ha scritto su ‘Twitter’: “Sono sconcertato dalla diffusione delle immagini del drammatico incidente della Funivia del #mottarone . Lo dico da parlamentare, da uomo originario di quei luoghi e da privato cittadino. Il dolore delle persone va rispettato, mentre in questa società lo trasformiamo in show. No!”.

Questo il tweet di Laura Garavini di Italia Viva: “Trasmettere le immagini del Mottarone vuol dire calpestare la memoria delle vittime e il dolore dei familiari. È un’offesa all’informazione di cui la Rai non può essere complice. Invito tutti a non aprire quel video. Oggi e sempre, fermiamo noi per primi la tv del dolore”.

Il giornalista Clemente Mimum ha commentato: “Ho visto e rivisto i 52 secondi dei due filmati della tragedia di Mottarone. Impossibile non rimanere sconvolti e pensare al terrore che hanno vissuto le 14 vittime. Chissà se qualcuno pagherà?

Il commento di Mario Calabresi: “Un tempo, grazie al cielo, non esistevano telecamere ad ogni angolo di strada e così non sono cresciuto con un’immagine fissa negli occhi. Penso allo strazio di chi rivivrà in continuo l’ultimo attimo di vita di una persona amata. #mottarone”.

Strage Mottarone, unico sopravvissuto il piccolo Eitan: come sta il bimbo. Unico superstite della strage del Mottarone è il piccolo Eitan, 5 anni, che “migliora ed è con la sua famiglia”. “Ed è giusto che la sua famiglia si occupi di lui mentre noi ci occupiamo degli aspetti tecnici di questa vicenda. Abbiamo l’esigenza di accertare quanto prima e nel miglior modo possibile quanto è accaduto”. Così Armando Simbari, legale che segue la vicenda processuale per il piccolo e la sua famiglia. Il bimbo giovedì scorso è stato dimesso dall’ospedale. Prima di entrare in Procura a Verbania il legale ha aggiunto che “è necessario scandagliare tutti i profili, dalla dinamica dell’incidente, alla gestione e manutenzione della funivia”.

Il Tg3 pubblica il video del crollo della funivia. È bufera in Rai. Francesca Galici il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Dal profilo Twitter del Tg3 Rai, il video dell'incidente del Mottarone in pochi minuti è rimbalzato ovunque non senza critiche, tra le quali quelle del pm. Da questa mattina circola sui social il video del momento esatto in cui la cabina della funivia del Mottarone scivola giù quando si spezza la fune traente. Si tratta delle immagini di due telecamere di sorveglianza, riprese dai carabinieri attraverso i monitor nel giorno stesso dell'incidente, trasmesse in esclusiva dal Tg3 Rai. Si vede con precisione quanto è accaduto in quei lunghi secondi, fino a quando la cabina non urta contro il pilone, che fa da trampolino, e precipita al suolo fuori dalla portata della telecamera. In tanti hanno criticato la diffusione del video, che dura poco meno di due minuti, e nel pomeriggio anche il pm di Verbania ha detto la sua, non condividendo la decisione di renderlo pubblico. "Assoluta inopportunità per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità", ha detto Olimpia Bossi. Il procuratore, quindi, ha aggiunto: "Portare a conoscenza degli indagati e dei loro difensori gli atti del procedimento a loro carico nelle fasi processuali in cui ciò è previsto non significa, per ciò stesso, autorizzare ed avallare l'indiscriminata divulgazione del loro contenuto agli organi di informazione". Un giudizio netto da parte della dottoressa Bossi, che sottolinea "si tratti di immagini dal fortissimo impatto emotivo, oltretutto mai portati a conoscenza neppure dei familiari delle vittime la cui sofferenza come è intuitiva comprensione non può e non deve essere ulteriormente acuita da iniziative come questa". Non è noto chi abbia consegnato queste immagini al Tg3 Rai. Olimpia Bossi ha specificato che il video fa parte degli atti depositati alla convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare, ai quali gli indagati hanno avuto accesso per farne copia. Tuttavia, come ha sottolineato il procuratore Bossi, sono "immagini di cui è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto nota gli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari". Al di là del lato normativo, conclude il procuratore, "mi preme sottolineare l'assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone". Nel pomeriggio è intervenuto anche Marcello Foa, presidente della Rai: "Sono profondamente colpito dalle immagini trasmesse dal Tg3. È doveroso per il servizio pubblico, in circostanze come questa, valutare attentamente tutte le implicazioni, a cominciare da quelle etiche e di rispetto per le vittime e per i loro familiari, nella consapevolezza del peso mediatico ed emotivo di ogni immagine e di ogni commento". Il presidente, quindi, ha concluso: "Quanto accaduto deve essere di insegnamento e motivo di riflessione per la Rai. Ho sempre rispettato le scelte editoriali dei direttori e mi sono sempre astenuto dal commentarle pubblicamente, ma come presidente della Rai in questo caso non posso restare in silenzio".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Funivia Stresa Mottarone, la pm Bossi dura con il Tg3: "Erano immagini vietate", il sospetto sugli avvocati. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. La pm Olimpia Bossi ha rilasciato un duro comunicato sul servizio mandato in onda dal Tg3 della Rai in cui veniva mostrato il video dello schianto della cabina numero 3 della funivia del Mottarone. Quattordici persone hanno perso la vita in quel tragico indicente dello scorso 23 maggio: le immagini mostrate dal Tg3 sono state estrapolate dall’impianto di videosorveglianza e sono state riprese da quasi tutti le trasmissioni televisive e i quotidiani online. “Preciso che tali immagini, contenute in un file video - si legge nella nota a forma della pm Olimpia Bossi - risultavano depositate, unitamente a tutti gli atti di indagine, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare, con diritto degli indagati e dei rispettivi difensori di prenderne visione ed estrarne copia, diritti ampiamente esercitati”. Quindi potrebbe essere stato uno degli avvocati a inviare il video al Tg3, o comunque qualcuno che aveva accesso agli atti. “Si tratta tuttavia di immagini di cui è comunque vietata la pubblicazione - ha sottolineato la procura di Verbania - anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari. Ma ancor più del dato normativo, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia”. 

La tragedia della funivia e la pornografia del dolore. La procuratrice: «I familiari non avevano visto quelle immagini». Tv e testate web diffondono il video della tragedia. L'ira della procuratrice Bossi: «Atto coperto da segreto». Simona Musco su Il Dubbio il 17 giugno 2021. «Quelle immagini non erano state portate a conoscenza dei familiari», dice con mestizia, in un comunicato secco ma efficace, la procuratrice di Verbania Olimpia Bossi. Immagini che durano poco più di un minuto: la cabina che sale, sembra essere arrivata a destinazione, ma poi scivola velocemente verso giù e cade nel vuoto. E dentro, visibili, le 15 persone che sono precipitate giù, 14 delle quali hanno perso la vita. Un’immagine drammatica che tutti, mentalmente, avevamo ricostruito dopo il resoconto giornalistico della tragedia della strage della funivia del Mottarone. Ma oggi alla descrizione si aggiunge qualcosa di più: il video, pubblicato in esclusiva dal Tg3 e rilanciato da tutte le testate, in una sorta di corsa alla condivisione per non rimanere indietro su nulla. Ma inaspettatamente, forse, i commenti indignati da parte degli utenti social dei canali di ognuna delle testate che hanno fatto questa scelta si sono moltiplicati in pochi secondi. Da lì ne è partita un’altra di corsa: quella a giustificare la propria iniziativa, spiegata con l’obbligo di informare. «Ecco perché abbiamo pubblicato quel video», si legge ovunque, «le immagini sono più potenti di mille parole», si aggiunge qui e lì, «nessuna delle vittime è identificabile», si prosegue. Parole che hanno il gusto di una giustificazione che, comunque, fa acqua da tutte le parti. Ma è Bossi a spiegare quanto fuori luogo, se non illegittimo, sia stato pubblicare quelle immagini, consegnate alla stampa dai carabinieri, secondo quanto sostiene il Post. Le immagini sono state estrapolate dall’impianto di videosorveglianza della funivia e messe a disposizione delle parti già a fine maggio scorso, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare. «Si tratta, tuttavia, di immagini di cui, ai sensi dell’articolo 114 comma 2 c.p.p., è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari», spiega la procuratrice. Ma se non bastasse la legge – i giornali non si sono mai fatti problemi, d’altronde, a pubblicare qualsiasi cosa, anche se coperta dal più vincolante dei segreti -, c’è una questione etica che avrebbe dovuto spingere le testate coinvolte ad aspettare un attimo. È sempre Bossi – che pure aveva fondato sulla «risonanza internazionale» e soprattutto mediatica della vicenda il pericolo di fuga dei tre indagati – a spiegare il perché. «Ancor più del dato normativo – si legge in una nota della procura -, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità. Portare a conoscenza degli indagati e dei loro difensori gli atti del procedimento a loro carico nelle fasi processuali in cui ciò è previsto, non significa, per ciò stesso, autorizzare ed avallare l’indiscriminata divulgazione del loro contenuto agli organi di informazione, soprattutto, come in questo caso, in cui si tratti di immagini dal fortissimo impatto emotivo, oltretutto mai portate a conoscenza neppure dei familiari delle vittime, la cui sofferenza, come è di intuitiva comprensione, non può e non deve essere ulteriormente acuita da iniziative come questa».

La procuratrice e il pomposo e del tutto inutile comunicato stampa. Il video della strage del Mottarone e la lezioncina della pm contro gli avvocati. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Giugno 2021. La dott.ssa Olimpia Bossi, loquace Procuratrice della Repubblica di Verbania, vede -come milioni di altre persone- che il drammatico video degli ultimi attimi di vita dei passeggeri della funivia del Mottarone è improvvisamente diffuso sui social. La cosa scatena reazioni forti, in assoluta prevalenza di sdegnata condanna per questa forma di autentica pornografia di una sciagura. C’è anche chi la pensa diversamente, sul presupposto che la conoscenza di un fatto realmente accaduto è almeno neutra, se non addirittura meritevole di apprezzamento. Sono opinioni tutte lecite, ognuno la pensi come meglio crede. Ma tutto è lecito attendersi, fuor che l’incredibile comunicato stampa della Procuratrice capo di Verbania, con il quale in buona sostanza sembrerebbe si sia voluto dire questo: condivido lo sdegno, quel video è sì agli atti della indagine ma sia chiaro che il mio Ufficio non ha nulla a che fare con la sua diffusione, che fermamente condanno. Piuttosto, sappiate che quel video abbiamo dovuto depositarlo e metterlo a disposizione dei difensori degli indagati, che infatti ne hanno chiesto e ricevuto copia. E qui, a seguire, la dott.ssa Bossi parte con una intemerata non richiesta e non dovuta, sul fatto che i diritti di difesa non esistono perché se ne possa abusare. Il diritto ad estrarre copia di un atto serve per conoscerlo e studiarlo, non per diffonderlo sui social. È una mia sintesi, ma credo sia perfettamente fedele al significato testuale e sostanziale del comunicato, d’altronde ampiamente diffuso. Noi avvocati riceviamo spesso queste non richieste lezioncine su cosa sia il diritto di difesa ben esercitato, e quale quello male esercitato, e di come il difensore, per sua naturale ed un po’ perversa indole, tenderebbe ad abusarne appena possibile, sicché questa ennesima, peraltro piuttosto dozzinale, potremmo farcela scivolare addosso senza particolare interesse. Ma qui il tema è un altro: che c’azzecca -avrebbe detto il famoso ex collega della dott.ssa Bossi– questo bignamino sul diritto di difesa, in quel contesto? E prima ancora: come diavolo è saltato in mente alla Procuratrice di fare questo pomposo e del tutto inutile comunicato stampa? L’unica risposta sensata, davvero l’unica, è che quel magistrato abbia voluto dire urbi et orbi, in una forma tanto implicita quanto inequivocabile, che sono stati i difensori degli imputati a diffondere quel video, così dandoli in pasto allo sdegno social-popolare. I tre Colleghi, non a caso, si sono sentiti costretti a replicare in modo molto forte e deciso, respingendo l’inequivocabile addebito. Non me ne vogliano, quegli avvocati, se affermo una banalità di carattere generale: nulla esclude che un difensore, anche contro l’interesse del proprio assistito, divulghi atti di indagine. L’amico giornalista insistente, una calcolata strategia difensiva, o quant’altro. Quello che la dott.ssa Bossi dovrà spiegare bene -perché io dico che dovrà spiegarlo, perché non posso nemmeno immaginare che non gliene venga chiesto conto- è che cosa le abbia consentito di escludere dal novero delle probabilità che il giornalista insistente potesse essere amico, chessò, di un ufficiale di PG che fa le indagini, di un dipendente della segreteria del suo ufficio o di quello del Gip, di un difensore delle parti offese, o di un collega magistrato. Dobbiamo necessariamente pensare che la Pm abbia notizie certe circa la responsabilità di qualche avvocato, perché diversamente quel pistolotto è una intollerabile, gratuita e gravissima provocazione. E aggiungo che perfino se avesse quella certezza, avrebbe dovuto fare solo una cosa: aprire in silenzio una indagine con imputazione provvisoria a carico del sospettato, non certo diffondere comunicati stampa con annesso sermone sul cattivo difensore. A meno che non ci si debba definitivamente rassegnare all’idea che le indagini penali debbano essere non più governate da rigoroso riserbo, ma invece dalla implacabile diretta streaming. In politica, lo streaming si è dimostrato una pagliacciata senza storia; ma nelle indagini penali, è pura inciviltà. Non c’è da qualche parte un superiore gerarchico (qui mi taccio) o disciplinare che abbia qualcosa da dire in proposito? Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione Camere Penali Italiane

Tragedia del Mottarone, gli avvocati: «Nessun interesse a diffondere quel video». I legali dei tre indagati non ci stanno: "Il comunicato diffuso dalla procura di Verbania attribuisce, neppure velatamente, la divulgazione di quelle immagini agli indagati e, per essi, ai loro difensori". Simona Musco su Il Dubbio il 18 giugno 2021. Alla fine la colpa è sempre la loro, degli avvocati. È quanto trapela, al di là dei passaggi condivisibili, dal comunicato della procura di Verbania, che nel deprecare la pubblicazione del filmato della tragedia della funivia del Mottarone, tra le righe (ma nemmeno troppo) attribuisce la questione all’ostensione dei filmati estrapolati dal sistema di videosorveglianza anche alle difese. Filmati di cui le difese erano in possesso sin dal 26 maggio – poco dopo la tragedia -, ma che sono stati diffusi solo recentemente, tramite una ripresa effettuata da un cellulare che il Tg3 attribuisce ad un esponente dell’Arma dei Carabinieri. A mettere i puntini sulle i sono i difensori dei tre indagati – Gabriele Tadini, difeso da Marcello Perillo, Enrico Perocchio, difeso da Andrea Da Prato, e il gestore Luigi Nerini, difeso da Pasquale Pantano. «Il comunicato stampa della procura della Repubblica di Verbania – si legge in una nota – è condivisibile quanto allo sdegno dovuto all’illegittima circolazione del video che riprende la tragedia della funivia. Tuttavia non possiamo sottacere che tutto il comunicato attribuisce, neppure velatamente, la divulgazione di quelle immagini agli indagati e, per essi, ai loro difensori. Il reiterato accenno al “diritto degli indagati” “ampiamente esercitato” di prendere visione degli atti; al “divieto di pubblicazione” “benché non più coperti dal segreto” con la chiosa che la conoscenza degli atti da parte dei difensori “non significa autorizzare ed avallare l’indiscriminata divulgazione agli organi di stampa” non lascia dubbi: sono stati i difensori». Affermazioni gravi, specie dopo una campagna di spettacolarizzazione che di certo non deriva dagli indagati. I quali, affermano le difese, «sono gli ultimi ad avere interesse alla diffusione di quel video che, nella sua drammaticità, è sicuramente rappresentativo dell’ipotesi accusatoria. Le difese, dunque, già toccate per l’anomala sostituzione del gip (tema passato in secondo piano dopo la diffusione del video, ndr), respingono con forza quell’accusa certamente diffamatoria se non calunniosa ed invitano gli inquirenti, a ristabilire un clima di serena dialettica evitando apodittiche e maliziose illazioni. Tanto era dovuto nella fervida speranza che cali il sipario mediatico e ci si dedichi definitivamente alle indagini», conclude la nota. Una precisazione dovuta, dopo aver assistito alla “giustificazione mediatica” del pericolo di fuga: bisognava tenerli in carcere, secondo l’accusa, perché l’evento aveva avuto troppa risonanza. La gip Donatella Banci Buonamici si oppose. Cos’è accaduto dopo è storia.

Il video della funivia: diritto di cronaca o giornalismo sciacallo? Era giusto pubblicare quelle immagini? Aggiungono qualcosa alla comprensione pubblica della tragedia o sono solo uno spettacolo morboso e crudele? E non è forse un esercizio ipocrita gridare allo sciacallaggio quando da decenni nuotiamo letteralmente nella “tv del dolore”? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Il video della funivia di Mottarone, con le telecamere di sicurezza che inquadrano gli ultimi, drammatici momenti della cabina che cade nel vuoto della valle, ha generato una tempesta di polemiche e di interrogativi sulla deontologia del nostro giornalismo. Era giusto pubblicare quelle immagini? Aggiungono qualcosa alla comprensione pubblica della tragedia o sono solo uno spettacolo morboso e crudele? Non si tratta di un’inutile violenza nei confronti dei parenti delle vittime? O al contrario: nasconderle non significa rinunciare al proprio diritto di cronaca? E non è forse un esercizio ipocrita gridare allo sciacallaggio quando da decenni nuotiamo letteralmente nella “tv del dolore”? Domande che non possono trovare risposte univoche perché la ragione non pende quasi mai tutta da un lato. Nel mondo degli adulti non sempre trovi i buoni schierati tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra, la realtà non è una favola manichea e a volte richiede uno sforzo di immedesimazione. Per esempio: fanno bene a scandalizzarsi i parenti delle vittime: chiunque al loro posto reagirebbe indignato di fronte a quello strazio reiterato. Ma allo stesso tempo le ragioni di chi si è assunto la responsabilità di divulgare il video non sembrano pretestuose. In un certo senso sono nel giusto entrambi. Poi ci sono le valutazioni di merito, di opportunità, di decenza, anche di limite, ma riguardano la sfera individuale, lo stile che il giornalismo si vuole dare, non certo la morale pubblica. Invece, come sempre accade l’opinione si è divisa a metà, due fazioni simmetriche e munite di elmetto duellano da giorni, insultandosi, gridando chi all’indecenza cannibale de mezzi d’informazione chi all’ipocrisia e alla censura. Anche nella nostra redazione la vicenda ha acceso un vivo confronto e, per ragioni di sensibilità, abbiamo scelto di non pubblicare quel video. Ma la deontologia non c’entra. Sarebbe stato del tutto legittimo metterlo in rete, come ha fatto la stragrande maggioranza dei media a cominciare dal servizio pubblico. Accantoniamo per il momento le accuse lanciate dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi che cita l’articolo 114 del Codice di procedura penale sul divieto di rendere noti atti non coperte dal segreto prima della fine delle indagini preliminari. Tecnicamente è nel giusto (l’Agcom sta peraltro verificando se la Rai abbia rispettato il contratto di servizio), ma quante volte giornali, tv e altri media hanno infranto le regole, magari per proteggere una fonte anonima, o, nel caso contrario, nel divulgare intercettazioni messe in quel caso a disposizione dalle stesse procure? Oppure, come nel caso di Mottarone, nel diffondere una testimonianza visiva che ritengono importante? Probabilmente il video della funivia che sprofonda giù nel vuoto non ha un grande valore giornalistico (di certo ha un valore investigativo per gli inquirenti) ma non è un’imposizione: siamo tutti liberi di non guardare quella sequenza da film horror, di “cambiare canale” come si diceva un tempo. Ma difficilmente cambiamo canale, anzi, non lo abbiamo mai fatto. Dalla tragica morte di Alfredino Rampi avvenuta oltre quarant’anni fa come una diretta televisiva durata oltre 36 ore, lo “spettacolo” della morte ha inondato i nostri schermi, ha accompagnato le nostre serate, esteso a dismisura la nostra soglia di tolleranza. Abbiamo sezionato cadaveri, osservato a loop le scene più spaventose e catastrofiche del nostro tempo, l’uccisione di Muammar Gheddafi, selvaggiamente linciato dalle milizie di Misurata, l’impiccagione di Saddam Hussein trasmessa praticamente in mondovisione o lo scempio del cadavere dei suoi figli Uday e Qusay da parte dei marines americani. Pensiamo alle truculente decapitazioni degli ostaggi di al Qaeda come il povero Daniel Perle, o alle ossessive messe in onda degli attentati dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center di New York. Quante volte abbiamo visto le vittime gettarsi nel vuoto per non venire mangiate dal fuoco che stava divorando le torri gemelle? Poi ci sono i grandi casi di cronaca nera con i relativi “mostri” e le vittime uccise mille volte dalle occhiute ricostruzioni dei programmi più “pulp”, i dettagli morbosi illuminati solo per ottenere audience, i plastici, i criminologi di latta, le raccapriccianti interviste realizzate a caldo ai familiari dei defunti. Uno show ininterrotto in cui la morte è la protagonista assoluta Con l’avvento dei social-network, che trasformano questo show in uno spettacolo globale, pensare di censura per giornali e televisioni è semplicemente impossibile, per non dire ridicolo. Spetta alla sensibilità individuale di chi fa questo mestiere selezionare il materiale che ha tra le mani, separare l’utile dal superfluo, le informazioni dal gossip, le notizie dalle patacche. E assumersi sempre la responsabilità delle proprie scelte.

L’osceno Var della strage del Mottarone e leggi che la stampa la viola regolarmente…La pubblicazione di quei filmati è un atto illegale che deve essere sanzionato Il punto è che tale illecito viene punito con multe risibili. Cataldo Intrieri su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Quarant’anni dopo la morte in diretta da Vermicino del povero Alfredino vegliato oscenamente nella sua disperata agonia da un popolo di voyeur, arriva, in parallelo con lo sviluppo tecnologico, il VAR di una strage. Assistiamo tutti ipnotizzati alla ripetizione rallentata degli ultimi istanti delle povere vite umane intrappolate nella funivia e spazzate via, immaginandoci cosa debbano aver provato nel momento in cui si sono sentite mancare la terra sotto di loro, i lunghi istanti del volo finale prima dello schianto. La cosa più oscena non sono tuttavia le immagini ma i commenti con cui tutti i responsabili dei media (tra le poche eccezioni questo giornale) hanno giustificato la scelta “pecorona” di accodarsi al tg 3 nel pubblicare la sequenza. Retorica a fiumi e solenni richiami al diritto di cronaca, senza avere il coraggio di ammettere che l’unica molla era una manciata di click e copie in più cui in questi tempi di magra non si può rinunciare. Spiccano tra le giustificazioni quelle del quotidiano di Torino diretto da Massimo Giannini, che una volta prima della svolta anti-5 stelle  del giornale dove allora scriveva (La Repubblica) guardava con simpatia al populismo giudiziario dei seguaci di Grillo e Casaleggio( non è un mistero che a votarli furono anche insospettabili liberals “ de noantri” come Galli della Loggia, lui almeno confesso).Scrive il commento di accompagnamento de La Stampa “ che la potenza delle immagini…che non lasciano spazio ad irricevibili guardonismi ( sic!) è più forte di mille parole e chiarisce come l’intervento dei freni avrebbe potuto impedire il disastro. “Dopo la morte alla moviola abbiamo la sentenza in presa diretta, senza quelle inutili formalità come perizie e processi, roba da “impunitisti “come direbbe un altro cristallino liberal come Enrico Letta. Secondo Giannini “la scelta di disarmarli (i freni) ha avuto come conseguenza ciò che si vede” e se qualcuno non avesse capito lo spiega lui: il filmato “definisce una responsabilità umana di cui sarà necessario chiedere conto”. Toni che sarebbero stati bene in bocca ad un Saint Just o ad un Viscinski, quando invocavano la ghigliottina ed i gulag per direttissima contro i nemici della rivoluzione, invece li usa il direttore di un giornale democratico e liberale. Per combinazione di taglio nella stessa pagina vi è un commento sulla questione dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati che spiega come in realtà il profilo delle responsabilità sia una cosa assai più complessa di come la metta giù l’ottimo Giannini. Ad esempio prima di attribuire la patente di infamia e di colpevoli bisognerebbe stabilire “oltre ogni ragionevole dubbio” che sarebbero bastati i freni ad evitare la tragedia ed ancora come sottolinea l’ex magistrato che l’evento fosse prevedibile per i responsabili. Tutte cose un po’ tecniche e assai difficili (come gli effetti dei vaccini) su cui occorrerebbe si pronunciassero prima non dico qualche straccio di giudice ma almeno un perito. Certo le mani prudono di fronte alle immagini ma la ragione ronza fastidiosamente nella mente umana e dovrebbe frenare l’istinto, almeno per un illuminato liberal. Se non bastasse il parere di Bruti c’è anche l’opinione del procuratore capo di Verbania, Olimpia Bossi, che in un comunicato in cui, tanto per cambiare, riversa sui difensori l’addebito di aver diffuso i filmati (forse per alimentare la “giocosa macchina da linciaggio” dei propri assistiti) ma dice una cosa, una volta tanto, condivisibile. La dottoressa Bossi spiega correttamente che l’art. 114 del codice di procedura penale vieta la pubblicazione non solo degli atti di indagine espressamente coperti da segreto ma anche di quelli depositati ai difensori che non possono comunque essere divulgati alla pubblica opinione. È  una tesi cara agli avvocati ed ai garantisti : mi è capitato di scriverne  in un’altra vicenda assai meno drammatica , quella degli esami taroccati del calciatore Luis Suarez di cui vennero diffusi verbali e filmati mentre erano in atto ancora le prime investigazioni. Qualcuno eccepirà che i filmati non sono atti di indagine priori della polizia ma documenti in possesso di un indagato e come tali pubblicabili secondo anche una sentenza della Cassazione. Non è questo il punto: non si tratta di pubbliche registrazioni utilizzabili da chiunque ma registrazioni ad uso privato come quelle delle video-camere di sicurezza che secondo la legge e le direttive del garante della privacy (protezionedatipersonali.it/videosorveglianza-e-tutela-dei-cittadini) hanno finalità strettamente limitate e non sono divulgabili. Su tale tesi procure ed organi di polizia hanno fatto sempre orecchie da mercante perché avrebbe stroncato sul nascere il fiorente mercato dei verbali clandestini e delle intercettazioni, telefoniche ed ambientali, ai giornalisti amici. Invece è proprio così e correttamente sul punto lo spiega la procura di Verbania: la pubblicazione di quei filmati è un atto illegale che deve essere sanzionato in quanto gli atti di indagine segreti e non devono restare riservati sino almeno alla richiesta di rinvio a giudizio e non pubblicabili neanche per estratti parziale fino a che degli stessi non venga a conoscenza il giudice nel processo. Il punto è che tale illecito viene punito con multe risibili per cui i giornali se ne infischiano e pubblicano impunemente la vita intima come la morte oscena di poveri cittadini, sia imputati che vittime. State certi che di fronte a sequestri di copie e siti, oltre che del pagamento di salatissime sanzioni, i cultori della libertà di stampa sarebbero ben attenti: non sarebbe male che uno degli emendamenti alla riforma penale di Cartabia se ne occupasse. Un’ultima cosa: colpisce stamani la diffusa auto-solidarietà e l’indulgenza plenaria della stampa al gran completo sulla questione. Non mancano speciosi distinguo da pseudo giuristi: il segnale che in questo paese, liberali o meno, alla fine contano interessi di prossimità. Sostiene uno che se ne intende come Giuliano Ferrara che la rivoluzione (liberale e non) in Italia non sia possibile: “ci conosciamo tutti”. Credo ci sia del vero.

Perché ho deciso di pubblicare il video della funivia del Mottarone e non la foto di Eitan prima del crollo. Fabrizio Capecelatro il 17/06/2021 su Notizie.it. Difendo il mio dovere di giornalista di pubblicare il video del disastro della funivia del Mottarone perché spiattella in faccia a me e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria. Come tutti i direttori di giornale, nella giornata del 16 giugno mi sono dovuto interrogare se il video del disastro della funivia del Mottarone diffuso dal Tg3 andasse ripubblicato e, dopo l’insorgere delle polemiche, se non fosse necessario rimuoverlo, scusandoci con i lettori. Ho subito scartato questa seconda ipotesi perché sarebbe stato come voler fare la “verginella” dopo aver partecipato a un’orgia. Quella decisione andava presa prima, quando dalla redazione mi avevano chiamato per sapere se procedere oppure no, e poi la scelta, ponderata, andava mantenuta e difesa. E non ripensata quando è montata, sui social network, la caccia alle streghe di chi, dopo aver visto il video, criticava chi lo aveva pubblicato, sostenuti da un’inutile comunicazione della Procura di Verbania che, dopo non essere riuscita a tutelare una prova agli atti dell’indagine, ne richiedeva la non pubblicazione. Prima di dare il mio consenso alla pubblicazione di quel video su Notizie.it ho ragionato, con la velocità che il giornalismo digitale richiede, su come ci si era comportati in passato nel giornalismo e, così, mi sono ricordato delle immagini, agghiaccianti come quelle mostrate nel video della funivia, delle persone che dalle Torri Gemelle preferirono lanciarsi nel vuoto per avere almeno il diritto di scegliere come morire. Mi sono ricordato i vari video e la foto, divenuta simbolo di quel disastro, del camioncino della Basko fermo pochi metri prima del dirupo causato dal crollo del ponte Morandi. Anche quelle immagini, così come contestato del video della funivia del Mottarone, cosa aggiungevano alla comprensione dei fatti? Innanzitutto è, come detto, una prova agli atti della Magistratura e pertanto ha evidentemente una sua rilevanza nella ricostruzione di quel disastro, in cui sono morte 14 persone. Quel video è, infatti, una testimonianza diretta di quanto accaduto e pertanto, se è utile agli inquirenti per ricostruire, perché non dovrebbe essere altrettanto utile ai lettori per capire? Per capire innanzitutto quali sono le conseguenze dell’incuria che ciascuno di noi può applicare nello svolgimento del proprio lavoro o delle proprie attività quotidiane. Parliamoci chiaro: quello che è successo alla funivia della Mottarone non è una tragedia, ma la conseguenza dei comportamenti scorretti mantenuti dai lavoratori e, probabilmente, anche dalla proprietà della funivia che, un po’ per incuria, un po’ per profitto, hanno aperto un impianto che, alle lacune di quanto accaduto, sicuramente doveva essere chiuso. Allo stesso modo di come il crollo del ponte Morandi fosse conseguenza di un inefficiente sistema di manutenzione delle strade, questo disastro è frutto di precise responsabilità che la Magistratura accerterà. Il primo, però, è ormai certo che sia da attribuire alle grandi società e alla loro ingordigia, mentre questo più probabilmente all’incuria di semplici dipendenti. Oltre all’evidenza che dopo un anno e mezzo di incertezze e paure, in cui da un momento all’altro ci siamo riscoperti vulnerabili e incapaci di domare la natura, siamo stanchi di riscoprire ogni volta che la morte può entrare all’improvviso nella nostra vita, a darci fastidio di quel video è lo spiattellarci in faccia il rischio delle nostre azioni commesse con superficialità e negligenza. Quante volte ciascuno di noi, nello svolgere il proprio lavoro o altre attività, si è detto “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E così il medico rimanda a casa il ragazzo di 24 anni che accusa un dolore alla gola e alla testa, che poi muore per una leucemia fulminante; il poliziotto non prende la denuncia della donna che ha paura dell’insistenza dell’ex, che poi la uccide; il muratore aggiunge poca calce al cemento per finire prima il lavoro e poi, alla prima scossa di terremoto, la casa crolla. Noi stessi rimandiamo il tagliando dell’auto presi da altri impegni e magari causiamo un incidente, sporgiamo troppo il vaso dal balcone, pensando “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. Poi le cose succedono, all’improvviso, da un momento all’altro, una delle prime domeniche di sole dell’anno, all’indomani delle tanto agognate riaperture dopo un anno e mezzo di lockdown alternato. Ma ormai è troppo tardi. Allora sì, difendo il mio dovere di giornalista di spiattellare in faccia a me stesso e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria, la pericolosità di quel “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E se questo servirà a sensibilizzarci affinché la prossima volta, prima di pronunciare quella frase, ci pensiamo un po’ su e magari ricontrolliamo meglio il nostro, ci atteniamo alle regole e ai protocolli, allora avrò assolto due volte al mio compito di giornalista: avrò informato, affinché non ricapiti. Soltanto qualche giorno prima, il 26 maggio, mi era stata posta dalla mia redazione una domanda molto simile: “Hanno divulgato la foto del bambino che si è salvato da quel disastro prima che la funivia crollasse. Che facciamo, la pubblichiamo?”. In quel caso risposi di no, pur rinunciando a qualche lettore, perché quello era un inutile accanimento, una perversa bramosia di entrare nell’intimo delle persone, quella era la morte del giornalismo. Ma quella foto, a differenza del video del crollo, non aggiungeva nulla alla ricostruzione dei fatti (e infatti non mi risulta sia negli atti processuali, come il video) e soprattutto non dimostrava nulla, se non che quel bambino era felice prima che l’incuria di noi grandi si abbattesse su di lui.

DAGONOTA il 17 giugno 2021. Non si dovrebbe mai perdere tempo a spiegare perché si dà una notizia. I giornalisti questo fanno, o dovrebbero fare. Ma vista l’assurda e incomprensibile shitstorm piovuta sulle testate che hanno pubblicato il video della tragedia del Mottarone è necessario spendere due parole. I twittaroli che ieri hanno manifestato orrore e indignazione per quel filmato dovrebbero chiedere conto ai giornali delle notizie che non danno e non di quelle che giustamente pubblicano. In secondo luogo: quanti dei censori social, che ieri hanno storto il naso e puntato il ditino evocando addirittura la morte del giornalismo, hanno fatto lo stesso quando le grandi testate hanno mostrato il morente George Floyd o il ponte Morandi che si sbriciolava con 43 persone inghiottite dalle macerie? Che dire della foto del piccolo Aylan Curdi morto sulla spiaggia? Aggiungeva qualcosa al dramma dei migranti? Per noi sì, come “aggiunge qualcosa” ogni testimonianza, immagine o video che racconta la realtà anche nella sua crudezza, perché non usiamo doppie morali. A differenza di chi condivide e diffonde quelle immagini soltanto quando sono funzionali alla loro battaglia ideologica o politica.

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 17 giugno 2021. Da ieri è oggetto di aspro dibattito il video che documenta gli ultimi attimi prima dello schianto della cabina 3 della funivia del Mottarone. È in discussione l'opportunità di aver diffuso quel filmato nei telegiornali e nell' informazione sul web. Da una parte è invocato il dovere di integrare con quelle immagini una tragedia che è stata per giorni al centro di tutte le cronache. Dall' altra si invoca il rispetto per le 14 vittime di quel disastro, come dei familiari sottoposti all' atrocità di vedere moltiplicato ovunque l'episodio che rappresenta l'epicentro del loro dolore. Sono 59 secondi in cui è, senza dubbio, possibile rivivere emotivamente il passaggio violento dall' essere ignari partecipi di un'escursione, a tracollare sul fondo della cabina che si impenna all' improvviso, per poi ritornare a folle velocità verso valle fino allo schianto contro un pilone. Non si può fare a meno di essere trapassati dall' angoscia per quelle persone che non saranno più vive nel giro di pochi secondi. È veramente di poca importanza cercare di risalire a chi abbia avuto interesse perché quel video fosse diffuso. Qualcuno che ne era in possesso lo ha messo in circolazione, il file era disponibile per tutte le parti coinvolte nell' inchiesta sull' incidente, sia come presunti responsabili quanto come parti lese. Non si può fingere di non sapere quanto sia oramai irreale pensare che, un documento video di questa rilevanza, possa essere ignorato da chi ha il compito di informare. Il video testimonia in maniera inequivocabile quello che per settimane è stato ricostruito attraverso infografiche, non si può certo immaginare che un tassello di realtà così fondamentale potesse essere ignorato. Come ha poco senso disquisire se sia stato più corretto chi si è fatto lo scrupolo di pixellare i volti degli esseri umani, nei primi frame in cui erano chiaramente visibili, o chi invece lo abbia trasmesso senza alcun filtro, considerando tale attenzione solo un maldestro voler edulcorare la propria responsabilità. Sono tutti filoni per accendere interminabili dispute da social opinionismo. È facile immaginare lo spostarsi della discussione su piani ideologici; qualcuno tirerà sicuramente in ballo il politicamente corretto a senso unico, il cinismo dei giornalisti, il disprezzo per la dignità degli esseri umani. Forse basterebbe ricordare che nessun atto che avvicini alla verità può ledere chi perde la vita a causa di un crimine. È vero che la verità si accerta nei tribunali e non nei giornali, è sacrosanto e questo accadrà. È anche vero che fornire ai propri lettori, teleutenti o follower che siano, elementi che aiutino a misurare, nella sua effettiva entità, una sciagura sicuramente causata da negligenza umana è un atto che ribadisce, per le stesse vittime, il diritto ad avere giustizia.

Valeria Braghieri per “il Giornale” il 17 giugno 2021. Erano arrivati. Era il momento in cui ci si gira verso le porte in attesa dell'apertura. Mascherine, zaini sulle spalle e schiena dritta: pronti a scendere. Ma non arriva nessun centimetro di contatto. La cabina tre non tocca la banchina. Si blocca, torna indietro e si impenna. Inizia il suo brevissimo viaggio a ritroso, sparata a tutta velocità, in esilio da qualsiasi geografia e tragitto. Come se stesse prendendo la mira oltre il bersaglio. Urta il pilone, il cavo si stacca e la cabina tre precipita nel vuoto. Con tutti quanti dentro: quindici passeggeri, quattordici morti, tranne Eitan, il bimbo israeliano rimasto orfano e senza fratello. Ce lo siamo sempre immaginati così. Ma vederlo così è tutta un'altra storia. Buca il vuoto e il cielo le si arriccia attorno, come i lembi di un fazzoletto che si chiudono con un peso al centro. Si sente la tensione che precede l’irreparabile. Perché conosciamo già la fine e perché in quella manciata di secondi l'aria si tende di irreale. E poi scricchiola di tragedia. Ce lo siamo sempre immaginati così. Ma vederlo così è tutta un'altra storia. Ieri è stato chiaro davvero cos'è successo il 23 maggio scorso alla funivia del Mottarone. Le immagini raccolte dalle telecamere di videosorveglianza sono andate in onda al Tg3 e sono subito rimbalzate sui siti e sulle altre tv. Non avrebbero dovuto essere rese pubbliche, ma sono «uscite». Non le avevano mai viste neppure i parenti delle vittime. Perché fanno sussultare e svuotano. Il Procuratore della Repubblica, Olimpia Bossi, ieri ha fatto un comunicato stampa, per spiegare che la pubblicazione delle immagini è vietata, trattandosi di atti relativi a un procedimento in fase di indagini preliminari. «Ma ancor più del dato normativo» diceva la Bossi «mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti, e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità». Anche la Rai si è «spaccata» sulla decisione del Tg3 di divulgare le immagini. C' è chi ha parlato di «scelta macabra» e lo stesso Marcello Foa, presidente della Rai, si è detto «toccato dalle immagini» e ha spiegato che il servizio pubblico avrebbe dovuto tener conto «dell'impatto emotivo» di quel filmato. Mentre dalla redazione della Terza Rete giustificavano la diffusione del video spiegando che «aggiunge qualcosa in più alla comprensione della tragedia». Opportunità e sensibilità, insomma. Ognuno le proprie. Ma intanto stringe lo stomaco quella cabina che cambia rotta. E quell' impennata, che deve averli scaraventati tutti gli uni addosso agli altri, per poi partire all' impazzata verso lo schianto. Non si sente nulla, ma sentiamo lo stesso le grida fino al terrore che va a comprimere i polmoni e a renderli afoni. E noi non siamo quelle madri, quei padri, quei fratelli... Erano arrivati. Praticamente arrivati. A guardarli oggi, sapendo cosa c' è dopo, viene da tendere le mani da quella banchina mai toccata per afferrarli, agganciarli in qualche modo, tenerli. «Tenere» è il verbo che salva. Sempre. Viene voglia di sdraiarsi sul cemento e di agganciare in qualche maniera disperata quella bara di metallo prima che si lanci a tutta velocità. A guardarli oggi, a fare senso più della morte, è la vita. Vedere la vita che c' era fino a pochi istanti prima. L' uomo con lo zaino sulle spalle e la mascherina sulla bocca che si volta verso l'uscita per scendere. È quello lo sgomento. Lo sgomento è la vita. A far senso è la vita. Vederla ignara, stagliata sul destino.

Gino Girolimoni non era il “mostro”. Ma Il processo mediatico gli distrusse la vita. Accusato e assolto dell'omicidio di 4 bambine che sconvolse l'Italia fascista, il suo nome rimane ancora oggi un marchio d'infamia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 7 giugno 2021. Più che un nome un aggettivo: “Girolimoni”, ossia il mostro di Roma, l’autore dei barbari omicidi di quattro bambine che scossero Italia fascista. Ogni romano di una certa età ancora oggi utilizza quell’espressione quando dalle acque torbide della cronaca nera emerge il delitto a sfondo sessuale di un minorenne. E poco importa che il signor Gino Girolimoni fosse un uomo innocente: nell’immaginario collettivo quel nome è un marchio d’infamia, che corrisponde alla sinistra nomea del pedofilo. Un’antonomasia. Siamo nel 1924, Mussolini ha preso il potere da due anni e l’immagine che vuole dare di sé e del suo regime deve essere rassicurante. Nei cinema da lì a poco avrebbero furoreggiato le commedie dei Telefoni bianchi, storie di borghesi e nobildonne alle prese con i piccoli tormenti del cuore in una cornice ammantata di benessere e finta spensieratezza. Saranno i brutali omicidi delle bambine romane a incrinare quel quadretto idilliaco. Quando il 31 marzo viene ritrovato in un fosso di Monte Mario il corpo della piccola Emma Giacomini (aveva 4 anni) i giornali prestano un’attenzione relativa a quel tremendo delitto. La bambina era stata adescata in un giardino pubblico -raccontano i testimoni- da un elegante e slanciato signore con i baffi vestito di grigio, il suo cadavere presentava evidenti segni di violenza. Tre mesi dopo un altro agghiacciante delitto: Bianca Carlieri detta “Biocchetta”, tre anni, giace senza vita in un fosso a poche decine di metri dalla Basilica di San Paolo fuori le mura. Anche lei prima di venire uccisa aveva subito abusi. Ormai nessuno può più ignorare quell’orrore, e i media di regime cambiano atteggiamento: bisogna trovare il “mostro” e bisogna farlo il prima possibile, ci mette la faccia il Duce in persona che convoca il capo della polizia Arturo Bocchini e promette giustizia. La settimana precedente era stato ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti e gli efferati crimini del “mostro” sono anche un’occasione per distogliere l’attenzione popolare sulla deriva autoritaria che il nostro Paese stava vivendo. Così in tutta la capitale si scatena una gigantesca caccia all’uomo fatta di paranoiche segnalazioni di improbabili orchi e maniaci avvistati un po’ ovunque. Intanto però gli omicidi continuano. A novembre un’altra bambina, Rosa Pelli, 4 anni, viene rapita e uccisa con lo stesso metodo; il corpo è rinvenuto nei pressi di piazza S.Pietro. In città dilagano la psicosi e l’emozione: ai funerali, raccontano le cronache, partecipano più di 100mila persone mentre altri macabri ritrovamenti avvengono nei mesi successivi. A maggio Elisa Berni, 6 anni, che giace sul ciglio del Tevere ancora in vita ma in stato di choc, ad agosto Celeste Tagliaferro su ponte Michelangelo, appena un anno e mezzo, anche lei era stata risparmiata. L’ultima vittima è Armanda Leonardi, 5 anni, uccisa e ritrovata in un giardino dell’Aventino. Le indagini si concentrano sul mondo slabbrato delle borgate, vengono fermati senza tetto, malati psichiatrici, pregiudicati per reati sessuali, poveri diavoli, Eppure le descrizioni parlano di un uomo ben vestito dall’aria benestante, bisogna cercare altrove. Il ministero dell’Interno mette una taglia di 50mila lire (circa 45mila euro di oggi) le denunce arrivano a migliaia nei commissariati ma senza alcun esito. La svolta nella primavera del 1927: viene fermato un ragazzo di 28 anni, Gino Girolimoni, un mediatore di cause per infortuni sul lavoro con l’hobby della fotografia. Lo ha riconosciuto un brigadiere di servizio in uno dei quartieri dove era stata rapita una bambina. Lo conosceva bene: erano nello stesso reggimento durante la Prima guerra mondiale e lo vedeva spesso aggirarsi nei parchi pubblici, una volta aveva anche parlato con una ragazzina di 12 anni con fare sospetto.Girolimoni viene fermato, portato al commissariato di Borgo dove decine di testimoni giurano che il mostro è lui. Conoscenti e vicini di casa improvvisamente si ricordano che quel ragazzo è un tipo «strano», «inquietante ». Nella sua abitazione la polizia trova i vestiti e i costumi che Girolimoni usa per le sue fotografie. Ovvio: sono i “travestimenti” che il maniaco indossa per adescare le piccole. Il celebre criminologo lombrosiano Samuele Ottolenghi conferma: Girolimoni ha proprio la faccia del pervertito. L’agenzia Stefani parla di «prove irrefutabili». È il primo processo mediatico della storia italiana, Peccato che le prove fossero tutt’altro che irrefutabili. In pochi mesi, grazie al coraggio di un commissario, Giuseppe Dosi, e alla tenacia dell’avvocato Ottavio Libotte, Girolimoni viene prosciolto per non aver commesso il fatto. Testimonianze contraddittorie, incongruenze temporali, nulla si tiene in piedi.Dosi è convinto che il colpevole sia un pastore britannico. Ralph Lyonel Brydges, che aveva precedenti per abusi su minori. Ma è un amico intimo del console inglese e la sua insistenza viene punita dal regime che lo destituisce per poi farlo rinchiudere in un manicomio. Mentre Girolimoni è un uomo libero: la sua assoluzione finisce nei trafiletti delle pagine interni dei giornali. Morirà solo e poverissimo nel 1961 e, anche se innocente, nell’immaginario marcito della nazione è e resterà sempre “il pedofilo”.

Angelo Panebianco per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2021. Forse la lettera a Il Foglio con cui, alcuni giorni fa, Luigi Di Maio ci metteva al corrente della sua svolta garantista è il frutto di una autentica conversione. Oppure di un astuto calcolo: magari non ci saranno veti sul suo nome quando, tra qualche mese o anno, si apriranno le consultazioni per la formazione del futuro governo. O forse è il frutto di entrambe le cose. Ma non è importante. Quella svolta merita comunque apprezzamento. È essenziale però non sopravvalutarne le possibili conseguenze. In un Paese senza memoria storica si fa presto a scambiare gli effetti per le cause: si fa presto, ad esempio, a credere che siano stati i 5 Stelle a imporre all' Italia la loro visione forcaiola della vita pubblica. Talché, se Di Maio riesce a convertirli alla civiltà (giuridica in questo caso), il gioco è fatto, i problemi sono risolti. Ma no. Per niente. I 5 Stelle non sono una causa, sono un effetto. È perché in ampi settori dell' opinione pubblica era radicata quella visione forcaiola che i 5 Stelle hanno avuto successo, sono diventati addirittura il primo partito alle ultime elezioni. Ignora la storia e scambierai le lucciole per lanterne, le cause per gli effetti. Qualcuno si ricorda ancora del caso di Enzo Tortora? All' epoca l' espressione circo mediatico-giudiziario non era ancora stata inventata. Tortora venne arrestato nel giugno del 1983 per (niente meno) associazione camorristica e spaccio di droga. Si scatenò contro di lui, rinchiuso in una cella, una sarabanda mediatica selvaggia, violenta, durata mesi e mesi. Poiché coloro che si occupavano del caso alla Procura di Napoli avevano deciso che Tortora fosse un capo della camorra, l' intero Paese, per un bel po', accettò di credere, a scatola chiusa, a quella bufala. Cosa accadde ai responsabili, giudiziari e non, di quella vicenda? Le loro carriere vennero stroncate? Furono per lo meno danneggiate? No, non pagarono dazio. Non subirono alcuna sanzione. Il caso Tortora dimostrò a tutti che in questo Paese è possibile sequestrare un innocente, tentare di distruggerlo, presentarlo come un mostro sui mezzi di comunicazione, senza che ciò comporti il benché minimo danno per la carriera dei responsabili e dei loro sodali. La verità è che, come il caso Tortora dimostrò, il principio (di civiltà) della presunzione di non colpevolezza non è mai stato davvero accettato in questo Paese. Poi arrivò Mani Pulite. Colpì la diffusa corruzione. Essa doveva essere colpita. Ma i modi in cui ciò avvenne non furono tutti irreprensibili. Pochi oggi negano che ci furono degli eccessi: altro che rispetto della presunzione di non colpevolezza. Si verificò, inoltre, un rovesciamento dei rapporti di forza fra magistratura e politica i cui effetti perdurano tutt' ora. Posso assicurare per esperienza che a quell' epoca criticare certi aspetti della «rivoluzione giudiziaria» allora in atto significava diventare il bersaglio degli insulti di quello che allora era chiamato «popolo dei fax», coloro che inneggiavano alle manette, che volevano il sangue. Per inciso, sarebbe interessante se qualche psicologo studiasse gli effetti che produsse sui bambini e gli adolescenti di allora sentir dire da tutte le televisioni dell' epoca che l' Italia è un «Paese di ladri». È cambiato qualcosa? È stato ripristinato, nella coscienza dei più, il principio della presunzione di non colpevolezza? Si è posto fine alle gogne mediatiche? No, non è mai cambiato niente. Le cause sono diverse. C' è certamente la circostanza che la politica ha alimentato queste tendenze: i politici sono garantisti quando oggetto di provvedimenti giudiziari sono loro o i loro amici, sono forcaioli quando vengono colpiti i loro avversari. Ciò è il frutto di un atteggiamento strumentale e opportunistico (di tanti italiani, non dei soli politici) nei confronti delle leggi. Vale ancora, anzi vale più che mai, quanto disse circa cento anni fa Giovanni Giolitti: «In Italia, le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici». Vale anche il fatto che, causa dell' unità delle carriere dei magistrati, molti italiani non riescono a distinguere fra un giudice e un procuratore. E se un procuratore è chiamato giudice, questo non è un errore innocente. Ne deriva infatti che i suoi provvedimenti verranno scambiati per sentenze: l' indagato diventa così un colpevole il cui reato è stato provato. Il processo diventa superfluo, anzi un fastidioso onere per i contribuenti. Al fondo naturalmente giocano le nostre tradizioni illiberali. Intendiamoci: anche nei Paesi anglosassoni, nei quali i principi liberali sono più saldi e che per questo alcuni di noi ammirano, ci sono nella pubblica opinione tendenze forcaiole. Ma, per lo più, in quei Paesi sono garantiste le élite, è garantista la classe dirigente. Essa è pertanto in grado di fare muro, di impedire alle pulsioni illiberali di una parte del pubblico di fare gravi danni. In Italia, invece, ci sono segmenti delle élite (per esempio, intellettuali) che condividono il credo forcaiolo di una parte dell' opinione pubblica. Per questo in Italia non ci sono vere barriere. Si noti che tutto ciò non dipende dalla divisione fra guelfi e ghibellini, fra la destra e la sinistra. Si pensi a un grande vecchio, un protagonista della storia comunista, scomparso di recente: Emanuele Macaluso. Combinava una visione togliattiana della politica e una concezione liberale della giustizia. Non credo che Di Maio riuscirà davvero a convertire molti fra i 5Stelle. Dovrebbero rinunciare alla vera «ragione sociale» del loro movimento politico. Dovrebbero rinunciare anche all' alleanza di fatto che hanno stabilito con il settore più politicizzato e militante della magistratura. In ogni caso, si ricordi che le ragioni che spiegano la prevalenza in questo Paese di atteggiamenti illiberali in materia di giustizia sono profonde, vengono da lontano. La pur meritoria dichiarazione di un politico non basta a cambiare le cose. Non può sostituire una lunga e faticosa opera di rieducazione del pubblico. Che dovrebbe cominciare a scuola. Basta metterla così per capire quanto possa essere ardua l' impresa.

Nei processi che tutti conosciamo “Nulla è come appare”: parola di Nicodemo Gentile. Il penalista è stato coinvolto in casi di cronaca noti al grande pubblico come quello di Sarah Scazzi e Melania Rea. Con questo libro racconta i retroscena. Angelo Barraco su La Voce di New York il 29 Maggio 2021. “Nulla è come appare – Storie di delitti, storie di accertamenti tecnici” (Faust Edizioni) è il nuovo libro dell’Avvocato Nicodemo Gentile e presidente dell’Associazione Penelope Italia. Nelle 280 pagine si parla di scienze forensi, puntando l’occhio su casi di omicidi efferati che hanno attraversato la carriera del noto penalista, come quello di Sarah Scazzi, Melania Rea, Roberta Ragusa, Trifone e Teresa, Sara Di Pietrantonio. L’Avvocato utilizza un linguaggio semplice, mettendo in luci alcuni scorci di quotidianità che sembrano delle vere e proprie polaroid statiche, tra l’anticamera di una storia raccontata e quella che ancora deve ancora svilupparsi all’orizzonte. Non è un semplice resoconto di fatti di cronaca, ma la descrizione dettagliata di un progressivo sviluppo giudiziario che parte dalla scena del crimine e arriva nelle aule di tribunale, con l’importante ruolo delle indagini scientifiche, di quelle difensive e del ruolo che ha l’avvocato. Questo libro mette al centro di tutto l’importanza dei rapporti umani e professionali che si consolidano col tempo, fino a costruire un percorso di ricchezza che si sviluppa attraverso i rami della scienza, incastrati come piccoli tasselli di un mosaico, indispensabili e solidi. Abbiamo intervistato l’Avvocato Nicodemo Gentile, presidente dell’Associazione Penelope Italia, che ci ha raccontato la genesi del libro.

“Nulla è come appare – Storie di delitti, storie di accertamenti tecnici” è il titolo del tuo nuovo libro. Come nasce?

“L’idea nasce dall’esigenza, sempre più sentita, di far conoscere le complessità del processo penale che spesso vengono poco rappresentate nella cronaca televisiva e giornalistica. Quanto è difficile, complessa, delicata e quanta responsabilità pone agli operatori che intervengono in questo spazio tecnico: ricostruire fatti avvenuti nel passato che devono essere poi affinché qualcuno possa avere giustizia e qualcuno possa essere condannato. L’idea che al di là della necessità di avere in questo contesto, uomini e professionisti responsabili. Una riflessione forte e attenta al rapporto tra processo e scienza, tra uomo e professionista, tra professionista e consulenti. La voglia di farlo in modo nuovo e quindi non solo tramite il racconto dell’Avvocato ma anche il racconto dell’uomo che attraversa, frequenta i vari tribunali d’Italia e quindi non è soltanto un percorso dell’uomo ma è il percorso del tecnico ed è anche un percorso negli spazi di questa nostra bellissima Italia”.

La cosa che mi ha colpito di questo libro è sicuramente la ricostruzione fotografica di ogni evento: ogni contesto che hai vissuto sembra essere rimasto profondamente impresso nella tua mente nei momenti che hanno preceduto quell’istante, come una tazzina di caffè caldo tra le mani, una finestra aperta oppure il colore della tovaglia di un tavolo o di alcuni odori che sembrano percettibili anche per chi legge. Un prima e un dopo che capovolge in modo irreversibile quel presente, trasformandolo quasi in un nuovo inizio. Nel libro si parla dell’importanza del lavoro multidisciplinare…

“Il lavoro multidisciplinare per me, ormai, è un progetto a cui non posso rinunciare. La complessità e la delicatezza di una ricostruzione, che diventa multidisciplinare e non vede soltanto l’Avvocato coinvolto ma un team di esperti, proprio perché la tecnologia, l’evoluzione della tecnica ha fatto si che noi ci dobbiamo confrontare con discipline sempre più raffinate. Quindi una capacità enorme di ricostruire fatti, attraverso il risultato e l’applicazione di discipline che una volta era impensabile utilizzarle e che impongono la necessità della formazione e di avere dei compagni di viaggio molto qualificati. Ho cercato di raccontarlo con una trama narrativa nuova, semplice. Non è un manuale ma da molte nozioni e nel frattempo ci sono le emozioni. È un libro che ha due grandi protagonisti: l’uomo e il professionista, con spaccati di processi delicati in cui ci sono grossi tensioni, in cui c’è anche la chiacchiera con il grande scienziato davanti al caffè. Anni di studio, di battaglie ma anche di relax, dove mi sono goduto le bellezze della nostra Italia”.

Quando il professionista torna a casa e posa la toga, cosa rimane in quel caso del professionista?

“Da un punto di vista astratto è molto semplice per chi vive il mondo del penale come me, che sono sempre storie umane molto drammatiche, complesse, difficili. Si dice che la nostra è una professione anfibia perché dovrebbe galleggiare tra la sensibilità dell’uomo e l’indifferenza emotiva, la freddezza del professionista. In realtà questo aspetto che distingue l’uomo dal professionista, da un punto di vista pratico, è molto complesso e difficile. Spesso e volentieri, togliersi la toga e rimettersela in realtà non riesce, soprattutto per chi, Avvocato di strada, e su strada, come dico io, nel senso che vivo a contatto con i miei assistiti, con i loro familiari, ne assorbo le ansie, le lacrime, quindi spesso e volentieri non è facile allontanarsi da queste tensioni. Certo, col tempo diventa una corazza la toga, quindi un po’ ti blinda però in realtà però di fronte alla morte di una ragazzina di 22 anni, di fronte alla morte di un bambino, di fronte alle lacrime di una mamma, di fronte alle speranze di un detenuto, l’uomo cede e si fa assorbire in certe dinamiche che scrollarsi da dosso non è semplice, però bisogna farlo. Questo libro racconta anche di questi tormenti, di questi momenti”.

Angelo Barraco, classe 89, è un giornalista che nasce in Sicilia, precisamente a Marsala, in provincia di Trapani. E' un giornalista curioso è attento ai dettagli che negli anni ha collaborato per numerose testate giornalistiche... 

La tragedia di Mottarone. Sulla strage del Mottarone va in onda il piagnonismo preventivo all’italiana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Il direttore del Riformista ed io ci alterniamo nel commentare le notizie sul Tg4 delle 19 e sembra che gli ascoltatori apprezzino una forma di News peraltro confezionato in maniera completa e con materiale di cronaca di prima mano. Entrambi, a giorni alterni, ci siamo occupati della catastrofe della funivia di Stresa, e adesso che tutto è più chiaro sono arrivato a una conclusione che vorrei condividere con i lettori e che non ha a che fare con le funivie, ma con il verme del populismo, che è figlio sia del giustizialismo che dell’Italia piagnona e forcaiola. È quell’Italia geneticamente priva di pretese nei confronti della verità, e più ancora priva di garanzie verso la persona intesa, come essere umano degno comunque di rispetto. Ciò che ho annusato di fronte all’accaduto – i morti macellati nel terrore di un macchinario fuori controllo – è stato il piagnonismo preventivo all’italiana che costituisce l’anestetico contro il limpido desiderio di conoscere fatti, cause, responsabilità, errori e le necessarie correzioni. Ma più che altro sapere: bene, senza una coltre di luoghi comuni tra cui primeggiano -sempreverdi – le “micidiali fatalità”, le “imprevedibili sciagure”, accompagnati da un malloppo di sentimenti ipocriti e precotti che rimbalzavano da molti telegiornali, dalle prime pagine e dal chiacchiericcio degli uffici stampa impegnati a spegnere ogni eventuale libido per la verità. Non critico l’espressione privata del dolore e la costernazione per i bambini esposti come cadaveri da copertina sulle spiagge libiche o siriane, oppure nel tritacarne di una funivia. I sentimenti e il dolore fanno parte del menù informatico. Ma dall’inizio a me è sembrato che mancasse il desiderio semplice asciutto urgente e prevalente – oltre che pratico – di sapere che cosa fosse successo, sapendo che si doveva trattare comunque di errore umano, a prescindere da colpe e delitti. Le inchieste all’inizio erano appena accennate nella dose minima sindacale, ma mancava la rappresentazione del fatto analizzato come errore umano, su meccanismo umano inventato azionato e curato dall’uomo. Mio padre, come ho raccontato nel corso delle cronache, era un ingegnere delle Ferrovie dello Stato che fra i suoi compiti aveva quello di collaudare e sottoporre a revisione da stress funivie, seggiovie, montagne russe e luna-park, treni, cabinovie e cremagliere in ogni angolo del nostro Paese. Ho passato gli anni dell’adolescenza a seguirlo mentre investigava su disastri ferroviari, stradali, di tutte le macchine che debbono avere freni d’emergenza automatici e dispositivi di sicurezza. Da quelle avventure una cosa ho imparato: non esistono “incidenti fatali inspiegabili” a meno che non ci sia di mezzo Madre natura con le sue delizie: tsunami, fulmini, frane, eruzioni, terremoti. Se c’è disastro sulle macchine, c’è errore umano. Fiutando nell’aria e nelle parole l’inclinazione verso il fatalismo della sciagura piovuta dal cielo come una punizione degli dèi, ho cercato di richiamare l’attenzione sull’errore umano, che invece sentivi culturalmente respinto come un elemento accessorio e in fondo fastidioso: mi sentivo soffocato dalla sopraffazione del banale. Poi, c’è stata la svolta: la scoperta dei meccanismi che avrebbero potuto forse frenare, ma che erano stati rimossi. “Tanto, la fune portante non si rompe perché non si è mai rotta”. E invece si è rotta. Adesso dicono che proprio i forchettoni rimossi l’abbiano tranciata, si vedrà al processo. Di qui il fermo di tre presunti responsabili. Ed ecco che, soltanto a questo punto, non compare il desiderio di sapere, ma avviene un cambio di maschera: tutti i lamentosi piangenti che parlavano di fatale incidente mandato forse dal demonio, subisce una mutazione trasformandosi in un esercito di carpentieri che inchiodano patiboli. Hanno già processato e condannato i presunti colpevoli sul conto dei quali l’unica curiosità si concentra su un solo punto: avevano pianto? Avevano tentato di buttarsi dalla finestra? Eravamo passati da un atteggiamento rinunciatario rispetto alla richiesta di verità alla giustizia sommaria: “Chiudeteli in galera e buttate la chiave”. Il populismo di destra stemperava l’indignazione con l’attenuante della lunga astinenza da Covid, mentre quello grillesco starnazzava dalla felicità gridando: a morte i profittatori e galera senza pietà. Male che vada, domani, qualcuno chiederà scusa attraverso un giornale, come ha appena fatto Di Maio con una lettera al Foglio in cui chiede scusa al sindaco di Lodi ingiustamente perseguitato e finalmente assolto. Ma per ora, quella fetta del nazional-populismo sinistrese festeggia la vittoria sulla malvagità di chi fa profitto, a prescindere. Nel frattempo, tutte le regole delle garanzie, come ha già scritto il direttore del Riformista, sono saltate cedendo il passo ad anticipazioni delle sentenze di ogni ordine e grado, particolarmente gradite a una folla improvvisata passata dai riti fatalisti della disgrazia (probabilmente per reazione del Pianeta offeso da chi pianta cicoria togliendo spazio alle fragole di bosco), al partito populista della punizione esemplare.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il rapporto tra presunzione d’innocenza e diritto all’informazione. Gli show dei Pm non sono sentenze, quella delle Procure è la verità parziale. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Nel corso di un incontro sul tema della presunzione d’innocenza e in particolare sull’adesione dell’Italia alla recente direttiva europea, organizzato dalla Camera penale di Santa Maria Capua Vetere, il dibattito ha toccato pure la separazione delle carriere. Nel mio intervento ho sostenuto, tra l’altro, che la madre di tutte le riforme, che interesseranno il processo penale, dovrà essere l’approvazione in Parlamento della proposta di legge costituzionale d’iniziativa popolare promossa dalle Camere penali, relativa alla separazione delle carriere dei magistrati, che ha ottenuto la firma di 75mila cittadini. Nel rapporto tra giustizia e informazione, infatti, direttamente coinvolto dal principio di presunzione d’innocenza, è fondamentale che il ruolo della fonte venga compreso dai destinatari delle notizie. La cronaca giudiziaria, con pochissime eccezioni, presenta l’indagato come già colpevole e talvolta l’affermazione è corredata da indizi indicati dalla Procura, a volte con video-riprese con tanto di logo della polizia giudiziaria operante, ormai specializzata in perfette regie di azione. Le conferenze, come i comunicati, non hanno e non possono avere contraddittorio perché gli atti non sono conosciuti dall’interessato che, del tutto indifeso, vede la sua vita sconvolta negli affetti, nel lavoro e spesso irrimediabilmente nella salute. Eppure, i dati ci dicono che, nel 2020, in Italia i casi d’ingiusta detenzione sono stati 750, per una spesa complessiva, in indennizzi, pari a circa 37 milioni di euro. Napoli, con 101 casi, è il distretto con il maggior numero di risarciti. La separazione delle carriere, oltre al principale pregio di garantire un giudice terzo, avrà anche un’importante ricaduta sull’informazione giudiziaria. Una volta entrata in vigore la legge, col tempo si comprenderà che il procuratore che ha tenuto la conferenza o diramato il comunicato sta illustrando l’attività svolta che dovrà poi trovare conferma innanzi al giudice, componente di un diverso un settore della giustizia, quello demandato a stabilire la verità. Finalmente sarà chiaro all’opinione pubblica che la notizia proviene dall’accusa e che non è accertato che l’interessato sia colpevole, ma è solo – come previsto dalla legge – indagato. L’informazione data, pertanto, non è una sentenza. L’attenzione dell’opinione pubblica si sposterà naturalmente e correttamente verso il processo che verrà seguito con maggiore attenzione dagli stessi cronisti. L’importanza della separazione delle carriere, anche per il principio di presunzione d’innocenza, non è stata ritenuta conferente dal magistrato presente al dibattito che, nell’esprimere il suo disaccordo sulla battaglia portata avanti dall’Ucpi, ha specificato che la riforma farebbe perdere autorevolezza alle Procure perché quanto riferito nelle conferenze o nei comunicati stampa sarebbe ritenuta una verità parziale. Ed è qui il punto, infatti! Fermo restando che la fonte della notizia non perderebbe alcuna autorevolezza, in quanto la comunicazione proviene da chi ha coordinato le indagini, quindi l’unico che ha autorità per riferire, è evidente che la sua non può che essere proprio una “verità parziale”, perché proveniente da una parte, in assenza di qualsiasi contraddittorio. Ed è importante che ciò sia ben chiaro a chi diffonderà la notizia e soprattutto a chi l’apprenderà. Nel difficile equilibrio tra presunzione d’innocenza e diritto all’informazione è proprio questa “verità parziale” la svolta culturale da promuovere. Riccardo Polidoro

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2021. Il talk si sta mangiando la realtà, riducendo tutto a chiacchiera. Attraverso una congerie di parole, il talk cambia la nostra percezione della realtà, altera la costruzione di un sapere sociopolitico, complica, drammatizzandola, la gerarchia delle necessità. Tutto era cominciato con lo sport (Biscardi), con la rappresentazione del dolore (Costanzo), con la politica (Funari). Nel tempo, il talk, con le sue regole e i suoi rituali, ha inghiottito tutto: la cronaca nera, lo spettacolo, la medicina, ora persino la magistratura. Il talk show è parola che si fa spettacolo, come vuole tradizione drammaturgica: è una necessaria semplificazione delle idee, è una fatale iniezione di populismo, è un esplicito incitamento alla forte contrapposizione. La domanda che possiamo porci è questa: se un tema delicato come quello della magistratura, con gli stracci che volano, con le correnti che si danno battaglia, finisce in un talk dove si urla (Mario Giordano, tanto per fare il primo esempio che viene in mente), siamo sicuri che il pubblico capisca qualcosa? Siamo sicuri che per i magistrati la tv sia il posto giusto per dibattere o non sia invece un modo per regolare i conti? Come dicono gli psicoterapeuti televisivi, oggi tutto è «narrazione», «storytelling». Certo, tutto è narrazione, ma nelle logiche del talk questo significa che una parola vale l' altra e l' unica strategia è quella di spararne tante (di parole), in una escalation sempre più ridondante, in modo tale che l' ultima faccia dimenticare quelle precedenti. Imbastire una narrazione significa lisciare il pelo al pubblico, fingere di «fare opinione»: è il genere che diventa attore principale. Serializzando un argomento (ogni settimana una puntata), si minano le istituzioni stesse su cui si regge una comunità. Immagino lo sconforto della ministra Marta Cartabia.

La passerella di Enzo Tortora coi ferri polsi fu il primo atto del processo mediatico. La vicenda giudiziaria di Tortora fu il primo caso in cui i giornalisti indossarono la toga da inquisitori. Scrive Francesca Scopelliti su Il Dubbio il 18 maggio 2021. Il primo esempio di processo mediatico, studiato con una sceneggiatura e una regia degne di un kolossal, è senza dubbio la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora: dalla passerella con i ferri ai polsi per raggiungere il cellulare della polizia penitenziaria, alla feroce campagna stampa frutto di una costante violazione del segreto d’indagine (l’avvocato Raffaele della Valle, difensore di Tortora, ama raccontare che in quei giorni gli atti giudiziari venivano depositati in edicola e non in procura!). Tutto doveva servire a costruire Tortora colpevole. Ad ogni costo. Per salvare la credibilità dell’inchiesta contro la NCO. Per salvare la loro faccia, quella dei due inquirenti. Per compensare la mancanza di prove e riscontri. C’è un libro, piccolo nel formato ma grande nei contenuti, Il circo mediatico-giudiziario, scritto da Daniel Soulez Larivière, che nel distinguere il potere mediatico da quello giudiziario pone l’accento sul giornalismo di investigazione e sul giudice alla conquista dei media. Un testo che avrebbe dovuto fare scuola. Non è andata così. Anzi, a dire il vero sembra aver semmai “suggerito” come coniugare inchieste giudiziarie e mezzi di informazione per ottenere il massimo risultato. Nella prefazione, Giuliano Ferrara scrive “credo di essere la persona giusta” perché alla fine degli anni ottanta, in una trasmissione Rai “Linea rovente”, aveva indossato la toga per celebrare una dozzina di processi televisivi (tra gli “imputati” vi era stato anche Marco Pannella). “Ma io scherzavo!” precisa. E invece anche in questo caso il format tv ha fatto scuola. E tanti giornalisti, di quelli che si prendono troppo sul serio, che non hanno il senso della misura ma solo quello dell’arroganza, seduti dietro la loro scrivania oppure in piedi davanti alla telecamera, hanno ripreso quella toga e l’hanno indossata davvero. A discapito dello Stato di diritto. Falsificata dalle emozioni del gossip, la verità mediatica diventa nei fatti più forte, più suggestiva della verità vera. Ogni anno, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, di fronte alle più alte autorità, il Procuratore Generale di turno della Cassazione denuncia il consolidato malcostume di offendere – in nome del diritto all’informazione – la dignità e il rispetto della vita privata di un cittadino, il diritto costituzionale ad un giusto processo, la presunzione di innocenza. La “verità” mediatica, ammaliante come il canto delle sirene per Ulisse, diventa più risonante di quella processuale. Anche per quel giudice che ha il compito di giudicare secondo la legge e che invece – mancando la condizione della separazione delle carriere – viene già influenzato dai magistrati inquirenti. Le cronache giudiziarie spesso lasciano un marchio sull’imputato, assecondando il giustizialismo e la presunzione di colpevolezza. D’altronde non è vero, come sostenne un noto magistrato, che “non esistono innocenti ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti?”. Durante la rivoluzione francese, nei giorni del Terrore, la ghigliottina era lo spettacolo più ambito: ai suoi piedi si accalcavano delle vecchie che, tra berci e risate sguaiate, assistevano al mostruoso cadere delle teste. Per accaparrarsi il posto in prima fila arrivavano molto prima dell’esecuzione, e per ingannare l’attesa lavoravano a maglia. Per questo le chiamavano “les tricoteuses”. I nuovi mostri si accomodano ora davanti al televisore, ansiosi di vedere la ghigliottina della calunnia o della ingiusta condanna cadere sulla testa del povero disgraziato di turno. Non di rado sfogano il loro disprezzo scrivendogli contro frasi indegne sui cosiddetti “social”, l’unico strumento che hanno per cercare di attenuare la loro indicibile solitudine. Quanto a tutti gli altri, si limitano a fare spallucce. Almeno fino a quando la giustizia ingiusta non decide di colpirli, all’improvviso.

Francesca Scopelliti, Presidente Fondazione per la giustizia giusta Enzo Tortora

«L’imputato è un morto che cammina, condannato prima del processo». Intervista a Giorgio Spangher: «Il processo mediatico? Se i cittadini si stupiscono di una sentenza vuol dire che il loro giudizio è stato alterato. Bisogna riappropriarsi delle garanzie». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 maggio 2021. Per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto Processuale Penale alla Sapienza, «gli imputati sono morti che camminano perché su di loro si posa lo stigma sociale scaturito dal racconto che il pubblico ministero costruisce intorno a loro e che la stampa replica all’infinito».

Professore quanto è grave il problema del processo mediatico nel nostro Paese?

Il problema è molto grave. Le spiego il perché con alcuni esempi. Il giudice emette una sentenza e dal popolo si leva un grido di stupore “Li hanno assolti! Ma non erano colpevoli?”. Pensiamo poi a Mafia Capitale: benché la Cassazione abbia escluso l’aggravante mafiosa, per molti resta sempre un crimine di stampo mafioso. Cosa voglio dire con questo? Che il nostro sistema processuale non è incentrato sul dibattimento in aula ma sulla fase delle indagini. Prima era diverso. Nel 1955 in Italia si è celebrato il processo per la morte di Wilma Montesi, giovane donna ritrovata morta sulla battigia a Torvaianica. Tra gli imputati c’era Piero Piccioni, figlio di Attilio, fra i massimi esponenti della Democrazia Cristiana. L’avvocato di Piccioni riuscì a ottenere lo spostamento del processo da Roma a Venezia perché la gente si accalcava nel palazzo di giustizia della Capitale per conoscere morbosamente tutti i dettagli della vicenda. Per questa tensione mediatica sui giudici del dibattimento, il processo fu trasferito. Un grande successo per la difesa che ottenne anche l’assoluzione.

Cerchiamo di snocciolare meglio il problema.

L’avvocato Valerio Spigarelli fece giustamente notare che all’inizio del processo per Mafia Capitale c’erano molti giornalisti poi nessuno ha seguito le udienze e sono ritornati solo il giorno della sentenza. Se manca da parte della stampa il racconto del processo, la narrazione rimane ancorata alla formulazione dell’imputazione fatta dal pm durante le indagini e alla comunicazione che fa sulle fonti di prova. La gente assorbe pienamente la qualificazione giuridica data dal pm che presenta come già colpevoli gli indagati. Questo inoltre va a condizionare – ed è l’aspetto ancora più grave – tutta la fase iniziale del procedimento. Quante persone nel processo Mafia Capitale sono state mandate al 41bis, misura che poi si è rivelata inopportuna alla luce della sentenza?

Quindi mi pare di capire che i problemi sono due.

Sì. Abbiamo quello relativo alle conferenze stampa del pm e ai video delle forze dell’ordine che già condannano le persone coinvolte. Questa immagine di colpevolezza viene offerta all’opinione pubblica per un tempo indefinito: si costruisce intorno a uno soggetto un giudizio di responsabilità ma anche un fatto che appare cristallizzato come vero, grazie anche all’abuso delle intercettazioni. A ciò si aggiunge il modo in cui il soggetto viene presentato. Pensi a quanto accaduto a Massimo Bossetti il cui arresto è andato in onda a reti unificate. O andando indietro nel passato ad Enzo Carra che fu condotto dal carcere al tribunale con gli “schiavettoni” ai polsi per essere incriminato da Davigo.

Quindi il dibattimento non conta più?

Esatto: arriva a distanza di tempo e non conta più di tanto. La criticità è dunque questa: che il processo si celebra prima di entrare nell’aula di dibattimento. E questo va ad incidere anche sulla credibilità della giustizia.

Oggi poi assistiamo allo strano fenomeno che se un giudice assolve o mitiga la pena la gente e i parenti delle vittime si scagliano contro di lui. Se condanna va tutto bene, in caso contrario qualcosa non ha funzionato.

Esatto. È qui che sta la patologia; se la gente si stupisce della sentenza vuol dire due cose: che il suo giudizio è stato precedentemente condizionato e che non ha assistito al dibattimento.

A formare il giudizio preventivo c’è anche il fatto che vengono pubblicati atti di indagine che non dovrebbero essere resi noti o accade che testimoni vengano contro interrogati nelle trasmissioni tv.

La regola sarebbe quella che il pm ha il dono della riservatezza; gli atti non dovrebbero uscire se non nei limiti in cui si dà conoscenza del contenuto in via sommaria. Invece il compito della Procura può essere molto utile nel correggere, come ha detto il procuratore Melillo qualche giorno fa in un webinar, l’informazione scorretta, qualora la stampa fornisse all’opinione pubblica una ricostruzione errata.

Secondo Lei i giudici hanno una struttura tale da non farsi influenzare dal processo mediatico parallelo?

Un proverbio sardo dice che nel cuore di un uomo entra solo dio e il coltello. È difficile capire quanto un giudice possa essere impermeabile alle influenze esterne. Io credo che il nostro giudice è un professionista che ha l’onere di motivare la sua decisione. Sa che la sua sentenza va a giudizio in Appello e poi in Cassazione: nulla teme di più il giudice che il giudizio dei suoi colleghi.

Però è anche vero che da tanto tra i giuristi si dibatte di come la virgin mind dei giudici possa essere inficiata. Il giudice di primo grado dovrebbe arrivare in aula senza sapere nulla.

Questo è un altro discorso, lei ha ragione. Non sono in grado di valutare il condizionamento psicologico di un magistrato. Quello che posso dirle è che il codice di procedura penale dice che il giudice valuta in base alle prove che ha regolarmente acquisito nel processo. Purtroppo con le sentenze del 1992 e 1994 della Corte costituzionale noi recuperiamo larga parte del materiale dichiarativo che è stato assunto dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. È un problema che mette in crisi l’oralità a svantaggio del contraddittorio. Il concetto di tabula rasa del giudice vergine non esiste più, non dal punto di vista dell’influenza mediatica ma del materiale probatorio.

Un’altra conseguenza del processo mediatico è anche la trasformazione degli indagati e degli imputati in mostri. Su di loro si posa uno stigma sociale difficile da abbandonare, al di là delle risultanze processuali.

Su questo ha ragione: proprio lo spostamento del processo nella fase delle indagini e la morbosità mediatica determinano già una sanzione per gli indagati. Questo è fuori discussione ed è lo stigma peggiore perché il pubblico ministero li presenta in una certa maniera e i giornali danno voce solo a quel racconto. Sono già dei morti che camminano anche se si salveranno e verranno dichiarati innocenti. Saranno per sempre vittime della damnatio memoriae.

Infatti nonostante sentenze di assoluzione, le persone e alcuni colleghi giornalisti su determinati fatti di cronaca continuano a ritenere gli imputati colpevoli, giustificandosi così: “la verità giuridica non è quella storica”.

Esatto, questo è importante: quello che il pm costruisce nei suoi capi di imputazione è la cosiddetta verità storicizzata, come se dicesse a se stesso “il processo è una cosa, ma io come pubblico ministero custodisco la verità”. Il pm costruisce una sua notitia criminis che resta storicizzata, anche se il processo farà un altro corso.

Come usciamo da tutto questo? Adesso abbiamo recepito anche la direttiva europea sulla presunzione di innocenza.

Ma dobbiamo attuarla subito insieme a degli strumenti importanti, come il reclamo, il diritto all’oblio e anche una sanzione disciplinare nei confronti del pubblico ministero che tiene conferenze stampa superando i limiti previsti per il rispetto della presunzione di innocenza. Il primo obiettivo è comunque riappropriarci delle garanzie: tutti gli attori coinvolti devono capire questo, dai pubblici ministeri ai giornalisti. E mai dimenticare che il processo penale non riguarda gli altri, ma domani potrebbe riguardare noi.

Sisto: «Oggi chi è sotto processo non è più un uomo». Il Dubbio il 10 maggio 2021. La lectio magistralis del Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto all’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli. «Oggi chi è sotto processo corre il rischio di non essere più un uomo. Il cittadino che riceve un’informazione di garanzia, infatti, viene mediaticamente colpito nell’immagine, nella persona, negli affetti familiari, nella posizione lavorativa, nella dignità. E questa pena sociale è spesso molto più pesante rispetto a quella derivante dal fatto reato». Parola di  Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, intervenuto così nel corso di una lectio magistralis all’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli. Secondo Sisto «non si può ragionare di rieducazione del reo se non si interviene in modo deciso sul processo mediatico perché oggi la sentenza arriva comunque troppo tardi, quando ormai è stata dispiegata tutta la forza spietata della condanna pubblica». «L’obiettivo è dunque quello di orientare nuovamente il procedimento giudiziario in senso costituzionalmente ortodosso, a cominciare dallo stop a quelle conferenze stampa post arresti che sono ormai diventate vere e proprie feste cautelari, passando dalla inibizione alla pubblicazione di foto e nomi dei magistrati impegnati nei processi , fino alla effettiva garanzia di un doveroso diritto all’oblio», conclude. La battaglia contro il processo mediatico è uno degli impegni prioritari per Sisto, che in un recente incontro al Consiglio Nazionale Forense aveva invitato la massima istituzione forense a unire le forze per riportare la giustizia nelle aule del tribunale. «Sono convinto che su questo tema possa esserci una sensibilità comune ed un ampio consenso a prescindere dalle appartenenze politiche», aveva detto il sottosegretario rivolgendosi al plenum del Cnf. «Bisogna restituire il processo alle aule di tribunale – aggiungeva  – a chi, nella giurisdizione, determina le sorti del processo».

L’incidente probatorio in diretta tv da Giletti. A "Non è l'Arena" di Massimo Giletti l'ennesimo criminal show sul caso che vede indagato Ciro Grillo e suoi tre amici per un presunto stupro avvenuto nel 2019 in Sardegna. Valentina Stella su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Domenica sera è andato in scena a Non è l’Arena di Massimo Giletti l’ennesimo criminal show sul caso che vede indagato Ciro Grillo e suoi tre amici per un presunto stupro avvenuto nel 2019 in Sardegna. Durante tutta l’ora dedicata alla vicenda sono stati mostrati corposi stralci dei verbali delle sommarie informazioni testimoniali raccolte dai carabinieri e anche audio ricostruiti delle dichiarazioni delle presunte vittime.   Al momento gli indagati hanno ricevuto il nuovo avviso di conclusioni indagine e non c’è stata ancora l’udienza preliminare. Chiediamo all’avvocato Luca Brezigar, co-responsabile dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Ucpi, se in queste circostanze diffondere stralci dei verbali di un provvedimento sia lecito oppure no: « pur se gli atti non sono più coperti da segreto, avendone anche gli indagati conoscenza, rimane comunque il divieto di pubblicazione totale o parziale fino allo svolgimento dell’udienza preliminare. Lo scopo è quello di tutelare l’interesse allo svolgimento di un giusto processo dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale il cui convincimento si deve formare in aula nel principio della parità delle parti». Il problema però, prosegue Brezigar, «è che le sanzioni per chi non rispetta quanto previsto dal codice sono troppo blande: l’art. 684 cp prevede l’arresto fino a trenta giorni o una ammenda da euro 51 a euro 258. Bisognerebbe sanzionare più pesantemente per creare una maggiore deterrenza». Il problema della pubblicazione degli atti non ha sfiorato gli ospiti di Giletti, anzi sono fioccati complimenti per chi li ha ottenuti e pubblicati. Proprio il vice direttore de La Verità, Francesco Borgonovo, presente in studio ha commentato: «ricordiamo che il primo a tirare fuori  – non un verbale – ma il racconto di un video è stato Beppe Grillo». Si tratta, per l’avvocato Brezigar, «di una risposta priva di senso perché non è entrato nel merito della questione. Grillo è rimasto il solito giustizialista che è sempre stato, a differenza di quello che qualcuno ha sostenuto; tuttavia è divenuto vittima dei meccanismi perversi del processo mediatico perché nulla giustifica la pubblicazione degli atti». Ma poi come arrivano gli atti nelle mani dei giornalisti? «In generale, possono arrivare dalla polizia giudiziaria, ma anche dagli uffici di procura interessati a sviluppare una particolare attenzione mediatica nei confronti di personaggi pubblici per ricevere appunto l’afflato dell’opinione pubblica. Ma anche i legali di parte civile potrebbero avere lo stesso interesse: far parlare del procedimento in corso per raccogliere consenso popolare ma anche solo per farsi pubblicità.  Qualunque sia la fonte  si tratta di pubblicazioni che inquinano il processo». Un altro episodio a parer nostro clamoroso è che durante la trasmissione abbiamo assistito ad una contestazione formale a un teste da parte di Giletti, come se stessimo già in aula. Il gestore del B&B dove hanno alloggiato le due ragazze, presunte vittime dell’aggressione sessuale di gruppo, ha riferito che dopo quella notte “erano scosse”. A quel punto il conduttore e i suoi ospiti presenti in studio gli hanno contestato che nelle dichiarazioni rese a verbale davanti ai carabinieri aveva detto una cosa completamente diversa ossia che le ragazze “erano felici”. L’uomo, posto davanti all’ambiguità delle sue parole, ha replicato in maniera confusa dicendo che tutto quello che ha riferito ai giornalisti corrisponde al vero, e che semmai sono stati i carabinieri a verbalizzare in modo erroneo le sue dichiarazioni, aggiungendo  – altro aspetto grave – che all’inizio credeva che le ragazze avessero forse rubato una borsetta ma poi, venuto a sapere del presunto stupro dai giornalisti, ha cambiato percezione dei fatti. «È un dato eclatante – ci dice esterrefatto Brezigar -. Avanzare prove durante una trasmissione o addirittura fare un incidente probatorio non fa affatto bene al processo che forse ne seguirà, soprattutto perché si rischia di inficiare la verginità cognitiva dei giudici.  Inoltre quel testimone appare alquanto inattendibile a questo punto, anche se capita sempre più spesso che i pm utilizzino quanto sentito o letto nei massi media. Tali situazioni potrebbero essere arginate se i pubblici ministeri vietassero ai testimoni, come previsto dal nostro codice, di andare a riferire a chiunque e a maggior ragione alla stampa quello che già hanno dichiarato nelle sedi opportune». Lasciamo andare l’avvocato Brezigar impegnato in un convegno organizzato dagli Osservatori Media, Errori Giudiziari ed Europa dell’Ucpi dal titolo “Presunzione d’innocenza: la direttiva europea e la realtà italiana”: «stiamo lavorando ad un disegno di legge che vada a limitare le distorsioni del processo mediatico bilanciando il diritto di cronaca con quelli del giusto processo».

Calci, insulti e minacce per gli avvocati che osano difendere i “mostri”. A chiunque sia accusato si deve assicurare un giusto processo. Senza eccezioni. Altrimenti con un'imputazione infamante si passerebbe direttamente al patibolo. Valentina Stella su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Diceva il famoso avvocato francese Jacques Verges: «Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis» (Non sono l’avvocato del terrorismo, ma l’avvocato dei terroristi. Ippocrate diceva: “Non curo la malattia, curo il malato”. È per dirvi che non difendo il crimine ma la persona che lo ha commesso). L’assimilazione tra l’avvocato e il suo assistito è una delle tante distorsioni che intaccano il ruolo del difensore nella società. Eppure come ha scritto Ettore Randazzo in “L’avvocato e la verità” (Sellerio Editore Palermo): «solo i nemici della democrazia e della libertà possono temere l’avvocatura». Sempre di più in questi anni stiamo assistendo a vari tipi di attacchi verso coloro che esercitano un diritto costituzionalmente garantito: gli avvocati vengono vilipesi sui social, ricevono sputi fuori dalle aule e pallottole nella buca delle lettere, addirittura le loro auto sono incendiate e le loro famiglie minacciate di morte. Su questo giornale vi abbiamo raccontato diverse storie in merito che vi riproponiamo in questa carrellata. Nel 2017 alcuni balordi diedero fuoco alla macchina dell’avvocato Pierluigi Barone. Dopo ricevette una telefonata anonima al suo studio: «Il tuo cliente è un assassino», riferendosi ad uno dei cinque giovani, difeso da Barone, indagato al tempo con altri per omissione di soccorso per la morte del 18enne Matteo Ballardini. Proprio al Dubbio l’avvocato raccontò che nella telefonata fecero altre minacce: «Mi hanno detto che poi toccherà alla casa, e poi a mia moglie. Paura? Io sono un legale e non mollo i miei clienti. Questo modo di fare violento mina i principi base della Costituzione e della civiltà. E noi non possiamo cedere». Invece questo messaggio: «Volevo complimentarmi con gli avvocati Mario Scarpa e Ilaria Perruzza, che assistono i 4 maiali stupratori di Rimini! Complimenti per la dignità che avete dimostrato nell’accettare la difesa e non aver rifiutato! Questo Stato tra qualche anno li promuoverà facendoli entrare a pieno diritto nella Casta dei Togati. Nel frattempo speriamo che il tempo regali ad entrambi l’esperienza vissuta dai due polacchi», fu uno dei tanti gravemente offensivi indirizzati ai due avvocati che assunsero l’incarico difensivo di quattro immigrati accusati dello stupro e della violenza avvenuti nei confronti di una giovane polacca e di un suo amico. Arriviamo nel 2018: «Sentenza vergognosa! Dato che la giustizia non esiste sarà fatta in un altro modo. Vendetta anche per te avvocatura»: iniziava così la lettera minatoria che, accompagnata da un proiettile, giunse all’avvocato Andrea Miroli, legale della famiglia Ciontoli, dopo la sentenza di primo grado per la morte di Marco Vannini. Sempre nello stesso anno all’avvocato Giovanni Codastefano, difensore d’ufficio di un uomo accusato di aver violentato la moglie e maltrattato la figlia, toccò leggere questo sul web: «Penso che fa più schifo l’avvocato che lo difenderà», «Vergognati! Come si fa a difendere uno del genere?», «Certi avvocati per du soldi difenderebbero anche lo stupratore delle loro madri… merdacce!», «Bastardo anche l’avvocato». Non finisce qui: l’avvocato Simone Matraxia, legale di fiducia di Innocent Oseghale, il nigeriano coinvolto nella morte di Pamela Mastropietro, fatta a pezzi e ritrovata in due trolley abbandonati sul ciglio della strada, appena ricevette il mandato lesse su Facebook: «L’avvocato che si prende la briga di difendere certe persone, e certi reati va denunciato per complicità» e altresì «Ha pure un avvocato? Ahhhhh la pena di morte». L’anno successivo ci spostiamo al Tribunale di Frosinone quando il presidente della Corte d’assise Giuseppe Farinella pronunciò la sentenza di primo grado per l’omicidio di Emanuele Morganti, il ventenne deceduto dopo essere stato aggredito in una notte di marzo del 2017 ad Alatri. Un caso drammatico che aveva suscitato molto commozione per la morte di un ragazzo accerchiato e picchiato, dopo una serata in un locale con la fidanzatina. Non fu allora omicidio volontario, come richiesto dall’accusa, ma preterintenzionale. La derubricazione del reato scatenò l’ira dei parenti e degli amici della vittima. Qualcuno, fuori dal tribunale, aggredì il pool difensivo come ci raccontò proprio l’avvocato Giosuè Bruno Naso: «Ci hanno minacciati e insultati gridandoci “bastardi”, “schifosi”, “come fate a difendere delle merde simili?”». Arrivarono anche degli sputi verso di loro e si rese necessario l’intervento di alcuni agenti delle forze dell’ordine. Sempre nel 2019 a subire minacce sui social furono gli avvocati Domenico Gorziglia, Giovanni Labate e Marco Mazzatosta, legali di Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, i due giovani di CasaPound, accusati di violenza di gruppo, lesioni aggravate e violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità psichica e fisica nei confronti di una donna di 36 anni. «Ma gli avvocati sono i peggio», «i due vanno condannati in base alle leggi, vanno puniti, ma chi andrebbe arrestato seduta stante deve essere l’avvocato» e ancora «Lasciateli al popolo, saprà fare giustizia più di quella togata… non dimenticate il legale che andrebbe anche radiato» e «io metterei in galera pure gli avvocati che favoreggiano sti maledetti difendendoli ». Nel 2020 a ricevere minacce di morte furono gli avvocati Massimiliano e Mario Pica, legali dei tre allora indagati per la morte del giovane Willy Monteiro Duarte, ucciso durante un pestaggio a Colleferro. Ricevettero una telefonata anonima a studio: «Dì all’avvocato che lo ammazziamo». Ma anche Andrea Starace e Giovanni Bellisario, legali di Antonio De Marco, reo confesso del duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis, sono finiti nel mirino dei leoni da tastiera: «anche l’avvocato dovrebbe andare in carcere», «non vi vergognate a difenderlo», «se le vittime fossero stati i vostri figli vi sareste comportati allo stesso modo?». E poi ad aprile di quest’anno vi abbiamo raccontato la storia di due avvocate di Brescia S.L.e M.M processate e insultate dal Tribunale del popolo per aver fatto assolvere un uomo accusato di violenza sessuale: «Ma questi avvocati non si vergognano a difendere un delinquente simile. Lo schifo assurdo che per i soldi non si guarda in faccia nessuno, eppure sono donne ma nessuna solidarietà. Il denaro e la carriera sono superiori al dramma di questa ragazza» e persino più grave: «Che non debbano mai provare nessun tipo di violenza queste sottospecie di avvocati». A chi dunque desidera gettare la chiave della cella prima di iniziare un processo, impedendo l’esercizio del diritto di difesa, rispondiamo sempre con un pensiero di Ettore Randazzo: «Senza processo la giustizia dove starebbe? Nel lugubre simbolismo di un cappio penzolante col plauso raccapricciante di un gruppo di scalmanati dimostranti? Ci mancherebbe! Tutti devono essere processati e dunque difesi. Incondizionatamente; altrimenti basterebbe un’accusa grave e infamante per giustiziare sommariamente una persona, espellendola dal consesso civile; non possiamo di certo consentire una simile barbarie».

Se l’indagato diventa il “colpevole” e l’avvocato il suo “complice”. Se Il difensore è identificato col suo assistito, finisce per meritare anche lui la punizione. Tutelare il (presunto) reo è di per sé una colpa. Logico, no? Giuseppe Belcastro su Il Dubbio il 10 maggio 2021. È un circolo vizioso quello che, in parte, può spiegare la perniciosa identificazione tra l’Avvocato e l’assistito. E si basa, mi pare, su due pilastri: la necessità e la distorsione.

La necessità. Nel sistema degli equilibri democratici disegnato dalla Costituzione, è necessario che il  cittadino che delega potestà allo stato sia messo nella condizione di verificare se e come quella potestà venga esercitata. Non fa eccezione la giurisdizione. Però la verifica, un tempo affidata in larga parte alla presenza diretta nei luoghi della giustizia (le aule), durante la effettiva celebrazione di quell’esercizio (il processo), da parte di chi ne avesse interesse (il cittadino o il cronista), è invece oggi affidata ad una mediazione diffusa, quella dei mass media. La struttura del villaggio globale rende così istantanea la divulgazione di informazioni, sopravanzate dalla loro stessa velocità di trasmissione; insomma, non importa tanto ciò che si racconta, quanto il fatto che lo si racconti per primi. L’attenzione e il racconto puntano allora direttamente sulla prima cosa disponibile: le indagini, fase pre-processuale incondizionatamente governata dalla parte che accusa. Ma se chiediamo di un fatto a chi rispetto ad esso ha un preciso (e legittimo) interesse ne otterremo assai probabilmente una narrazione che a quell’interesse è consentanea. Un’imperfetta competenza tecnica del narratore sull’argomento fa, a volte, il resto del lavoro. Dunque, si comprende agevolmente perché la narrazione della vicenda giudiziaria focalizzata sull’indagine restituisca ineluttabilmente l’idea che ogni indagato sia in realtà un colpevole. E questo incomincia a lumeggiare il secondo pilastro di cui si diceva.

La distorsione. Perché, se l’indagato è un colpevole, tutto ciò che segue cronologicamente all’indagine non serve più. Il processo, insomma, da luogo di effettivo esercizio della giurisdizione, diventa inutile orpello, buono nella migliore delle ipotesi a confermare quanto già si sapeva dall’inizio. Il controllo collettivo sull’esercizio della funzione, insomma, alimentato da una narrazione precoce, parziale e a volte di scarsa qualità, non solo perde il suo scopo, ma rischia persino di corrompere dall’interno la funzione stessa cui è rivolto. Ecco, proprio quando questo accade (ormai quasi sempre) l’Avvocato diventa il suo assistito e, quasi come lui, merita la punizione. In fondo è logico: difendere un colpevole è di per sé una colpa che al contempo qualifica chi la commette e fa perdere inutilmente alla collettività tempo e risorse. In questo humus virulento, che favorisce talvolta episodi di isteria collettiva, invettive e minacce, l’Avvocato non partecipa più della giurisdizione, ma ne ostacola prezzolatamente l’esercizio, frapponendo cavilli per salvare il criminale di cui è certamente compare. E allora alla gogna pure l’Avvocato perché, in fondo, come si fa a difendere gente così? È un circolo vizioso, si diceva, per rompere il quale basterebbe forse un poco di ragionevolezza, che però oggigiorno è merce assai rara. Se ne potrebbe prendere a prestito da tutti quelli che gli ingranaggi del processo hanno assaggiato sulle loro carni, scoprendo, quand’anche colpevoli, che l’Avvocato difende diritti e non delitti. O persino e forse meglio da coloro, nient’affatto pochi, che ne sono usciti indenni nel corpo, ma non sempre nello spirito: gli assolti, gli ingiustamente accusati. Tutti costoro sanno in maniera esperienziale cosa sia per davvero un’indagine, un processo e, prima ancora, il clamore che lo precede; e sanno pure quanto siano vacui i rimedi postumi approntanti dal sistema a questo circo, troppo spesso indegno. Ma essi sanno soprattutto che non sarebbero arrivati sull’altra riva del fosso senza un Avvocato, altro da sé, a garantire il rispetto dei loro diritti. L’Avvocato non è il suo assistito e ogni assistito ha respirato questa elementare verità che chi può dovrebbe spiegare incessantemente per tutte le ore di tutti i giorni. Non fosse altro che al fine di evitare che, per capirlo, si debba prima o poi tutti provarlo sulla nostra pelle.

Assolti ma per sempre dannati. I dannati della gogna, da Mastella a Lupi 20 storie di tritacarne mediatico-giudiziario nel libro di Ermes Antonucci. Frank Cimini su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Il processo è già una pena perché c’è la gogna mediatica. Ma non tanto al momento del processo. Molto prima. Con le indagini preliminari dove le procure sono i signori assoluti, i difensori non toccano palla e la difesa non ha difesa. Ermes Antonucci giornalista del Foglio racconta 20 casi di “dannati della gogna”, persone rovinate, con l’assoluzione che serve a molto poco quasi a niente e ci sono pure le vicende di chi paga dazio alla cattiva fama senza essere stato nemmeno inquisito formalmente. Essere indagati dai mezzi di informazione è molto peggio che finire inquisiti dai magistrati. «Tanto più vasta sarà l’eco mediatica dell’accusa tanto meno chi l’ha promossa sarà disposto a riconsiderarne il fondamento – scrive nella prefazione l’avvocato Gian Domenico Caiazza – Il cappio si stringe intorno al collo del presunto colpevole con un doppio nodo scorsoio, la gogna mediatica da un lato, l’accusatore impegnato nella strenua autodifesa a oltranza dall’altro. Non c’è scampo fino a quando il presunto colpevole non avrà la ventura di incontrare un giudice indifferente all’una e all’altro. Un evento purtroppo nient’affatto scontato e comunque quasi sempre drammaticamente tardivo». Secondo Caiazza non dobbiamo disperare ma essere consapevoli che la strada da percorrere è quella di recuperare finalmente un principio di responsabilità del magistrato per i suoi atti giudiziari. «Oggi questo è precluso da un sistema di valutazioni professionali positive al 99,6 per cento, dunque inesistenti. Un potere pubblico irresponsabile rappresenta un irrimediabile squilibrio democratico» conclude il legale. «Il fenomeno si è affermato in numerose nazioni ma è in Italia che mostra una forza è una violenza senza pari – chiosa Antonucci – tanto da portare a un annientamento sostanziale di alcuni principi basilari della nostra Costituzione, a partire dalla presunzione di non colpevolezza». Il tritacarne, ricorda l’autore, si palesa in varie forme: notizie passate ai giornalisti da procure e polizia giudiziaria, pubblicazione di materiale di indagine ancora coperto da segreto, diffusione di intercettazioni spesso penalmente irrilevanti, assenza di contraddittorio, invasione morbosa negli ambiti privati dei malcapitati e, dulcis in fundo, mancanza di attenzione per le fasi successive dei procedimenti. E se va bene minuscoli trafiletti sui giornali. “Tanto è già uscito tutto” è la considerazione di molti giornalisti che dovrebbero sottoporre a vaglio critico le tesi dell’accusa. E come potrebbero dal momento che “il pane quotidiano” arriva loro dalle procure. Come disse un famoso avvocato ai tempi della falsa rivoluzione di Mani pulite (ma i tempi non sono cambiati e se sì sono cambiati in peggio): «Il pm fa anche il caporedattore nei quotidiani del mandamento giudiziario». Giovanni Novi, ex presidente del Porto di Genova, arrestato con l’accusa di un patto illecito stipulato con presunte irregolarità nell’assegnazione dei moli. Dal 2008 al 2014, le date del calvario. La Cassazione lo assolve sentenziando che Novi agiva per il bene del porto. Ma al danno si aggiunse la beffa. Novi non ha avuto diritto al risarcimento delle spese legali perché l’Avvocatura dello Stato interpretò la sua carica come onoraria. Insomma finché si trattava di processarlo era un presidente a tutti gli effetti. Nel momento in cui doveva essere risarcito diventava onorario. L’inchiesta evaporata avrebbe provocato al porto di Genova danni per sette milioni di euro. «Quello che mi è dispiaciuto di più – ha detto Novi – al momento dell’assoluzione mia moglie non c’era più». Calogero Mannino che fu ministro e parlamentare è stato sotto processo per 30 anni con l’accusa di essere mafioso prima dell’assoluzione definitiva. Mannino, 80 anni, pensa al futuro della giustizia e alla modifica della prescrizione. «Il risultato è che i processi saranno ancora più lunghi solo perché un ministro della giustizia che non ha nessuna esperienza di aule giudiziarie ha voluto avventurarsi sull’eccitazione di alcuni organi di stampa amici». Insomma il futuro della gogna mediatica. Clemente Mastella è stato assolto quindici volte su quindici. Maurizio Lupi fu costretto da non indagato a dimettersi da ministro per la storia di un orologio d’oro regalato al figlio da un amico di famiglia di vecchia data. Giulia Ligresti fu assolta dopo sei anni con la revoca della pena che aveva patteggiato da innocente. Perché quella sentenza era in contraddizione con il verdetto che aveva assolto il fratello Paolo. Dell’imprenditore Andrea Bulgarella il quotidiano Repubblica scrisse che aveva l’odore della mafia addosso. Dopo l’assoluzione non sono arrivate le scuse. È la stampa bellezza. E insieme alla “giustizia” di danni ne fa tanti. I dannati della gogna. Editore Liberi libri. 133 pagine. Autore Ermes Antonucci. Frank Cimini

Spinti all'addio. Lupi e i suoi fratelli. Vittime innocenti dei tagliagole a 5 stelle. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Novembre 2019. Chissà se, quel 19 ottobre 1995 in cui il ministro Filippo Mancuso fu crocifisso nell’aula di Palazzo Madama, il giovane Maurizio Lupi, consigliere comunale a Milano, ha percepito il fatto come un punto di non ritorno e se ha immaginato che esattamente vent’anni dopo sarebbe toccata a lui una simile sorte. E soprattutto se aveva intuito, essendo stato lui eletto in un consiglio comunale risorto sulle macerie di una giunta sterminata da Tangentopoli, che da quel momento in avanti, o si procedeva alla ricostruzione, proprio come quella post-bellica, dello Stato di diritto, o non si sarebbero più contate le vittime del giustizialismo. Anche tra i componenti di un governo. Non ci sono molti modi per cacciare un ministro, nel nostro Paese. Non lo può fare, al contrario di quanto accade in paesi come la Spagna e l’Inghilterra, il presidente del consiglio, né la Costituzione ha previsto il caso della sfiducia individuale. Pure nel 1995, sulla base di un regolamento della Camera (che in seguito la Corte costituzionale dichiarò applicabile anche al Senato), il Pds, che costituiva la maggioranza di sostegno al governo Dini, riuscì a impallinare un grande ministro di Giustizia per “eccesso di garantismo”: il guardasigilli Mancuso aveva osato mandare gli ispettori all’intoccabile pool di Milano e aveva criticato gli incriticabili “professionisti dell’antimafia”. Quello del ministro Mancuso resterà l’unico caso di sfiducia individuale andato in porto. Anche se, da quel momento in avanti, e soprattutto dopo l’entrata in Parlamento del Movimento Cinquestelle, sarà tutta una fioritura di mozioni di sfiducia individuale, in gran parte legate a inchieste giudiziarie, anche se presentate nei confronti di ministri non indagati. Secondo la Banca dati della Camera, dal 1990 al 2017 sono state presentate 58 mozioni di sfiducia individuale, il solo partito di Grillo nella quindicesima legislatura ne ha protocollate 25. Sono armi spuntate, anche perché sono in genere strumenti usati dai partiti di opposizione, che non hanno i numeri per farle votare. Ma c’è un modo molto più subdolo ed efficace da parte degli stessi governi e delle maggioranze per eliminare un ministro quando un’ombra vada a oscurare la sua reputazione, ed è quello di accompagnarlo alle dimissioni “spontanee”. Il caso di Maurizio Lupi è esemplare, ma non è stato il solo, negli anni dei governi di sinistra. Apripista è stata la ministra del governo Letta Josefa Idem nel 2013, per una violazione nel pagamento dell’Ici. Un peccato veniale, la cui penitenza è stata scontata, prima ancora che con l’uscita della ministra dal governo, con una vera lapidazione mediatica ben orchestrata in particolare dal Fatto quotidiano. Seguirà un anno dopo, nel 2014, il caso di Nunzia De Girolamo, ministro dell’Agricoltura dello stesso governo, che verrà intercettata, quindi sbattuta sui giornali senza essere neppure indagata. Cosa che avverrà in un secondo momento. Ma intanto anche lei verrà accompagnata “spontaneamente” alla porta, salvo verificare nel 2017 di esser stata completamente prosciolta. Siamo arrivati al governo Renzi, quando assistiamo al consueto balletto del circo mediatico-giudiziario che coinvolge prima Maurizio Lupi e poi Federica Guidi, mai indagati in due inchieste (Grandi Opere e Tempa rossa) che si sono poi sciolte come bolle di sapone. Anche Matteo Renzi si comporterà come i suoi predecessori, a partire da quel presidente Dini che accompagnò alla porta il proprio ministro Guardasigilli. Non hai il potere di revoca? Lo sostituisci con le dimissioni “spontanee”. Basta che tu presidente del Consiglio lasci ai tuoi parlamentari la libertà di voto a una qualunque mozione di sfiducia individuale che qualche grillino tagliagole avrà sicuramente presentato, ben imbeccato dal suo quotidiano di partito. A quel punto il malcapitato ministro non potrà che dimettersi. Non c’è scampo, come ha ben verificato Matteo Salvini, quando ha cercato di difendere i diritti degli uomini di governo del suo partito. La storia si ripete, da quel 19 ottobre 1995. Tiziana Maiolo

I partiti in balia delle toghe. Quante vite e carriere politiche devastate dalla furia della magistratura. Viviana Lanza su Il Riformista il 8 Settembre 2020. Indagati e assolti. Qualche volta anche rovinati. Talvolta costretti a stravolgere il corso delle proprie scelte e indirettamente anche quelle di altri. Sicuramente provati e in qualche modo vittime di un sistema giudiziario che prevede tempi sempre lunghissimi per arrivare a una sentenza. La storia giudiziaria napoletana e campana è piena di casi che ripropongono il tema della cosiddetta “giustizia a orologeria” respinta con forza dalla magistratura, di errori giudiziari e inchieste annunciate in pompa magna e ridimensionate nel corso dei successivi step processuali. «Era stata una sentenza importante. Nel processo sui rifiuti pur essendo i reati ipotizzati ormai prescritti i giudici si erano espressi nel merito con una sentenza di piena assoluzione per insussistenza delle accuse. Poi la procura aveva fatto appello per trasformare l’assoluzione di merito in assoluzione per prescrizione. Oggi la Corte di appello ha dichiarato inammissibile l’impugnazione del pm ed ha confermato la sentenza di primo grado. Ringrazio gli avvocati Krogh e Fusco e le persone che mi sono state vicine in momenti difficili. Per quanto mi riguarda è la conferma che è giusto aver fiducia nella giustizia e che i tempi dovrebbero essere più brevi perché la lunghezza dei processi danneggia gli innocenti e premia i colpevoli». A maggio 2019 Antonio Bassolino commentava così la sentenza che metteva la parola fine a una parentesi giudiziaria durata 16 lunghi anni. L’ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania usciva definitivamente assolto dal processo su presunte irregolarità nella gestione della più grande emergenza rifiuti che la regione abbia vissuto. La Corte di Appello aveva appena dichiarato inammissibile l’appello dei pm della Procura di Napoli, che si erano opposti alla sentenza di primo grado chiedendo che fosse trasformata da assoluzione di merito in assoluzione per prescrizione, e aveva confermato la piena assoluzione di Bassolino e di altri 26 imputati. L’ombra delle accuse fu definitivamente allontanata, ma gli effetti politici di quegli anni ormai non potevano essere più annullati. Accadde lo stesso per Clemente Mastella. A gennaio 2008, quando era ministro della Giustizia e leader dell’Udeur, fu coinvolto, assieme alla moglie Sandra Leonardo, all’epoca presidente del consiglio regionale della Campania, nell’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere su presunti illeciti nelle nomine Asl. Dopo quasi dieci anni arrivò la sentenza di assoluzione piena per lui, la moglie e altri imputati: «i fatti non costituiscono reato», sostennero i giudici. La sentenza ridiede onore a Mastella e agli altri assolti ma non poté rimediare agli effetti politici di quelle accuse non confermate nel processo: le dimissioni di Mastella, la sfiducia al governo Prodi, le nuove elezioni con la vittoria di Berlusconi. Indagato, esposto alla gogna mediatica e poi assolto: il caso più recente è quello di Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd campano. Il 12 agosto scorso l’archiviazione decisa dal gip di Santa Maria Capua Vetere lo ha scagionato dall’accusa di reati elettorali. Già nell’aprile 2016, proprio alla vigilia delle elezioni amministrative, Graziano fu coinvolto in un’inchiesta con la pesante accusa di concorso esterno in associazione camorristica salvo poi essere scagionato quando, dopo mesi di indagini, la stessa Dda aveva chiesto e ottenuto per lui l’archiviazione. Intanto la gogna mediatica e soprattutto politica aveva già prodotto i suoi effetti.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Chi è Roberta Bruzzone: biografia, età, marito e figli della criminologa. Antonella Acernese il 3 Maggio 2021 su controcampus.it. La migliore nel suo campo, psicologa forense e criminologa, chi è Roberta Bruzzone: biografia, età, altezza, origini, marito, figli, vita privata, curriculum e carriera. Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Torino, si specializza a Genova in Psicopatologia Forense e approfondisce gli studi in America, negli Stati Uniti. Criminologa, psicologa forense, opinionista e personaggio televisivo. Tantissimi sono i casi di cronaca nera di cui si è occupata e che l’hanno resa famosa, presenziando in diversi programmi tv, come Porta a Porta e Quarto Grado, in qualità di ospite fissa. Conduce anche due programmi su Real Time Donne mortali e La scena del crimine. Ricopre i ruoli di Presidente dell’Accademia Internazionale delle Scienze Forensi, di Direttore Scientifico e di Vicepresidente de “La Caramella Buona Onlus”. Il suo carisma e le sue qualità la portano ad esperienze televisive varie come quella di giudice di Ballando con le Stelle, a partire dal 2017. Acquisisce notorietà come consulente della difesa di Michele Misseri, nel delitto di Avetrana. Prima ancora è coinvolta come consulente anche nella strage di Erba. L’abbiamo sentita poi nel caso di Denise Pipitone. Ma parlarci di lei non saranno solo i casi come quello di Piera Maggio e la figlia Denise Pipitone, Roberta Bruzzone chi è oggi, quanti anni ha, con chi è sposata, compagno e figli, sarà la sua biografia a rivelarcelo. Per scrivere una biografia e sapere chi è Roberta Bruzzone, Instagram, Facebook ed il suo curriculum vitae, ci saranno utili per scoprire innanzitutto età, altezza, vita privata, marito e figli della criminologa. Nata a Finale Ligure il 1 Luglio 1973, sotto il segno zodiacale del Cancro. Della sua famiglia non si sa molto. Il padre è un poliziotto e sin da piccola cresce osservando il suo mestiere. Da lui sicuramente eredita la passione per il mistero e la grande curiosità. Ha due fratelli gemelli più piccoli, Andrea e Federica. In un aneddoto sulla sua infanzia ha raccontato che, a soli tre anni stava per affogarli mentre cercava di far loro il bagnetto, ma fortunatamente è intervenuta la nonna. E’ molto legata alla nonna. Difatti racconta che il momento peggiore della sua vita è stata proprio la sua morte, avvenuta nel 2004. La criminologa è alta 168 cm e pesa circa 62 kg. Lunghi capelli biondi, sorriso avvenente e sguardo intenso. E’ conosciuta per le sue qualità intellettuali ma anche per il suo fascino. Ha uno stile rock, non convenzionale, difatti spesso nelle sue apparizioni indossa giacche di pelle e abiti borchiati. Il profilo Instagram di Roberta Bruzzone è abbastanza attivo. Seguita da circa 70 mila persone, pubblica soprattutto aggiornamenti sulle sue apparizioni televisive e su casi di cronaca di cui si sta occupando. Sin da piccola mostra attenzione e curiosità nei confronti del mistero, dell’ignoto, tanto da affermare di essere attratta dai luoghi abbandonati. Al contrario dei suoi coetanei racconta che “invece che avere paura dell’uomo nero io lo andavo a cercare.” Vivace e ribelle, viene addirittura cacciata dalla scuola materna. La sua indole la conduce su una strada ben precisa: quella dell’investigazione e del crimine. Si laurea in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Torino, si specializza a Genova   in Psicopatologia Forense e approfondisce gli studi in America, negli Stati Uniti. E’ una donna molto passionale. Difatti vive di stimoli sempre nuovi e cerca esperienze adrenaliniche. Si spiega così la sua passione per le motociclette, ereditata da suo padre. La nonna le regala la sua prima moto a 12 anni. Ad oggi possiede due ducati, una Diavel e uno Streetfighter 848. Della sua vita privata sappiamo che è stata sposata, l’ex marito di Roberta Bruzzone è Massimiliano Cristiano, con il quale è stata legata dal 2011 al 2015. I due non hann avuto figli e sono rimasti in ottimi rapporti, tanto da pubblicare nel giorno del loro divorzio una foto insieme in cui brindano, scrivendo “Chiudere una storia importante in maniera civile si può”. Nel giugno 2017 la criminologa si sposa con rito civile a Fregene, in spiaggia. L’attuale compagno è Massimo Marino, funzionario della Polizia di Stato che per due anni è stato impegnato in una missione all’ambasciata italiana di Kabul. Più volte ha rivendicato con forza   la scelta di non aver figli. Molti la conoscono per apparizioni televisive varie e per averla vista impegnati in importanti casi come la strage di Erba, fino al caso della scomparsa della piccola Denise Pipitone, Roberta Bruzzone, chi è oggi lo sappiamo soprattutto per la sua straordinaria carriera. Dopo essersi laureata e specializzata in Psicologia e Psicopatologia Forense, inizia immediatamente una carriera in forte ascesa. Diviene consulente di Michele Misseri, nel delitto di Avetrana. Segue da vicino la strage di Erba. E’ poi impegnata nei tantissimi casi di cronaca nera italiana, mostrando acutezza e attenzione ad ogni dettaglio. Per il suo carisma viene invitata a presenziare in numerosi programmi tv, come esperta criminologa. Dal 2008 è ospite fissa di Porta a Porta nell’ambito delle puntate dedicate alla cronaca nera. E’ autrice e conduttrice della trasmissione La scena del crimine, andata in onda sulla rete locale GBR – Teleroma 56. Nonché conduttrice di Donne mortali, andata in onda per tre edizioni sull’emittente Real Time. La criminologa tuttavia mostra poliedricità e versatilità, difatti a partire dal 2017 è invitata come opinionista nel programma Ballando con le Stelle, con il compito di tracciare i profili psicologici dei vip in gara e svelare quanto riuscisse a cogliere della loro personalità. E’ docente di Psicologia Investigativa, Criminologia e Scienze Forensi presso l’Università LUM Jean Monnet di Bari e del Master di I Livello in Criminologia Investigativa presso l’Università degli Studi Niccolò Cusano. E’ anche scrittrice di diverse opere: Chi è l’assassino. Diario di una criminologa; Segreti di famiglia. Il delitto di Sarah Scazzi. Le prove, i depistaggi e le lacrime di plastica; State of Florida vs Enrico Forti. Il grande abbaglio; con Emanuele Florindi pubblica Il lato oscuro dei social media. Nuovi scenari di rischio, nuovi predatori, nuove strategie di tutela; con Valentina Magrin Delitti allo specchio. I casi di Perugia e Garlasco a confronto oltre ogni ragionevole dubbio; infine nel 2018 esce Io non ci sto più. Consigli pratici per riconoscere un manipolatore affettivo e liberarsene. Famosa non solo per essere criminologa, Roberta Bruzzone chi è oggi, lo sanno anche gli appassionati di musica Rock considerato che è la cantante della RockRiders Band, insieme al marito. Scopriamo come nasce questa nuova esperienza. Nel 2020 fonda insieme al marito chitarrista la band, coinvolgendo un gruppo di amici appassionati di musica rock “vecchia scuola”. La musica ed il ritmo è forte ed intenso e punta l’attenzione sulla violenza nei confronti delle donne. La donna è fortemente convinta che “la musica sia un potente strumento di comunicazione in grado di raggiungere i livelli più profondi delle emozioni e innescare cambiamenti positivi.” Il nuovo singolo “È troppo tardi ormai” si colloca all’interno della campagna di prevenzione contro la violenza sulle donne, all’interno dell’iniziativa del 2018, chiamata “Io non ci sto più.” Il testo, intenso e profondo è scritto dal marito. Racconta di “un viaggio doloroso all’interno di una storia sbagliata e malevola, in cui non sono mancati i maltrattamenti fisici e psicologici. La protagonista del brano attraversa tutte le fasi critiche per prendere consapevolezza e arrivare, finalmente, a dire basta. Il messaggio è perentorio e preciso: il momento giusto per dire basta è adesso.”

Anagrafica Principale. Nata a Finale Ligure il 1 Luglio 1973, sotto il segno zodiacale del Cancro. Alta 168 cm e pesa circa 62 kg. Laureata in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Torino, si specializza a Genova in Psicopatologia Forense e approfondisce gli studi in America, negli Stati Uniti. Tantissimi sono i casi di cronaca nera di cui si è occupata e che l'hanno resa famosa, presenziando in diversi programmi tv, come Porta a Porta e Quarto Grado, in qualità di ospite fissa. Conduce anche due programmi su Real Time Donne mortali e La scena del crimine.

Antonella Acernese. Studentessa di Lettere Moderne alla Federico II di Napoli. Sono cresciuta a contatto con libri d'ogni genere, sviluppando amore verso le lettere e il potere della loro combinazione. Ho iniziato a collaborare con testate giornalistiche e scrivendo su blog, sin da giovanissima. L'obiettivo di affermarmi nel mondo lavorativo, in qualità di giornalista, è la mia più grande motivazione. Fortemente affascinata dall'essere attiva sul campo e vigile nello sguardo nei confronti della realtà. Mi appassionano i dettagli, i retroscena, la possibilità di scoprire antefatti e di non arrestarsi mai, in tale ricerca. La dedizione nella ricerca costante dei dettagli è alla base della rubrica di Attualità che curo: "Le biografie dei personaggi". Curiosità, fatti e i loro mondi da scoprire, mi affascinano e mi stimolano nell'addentrarmi in essi e narrarli. Dico da sempre e senza remore, di essere nata per scrivere, per fondere insieme questa mia passione alla volontà di contribuire ad un servizio pubblico, ad informare e far conoscere. Scrittura pulita, chiara e rispettosa, un plain language, è ciò a cui miro nella stesura degli articoli, affinché cronaca e notizie possano essere consumate da tutti, senza alcun ostacolo di chiarezza.

Ed a proposito di credibilità.

7 Ottobre 2010 - La criminologa Bruzzone: "Misseri un pedofilo assassino". Ma poi cambia diagnosi!

Esattamente il 7 ottobre 2010 sul Tgla7, la dottoressa Bruzzone diceva, a proposito del Misseri: «Non credo francamente che questa vicenda sia nata quarantadue giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia l'unico momento in cui questa persona soggetto ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedofilo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell'età ha il proprio ingresso nella vita criminale per cui purtroppo c'è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest'uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti...» Allorché la giornalista chiedeva alla dottoressa Bruzzone se secondo lei il Misseri avesse avuto dei complici, lei rispondeva testualmente che non lo riteneva proprio veritiero: «Penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto... Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell'assassino, come poi effettivamente avvenuto.» Quando poi le è stato chiesto che pena meritava quest'uomo, ha risposto senza esitare: «In questo caso l'ergastolo penso sia impossibile non comminarlo... c'è piena consapevolezza, c'è lucidità... probabilmente sentiremo parlare ....forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest'uomo sia durante la fase omicidiaria, sia nella fase successiva di occultamento del cadavere e ahimè nella fase che ha riguardato come sembra anche la fase della violenza sessuale...» A questo punto la giornalista chiedeva come difendersi da questi soggetti, visto che a dire della Bruzzone uno come il Misseri doveva essere già conosciuto come pedofilo. E a questo punto la Bruzzone è stata quanto mai categorica: «Denunciando! Facendo emergere il tutto! facendosi consigliare da professionisti, andando ai Centri Antiviolenza... Telefono Rosa.... Io collaboro con loro da anni e sono assolutamente un interlocutore preziosissimo per questi tipi di casi...». Immaginiamo cosa sarebbe successo se Sabina Misseri si fosse recata a Telefono Rosa e avesse denunciato che da mesi sapeva che il padre molestava Sarah e lei...Che giustizia avremmo avuto, ascoltando oggi le parole della criminologa dottoressa Bruzzone, che dice il contrario di tutto quanto affermato prima?

Nuovo processo per Michele Misseri, l’agricoltore di Avetrana coinvolto nei processi per l’uccisione della nipote Sarah Scazzi, per il cui assassinio sono state condannate all’ergastolo la figlia Sabrina e la moglie Cosima Serrano (in primo grado con conferma in secondo). Il gup del Tribunale di Taranto, Valeria Ingenito, il 10 settembre 2015 ha rinviato a giudizio Michele Misseri (già condannato anche in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi) con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. La professionista è stata consulente di parte nel processo per l’omicidio mentre il legale è stato difensore dello stesso Misseri, che inizialmente confessò l’omicidio della ragazzina per poi addossare le responsabilità a sua figlia Sabrina. Insieme con Misseri, che risponderà di calunnia, sono finiti sotto processo per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo, accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri nei confronti dell’avvocato Daniele Galoppa e della dottoressa Roberta Bruzzone, rispettivamente ex legale ed ex consulente dello stesso Misseri. La giornalista di Mediaset Ilaria Cavo, attuale assessore alla Comunicazione e alle Politiche giovanili della Regione Liguria, avrebbe rilanciato le versioni di Misseri attraverso servizi televisivi. Il contadino di Avetrana, quando è tornato ad accusarsi dell’omicidio, ha sostenuto di essere stato in qualche modo indotto da Bruzzone e Galoppa a tirare in ballo sua figlia Sabrina (condannata in primo e secondo all’ergastolo, come sua madre Cosima Serrano). Il rinvio a giudizio, con processo fissato per l’1 dicembre 2015, è stato disposto dal gup dottoressa Valeria Ingenito. Lo stesso gup aveva a suo tempo autorizzato la citazione, come responsabili civili delle società «Rai», «Rti» per “Mediaset”, «Edizioni Universo», ed «Rcs» per il settimanale “Oggi”. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, sia la giornalista che l’opinionista-Mediaset avrebbero espresso opinioni che avrebbero fatto sorgere dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. Il primo, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa, come si ricorderà, era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. 

Calunniò la Bruzzone e Galoppa: chiesti 4 anni per "zio Michele". A giudizio anche Ilaria Cavo e un penalista romano. Quattro anni di carcere per Michele Misseri, che deve rispondere di calunnia, e il minimo della pena prevista, un anno, per i due suoi coimputati: la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato, Fabrizio Gallo che rispondono di diffamazione, scrive Giovedì 14 Giugno 2018 "IlQuotidianodipuglia.it". Sono queste le richieste formulate dall'accusa, affidata al pubblico ministero Mariano Buccoliero, nel processo che vede come principale imputato lo zio di Sarah Scazzi, già rinchiuso nel carcere di Lecce dove sta scontando otto anni per la soppressione del corpo della nipote Sarah Scazzi, uccisa a soli 15 anni. Il contadino di Avetrana è finito sotto processo per aver accusato il suo ex avvocato, Daniele Galoppa, e la criminologa Roberta Bruzzone, di averlo entrambi costretto ad accusare la figlia Sabrina Misseri dell’uccisione di Sarah, delitto di cui in un primo momento lo stesso Michele si era addossato ogni colpa. Gli altri due imputati, l’ex giornalista ora assessore della Regione Liguria e il penalista romano, già difensore per un breve periodo di Misseri, avrebbero messo in dubbio la correttezza di Galoppa e Bruzzone avallando la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto ad alterare la verità dei fatti. A querelare tutti erano stati la stessa Bruzzone e Galoppa, ora parte lesa nel processo, i quali hanno già anticipato di voler intentare un’azione risarcitoria in sede civile. La nota criminologa era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. Il giudice del Tribunale di Taranto dove si svolge il processo, Elvia Di Roma, ha fissato la prossima udienza per il 3 ottobre.

PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.

Veniamo alla notizia censurata dai media.

La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio.  Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”

A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.  

Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.

A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?

Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.

A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».

Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.

 Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio, dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».

La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...

Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.

Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Udienza conclusa con un decreto di citazione diretta in giudizio di fronte al giudice monocratico di Tivoli il giorno 3 ottobre 2016. Proc. N. 5860/2011 RGNT mod. 21. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa  dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm..   quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure   ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”),  hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.

Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».

E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.

In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.

"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”

Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.

Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».

Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo.  "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia".  Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

Questo è quanto riportato dalla stampa con verità, attinenza ed interesse pubblico.

Chi di processi ferisce di processo perisce, scrive Alberto Dandolo per Dagospia.  A Milano non si fa altro che parlare della citazione a giudizio della platinatissima criminologa Roberta Bruzzone nell’ambito di un procedimento penale a suo carico presso il Tribunale di Tivoli. La vispa professionista deve infatti difendersi dalle accuse di un suo ex compagno, Marco Strano che l’ha trascinata in tribunale in quanto, si legge nelle carte, ne avrebbe “ripetutamente offeso la reputazione…pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori”. Nei documenti si legge che la criminologa amata da Vespa e dalla Parodi deve difendersi dall’accusa che “utilizzava altresì più volte in maniera denigratoria l’aggettivo “strano” facendo chiaro riferimento alla persona del suo ex compagno, come nei seguenti post: “in effetti mi sembra proprio strano …questo impulso diffamatorio irrefrenabile…, “questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee”; e ancora sottolineava : “è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine”; “ non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all’estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…” ( post del 23.11.2010) , lo definiva, quindi un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9”, lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane, ed infine commentava, con riferimento alla nuova compagna straniera del querelante, che lui l’aveva affittata staccandone il cartellino ed acquistata in qualche compravendita di spose dall’est facendosi qualche foto con lei per far finta di avere una vita (post del 01-12- 2010).”

La criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori": ecco i post "incriminati", scrive Mario Valenza il 16/09/2015 su “Il Giornale”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9". Queste e altre dure espressioni sarebbero state Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Strano sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". E ora i post su Facebook potrebbero sbarcare in tribunale...

Tivoli, la criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione, scrive “Libero Quotidiano”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9": questa e altre frasi sono state rivolte da Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Egli sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". Come andrà a finire? 

Caso Marco Strano - Roberta Bruzzone - Bruno Vespa e milioni di inganni e sprechi ai danni della Polizia - Interrogazione "aperta" al capo della Polizia si legge sul sito internet di Polizia Nuova Forza Democratica. L'Organismo Sindacale Polizia Nuova Forza Democratica nasce con lo scopo di salvaguardare i doveri degli appartenenti alle Forze dell'Ordine e di tutelare i diritti di donne e uomini che hanno consacrato la propria vita professionale alla sicurezza di tutti i cittadini. Il legislatore, con l'approvazione della Legge 121/81, ha previsto la demilitarizzazione del Dipartimento Della Pubblica Sicurezza e il conseguente Ordinamento Civile della Polizia Di Stato, con l'obbiettivo di rendere tangibile la sinergia sociale tra cittadini e poliziotti. Il nostro Organismo P.N.F.D. condivide, con spirito di servizio, "l'animus del Legislatore" deputando proprio fondamento la collaborazione tra i tutori dell'ordine e la società civile. Il nostro statuto, non a caso, prevede l'iscrizione all'organismo P.N.F.D. sia per gli operatori della Polizia Di Stato, soci ordinari, sia per i rappresentanti del mondo del lavoro o associazioni che operano nel volontariato sociale, soci aggregati e onorari. Polizia Nuova Forza Democratica vuole essere la calcina che lega tutti i cittadini che, senza clamore, ogni giorno, con il coraggio dell'onestà compiono il proprio dovere costruendo il bene comune. Questa organizzazione sindacale intende costituirsi parte civile nei vari processi che, a partire dal prossimo dicembre, vedono imputata la c.d. "Ambasciatrice di Telefono Rosa" - Roberta Bruzzone che sarà giudicata dall'Autorità giudiziaria per aver indirizzato accuse di stalking, false e strumentali, attraverso denunce, poi archiviate, interviste televisive e sui giornali, migliaia di pagine di social networks, nei confronti di Marco Strano, funzionario di Polizia, moralmente e professionalmente incensurabile, per questo stimato a livello nazionale e internazionale e quindi lustro per la Polizia di Stato. Accuse che stanno provocando un crescente malumore tra i colleghi che ben conoscono la vicenda reale, completamente diversa da quella veicolata dai media. Le accuse di stalking si sono infatti rivelate poi assolutamente infondate, ma hanno ingiustamente gettato un'ombra sull'intera categoria degli appartenenti alla Polizia di Stato tanto che la magistratura ha approfondito - attraverso già due rinvii a giudizio di Bruzzone per diffamazione aggravata e attraverso altri procedimenti tuttora in fase di indagine per altri più gravi reati presso le Procure di Roma e di Tivoli (che riguardano anche soci e collaboratori della predetta) - come il contrasto con il collega Strano non fosse legato a vicende sentimentali, come si voleva far intendere (il collega è felicemente sposato da anni), ma molto più presumibilmente al fatto che quest'ultimo ha pubblicamente denunciato il business dei corsi di formazione. Neanche a farlo apposta, infatti, la suddetta organizza corsi attraverso il marchio AISF(Accademia Internazionale di Scienze Forensi) - marchio spesso citato anche nella trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa - solo apparentemente no-profit in quanto strettamente collegato con la SaS CSI-Academy (di cui Roberta Bruzzone risulta socio accomandante e che propone corsi e perizie forensi a pagamento): SaS che ha un logo pressoché identico a quello dell'Associazione pubblicizzata da Bruno Vespa e con cui condivide un sito web, situazione che potrebbe trarre in inganno milioni di telespettatori. Tutto ciò a nostro avviso dovrà essere analizzato attentamente innanzitutto dal Garante per le comunicazioni, per motivi di pubblicità occulta e di concorrenza sleale. Ma soprattutto: sarà "sicuramente casuale" che la società di Roberta Bruzzone risulti partner commerciale dell'azienda statunitense SIRCHIE e della società di rappresentanza italiana RASET - leaders in Italia nella commercializzazione di prodotti per criminalistica - e che il collega Marco Strano abbia intrapreso da almeno 5 anni una battaglia politico-sindacale finalizzata alla razionalizzazione della spesa pubblica nel settore dei prodotti per investigazioni scientifiche che, se andasse in porto, porterebbe un calo di fatturato di milioni di euro nelle predette aziende a vantaggio dell'Amministrazione della PS, i cui vertici purtroppo persistono invece nello sprecarli, a discapito dell'erario oltre che riducendo le potenzialità investigativo-scientifiche. Per quanto sopra esposto, chiediamo se il Capo della Polizia sia al corrente o meno della suddetta vicenda, quali iniziative abbia intrapreso e/o intenda intraprendere affinché sia ripristinato il prestigio della categoria e fatta luce su sprechi, privilegi e abusi che ne stanno seriamente minando le fondazioni.

Roma, 11 ottobre 2015 

F.TO
Il Segretario Nazionale per l'Italia centrale e gli uffici dipartimentali - FILIPPO BERTOLAMI

Il Segretario Nazionale Generale - Rappresentante Legale - FRANCO PICARDI

Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così».

Bruzzone porta in tribunale l'ex ris Garofano. E' guerra totale (per un affare di cuore), scrive di Giordano Tedoldi il 16 marzo 2016 su “Libero Quotidiano”. Da quando la criminologia è uscita da laboratori e aule universitarie per diventare un genere affine al "Processo del Lunedì" - con la sola differenza che nel salotto tv criminologico si dibatte se la macchie di sangue possano ricondursi all' imputato o siano solo succo di lampone - anche il criminologo, figura solitamente composta, taciturna, anche un poco sinistra, è diventato un personaggio del gossip pubblico e dello scazzo ipersensibile, insomma, siamo ufficialmente al volo degli stracci criminologici. E come ogni bella commedia prevede, c' è un protagonista maschile e uno femminile, l'un contro l'altra armati. Lei è, va da sé, Roberta Bruzzone, psicologa forense e "dark lady" dell'opinione televisiva a cadavere ancora caldo, spesso chiamata in trasmissione anche quando è più raffreddato. La dottoressa Bruzzone, che ha un caratterino in tono con la sua avvenenza diciamo così fiera, ne ha dette di cotte e di crude al suo pari grado - non in termini militari, perché quello è generale dei carabinieri benché in congedo, ma in termini di valore televisivo - vale a dire all' ex comandante del Ris Luciano Garofano, anche lui con un debole per le poltrone dei talk show, il quale ha reagito con una denuncia per diffamazione. L' antefatto era ricostruito ieri sul Secolo XIX da Marco Grasso, e, come per le persone comuni, dietro alla lite e alla convocazione davanti al giudice il prossimo 7 aprile, c' è un affare di cuore. Scrive il Secolo: «Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l'accusa di aver taroccato i titoli; lei a sua volta mette in discussione gli studi dell'uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione». Vabbè, fin qui ordinaria amministrazione di relazioni sentimentali che si sfasciano. Ma il comandante Garofano, incautamente, si schiera pubblicamente a difesa dell'ex compagno della Bruzzone. E si becca dalla collega criminologa una denuncia per diffamazione, con allegata lettera aperta al vetriolo in cui l'esordio è tutto un programma: «Dottor Garofano, porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell'Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo, non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». Ora, a onor del vero pare che il regolamento dei conti tra i due, più che sulla reputazione di un collega, verta sulla loro rivalità per il titolo di numero uno della criminologia televisiva. In questo i duellanti sono l'una il riflesso dell'altro: così alla denuncia della Bruzzone è partita quella opposta e simmetrica di Garofano per la velenosa epistola citata. E anche lui ha condito la denuncia per diffamazione con apprezzamenti alla collega: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo), faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». A commento di questa sapida commedia, un antico adagio latino: "simul stabunt vel simul cadent", "insieme staranno o insieme cadranno". Così passa la gloria criminologica edificata su una sequela di massacri: con un volo di stracci.

Bruzzone vs Garofano: la zuffa dei criminologi finisce in tribunale, scrive Marco Grasso il 15 marzo 2016 su “Il Secolo XIX". Si ritroveranno il prossimo 7 aprile, ma non in un salotto televisivo. La prossima puntata del duello più aspro della criminologia italiana si terrà davanti al giudice Marco Panicucci. Da un lato c’è la psicologa forense ligure Roberta Bruzzone, volto noto delle televisioni, citata a giudizio per diffamazione. Dall’altro un altro personaggio pubblico dello stesso settore, l’ex comandante dei carabinieri del RisLuciano Garofano, che si è rivolto alla magistratura dopo un post di Facebook in cui veniva definito «indegno di indossare la divisa» e «membro di un sodalizio criminale». A monte di questa guerra c’è una vicenda di cuore. Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente per dieci anni della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l’accusa di aver taroccato i titoli (polemica che peraltro solleva una questione di cui la categoria dibatte da anni, ovvero l’assenza di un albo professionale dei criminologi); lei a sua volta mette in discussione gli studi dell’uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione. La lite tra i due ex fidanzati va avanti a colpi di denunce reciproche e messaggi di fuoco sui social network, e finisce per coinvolgere anche colleghi come Garofano: l’ex militare, oggi consulente privato, si schiera apertamente con Strano, scatenando le ire di Bruzzone, che lo denuncia per diffamazione alla Procura di Roma e gli scrive una lettera pubblica, oggetto di questa seconda causa. «Dottor Garofano - esordisce la criminologa - porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo. Non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». La replica arriva subito dopo un intervento apparso sul profilo Facebook di Marco Strano: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti in ogni sede. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui, per inciso, il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo) faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». 

La criminologa di Vespa e gli affari con la polizia. Un sindacato: “Costose forniture alla Scientifica da azienda legata alla Ong di Bruzzone. E spot a ‘Porta a Porta’”. E poi continuano le polemiche dopo il servizio di “Report” sulla Corte Costituzionale. Rassegna stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 15, 1 dicembre 2015, di Ferruccio Sansa. Un esposto al capo della polizia Alessandro Pansa. Poi una lettera protocollata al ministro Angelino Alfano, al presidente della Commissione parlamentare Rai Roberto Fico e al presidente Rai Monica Maggioni. Titolo: “Caso Bruzzone-Vespa”. A scrivere un gruppo di dirigenti che si raccoglie dietro la sigla Polizia Nuova Forza Democratica. Che non per la prima volta critica i massimi vertici della polizia. Oggetto: pubblicità occulta, forniture di materiale per la polizia scientifica. E convegni organizzati presso la Questura di Roma da società private. Il principale bersaglio delle critiche è la criminologa Roberta Bruzzone, una delle regine del salotto politico più famoso d’Italia: Porta a Porta. Sì, la trasmissione di Bruno Vespa viene nominata più volte. Anche per la famigerata puntata in cui ospitò i Casamonica. Non sarebbero comportamenti illeciti, fino a prova contraria. Ma la lettera, visti i nomi in gioco, sta creando polemiche negli ambienti delle forze dell’ordine e della Rai. Mentre Bruzzone smentisce e annuncia querele. Primo: il sindacato punta il dito sui costi del materiale in uso alla polizia scientifica come la polvere per il rilievo delle impronte digitali. «Sarebbe possibile – si sostiene – acquistare prodotti della medesima qualità evitando i dazi doganali sui prodotti americani con un risparmio dal 20 al 30%». Che cosa c’entrerebbe Bruzzone? Da visure effettuate dal Fattonon risulta sia socia dell’impresa importatrice. Filippo Bertolami, segretario Pnfd, aggiunge però: «Dai siti Internet della società di Bruzzone emerge che l’importatore ha una partnership con la sua fondazione. Così come, peraltro, con lo stesso programma della tv pubblica Porta a Porta». Per questo il sindacato parla di «pubblicità occulta, svolta anche con magliette e sottopancia nel corso delle trasmissioni». Il punto: «L’Accademia internazionale di scienze forensi (una Ong che fa capo a Bruzzone, ndr.), che beneficerebbe di tale pubblicità ha un sito che trasferisce ad arte sul sito della Csi Academy, società di consulenza che si occupa di perizie e di formazione. Un’impresa con un logo quasi identico a quello dell’associazione no profit». Gli stessi soggetti che organizzano, riferisce Bertolami, eventi e corsi presso i locali della Questura di Roma: «Per i poliziotti di un sindacato sono gratuiti, ma tutti gli altri devono pagare. Chiediamo se sia possibile che un locale istituzionale sia utilizzato per iniziative a fini di lucro». Il Fatto Quotidiano ha raccolto le versioni di tutti gli interessati. Pubblicità occulta nel salotto più famoso della Rai? Bruno Vespa giura: «Mi pare impossibile. Sto molto attento. Se qualcuno l’ha fatto, non accadrà più. Stiamo attentissimi». Bruzzone aggiunge: «Quella lettera riferisce un mucchio di falsità. Ho già consegnato personalmente una lettera al capo della polizia per chiarire le cose». E la fornitura per la polizia scientifica effettuata da società legate a Bruzzone? «Se i prodotti costano più che se fossero comprati in America dipende dai dazi doganali e dalla spedizione», assicura il titolare. Fonti della polizia aggiungono: «Ci sono regolari gare». Ma quegli eventi realizzati negli uffici della Questura? «Il corso è organizzato da un altro sindacato. Ma se non sarà gratuito per tutti non concederemo gli spazi».

La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.

"Quei rapporti troppo stretti tra le Procure e i giornali". Stefano Zurlo il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Il giurista e le piaghe del sistema: molti contatti con la politica, magistratura non in grado di autoriformarsi. Una crisi senza fine. Una crisi che è la somma di molti problemi. La giustizia italiana naviga in acque tempestose, ma la soluzione non è dietro l'angolo. Il professor Sabino Cassese, uno de più noti giuristi italiani, compone un cahier de doléances in sette capitoli.

Professore, da dove cominciamo?

«Anzitutto, dai tempi dei processi. Negli Stati Uniti, la regola è che si percorrano i diversi gradi di giurisdizione nel giro di un anno. In Italia questa durata va moltiplicata per tre o per sette, a seconda dei tipi di giurisdizione. Questo fattore di crisi è prodotto dal ridotto numero di magistrati. Il Consiglio superiore della magistratura ha fatto una politica malthusiana. Nonostante che la magistratura sia l'unico settore dello Stato nel quale sia stato reclutato in modo ordinato, regolare e continuo personale, le dimensioni del reclutamento sono state sempre limitate. La seconda causa è il rendimento dei magistrati, perché il corpo della magistratura ha rifiutato valutazioni e misure dei rendimenti. E ciò nonostante che vi siano state, in Italia, best practices, come quella del tribunale di Roma, per qualche tempo, o come quella del tribunale di Torino».

Lei ha spesso sottolineato la dispersione dei magistrati, un tema generalmente sottovalutato.

«Sì, molti magistrati sono applicati in altri compiti. Il numero di quelli che non svolgono funzioni di accusa o di giudizio è alto. In particolare, il numero di magistrati che svolgono funzioni amministrative nel ministero della Giustizia, che appartiene a un altro potere, quello esecutivo, con la conseguenza di dispersione di preziose energie, da un lato, e anche dell'utilizzo di personale che non è stato scelto e selezionato per svolgere compiti amministrativi, ma per svolgere funzioni giudiziarie».

Veniamo al potere delle procure.

«Il terzo fattore di crisi è costituito dalle procure e dal modo in cui alcune di queste hanno stabilito rapporti con i mezzi di formazione dell'opinione pubblica, svolgendo quella funzione che viene chiamata «naming and shaming»: vengono iniziate indagini, se ne dà notizia agli organi di informazione dell'opinione pubblica, la durata di queste indagini oscilla in archi di tempo pluriennali, la procedura si conclude con un nulla di fatto o viene ridimensionata, ma intanto l'indagato è stato condannato».

Ma la politicizzazione di alcuni pm è leggenda o realtà?

«È una malattia endogena, che viene dall'interno e che colpisce in particolare alcuni procuratori. Per spiegarla, bisogna chiarire che i costituenti temevano l'influenza della politica sulla magistratura e hanno quindi organizzato un sistema di garanzie, che culmina nel Consiglio superiore della magistratura, che opera come uno scudo rispetto ad interferenze esterne. Se, tuttavia, i magistrati siedono in uffici amministrativi, e quindi operano all'esterno di questo scudo, oppure maturano aspirazioni a svolgere funzioni politiche, lo scudo non funziona».

Come arginare le manovre delle correnti al Csm?

«Il Consiglio superiore della magistratura è un organo para-parlamentare nel quale, paradossalmente, è proprio la componente magistratuale che si divide lungo linee partigiane. L'organo, che doveva soltanto essere uno schermo per evitare l'invadenza della politica, è diventato di autogoverno. Ora, assistiamo alla sua incapacità di porre rimedio ai propri errori funzionali».

Ma la magistratura è in grado di correggere queste distorsioni?

«No, nonostante sia composta da persone di prim'ordine, non è in grado di autoriformarsi. So che ci sono iniziative di gruppi di magistrati preoccupati dello stato attuale, che si incontrano per avanzare proposte di razionalizzazione. Sarebbe bene che proposte venissero rapidamente redatte, valutate, discusse, perché i rimedi debbono venire prevalentemente dall'interno. Ho grandissima fiducia sul nuovo titolare del ministero della Giustizia, che fin dai primi passi ha indicato i rimedi per risolvere il problema dei tempi della giustizia».

L'opinione pubblica è sempre più disorientata.

«È il settimo fattore. La percezione diffusa circa lo stato dell'ordine giudiziario è molto preoccupante. E i rimedi sono attesi con urgenza».

Tortora, Stasi, Amanda e gli altri: processati e condannati a mezzo stampa. La lunga galleria degli orrori del processo mediatico: quando il presunto colpevole è processato e condannato a mezzo stampa. Valentina Stella su Il Dubbio il 21 aprile 2021. «Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa in innocentisti e colpevolisti – in effetti la divisione non avviene sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, ma per impressioni di simpatia o antipatia. Come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Tortora in questo è un caso esemplare»: così scriveva il 5 maggio 1987 Leonardo Sciascia su El Pais. L’articolo iniziativa così: «Marco Pannella è il solo uomo politico italiano che costantemente dimostri di avere il senso del diritto, della legge e della giustizia» e forse anche per questo fu l’unico articolo di Sciascia che nessun quotidiano o periodico volle pubblicare. Ma questa è un’altra storia; però quelle parole sono significative di come il nostro Paese faccia da sempre fatica ad accettare un approccio laico e consapevole della giustizia. Un sintomo di questo giustizialismo etico e populista è proprio il processo mediatico: potremmo dire che prese il via proprio con Enzo Tortora. Era il 1983 e i militari, per trasferire il noto conduttore, accusato ingiustamente di associazione camorristica, nel carcere di Regina Coeli, aspettarono che fosse mattina presto per garantire ai fotografi la prima fila davanti all’Hotel Plaza e riprendere il giornalista con i ceppi ai polsi. Da allora è stato un susseguirsi di processi mediatici, che sempre più hanno invaso quella sfera che dovrebbe rimanere circoscritta nelle aule giudiziarie. Il 9 maggio 1997 la giovane studentessa Marta Russo fu raggiunta alla testa da un colpo di pistola che si rivelerà mortale, mentre passeggiava, in compagnia dell’amica Iolanda Ricci, in un viale dell’Università de La Sapienza di Roma. Mai come in quel caso la stampa ebbe la capacità di costruire i mostri, di spettacolarizzare gli eventi e di emettere la sentenza prima dei giudici. Come scrisse Francesco Merlo sul Corriere della Sera «dopo quelle politiche è questa la prima vera, grande istruttoria collettiva, una specie di apocalisse del delitto. Manca solo un numero verde per avere o dare suggerimenti ai pm o al questore o al capo della Mobile o, perché no?, agli imputati. È come se l’Italia intera dirigesse e seguisse le indagini, tutte le indagini minuto per minuto». Per quel delitto furono condannati  Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone. Quest’ultimo, scontata la pena, ottenne una cattedra all’Istituto Einaudi di Roma: vi rinunciò a causa del clamore mediatico. Il tribunale del popolo non perdona: sulla stampa la condanna è a vita, purtroppo. Nel 2002 ad irrompere nelle nostre case fu il delitto di Cogne: il piccolo Samuele Lorenzi, secondo una sentenza definitiva, fu ammazzato nel lettone da sua madre Annamaria Franzoni che lo colpì 17 volte probabilmente con un utensile di rame. Come non scordare l’ormai celebre plastico di casa Lorenzi a Porta a Porta: «Quando ci fu il delitto di Cogne i giornali pubblicarono la pianta della casa. Erano plastici su carta. Noi abbiamo fatto quelli veri», disse Bruno Vespa a Vanity Fair. Poi arrivò il delitto di Garlasco: il 13 agosto 2007 Chiara Poggi fu uccisa nella sua villetta di famiglia. Dopo cinque gradi di giudizio a finire in carcere è stato il fidanzato Alberto Stasi. La politica in quel mese non offriva spunti e quindi tutta l’attenzione venne data all’omicidio; persino Fabrizio Corona si recò nel piccolo paese in provincia di Pavia per contattare due cugine della vittima, finite per qualche giorno tra le sospettate non dei magistrati ma del popolo. Alberto Stasi fu subito lombrosianamente condannato dalla stampa, come ricordò lo scrittore Alessandro Piperno sul Corsera: «Mi chiedo se Alberto Stasi, frattanto, abbia fatto il callo alle sue mille foto apparse in questi due anni sui giornali. Nel qual caso a quest’ora saprà che non c’è centimetro quadrato del suo corpo né impercettibile dettaglio del suo contegno che non parli di colpevolezza: l’incarnato diafano, la sobrietà dei lineamenti, la sfuggente pudicizia, tutto lo rende l’interprete ideale del ruolo di Stavroghin in una eventuale trasposizione cinematografica de I demoni di Dostoevskij». Sempre nello stesso anno ma ad inizio novembre, fu Perugia a finire al centro della cronaca giudiziaria italiana e internazionale: la studentessa inglese Meredith Kercher venne ritrovata priva di vita con la gola tagliata nella propria camera da letto, all’interno della casa che condivideva con altri studenti, in via della Pergola 7. Il processo divenne una grande fiction: due giovani amanti  – Raffaele Sollecito e Amanda Knox – , il sesso, la droga e le notti brave. I media, imbeccati soprattutto dalla procura, si schierarono immediatamente sul fronte colpevolista: «No all’orgia e l’hanno uccisa» (La Stampa), «Tre arresti per Meredith: Sono loro gli assassini» (La Repubblica), «Meredith uccisa con il coltello di Raffaele» (Il Giornale), solo per citarne alcuni. Non erano loro gli assassini ma hanno fatto comunque 4 anni di carcere da innocenti, mentre la stampa li mostrificava. Questa immagine accusatoria non scomparve neppure dopo l’assoluzione definitiva della Suprema Corte di Cassazione. Basti leggere l’articolo di Marco Travaglio, pubblicato il 29 marzo 2015, dopo la sentenza finale, che continuava a sostenere che la verità sostanziale non è quella processuale, è che i due ragazzi sono gli unici a poter essere logicamente considerati concorrenti del Guede nel delitto di omicidio di Meredith Kercher. Un altro anno orribile fu il 2010: il 26 agosto ad Avetrana, in provincia di Taranto, venne uccisa la piccola Sarah Scazzi. Per la giustizia le colpevoli sono la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri. La vicenda ebbe un grandissimo rilievo mediatico, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere della vittima in diretta sul programma Rai Chi l’ha visto? dove era ospite, in collegamento, la madre di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo. Per non parlare del tour dell’orrore; per un periodo alcune agenzie di viaggio hanno offerto un pacchetto all inclusive: viaggio andata e ritorno, pranzo in trattoria, visita a casa Scazzi e villa Misseri, tappa veloce in chiesa, piccolo stop al cimitero dove riposa la vittima, infine il momento clou al pozzo dove era stata seppellita dallo zio Michele Misseri.Di sicuro la guida non avrà spiegato i termini giuridici della questione! Nello stesso anno ma qualche mese dopo, il 26 novembre, scomparve da Brembate, in provincia di Bergamo, Yara Gambirasio. Il suo corpo fu ritrovato esattamente tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Il 16 giugno 2014 viene arrestato Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore di Mapello incensurato di 44 anni. Probabilmente in questo caso si raggiunse il punto più alto del voyeurismo mediatico-giudiziario: il suo arresto fu mandato in onda da tutte le televisioni. Sono stati i dieci minuti più bui del perverso rapporto tra stampa e forze dell’ordine e procure. Qualcuno potrebbe dire «ma è colpevole”»: nessuno, neanche il peggior criminale, può essere privato della sua dignità come è accaduto a Bossetti, a maggior ragione se dietro la telecamera c’era un agente dello Stato. E arriviamo al 2015, a quel terribile 17 maggio quando a Ladispoli, in provincia di Roma, perse la vita il giovane Marco Vannini, colpito accidentalmente da un colpo di pistola sparato dal padre della fidanzata, Antonio Ciontoli. Il 3 maggio la Cassazione si pronuncerà per la seconda volta sul caso. Gli imputati, ossia tutta la famiglia Ciontoli, sono stati perseguitati dalla stampa: agguati sotto casa, sul posto di lavoro, per strada. A causa di questo hanno dovuto abbandonare l’abitazione e rifugiarsi separatamente in altre città. Ben tre ex Ministri – Bonafede, Trenta, Salvini – si sono esposti sul fronte colpevolista senza aspettare una sentenza definitiva. Qui, purtroppo o per fortuna, non siamo negli Stati Uniti dove due giorni fa, durante il processo per la morte di George Floyd, il giudice Peter Cahill ha bacchettato la deputata democratica Maxine Waters che nei giorni precedenti si era espressa a favore di una sentenza di colpevolezza per il poliziotto: «Mi piacerebbe che i rappresentati politici la smettessero di parlare di questo caso e di farlo in modo non rispettoso della legge», ipotizzando che i commenti della deputata «potrebbero rappresentare la base per un appello».

La cultura unica dell'accusa. Non spetta ai Pm informare l’opinione pubblica, l’imputato non può essere presentato come colpevole prima del processo. Valerio Spigarelli su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Il dibattito sulla Giustizia in Italia è contrappuntato da alcune questioni, che si trascinano da decenni in vesti apparentemente diverse ma dalla sostanza identica. Siccome la politica italiana non affronta i veri nodi, ogni volta si riparte da zero magari affidando ai giuristi, la cui capacità di sublimare il nulla è notoriamente prodigiosa, il compito di risolvere le questioni all’interno di pensose commissioni ministeriali che partoriscono soluzioni che la politica si incarica poi di banalizzare – quando le traduce in legge – e la giurisprudenza di vanificare attraverso l’interpretazione. Una sorta di gioco dell’oca in cui si riparte sempre dallo stesso punto. Il problema è che molte delle questioni, si pensi alla prescrizione, all’ergastolo ostativo, alla riforma del processo, vengono affrontate in nome di una visione del sistema penale fondata su una vera e propria distorsione. Il processo viene visto come uno strumento di difesa sociale e per tale motivo si carica di una serie di aspettative che finiscono per snaturarne le funzioni. Secondo la nostra Costituzione le persone si processano per stabilire se, rispetto a un determinato fatto, esse meritano le massime sanzioni che, in uno stato di diritto, possono essere applicate: perdita della libertà personale o dei propri beni. In altre parole, benché questo sia da molti decenni assolutamente negato dalla cultura diffusa, tanto da suonare oggi come una bestemmia sociale, i processi non servono a combattere fenomeni criminali se non in via indiretta. Per dirla alla maniera complicata dei giuristi, la prevenzione generale, cioè la carica deterrente che deriva dalla affermazione di responsabilità penale, non è questione del processo. Francesco Carrara, che aveva il dono della semplicità, spiegava che il codice di procedura penale è la legge per i galantuomini. Va sottolineato che, nelle aule delle università, e in quelle dei convegni giuridici, difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a sostenere il contrario. Viceversa, e l’esempio di Pier Camillo Davigo è illuminante in questo senso, eserciti di magistrati hanno predicato, se non a parole certamente nei fatti, l’esatto contrario. Si prenda la vicenda della custodia cautelare. A leggere le norme di riferimento – e i verbali delle commissioni ministeriali all’esito dei cui lavori quelle norme hanno guadagnato un surplus strabiliante di avverbi – essa dovrebbe essere uno strumento eccezionale, extrema ratio recita il breviario giuridichese. Soprattutto non dovrebbe mai essere applicata come una “anticipazione della pena” prima della sentenza di condanna, ciò in ossequio alla presunzione di non colpevolezza. Solo che se si consultano gli annali della giurisprudenza ci si accorge che il concetto è stato rimosso persino attraverso il ricorso all’inquisitorio concetto di abiura: se non confessi non recidi i tuoi legami criminali, pertanto sei pericoloso e dunque rimani in carcere. Peraltro la stessa idea arretrata, rimodulata sull’ordinamento penitenziario, ha corroso la funzione della pena, come dimostra la vicenda dell’ergastolo ostativo da poco dichiarato, sia pur a termine, incostituzionale, dopo anni di indefessa applicazione. La verità è che per il diritto vivente la custodia cautelare è quella anticipazione della pena che la Costituzione non vorrebbe e lo è proprio perché la magistratura italiana, da decenni, sposa l’idea del processo come strumento di difesa della società. Per questo, di fronte all’incerto destino della pena a causa della irragionevole durata del medesimo, si preferisce applicare il motto “pochi, maledetti e subito”, caro ai bottegai romani. Altro che extrema ratio. È un problema di cultura, si sarebbe detto negli anni Settanta, una cultura autoritaria ove peraltro regna una logica capovolta: più è grave il reato meno garantiti sono il processo e la pena. Ciò travolge anche la presunzione di non colpevolezza. Nella maggior parte dei paesi occidentali, e secondo le convenzioni internazionali, questo è un principio fondamentale che garantisce il soggetto debole, l’imputato, di fronte alla straordinaria potenza dello Stato che lo accusa. Violando questo principio si finisce per alterare i meccanismi decisionali del Giusto processo e dunque del prodotto finale, la sentenza. Presentare l’imputato come un colpevole, dunque anche diffondere elementi di prova come intercettazioni, filmati e via discorrendo prima del processo vero e proprio, letti in funzione accusatoria, nel corso di conferenze stampa indette dai pm, viola quel principio. Il corto circuito che nel nostro paese si verifica da decenni su questo tema è troppo evidente per insistere, semmai è importante sottolineare che anche le ragioni che la magistratura italiana adduce per giustificare tali pratiche, cioè da un lato il dovere da parte degli organi giudiziari di informare direttamente la pubblica opinione e dall’altro di consentire un controllo pubblico dell’etica della classe dirigente, sono espressioni della medesima visione culturale del processo come strumento di difesa sociale che snatura la funzione giurisdizionale, anche perché fatalmente porta alla ricerca del consenso all’azione giudiziaria. I magistrati sono sottoposti alla legge e solo alla legge, per questo sono indipendenti, se cercano il consenso sociale – in qualche caso pretendono, vedi la stagione di mani pulite e l’epica antimafia – ciò dipende proprio da quella distorta visione del processo. Identica matrice si ritrova anche nella opposizione alla separazione delle carriere tra giudici e pm largamente maggioritaria nella magistratura italiana. Accusare e giudicare sono questioni diverse e l’una deve essere autonoma e indipendente dall’altra. Non è faccenda di rapporti di colleganza o di caffè consumati assieme al bar come, con micidiale idiozia, concionano avversari o supporter della separazione delle carriere, ma di rapporti di potere all’interno del medesimo ordine. Rapporti di potere reali, effettivi, che possono condizionare l’esercizio del soggetto fatalmente più debole – se non altro perché privo dell’impressionante dotazione repressiva, in uomini, mezzi e soprattutto norme, in dotazione alle Procure – cioè il giudice. Il che rende evanescente quella funzione di terzietà che solennemente la Costituzione proclama all’articolo 111. Il pensiero, su questo tema, corre al Palamaragate, ma anche alle vicende legate alle dichiarazioni del Procuratore Gratteri e a quelle del processo Eni a Milano, e non occorre aggiungere altro. Terzo significa equidistante da un punto di vista valoriale, cioè indifferente alla prevalenza delle ragioni punitive dello Stato o a quelle di libertà dell’imputato. Di nuovo una questione culturale, di cultura dei soggetti processuali, che deve essere unica per tutti: pm, giudici, avvocati e, si parva licet, anche di chi si occupa della informazione giudiziaria. La pretesa di identificare nella magistratura, e solo nella magistratura, la depositaria di una cultura unica, la mitica e vaporosa cultura della giurisdizione, che legittimerebbe l’unitarietà delle giudici/pm in un solo corpo giudiziario, di nuovo affonda nella distorta visione della funzione giudiziaria come scudo della società nei confronti dei fenomeni devianti. Insomma, l’identificazione della giurisdizione nel suo complesso con l’azione dell’accusa, il gigantismo delle procure, la ricerca del consenso da parte dei pm, l’utilizzo incostituzionale della custodia cautelare come anticipazione di pena, lo straordinario e prolungato utilizzo delle intercettazioni, e molto altro ancora sono il frutto della medesima idea, quella del processo come strumento di difesa sociale che pervade la magistratura italiana. Per cambiare questa idea l’unica maniera è creare le condizioni strutturali affinché se ne affermi una diversa. Ciò significa non solo modificare l’ordinamento della magistratura separando giudici e pm, ma anche rendere la magistratura stessa diversa da quella corporazione chiusa che è. Se la figura del pm è ormai dominante, fuori e dentro il processo, la responsabilità, infatti, non è solo di un legislatore bislacco esposto a ogni refolo di populismo giudiziario, ma della giurisprudenza, che è parto dei giudici, non dei pm. Sono loro che devono cambiare cultura, e per farlo devono prima perdere il monopolio assoluto della giurisdizione attraverso un significativo accesso laterale di soggetti diversi, non monopolizzati dalle pratiche correntizie fin dall’ingresso come uditori – come abbiamo appreso da Palamara che su questo non è stato smentito da nessuno – e non condizionati da una idea palingenetica dell’azione giudiziaria. Questo è compito della Politica che non può essere delegato alle commissioni ministeriali. Valerio Spigarelli

Il monito del giudice. “Basta processi show, servono solo a Pm vanitosi”, l’accusa del giudice Nicola Russo. Viviana Lanza su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Quando era giudice della sezione penale del Tribunale di Napoli fu nel collegio che si occupò di uno dei più grandi processi per corruzione degli ultimi anni, quello sulla presunta compravendita di senatori nel 2008: un processo che fu anche uno dei casi giudiziari più mediatici del tempo. «All’epoca facemmo una scelta di controtendenza – spiega Nicola Russo che presiedeva il collegio quando, nel 2014, il processo approdò al primo grado – Scegliemmo di non ammettere le telecamere durante il dibattimento e scrivemmo un’ordinanza con la quale motivammo le ragioni per le quali ritenevamo che l’intrusione mediatica durante le testimonianze avrebbe nociuto al processo. Fu una decisione presa nonostante tutte le parti (pubblica accusa, parte civile e difesa) chiedessero invece di autorizzare le telecamere». In quel processo l’accusa era rappresentata dal pm Henry John Woodcock, nel pool assieme ai magistrati Vanorio, Piscitelli e Milita. Tra gli imputati c’era Silvio Berlusconi che fu poi assolto nei successivi gradi di giudizio per prescrizione. Gli unici a evitare di esasperare la mediaticità del caso furono, dunque, i giudici: «Fummo gli unici a difendere questa posizione – ricorda Russo – E ancora oggi ritengo che quella fu una scelta giusta, perché quello che noi giudici dovevamo preservare nei limiti del possibile era la genuinità delle prove e del processo. L’informazione ci sarebbe comunque stata, perché avevamo consentito a Radio Radicale di ascoltare le testimonianze (che è cosa diversa dal diffondere le immagini del processo) e alle udienze c’erano anche giornalisti per cui non fu vietata la comunicazione sul processo. Fu vietata la sovraesposizione del processo che è qualcosa che si deve evitare laddove è possibile, altrimenti tutto viene enfatizzato: i ruoli delle parti, le dichiarazioni, anche la serenità di chi deve giudicare viene emessa a dura prova se si sta sotto le telecamere tutti i giorni». Nicola Russo, oggi consigliere della Corte di Appello di Napoli, ex giudice della sezione penale e già componente del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, fa con Il Riformista una riflessione sulla mediaticità dei processi, sullo sbilanciamento verso la fase delle indagini più che del dibattimento, sul cortocircuito che spesso si crea tra informazione e spettacolarizzazione quando si parla di casi giudiziari. In nome del popolo mediatico (se pure i magistrati smettono di affidarsi al processo) è il titolo di un suo intervento sulla rivista Questione Giustizia che ha destato particolare attenzione. «Purtroppo la percezione del bisogno di conoscenza nella collettività si è trasformata, è quella di dare l’informazione subito e a prescindere da ciò che avverrà dopo. Perché ciò che conta è creare attorno al fatto una comunicazione, che poi questa comunicazione venga superata da altri fatti diventa quasi irrilevante». Di qui le gogne mediatiche, gli errori giudiziari, le vittime di una giustizia sommaria. «Si rincorre l’immediatezza della notizia invece di avere la pazienza di aspettare che sia il processo a dare le risposte e si rischia così che il fatto si risolva nel breve tempo e nel breve spazio di una notizia giornalistica finendo per sostituire il processo. La sovraesposizione – spiega Russo – è un danno che si crea all’immagine della giustizia». Ai magistrati invece può portare qualche vantaggio? «Credo che la visibilità possa servire a fare carriera più fuori dalla magistratura, magari nella politica».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Dibattimento mediatico e giuria del popolo: processo all’italiana sul caso Grillo jr. Il processo vero non è ancora iniziato ma la macchina mediatico-giudiziaria è quasi arrivata a sentenza. Tutto sulla pelle di un ragazzo e una ragazza. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 aprile 2021. Il processo non è mai iniziato, il dibattimento sì. Sui media. Difesa e accusa di Ciro Grillo e della sua presunta vittima scelgono di anticipare il confronto fuori dall’aula di Tribunale, producendo fantomatiche prove, ascoltando improvvisi testimoni e lanciandosi in arringhe via social. Inizia Beppe Grillo, padre del maggiore indiziato, convinto che il figlio non abbia «fatto niente», riconoscendo al massimo la colpevolezza per il reato di “coglionaggine”, nuova fattispecie creata appositamente dal garante M5S per quattro «ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello». La vittima? Nessuna vittima per “l’avvocato” Grillo, la ragazza era certamente consenziente «perché una persona che viene stuprata la mattina, al pomeriggio va in kitesurf, e dopo 8 giorni fa una denuncia. È strano». Cala il gelo in “aula” per qualche istante. Poi sono la mamma e il papà della ragazza a rispondere al comico, definendo la sua arringa «una farsa ripugnante». «Cercare di trascinare la vittima sul banco degli imputati, cercare di sminuire e ridicolizzare il dolore, la disperazione e l’angoscia della vittima e dei suoi cari sono strategie misere e già viste», aggiungono. Processo finito? No. Perché c’è ancora un genitore che non ha parlato. E Parvin Tadjik, moglie di Grillo, presente nella villa dove sarebbe stato consumato l’abuso, vuole aggiungere qualcosa, per replicare a Maria Elena Boschi (tra i tanti membri di un’immaginaria giuria popolare): «C’è un video che testimonia l’innocenza dei ragazzi, dove si vede che lei è consenziente, la data della denuncia è solo un particolare», rincara la donna. E tra un commentatore e l’altro interviene un altro avvocato, questa volta vero, della ragazza: «Porterò il video di Beppe Grillo in Procura perché reputo che sia una prova a carico, documenta una mentalità», dice Giulia Bongiorno. Prova a carico di chi non è chiaro, visto che sotto indagine c’è Ciro e non Beppe. Del resto, sono tanti gli elementi poco chiari in questa vicenda in cui vittime e carnefici si confondono nelle urla del processo in piazza.

Il giornalismo spietato contro Grillo e Boda. Il figlio del comico subisce un processo a mezzo stampa. Come lo ha subito la dirigente del ministero dell'istruzione indagata per corruzione. E' ora che procure e giornalismo separino le carriere. Davide Varì su Il Dubbio il 20 aprile 2021. Il messaggio è duro. Ed è rabbioso. A tratti appare come la rabbia dolente di un padre che da anni assiste al processo (per ora tutto mediatico) al proprio figlio accusato di stupro. Uno stillicidio quotidiano con titoli sparati e foto impietose. «Mio figlio è su tutti i giornali come stupratore seriale insieme ad altri tre ragazzi. Se fossero veri stupratori seriali li avrei portati io in galera a calci nel culo», ha infatti urlato nel suo breve video: un minuto, o poco più, di urla. Un flusso ininterrotto di accuse. È un dolore vero, quello del comico. Forse sguaiato e con tratti di insopportabile di misoginia. E’ un dolore che non ha tenuto conto di chi ha denunciato quella violenza. Ma tutto questo sarà esaminato in un’aula di tribunale, non siamo qui a emettere sentenze. Anzi, è esattamente quello da cui dobbiamo tenerci alla larga. Qualcuno in queste ore ricorda a Grillo che lui e suo figlio stanno subendo lo stesso trattamento che i suoi militanti hanno riservato a decine, centinaia di persone indagate e processate a mezzo stampa. Potremmo ricordarglielo anche noi del Dubbio, ma sbaglieremmo perché ora Grillo è dall’altra parte della sbarra, dalla parte dell’imputato. La vicenda del figlio di Grillo arriva pochi giorni dopo il tentato suicidio di Giovanna Boda, la dirigente del ministero dell’Istruzione indagata per corruzione che si è gettata dallo studio del suo avvocato dopo aver visto altri titoloni e altre foto impietose di un’indagine ancora in corso. Sono storie dolorosissime che ricordano a tutti noi quanto sia indispensabile e urgente che i giornalisti si tengano ben lontani dai magistrati. E viceversa. E forse, come qualcuno ha già detto, è questa la vera e più urgente separazione delle carriere che va realizzata.

«La gogna ha quasi ucciso Giovanna: non sia più la regola in questo Paese». Intervista alla senatrice Paola Binetti, che ha annunciato un'interrogazione parlamentare sul caso di Giovanna Boda, la dirigente del Miur che ha tentato il suicidio dopo aver saputo di essere indagata. Simona Musco su Il Dubbio il 13 maggio 2021. Un’interrogazione parlamentare affinché il corto circuito mediatico-giudiziario che ha portato Giovanna Boda a tentare il suicidio non si verifichi più. Ad annunciare al Dubbio l’iniziativa è la senatrice di Forza Italia Paola Binetti, intenzionata a far sì che quanto accaduto all’ex dirigente del Miur non accada più. La storia è nota: Boda, ad aprile, si è gettata dal secondo piano di un palazzo a due passi dal centro di Roma, a poche ore dalla perquisizione disposta dalla procura di Roma per un presunto giro di corruzione che la vedrebbe protagonista assieme ad una sua collaboratrice e all’editore dell’agenzia di stampa Dire. Uno shock immenso, il suo, sbattuta sui giornali come l’ennesima furbetta da mortificare pubblicamente in modo esemplare. E ciò nonostante le accuse a suo carico siano ancora tutte da verificare. Un’indagine appena partita che ha già provocato una marea di conseguenze gravissime. «L’unica cosa che vorrei è capire come restituire giustizia ad una persona coinvolta in una vicenda che, a mio avviso, ha dei contorni drammatici», spiega Binetti, che oltre ad essere una politica è anche neuropsichiatra. Ed ora vuole evitare che la gogna rimanga la regola nel nostro Paese.

Senatrice, perché le interessa tanto il caso di Giovanna Boda?

Perché non c’è solo l’accusa che è stata perpetrata nei suoi confronti, ma anche quel tentativo di suicidio. C’è stata, evidentemente, una sofferenza di cui probabilmente porterà le tracce a lungo su di sé. Il mio unico desiderio è capire come poter essere utile alla verità delle cose, alla giustizia dei fatti e ristabilire, in qualche modo, un ordine in eventi che si sono creati prima ancora di essere interpretati correttamente. Fatti sbattuti subito in prima pagina. È un desiderio di chi ha conosciuto Giovanna Boda, in tanti momenti, in tante situazioni e ne ha apprezzato l’intelligenza.

Che persona è?

La prima volta che l’ho vista è stato durante il secondo governo Prodi: lei ha organizzato una delle prime navi della legalità, portando a Palermo tanti studenti, nel luogo stesso in cui, per l’immaginario collettivo, c’è stata la maggiore offesa e trasgressione alla legalità. Tutte le volte che sono entrata in contatto con lei ho sempre trovato una persona disponibile, generosa, capace di farsi in quattro e allo stesso tempo coraggiosa. Una persona di quelle che siamo contenti di avere nella pubblica amministrazione, perché non si muoveva a rallentatore in quelle che sono le ganasce di una burocratizzazione un po’ inerte. Non era una di quelle che diceva “non si può fare”, come spesso accade quando ci si avvicina ad un problema un po’ più complesso. Mi ha colpita molto e mi rallegro che sia uscita da qualunque tipo di rischio, anche se non escludo affatto che porterà a lungo le conseguenze di quel gesto. Le fratture ci sono, ma non sono solo fisiche: sono anche nell’anima. Davanti ad un’incomprensione che l’ha spinta a questo bisogno di fuga vuol dire che quelle ferite sono state profonde, non una minaccia epidermica.

Come ha saputo di questa vicenda?

Dai giornali. Avevo visto Giovanna un mese prima circa, non avrei pensato mai una cosa del genere. È stato esplosivo.

Cosa ha pensato?

L’idea di aver associato immediatamente l’accusa di corruzione con quella risposta, il tentativo di suicidio, ti fa rendere conto di quanto deve essere stata forte questa aggressione. Di quanto deve essere stata devastante questa accusa per lei. Di gente accusata di reati contro la pubblica amministrazione ce n’è tanta in giro, ma se si percepisce la cosa in maniera così infamante da mettere a repentaglio la propria vita, vuol dire che l’umiliazione subita, la ferita subita, è così profonda da non aver trovato vie di scampo, vie di fuga. Non c’è nessuno che le abbia detto che le cose si sarebbero potute chiarire. È come se le avessero sparato addosso una tale carica di rischio che in quel momento ha preferito fuggire. Non c’è nessuna accusa che possa permettere di capire perché una persona arrivi a mettere a repentaglio la propria vita, se non una percezione di sé così limpida, così onesta che anche un solo rischio di compromettere la propria immagine fa sembrare la vita non più degna di essere vissuta. Mi sono chiesta: quanto è giusta una giustizia che spinge una persona a fare questo?

In questo caso è il cortocircuito mediatico che gioca anche un ruolo importante: il suo nome è finito sui giornali e non sono mancate ricostruzioni e parallelismi con casi clamorosi, come la vicenda Palamara.

Esattamente. La notizia dell’accusa è stata data contestualmente al tentativo di suicidio: è come se non le avessero lasciato alcuna speranza.

Quali iniziative ha intenzione di intraprendere?

Ho intenzione, nel suo interesse, di fare un’interrogazione parlamentare.

Cosa chiederà?

Chiederò tre cose. Che ci sia una maggiore discrezione, quindi evitare fughe di notizie da parte dei magistrati, perché qualcuno l’avrà detta questa cosa alla stampa. Chi permette che ciò accada? La prima riserva è dunque precauzionale. La seconda è chiedere che la stampa rispetti maggiormente il proprio codice etico. Se noi non abbiamo tutti gli elementi non possiamo permettere che si faccia carne da macello con la buona fama di una persona. La stampa è partita con un tempismo pazzesco, in tempo reale. Vuol dire che qualcuno ha detto e qualcuno ha voluto. Ma i diritti valgono solo a senso unico o possono essere manipolati a puro scopo di lucro?

La terza questione qual è?

Giovanna è stata per molto tempo il direttore generale della Pubblica istruzione, con delega agli studenti. Sono decine di migliaia i ragazzi che l’hanno avvicinata, l’hanno conosciuta e hanno partecipato alle iniziative da lei promosse. Che cosa resterà dentro di loro di tutto ciò? Se, come mi auguro, si dimostrerà la sua piena innocenza, quali saranno per loro le conseguenze della consapevolezza di come una persona può essere massacrata? Io spero con tutto il cuore che nel momento in cui si dimostrerà la sua assoluta innocenza meriti una restituzione, non da dodicesima pagina in basso a sinistra.

Quello è il rischio.

Spero meriti la restituzione di una dignità piena, perché attraverso di lei si sono colpite anche molte intelligenze giovani, molta passione civile da parte dei ragazzi. E abbiamo alla base questa drammatica vicenda che ogni tanto si crea, l’associazione assai poco sana tra una certa magistratura e una certa stampa, che invece di essere al servizio della verità corre il rischio di essere al servizio dello scoop.

Questo ha a che fare anche con la riforma della giustizia e il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza?

Esattamente. Noi dobbiamo essere garantisti e sostenere una persona, nel momento in cui c’è un avviso di garanzia. Non possono confondere la comunicazione dell’indagine con la comunicazione della condanna. Bisogna fare capire al cittadino onesto che non bisogna aver timore della giustizia. Ma è evidente che in una situazione del genere il timore di una giustizia ingiusta abbia presidiato gesti come quello di Giovanna che, non dimentichiamolo, ha una bimba di tre anni. Ma poi mi domando: si sta compiendo un’indagine, che bisogno c’è di trasformarla in un processo mediatico?

Ci sono due problemi: da un lato il fatto che il garantismo venga percepito in maniera distorta, come se chi lo professa chiedesse l’impunità per feroci criminali, dall’altro c’è anche un problema mediatico. Come si risolve questa situazione?

Noi siamo davanti ad un’informazione che è sempre più spregiudicata. Per carità, per me il giornalismo d’inchiesta è fondamentale, ma ribadisco: ci deve essere un codice etico. È assolutamente ingiusto sbattere il mostro in prima pagina, anche se si tratta di personaggi pubblici. Se si vuole stigmatizzare un fatto in modo esemplare prima bisogna avere tutte le garanzie e la certezza che ciò che si sta dicendo è vero. Perché se è falso si contraddice il più profondo dei principi del buon giornalismo. E in questo caso falsificare i fatti, che significa forzarli prima ancora di averli verificati, è confondere l’intuizione con una dimostrazione. Il sospetto si può avere, ma va verificato. Perché tutto questo ha un costo altissimo. Per questo vogliamo la riforma della giustizia.

Remissione dell’inquirente che dà l’indagato per colpevole? Il patto fra toghe vanificherebbe il rimedio. Come intervenire quando a violare la presunzione d’innocenza, nelle dichiarazioni alla stampa, è lo stesso pm titolare dell’indagine? Si tratta della principale sfida posta dalla direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza, che l’Italia ha finalmente recepito. Il deputato di Azione Enrico Costa propone la “remissione” del fascicolo ad altro ufficio. Ma la naturale solidarietà fra magistrati rischia di vanificare il rimedio. Alessandro Parrotta su Il Dubbio il 23 aprile 2021. Circa un mese fa, su queste stesse pagine, il collega avvocato, deputato di Azione ed ex viceministro della Giustizia Enrico Costa sollevava il problema del mancato rispetto della presunzione d’innocenza all’interno degli assetti giudiziari. Secondo l’onorevole Costa, il principio della presunzione d’innocenza verrebbe costantemente e sistematicamente compresso nonché, per certi versi, violato ogni qual volta venga strumentalizzata, quale oggetto di mediatizzazione, l’azione penale, anche tramite l’anticipazione di atti d’indagine o lo svolgimento di simulazione di processi in tv, esponendo inevitabilmente alla pubblica gogna persone innocenti, rectius, indiscutibilmente innocenti fino alla conclusione dei tre gradi di giudizio o della cosiddetta sentenza passata in giudicato.. O, almeno, così dovrebbe essere ai sensi dei codici sostanziale e di rito. Nota è nel nostro Paese la tendenza a rendere i processi dei veri e propri spettacoli, lanciati in pasto alle opinioni della massa, a consulenti e periti che operano plastiche ricostruzioni e fingono conclusioni, calpestando ogni forma di diritto alla presunzione di innocenza. Ma simili violazioni avvengono in primis, e in maniera più distruttiva per la vita dell’indagato, quando il pubblico ministero tende a mediatizzare il procedimento di sua competenza, allorquando le parole spese dal medesimo dinanzi i microfoni attengono a tempi verbali propri dell’indicativo, più che del congiuntivo o condizionale. “Sono colpevoli di…” in luogo di “pare che siano colpevoli di…”. È vero che chi parla è un magistrato, ma non è il giudicante, viceversa una parte processuale che siede al lato opposto dell’avvocato, la difesa privata.

Il rimedio ipotizzato da Costa: la remissione del procedimento. Costa evidenzia un problema, insomma, di cui non si può non condividere l’assunto. In particolare, nella summenzionata intervista, il deputato di Azione propone di introdurre un istituto, che egli stesso definisce “remissione”, con il quale il procedimento passa dal magistrato inquirente macchiatosi di eccessiva eco mediatica a un nuovo ufficio. L’istituto così definito è figlio di un legittimo spirito garantista che, come si evidenziava sopra, viene spesso calpestato. A questo punto però è necessario chiedersi come una cosiddetta “remissione” del magistrato inquirente possa funzionare e se, in concreto, siffatto istituto possa rivelarsi utile per l’indagato. A tal fine procederemo per step secondo quelli che sono i maggiori interrogativi che una simile riforma comporta. La remissione interverrebbe solo nel caso di mediatizzazione del processo o ogniqualvolta ci sia un “calpestamento” della presunzione di innocenza? Probabilmente, sarebbe auspicabile una restrizione dell’ambito di applicazione alla sola mediatizzazione del procedimento o a poche altre evidenti e tassative ipotesi. La ratio è lapalissiana: ampliare eccessivamente l’ambito oggettivo di applicazione della remissione rischia di compromettere il carico per le autorità giudiziarie, le quali, già sufficientemente stressate, si ritroverebbero molto probabilmente invase di richieste di remissione del magistrato inquirente. Per ovviare a ciò pare necessario che i confini dell’istituto ivi ipotizzato siano definiti con precisione chirurgica, non solo per quanto detto poc’anzi, ma anche e soprattutto perché non bisogna dimenticare come il pm sia un magistrato con il compito di rinvenire elementi tanto a carico quanto a discarico del prevenuto ( come la Costituzione insegna) e, ancor prima, la verità. Pertanto, così come un avvocato può essere convinto dell’innocenza del proprio assistito, parimenti il procuratore può essere altrettanto convinto della colpevolezza dello stesso, a volte innamorandosi del castello accusatorio al punto da poter manifestare in taluni ambiti simile convinzione, che, inevitabilmente, collide con la presunzione di innocenza. Pertanto, è auspicabile che solo laddove la violazione del diritto alla presunzione di innocenza sia manifestamente palese e manifestamente lesiva per il soggetto indagato/ imputato, intervenga l’istituto della remissione, e non già quando il pm eserciti l’azione penale senza aver realmente valutato tutte le circostanze. Come potrebbe essere proposta ed esaminata l’istanza. A questo punto è necessario domandarsi chi abbia la facoltà di azionare l’istituto della remissione. È pacifico affermare, senza eccessive elucubrazioni, che l’istituto possa essere fatto valere dal soggetto che vede lesa la propria presunzione di innocenza, ossia la persona indagata/ imputata, la quale, si ipotizza, potrebbe presentare una istanza dinanzi l’autorità procedente affinché questa si esprima nel merito dell’asserita lesione. In ordine a quest’ultimo aspetto, al fine di non rallentare eccessivamente i procedimenti, è necessario che la questione attorno alla remissione si risolva in breve tempo, anche allo scopo di evitare distorsioni. A tal fine è possibile ipotizzare che, successivamente alla presentazione di una memoria ad hoc ad opera della difesa, l’organo giudicante procedente, esaminata la questione, si esprima sull’accoglibilità o meno, per poi rimandare eventualmente a una successiva udienza per la trattazione nel merito, sentendo le parti entro un termine di giorni dalla presentazione della richiesta. Il vero interrogativo: a chi va trasferito il fascicolo? In terzo luogo è necessario definire a chi il fascicolo debba tradursi. In ordine a quest’ultimo aspetto, infatti, le insidie non sono poche. Ipotizziamo infatti che, successivamente a un vittorioso esperimento di remissione, il fascicolo sia trasferito ad altro procuratore facente parte della stessa Procura, o della stessa area di competenza. Premesso che il trasferimento del fascicolo nell’ambito dello stesso Tribunale, e quindi Procura, è inevitabile e necessario, a maggior ragione se vi è già un giudice “precostituito per legge”, siffatto rimedio potrebbe finire per risultare del tutto sterile. Si immagini la traduzione di un fascicolo dall’ufficio del procuratore Tizio a quello del procuratore Caio, suo vicino di stanza all’interno dello stesso Palazzo di Giustizia. È evidente che simile trasferimento, in simili casi, rischia di essere sostanzialmente inutile, soprattutto in quei Tribunali di piccole dimensioni in cui il numero di magistrati inquirenti si conta sulle dita di una mano, e laddove un cambio di paternità del fascicolo non garantisce in nessun modo un cambio di atteggiamento nei confronti della causa, visti gli inevitabili legami tra magistrati inquirenti. Pertanto, è nella sostanza utile un cambio formale di paternità del fascicolo? A parere di chi scrive la risposta deve trovare segno negativo, non garantendo simile traduzione del procedimento, oltre tutto, il rispetto di garanzie di innocenza che, in ogni caso, risulterebbero già violate e non più ripristinabili in forza della remissione. È possibile trarre qualche spunto da un istituto già presente nel nostro ordinamento, che è la ricusazione del giudice. La ricusazione interviene in quelle situazioni in cui la presenza del soggetto giudicante è in una posizione tale che ne inficia irrimediabilmente la sua neutralità. In un istituto come quello ipotizzato, invece, la remissione interverrebbe solo una volta dimostrata la violazione del diritto alla presunzione di innocenza da parte del magistrato inquirente, rendendo del tutto vana una traduzione del fascicolo che interverrebbe solo ex post il fatto lesivo. Insomma, posta in questi termini la remissione appare più come una “punizione” per il pm, che un vero rimedio di salvaguardia delle garanzie processuali e non può dirsi uno strumento veramente utile a cui far ricorso, dovendosi le soluzioni ricercare altrove, a maggior ragione se si considera che la contropartita si risolverebbe in un inevitabile appesantimento dei processi e non semplice modifica del codice di rito.

Il giudice è soggetto soltanto alla legge. Caro Pignatone, informare non è compito dei Pm. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Nell’eterno dibattito sulla giustizia e, in particolare, sul rapporto tra processo penale, informazione e garanzie dell’indagato/imputato si sono registrate negli ultimi giorni almeno tre novità legate alla decisione parlamentare di recepire nel nostro ordinamento la direttiva UE 2016/343. La prima è il fatto in sé. La direttiva del 2016 languiva in attesa che le si desse adempimento da alcuni anni, gli ultimi tre dei quali il nostro paese è stato in patente violazione dell’obbligo di darvi esecuzione (fissato dalla direttiva stessa al 2018). Un inadempimento grave, che gli ultimi governi hanno ignorato, a cominciare dai titolari del dicastero della Giustizia, benché esso riguardasse il rispetto di principi fondamentali di civiltà giuridica e imponesse anche la previsione di procedure (rimedi effettivi) nel caso della loro violazione. La seconda novità riguarda invece il contenuto della previsione, che impone, come ormai a tutti noto, che, «le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole» (art. 4). Si tratta di un obbligo – peraltro conforme all’articolo 27 della nostra Costituzione – che si applica per le dichiarazioni al di fuori, ma anche nel processo. La terza novità è che la direttiva è rivolta espressamente alle autorità pubbliche e ai magistrati, non riguarda cioè la libertà di stampa o di cronaca, ma i doveri di ufficio dei soggetti pubblici che ruotano intorno all’amministrazione della giustizia. Nel far ciò la direttiva, benché non pare sia stato messo in luce da nessuno, delimita anche il campo di quelle che possono essere le “dichiarazioni pubbliche rilasciate dall’autorità”. E afferma un principio molto chiaro: tali dichiarazioni sono ammissibili solo se funzionali ad esigenze del processo, non per dare una generica informazione all’opinione pubblica. Perché il diritto all’informazione è assicurato dalla pubblicità, qualora sia prevista, degli atti giudiziari, non da un’attività informativa generale che non è compito delle autorità pubbliche, le quali parlano appunto attraverso quegli atti giudiziari. Che tale sia l’interpretazione corretta della direttiva, lo dimostra, chiaramente la motivazione della stessa (“considerando” n. 18), la quale, ne costituisce, com’è noto, parte integrante anche al fine della corretta interpretazione dei suoi articoli. E cosa dice tale disposizione? Che la divulgazione di informazioni da parte delle autorità pubbliche su procedimenti penali è ammessa «qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico». Inoltre il ricorso a tali dichiarazioni dovrebbe essere “ragionevole” e “proporzionato”. Com’è evidente, l’interesse pubblico che giustifichi le dichiarazioni è un interesse intrinseco al processo (come, in ipotesi, la diffusione di informazioni che consentano di localizzare un latitante) non un presunto interesse generale all’informazione dei sulle ragioni del processo e su chi ne è coinvolto. L’informazione dei cittadini spetta semmai ad altri (giornalisti, studiosi, opinionisti), nell’esercizio del diritto di cronaca e di manifestazione del pensiero, e nei limiti previsti dall’ordinamento. Perché anche il diritto di cronaca (così come il diritto di manifestazione del pensiero) subisce dei limiti per la tutela di valori costituzionali altrettanto fondamentali. È bene dunque che si continui e si alimenti il dibattito su questi temi, perché ci sono ancora molte questioni che devono essere affrontate. A cominciare, ad esempio, dall’abitudine di molti rappresentanti dell’accusa (tra cui i capi degli uffici del pubblico ministero) di indire conferenze stampa o rilasciare interviste “informative” sull’attività svolta nell’ambito dei processi penali. Tali posizioni, benché sia probabilmente impopolare, non convincono da un punto di vista costituzionale e, a questo punto, anche dell’ordinamento europeo. Anche perché, se tale facoltà di informare veramente fosse prevista, non si comprende perché essa sia esercitata nella quasi totalità dei casi dai pubblici ministeri (che sono una parte del processo, quindi non completamente “disinteressata”) e non ad esempio dai giudici che adottano gli atti (si pensi alle misure cautelari, quelle che, in genere, producono il clamore mediatico) e che, in ipotesi, sarebbero gli unici titolati a “spiegare” le ragioni di quelle scelte. E tantomeno convince la tesi (su questo punto dissento dalle considerazioni, per altro condivisibili, del Dott. Pignatone su La Stampa di ieri) che questa attività di comunicazione pubblica, oltre che facoltativa sarebbe addirittura doverosa, perché costituirebbe un obbligo corrispondente al diritto di ogni cittadino di essere informato e alla “responsabilità” gravante su chiunque eserciti pubblici poteri. La nostra Costituzione non prevede una tale responsabilità diretta dei magistrati di fronte ai cittadini e anzi fa di tutto per sottrarre costoro a qualsiasi forma di condizionamento da parte dell’opinione pubblica. Essa prescrive infatti che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101) e alla legge deve rispondere. La giustizia è amministrata “in nome” del popolo (art. 101) e non “per conto” del popolo, proprio non c’è da “rendere conto” al popolo, ma solo alla legge. Non solo non c’è, dunque, una responsabilità politica diretta (essendo l’indipendenza assicurata proprio per spoliticizzare l’azione della magistratura) ma non esiste nemmeno una responsabilità politica “diffusa”, generica, qual è quella – secondo alcuni studiosi – imputabile ad altre cariche dello Stato sottoposte al “diritto di critica” dei cittadini, per le proprie azioni.

Le critiche dei cittadini, anche contro i provvedimenti giudiziari, benché legittime, ovviamente, dal punto di vista costituzionale non possono e non debbono avere alcuna influenza nelle decisioni di chi quei provvedimenti assume. L’unica responsabilità imputabile ai magistrati, accomunati in questo a tutti i funzionari e i dipendenti pubblici (art. 28 Cost.), è quella giuridica, da far valere nelle sedi e con i procedimenti all’uopo previsti (e sicuramente migliorabili). Insomma, rispetto della presunzione di non colpevolezza, limitazione delle dichiarazioni delle pubbliche autorità, rimedi effettivi nel caso di violazione; questo è il significato della Direttiva europea 2016/343, tardivamente, attuata. È bene esserne consapevoli, per non tradirne lo spirito e la lettera, e non tradire così anche la nostra Costituzione.

Macché processo, resta la condanna “sociale” imposta dal dio-pm…L'intervento di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto penale alla Sapienza, a proposito della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza che vieta gli abusi mediatici delle procure. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 13 aprile 2021. È inevitabile che, in un meccanismo delicato e sofisticato come il processo penale italiano, reso ulteriormente complesso da un sistema di diritto penale stratificatosi nel tempo che è chiamato a integrarlo in molti dei presupposti di alcuni suoi istituti e percorsi, lo spostamento di alcuni “mattoncini” dell’edificio determinino squilibri e scompensi. Il tutto, naturalmente, è amplificato dalle dinamiche che tutto ciò può determinare sui poteri delle parti e dei soggetti processuali che le varie previsioni sono chiamate ad applicare, con ulteriori ricadute di sistema. Il potere, perché di potere si tratta, dentro il processo non è infinito: la dilatazione dei poteri di una parte restringe e ridimensiona quelli dell’altra, nel nuovo equilibrio che si determina. Sono state più volte scandagliate le implicazioni di sistema delle sentenze del 1992 e 1994 della Corte costituzionale e le implicazioni della riforma costituzionale dell’articolo 111 della Costituzione e della legge n. 63 del 2001. Sono state a più riprese valutate le ricadute dell’evoluzione giurisprudenziale nella dinamica dei rapporti tra indagini preliminari e dibattimento. Si sono già affrontate le tematiche della dinamica dei rapporti tra pubblici ministeri e giudici delle indagini preliminari nella considerazione degli esiti delle richieste degli uni e della determinazione degli altri, anche a prescindere da possibili patologie, in linea astratta irrilevanti. Sono già state considerate, pur nell’alterato equilibrio, i rapporti tra indagini “preliminari”, esercizio dell’azione penale, controllo-filtro dell’udienza preliminare e dibattimento. Sono già state a più riprese evidenziate le espansioni mediatiche delle indagini preliminari, non corrette dalla natura dell’iscrizione nel registro di reato della notizia criminosa del soggetto indagato e dell’informazione di garanzia, nonché della misura cautelare e del successivo interrogatorio, tutti connotati dall’indicazione di garanzia che li caratterizza. Si sono a più riprese richiamate le previsioni costituzionali in tema di presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza irrevocabile. In questo contesto, alcuni recenti episodi, anche clamorosi, hanno evidenziato ulteriori risvolti del rapporto tra indagini preliminari, esercizio dell’azione penale in relazione alla fase e alle fasi del giudizio. Non si tratta di considerazioni inedite ma che, pur tuttavia, nella misura in cui trascendono da riflessioni astratte meritano di essere considerate, anche nella loro prospettazione dogmatica e di sistema. Ora, controllata o no che sia da un giudice, richiesto di un provvedimento (proroga delle indagini, misura cautelare, intercettazione), il pubblico ministero sviluppa per un tempo alquanto ampio con pienezza di poteri di indagine, unitamente alla polizia giudiziaria il fondamento dell’ipotesi investigativa da lui formulata, la consolida con l’attività probatoria irripetibile o dotata comunque di una “resistenza” e la cristallizza dapprima in una preimputazione (art. 415 bis c.p.p.) e poi nell’imputazione (art. 416 c.p.p.).Si tratta di un fatto di rilevanza giuridica, in quanto prospettata da un organo avente ruolo e status significativo connesso al suo ruolo, che – prescindendo da altri elementi – è considerato muoversi nella dimensione della parte, ma pur sempre connotato, nella sua configurazione istituzionale, come organo condizionato dal principio di legalità, dal rispetto delle leggi che lo riguardano, ancorché nell’interpretazione che del suo egli intenda essere destinatario. È indubitabile che l’orizzonte nel quale si sviluppa questa attività nella prospettiva di chi la compie abbia precisi significati e fondamenti e che questa prospettazione sia destinata ad incidere nel convincimento di quanti ne vengano a conoscenza. Si consideri che la prospettazione accusatoria è supportata – come detto – dalla raccolta di materiale probatorio di supporto, selezionato e coordinato in quella prospettiva. Questi elementi potranno essere certamente superati, modificati, attenuati o esclusi nei successivi sviluppi processuali dibattimentali, dalle decisione intermedie e da quelle definitive, ma non potranno essere cancellati o obliterati, essendosi medio tempore stratificati e comunque essendo escluso il loro assoluto superamento. Peraltro, sino a questi momenti la loro presenza giuridica processuale, nei riferiti termini, permane. Quanto detto consente di capire meglio alcuni scontri in atto tra Procura della Repubblica e organi giudicanti, soltanto silenziati nel reciproco formale riconoscimento delle rispettive funzioni.È sempre successo che, a fronte di un esito processuale non in linea con l’ipotesi accusatoria, la Procura abbia evidenziato, ricorrendo le condizioni (prescrizione del reato oppure operatività dell’art. 530, comma 2, c.p.p.), che l’ipotesi accusatoria non era stata smentita. Restava sullo sfondo il dato “storico” della vicenda processuale (si pensi al processo Andreotti, in via esemplificativa). L’accentuarsi delle ipotesi di contrapposti esiti processuali ha rafforzato alcune questioni del ruolo delle indagini preliminari rimaste sotto traccia.Se in termini, un po’ brutali, a fronte di un pieno proscioglimento in primo grado per non aver commesso il fatto, si è affermato che – essendo passato un arco temporale molto lungo – comunque l’imputato era stato “sfregiato”, in termini più meditati si è parlato, anche con riferimento a risultati delle indagini ancora in corso, di diffusione di atti parziali selezionati, di investigazione preliminare della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, non ancora sottoposti a verifica dibattimentale, alla distinzione tra “verità storicizzata” e “verità processuale” in qualche modo attribuendo alla prima una sorta di “primazia” o comunque di un dato che va accreditato come “verità”, a prescindere dal futuro processo che, governato da sue regole, le seleziona in funzione dell’accertamento della sola responsabilità penale. Il dato si ricollega all’atteggiamento conseguente comunque all’accertamento e alla prospettazione di un soggetto facente parte, per quanto in una prospettiva unilaterale, pur sempre, dell’autorità giudiziaria.Ancora, da ultimo, si è riconosciuto, con qualche accento critico, che con la chiusura delle indagini, ma si direbbe ancor prima durante il loro svolgimento, il p.m. “abbia una storia da narrare” in termini compiuti, e che il processo su questa tela tracciata dall’accusa abbia una cadenza frammentata sino alla sintesi decisoria che comunque non potrà rimuovere e cancellare quella narrazione. Tutto ciò ha indotto e induce ad affermare la presenza di una forte “presunzione sociale della colpevolezza e della responsabilità” durante una lunga parte dello scorrere processuale, che se vede alcune Procure contestare, come detto, con sempre più forza e atteggiamento dialettico, gli esiti alternativi del giudizio, superando quegli atteggiamenti cui si è fatto cenno, vede altri trincerandosi dietro la solidità delle proprie posizioni, coperte dalla ritenuta neutralità dell’obbligatorietà dell’azione penale, e altri ancora soddisfatti del loro lavoro, e altri imputare a vario titolo e ragione la diversa valutazione alla quale il processo è pervenuto. Al di là delle tensioni negli uffici giudiziari e la difficoltà per la società di comprendere i contrastanti esiti della singola vicenda giudiziaria e dello sconcerto della divaricazione di organi chiamati ad applicare la legge, resta comunque non rimossa la sedimentazione del narrato accusatorio, di una possibile verità storicizzata e di una presunzione sociale di colpevolezza.

Parla la giornalista di La7. L’accusa di Gaia Tortora: “Processi show, il problema non sono solo le procure ma anche il mondo dell’informazione”. Angela Stella su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Due giorni fa la Camera dei Deputati ha recepito la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza nella legge di delegazione europea. Il testo vincola appunto le autorità pubbliche, e dunque gli stessi magistrati, a non presentare la persona come colpevole fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata. Ne parliamo con Gaia Tortora, giornalista e volto noto dell’informazione di La7 e figlia di Enzo Tortora, una delle vittime più famose della malagiustizia italiana.

Come giudica questo voto della Camera?

Sicuramente si è raggiunto un obiettivo importante, anche se con un certo ritardo. Quello della presunzione di innocenza è un concetto che dovrebbe essere scontato, eppure così non è. Quindi il recepimento della direttiva è un passo in avanti per la cultura giuridica del nostro Paese in chiave garantista.

Da un punto di vista politico, abbiamo visto esultare le forze di maggioranza tranne il Movimento Cinque Stelle che ha ridimensionato il risultato. Secondo lei con questa nuova Ministra si può sperare in una più ampia e convinta convergenza verso un approccio garantista della giustizia?

Nutro una discreta dose di fiducia nei confronti del nuovo Ministro della Giustizia perché forse finalmente grazie alla professoressa Cartabia abbiamo l’occasione di depersonalizzare e depoliticizzare la giustizia, di non associarla sempre a qualche personaggio che sia Silvio Berlusconi, Matteo Renzi o lo stesso Alfonso Bonafede. Con questo nuovo Ministro ci muoviamo solamente all’interno di una cornice costituzionale e nel pieno rispetto dei principi di uno Stato di Diritto.

Il deputato di Azione Enrico Costa, che insieme al collega di +Europa Riccardo Magi, si è speso molto a favore della direttiva ha sostenuto in più occasioni che nel nostro Paese la presunzione di innocenza è ignorata. E da ciò derivano una serie di abusi come le centomila persone assolte in primo grado, che però prima hanno subito una feroce gogna mediatica. Lei è d’accordo con questa analisi?

In questo caso sono i numeri a dare valore all’analisi. Dopo di che, bisogna anche dire che il problema non è solo di certe procure che mettono in piedi lo show mediatico, in quanto la gogna appartiene al mondo dell’informazione. È chiaro che se da oggi, con il recepimento della direttiva, un pubblico ministero userà espressioni che inducono a ritenere un indagato già colpevole, il giornalista dovrebbe avere la professionalità per farlo notare: riportare la dichiarazione ma censurarla come inopportuna. Poi ci potrebbe essere anche il caso contrario in cui un pm rispetta il giusto linguaggio ma poi l’informazione fa un tipo di narrazione colpevolista. Quindi eviterei generalizzazioni.

Come si risolve il corto circuito mediatico giudiziario? Ad esempio su molti giornali vediamo pubblicate intere ordinanze o intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’inchiesta giuridica.

Il problema è sempre quello di come bilanciare il diritto di cronaca del giornalista con i diritti degli indagati e imputati quali quello alla riservatezza. Non si può mettere un freno al giornalismo di inchiesta, però i fatti vanno raccontati in maniera oggettiva, realistica senza prendere una posizione che potrebbe instillare nel pubblico il pregiudizio. È importante distinguere tra giornalismo di inchiesta e processo mediatico parallelo. Poi c’è da fare anche una considerazione di tipo politico.

Prego.

Fino a poco tempo fa al Ministero della Giustizia c’era un Guardasigilli di un movimento politico che ha fatto dello slogan “onestà, onestà” il proprio cavallo di battaglia. L’onestà dovrebbe valere in principio per tutti e non spetta a nessuno emettere una sentenza prima di un giudizio definitivo. Questo significa rispettare il principio di non colpevolezza.

Nonostante ci siano dei divieti, vediamo spesso riprese e mandate in onda persone ammanettate. Questa è una responsabilità della nostra categoria di giornalisti.

Certo, è nostra. Nel fare il nostro mestiere dovremmo avere quel buon senso che ci mette nelle condizioni di non sposare la tesi accusatoria e quindi rispettare la dignità di chi viene privato della libertà personale. Poi se vuoi agitare il popolo verso la forca o lasciar intendere che una informazione di garanzia sia già un marchio di colpevolezza allora non stai facendo un buon lavoro. Dividere il Paese tra innocentisti e colpevolisti fa sicuramente share ma non offre un buon servizio al dibattito pubblico.

La Ministra Marta Cartabia proprio nelle sue prime dichiarazioni aveva detto: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per una effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale». A suo padre questa riserbo non fu concesso, anzi dovette subire quella che negli Stati Uniti chiamano perp walk o walk of shame, la passeggiata della vergogna dinanzi ai fotografi. Possibile che dopo lo scandalo Tortora abbiamo dovuto aspettare così tanti anni per fare un piccolo grande passo nella giusta direzione?

La dichiarazione della Ministra è ineccepibile. Purtroppo come ricordava lei a mio padre non è stato concesso quel riserbo. Tuttavia da allora qualcosa è cambiato, non molto ma è così. Non credo che si facciano fare più quelle passeggiate della vergona. Certo, soffriamo ancora di una certa politicizzazione dell’inchiesta: diversi trattamenti sono riservati a seconda, ad esempio, del partito o della “casta” a cui si appartiene qualora si venga indagati. Si dovrebbe giudicare in base agli atti e a quello che emerge nei processi, senza nessun altro metro di giudizio. Il problema è profondamente culturale e tocca tutti gli attori in gioco: magistratura, giornalisti, opinione pubblica. Rispetto alla vicenda di mio padre ci fu una nota giornalista che scrisse: «Se è stato arrestato di notte, qualcosa avrà fatto». Instillare questo dubbio nella testa delle persone o conservarlo nella propria mente quando si fa il lavoro di giornalista equivale ad una condanna. Mio padre mi raccontava che, anche se è stato assolto, quando camminava per strada e negli occhi delle persone intravedeva il sospetto nei suoi confronti quella situazione lo uccideva per la seconda volta. L’assoluzione ti ripaga in parte perché il dramma che vivi non ti abbandona mai. Quello che ti si è scatenato intorno non è più risarcibile da nessun punto di vista. Bisogna fare un processo alle nostre coscienze e pensare che a chiunque possa accadere quello che è successo a mio padre e a tanti come lui.

Ci si chiede sempre di immedesimarci nei parenti delle vittime di reati. Io invece chiedo a lei cosa significa essere parenti di una vittima di errore giudiziario, che ha subìto quello che ha subìto suo padre.

È una bomba atomica che ti esplode dentro: è un qualcosa di cui non ti capaciti a maggior ragione se tu credi nelle istituzioni. E mio padre ci credeva da sempre. Non posso poi scordare colleghi che hanno stappato lo champagne perché mio padre era stato arrestato e lo hanno dipinto in maniera distorta. Questo non si può dimenticare. Nonostante la devastazione che abbiamo sofferto, alla fine mio padre è stato assolto. Un giudice ha riconosciuto la sua innocenza e questo mi porta a credere ancora nella giustizia, in quei magistrati che lavorano bene e nel silenzio.

Però chi ha sbagliato tra i magistrati ha fatto carriera. Su questo giornale per primi, stimolati dall’appello rivolto dall’Unione delle Camere Penali al neo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, abbiamo aperto un dibattito sulla valutazione professionale dei magistrati. In sintesi: quando il Csm valuta i profili per le eventuali promozioni dovrebbe tenere in conto anche le statistiche relative alle inchieste dei pm che si sono poi concluse con le assoluzioni, ad esempio. Ma nella magistratura c’è molta reticenza. Lei che ne pensa?

Sono pienamente d’accordo: i magistrati devono essere giudicati come tutti gli altri. Il tema della valutazione è importante e dovrebbe essere affrontato in questo Paese. Ci sono purtroppo delle categorie che non si sa per quale motivo vogliono sottrarsi e considerarsi immuni. Valutare non vuol dire mettere alla gogna ma esaminare il proprio lavoro.

Se la fonte è il pm? Bufera sulla Procura di Trapani, quando la libertà di stampa si scontra con la fughe di notizie. Alberto Cisterna su Il Riformista l'8 Aprile 2021. La prolungata incursione della Procura di Trapani sui telefoni di una giornalista non indagata per alcun reato ha sollevato un nugolo di polemiche e innescato un’ispezione ministeriale. Al di là del riflesso corporativo che anima la stampa, come qualunque agglomerato professionale, e delle preoccupazioni più distaccate espresse da autorevoli commentatori (Vladimiro Zagrebelsky, “Intercettazioni, un attentato all’informazione”, su La Stampa del 6 aprile), la questione è tutta sul tappeto e non dovrebbe essere ulteriormente ignorata. Probabilmente è giunto il momento di fare chiarezza sullo statuto del segreto che garantisce e sostiene la libertà di stampa e di fissare limiti ben disegnati per l’attività di indagine che riguardi i giornalisti sotto controllo a causa dell’esercizio della loro attività. Che i giornalisti siano i terminali di notizie di ogni genere è cosa scontata. La funzione imprescindibile della libertà di stampa è talmente ben compresa e ben percepita dalla collettività da non essere oggetto di perplessità o di critiche. Così a nessuno verrebbe in mente di privare il giornalista del suo diritto/dovere di tacere le fonti delle proprie informazioni, a parte gli ostacoli costituzionali e di rango sovranazionale che impedirebbero una tale decisione. La questione si complica quando lo scudo della libertà di stampa si misura con altri valori costituzionalmente rilevanti che esigono una delicata operazione di bilanciamento. Si è discusso della recente decisione parlamentare di rafforzare, d’intesa con la ministra Cartabia, lo statuto della presunzione d’innocenza o delle prescrizioni riproposte dal Garante per la privacy in materia di riprese e foto di soggetti ammanettati; tutti profili che intingono nel giardino proibito della libertà di informazione e che vedono la necessità di salvaguardare altri interessi, parimenti meritevoli di protezione. Per non parlare del dibattito, non ancora sopito, che ha accompagnato la riforma delle intercettazioni e la pubblicazione delle relative conversazioni. Mettere ordine in questa selva di diritti e costruire doveri simmetrici di tutela non è operazione facile, ma alla quale non si può più a lungo rinunciare da parte del legislatore. Pena l’affermarsi, anche in questo settore, di una supplenza giudiziaria che conia principi e regole, spesso impossibili da generalizzare e da far operare ad ampio raggio. Il caso di Trapani sembra abbastanza chiaro: l’intercettazione della giornalista muove dalla pretesa di individuare le fonti delle sue informazioni e di mettere mano sui responsabili di un traffico di immigrati clandestini. Ovviamente nulla vieta a un giornalista di entrare in contatto con l’autore di reati e di raccogliere da costui informazioni. Accade tutti i giorni quando benevole manine, commettendo precisi reati, consegnano carte coperte da segreto istruttorio o divulgano intercettazioni ancora segrete, come sarebbe accaduto da ultimo nell’affaire Procura di Roma. In questi casi, in genere, a nessun viene in mente di metter mano ai tabulati o ai telefoni del fortunato esponente della libera stampa che sia entrato in possesso di atti illeciti. Almeno che l’attività non si sia svolta senza la copertura, l’assenso, la connivenza o anche solo la benevola tolleranza degli inquirenti di turno. In questa sfortunata evenienza si procede a tutto spiano con sequestri, perquisizioni, acquisizioni di tabulati e quant’altro possa servire a identificare il reprobo divulgatore. Basterebbe censire i casi in cui una tale reazione si scatena (pochini) per stabilire – tutte le altre volte in cui nulla accade – che la fuga di notizie muove dal perimetro di chi il segreto avrebbe dovuto custodirlo e che invece lo ha messo in circolazione per lo meno con negligenza (come recita la legge disciplinare dei magistrati). Il caso di Trapani appare, invece, molto diverso da quanto solitamente accade in tema di notizie di reato e libera stampa. Per cui le cose vanne tenute distinte e occorre evitare, appunto, riflessi corporativi. Questa volta sembrerebbe che l’intento degli inquirenti fosse quello di “pedinare” telefonicamente la giornalista per individuarne le fonti e acquisire informazioni utili alle indagini. È chiaro che si tratta di una rete a strascico che coinvolge profondamente l’intera catena dei collegamenti informativi e che isola e condiziona in modo pesante l’attività professionale del giornalista. Il rapporto confidenziale con le fonti ne viene ampiamente compromesso e, con esso, risulta eluso il segreto che vincola il giornalista rispetto al propalatore. Questo modo di procedere porta inevitabilmente a selezionare i giornalisti distinguendo tra chi partecipa stabilmente al mefitico triangolo informativo descritto dal dottor Palamara (pm – polizia giudiziaria – giornalista embedded) e chi lavora con fatica sul campo conquistandosi fiducia e informazioni per svolgere il proprio lavoro. Il primo modello regola il “mercato” delle notizie in una posizione privilegiata di cellula che viene attivata in caso di necessità; il secondo prototipo si trova la polizia giudiziaria per casa o in ufficio pronta a sequestrare tutto quanto sia necessario. L’Ordine dei giornalisti poco dice su questa discriminazione che coinvolge soprattutto i giovani cronisti e le proteste di questi giorni poco risolvono. Le notizie solitamente sono nella disponibilità di chi non dovrebbe divulgarle e se qualcuno le riceve comodamente e qualcun altro deve rischiare per averle è evidente che la libertà di stampa ha declinazioni ingiuste e ondivaghe. Oltre che opache, posto che rischia di finire al servizio di interessi poco trasparenti, quando non illegali come di recente è stato denunciato. L’unica soluzione è quella di impedire che le attività d’indagine – che non possono mancare nel caso di Trapani come non dovrebbero mancare in ogni altro caso quando si tratta di scoprire dei malfattori – si svolgano a 360 gradi compromettendo l’intera rete informativa del giornalista. Nessuna novità, si badi bene. Lo aveva affermato a chiare lettere la Cassazione in una esemplare sentenza riguardante un sequestro operato presso un giornalista e la sua testata. Ricordavano i giudici di piazza Cavour che vi è «la necessità di preservare il diritto del giornalista a cautelare le proprie fonti, in vista dell’espletamento della funzione informativa, considerata uno dei pilastri fondamentali delle libertà in una società democratica» e che «il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni solo in presenza delle due condizioni: a) che la rivelazione della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede, prendendo a riferimento fatti specifici in ordine ai quali si sviluppa l’attività di indagine b) che le notizie non possano essere altrimenti accertate». Se il giornalista non può essere costretto a rivelare le fonti se non in questi casi, è evidente che questo privilegio non possa essere aggirato in altro modo, a esempio con perquisizioni o intercettazioni a maglie larghe. L’«altrimenti accertate» rinvia, certo, anche a questi mezzi di prova, ma nell’assoluto rispetto del principio di continenza e proporzionalità che vorrebbe che si intercetti solo quanto sia immediatamente e direttamente correlato al reato per cui si procede. Questo imporrebbe che l’attività di ascolto fosse costante e che l’operatore di polizia vigilasse attentamente su quanto viene detto, spegnendo l’apparato ogni volta la conversazione sia estranea allo specifico reato per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Una fatica e uno spreco di uomini, impegnati 24 ore su 24 si dice. Vero, ma questo è un buon motivo per circoscrivere le intercettazioni solo ai casi in cui siano «assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini» (articolo 267 Cpp), evitando di accendere i microfoni in modo indiscriminato. Lo sappiamo, trasandatezze del genere non sono accadute sempre. Ma questa è un’altra storia (direbbe Moustache il barista filosofo di Irma la dolce). Nell’immediato l’unica precauzione per tutelare la libertà di stampa, e tutti gli altri diritti costituzionalmente compromessi dalle intercettazioni, è quello di imporre un ascolto permanente che impedisca di registrare quanto è inutile o appare tale. Il rimedio dello stralcio o della cancellazione postuma, forse, mitiga il danno, ma non quello recato alla libertà di stampa con le squadernarsi delle fonti.

«Ai giornalisti dico, libertà di stampa non è libertà di gogna». Caso intercettazioni a Trapani, parla il costituzionalista Giovanni Guzzetta, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all'Università di Roma Tor Vergata. Valentina Stella su Il Dubbio il 7 aprile 2021. Riflettendo con il costituzionalista Giovanni Guzzetta, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Roma Tor Vergata, potremmo dire che la mia libertà di stampa finisce dove inizia la tua dignità di indagato. Lo spunto ci viene ancora dallo scandalo dei giornalisti intercettati dalla Procura di Trapani.

Tanto scandalo, giustamente, per i giornalisti intercettati. Nulla quando ad esserlo sono gli avvocati che discutono con i loro assistiti.

In Italia siamo abituati a fare discorsi molto ideologici. La questione in realtà è molto complessa e delicata in quanto non esistono diritti e pretese da tutelare in modo assoluto. Tutta la giurisprudenza, sia quella interna – Cassazione e Corte Costituzionale – , che quella sovranazionale  – Cedu e Corte di Giustizia – , sottolinea sempre il fatto che in queste materie è necessario un bilanciamento tra interessi.

Quali sono gli interessi in gioco?

C’è quello del giornalista al diritto di cronaca; quello dello Stato alla repressione dei reati, soprattutto di quelli gravi da cui deriva un forte interesse pubblico al loro contrasto; poi quello soggettivo alla riservatezza sia di coloro che sono interessati dall’attività giornalistica sia degli avvocati. Pertanto stracciarci le vesti in astratto rappresenta un esercizio ideologico.

In concreto, invece, cosa possiamo dire?

Spero che questa vicenda, i cui dettagli non sono ancora totalmente chiariti tanto è vero che è in corso un’ispezione da parte del Ministero della Giustizia,  possa costituire l’occasione per una riflessione meglio articolata più che per una reazione corporativa.

Professore mi aiuti a capire: l’articolo 103 quinto comma del cpp vieta l’intercettazione tra avvocato e cliente. Non esiste una norma così chiara per i giornalisti.

Per i giornalisti non esiste una disposizione in tal senso, per gli avvocati sì. Tuttavia la Cassazione ha messo in evidenza come anche nelle conversazioni tra avvocati e assistiti ciò che si tutela è il rapporto professionale con il cliente: in questo caso la registrazione dell’intercettazione andrebbe interrotta.  Mentre se i due discutono di qualcosa che esce dal perimetro di quel rapporto  e  quindi l’avvocato non sta svolgendo più il suo ruolo l’intercettazione sarebbe lecita. La stessa cosa vale per i giornalisti: pur non essendoci una disposizione specifica, esiste però una disciplina della tutela della fonte, ribadita da una sentenza della Cedu del 6 ottobre 2020 ‘Jecker contro Svizzera’. La Corte ha ribadito la fondamentale necessità di tutelare le fonti ma ha anche precisato che persino in quel caso, se sussistono degli interessi pubblici straordinariamente importanti e purché sia motivato, il divieto posto a tutela della segretezza della fonte può essere superato.

Quindi il discorso è molto articolato.

Certo e riguarda più soggetti. La disciplina delle intercettazioni nel nostro Paese è estremamente invasiva ed è stato fatta oggetto di numerose modifiche. La mia sensazione è che non abbiamo ancora raggiunto un equilibrio adeguato. Ci sono poi tutta una serie di problemi connessi, come l’utilizzazione dell’intercettazione per l’individuazione di reati diversi da quelli per la quale l’intercettazione era stata autorizzata.

Aggiungo un altro problema: la pubblicazione delle intercettazioni sulla stampa, spesso prive di valore probatorio, aiutano a costruire il "mostro" da prima pagina.

Certamente la libertà di stampa è una delle più antiche e più importanti. Nello stesso tempo però essa non è assoluta e bisogna che accettiamo questo concetto. La libertà di stampa deve essere contemperata con altri interessi: il codice di procedura penale all’articolo 114 vieta la pubblicazione degli atti coperti da segreto.

C’è anche l’articolo 684 del codice penale “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”.

Esatto. Il problema è che le sanzioni sono molte blande. Non escludo che ci siano stati dei casi in cui l’ammenda sia stata pagata e la notizia comunque pubblicata. Forse dovremmo sviluppare una sensibilità maggiore nei confronti dei limiti alla libertà di stampa nel suo proprio interesse.

In che senso?

Se la libertà di stampa diventa libertà di gogna prima o poi la categoria dei giornalisti subirà una reazione da parte dell’opinione pubblica.

Su questo sono pessimista. E mi chiedo se siamo noi ad alimentare questo circo mediatico o è l’opinione pubblica che ci chiede di rafforzare un certo voyeurismo colpevolista.

Probabilmente entrambi i fattori alimentano il fenomeno. Attenzione però: non dimentichiamo un’altra componente del complicato puzzle, ossia i settori della magistratura in cerca di pubblicità.

Ultimamente è stato proprio il Ministro Cartabia a porre l’accento sul riserbo delle indagini preliminari per tutelare il principio di innocenza. Quindi il problema esiste ed è serio.

Il problema è talmente evidente che noi nei fatti viviamo costantemente una elusione del principio della presunzione di non colpevolezza. La sanzione penale non è l’unica che un soggetto possa subire: c’è anche quella reputazionale e sociale.

L’altro giorno l’ex magistrato Nello Rossi mi ha detto «ho partecipato a conferenze stampa, che ritengo siano fondamentali in presenza di misure cautelari, per spiegare le ragioni di tali provvedimenti».

Credo che la magistratura possa spiegare la propria attività attraverso gli atti, senza una interlocuzione diretta con l’opinione pubblica. I giornalisti poi hanno tutto il diritto e dovere di dare le informazioni nei limiti dell’ordinamento, spesso superati in mancanza di adeguate sanzioni e imputazioni di responsabilità.

Questo perché accade?

A causa di questa ideologia assolutizzata del diritto di cronaca che dal punto di vista costituzionale non è corretta. Questo diritto, come quello di manifestare il  pensiero, subisce dei limiti nell’ordinamento. Non esistono diritti assoluti se non in qualche rarissimo caso, come la libertà d’arte. I diritti incontrano dei limiti: il problema non è di stabilire questi ultimi ma di renderli cogenti nell’interesse di tutti, altrimenti si passa dall’ordinamento al far west.

Media e pregiudizi: così la presunzione di innocenza viene mortificata. Il report dell’Agenzia per i diritti fondamentali ha preso in esame il modo in cui la presunzione di innocenza e i diritti correlati sono applicati nella Ue. Simona Musco su Il Dubbio il 4 aprile 2021. La presunzione di innocenza in Italia è fortemente influenzata dai media, dai pregiudizi e dalla presenza delle gabbie nelle aule dei tribunali. È quanto si evince dal report dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ( Fra), che ha preso in esame il modo in cui la presunzione di innocenza e i diritti correlati sono applicati all’interno dell’Unione europea. In Italia, si legge nel report, la presunzione d’innocenza è tutelata dalla Costituzione. Ma ciò che manca è l’attuazione pratica di tale principio nei procedimenti giudiziari e sui media. Sono troppe le fughe di notizie e le fonti non ufficiali, che distorcono spesso la verità dei fatti e sviliscono il principio di presunzione d’innocenza. Ma la sfida cruciale, si legge nel report, riguarda la «sproporzionata attenzione» prestata dai media alla fase istruttoria e alla fase iniziale del procedimento, quando i pubblici ministeri «hanno necessità di dimostrare la solidità dell’accusa e di sostenere il coinvolgimento dell’imputato nel caso». Ma è scarsa l’attenzione riservata allo sviluppo e alla conclusione del procedimento: «Gli imputati, spesso presentati come colpevoli dai media durante la fase delle indagini, non hanno l’opportunità di ripulire la propria reputazione se danneggiata poiché nessuna attenzione viene prestata al risultato del procedimento», si legge. Per quanto riguarda le indagini, gli avvocati di diversi Stati membri hanno manifestato la convinzione che la polizia si concentri molto di più sulla raccolta di prove a carico che non a discarico. Atteggiamento che, in Italia, gli avvocati attribuiscono anche ai pubblici ministeri. «Le indagini preliminari compromettono il principio della presunzione di innocenza, perché i pubblici ministeri dovrebbero cercare prove a carico dell’imputato ma anche a discarico. Questo è qualcosa che – in 16 anni di esperienza professionale – ho visto molto raramente», ha sottolineato un avvocato italiano. Per quanto riguarda gli effetti della copertura mediatica sulla presunzione di innocenza, molti avvocati degli Stati membri hanno evidenziato l’importanza della libertà di stampa e il ruolo unico dei media come “cane di guardia” del potere, anche giudiziario, ma la copertura mediatica finisce per incidere sull’equità complessiva dei procedimenti. Se da un lato ciò può risultare vantaggioso, aumentando la trasparenza dei processi, dall’altro i giornali possono esercitare «pressioni» sui tribunali, come ha evidenziato un procuratore portoghese, secondo cui spesso «influenzano l’opinione pubblica senza avere la completa conoscenza di casi penali». Fenomeno che accade anche in Italia: «Una volta che il sospetto è stato identificato , la presunzione d’innocenza è in qualche modo già violata. Anche se le accuse sono successivamente confutate, è difficile da correggere sui media», ha testimoniato un giornalista. Il problema principale riguarda gli imputati in custodia cautelare che vengono accompagnati in aula dagli agenti penitenziari e controllati durante l’udienza: alcuni tribunali prevedono percorsi separati, in modo da evitare il contatto con il pubblico e i media. Spesso partecipano in un’area separata dell’aula fornita di sbarre, la cosiddetta ‘ gabbia’. Situazione, questa, che ha un forte impatto sull’immagine pubblica degli imputati e di conseguenza sulla loro presunzione di innocenza. «Il fatto che un imputato sia tenuto in gabbia può generare nella stampa la convinzione della colpevolezza dell’imputato. A volte questa scelta si basa sul pericolo; altre volte l’imputato è trattenuto lì anche un pericolo non c’è», ha evidenziato un giudice italiano. E la presunzione d’innocenza vale meno quando l’imputato è accusato di reati di mafia.

Le regole europee. Presunzione d’innocenza, non basta la direttiva per placare la furia di Pm e giornaloni. Riccardo Polidoro su Il Riformista l'1 Aprile 2021. La nostra Costituzione, all’articolo 27, prevede che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Sappiamo, purtroppo, che non è così e la “presunzione d’innocenza” , dopo oltre 70 anni, è continuamente violata, in nome di un’informazione sempre più veloce e di un’esigenza di visibilità di cui molti non riescono a fare a meno. Quanto accade è da addebitare a un sistema Giustizia che non funziona e a un sistema mediatico sempre più aggressivo. “Sbattere il mostro in prima pagina”, citando l’indimenticabile film di Marco Bellocchio con Gian Maria Volontè, fa parte del lavoro del giornalista che, avuta la notizia, deve pubblicarla, ma dovrebbe comunque farlo nei limiti di una prudente valutazione dei fatti, delle fonti e del contesto. Senza alcuna giustificazione, invece, le conferenze stampa di coloro che hanno svolto le indagini e ancora più gravi i casi di singoli soggetti, autori di attività investigative o venuti a conoscenza dei fatti per ragioni del proprio lavoro, che affidano all’amico giornalista la diffusione della notizia, magari in cambio di una bella fotografia. A volte accade – invero non raramente – che il “mostro” sia invece un galantuomo al quale sono stati tolti dignità, affetti e lavoro. Della sua innocenza si saprà dopo anni di calvario giudiziario, ma egli sarà stato dimenticato dagli  accusatori e dai voraci media che lo ignoreranno o lo relegheranno in un trafiletto a fondo pagina. Giova ricordare, pur calcolando solo quelle per le quali vi è stato il risarcimento del danno, che le ingiuste detenzioni in Italia sono più di mille ogni anno, cioè tre al giorno. Nel 2019 la città di Napoli è stata quella con il maggior numero di casi indennizzati, ben 129, seguita da Reggio Calabria con 120 e da Roma con 105. Nell’ottobre del 2019, la Procura di Napoli emanò un apposito ordine di servizio per l’accesso dei giornalisti agli uffici e per i criteri e le modalità di rilascio di copia dei provvedimenti giudiziari agli organi di stampa, nel tentativo di contemperare il diritto di cronaca, previsto dall’articolo 21 della Costituzione, con le garanzie dell’indagato. Invero, alcun radicale mutamento sembrerebbe esserci stato sulla pubblicazione delle indagini.  In tutta Italia, i media continuano a “bruciare” vite prima che arrivi la sentenza definitiva: nella maggior parte dei casi, prima ancora che l’indagato abbia piena conoscenza delle accuse. Intanto la Camera, quasi all’unanimità, ha approvato l’ingresso nella legislazione italiana della direttiva europea 343 del 2016 che richiama il principio di non colpevolezza, già chiaramente espresso dalla nostra Costituzione: una buona notizia che lascia sperare in tempi migliori dopo quelli recentissimi, davvero bui. Il “cambio di passo” è tanto importante quanto evidente e si avverte la presenza di un ministro della Giustizia finalmente autorevole e che vive per e di Costituzione. Ma dalla forma scritta alla pratica c’è di mezzo il mare e, nel nostro caso, l’oceano, popolato da pesci rampanti che vogliono venire a galla per mostrare quanto sono belli e bravi e magari aspirare a tane migliori. Tutta la nostra legislazione penale viene (r)aggirata ove non sono previste sanzioni. I termini, per esempio, se non sono perentori, sono pressoché inutili. E ancora, quanti sono i provvedimenti di rigetto di richieste di proroga del termine delle indagini fatte dalle Procure? Si contano sule dita di una mano, tant’è che ormai gli avvocati non si oppongono più. Se davvero non vogliamo più vedere immagini di arresti, ascoltare le intercettazioni spesso interpretate anche da voci incattivite, ascoltare nomi d’indagati già descritti come colpevoli con “presunte sentenze” in cui sono indicate solo verità – queste davvero presunte, ma spacciate per indiscutibili e ormai definitivamente accertate – occorre prevedere delle sanzioni, per una vera tutela dell’indagato. Tutela che deve innanzitutto stabilire effettivamente la segretezza delle indagini e rivolgersi a chi ha il dovere e l’obbligo di farla rispettare. In prima linea vi sono le Procure e la polizia giudiziaria, custodi degli atti d’indagine svolti e da svolgersi. Subito dopo i Giudici per le indagini preliminari destinatari delle richieste delle Procure, di autorizzazioni o di misure cautelari. Solo successivamente gli avvocati e va precisato che la loro conoscenza è del tutto parziale, riduttiva e comunque giunge in grande ritardo rispetto ad altri. Le notizie ufficialmente giungono dalle conferenze stampa delle Procure, di giorno in giorno più sofisticate e ricche di particolari. Ufficiosamente giungono da singoli “addetti ai lavori” per svariati interessi. Dunque, come intervenire? Qual è il deterrente capace anche di rispettare il diritto di cronaca e quello di essere informati? Basterebbe prevedere che le Procure possano tenere conferenze stampa solo dopo l’esercizio dell’azione penale, cioè quando i capi d’imputazione si sono cristallizzati e vi è già stato il contraddittorio con la difesa. Inoltre andrebbe chiarito – anche al fine di una corretta diffusione della notizia e una esatta educazione dell’opinione pubblica – che quella diffusa è l’ipotesi accusatoria che dovrà essere verificata in giudizio. Si sposterebbe così – com’è giusto che sia – l’attenzione mediatica sul processo, unico strumento per accertare la verità. Gli altri canali d’informazione dovranno trovare immediate sanzioni disciplinari. Il tema della “presunzione d’innocenza” non è terreno di battaglia tra garantisti e colpevolisti: è un principio costituzionale e pertanto va rispettato sempre, senza indugi, ancor prima di guardare all’Europa.

Media e giustizia, il virus populista che ha umiliato lo Stato di diritto. Da Mani Pulite a Rinascita-Scott, quell’intreccio diabolico tra informazione e procure. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 28 marzo 2021. Che la rivoluzione mangi i suoi figli lo diceva Charlotte Corday prima di pugnalare a morte ”l’amico del popolo” Jean Paul Marat nella vasca da bagno. E se lo sarebbe dovuto ricordare anche Antonio Di Pietro, pugnalato alle spalle dallo stesso sistema mediatico che, 20 anni prima, lo aveva portato alla ribalta. “Di Pietro facci sognare” titolava Sorrisi e Canzoni Tv nella primavera del 1992; la “tonino-mania” scuoteva l’Italia che aveva trovato il suo super eroe nell’ex poliziotto diventato il magistrato simbolo di Mani Pulite. Più nazional-popolare di Raffaella Carrà e di Pippo Baudo, di cui era una specie di propaggine giustizialista, anche lui con un certo senso per lo spettacolo ma con l’incazzatura facile. Come nel Terrore giacobino i media si attivano per scovare i nemici del popolo, gli avvisi di garanzia – che dovrebbero garantire e invece offendono- sono frecce scagliate dai giornali e dai tg contro “i ladri” e i “corrotti”, sentenze di colpevolezza scritte dalle scrivanie delle redazioni. Fioccano gli arresti, le custodie cautelari, il tintinnio di manette accompagna sinistro gli interrogatori. «Tenerli in carcere è un modo per farli parlare» si vantano dalla procura milanese con il popolino che plaude sullo sfondo, vociando dagli schermi televisivi dei talk show; spuntano le arene di Santoro, i baffoni di Ruotolo inviato nelle piazze urlanti che chiedono pene esemplari per i politici ladroni nel nome dell’onestà (lo spettro grillino già incombeva in filigrana). Quell’onda travolgente dà alla testa a tutti e tutti si assiepano sul pulpito dell’accusa, procuratori avengers e giornalisti aspiranti detective. Si forma il “grumo”, ossia quel garbuglio tra informazione e giustizia che da tre decenni stravolge i principi dello stato di diritto, fa a pezzi le garanzie della difesa e umilia il processo penale, derubricato a mero orpello. Quasi un genere letterario talmente è ormai radicato nell’immaginario collettivo, con tutto il suo fiorire di neologismi questurini, stralci sconnessi di intercettazioni, retorica vendicatrice. La giustizia penale diventa uno spettacolo per allattare i palinsesti, il brontolio fin lì dimesso degli italiani si era trasformato in un ringhio feroce, incitato a tambur battente proprio dal circo mediatico. Il pomeriggio in cui lanciarono le monetine contro Bettino Craxi tutti i sergenti della cronaca giudiziaria capirono che quello del capro espiatorio da stanare con torce e forconi era un format potente, che la caccia spasmodica ai disonesti appassiona le masse come una guerra civile, Risentimento piccolo borghese travestito da rabbia popolare va bene, ma intanto il venticello della calunnia si era fatto tsunami. Ci vuole davvero molto poco per confezionare un servizio televisivo colpevolista; musiche da thriller hollywoodiano, tono di voce grave e caricato, la classica telefonata alla controparte che “rifiuta” di incontrare il reporter-segugio per far vedere che ha qualcosa da nascondere, e soprattutto un patchwork di notizie montate ad arte in cui si mischiano indagati e imputati, sentenze e sospetti, indagini e processi. Il giornalismo si dissolve in fiction ma che importa: così lievita lo share, si vendono le copie, si moltiplicano i click. Antonio Di Pietro è stato fatto fuori da un servizio di 20 minuti del programma Report intitolata Gli Insaziabili (sic) in cui venne accusato di possedere illegalmente 56 immobili tra case e rustici agricoli. Le accuse si rivelarono infondate ma il leader dell’Idv da quel giorno è un cadavere politico. La beffarda nemesi che colpisce proprio l’hidalgo di Tangentopoli non rende meno amaro il quadro generale, anzi mette in luce proprio il cinismo di un sistema tritatutto, pronto a gettare nel fango i vecchi eroi e sostituirli con nuovi interpreti. La recente inchiesta di Riccardo Iacona dedicata all’indagine Rinascita Scott del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri fondata unicamente sugli atti messi a disposizione dalla procura stessa e dalla polizia giudiziaria è solo l’ultimo, e neanche il più brillante esempio, di questo genere letterario. Telecamere nascoste, intercettazioni decontestualizzate, avvocati difensori rappresentati come sodali dei boss, e la voce off della pubblica accusa a dipanare il filo degli eventi. Il tutto condito dalle cupe suggestioni di trame neomassoniche e di mostruosi intrecci tra le cosche e il mondo politico. Difficile per un giudice rimanere virgin mind di fronte a un simile fuoco di fila e quando il processo mediatico ha già consumato le sue sentenze. Un riflesso pavloviano, percorre scattoso il nostro giornalismo, alimentato dagli abili sceneggiatori della magistratura inquirente che nomina le sue inchieste con titoli accattivanti, concepiti per diventare all’istante dei meme giornalistici. Come nell’inchiesta Mafia Capitale: dopo oltre 5 anni di udienze il tribunale ha stabilito che gli intrallazzi dei vari Buzzi e Carminati non erano mafia, ma tv e giornali hanno fatto una fatica immane a rimuovere quella succulenta etichetta. Poco male: si rifaranno con gli interessi nella prossima fiction giudiziaria.

SILVIA DI PAOLA per la Verità il 4 aprile 2021. Il canale Nove ha trasmesso un documentario su 'ndrangheta e malaffare in Lombardia che era completamente falso: è stato girato da finti reporter che hanno intervistato attori che interpretavano i ruoli di boss, spacciatori e pentiti. Il reportage era stato acquistato per 425.000 euro. A smascherare la messinscena è stato un carabiniere davanti alla tv, il quale si è accorto che un edificio spacciato come una raffineria di coca per la Milano bene era in realtà una palazzina anonima in zona Barona. La Procura ha indagato 4 persone, tra cui il giornalista spagnolo David Berian Amaitrain, 43 anni, volto della serie tv incentrata sulle realtà criminali più pericolose del pianeta. Il canale Nove della società Discovery è parte lesa. (Federico Berni) [Corriere della Sera]

Affari d’oro coi falsi ‘ndranghesti in Tv. La procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto un falso reportage sulla ndrangheta per quasi mezzo milione di euro. Il Dubbio il 26 marzo 2021. Che con la 'ndrangheta si fanno affari, era noto da tempo. Quello che era meno noto, ma in fondo neanche troppo, è la capacità di vendere il “prodotto” ndrangheta. La notizia arriva dalla procura di Milano che indagato un giornalista spagnolo accusato di aver confezionato e venduto  un reportage falso. Era stato presentato come una inchiesta esclusiva nel cuore della criminalità organizzata italiana, con interviste a esponenti della ‘Ndrangheta e rivelazioni dei diretti interessati. I carabinieri e la Procura di Milano ritengono invece che fosse tutta una finzione il programma “Clandestino”, realizzato dal giornalista spagnolo David Beriain e trasmesso da canale Nove nel novembre 2019. Un progetto costato 425mila euro. Ieri mattina la Procura ha emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari e ha indagato quattro persone per truffa in concorso. Il canale, che risulta parte offesa, è stato indotto a credere che il reportage – come scrivono i carabinieri – “contenesse fatti realmente accaduti, filmati da reporter infiltratisi sotto copertura, rivelatisi invece frutto di una recita ad opera di attori appositamente scritturati”. Le indagini sono partite grazie a un militare della compagnia Porta Magenta che durante la visione del programma si è accorto che un palazzo indicato come raffineria di cocaina a Milano, in realtà era un semplice condominio dove non c’era alcuna irregolarità. Tra gli indagati c’è un italiano di 53 anni, pregiudicato per reati di corruzione, favoreggiamento, accesso abusivo a sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Nel suo caso il provvedimento è stato notificato dalla compagnia carabinieri di Marcianise (Caserta). Destinatari anche il giornalista 43enne Beriain e i due responsabili di una società di produzione di documentari che vivono in Spagna, una 43enne e un 33enne.

Presa diretta va in replica e fa il “processo-bis” in Tv. Ma Iacona ha mai parlato con un innocente finito in galera? La trasmissione Rai ripropone l'inchiesta di Gratteri Rinascita-Scott a processo ancora aperto. Nessuno in Rai si è accorto della gravità? Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 26 marzo 2021. La Rai ha rimandato in onda nel pomeriggio di sabato scorso la trasmissione “Presa diretta” che già il lunedì precedente aveva puntato i riflettori sull’inchiesta “Rinascita Scott”. È l’ultima manifestazione di arroganza di un potere mediatico giudiziario che (ignorando le perplessità sollevate da Il Dubbio prima di ogni altro e poi da altri) ha dimostrato di disporre di una straordinaria potenza di fuoco utilizzando uno schema di attacco efficace ma vecchio come il cucco: chi critica la trasmissione è contro il giornalismo d’inchiesta, chiunque muova rilievi ai Pm impegnati in Rinascita Scott, se mafioso non è poco ci manca. Il rischio è cadere nella trappola ed accettare un tale schema di gioco. Alla provocazioni bisogna rispondere con la forza dei fatti. Per esempio: è vero o non è vero che nella precedente puntata di “Presa diretta” , dedicata all’ inchiesta “New Bridge”, sono stati presentati come delinquenti persone che sono stati assolti da ogni accusa e come ‘ndranghetisti alcuni indagati che i giudici – ribadiamo i giudici – hanno stabilito che tali non sono? Come è potuto succedere? C’è una sola spiegazione, “Presa diretta” ha utilizzato come unico punto di osservazione dei fatti la procura della Repubblica. Lo aveva fatto in “New Bridge”, l’ha riproposto in “Rinascita Scott”. Se il grande giornalismo d’inchiesta avesse utilizzato la stessa postazione, Peppino Impastato sarebbe ricordato come un folle estremista intento a mettere bombe sui binari, la storia di Giuliano sarebbe stata quella d’un bandito ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri e l’anarchico Pinelli sarebbe passato alla storia come un complice degli autori (?) della strage di Piazza Fontana. Infine un giornalismo d’inchiesta qualche domanda sul perché la Calabria sia in assoluto la prima regione d’Italia (e Catanzaro la prima città) per fondi destinati alle vittime di ingiusta detenzione l’avrebbe pur posta. Invece niente di tutto questo. Ed il perché lo spiega il procuratore capo di Catanzaro : “siamo in guerra” e quindi “Presa diretta” si comporta come un bollettino dal fronte di battaglia. Le telecamere fanno vedere cadaveri di morti ammazzati, testimonianze di persone intimidite dai mafiosi o il volto sofferente delle vittime di usura. Tutte cose vere e tutte cose da far vedere. Anzi i crimini sono molti di più e molto più gravi di quanto Presa diretta non abbia detto o fatto intendere. Aggiungiamo che molto spesso i responsabili dei crimini più efferati non vengono individuati e lo “Stato” (ed i corrispondenti dal “fronte” ) farebbero bene a domandarsi il perché. Quello che è comunque certo è che non si onorano le vittime di mafia aggiungendo ad esse le vittime della “giustizia”. Non avranno conforto le madri, i bambini, le mogli delle vittime di mafia se altre madri o altri bambini piangeranno senza colpa per i loro cari buttati nelle carceri da innocenti. Non ha bambini Gian Luca Callipo, ex sindaco di Pizzo, arrestato in Rinascita Scott e che, secondo la Cassazione, non andava arrestato? Non ha figli l’ex sindaco di Marina di Gioiosa tenuto 5 anni in carcere e riconosciuto innocente? Un sano giornalismo di inchiesta darebbe certamente spazio (e tanto) alle vittime di mafia ma anche (almeno altrettanto) a coloro che sono stati stritolati dalla giustizia sommaria. E sono tanti. Ma anche se fosse stata una sola persona ad avere la vita spezzata dalla “giustizia” che ha bisogno di grandi numeri per avere spazio sui media, non è accettabile, e non è umano, che ciò venga accettato senza batter ciglia. Non è compatibile con con la direttiva UE del 2016 che vuole sia garantita nei fatti la presunzione di innocenza. Ed è inquietante che il dottor Gratteri, ancora oggi, su “Famiglia Cristiana” tracci un collegamento tra garantismo e collusione con la ndrangheta. Comprenda il dottor Gratteri: non ci sentiamo secondi a nessuno nella lotta contro la mafia ma senza mai prescindere dalla verità. E dire la verità non significa attaccare questo o quel magistrato (tutt’altro) ma solo impegnarsi affinché la Calabria resti in Europa e sia una Regione italiana tutelata dalla Costituzione e non una terra “all’ovest del Pecos” in cui vige la “Legge dei sette capestri”.

Giustizia mediatica, così l’Italia sbeffeggia l’Ue e la Costituzione. Dal 2016 saremmo tenuti a recepire il testo che vieta ai pm di additare gli imputati come colpevoli. L'intervento di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto Processuale Penale alla Sapienza. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 25 marzo 2021. Sta andando in scena alla Commissione Giustizia della Camera qualcosa di surreale. Si tratta del recepimento della cosiddetta legge europea della direttiva Ue 2016/234 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, leggasi duemilasedici, relativa al rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto dell’imputato di presenziare al processo nei procedimenti penali. Com’è scritto nelle considerazioni iniziali (1), si tratta di quanto previsto, relativamente al diritto ad un equo processo ed alla presunzione di innocenza, dagli artt. 47 e 48 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“Carta”) e dall’art. 6 della Cedu, dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 11 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Dopo 51 premesse, l’articolato si struttura in 11 articoli e fissa al 1° aprile 2018 il termine entro il quale gli Stati membri devono dare attuazione alle disposizioni della direttiva. Come emerge dalla intitolazione, sono due le aree tematiche di intervento: la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo. Nel delineare l’ambito di applicazione della direttiva, si precisa che la direttiva si applica a ogni fase del procedimento, dal momento in cui una persona sia indagata o imputata per aver commesso un reato o un presunto reato sino a quando non diventa definitiva la decisione che stabilisca se la persona abbia commesso il reato, cioè, ai sensi dell’art. 3, sino a quando non sia stata legalmente provata la colpevolezza. Il nucleo centrale della direttiva è racchiuso nell’art. 4, comma 1, ove si dispone che “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità”. Al comma 2 della stessa disposizione si dispone che a garanzia del rispetto di queste previsioni deve essere assicurato agli indagati e imputati un ricorso effettivo. I riferiti limiti informativi (art. 4, comma 3) non impediscono alle pubbliche autorità di divulgare informazioni sui procedimenti penali qualora non sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico. Nella prospettiva qui considerata, all’art. 5 si prevede che “Gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica. Il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi”. Con ulteriori disposizioni si precisano i temi dell’onere della prova della colpevolezza che incombe all’accusa, del diritto alla prova (art. 6), del diritto al silenzio e del diritto di non autoincriminarsi (art. 7), nonché gli artt. 8-9 disciplinano il diritto di presenziare al processo, e il diritto ad un nuovo processo in caso di mancata presenza al processo. Dopo l’art. 10 che, come visto, richiede la predisposizione di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti di cui alla direttiva, l’art. 11 prevede che entro il 1° aprile 2020 e successivamente ogni tre anni, gli stati membri trasmettano i dati con cui si è data attuazione alla direttiva e entro il 1° aprile 2021 sia presentato al Parlamento europeo ed al Consiglio una relazione sull’attuazione della direttiva. Quanto esposto, impone una riflessione preliminare sull’europeismo ad intermittenza ed a parole: una direttiva del 2016, non solo non è stata recepita ma sembra sussistano difficoltà per il suo recepimento. Pochi giorni fa la Corte di Lussemburgo ha precisato che per i tabulati è necessaria l’autorizzazione del giudice, essendo il pm una parte processuale contrapposta alla difesa. Ieri la Cedu ha condannato (per la seconda volta) l’Italia per la durata delle indagini che abbia impedito alla persona offesa di costituirsi parte civile, a pochi mesi di distanza da una decisione di contrario avviso della Corte costituzionale (C. cost. n. 249 del 2020). Pochi mesi fa, il Parlamento non ha ritenuto di aderire al protocollo 16 della Cedu. Tornando alla direttiva, sono chiare le resistenze per la sua approvazione ove si considerino le esternazioni della polizia giudiziaria e dei pubblici ministeri, la fuga sapiente di notizia, di interviste, di processi mediatici, con possibili condizionamenti sull’attività dei collegi giudicanti e disorientamenti dell’opinione pubblica. A tacer d’altro, basterebbe considerare che la presunzione d’innocenza, con le sue implicazioni che la direttiva evidenzia in termini maggiormente contenutistici, figura già nella nostra Carta costituzionale. Cosa impedisce un rapido recepimento? Un retro pensiero sulla disciplina della sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado?

La giustizia spettacolo. La classe dirigente campana è stata spazzata via da inchieste show. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Ieri sono state depositate le motivazioni della sentenza di assoluzione di Lina Lucci, l’ex segretario generale della Cisl Campania finita sotto processo con l’accusa (infondata) di essersi indebitamente appropriata di oltre 200mila euro sottratti dalle casse del sindacato per spese personali. L’inchiesta nacque nel 2016: contro la Lucci ci furono la querela del commissario straordinario, la relazione dell’allora responsabile amministrativo e una serie di conversazioni da questi registrate ma trascritte con un’operazione di taglia e incolla che ha spinto il giudice a parlare di «un quadro fattuale la cui reale esistenza è dubbia e indimostrata» e a smontare le tesi dell’accusa punto per punto. Quanto spazio avrà la notizia sui giornali? Quasi sicuramente non lo stesso riservato, a suo tempo, alle ipotesi della Procura. Perché, quando un processo si conclude e c’è finalmente la sentenza, i media non hanno più la capacità e il potere di restituire quello che hanno tolto e ridare ad assoluzioni e proscioglimenti la stessa eco riservata a sospetti e accuse. È un meccanismo perverso da cui ancora si fatica ad uscire. E al danno si aggiunge la beffa, se si pensa a certi paradossi. Quali? La storia di Lucci riporta alla memoria altri casi di assoluzioni eclatanti e appare come l’ennesimo esempio di personalità di rilievo pubblico sacrificata sull’altare delle lotte di potere interne. Il sacrificio si compie adendo le vie giudiziarie e l’effetto indirettamente ricade a pioggia sulla città, per cui un intero pezzo della classe dirigente napoletana viene messa da parte. È accaduto con Antonio Bassolino, impegnato sul fronte dell’emergenza rifiuti in Campania e subito scaricato dal suo partito, il Pd, alla notizia delle inchieste della Procura, salvo poi essere assolto per ben 19 volte. È accaduto con Lorenzo Diana, l’ex parlamentare impegnato sul fronte dell’antimafia, sostituito alla presidenza del Caan di Napoli, per decisione del sindaco di Luigi de Magistris, dopo la notizia del suo coinvolgimento nell’inchiesta della Dda su Cpl Concordia: anche Diana è stato completamente scagionato (lo stesso pm ne ha chiesto l’archiviazione), ma dopo cinque anni di gogna. La stessa Lina Lucci era impegnata non solo all’interno del sindacato, ma anche in una battaglia pubblica per il rinnovamento del porto di Napoli: è stata fermata da un’inchiesta che si è conclusa con assoluzione «perché il fatto non sussiste», come ha spiegato il giudice nelle motivazioni. In tutti questi casi la città si è ritrovata improvvisamente privata di una parte della classe dirigente per scoprire, a distanza di anni (nel nostro Paese la giustizia è lenta), che non c’erano prove e le accuse erano infondate. Ma è una scoperta che puntualmente arriva quando ormai nulla è come prima né può più diventarlo. Sicché i “buoni”, cioè gli assolti, restano fuori dai giochi o devono faticare non poco a risalire la china, e gli altri, anche chi ha una condanna seppure in primo grado (bisogna sempre essere garantisti!), sono richiamati e riammessi a un ruolo istituzionale. È l’impazzimento del sistema? Può darsi. Sta di fatto che la vicenda di Lina Lucci solleva più di una riflessione. Su certe selezioni effettuate su base giudiziaria, sulle zone grigie dell’associazionismo democratico, sui tempi (lenti) dei processi nelle aule di giustizia e su quelli (rapidissimi) nei salotti dei talk show.

«Io, pm sotto attacco perché non passo le carte ai giornali». Parla Giancarlo Bramante, procuratore capo di Bolzano che si è occupato del caso di Benno Neumair. Il magistrato è stato condannato dai “soliti” media perché ha osato preservare il segreto istruttorio dal voyerismo della stampa. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 marzo 2021. «Come spesso cerco di spiegare ai colleghi dell’ufficio, il pubblico ministero deve vivere nel costante dubbio, inteso come verifica continua dei fatti e delle circostanze su cui sta indagando, anche a favore della persona sottoposta ad indagine preliminare, come previsto dall’articolo 358 ccp»: a dirlo al Dubbio è il dottor Giancarlo Bramante, Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Bolzano. Lo intervistiamo perché ha suscitato delle critiche in Alto Adige e in qualche salotto televisivo nazionale la scelta della Procura di secretare per un mese la confessione di Benno Neumair, reo confesso dell’omicidio dei genitori Peter Neumair e Laura Perselli, scomparsi a Bolzano il 4 gennaio di quest’anno. Il 29 gennaio il figlio era stato arrestato e il 6 febbraio il corpo della madre era stato trovato nell’Adige. La confessione sarebbe arrivata poco dopo, in due successivi interrogatori che la Procura ha secretato fino al lunedì della scorsa settimana, quando, tramite un comunicato stampa, ha reso noto che l’indagato aveva ammesso le sue responsabilità. Il fascicolo è stato desecretato contestualmente alla richiesta di incidente probatorio finalizzato ad accertare le condizioni mentali del ragazzo. La Procura, in base agli atti processuali, ha ritenuto doveroso stabilire se il ragazzo fosse capace di intendere e volere al momento dei tragici fatti e se sia dunque imputabile. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti del Trentino Alto Adige, Mauro Keller, aveva criticato la decisione di mantenere il segreto istruttorio perché il fatto è di «evidente interesse pubblico e rilevanza sociale». Anche la sorella dell’indagato si era detta dispiaciuta di aver appreso della confessione da parte della stampa. Su questo la giunta dell’Anm del Trentino-Alto Adige ha invece difeso la scelta della Procura pur «nel massimo rispetto per la sofferenza dei familiari della coppia Neumair». Altresì “Quarto Grado” nella trasmissione di venerdì scorso ha stigmatizzato il silenzio della Procura insieme alla disposizione della perizia psichiatrica. Questo giornale difende la scelta della Procura: da tempo denunciamo le storture del processo mediatico parallelo ma potremmo sembrare di parte. Invece, proprio due giorni, fa è stata la Ministra Cartabia a dire: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale».

Procuratore da dove nasce la scelta di secretare l’ammissione di responsabilità?

Il primo interrogatorio dell’indagato ad un certo punto è stato sospeso per volontà dei difensori, che hanno fatto richiesta di ‘riserva di prosecuzione’. A quel punto è stato doveroso da parte dei colleghi sostituti, in accordo con i difensori, procedere alla secretazione. Si è trattato di una scelta dettata dal fatto che l’atto non era compiuto e le dichiarazioni non erano assolutamente complete.  La scelta dei pubblici ministeri rientra tra le facoltà previste dal codice di procedura penale, sussistendone tutti i presupposti procedurali. Tenga presente poi un aspetto importante.

Prego.

L’interrogatorio, per come lo interpreto io, è un atto di difesa dell’indagato. Non è uno strumento di imposizione. Per esempio, l’indagato può chiedere di avvalersi della facoltà di non rispondere  oppure decidere di non prendere posizione in merito ad una precisa questione. In astratto, il substrato probatorio può acquisire una tale valenza che si può giungere anche alla richiesta di archiviazione. Si tratta di concetti che dovrebbero essere conosciuti da chi vuole discutere di fatti di cronaca.

Cosa ne pensa di quanto detto due giorni fa dalla ministra Cartabia in merito alla fase delle indagini?  

Nel rispondere al direttore dell’Adige,  Alberto Faustini, esprimo proprio questo concetto: sono fermamente convinto che la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio con la difesa e le altri parti processuali, dinanzi ad un giudice terzo e super partes che valuta i fatti. Il concetto di verità è molto articolato soprattutto in un processo penale garantisticamente concepito sul concetto del ragionevole dubbio.

Anche la vostra scelta di optare per la perizia psichiatrica dell’indagato ha suscitato polemiche. Eppure, come prevede il codice, il ruolo di un pm è anche questo.

Come spesso cerco di spiegare ai colleghi dell’ufficio,  il pubblico ministero deve vivere nel costante dubbio, inteso come verifica continua dei fatti e delle circostanze su cui sta indagando, anche a favore della persona sottoposta ad indagine preliminare, come previsto dall’articolo 358 ccp. Ogni dato acquisito nel corso delle indagini, ogni dichiarazione delle persone informate sui fatti e dell’indagato devono trovare un riscontro oggettivo per poi essere presentato al giudice che lo valuterà. La verità del pubblico ministero non esiste ontologicamente, esiste la conclusione delle indagini preliminari che ha la sua sintesi della richiesta di rinvio a giudizio con la formulazione del capo di imputazione in forma chiara e precisa. Si tratta quindi di una tesi su un fatto penale che deve passare al vaglio di più giudici, prima di poter divenire pronuncia definitiva che rappresenterà la verità processuale dei fatti, e che non necessariamente rappresenterà la verità assoluta. L’accertamento della verità trova quindi la propria sintesi nelle sentenze definitive, nel pieno rispetto del principio costituzionale di non colpevolezza di cui all’articolo 27 della Costituzione.  Io credo profondamente in questo che le ho appena detto e cerco di trasmetterlo ai miei giovani procuratori.

Come abbiamo scritto in un recente articolo i primi ad essere attaccati sono stati gli avvocati che difendono i “mostri da prima pagina”, poi i giudici che li assolvono, dopo i giornalisti che li intervistano e infine le Procure che rispettano semplicemente principi basilari. Come si affronta questa pericolosa deriva?

Secondo me il problema è complesso e articolato: da un lato c’è l’aspettativa della società di una decisione rispetto ad un determinato caso e dall’altro lato ci sono poi le garanzie di quel concreto caso. Avviene purtroppo una sovrapposizione tra il caso concreto che si erge a caso generale. Si perde di vista che dietro ogni singolo caso ci sono delle forme processuali. È chiaro che se si eliminano i principi del giusto processo, il diritto alla difesa, e tutte le garanzie costituzionali la questione diviene prettamente culturale. Essa riguarda tutti i soggetti dello svolgimento del processo: magistratura, avvocatura, giornalisti, società civile. Ci deve essere sempre un controllo dell’opinione pubblica sulle notizie ma il controllo vero deve essere svolto nel rispetto dei principi processuali.

La mediaticità dei processi. Giustizia lumaca, così è la stampa a dare le sentenze. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Marzo 2021. «Nessun giudice deve farsi condizionare da quello che legge sui giornali, sicuramente può restare amareggiare se una sua decisione viene letta in maniera molto critica ma anche questo fa parte del nostro lavoro». Per Tullio Morello, magistrato della sezione penale del Tribunale di Napoli e per molti anni giudice delle indagini preliminari, «i processi non devono essere mai celebrati sulla stampa, perché senza conoscere tutti gli atti posti a margine di un provvedimento non è possibile avere un approccio tecnico». Per Morello, dunque, il nodo sta nella mediaticità dei processi, e non solo. «C’è anche una colpa del sistema – aggiunge – che è quella di dare maggiore importanza alla fase delle indagini rispetto alla fase del giudizio». Una sorta di sbilanciamento, dunque, a favore della prima fase dell’iter giudiziario, che corrisponde a quella delle ipotesi e delle ricostruzioni accusatorie, e a scapito della fase del dibattimento vero e proprio, cioè del momento in cui l’accusa viene provata o smentita. «In molti casi accade che la polizia o il pm riservi un’attenzione per la fase preliminare delle indagini diversa rispetto a quella del giudizio. Tuttavia, questo non deve essere letto solo come un punto di colpa per l’investigatore o l’inquirente, ma va letto anche considerando che i tempi del processo sono ormai assolutamente distorti, l’eccessiva durata dei processi è inaccettabile e inevitabilmente comporta una maggiore attenzione per la fase iniziale, che è la più calda. Perché il risultato vero si ha dopo tanti anni quando le cose ormai sono cambiate e non sono nemmeno più gli stessi investigatori a curare l’andamento del processo». Il giudice Morello centra, quindi, un tema cruciale del dibattito sulla giustizia: la durata dei processi. «Su questo rivolgerei un appello sempre più forte al legislatore affinché si riesca una volta per tutte ad accorciare i tempi dei processi. Una persona, colpevole o innocente che sia, ha diritto a una risposta in tempi ragionevoli, lo dice anche la Costituzione. Ogni processo riguarda vicende umane, non bisogna dimenticarlo». La storia giudiziaria è piena di casi mediatici, di lungaggini processuali che hanno avuto ripercussioni devastanti su vite e carriere di chi ne era protagonista, di errori giudiziari eclatanti. Morello è figlio del giudice Michele Morello che fu nel collegio della Corte di Appello che assolse Enzo Tortora ponendo fine al calvario giudiziario del noto presentatore. «Anche di fronte ai casi più clamorosi, il giudice non deve mai lasciarsi condizionare. Credo sia importante non innamorarsi dei processi. Io, dopo aver firmato una sentenza, metto da parte il processo cercando di dimenticarmene, di non innamorarmene, anche perché bisogna considerare che ci sono tre gradi di giudizio. Questo è uno degli aspetti su cui insisto di più nel momento della formazione dei colleghi più giovani». Lavoro difficile quello del giudice, che con le sue decisioni può determinare non solo l’esito di una vicenda giudiziaria ma anche di una o più vite umane. «Un giudice che si fa influenzare dovrebbe solo cambiare lavoro – conclude Morello – Nessun giudice si fa condizionare da un articolo, da una manifestazione, da un qualsiasi tipo di protesta. Cresciamo sapendo che le nostre decisioni per loro natura scontentano qualcuno. Il problema riguarda il modo di riportare le notizie e il clamore che si dà agli arresti e non alle assoluzioni. Se ne discute da tanti anni ma purtroppo sempre con risultati alquanto scarsi».

Dagospia il 19 marzo 2021. Intervista esclusiva (di Antonello Sette) all’avvocato Federico Tedeschini, già docente di Diritto Pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma.

Professor Tedeschini, partiamo dalla strettissima attualità. La Corte europea ha circoscritto il ricorso alle intercettazioni solo ai casi più gravi. E’ la fine di un abuso?

C’è molto di più rispetto a quello che lei mi dice. La Corte europea, ha stabilito, una volta per tutte, senza possibilità di diverse interpretazioni, che l’utilizzo delle intercettazioni deve essere autorizzato solo da un giudice e non dal pubblico ministero, che difende per sua natura i diritti dell’accusa. Sinora, nella stragrande maggioranza dei casi avveniva esattamente il contrario, con l’abusata scusa dell’urgenza.

L’abuso delle intercettazioni da parte dei pubblici ministeri è anche frutto di quel corto circuito malagiustizia-informazione che lei ha più volte denunciato senza mezzi termini…

Io penso che i grandi problemi della giustizia italiana, non solo di quella penale, derivino dal consolidamento di un pactum sceleris fra i mezzi di informazione e i magistrati, intesi come un potere dello Stato rappresentato soprattutto dal Csm. Un patto scellerato in base al quale, in cambio della fornitura, a richiesta, di scoop e notizie della più varia natura, la stampa nasconde le inefficienze e gli errori, spesso drammatici, di tutto il sistema giudiziario. Inefficienze che, per quanto riguarda il diritto penale, nascono soprattutto dalla confusione che si fa nell’ambito della magistratura tra pubblico ministero e giudice.  E non c’è dubbio che la scelta della Corte europea di riservare al giudice l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni, apra uno squarcio di luce e di aria pulita su una deriva barbarica. E’ stato, infatti finalmente chiarito che il pubblico ministero non è un giudice. E’ solo una parte del processo.

A proposito di corto circuito giustizia-informazione è di strettissima attualità anche lo scalpore per il processo calabrese “Rinascita Scott” contro alcune cosche della ndrangheta, celebrato, prima ancora di iniziare, su Rai Tre, nel programma Presadiretta…

Sul processo in corso non mi pronuncio. E’, però, inquietante che, altri non abbiano ritenuto di osservare altrettanto silenzio. In un processo contro trecento persone, molti imputati sono finiti in carcere e successivamente la maggioranza di loro è stata liberata, nel silenzio dei media, dalla Corte di Cassazione. Si sbattono i mostri in prima pagina. Poi si scopre che mostri non erano, ma è troppo tardi, perché per l’opinione pubblica restano per sempre i mostri che erano descritti sui titoli dei giornali. Questa consolidata barbarie riguarda non solo “Rinascita Scott”, ma un’infinità di altri processi. E’ di strettissima attualità anche il caso dei manager dell’Eni. Per anni, molti giornali hanno promosso le loro vendite sul cosiddetto scandalo della corruzione internazionale per le tangenti, che sarebbero state riscosse in Nigeria. Ora si è accertato, una volta per tutte, che quelle tangenti erano un’invenzione. Mi domando chi risarcirà le persone colpite e affondate a livello mediatico. Io non dico che la giustizia non debba fare il suo corso, ma la gogna mediatica, per di più preventiva, è una vergogna inaccettabile in un Paese civile.

Tornando a Rinascita Scott, le pare ragionevole che un programma televisivo di grande ascolto dia quasi tutto lo spazio all’accusa e quasi nessuno alla difesa, contrabbandando le tesi dell’accusa come delle verità, senza ricordare che quelle verità devono essere ancora accertate nel processo.

Con l’aggravante che l’evento mediatico in questione è stato celebrato da un’emittente che dovrebbe per sua natura svolgere un servizio pubblico. In un Paese civile avrebbero già mandato a casa i vertici della Rai. C’è stato, invece, un sostanziale silenzio generale, a partire dalla Commissione di Vigilanza, salvo qualche intervento spot che lascia il tempo che trova. E’ tutto un sistema incompatibile con le regole europee sulla tutela delle libertà fondamentali. Dobbiamo decidere, una volta per tutte, se noi nel processo ci crediamo o no. Se decidiamo di non crederci, basta abolirlo. Le verità dell’accusa non sono ancora la verità processuale. Oltretutto, una volta sbandierate sui giornali, creano un clima di legittima suspicione, perché tutti quelli chiamati a giudicare saranno stati nel frattempo condizionati da quello che hanno letto sui giornali. Lo squilibrio fra accusa e difesa viola palesemente l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Del rapporto perverso fra i pubblici ministeri, giornali e tv ha parlato anche Luca Palamara nel libro-intervista di Alessandro Sallusti, da tempo in testa a tutte le classifiche di vendite. Ha letto il libro?

Un testo di contenuto tecnico, che viene stampato in trecentocinquantamila copie, è diventato un contraltare alla grande stampa. Io vi leggo, innanzi tutto, la prova dell’’abbandono da parte del nostro sistema di quel fondamentale principio, secondo cui l’esercizio del potere implica sempre una responsabilità. Un principio di civiltà giuridica, che vale per tutti, meno che per i magistrati. Ci sono state molte indignate smentite, qualche querela, ma nulla di più. Il libro è servito a spiegare agli italiani quello che la stampa non aveva neppure accennato. Gli italiani hanno potuto capire che il sistema giudiziario ha tutti difetti di un sistema politico. Con una differenza non da poco. I politici, se esagerano, non vengono rieletti. I magistrati restano, invece, in ruolo.

La tanto invocata e mai realizzata riforma del Csm potrebbe essere utile?

Lo dicono tutti, anche quelli che vorrebbero mantenerla così come è. Sarebbe necessaria perché si potrebbe rompere il sistema delle correnti. Qualcuno dovrebbe spiegarmi come quel sistema sia compatibile con il principio della certezza del diritto. Come può un giudice dispensare serenamente giustizia se appartiene a questa o a quella corrente portatrice di interessi diversi da quelli delle altre?

Che cosa l’ha fatta più arrabbiare?

La stessa cosa. Da sempre. Non accetto che i cittadini siano in balia dei pubblici ministeri, e anche purtroppo dei Tribunali della Libertà, senza potersi in alcun modo difendere. Uno stato di soggezione, prostrazione e frustrazione, incompatibile con il sistema disegnato dalla Corte europea dei diritti dell’umo. Ma ci stiamo arrivando.

A che cosa stiamo arrivando?

A renderci finalmente conto, nonostante il contributo nullo della grande stampa, della necessità di riformare il nostro sistema per renderlo uguale a quello degli altri Paesi europei. Una delle condizioni, imposteci dall’Europa per l’accesso al Recovery Fund, è la riforma della giustizia. E, anche a questo proposito, la stampa omette di scrivere che l’Europa vuole una giustizia non solo efficiente, ma soprattutto “giusta”. La giustizia italiana non è una giustizia garantista. E’ sotto gli occhi di chi voglia vedere. Oltre che guardare.

La giustizia che confonde la questione morale con la questione penale. Lunedì scorso nella trasmissione “Presa Diretta”, su Rai3, per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro, nel quale sono imputate oltre 400 persone. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 20 marzo 2021. Nella settimana nella quale il lungo processo all’Eni e in particolare a Scaroni e a De Scalzi, accusati della corruzione più scandalosa del secolo scorso, si conclude con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste, la Rai organizza una trasmissione in prima serata per anticipare il processo che è cominciato a Catanzaro da pochi giorni per oltre 400 imputati. Nella trasmissione televisiva tutti gli imputati sono stati dichiarati colpevoli a prescindere dalla conclusione del processo che avverrà fra molti mesi. Le notevoli sentenze che si sono concluse e si concludono con l’assoluzione dell’imputato non sono in grado di turbare la stampa e la Rai, che calunniano ed espongono al pubblico ludibrio persone in attesa di provare la propria innocenza. Aggiungo che quando la sentenza statuisce che il fatto non esiste, significa che il processo era pretestuoso, non doveva essere fatto: è il caso dell’ultima sentenza dell’Eni, ente prestigioso nel mondo che è stato sottoposto per lunghi anni a denigrazioni di ogni tipo. Come è possibile che un Paese che ha solide tradizioni giuridiche come l’Italia sia caduto così in basso e con l’indifferenza dei più, si calpesti diritti fondamentali, ma anche principi elementari di educazione, di rispetto per le persone?! Proviamo a dare una risposta. Assistiamo da anni allo scontro tra garantisti e giustizialisti con polemiche vivaci ma alla fine si scopre che ognuno è alternativamente garantista e giustizialista a seconda dei propri interessi personali. È la questione morale che viene invocata e al tempo stesso dimenticata. Negli anni 70 è stata posta in maniera forte e drammatica la “questione morale“ come problema sociale e istituzionale: lo fece per primo Enrico Berlinguer in presenza della crisi del comunismo sovietico per dare una linea politica al suo partito e per riscattarlo dai soprusi e dai finanziamenti sovietici. Invocò questa scelta giusta senza denunziare i “peccati” del Pci, solo per contestare il potere dei partiti della maggioranza che in quel periodo governavano. E la “questione morale” divenne prontamente “questione penale” e la magistratura, con le modalità ormai note, si impegnò a processare il “sistema” più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili. Il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, che pur vi sono state, ha acquisito le caratteristiche del giudice etico che condanna il male per far vincere il bene! Siccome in Italia il giudice viene confuso con il pubblico ministero è quest’ultimo l’angelo vendicatore del malcostume: questo il messaggio che il servizio pubblico trasmette. Il confondere la “morale” con il “penale“ costituisce l’equivoco più deleterio per la comunità e per le istituzioni perché permette di “consentire” ma al tempo stesso di “criminalizzare” qualunque comportamento non trasparente o non opportuno! La Rai trasgredisce la questione morale in tutti i suoi aspetti, riservatezza, obbligo di informazione corretta sostenuta da prove che valgono anche fuori dal processo.Nel vecchio processo penale italiano il pm istruiva il processo inquisitorio nel senso che raccoglieva le “prove” e portava il suo elaborato al giudice; nella concezione del “nuovo” (si fa per dire!) processo accusatorio il pm è dominus dell’accusa, ma gli indizi che raccoglie, debbono diventare “prove” nel contraddittorio, dinanzi al giudice. La dialettica processuale individua il pm come “parte” e dà rilevanza al giudice “terzo”, al di sopra delle parti. Nella pratica quotidiana avviene in maniera profondamente diversa da come il codice stabilisce. E la Rai servizio pubblico che dovrebbe rispondere alle leggi dello Stato e alla Costituzione, ma dovrebbe soprattutto rispondere alla legge morale che è il presupposto di qualunque ordinamento, tiene conto solo degli indizi ricercati dal pm e li fa diventare prove nella trasmissione. Dunque lunedì scorso nella trasmissione Presa Diretta per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro e credo si sia superato qualunque limite. Il processo ha un suo valore sociale e questo dovrebbero saperlo paradossalmente più i pm che i giudici, perché il dibattito in tribunale deve essere finalizzato a far diventare prova gli indizi, i sospetti che hanno consentito l’indagine con i provvedimenti relativi. È il cittadino singolo e la società nel suo insieme che sono interessati e rendere giustizia e la democrazia si invera in questo rapporto istituzionale. D’altra parte questo accanimento a colpevolizzare le persone prima di un giudizio terzo non si comprende se non con il dilagare di un populismo penale irrazionale e pericoloso e soprattutto rancoroso. Nessuna democrazia al mondo può supportare una ferita così grave come questa, di fronte alla quale non si può assistere inerti. Il governo che negli anni scorsi ha voluto garantirsi una presenza consistente nella Rai, deve dare direttive per far applicare la Costituzione, e il Parlamento deve controllare che non ci sia una informazione distorta che allarmi il cittadino e renda un imputato colpevole prima del sacrosanto processo di cui ha diritto. Il signor Riccardo Iacona conduttore della trasmissione così come gli altri conduttori dovrebbero prendere atto di tutte le sentenze che scagionano i presunti colpevoli che in precedenza avevano abbandonatemene offeso. Aggiungo per ultimo che in particolare nella trasmissione di lunedì si è intervenuto in una problematica delicatissima costituita dal rapporto tra l’avvocato e il suo cliente che è l’anima del processo perché il diritto di difesa è sacrosanto e costituzionalmente garantito, e dunque l’onorevole avvocato Giancarlo Pittelli è stato offeso e calunniato. Ho ricordato tante volte una mia proposta di legge, mai approvata, volta a tenere segreto il nome del giudice e in particolare del pm, per tutelarli e metterli appunto al riparo da reazioni sconsiderate, ma anche da critiche ingiuste a cui a volte sono sottoposti. Se ci fosse questa legge il protagonismo dei pm, inevitabile per la umana debolezza, non alimenterebbe processi farlocchi in tv e il procuratore Gratteri, pm nel processo di Catanzaro, sarebbe maggiormente rispettato. Un appello al ministro della Giustizia che ha i poteri per evitare i processi in tv.

La lettera di un giudice ai colleghi. Colleghi magistrati, i processi non fateli in TV come Gratteri. Emilio Sirianni su Il Riformista il 19 Marzo 2021. Emilio Sirianni è un giudice che da sempre vive e lavora in Calabria. Nei giorni scorsi, dopo la messa in onda di “Presa Diretta” (la trasmissione Tv della quale è stato protagonista il Procuratore Gratteri), ha scritto una lunga mail ai suoi colleghi. La mail è stata pubblicata ieri su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica. Ne pubblichiamo amplissimi stralci. Ero indeciso se scrivere di nuovo sull’argomento. La sensazione di inutilità, di prendersela contro i mulini a vento è forte, come pure la voglia di dire “ma chi me lo fa fare”. Però, in questo Sud io ci sono nato e ci vivo, l’oppressione e pervasività di “quel” potere le conosco bene e conosco bene la rassegnazione alla sconfitta. E relativi volti. Quelli di chi, letteralmente, ti rappresenta la fine della vita tua e di chi ti è vicino, pur non facendolo in modo esplicito, ma sempre con ragionamenti ellittici, dal suono amichevole persino e proprio per questo più terrorizzanti. Quelli di quanti stanno dietro o a fianco ai primi, ma mai nei luoghi della gente normale e che indossano toghe, siedono in c.d.a., presiedono enti, casse, partiti, fondazioni, frequentano le stanze di compensazione degli interessi che contano e decidono le sorti di queste terre da generazioni. Infine quelli dagli occhi bassi e i pugni stretti, che mordono le labbra e cedono e cedono e pare non debbano mai smettere di farlo. Ma io sono in grado di comprendere e svelare, per il mestiere che faccio e, proprio perché conosco quei volti, sento di dover continuare a parlare. (…) Su Rai3, nella trasmissione Presa diretta, si è parlato del noto processo Rinascita-Scott, che proprio in questi giorni muove i primi passi nella nuovissima aula bunker costruita in tempo record a Lamezia Terme. (…) Sento il bisogno di dire quanto questa riflessione mi costa. Mi costa molto, per tante ragioni che prima ho solo accennato. Perché ho riconosciuto nei molti filmati dei ROS i volti di cui dicevo. Perché ho riconosciuto, nelle parole intercettate, parole che mi suonano in testa e mi pesano sul cuore da una vita. Di più, mi costa molto perché, da tecnico, ho ben percepito –come chiunque di voi abbia visto la trasmissione- il valore e l’importanza di quegli elementi di prova. Il loro peso dirompente laddove vanno a incidere l’empireo degli intoccabili, squarciando la pesante coltre dietro cui si nascondono. Mi costa moltissimo perché sento sulla mia pelle la rabbia e il dolore di quei genitori che hanno perso i figli per mano di un potere criminale, di tutte quelle donne e quegli uomini che manifestavano a sostegno dell’indagine sotto le finestre dei carabinieri all’indomani degli arresti, invocando finalmente giustizia. Ma al tempo stesso, proprio per questo, non posso tacere. La stampa – lo sappiamo bene – fa il suo mestiere. Cerca notizie d’interesse pubblico e le diffonde e il valore di un giornalista si misura sulla sua capacità di trovare le notizie e sulla capacità di esporle. Il giornalista di cronaca le scova muovendosi fra segreti istruttori e fasi di discovery, fra prove nascoste e prove esibite, fra indiscrezioni carpite e indiscrezioni fatte filtrare. Del resto anche la polizia giudiziaria e gli organi inquirenti fanno il loro di mestiere. Cercando prove, custodendole gelosamente, coltivandole affinché, al momento giusto, germoglino e diano frutti. Ma anche in questo caso, in un gioco di specchi e di parti che è antico quanto il processo stesso, praticando sovente l’arte dell’indiscrezione veicolata e del consenso. Spesso utili anche per le sorti delle ipotesi d’accusa, ma altrettanto spesso per quelle delle carriere personali. In America ci hanno costruito, da sempre, un genere letterario e cinematografico che non conosce crisi. Nella trasmissione di ieri, però, abbiamo assistito ad una sorta di smascheramento. Tutto si è svolto alla luce del sole anzi sotto la luce delle telecamere. Negli studi televisivi ed in esterni, letteralmente sul luogo del reato. Niente segreti pazientemente carpiti o sapientemente filtrati nell’ombra del lavoro d’indagine giornalistica od investigativa, ma ufficiali dei carabinieri che illustrano il contenuto di intercettazioni telefoniche e video, indicano i luoghi in cui si sono appostati per eseguire le riprese, illustrano le storie criminali dei vari protagonisti e gli organigrammi delle rispettive cosche. E in alto su tutti, ovviamente, l’Inquirente. Tralasciamo gli aspetti personali che ognuno è libero di valutare come meglio crede. Penso ai reiterati riferimenti a concetti quali “codardia/vigliaccheria” o ai dialoghi interiori con compagna morte (intervista alla Gazzetta del Sud del 16 marzo). Quel che mi allarma, e che dovrebbe allarmare tutti, è che, proprio alla vigilia di un delicatissimo processo, si ritenga normale che il pubblico ministero partecipi, in veste di protagonista assoluto (pur se affiancato, come detto, da spalle di prim’ordine), al processo mediatico-televisivo che precede e affianca quello che s’avvia nell’aula bunker. Un processo nel quale tre giovanissime colleghe, che assieme non arrivano a sommare 10 anni di anzianità, dovranno affrontare, oltre all’ordinaria pressione che accompagna un processo di queste dimensioni e complessità anche la pressione mediatica, enorme, che una delle parti processuali oggettivamente contribuisce a determinare. So che sapranno farlo, che resistere a simili pressioni è la parte di bagaglio professionale che alle nostre latitudini si acquisisce più celermente, ma è giusto ed accettabile che ciò accada? Infine, noi, che siamo cresciuti alle lezioni di garantismo di Luigi Ferrajoli e di tanti altri maestri, abbiamo fermo in mente il loro insegnamento che ci ricorda come il soggetto da tutelare nel processo penale sia sempre l’imputato, a difesa dei cui fondamentali diritti sono predisposte tutte le regole e garanzie che ne scandiscono l’incedere. La prima delle quali è quella che stabilisce che la prova si forma nel processo. Non nelle indagini ed ancor meno nella rappresentazione mediatica delle stesse. Una regola, questa, che esprime anche un fondamentale principio epistemologico del processo penale accusatorio, che individua nel contraddittorio e nella dialettica paritaria tra le parti del processo il miglior criterio per giungere all’accertamento della verità. Ed a me, a noi tutti che in queste terre disgraziate ci troviamo o abbiamo scelto di vivere, quello che interessa, prima d’ogni altra cosa, è la verità. Per questo, principalmente, vorrei invitare chiunque indaghi sulla criminalità mafiosa, con toga sulle spalle o stellette sul petto, a non arruolarsi in quella guerra che il Procuratore Gratteri ha evocato in TV, continuando, molto più banalmente, a fare ciascuno la cosa più difficile: il proprio mestiere.

Iacona con Presa diretta ha fatto disinformazione, il giornalismo d’inchiesta è cosa seria. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Marzo 2021. La Rai ha reagito duramente, per bocca del suo Amministratore Delegato Salini, alle veementi proteste che in particolare l’Unione delle Camere Penali ha indirizzato alla trasmissione Presa Diretta, condotta su RAI 3 dal giornalista Riccardo Iacona, dedicata alla indagine “Rinascita Scott” della Procura di Catanzaro. Secondo Salini, si tratta di un fulgido esempio di servizio pubblico, e di un giornalismo d’inchiesta del quale andare fieri. Il dott. Iacona a sua volta si è polemicamente rivolto al sottoscritto, chiedendo se per caso io sia dell’idea che i giornalisti possano interessarsi di una inchiesta giudiziaria solo dopo la sentenza definitiva. Entrambe le reazioni sono frutto di una speculazione retorica e polemica che elude il tema che abbiamo posto. Vediamo subito perché.

1. La trasmissione andata in onda non ha nulla del cosiddetto “giornalismo di inchiesta”. Il dott. Iacona e la sua redazione hanno semplicemente e comodamente preso visione degli atti di quella indagine, evidentemente messi a disposizione dalla Procura o dalla Polizia Giudiziaria, e confezionato in modo del tutto unilaterale una sintesi degli elementi di prova (intercettazioni e video riprese, in modo particolare) ritenuti più significativi ed efficaci in termini accusatori. Peraltro, l’adesione della narrazione al punto di vista accusatorio è manifesta.

2. Ciò avviene nello stesso momento in cui ha inizio il processo davanti al Tribunale di Catanzaro. Nel processo penale quegli atti sono ignoti al Tribunale, al quale è fatto divieto di conoscerli se non mediante la eventuale e futura acquisizione degli stessi in dibattimento, in contraddittorio tra le parti, dunque valutate e superate eventuali eccezioni difensive sulla loro utilizzabilità e legittimità, e valutati altresì i contributi difensivi (peritali, testimoniali, documentali) che ne contestino il significato probatorio. Si chiama “verginità cognitiva del Giudice”, garanzia imprescindibile della terzietà ed indipendenza del suo giudizio. Quale fine essa abbia fatto, grazie al nostro “giornalismo d’inchiesta”, è superfluo dirlo.

3. L’idea che intercettazioni, videoriprese e dichiarazioni accusatorie o apparentemente confessorie rechino in sé il crisma della oggettività è una delle più indecenti ipocrisie del giornalismo nostrano. Non facciamo altro nei processi, quotidianamente, che constatare – come è d’altronde perfettamente ovvio- che il significato di una conversazione o di una immagine sia destinata a confermarsi o invece a radicalmente trasfigurarsi alla luce, per esempio, di un’altra precedente o successiva. Qualunque conversazione, decontestualizzata o indebitamente contestualizzata, muta del tutto il proprio significato. Allo stesso modo, se mostro un filmato deprivato del suo sonoro (come esattamente accaduto in trasmissione), e lo faccio seguire da altra scena che però non è pertinente alla prima, sto confezionando una rappresentazione arbitraria e falsificata di quell’evento. La valutazione del significato di quelle immagini, così come la legittimità della scelta di quali rappresentare e quali no, non può che spettare alla sua sede naturale, cioè al processo ed ai suoi giudici, non certo alla redazione di una trasmissione televisiva, per di più palesemente partigiana a favore dell’organo dell’Accusa.

4. Lo stesso vale per la prova dichiarativa: se si riportano le dichiarazioni accusatorie ed autoaccusatorie di uno dei protagonisti della indagine, tacendo che già un Giudice (non un PM: esistono anche i Giudici) le ha qualificate come non attendibili, si opera una scelta deliberata di falsificazione del flusso informativo su quei fatti. Ancora una volta, ecco la ragione per la quale si tratta di materiale necessariamente riservato in via esclusiva al vaglio dibattimentale.

5. Se si informa la pubblica opinione – con toni apertamente elegiaci – di una indagine giudiziaria, accuratamente nascondendo gli oltre 140 provvedimenti di annullamento e revoca (spesso per “insussistenza del fatto”) di misure cautelari già pronunciati nel corso di essa, si fa una consapevole attività di disinformazione.

6. A proposito di “giornalismo di inchiesta” e di servizio pubblico: come mai non c’è verso di vedere, nemmeno per sbaglio, una puntata sui 140 indagati ingiustamente arrestati, detenuti ed infangati in questa, come in altre indagini precedenti di segno analogo? Poi, per carità, dott. Salini, ognuno ha la sua idea di cosa sia il servizio pubblico. Io di certo non apprezzo la Sua.

Tansi: “Camere Penali contro Iacona? In Calabria è normale: si attacca chi denuncia, non chi delinque. Ma assordante è silenzio politica”. Danilo Loria il 18 Marzo 2021 su strettoweb.com. “Un attacco strumentale, che va ben oltre il libero diritto di critica di uno qualunque dei telespettatori paganti di una produzione televisiva del servizio pubblico garantito dalla Rai. Mi riferisco, come ovvio, a quanto l’Unci Calabria, vale a dire l’articolazione territoriale delle Camere Penali, ha sostenuto attraverso un comunicato ufficiale diramato a tutti gli organi di stampa, tuonando contro l’approfondimento giornalistico sullo storico primo maxi-processo alla ‘ndrangheta denominato Rinascita-Scott, proposto da Riccardo Iacona nell’ormai notissima Presadiretta lunedì scorso secondo la stessa Unci lesivo del diritto alla difesa degli imputati”, è quanto scrive in una nota Carlo Tansi. “Una posizione, quella assunta dalle Camere Penali calabresi –sottolinea Tansi- che francamente non sta in piedi, considerato come per un procedimento di tali dimensioni e così sfaccettato, con centinaia di presunti colpevoli alla sbarra, diventa impossibile creare una qualche forma di condizionamento di natura mediatica della Corte giudicante. E a riguardo mi permetto di ricordare, pur non essendo un tecnico della materia, che qui non si sta ad esempio parlando dei delitti di Erba, Cogne o Avetrana, con uno o al massimo due imputati e un numero imprecisato di talk-show interamente dedicati al tema con tanto di plastici illustrativi ed esperti consulenti nei vari studi televisivi intenti a spaccare il capello in quattro e ad analizzare apparenti prove e indizi come fossero sì, davvero, dei periti in un’aula di Giustizia. Nell’occasione di Presadiretta si discute infatti di ben altro, ossia di uno squarcio coraggiosamente aperto su un mondo blindato, impenetrabile, protetto a ogni livello ovvero quello della più potente consorteria criminale del mondo. Fatto che va molto oltre al medesimo processo Rinascita-Scott, assumendo peraltro una valenza altissima secondo il principio sancito dall’art. 21 della Costituzione mediante cui i nostri Padri Costituenti hanno tutelato la libertà di espressione e informazione. Iacona ha dunque scoperchiato il Vaso di Pandora, illuminando il tenebroso sottobosco in cui si saldano gli interessi perversi di vecchi boss ancora degni del Padrino, e simbolicamente legati a coppola e lupara, quasi fossero ‘chiddi cu i peri incritati’ tipo Riina e Provenzano; nuovi famelici capibastone più affaristici e intraprendenti; insospettabili colletti bianchi al completo servizio in cambio di fiumi di denaro da parte dei vertici delle varie ‘ndrine; appartenenti alle forze dell’ordine corrotti e alcuni di quei ‘bravi cittadini’ a disposizione del Sistema in cerca di utilità di qualsivoglia genere. Una Malapianta che cresce infestando una foresta sana e drogando l’economia e la società di una regione altrimenti fra le più belle d’Italia e non solo”. “Ma quello che mi fa più male, addirittura sconvolgendomi, non è tanto l’affondo dell’Unci regionale a salvaguardia dei suoi interessi fra avvocati secondo l’accusa asseriti burattinai di certi giochi di potere e soldi, tantissimi soldi, imputati eccellenti e capimafia ottimi clienti, bensì l’assordante silenzio della politica. Un’Istituzione che avrebbe dovuto urlare tutto lo sdegno e la rabbia per quanto mostrato da Rai3 in diretta nazionale e viceversa chiusa a riccio, per i troppi inconfessabili strusci con quel mondo di..mezzo, in attesa di veder passare la tempesta. Una vergogna senza fine. Una pagina nera, da voltare al più presto. Perché unicamente con una classe dirigente, intesa nel suo complesso, non impermeabile rispetto a certe lusinghe si è potuti arrivare a questo punto. Quasi di non ritorno. Alla politica di tutte le ‘colorazioni’ hanno insomma fatto gola voti e formidabili appoggi economici per le campagne elettorali, motivi alla base di un patto con il Diavolo che hanno pagato, e stanno pagando a caro prezzo, tantissime generazioni di calabresi onesti. Ecco perché è arrivato il momento di dire basta, ma serve una rivoluzione dal basso. Ogni persona perbene, per quel che può, inizi dunque a rendersi promotrice e artefice del cambiamento”, conclude Tansi.

l processo in Rai. Iacona beatifica Gratteri e dimentica di chiedergli dei suoi flop. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Marzo 2021. Caro Riccardo Iacona, ho letto le tue dichiarazioni in polemica con l’avvocato Caiazza. Ho visto che temi che le camere penali vogliano cancellare il diritto di cronaca e il tuo diritto di preparare, in modo libero e senza condizionamenti, una trasmissione televisiva a sostegno delle tesi dell’accusa contro alcuni degli oltre 400 imputati al processo Rinascita Scott. In queste dichiarazioni spieghi come si fa giornalismo e come si respingono le ingerenze. Io faccio giornalismo da 46 anni. Non mi è mai capitato – devo ammetterlo – di impegnarmi in iniziative a favore di una Procura. Non metto in discussione il tuo diritto di farlo, per le ragioni più diverse, compresa – immagino – la tua convinzione della bontà delle tesi dell’accusa e dell’irrilevanza di quelle degli imputati. Non contesto niente a te: contesto la Rai che ha deciso di mandare in onda il tuo servizio. Mandandolo in onda ha tradito la sua vocazione di servizio pubblico, ha violato il diritto e la Costituzione. E ha compiuto una azione di infangamento di alcuni cittadini, molti dei quali incensurati. E anche un tentativo di influenzare la Corte. La cosa che mi dispiace è che nelle proteste contro questa azione violenta della televisione di Stato intervengano solo le Camere penali e qualche sporadico esponente politico. Tutti gli altri, terrorizzati, e rincantucciati in silenzio tremebondo. Non sono belle queste cose, Riccardo. Noi viviamo in Italia, non in Turchia né in Venezuela. Almeno, così credevo. Tu dici che i giornalisti dovrebbero occuparsi di più di ‘ndrangheta. Può darsi. E anche di come si svolgono le inchieste. Tu, per esempio, qualche hanno fa mandasti in onda in Tv un altro servizio giornalistico su Gratteri. Con Gratteri un po’ beatificato. Si parlava dell’indagine di Gratteri chiamata “New bridge”, una inchiesta antimafia che fece gran clamore sui giornali. 24 mafiosi in gattabuia, 40 indagati. Poi, Riccardo, lo avrai saputo, si è scoperto che di quei quaranta i mafiosi erano pochini. Uno solo fu condannato con il famoso 416 bis. L’altro giorno ti sei scordato di chiedere a Gratteri come mai quell’inchiesta andò così male. E se furono risarciti gli innocenti e i diffamati. E non gli hai chiesto nemmeno come mai, la celebre inchiesta “Marine”, con 200 arrestati in una sola notte e in un solo paesino, produsse solo 8 condanne. E poi ti sei scordato, dopo aver detto che la Procura di Catanzaro era un porto di mare prima dell’arrivo di Gratteri, di intervistare il procuratore precedente, un certo Lombardi, magistrato stimatissimo. Per conoscere il suo parere. Né, mi pare, hai voluto sentire il parere di Otello Lupacchini, il Procuratore generale quando partì Rinascita Scott, il quale su Rinascita Scott aveva molti dubbi. Poi hai lasciato che fosse crocifisso Pittelli, ma non hai chiesto come mai alcune intercettazioni (quelle che avrebbero dovuto inchiodarlo) fossero state mutilate o manipolate (come racconta lo stesso Pittelli qui). Peccato. Magari quando uno fa un’inchiesta prova a raccontare un po’ tutto, non solo la tesi di un procuratore. Certo, ciascuno ha le sue idee sul giornalismo. Tutte legittime. C’è per esempio chi pensa che il compito nostro sia quello di raccontare più verità possibile e di metterci sempre, per riflesso condizionato, dalla parte dei deboli e contro i potenti. Qui i deboli sono i prigionieri e gli imputati. Il potente, sicuramente è il procuratore. Non discuto la tua libertà di stare dalla parte del potente. Mica è un delitto. Discuto il diritto della Tv di Stato di gettare vagonate di fango su persone che la nostra legge considera innocenti. Non so se questo è il miglior modo di fare giornalismo. Forse sì. Dovrò convincermi, prima o poi, che tra Sciascia e Travaglio il migliore è Travaglio. Tra Rossanda e Scanzi il migliore è Scanzi…

La lettera al presidente Marcello Foa. La Rai ha violato la Costituzione, Gratteri protagonista di processo mediatico contro Pittelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Carissimo Presidente Foa, la Rai ha mandato in onda un processo ad alcuni cittadini calabresi, e in particolare all’avvocato Pittelli, assumendo in pieno le parti dell’accusa e costruendo un monumento al Pm di quel processo. Il quale Pm – nonostante le ripetute raccomandazioni dello stesso Csm, del Procuratore generale della Cassazione e della ministra Cartabia – ha violato spavaldamente ogni riservatezza e si è prestato a diventare il protagonista indiscusso di un processo mediatico e di una gogna. Il processo – quello vero – è in corso a Catanzaro, e la Rai è intervenuta a gamba tesa a favore dell’accusa. In questo modo la Rai ha violato tutti i principi dello Stato di diritto e della nostra Costituzione. Prestandosi – come servizio pubblico – ad una operazione di giustizialismo che sarebbe impossibile in qualunque altro paese anche vagamente democratico. Presidente, io la conosco come esponente del giornalismo liberale, e le chiedo: l’avevano informata? Lei ha dato il permesso? Cosa pensa di questo plotone di esecuzione? Intende difendere in qualche modo i diritti dei cittadini infangati? Pensa che sia il caso di proseguire con queste trasmissioni? Progetta una trasmissione di riparazione? Conto sulla sua sensibilità e sono sicuro che vorrà rispondermi.

Il processo in tv. Processo sommario di Iacona a Pittelli sulla Rai: Gratteri star della puntata in stile sovietico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Non è più il processo agli uomini di una cosca di ‘ndrangheta, è il processo a Giancarlo Pittelli, anzi non è più neanche un processo, è una sentenza sommaria di condanna. Lo ha deciso la Rai con la messa in onda, lunedì sera, di una puntata di Presa diretta di stile sovietico. Sarà perché ancora non è stato trovato un tribunale i cui giudici non siano incompatibili a giudicare gli imputati del Maxiprocesso di Nicola Gratteri. Sarà forse perché nessuno è Einstein ed è in grado di distinguere posizione da posizione dei 416 accusati che ogni giorno dal 16 gennaio compaiono all’interno della maxi-struttura di Lamezia dove si celebra il processo “Rinascita Scott”. O sarà per qualche insondabile motivo, di quelli da professionisti dell’antimafia che continuano a rimestare in un passato di stragi e devastazioni che (per fortuna) non esistono più, ma senza le quali rischiano in tanti di restare disoccupati. Sarà forse per tutti questi motivi messi insieme che la Rai, quel servizio pubblico che tutti gli italiani festosamente pagano sulla bolletta dell’energia elettrica, ha deciso di tagliare la testa al toro e di annullare il processo. Tanto a che cosa serve? La sentenza è presto emessa: tutti colpevoli. A dispetto di quel che proprio due giorni fa aveva detto con solennità la ministra della giustizia Marta Cartabia a proposito del principio costituzionale della presunzione di innocenza. Un giornalista all’uopo lo si trova sempre, Riccardo Iacona. Un regista è già lì pronto, Riccardo Iacona, e così un direttore d’orchestra e un tecnico delle luci. Sempre lui, Riccardo Iacona. La prima immagine è suggestiva, un tripudio di luci color cobalto e la voce narrante che ti mette subito le mani alla gola: Vibo Valentia e la sua provincia si illuminano di blu, con tremila carabinieri e gli uomini del Gis che stringono d’assedio 334 arrestati e 416 indagati. Sono state smantellate le mafie di questi luoghi con i loro 160.000 abitanti e 50 Comuni. Sono I Cattivi. Accompagnati da una musica assordante da marcia funebre in un film dell’orrore. Ma per fortuna c’è il Buono. Ecco la prima immagine di soddisfazione del procuratore Gratteri (nel film comparirà complessivamente sei volte) nella conferenza stampa di quel 19 dicembre del 2019, dopo la retata di 334 persone. Nulla si dice di quel che è accaduto nei giorni successivi, le scarcerazioni, gli annullamenti disposti da giudici di diversi gradi, intervenuti con precisione chirurgica sulla vera pesca a strascico attuata dai carabinieri guidati dal procuratore capo. La musica si fa più drammatica mentre l’occhiuto ufficiale dei carabinieri a bordo dell’elicottero mostra i territori ormai occupati dai mafiosi che “si sono inseriti in ogni ambiente della città”. Suggestivo, così come lo è l’arresto in treno del boss della ‘ndrangheta Luigi Mancuso, dopo due anni di pedinamenti. Seconda immagine di Gratteri in conferenza stampa, che conferma. Ma si capisce subito che, benché lui sia effettivamente un capo mafia di gran peso in quelle zone della Calabria, non è lui il vero protagonista del film girato dalla Rai. Si butta lì l’argomento vero che sta a cuore agli autori del film dell’orrore: Mancuso sapeva con precisione il giorno e l’ora in cui sarebbe stato arrestato, tanto che si è dovuto giocare d’anticipo. Chi gli dava le notizie? Prima dei titoli di coda, appare in video l’Autore, che ci allarma sull’esistenza di “uomini infedeli della Pubblica Amministrazione”, butta lì il nome dell’avvocato Giancarlo Pittelli, ci rassicura perché all’inchiesta hanno lavorato centinaia di uomini. Terza immagine di Gratteri in conferenza stampa. Frase lapidaria: questa non è cronaca giudiziaria, questa è la democrazia. Fine dell’Anteprima.

Il 19 dicembre del 2019. “Rinascita Scott” parte come “la più grande operazione antimafia dopo quella di Palermo”. Ma dopo poco i numeri dovrebbero provocare rossore sulle guance di chi l’operazione ha condotto. Dei 334 ordini di arresto ben 203 sono stati annullati: 51 dal gip, 123 dal tribunale della libertà, 13 dalla cassazione senza rinvio e 9 con rinvio. Una disfatta. Tutto ciò accadeva oltre un anno fa. Ma l’orologio della Rai si è fermato a quel 19 dicembre, infatti parla solo dei 334 finiti in carcere omettendo il fatto che ai due terzi di loro le manette sono state rapidamente tolte. Si accenna al fatto che il procuratore di Catanzaro attua un blitz ogni due mesi. Nessun cenno ai tanti flop arrivati dai primi processi su quelle operazioni, fino a “Nemea”, con otto assolti su 15 e una sentenza che nei fatti anticipa già un giudizio di condanna nei confronti di alcuni personaggi della cosca Mancuso. Il motivo per cui, se nella corte d’appello di Catanzaro esistono giudici attenti e rigorosi, il dibattimento “Rinascita Scott” dovrebbe essere fermato per cambiare due delle tre giudici del tribunale, in quanto, come loro stesse ammettono, incompatibili per pre-giudizio: sono le stesse magistrate di “Nemea”. Tutta la ricostruzione porta a puntare la telecamera su un Nicola Gratteri in maglioncino nel suo ufficio (quarta uscita), che non parla tanto di mafia o di omicidi o di lupara bianca. Eppure nel corso degli anni anche la Calabria, come la Sicilia, non si è fatta mancare niente. Lui riferisce all’intervistatore-autore di quanto sia stato bravo a sgomberare gli uffici della procura da persone curiose e sospette, tra cui persino uno che non era calabrese e neanche sposato. Chissà che cosa mai facesse in quei corridoi. Questo non è un momento di pace, ma di guerra, dice il procuratore. La mente va subito al processo dell’aula bunker, che è poi quel che sta facendo il dottor Gratteri in questi giorni nel ruolo dell’accusa. Il processo che la Rai considera inutile ora diventa anche terreno di “guerra”. E del resto le immagini dell’ufficio del procuratore si alternano con quelle dello stesso giornalista in un altro ufficio ricco di librerie e boiserie con decine di scatoloni: sono gli atti dell’accusa, fogli e fogli intestati alla procura della repubblica. Neanche lo sforzo di consultare l’ordinanza del gip. La storia della ‘ndrangheta o la risposta alla domanda ossessiva: come hanno fatto i Mancuso a diventare i re della zona? Hanno fatto tutto da soli?

L’avvocato Giancarlo Pittelli. Giancarlo Pittelli dovrebbe essere, nelle intenzioni, il pesce grosso della pesca a strascico. Il suo arresto però non è casuale, l’avvocato era nel mirino da almeno tre anni. Il trattamento cui viene sottoposto è da subito particolare, stressante, umiliante: ore di attesa, trasferimento in Sardegna, rifiuto da parte dei magistrati di sentire la sua versione dei fatti, troppo lungo per le toghe il viaggio da Catanzaro. È accusato di tutto e di niente: prima di associazione mafiosa, poi di concorso esterno, ma soprattutto di rivelazione di atti d’ufficio. Che potrebbe sembrare poca cosa, ma non lo sarebbe, se veramente lui avesse fornito al suo assistito Luigi Mancuso un intero verbale del pentito che lo accusa. Pittelli nega che ciò sia accaduto e prove non ce ne sono. C’è piuttosto il pervicace sospetto che aleggia intorno a qualunque avvocato che difenda imputati per reati di mafia. Non solo si identifica la persona con il reato, ma si estende il sospetto anche al legale. Per dare un’idea del trattamento che, anche sul piano giornalistico, sta subendo l’ex parlamentare, quando sul suo tavolo viene sequestrato un suo foglio di appunti, persino nella trasmissione della Rai il manoscritto viene definito “pizzino”, neanche Pittelli fosse Totò Riina. Si gioca sul fatto che in Parlamento l’avvocato, come fanno tutti i suoi colleghi, ma anche i magistrati, lavorasse nella commissione giustizia (raramente i giuristi vanno all’agricoltura o alle politiche sociali) e che presentasse al ministro interrogazioni in tema di diritto penale. Si mostrano le immagini dell’aula di Montecitorio, quasi fosse un prolungamento di una situazione ambigua, e le si alterna con le riprese carpite per strada, mentre legale e assistito entrano nello studio dell’avvocato. Si arriva a dire che non è stato possibile captare il colloquio tra i due (il che sarebbe anche vietato, o comunque non utilizzabile processualmente), ma che comunque lo si può immaginare. Quindi si è anche autorizzati a virgolettare il frutto dell’immaginazione di qualche carabiniere. Dopo che il procuratore Gratteri ha fatto la sua quinta comparsata, viene finalmente data la parola per qualche minuto ai due avvocati difensori di Giancarlo Pittelli, Salvatore Staiano e Guido Contestabile. I quali cercano di spiegare che il reato concretamente non c’è, e si sforzano invano di capire che cosa l’accusa (e anche Iacona e anche la Rai) intenda per “messa a disposizione” di Pittelli nei confronti della cosca Mancuso. Ha raccomandato la figlia all’università, si è interessato perché fosse operato un bambino malato? E dove è la prova del verbale trafugato del pentito? Forse ha ragione la Rai, è inutile fare il processo, se queste sono le “prove”. O forse erano inutili le manette e tutto quel che ne è seguito? Intanto l’inconsapevole Riccardo Iacona, dopo averci propinato la sesta uscita di Gratteri, augura al procuratore “buon lavoro” e gli invia “un abbraccio forte”. Ognuno ha gli amici che preferisce.

Gratteri in Tv, i penalisti: «Espone i giudici a pressioni mediatiche». «Il dottor Gratteri, padre dell’inchiesta, sarà ospite di Presa diretta, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche Difensore». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 marzo 2021. Il paradosso è servito: da un lato il Tribunale collegiale di Vibo Valentia ha autorizzato ieri le riprese audiovisive del maxiprocesso “Rinascita-Scott”, maxi-inchiesta del procuratore della DDA di Catanzaro, dottor Nicola Gratteri, vietando però di poterle trasmettere prima della lettura del dispositivo della sentenza del maxiprocesso per «garantire l’assoluta genuinità della prova». Dall’altro lato c’è la decisione di “Presa diretta”, la trasmissione di Rai3 condotta da Riccardo Iacona,  di dedicare la puntata del 15 marzo proprio alla maxi-inchiesta. Difficile spiegare questo corto circuito che comunque viene stigmatizzato da una nota dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane che critica la messa in onda, innanzitutto nello sbilanciamento tra accusa e difesa: «Il dottor Gratteri, appunto padre dell’inchiesta, sarà ospite della trasmissione, a quanto par di capire dai trailer, addirittura personalmente e probabilmente senza alcun contraddittore o, al più, col contributo registrato anzitempo di qualche Difensore». E poi la risposta al tweet con cui il conduttore ha lanciato lo speciale: «Raccontarla – ha scritto Iacona – non è cronaca giudiziaria, ma una questione di libertà e democrazia che riguarda tutti». Ma, dicono i penalisti, «di libertà e democrazia» si può parlare «solo evitando di esporre il processo penale alle indebite influenze di narrazioni giornalistiche, tanto più se unilaterali, ma comunque in grado di condizionare, non solo l’opinione pubblica, ma anche l’esercizio stesso della giurisdizione». Proprio l’obiettivo che si è prefissato il Tribunale con la nota divulgata ieri, ma che sarà evidentemente eluso. Poi l’Osservatorio ricorda che a fronte dell’interesse mediatico suscitato dall’inchiesta, vi è stato  «un numero elevatissimo di annullamenti delle misure cautelari irrogate nel procedimento» che «testimoniano indiscutibilmente quanto il clamore che ha accompagnato l’inchiesta e gli arresti di molte persone sia stato e sia del tutto ingiustificato». Eppure vi ricordate che disse il dottor Gratteri a Sky Tg24? «I giornali nazionali hanno boicottato la notizia». Scrivono i penalisti: «L’informazione è il sale della democrazia. Attenzione però: aprire i microfoni a una parte processuale (spesso la stessa e ancorché garantendo un contraddittorio solo apparente), ora per magnificarne l’importanza e l’impegno, ora per assicurarsi l’empatia del grande pubblico mentre il giudizio è in corso, offre una visione parziale e quindi potenzialmente distorta dei fatti oggetto dell’inchiesta medesima, non rappresentando affatto un esercizio democratico, men che mai liberale». Per queste ragioni, fermo il sacrosanto diritto di cronaca, «non si può che stigmatizzare l’iniziativa del Giornalista nonché il fatto che il Procuratore della Repubblica abbia consentito a prender parte alla trasmissione nonostante il processo sia ancora in corso, con il conseguente rischio di compromettere il sereno esercizio della giurisdizione così esponendo tutte le parti processuali e gli stessi giudici a indebite pressioni mediatiche. Al tempo stesso si auspica che nel corso del programma televisivo venga in ogni caso massimamente preservata la neutralità nell’esposizione dei fatti ed evitato ogni potenziale pregiudizio per il sereno svolgimento del processo pendente avanti l’Autorità Giudiziaria di Catanzaro». I processi si celebrano nelle aule giudiziarie, non in televisione con l’arbitro che tifa spudoratamente per una squadra.

Caro Iacona, le prove si formano in Aula e non in uno studio Rai. Presa diretta di Riccardo Iacona celebra il processo Rinascita-Scott sulla Rai. Gratteri ringrazia lo Stato di diritto un po' meno. Davide Varì su Il Dubbio il 14 marzo 2021. L’ex senatore e avvocato di grido di Catanzaro che si presta in mille modi ad aiutare il clan e poi il ruolo della “massoneria deviata” che aggiusta i processi insieme ai soliti “burattinai”. Saranno le motivazione di una sentenza di condanna di qualche mafioso, penserete voi. Neanche per sogno, sono le motivazioni con cui Riccardo Iacona spiega sul “Domani” di oggi – e scusate il calembour – la decisione di dedicare un’intera puntata di “Presadiretta” al processo anti-ndrangheta Rinascita Scott. Nulla di male, replicherà ancora qualcun altro. Certo: non c’è proprio nulla di male per chi pensa che un processo possa essere celebrato in Tv di fronte al “pubblico pagante”. E si perché c’è un piccolo dettaglio che molti non conoscono o danno per scontato: il processo in questione, chiesto dalla procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, è ancora in corso. Anzi, è appena all’inizio. E dunque la trasmissione di Iacona piomba su quel processo rischiando seriamente di condizionarne gli esiti. Ma non parliamo certo di un caso isolato: la lotta alla criminalità organizzata giustifica da tempo qualsiasi forzatura delle regole dello stato di diritto. E nonostante giornali e tv italiani nelle scorse settimane abbiano celebrato in pompa magna i cento anni di Leonardo Sciascia, nessuno pare aver assimilato la sua lezione. Soprattutto quella in cui lui, siciliano fino al midollo e nemico giurato di Cosa nostra, spiegava ai professionisti dell’antimafia che la criminalità organizzata non può essere sconfitta con la “terribilità della giustizia” ma solo con la forza del diritto. Ma visto che il centenario di Sciascia è passato e le belle intenzioni le porta via il vento, oggi accade che l’ordinanza di un magistrato diventa una sentenza: sentenza di condanna, naturalmente. E non è un caso che Iacona nel suo articolo peschi a piene mani in quell’ordinanza presentandola come verità provata. Ma evidentemente deve essersi perso un piccolo passaggio: la prova si forma in dibattimento e non in uno studio della tv pubblica.

Quel “processo sommario” di Presadiretta che non aiuta a sconfiggere i clan. Riccardo Iacona ha "celebrato" nello studio tv della Rai un processo di Gratteri del quale non c'è ancora neanche un grado di giudizio. Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 16 marzo 2021. La trasmissione Presa diretta ha dedicato l’intera puntata di lunedì sera alla lotta alla ndrangheta per come declinata nell’inchiesta “Rinascita Scott”. Chiariamo subito una cosa: la ndrangheta in Calabria c’è ed è una cosa drammaticamente seria dal momento che, come sempre ed ovunque, tende ad accompagnarsi con il traffico di droga, l’uso della violenza, la pratica dell’usura ed il costante tentativo di intimidire i cittadini e corrompere funzionari pubblici, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. Focalizzare, così come hanno fatto le telecamere di Presa diretta, queste cose in terra di ndrangheta ci è sembrato persino banale. Farcele vedere di nuovo è come fare un servizio sull’acqua alta a Venezia o sulla nebbia in Val Padana pretendendo di rivelarci chissà quale novità. A meno che non si voglia “impressionare” e portare fuori strada l’opinione pubblica e dare una lettura distorta sul perché, nonostante le centinaia di “retate” , la ndrangheta sia riuscita a fare un salto di “qualità” trasformandosi nel giro di qualche decennio, da una modesta e, a volte, pittoresca associazione di uomini di malavita, in una delle più terribili organizzazioni criminali dell’Europa occidentale. Se il dottor Iacona, conduttore di Presa Diretta, ci avesse aiutato a comprendere come tutto ciò è stato possibile, avrebbe dato un importante contributo alla verità. Invece ha puntato alla lettura della realtà calabrese utilizzando solo la “filigrana” di Rinascita Scott, pur essendo questo un processo alle prime battute. Per farlo è stato necessario presentare come credibili pentiti e collaboratori di giustizia che potrebbero non esser ritenuti tali dai giudici e come sicuri colpevoli imputati (anche incensurati) che potrebbero essere assolti da ogni accusa. Mortificando così la presunzione di innocenza ed il ruolo stesso degli avvocati impegnati nella difesa. Iacona, per esigenze estranee alla trasmissione, ha voluto presentare Rinascita Scott come la “madre” di tutte le inchieste quando invece è in assoluta e perfetta continuità con le cento inchieste precedenti che hanno avuto tutte le stesse caratteristiche: l’altissimo numero di arrestati, un impiego massiccio di militari, le prime pagine sui giornali, l’inclusione di qualche personaggio noto, le luci della ribalta sul pm. Finora però quasi tutte le “grandi inchieste” precedenti che hanno ritmato la storia della Calabria, da “Stilaro” a “Marine”, a “Circolo formato” (che si appena conclusa), a “Lande desolate” sono state dei grandi flop che hanno portato alla assoluzione di quasi tutti gli imputati e prodotto dubbi, scetticismo e rassegnazione nell’opinione pubblica calabrese, stretta tra una mafia aggressiva da un lato e la giustizia sommaria dall’altro. Oltre che ad un grande spreco di risorse pubbliche ed umane. Come abbiamo detto sabato scorso , la trasmissione Presa Diretta, nel febbraio del 2014, aveva usato la stessa tecnica, la stessa regia e lo stesso Pm come protagonisti nell’inchiesta “New Bridge”. Senza però trarre le necessarie conseguenze sul fatto che, su decine di imputati per mafia coinvolti in quella inchiesta, uno solo (dico1) è stato condannato con il 416 bis. Nella trasmissione di lunedì sera, volendo far apparire il dottor Gratteri come l’alfa e l’omega della lotta alla ndrangheta, Iacona ha molto insistito sul fatto che, prima del suo arrivo, la procura di Catanzaro fosse una specie di porto di mare per tutti i mafiosi. Ma se così è, non si capisce proprio perché non abbiano fatto parlare il suo predecessore, un anziano procuratore della Repubblica, rispettato da tutti? Perché non si è fatto parlare l’ex procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini, trasferito ad altra sede perché ha osato avanzare qualche, pur correttissima, critica verso i metodi usati in Rinascita Scott? Così come è stata concepita la trasmissione Presa Diretta non aiuta a capire la realtà, anzi ci porta su un binario morto. Quello che è più inquietante è la sensazione (ma è qualcosa in più) che alcuni magistrati cerchino legittimazione e successo non ricercando la giustizia e la verità ma stabilendo rapporti forti con la stampa e soprattutto con giornalisti affermati e trasmissioni famose. Una cosa è certa: il successo così strappato (ma non meritato) può essere giocato nell’immediato su tutti i tavoli che contano. Ed infatti l’inchiesta “New Bridge” è stata utilizzata come possibile lasciapassare per far transitare il dottor Gratteri da un ufficio della Procura di Reggio Calabria a quello di ministro della Giustizia. Non saprei dire oggi a cosa si tende! Se veramente lo volesse, il conduttore di Presa Diretta sarebbe ancora in tempo ed avrebbe mille modi, tutti onorevoli, per riparare gli errori fatti finora e contribuire a sconfiggere la ndrangheta con una sana informazione di cui si sente un gran bisogno. Perché tanto Iacona che Gratteri dovrebbero capire che proprio la verità è il necessario antidoto per sconfiggere la ndrangheta.

Processo Rinascita Scott, ok alle riprese tv. L'Unione cronisti: «Provvedimento tardivo e parziale». Il Quotidiano del Sud il 13 marzo 2021. «È un provvedimento tardivo, parziale e tutt’altro che rispondente alle esigenze della libera informazione e, in particolare, del diritto costituzionale di informare ed essere informati». Così il gruppo calabrese dell’Unione nazionale dei cronisti italiani, guidato dal giornalista Michele Albanese, commenta la decisione assunta dal Tribunale di Vibo Valentia «che “dopo una lunga ed inspiegabile attesa” – evidenzia l’Unci in una nota – ha finalmente autorizzato le riprese audiovisive del maxiprocesso Rinascita Scott». «Preliminarmente – continua la nota – ci domandiamo quale evento nuovo sia intervenuto affinché il collegio giudicante di uno dei procedimenti penali più importanti della storia giudiziaria italiana, riconoscesse che “sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento”. Perché tale “interesse sociale” non è stato riconosciuto sin dall’inizio del processo? Perché le numerose richieste pervenute da colleghi di tutto il mondo al Tribunale di Vibo Valentia sono rimaste inevase?». L’Unci rammenta anche di «aver incontrato (attraverso il presidente Michele Albanese ed il segretario Pietro Comito) il presidente del Tribunale di Vibo Valentia Antonio Erminio Di Matteo affinché fosse latore delle osservazioni dei cronisti al collegio del maxiprocesso Rinascita Scott. Anche in quel caso, l’appello a superare il diniego delle riprese fu disatteso. Cosa è accaduto di nuovo? E soprattutto, ci domandiamo, perché autorizzare le riprese ma con una serie di limitazioni che finiscono, a conti fatti, col rendere questa stessa autorizzazione quasi inutile?». 

Il processo di Gratteri si celebra in Tv. Ma senza difesa. Il processo Rinascita Scott del procuratore Nicola Gratteri lunedì verrà promosso sulla Rai. Ma nessuno ha invitato gli avvocato difensori...Ilario Ammendolia su Il Dubbio il 13 marzo 2021. Lunedì prossimo, in prima serata, la trasmissione “Presa diretta” si occuperà del processo “Rinascita Scott”. Ci dovrebbe essere in studio il procuratore capo di Catanzaro. Siamo contrari ad ogni censura ma, ancor prima di parlare d’altro, ci sembra giusto porci una domanda :è opportuno che una “parte” del processo(cioè l’accusa) intervenga in prima serata lasciando in ombra la difesa ed esercitando di fatto una pressione indebita sull’opinione pubblica che potrebbe avere un pur remoto riverbero sui giudici? C’è un precedente che, quantomeno a noi, sembra di estrema importanza e che riguarda lo stesso Pm e la stessa trasmissione. Siamo in una notte di febbraio del 2014.In contemporanea tra New York e la Calabria scatta l’operazione “New BRIDGE”. Un “ponte” criminale che collega (secondo gli inquirenti) la potente famiglia Gambino con la ndrangheta calabrese. In piena notte da Gioia Tauro partono le gazzelle della polizia con lampeggianti accesi e le telecamere di “Presa diretta” al seguito, per arrestare i capi della ndrangheta che tale “ponte” avrebbero costruito. L’intera operazione viene presentata prima in diretta dalla Calabria ed in collegamento da New York e successivamente negli studi di “presa diretta” come un formidabile e straordinario colpo assestato contro la ndrangheta e la famiglia Gambino che è una delle cinque “grandi famiglie” della mafia Italo-americana. Vengono operati 24 arresti, gli indagati sono una quarantina. Si badi bene, nessun tribunale, aveva ancora condannato gli indagati ma le telecamere non hanno rinunciato a riprendere la classica sfilata in manette degli arrestati. Il dottor Gratteri, allora sostituto alla DDA di Reggio Calabria, ha spiegato dagli schemi di Presa diretta e con dovizia di particolari la straordinaria importanza strategica dell’operazione e l’alto spessore criminale degli arrestati nella gerarchia del crimine organizzato. Sono passati sette anni, alcuni degli arrestati sono stati assolti, altri condannati a qualche mese di reclusione per reati minori. La ndrangheta è praticamente uscita dal processo ed infatti solo uno(dico 1) degli indagati è stato condannato per associazione mafiosa.(sentenza non definitiva) E, con la ndrangheta, è uscita dal processo anche la famiglia Gambino. Per tutti gli imputati e persino per quello che veniva indicato dagli inquirenti come il capo e la “mente” d’una pericolosa cosca calabrese è caduto il reato di associazione mafiosa (416 bis) e finanche l’aggravante (l’art. 7 L) che prende forma quando, pur non essendo organici alla mafia, si utilizza la forza intimidatrice della ndrangheta per raggiungere i propri fini.Quasi tutti i beni degli imputati, già sequestrati, sono stati dissequestrati. Non dico e non voglio dire che tutti gli indagati siano gigli di campo, anche perché alcuni imputati sono stati condannati ma -particolare non di poco conto – non per mafia. Una cosa però è certa: dell’imponente “ponte” tra “potenti cosche” della Locride ed i Gambino per come ha preso forma negli studi di “Presa diretta” resta solo uno scarno scheletro composto da trafficanti di droga come, purtroppo, ce ne sono tanti in ogni angolo d’Italia. Per cui, pur a distanza di tanti anni, non si capisce proprio perché dedicare un’intera trasmissione ad un’operazione di polizia che non ha avuto nulla di straordinario e niente di speciale. Sarà stato certamente un caso ma due giorni dopo la trasmissione, il dottor Gratteri, ospite centrale ed unico di Iacona in quella serata , verrà incluso da Renzi nella lista dei ministri come titolare del dicastero della giustizia così come caldamente “raccomandato” dallo studio televisivo. Alla luce dei fatti che abbiamo raccontato non saprei dire se il procuratore di Catanzaro ed il dottor Iacona siano ancora convinti che sia stata una scelta giusta quella di dedicare la prima serata di un canale RAI ad un’operazione che non ha avuto-ne potrà più avere – alcun serio riscontro nelle sentenze dei giudici. Una riflessione su quanto accaduto 7 anni fa, dovrebbe indurre a non riproporre lo stesso schema, la stessa regia e gli stessi commentatori proponendo in prima serata il processo, Rinascita Scott, ancora alle prime battute. Si potrebbe discutere di altre inchiesta su cui la Cassazione ha detto la parola definitiva. Per esempio “circolo formato” dal momento che proprio ieri i giudici, dopo aver letteralmente demolito in sede di appello l’inchiesta, hanno assolto in via definitiva e con formula ampia il sindaco di Marina di Gioiosa (RC) dopo anni passati nelle patrie galere. Mandare in onda “Rinascita Scott”, soprattutto se senza la presenza delle difese degli imputati e della stampa garantita, non ci sembra corretto nei confronti dell’opinione pubblica che potrebbe scambiare le ipotesi dell’accusa per giudizi inappellabili, ed , ancor meno, per i giudici impegnati nella ricerca della verità.Forse, ma il forse è di troppo, non è giusto per gli imputati che potrebbero essere innocenti. Infine non è accettabile che la Calabria venga trasformata in un set permanente in cui si gira sempre lo stesso “film” , senza alcun valore “artistico” e senza qualità. Probabilmente qualcuno vorrebbe rianimare “Rinascita Scott” che si trascina stancamente e nel disinteresse generale. In Calabria e fuori. Oppure, è non vorremmo crederci, si perseguono fini estranei alla Giustizia e che nulla hanno a che vedere con la giusta lotta alla mafia.

L'informazione cede al giustizialismo. Giornali schiavi dei Pm, ecco come vite e carriere vengono bruciate dai media. Viviana Lanza su il Riformista il 12 Marzo 2021. C’è un dato, nell’annuale report di Antigone (associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale), che conferma, a proposito delle pressioni e processi mediatici, l’allarme lanciato dal Riformista e segnalato dai magistrati di AreaDg e dalla giunta della Camera penale di Napoli. Su un campione di più di 7.000 articoli di stampa, in oltre il 60% dei casi si è riscontrato un approccio colpevolista alle vicende giudiziarie o un atteggiamento acritico rispetto alle ipotesi dell’accusa. È un dato che la dice lunga sulla deriva giustizialista di opinione pubblica e una larga parte dei media. La percentuale è stata stilata all’esito di una ricerca condotta dall’Unione delle Camere penali ed è evidenziata nel rapporto Antigone nel paragrafo in cui si affronta un tema sempre attuale, quello del mostro sbattuto in prima pagina, dei processi sommari e popolari fatti in tv o su alcuni giornali prima ancora che nelle aule di giustizia. «A farne le spese non sono solo le garanzie per le persone coinvolte nei procedimenti penali – si legge nel rapporto – ma anche la serenità di giudizio del magistrato, la sua effettiva imparzialità e la necessaria riservatezza delle indagini». Per quanto negli ultimi anni siano state introdotte norme a tutela della privacy di chi finisce agli arresti o sul registro degli indagati, «molto spesso giornali e tv diffondono nomi e immagini di persone senza preoccuparsi del loro diritto alla riservatezza», evidenzia il report di Antigone. Perché? Di certo non è sempre facile bilanciare diritti costituzionalmente garantiti, come quello di cronaca e di conoscere le modalità con cui è gestita la giustizia con il diritto alla privacy, e – diritto spesso dimenticato – quello alla presunzione di innocenza. Inoltre è sempre più diffusa la tendenza ad appassionarsi alla fase delle indagini preliminari più che alle fasi successive di un processo: e su questo spetto ci mette lo zampino il sistema giustizia con i tempi troppo lunghi dei processi, per cui diventa impossibile seguire l’iter giudiziari che durano dieci o vent’anni. Di recente il Csm ha provato a porre un argine dettando delle linee guida per i rapporti tra stampa e magistratura, ma – osserva Antigone – «il meccanismo attuale fa sì che i giornalisti si trovino spesso in una relazione di dipendenza dalle autorità giudiziarie che sono la loro fonte privilegiata». Di qui le falle del sistema. «Il sistema giudiziario fatica da tempo a garantire il segreto istruttorio nella fase iniziale del procedimento penale, cioè a garantire che gli atti non verranno diffusi illegalmente e dunque non verranno pubblicati dalla stampa». La violazione del segreto è un reato, tuttavia i responsabili non vengono quasi mai individuati: nessuno, in genere, indaga sulle fughe di notizie, eppure quanti scoop giornalistici e quante carriere di magistrati sono passati anche per indiscrezioni su indagini raccontate prima del tempo. E quanti drammi si sono consumati per via di avvisi di garanzia, intercettazioni o indiscrezioni investigative rivelati prima ai giornalisti che ai diretti interessati. Anche la storia giudiziaria di Napoli è piena di casi del genere, di fughe di notizie su indagini cosiddette “choc” che si sono sgonfiate subito in sede di Riesame o nelle tappe successive dell’iter giudiziario. «Serve una svolta culturale – sostiene Antigone – e dovrebbe riguardare anche gli operatori della giustizia, i quali hanno approcci e capacità comunicative differenti». Il problema riguarda anche la comunicazione delle forze di polizia, «spesso troppo autocelebrativa e poco rispettosa della presunzione di innocenza». «La diffusione di dati sensibili è la norma, come è la norma l’assenza di condizionali nel presentare le ipotesi accusatorie», aggiunge l’associazione. Il fenomeno dei processi mediatici, paralleli ai processi veri e propri, è ampio e non riguarda soltanto personalità note del mondo politico o imprenditoriale. «A fare le spese di una sovraesposizione mediatica – ragiona Antigone – sono anche le persone sprovviste di mezzi, specie su scala locale». Riflettendo in termini di proposte, si è pensato a rimedi compensativi per chi è danneggiato dal processo mediatico, qualcosa di simile a quanto già avviene per l’ingiusta detenzione o per la durata irragionevole del processo, oppure a considerare una sorta di attenuante per chi subisce un processo mediatico prima di quello giudiziario e viene condannato, o una compensazione monetaria per chi finisce alla gogna e viene poi prosciolto. Ma al momento nessuna proposta è stata accolta e il problema ancora esiste.

"Dietro c'è un disegno preciso". “Povero giornalismo, ridotto a fare copia incolla delle veline delle procure”, intervista a Pierluigi Battista. Aldo Torchiaro su il Riformista il 18 Novembre 2020. Politici innocenti, assolti, archiviati. La lista nera pubblicata lunedì sul Corriere della sera da Pierluigi Battista – una vita in posizioni di vertice a La Stampa, Panorama, Corsera – fa discutere, perché fa male. Vorremmo dire che interroga le coscienze, ma sarebbe illusorio. Interroga la coscienza di qualcuno; per gli altri, quella lunga lista di non colpevoli perde interesse, smentisce il pregiudizio dei pregiudicanti. L’ultimo in termini cronologici è Antonio Bassolino, che ha vinto 19 processi conclusi con «il fatto non sussiste». Ma dal tritacarne della giustizia nella Seconda Repubblica sono usciti, più o meno malconci, Filippo Penati, Pd, l’ex governatore del Piemonte Cota (Lega), l’ex governatore del Lazio Francesco Storace (centrodestra), l’ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo (Pd), l’ex sindaco di Parma Pietro Vignali (civico vicino a Forza Italia). «Assolti Clemente Mastella e la moglie Sandra Lonardo, sottoposta peraltro a forti misure restrittive. Neanche assolto, ma addirittura archiviato prima del processo Stefano Graziano, consigliere regionale del Pd. Assolto Nicola Cosentino, ex re campano di Forza Italia». La lista prosegue con decine di nomi la cui storia invoca una giustizia giusta. 

Si è dimesso Gaudio, appena nominato.

«E io dico: bisognerebbe scandire un bel “Chi se ne frega”. Aveva l’iscrizione nel registro degli indagati per una accusa che tra l’altro sembra prossima a decadere? Ma chissenefrega. Impariamo a dirlo, quando ci troviamo davanti al nulla. Gaudio non so se sarebbe stato un buon commissario alla sanità, so che essere indagato non può essere oggetto di condanna pubblica preventiva. Ha qualche condanna passata in giudicato? No. E allora di cosa parliamo?»

Da dove parte, Battista, questa crociata contro la politica?

«Con Mani Pulite. Perché malgrado le correzioni in senso garantista del codice penale, dovute alla riforma di Giandomenico Pisapia, si cominciò a pensare che la semplice iscrizione nel registro degli indagati fosse un atto di colpevolezza. Bastava entrare nel registro degli indagati per doversi dimettere, scusare, scomparire».

L’avviso di garanzia come lettera scarlatta.

«E infatti ci fu una catena di dimissioni, immediate. Nel corso degli anni, tutte le persone che magari erano indagate ma poi nemmeno portate a processo, perché non c’erano gli elementi, nei media venne tirato fuori il termine di “coinvolto”. Scrivere: “Nell’inchiesta è coinvolto Tizio” ne comportava la fine della carriera politica, anche se poi penalmente erano fatti irrilevanti o, come spesso è stato, del tutto inesistenti».

Quindi fu un’offensiva mediatica, ad avvelenare il clima?

«Dall’offensiva semantica nel linguaggio giornalistico possiamo rilevare il momento in cui si crea quel clima avvelenato. Tra il 1992 e il 1993 nei giornali e nelle televisioni si usa “coinvolto”: si dice “spunta il nome di Caio” per dire che seppur marginalmente citato in una conversazione, qualcosa c’è dietro a quel nome. Non la notizia di un fatto, ma di un sospetto».

Nascono le gazzette delle Procure. Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo visto qualcuno che infatti si è inalberato, per quella tua lista di errori giudiziari e di campagne diffamatorie.

«Ci sono alcuni che hanno costruito una fortuna su quelle campagne. Hanno cavalcato l’odio sociale dipingendo i politici come Diavoli del male e i magistrati come Angeli del bene. Hanno eretto una barriera manichea, da scontro frontale, diventando acritici fotocopiatori di veline delle Procure e indicando come nemici coloro che invece giustamente si erano dichiarati innocenti o, peggio ancora, garantisti: cioè disposti a sostenere il diritto del dubbio fino a condanna definitiva».

Questo antigiornalismo ha un disegno?

«Intanto è un disegno culturale. Una società basata sul sospetto che incentiva il controllo e frena le libertà. La dipendenza dalle fonti delle Procure è il suicidio del giornalismo».

Una volta c’era il segreto istruttorio.

«Ma si è trovato il modo di aggirarlo. Perché i magistrati fanno delle ordinanze di custodia cautelare e dentro l’ordinanza, per dimostrare la fondatezza della loro richiesta, ci mettono come documentazione migliaia di pagine di intercettazioni, che a quel punto non sono più coperte da segreto. E le passano ai giornali. Talvolta con un post-it».

Cosa indica il post-it?

«Gli stralci da copiare. Quei passaggi più rilevanti di altri ai fini mediatici, magari dove l’intercettato usa parole volgari, o fa riferimenti sopra le righe, si prende la libertà di una battuta. Perché quella roba vende, anche se è solo folclore. Il colore poi a processo si rivela insussistente e l’imputato ne esce pulito, ma intanto il processo mediatico glielo hanno fatto e lui ha perso il posto, in molti casi la famiglia, la salute. E talvolta si è tolto anche la vita».

Scarsa cultura garantista o poca professionalità di certi giornalisti?

«Diciamo le cose come stanno: ci sono degli analfabeti giudiziari, a partire dal Fatto Quotidiano. Altrimenti non si giustifica quello che si scrive, perché non voglio credere alla malafede di certi colleghi. Non sanno la differenza tra indagato e imputato, tra imputato e indagato, non conoscono la Costituzione e figuriamoci la procedura penale. Mettono tutto nel calderone e servono in tazza fumante».

L’interferenza tra magistratura e politica ha stravolto la natura della sinistra. Penso soprattutto al Pd, che ha sempre preso le distanze dagli amministratori indagati. Nel Pds c’era una regola nello statuto, all’arrivo dell’avviso di garanzia l’indagato doveva immediatamente autosospendersi dal partito e dagli incarichi.

«Il Pd ha sempre abbandonato i suoi, appena la magistratura faceva un passo. Un caso scandaloso fu quello di Del Turco, leader sindacale, uomo colto, un riformista. Venne arrestato di notte come fosse un malfattore e additato al pubblico ludibrio dal Procuratore Trifuoggi, che disse di avere in mano delle prove schiaccianti. Il Pd tagliò i ponti, lo disconobbe. Ma quelle prove erano talmente schiaccianti che la Procura chiese tre volte la proroga dei termini perché non riuscivano a trovare niente. E alla fine venne condannato per una sola delle accuse, perché non si è mai trovata la tangente di cui si parlava».

Il giornalismo d’inchiesta insegna: “follow the money”.

«E invece i soldi sono i grandi assenti dai processi. Perché le tangenti indicate nelle roboanti conferenze stampa delle Procure poi non si materializzano. Malgrado le intercettazioni, i sequestri dei Pc, le indagini approfondite della Guardia di Finanza, spesso non si trovano le tangenti e le accuse cadono, senza mai nessuno che si scusi. Da due anni vedo un grande impiego di mezzi per trovare la tangente russa che sarebbe andata alla Lega, e non la si trova».

Le intercettazioni non andrebbero mai usate?

«Le intercettazioni portano quasi sempre fuori strada, perché come dicevo puntano al colore. La legge ne impedirebbe la pubblicazione ma si è trovato subito il modo di aggirarla, citando gli atti. Il problema è di cultura giuridica. Il pool Mani Pulite aveva metodi brutali, usava la carcerazione preventiva, ma puntava a trovare le tangenti e a ripercorrerne il percorso. Oggi si montano processi sulle parole, senza preoccuparsi troppo di trovare il denaro».

Dovrebbe esserci un maggior autocontrollo, un richiamo dell’ordine dei giornalisti?

«Bisognerebbe imparare a fare questo mestiere. L’Ordine è un orpello fascista che negli altri Paesi democratici occidentali non esiste e non potrebbe esistere. Io lo abolirei».

Le attenzioni selettive seguono piste prestabilite. Figure-chiave. Craxi, Berlusconi, oggi Renzi…

«Questa indagine sulla Fondazione Open mi sembra avere un obiettivo curioso: la magistratura vuole definire che cosa è un partito, cos’è una corrente, cos’è una area di influenza. Si sono incaricati di un compito ambizioso e forse un po’ fuori dai loro confini».

Anche sugli imprenditori si potrebbero fare liste di nomi massacrati senza colpa.

«Penso a Silvio Scaglia, ma sì: la lista anche in questo caso potrebbe essere lunghissima. Alla famiglia Riva le aziende sono state espropriate, a fronte di niente. Seguo la vicenda di Alfredo Romeo. E adesso vediamo dove porta il filone Autostrade. Imprenditori e manager pubblici chiedono sempre più spesso lo scudo penale, in Italia. E solo in Italia. Perché da noi se non hai garanzie straordinarie non puoi lavorare, hai la certezza sin dall’inizio di finire tra gli ingranaggi di questo meccanismo del fango».

Quell’assalto mediatico al Gup che ha scarcerato l’uomo condannato per omicidio. Dopo le numerose proteste degli ultimi giorni, la Camera Penale di Napoli interviene sul caso di Fortuna Bellisario per ribadire che «abbiamo il dovere di non cedere a pulsioni irrazionali e di ricordare che la giustizia non può mai essere vendetta». Valentina Stella su Il Dubbio l'11 marzo 2021. «Assistiamo ancora una volta ad una forte pressione mediatica che potrebbe anche involontariamente influire sul corretto esercizio della giurisdizione»: a dirlo al Dubbio è l’avvocato Angelo Mastrocola, segretario della Camera Penale di Napoli, in merito ad una vicenda quantomeno originale se non preoccupante per la serena amministrazione della giustizia. È opportuno che un Presidente di Tribunale rilasci una intervista in cui solleva dubbi su alcuni aspetti della decisione di un Gup in materia cautelare, rispetto ad un fatto di cronaca che ha comportato addirittura manifestazioni di parenti e amici della vittima e sdegno mediatico? Il contesto è il seguente: la giovane Fortuna Bellisario è stata uccisa nel 2019 con una stampella ortopedica dal compagno, che per questo delitto è stato condannato a dieci anni con rito abbreviato, riconosciuto colpevole di omicidio preterintenzionale, come richiesto dallo stesso Pm. Qualche giorno fa, dopo due anni di carcere, l’uomo è andato ai domiciliari, perché il Gup ha accolto il ricorso dell’avvocato e lo ha giudicato non pericoloso socialmente. La decisione ha scatenato numerose proteste e anche un flash mob dinanzi al Palazzo di Giustizia con uno striscione “In-Giustizia per Fortuna”. Quanto accaduto è stato commentato anche in una intervista fatta su Repubblica alla dottoressa Elisabetta Garzo, da un anno al vertice del Tribunale di Napoli, e dal titolo “Garzo: Caso Fortuna, inopportuni i domiciliari nella casa del massacro”: «premessa importante – dice la dottoressa Garzo – non posso entrare in alcuna valutazione sul provvedimento» ma, sollecitata dalla giornalista, prosegue: «ecco, forse doveva essere valutata con ancora ulteriore rigore, rispetto a quello che il giudice avrà adottato, dove e come concedere i domiciliari. Questo mi sento di dirlo. Magari, non avrei destinato quell’uomo nella stessa casa dove era avvenuto il massacro della donna». Queste dichiarazioni insieme alla campagna mediatica e ai sit-in di protesta sotto il Tribunale hanno suscitato una reazione critica da parte della Camera Penale di Napoli che ha elaborato un lungo documento, siglato dal Presidente Marco Campora e dal segretario Mastrocola, per  stigmatizzare quel corto circuito che si è creato tra media, magistrati e tribunale del popolo intorno al caso della donna uccisa.  «Siamo vicini ai familiari ed agli amici della sventurata Fortuna Bellisario – scrive la Camera Penale –  ne comprendiamo il dolore sordo ed insopportabile, la rabbia e finanche una – per loro comprensibile – volontà di vendetta».  Tuttavia, proseguono i penalisti, « noi – e cioè tutti quelli che non hanno perso una persona cara in questa vicenda – abbiamo il dovere di non cedere a pulsioni irrazionali, di ricordare che la giustizia non può mai essere vendetta e che la qualità della funzione giurisdizionale non si misura sulla base degli anni di galera che vengono inflitti. Concetti basilari che, tuttavia, negli ultimi anni sono costantemente messi in discussione da un populismo penale che sembra ormai aver smarrito anche un qualsivoglia sub-strato ideologico per degradare a mero istinto o riflesso di maniera. Allo stesso modo, occorre sempre ribadire che i processi non si occupano mai dei fenomeni ma solo ed esclusivamente di singoli casi, ognuno diverso dall’altro». Il tema “femminicidio” è meramente culturale prima che penale: «Nessun ergastolo, infatti, eviterà un nuovo femminicidio in futuro. Nessuna pena esemplare potrà avere efficacia dissuasiva di condotte che sfuggono completamente allo schema del rapporto costi/benefici; solo una nuova struttura materiale e culturale della società (che sia pur in tempi lunghissimi sta evolvendo nei termini auspicati) consentirà davvero alle donne di allontanarsi in tempo dai propri aguzzini». E comunque, ricordano gli avvocati, la decisione è stata emessa rispettando quello che prevede il codice: «Dunque, nessuno scandalo, nessuna “eccentricità” ma una sentenza assolutamente coerente ed in linea con la produzione giurisprudenziale quotidianamente emessa.  E, ciononostante, a seguito della lettura del dispositivo sono partite le solite proteste: la pena è troppo bassa, l’imputato uscirà di galera dopo pochi anni, anzi è già libero perché il GUP gli ha concesso gli arresti domiciliari! È un format che si autoalimenta e che sta inesorabilmente avvelenando la qualità della nostra democrazia». Aggiungiamo: sta immolando il garantismo sull’altare di una presunta sicurezza collettiva. Ma l’aspetto forse più importante che mette in evidenza la Camera Penale è che questa ondata di indignazione popolare a cui la stampa ha dato ampia eco, senza minimamente dare conto dei meccanismi del giusto processo, avrebbe spinto persino il Presidente del Tribunale di Napoli a sollevare obiezioni su un aspetto della decisione del Gup: «Le spinte provenienti dall’esterno sono talmente forti che ormai travolgono, talvolta, anche i protagonisti della giurisdizione, tanto che finanche il Presidente del Tribunale si è lasciato andare, in un’intervista pubblica, a valutazioni critiche in ordine ai provvedimenti emessi dal  GUP. Nonostante il garbo e la cautela delle affermazioni, infatti, dalla intervista emerge chiaramente – allorquando si afferma che “forse la vicenda doveva essere valutata con ancora ulteriore rigore” o “magari, non avrei destinato quell’uomo nella stessa casa dove era avvenuto il massacro della donna” – una presa di distanza dalle valutazioni del GUP. Ma non solo: simili dichiarazioni rischiano di condizionare inconsciamente anche i giudici che si occuperanno in futuro della vicenda ed, in particolare, i giudici del riesame che a breve saranno chiamati a rivalutare, a seguito di ricorso della Procura, la situazione cautelare dell’imputato». Non ravvisate qualcosa di completamente stonato nel connubio tra pressione mediatica e esercizio della giurisdizione? «Per carità, le sentenze sono sempre criticabili  – dicono Campora e Mastrocola – ed ognuno può legittimamente ritenere – previo ovviamente adeguato e consapevole studio dell’incartamento processuale – che la pena comminata sia troppo bassa o che il titolo di reato sia sbagliato. […] E, tuttavia, occorre registrare che la critica è sempre unidirezionale e colpisce unicamente le sentenze di assoluzione o le sentenze di condanna ad una pena non draconiana. Nessuno mai si azzarda a criticare una sentenza che commina un ergastolo, mentre costituiscono ormai un topos le grida – di solito: “Vergogna, Vergogna!” -delle vittime, spalleggiate sovente da “agitatori” politici o dell’informazione, alla lettura dei dispositivi che assolvono l’imputato o che lo condannano ad una pena non ritenuta abbastanza severa». Ci piace concludere con quanto scritto in ‘A furor di popolo’ (Donzelli editore), dal professore e avvocato Ennio Amodio, secondo cui oggi la giustizia è caratterizzata da fenomeni anti-costituzionali e  anti-illuministi: «alla razionalità si sostituisce l’emotività delle vittime di reati; al rispetto della dignità umana subentra la collera, che spinge a vedere nel delinquente un nemico da eliminare; la proporzionalità della pena cede il posto a un estremismo sanzionatorio che pretende dal giudice pene sempre più aspre; il carcere, infine, diventa il luogo elettivo per segregare chi ha sbagliato, al fine di garantire al massimo la sicurezza collettiva».

Avvocato troppo presente in giornali e tv: cosa rischia. Carlos Arija Garcia su laleggepertutti.it l'11 Marzo 2021. Per la Cassazione, la sovraesposizione mediatica può comportare la sospensione dall’esercizio della professione. Il precedente di Avetrana. «Vuoi fare l’avvocato o vuoi fare lo showman, l’opinionista, il “tuttologo” in tv o sui giornali»? È questa la domanda che i legali onnipresenti nelle trasmissioni televisive o sugli articoli dei quotidiani rischiano di sentirsi fare se non pongono un limite alla loro esposizione mediatica. E siccome il troppo stroppia, la Cassazione ha deciso che l’avvocato troppo presente in giornali e tv rischia di essere sospeso dall’esercizio della professione.

Avvocato sospeso per troppe apparizioni in tv. È successo di recente ad una legale a cui il Consiglio dell’Ordine competente ha impedito di esercitare per quattro mesi. La sua «colpa»? Secondo la Suprema Corte, sarebbe venuta meno nei rapporti con la stampa «ai criteri di equilibrio e misura» nel rilasciare interviste nel rispetto dei doveri di segretezza e riservatezza, nonché per aver posto in essere condotte vietate per l’acquisizione della clientela e non aver mantenuto nei confronti di colleghi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà. Certo, il caso esaminato dalla Cassazione era del tutto singolare. A detta del Consiglio nazionale forense, e secondo i documenti acquisiti, l’avvocato in questione avrebbe svelato ai media il contenuto dei processi a cui partecipava come difensore, sarebbe apparsa in alcuni programmi televisivi addirittura con le sembianze alterate per tentare di non farsi riconoscere come interprete di ruoli in processi inventati e, infine, si sarebbe anche improvvisata regista e sceneggiatrice: avrebbe arruolato un’attrice come figurante per farle fare in tv la parte naufraga salvata proprio dall’avvocato. Tutte illazioni e niente di dimostrabile, secondo la legale. Che vede nella sospensione una sanzione sproporzionata, visto che si trattava del primo procedimento disciplinare nei suoi confronti e che il tutto si sarebbe potuto risolvere con un avvertimento. La Cassazione, invece, al cartellino giallo ha preferito il rosso. Per quanto riguarda il procedimento disciplinare a carico degli avvocati, infatti, la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, come stabilito dalle Sezioni Unite. La censura sulla valutazione del giudice di merito, di conseguenza, diventa inammissibile.

Avvocati e abuso dei media: il precedente di Avetrana. Non è la prima volta che gli avvocati vengono richiamati all’ordine per la sovraesposizione mediatica. Era successo nel 2010 in occasione del delitto di Avetrana in cui fu uccisa la quindicenne Sara Scazzi, omicidio per il quale sono state condannate in via definitiva all’ergastolo la cugina e la zia della vittima. Per i difensori di una delle imputate fu aperto un procedimento disciplinare dall’Ordine degli avvocati di Taranto, infastidito dalle loro continue apparizioni in televisione e sui giornali e dalla «troppa disinvoltura» nel cercare un cliente che garantisce maggiore visibilità. L’Ordine volle anche indagare su presunte partecipazioni in tv dietro pagamento. L’impressione è che fossero stati superati i limiti dei doveri deontologici sia in relazione all’inchiesta sia per l’atteggiamento troppo aggressivo tenuto durante le trasmissioni televisive.

Avvocati e media: il Codice di deontologia. Il Codice di deontologia forense vieta all’avvocato di «offrire senza esserne richiesto una prestazione rivolta a una persona determinata per uno specifico affare». Inoltre, non è possibile chiedere interviste e farsi pubblicità. Non si possono nemmeno convocare conferenze stampa «fatte salve le esigenze di difesa del cliente». In caso di contestazione dell’addebito, l’avvocato viene invitato a rendere dei chiarimenti e una memoria difensiva. Dopo di che, si aprono due strade: quella dell’archiviazione o quella del procedimento disciplinare. Che può concludersi con l’avvertimento, la censura, la sospensione o cancellazione dall’albo oppure con la definitiva radiazione. Ai tempi del delitto di Avetrana, in un’intervista al quotidiano La Stampa, il professor Natale Fusaro, docente di criminologia all’Università La Sapienza, avvocato penalista ed esperto di questioni di deontologia, fece notare che «è vietato qualsiasi comportamento, elogio della propria persona e capacità professionale che dia un vantaggio a scapito degli altri. L’avvocato – concludeva Fusaro – dovrebbe limitarsi a rendere informazioni sulla linea difensiva cercando di evidenziare quali siano le ragioni del proprio assistito». Il tutto, mantenendo «equilibrio e misura nel rilasciare interviste nel rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza».

QUANDO LA STAMPA UCCIDE. Giovanni Terzi per "Libero quotidiano" il 10 marzo 2021. Ho il ricordo netto di mio padre, Antonio Terzi direttore di Gente negli anni Settanta, che raccontava sgomento, in famiglia, quello che stava accadendo al nostro Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Leone venne vilipeso e fatto oggetto di attacchi personali da Camilla Cederna insieme al gruppo dell' Espresso; mio padre non li amava particolarmente. Già qualche anno prima, sempre Camilla Cederna, aveva attaccato Luigi Calabresi, il commissario della polizia ucciso a Milano in via Cherubini davanti a casa, e subito dopo toccò al Presidente "galantuomo", così era solito chiamarlo mio padre. «Vi ho rovinato, dovete perdonarmi». Con queste parole inizia a raccontarmi Giancarlo Leone, figlio dell' ex Presidente, per rappresentare lo stato d' animo del padre in quegli anni. Giancarlo Leone, giornalista professionista dal 1977 già direttore di Rai 1 oltre che, dal 2006 al 2011 vice direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo italiano, ricorda con emozione quegli anni in cui il linciaggio del padre avveniva quotidianamente sulla stampa italiana. «Avevo in quegli anni il doppio ruolo di figlio e di giornalista. Ero il corrispondente a Roma del giornale Il Piccolo di Trieste e vivevo nella sala stampa San Silvestro dove, naturalmente, arrivavano tutte le veline dal Parlamento».

E come fu questo doppio ruolo?

«Doloroso. Mio padre soffriva profondamente, si sentiva responsabile nei nostri confronti ed iniziò ad avere una grande depressione che ha sempre cercato di mascherare. Però quella campagna stampa ebbe degli effetti sia psichici che fisici devastanti su di lui».

E lei insieme alla sua famiglia cosa cercavate di fare?

«Tutti noi avevamo un compito prioritario, far sentire a mio padre il nostro amore e la nostra presenza; vede quello che accadde fu devastante per tanti motivi ...».

Mi dica ...

«Prima di tutto era falso. In secondo luogo non apparteneva al modo di essere di mio padre che non era un uomo cinico capace, come fecero in seguito Pertini e Cossiga, di usare la comunicazione in modo diverso, meno istituzionale. Mio padre, come si direbbe oggi, era un tecnico ...».

Pensare che il Presidente Giovanni Leone fosse stato un tecnico e non un politico fa riflettere. Perché dice questo?

«Non ha mai fatto parte organica dell' establishment politico. È stato Presidente della Camera e poi Presidente del Consiglio, prima di essere eletto a capo dello Stato; mio padre ha sempre servito le istituzioni e non i partiti».

Effettivamente il professor Giovanni Leone è sempre stato un giurista esterno alla partitocrazia ed estraneo ai "giochi conciliari" di quel periodo del compromesso storico. Non gli venne, proprio per questo, mai perdonato di essere stato votato, come Presidente della Repubblica, da una maggioranza che conteneva anche l' allora MSI. Così partì la macchina del fango. Un po' come adesso?

«In realtà è profondamente diverso. Nel caso di mio padre la "macchina del fango" partì con una tenaglia giornalistico-politico. Mio padre non ebbe mai a che fare con la magistratura come spesso accade, invece, ai giorni nostri. Il tutto nacque negli anni Settanta e riguardava la fornitura degli aerei Lockheed in Italia all' aeronautica militare. Lo scandalo della corruzione politico-militare della Lockheed si trasformò in un processo al sistema di governo che dal dopoguerra aveva come principale riferimento la DC».

In cui naturalmente suo padre nulla c' entrava ...

«Nella maniera più assoluta. C' era un furore ideologico che divenne sempre più massiccio fino a che mio padre non si dimise, unico Presidente della Repubblica ad averlo fatto. Rimane a me impresso nella memoria il discorso che mio padre fece il giorno delle dimissioni "Sono certo che la verità finirà pei illuminare presente e passato e sconfessare un metodo che, se mettesse radici, diventerebbe strumento fin troppo comodo per determinare la sorte degli uomini e le vicende della politica. A voi ed al nostro Paese auguro progresso e giustizia nel vivere civile"».

Ma oltre a questo passo del discorso che è stato premonitore su un metodo politico per distruggere un avversario, la delazione, c' è ne è un altro che personalmente mi ha molto colpito ed è quando suo padre disse: "Credo tuttavia che oggi abbia io il dovere di dirvi - e voi, come cittadini italiani, abbiate il diritto di essere da me rassicurati - che per sei anni e mezzo avete avuto come presidente della Repubblica un uomo onesto, che ritiene d' aver servito il Paese con correttezza costituzionale e dignità morale". Suo padre era davvero preoccupato di non essere degno di rappresentare lo Stato italiano?

«Mio padre nel 1947 fu un giovane costituente; ossia diede il suo contributo al nascere della Carta costituzionale firmata da Enrico De Nicola ed è a quella carta che si ispirò quotidianamente in ogni suo comportamento».

Voi faceste causa al gruppo Espresso?

«Noi figli sì. La cosiddetta "inchiesta dell' Espresso", non fu altro che una campagna diffamatoria conclusasi con il riconoscimento dell' estrema correttezza istituzionale di mio padre. Camilla Cederna dovette ammettere che le sue fonti non erano provate e soprattutto erano deviate».

La Cederna chiese scusa ?

«Mai».

Perché secondo lei?

«Non lo so. L' unica cosa che riuscì a dire che si era ispirata alle agenzie di stampa OP di Mino Pecorelli che, all' epoca, riusciva a fare uscire notizie assolutamente inventate come quella che mio fratello andava a caccia in elicottero».

Suo padre però fu completamente riabilitato?

«Questo sì. Però mi creda che dalle dimissioni mio padre non fu più lo stesso. Anche dopo i festeggiamenti dei suoi novant' anni a Palazzo Giustiniani in sala Zuccari nel 2008, davanti al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e alle più alte cariche istituzionali, alla fine tornò profondo il suo dolore».

In quella occasione però a restituire "l' onore" al Presidente Leone furono anche Marco Pannella ed Emma Bonino che, come loro stessi hanno riconosciuto, avevano approvato, sbagliando, le critiche e le polemiche nei confronti di suo padre. Non bastò?

«Purtroppo no. Anche Francesco De Martino con un messaggio sottolineò la correttezza di ogni attività istituzionale di mio padre e come fossero infondate le accuse mosse nei suoi confronti. Purtroppo il danno era già stato fatto: irreparabile».

Lei ha sofferto per tutto questo?

«La sofferenza era legata al martirio vissuto da mio papà».

Lei nella sua carriera si è occupato sia di informazione, da giornalista, che di comunicazione, anche come dirigente Rai. Come è cambiato il servizio pubblico negli ultimi anni?

«È cambiata la comunicazione completamente. Il web ed i social hanno disintermediato il processo delle notizie dando grande democraticità da una parte ma volgarizzando e semplificando il linguaggio dall’altra. La vera scommessa sarà proprio nel fatto di riuscire a ricostruire qualità nella informazione anche sul web».

Come secondo lei?

«Un riferimento deve essere il New York Times che è riuscito a trasformarsi sul web. L’informazione deve tornare ad essere una impresa con dei costi perché di qualità».

E la Rai?

«Io credo che se si riuscirà a costruire una fondazione, purtroppo mancata dal governo Renzi, con personalità di altissimo livello capaci di individuare il perimetro dell’offerta ebbene questo consentirebbe alla Rai di mantenere una posizione centrale nel panorama televisivo multimediale».

In tutto questo racconto della sua vita che importanza ha avuto sua madre?

«Mia madre, che oggi ha novantatré anni, è stata il baricentro di tutto. La sua moralità ha generato in me un rapporto altissimo con le donne. Posso dire che prima di trovare una persona che potesse essere all’altezza per fare con me una famiglia ho impiegato cinquant’anni. Ma il tempo mi sta dando ragione visto che siamo ancora felici insieme».

L’arresto diventa spettacolo. Penalisti infuriati: «Così si alimenta la gogna». Omicidio di Faenza, la polizia filma il momento dell'arresto e il Resto del Carlino pubblica il video. Ma l'Unione Camere Penali non ci sta: «Se è vero che la cronaca è un diritto, non lo sono né lo possono diventare la curiosità o la sete di vendetta». di Valentina Stella su Il Dubbio domenica 7 marzo 2021. Se negli Stati Uniti sono abituati alla walk of shame delle persone tratte in arresto costrette dalla polizia a fare la passerella dinanzi alla folla di giornalisti, qui in Italia abbiamo i video delle forze dell’ordine a celebrare la camminata della vergogna, come se la vicenda di Enzo Tortora non ci avesse insegnato nulla. Il caso in questione di oggi riguarda il video della Polizia di Stato pubblicato sul sito del Resto del Carlino: 90 secondi di auto-esaltazione che riprendono prima il convoglio di macchine degli agenti in autostrada e poi l’esecuzione dell’ordine di custodia cautelare nei confronti dei due indiziati – Claudio Nanni e Pierluigi Barbieri – rispettivamente presunti mandante e  esecutore materiale dell’omicidio di Ilenia Fabbri, meglio noto alle cronache come l’omicidio di Faenza. Tale episodio viene ora fortemente stigmatizzato dall’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane con un documento di cui vi proponiamo ampi stralci: «Questa volta le telecamere sono addirittura entrate nelle abitazioni degli indagati, riprendendo tutte le fasi in cui costoro venivano privati della loro libertà, mentre indossavano le manette, in attesa di ogni giudizio, attraverso una profanazione non certamente mitigata dall’oscurazione postuma del loro viso». Il fatto su cui si indaga è sicuramente grave, «ma il diritto  di cronaca – scrivono i penalisti – non può spingersi fino alla divulgazione al pubblico delle immagini integrali dell’arresto dei due indagati, coperti per altro dal presidio della presunzione di innocenza». Ma cosa prevede la legge in merito? L’Osservatorio lo spiega chiaramente:«La legge vieta la pubblicazione dell’immagine di una persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova con le manette ai polsi ovvero soggetta ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta e punisce chiunque contravvenga a tale divieto con sanzioni di carattere penale e disciplinare. Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lettera b) costituisce infatti illecito disciplinare a carico di esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato e di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l’organo titolare del potere disciplinare». Pertanto è evidente che «tutelare con maggior cura possibile la dignità delle persone sottoposte ad indagini, o comunque coinvolte in un procedimento penale, è dunque un preciso dovere dello Stato, tanto più qualora la persona versi in condizioni di particolare vulnerabilità; eppure questo principio, sancito dalle direttive europee, oltre che dalla legge italiana, viene continuamente vituperato». Come sappiamo molte  persone sono state sbattute sulle prime pagine dei giornali e la loro immagine è stata distrutta, «eppure, ad oggi, non risultano segnalazioni degli Uffici di Procura e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazione di foto e riprese di arrestati in manette, magari con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque, paradossalmente, ancor più sottolineate». La conclusione è che «se è vero che la cronaca è un diritto, non lo sono né lo possono diventare la curiosità o la sete di vendetta. Gli strumenti per contenere queste distorsioni sono sempre stati in un cassetto che purtroppo nessuno vuole aprire. Sarà impegno dei penalisti italiani ricercare quella chiave a tutela delle garanzie costituzionali che si è scelto di difendere».

Giudici contro giornali. Giudici contro giornali, Area bacchetta la stampa: basta con le pressioni. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Marzo 2021. Il reato viene derubricato da volontario a preterintenzionale e l’uomo, accusato di aver ucciso la moglie, viene messo agli arresti domiciliari dopo due anni trascorsi in un carcere. La storia diventa quindi un caso per la stampa cittadina e per l’opinione pubblica. Ci sono proteste e un sit-in davanti al tribunale. Si grida al mostro scarcerato senza fermarsi a riflettere su norme, diritti, garantismo. Certo, il reato è grave, la storia molto triste e il femminicidio è un fenomeno odioso e preoccupante, ma ogni caso merita di essere valutato singolarmente e la giustizia non deve mirare alla vendetta. Ma la situazione in città diventa tale da far intervenire una parte della magistratura che pubblicamente chiede di evitare pressioni mediatiche sui giudici. Cosa succede? Viene da chiederselo ricordando gli anni delle inchieste mediatiche, delle sentenze emesse su giornali e tv prima ancora di arrivare davanti ai giudici, di indagini che si sono concluse con un nulla di fatto dopo essere state inizialmente sbandierate come se contenessero verità assolute e ignorando le conseguenze, spesso devastanti, sulle vite di chi ne veniva travolto. Cosa succede? L’interrogativo ritorna. Forse ci si sta rendendo conto che è il garantismo il principio da seguire, che gridare subito al mostro o al colpevole è sbagliato, che magistratura e stampa dovrebbero rimanere ciascuna nei propri ambiti senza cercare l’una la complicità dell’altra, che i giudici dovrebbero essere liberi e autonomi tanto rispetto a logiche di corrente e di potere quanto a pressioni mediatiche. Dopo la notizia di Repubblica sulla scarcerazione dell’uomo accusato di omicidio e l’onda mediatica che ne è scaturita, i magistrati di AreaDg, la corrente di sinistra della magistratura, hanno preso posizione: «Fuori alle porte del Tribunale di Napoli è in atto un sit-in di protesta per una decisione cautelare, assunta nel processo per l’omicidio di Fortuna Bellisario, che ha fatto discutere. Crediamo che, in un momento come questo, siano necessari tutto il rispetto e la considerazione possibili per le ragioni delle persone che manifestano ma anche una ferma richiesta di rispetto per le decisioni dei giudici, sia di chi si è già pronunciato, sia di coloro che saranno chiamati a esprimersi nelle successive fasi del giudizio cautelare e di merito». «Ogni spiegazione istituzionale del senso e del significato dei provvedimenti giudiziari – prosegue la nota – va incoraggiata, per garantire trasparenza e comprensibilità dell’azione giudiziaria ma, come anche il Capo dello Stato ha avuto modo di precisare nella comunicazione al Csm del 25 settembre 2018, ciò non significa che le decisioni giudiziarie debbano orientarsi secondo le pressioni mediatiche né che si debba intervenire per difendere pubblicamente le decisioni assunte. Mentre è opportuna una adeguata comunicazione istituzionale, scevra da commenti e valutazioni. La “serenità” delle decisioni è e deve restare un valore nell’ambito di un sistema garantito da più fasi e gradi di giudizio. Siamo certi che tutti, anche i titolari del diritto di cronaca e di informazione, concorderanno su questo». Ma qual è il caso che ha ispirato questa presa di posizione? Vincenzo Lo Presto ha 43 anni, nessun precedente penale ma una gravissima accusa per la quale è stato di recente condannato in primo grado, con rito abbreviato, a dieci anni di reclusione: è accusato di aver aggredito la moglie con la stampella con cui si aiutava a camminare avendo seri problemi di deambulazione e di averne causato la morte. La donna, Fortuna Bellisario, morì il 7 marzo 2019. Lo Presto ha ammesso di averla picchiata in passato ma sulla responsabilità per la morte della moglie il processo, secondo il suo difensore (avvocato Sergio Simpatico), è tutt’altro che chiuso. Confrontando i risultati della perizia autoptica sul corpo della donna e dati di studi scientifici di livello internazionale, la difesa è pronta a sostenere il processo in appello. Intanto la scarcerazione di Lo Presto ha sollevato un caso mediatico al punto che la Procura si è attivata per chiedere che l’uomo torni in cella, nonostante sia costretto su una sedia a rotelle e per il giudice che lo ha condannato non sia da considerarsi un soggetto pericoloso né in grado di fuggire o reiterare il reato.

Come lavorano i magistrati. Per la sentenza ci vogliono due anni, ma la gogna scatta subito. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. I tempi dei processi sono diventati più lunghi. Colpa del Covid si dirà. Sta di fatto che la giustizia diventa sempre più lenta, e quindi sempre meno giusta. Nel settore penale i tempi dei procedimenti sono assai variabili, dipendono dalle fasi in cui si trova il processo, dal numero di imputati, dalla complessità delle fonti di prova da analizzare. Tuttavia, secondo l’ultimo report sulla giustizia napoletana presentato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, la metà dei processi definiti nel 2020 in primo grado, dinanzi al tribunale collegiale, ha avuto una durata superiore ai 2 anni, per cui su 558 processi definiti 242 hanno avuto un tempo superiore ai due anni, mentre solo 129 si sono risolti in 6 mesi e appena 73 entro l’anno, mentre per i dibattimenti dinanzi al giudice monocratico il bilancio del 2020 ha fatto registrare, su 10.310 processi definiti, 4.229 con durata superiore ai due anni e solo 1.696 chiusi entro i sei mesi. Meno biblici i tempi della definizione delle udienze preliminari e dei riti abbreviati, il che appare anche scontato visto che si tratta di una tappa del processo che, lo dice anche il nome, prevede un’accelerazione sui tempi del processo evitando di ascoltare testimoni in aula e basando la valutazione sui soli atti del fascicolo. Ebbene, nel 2020 quasi tutte le udienze davanti a gip/gup sono state definite in tempi rapidi, per cui dei 19.995 procedimenti ben 17.346 sono stati definiti entro sei mesi. Quanto alle indagini, i tempi variano a seconda della complessità dei casi e della tipologia dei reati contestati: nell’ultimo anno si sono contati 6.725 fascicoli che si trascinano da oltre due anni e 18.934 definiti in sei mesi su un totale di 35.896 casi finiti sotto la lente della Procura di Napoli. Il vero collo di bottiglia della giustizia napoletana resta, tuttavia, la Corte di Appello dove, nonostante gli sforzi organizzativi per compensare le croniche carenze di organico tra il personale della magistratura e quello amministrativo, i tempi di definizione non sempre sono stati inferiori ai due anni e la prescrizione è intervenuta nel quasi 40% dei casi, quindi quasi nella metà dei processi approdati in secondo grado. Che giustizia è questa? Viene da chiederselo: chi è vittima aspetta una giustizia che arriva molto in tardo o addirittura non arriverà mai e chi è innocente deve aspettare troppi anni prima di vedere riabilitate la propria immagine, la propria onestà, la propria professionalità. Basta leggere le cronache di questi ultimi giorni per capire di cosa parliamo: l’ex parlamentare antimafia Lorenzo Diana è stato scagionato, con inchiesta archiviata, dopo 1991 giorni di attesa; l’avvocato penalista Raffaele Chiummariello è stato scagionato, con caso archiviato, dopo più di dieci anni di indagini; il regista e professore dell’Accademia di Belle Arti Stefano Incerti è stato scagionato per il caso di abusi sessuali ai danni di studentessa che un anno fa aveva fatto nascere l’inchiesta della Procura di Napoli e sollevato un gran polverone mediatico con tanto di gogna social (gogna che per il prof ora continua visto che si sta indagando sull’accusa di un’altra studentessa che dopo il clamore del primo filone investigativo ha raccontato di essere stata palpeggiata all’uscita di un’aula nel 2015). E proprio la gogna social e mediatica è l’altro risvolto di indagini e processi subito spettacolarizzati ma definiti poi in tempi tutt’altro che ragionevoli. Infine c’è la prescrizione, quella su cui il presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis di Prossedi si è soffermato analizzando i dati del bilancio giudiziario del 2020: «È una sconfitta per la giustizia e determina la sostanziale impunità per tutti i reati cosiddetti minori, tra cui anche alcuni particolarmente allarmanti come le truffe agli anziani o le lesioni personali. Ma d’altra parte in assenza della prescrizione la pendenza inevitabilmente salirebbe e aumenterebbe la durata dei processi, con la conseguenza che l’imputato eventualmente innocente rimarrebbe sotto processo per un tempo lunghissimo e anche un’eventuale condanna che giungesse a molti anni di distanza dai fatti rischierebbe di essere inutile». 

Napoli 1994, l’anno in cui l’avviso di garanzia divenne condanna. Francesco Damato su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. La seconda Repubblica era appena nata e Silvio Berlusconi ricette l’avviso dell’indagine mezzo stampa e in pieno G8. Seguì a breve la crisi di governo. Lorenzo Cesa ha fatto bene ad esprimere tutta la sua incrollabile fiducia nella magistratura, pur con tutto il tempo che questa, come al solito, si prenderà eventualmente per scagionarlo, magari senza neppure rinviarlo a giudizio e chiedergli scusa del fango già cadutogli addosso con la notizia dell’avviso di garanzia e perquisizione domiciliare. Tempestivamente dimessosi da segretario dell’Udc già di Pier Ferdinando Casini sollevandosi – sospetto e in qualche modo spero dall’onere, imbarazzo e quant’altro dei contatti con Palazzo Chigi e dintorni per l’allargamento della maggioranza ai “volenterosi”, egli ha dalla sua per il buon esito della vicenda giudiziaria esplosagli fra i piedi i precedenti del famoso magistrato che se ne occupa: il mancato ministro della Giustizia Nicola Gratteri. Di cui l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano negò nel 2014 la nomina caldamente propostagli dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. Le retate che ogni tanto scattano per iniziativa di Gratteri sono ormai famose, oltre che per il clamore mediatico, per gli indagati e imputati che escono dalle fila strada facendo, prosciolti o assolti. L’ultimo è l’ex presidente della regione calabrese Mario Oliviero, detronizzato a suo tempo proprio per ragioni giudiziarie e infine assolto dall’accusa di corruzione, ma dopo che per le sue disavventure sono cambiati ai danni del proprio partito, il Pd, pur lesto a scaricarlo, e a vantaggio del centrodestra gli equilibri elettorali e politici della Calabria. Cesa ha insomma buone probabilità almeno statistiche di cavarsela anche adesso, come ai tempi della Tangentopoli della cosiddetta prima Repubblica e di altri problemi avuti nella seconda o terza. Pure l’associazione a delinquere di stampo o modalità mafiosa di cui è sospettato adesso l’ex segretario dell’Udc e mancato ministro dell’Agricoltura, secondo le indiscrezioni raccolte sulla Stampa da Flavia Perina, già deputata della destra di Gianfranco Fini, potrebbe sfiorire nell’inconveniente, lamentato dalla collega di partito e senatrice Paola Binetti, dei segretari di formazioni politiche costretti per doveri d’ufficio a frequentare “gente d’ogni tipo”. Resterà comunque a carico anche di Cesa, come in passato di politici di ogni colore, pur se prevalentemente di destra e dintorni, almeno nella accezione della sinistra depositaria delle migliori virtù, sotto l’abito o il soprabito della “diversità” vantata dalla buonanima di Enrico Berlinguer e dei suoi esegeti, la pratica purtroppo ricorrente della giustizia “ad orologeria”. A proposito della quale il meno che si possa dire, volendone avere rispetto e non correre il rischio di guai di ogni tipo, è che certa magistratura è sfortunata per la frequente coincidenza di retate, arresti e avvisi di garanzia con passaggi politici di una certa importanza. Nel 1989 un orologio di puntualità elvetica volle che l’esplosione di Tangentopoli con l’arresto del socialista Mario Chiesa in flagranza di reato, come teneva sempre a sottolineare l’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli, avvenisse nelle prime battute di una campagna elettorale che sembrava destinata, secondo i progetti dei vertici politici della maggioranza di quel tempo, nel ritorno di Bettino Craxi a Palazzo Chigi e nell’ascesa al Quirinale di Arnaldo Forlani. All’inizio della nuova legislatura lo stesso o un altro orologio di uguale puntualità volle che i fascicoli giudiziari degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli arrivassero e fossero sfogliati nella giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera, con tutte le fughe di notizie del caso, mentre i partiti della maggioranza confermata dalle urne, sia pure con margini ridotti, si apprestavano a formalizzare la designazione del leader socialista alla guida del nuovo governo. Cui il nuovo capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro sbarrò la strada dopo avere inusualmente allargato le consultazioni di rito a Borrelli ricavandone l’impressione, quanto meno, che Craxi stesse vicino al coinvolgimento in Tangentopoli, formalizzato tuttavia sei mesi dopo. Nel 1994, agli esordi della cosiddetta seconda Repubblica inaugurata a Palazzo Chigi da Silvio Berlusconi quello stesso orologio o un altro volle che gli umori antigovernativi di Umberto Bossi, incoraggiati al Quirinale da Scalfaro in persona, incrociassero le indagini della Procura di Milano per corruzione sul presidente del Consiglio, avvisato dell’inchiesta a mezzo stampa mentre presiedeva a Napoli un summit sulla malavita. Seguì a breve la crisi perseguita dall’ormai ex alleato leghista. Un’altra spinta ad una crisi in gestazione contro Berlusconi sarebbe arrivata nel 2011 dalla vicenda giudiziaria dei suoi personalissimi passatempi sessuali, così come la condanna definitiva per frode fiscale, in una sessione estiva della Corte di Cassazione, arrivò in tempo nel 2013 per indebolire le cosiddette larghe intese cui Berlusconi aveva appena contribuito col governo di Enrico Letta.

Quei pm che condannano a mezzo stampa e la politica ferma al ’92. Davide Varì su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. Il problema non è (solo) Nicola Gratteri, ma una politica ferma al ’92 che cavalca le indagini o ne è terrorizzata…E’ ora di uscirne. Quella del procuratore Nicola Gratteri non è un’indagine a orologeria – non in questo caso – e non c’è alcun disegno delle procure per “prendere il potere”. Oltretutto dovremmo trovarci di fronte a “menti raffinatissime” e servirebbe una sottigliezza politica fuori dal comune per immaginare e portare avanti un piano del genere. Senza contare che mai come oggi la magistratura italiana è dilaniata, divisa in fazioni e in uno stato di guerra civile permanente: un ritratto ben rappresentato dalla drammatica istantanea del caso Palamara. Ma il fatto che non ci sia il “dolo” non vuol dire che non ci sia un’anomalia e uno slittamento delle regole di ingaggio da parte di alcune procure. E del resto la storia del nostro Paese è costellata di episodi del genere. È sufficiente fare un nome, Tangentopoli, per capire di cosa parliamo. Le indagini, gli arresti, le retate in diretta tv ordinate dal pool milanese non hanno semplicemente condizionato la politica ma l’hanno rasa al suolo; hanno smantellato la prima Repubblica permettendo la nascita di un nuovo sistema, di nuovi partiti, di nuovi leader e di un movimento che da allora in poi ha individuato nelle procure il centro da cui far partire il cambiamento politico del paese. Un filo rosso che lega le monetine del Raphael al Movimento 5Stelle arrivato in Parlamento con una narrazione panpenalista e populista. Insomma, l’indagine di Gratteri ci ha portato di nuovo dentro il conflitto tra politica e magistratura, un luogo molto familiare e domestico qui in Italia. Ma la via d’uscita di questo conflitto non è dentro le procure. O non solo. Una parte della responsabilità è dentro le segreterie dei partiti – o di quello che ne è rimasto – e non perché i politici non siano in grado di vigilare sull’onestà dei propri candidati e del proprio personale – il grado di corruzione di un politico rispecchia quello del paese, né più né meno – ma perché la politica e i partiti sono diventati talmente fragili da non essere più in grado di assorbire un semplice avviso di garanzia senza farsi travolgere e terremotare. Insomma, il potere delle procure non è altro che il frutto di un passaggio di consegne, una delega che nei primi anni ‘ 90 la politica ha firmato in bianco ai magistrati. Sarebbe ora che quella stessa politica ritrovi il coraggio e la forza di imporre il suo ruolo democratico e il rispetto della Costituzione per cui si è colpevoli solo dopo tre gradi di giudizio e non dopo una conferenza stampa di un PM.

Giuseppe Cricenti: «I pm stiano lontani da tv e giornali: così alimentano la gogna». Valentina Stella su Il Dubbio il 23 gennaio 2021. Giuseppe Cricenti, consigliere della Cassazione, interviene sulle polemiche dopo l’intervista al Corriere della Sera il procuratore Nicola Gratteri. Ieri in un’intervista al Corriere della Sera il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, rispondendo al giornalista che gli chiedeva come mai spesso le sue inchieste vengano ridimensionate, ha detto: «Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Così è avvenuto anche in questo caso. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni» . Ne parliamo con Giuseppe Cricenti, magistrato, consigliere della Suprema Corte di Cassazione.

Come giudica questa affermazione?

«Mette giustamente in evidenza che ad accogliere le misure cautelari non è sempre il medesimo giudice, ma sono giudici diversi, il che dimostra che c’è un fondamento. Andrebbe tuttavia fatto il medesimo ragionamento anche per le assoluzioni, dove pure i giudici sono sempre diversi. Quanto alla previsione che la storia spiegherà il perché di quelle assoluzioni, non è chiaro a cosa si riferisca. I giudicati resistono alla storia: se invece si intende dire che emergeranno ragioni di assoluzione diverse da quelle processuali, allora mi pare una insinuazione scorretta».

Non c’è il rischio che i giudici che si troveranno a valutare inchieste di Gratteri possano perdere la dovuta serenità?

«I giudici non si fanno di certo condizionare da interviste. In generale, resta comunque un problema delicato: se un pm va continuamente in tv o rilascia sistematiche interviste sulle inchieste in corso, alimenta la tendenza a fare i processi mediatici, che già in Italia hanno raggiunto una rilevanza inaccettabile, ed a bollare di colpevolezza persone che poi, purtroppo a distanza di anni per la lentezza della giustizia, risulteranno assolte, ma che nell’immaginario collettivo rimangono impresse secondo l’immagine negativa divulgata a suo tempo».

Non sarebbe opportuno che l’Anm stigmatizzasse questa dichiarazione di Gratteri?

«Certo, se col dire che “la storia spiegherà queste situazioni” si intende dire che non sono state assoluzioni corrette processualmente, ma che invece sono state determinate da altro, allora si tratta di una allusione che getta discredito su chi è intervenuto in quelle decisioni, e sull’intera Magistratura: non mi pare deontologicamente corretto che un pm faccia allusioni sulle sentenze sfavorevoli».

Gratteri ha aggiunto "Io non faccio politica con le mie inchieste". È così?

«Certo, non fa politica in senso stretto, né mira a condizionare gli elettori o ad incidere sugli esiti elettorali, tanto meno a determinare governi o parlamenti. Ma il problema non è questo: è una questione politica, infatti, quella dei fondamenti dell’etica pubblica. Dovrebbero concorrervi sistemi normativi diversi, dalla religione, alla deontologia, al diritto nel suo complesso, alla stessa politica, che, a suo modo, è un sistema normativo anche esso. Invece, l’etica pubblica in Italia è in gran parte dettata dal diritto penale, ed all’uso che ne fanno alcune Procure. L’azione moralizzatrice delle Procure fornisce supporto alla politica militante, che se ne avvale per propagandare soluzioni penal- populistiche anche in questioni dove l’incriminazione potrebbe essere evitata. Non è un fenomeno esclusivamente italiano. Negli Stati Uniti è ben descritto da Jonathan Simon. In questo senso, alcuni pm, che si muovono con una certa attenzione al contesto, fanno certamente politica».

L’anno scorso, all’inaugurazione dell’anno giudiziario il pg Salvi disse: mai cercare nell’azione inquirente «il consenso della pubblica opinione». Secondo Lei Gratteri ha aderito a questa richiesta?

«Direi di no. Non c’è indagine che non sia accompagnata da interviste e comparse televisive, che non servono ad informare dell’accaduto: per quello bastano le conferenze stampa apposite. E spesso si va li a sostenere la bontà della propria azione davanti alla opinione pubblica. Io proporrei che per ogni inchiesta vi siano comunicati stampa in cui si tace il nome del pm che l’ha condotta e si diano solo le informazioni che sono di interesse pubblico. Non sarebbero violati né il diritto a fornire l’informazione né quello ad averla. Il nome del pm non è necessario, e vieterei a chi ha condotto una indagine di rilasciare interviste su quanto ha fatto, o peggio, di farne propaganda sui social».

·        La responsabilità professionale delle toghe.

Amici del Dubbio, quella prefazione di Sciascia è anche una lezione sulla responsabilità dei magistrati. Nella prefazione a un libro di Raffaele Genah e di chi scrive: “Storie di ordinaria ingiustizia” “saltato” il finale capoverso. Valter Vecellio su Il Dubbio il 5 dicembre 2021.  Un’ossessione. Per Leonardo Sciascia l’amministrazione della Giustizia è questo. Si sente simile allo scrittore francese Andrè Gide, cui capita l’” avventura” di essere giudice popolare; ne ricava indelebile esperienza; dopodiché inaugura per l’editore Gallimard una collana intitolata “Non giudicate”. Non a caso Sciascia cura per la Sellerio la pubblicazione de “Il caso Redureau” dello stesso Gide: un adolescente che massacra senza comprensibile motivo la famiglia presso cui presta servizio. «Il problema della giustizia è sempre esistito; e chi c’è andato dietro ne ha scoperto le assurdità, le corruzioni, insomma tutto quello che noi sappiamo, che è inerente al funzionamento della giustizia», dice Sciascia; e si «sente» come un sospiro di rammarico per dover fare qualcosa che non si vorrebbe, e che in fondo al cuore ripugna: una dolorosa, inevitabile, «necessità». Il 1 dicembre Il Dubbio ha pubblicato uno scritto di Sciascia: la prefazione a un libro di Raffaele Genah e di chi scrive: “Storie di ordinaria ingiustizia”: collezione di incredibili vicende consumate in nome del popolo italiano; e qui basti citare il caso di una donna per lungo tempo detenuta per illegale detenzione d’arma: e si trattava della pistola giocattolo ( di plastica), del figlioletto. E’ il 1987 quando chiediamo a Sciascia una sua riflessione da usare come prefazione. Operazione meritoria, quella del Dubbio, di riproporre un testo che nulla ha perso della sua inquietante attualità. Peccato solo sia “saltato” il finale capoverso, importante forse più oggi di quando è stato scritto: «Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di “religione”».

Passaggio importante non solo perché, Corte Costituzionale permettendo, a primavera si voterà per sei referendum per una giustizia più giusta ( ne tenga conto, chi deve: penosamente, ma inevitabilmente, chi giudica sarà giudicato). Soprattutto perché occorre cercare di recuperare quel senso di coscienza, di “religione”, perduto.

Conviene, a questo punto, rileggere un libro di Sciascia del 1976: “Il contesto”. Il colloquio tra il commissario Rogas e Riches, presidente della Corte Suprema. Parlano della giustizia, di come viene amministrata. Dice il giudice Riches: «… Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo».

Timidamente il commissario obietta: «E i gradi di giudizio, la possibilità dei ricorsi, degli appelli…». Riches non ammette obiezioni: «Postulano, lei vuole dire, la possibilità dell’errore… ma non è così. Postulano soltanto l’esistenza di un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia. Un’opinione che sta al di fuori. Ora quando una religione comincia a tener conto dell’opinione laica, è ben morta, anche se non sa di esserlo. E così è la giustizia, l’amministrazione della giustizia…». Uno sfacelo da attribuire agli illuministi, in particolare a Voltaire, al “Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas”: il punto di partenza dell’errore: dell’errore che potesse esistere il cosiddetto errore giudiziario: «… la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra… la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo…».

In magistratura abbonando i giudici alla Riches; più oggi di ieri. Ha fatto scalpore “Il sistema”, il libro colloquio di Luca Palamara e Alessandro Sallusti: ma quanti l’hanno davvero letto e capito, voluto capire?. Più di recente, di un altro libro si è scritto e parlato; e male: perdendo di vista il cuore dei problemi che pone. Il libro è “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, dell’ex magistrato Ilda Boccassini. L’attenzione, un po’ da guardoni, si è concentrata sul quarto capitolo, racconto di una intima storia con Giovanni Falcone: di fatto “distrae” dalla sostanza delle questioni.

La sostanza è il racconto di anni e anni di storia di magistrati, del loro questo sì discutibile operare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: il quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta; il lato meschino, vanesio, di “toghe” famose; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Una scena e mille retroscena, deprimenti: giustificano quello che probabilmente Boccassini neppure si sogna: la campagna referendaria per una giustizia più giusta. Eppure di tutti i capitoli del libro, solo il quarto, pare abbia catturato l’attenzione e l’interesse di quanti se ne sono occupati. Una “indifferenza” che la dice lunga sul quotidiano, diffuso, smarrimento di “coscienza”, di laica, sciasciana, “religione”.

L’analisi sulla responsabilità dei magistrati. Indagini urlate e assoluzioni taciute, cortocircuiti tra stampa e giustizia. Paolo Itri su Il Riformista il 5 Dicembre 2021. L’anniversario della morte di Francesco Nerli offre lo spunto per una riflessione di carattere più generale riguardo ai rapporti tra magistratura, informazione, potere e processo. Com’è noto, la vicenda di Nerli risale all’ormai lontano 2008, allorquando l’ex presidente dell’autorità portuale venne sottoposto al divieto di dimora con l’accusa di concussione per avere chiesto denaro ad alcuni rappresentanti di società operanti nello scalo marittimo napoletano con l’obiettivo di finanziare la campagna elettorale del Pds in Campania in occasione delle regionali del 2005, delle politiche del 2006 nonché delle amministrative del 2007. Nonostante le sue rivendicazioni di innocenza, il manager subirà un lungo e tormentato processo e ci vorranno otto lunghi anni prima che il Tribunale di Napoli lo mandi assolto da ogni accusa con la formula «perché il fatto non sussiste». Dicono che l’uomo abbia sofferto molto per quella storia, tanto da ammalarsi e morirne. Chissà se la sua malattia sia stata davvero una conseguenza di quel dolore. Fatto sta che da più parti si invoca la vicenda per tornare a parlare di ragionevole durata del processo e di responsabilità civile dei magistrati. Io credo invece che questa debba piuttosto costituire l’occasione per riflettere sullo stato dei rapporti tra stampa e magistratura nel nostro Paese. Proviamo prima di tutto a chiederci quale sia la lezione che occorre trarre da tutta questa vicenda, che è umana prima ancora che giudiziaria. Nerli fu vittima di una gogna mediatica che cominciò all’indomani delle perquisizioni eseguite dalla Guardia di finanza, divenendo suo malgrado protagonista di una storia che ebbe larga eco sulla stampa sia locale che nazionale. Fiumi di inchiostro vennero all’epoca versati per raccontare come era nata l’indagine e per spiegarci quanto bravi fossero stati i magistrati inquirenti a scoprire il sistema delle tangenti. Poi cominciò il processo – un processo lungo e complicato durante il quale vennero sentiti i testimoni, e le tesi dell’accusa vennero finalmente messe a confronto con quelle della difesa – ed ecco l’anomalia: il silenzio calò sulla vicenda. Un silenzio interminabile, assordante, ingiusto e inspiegabile. Eppure la magistratura rappresenta un potere dello Stato. Un potere diffuso, è vero, ma pur sempre un potere. E allora come si spiega – una volta esauriti i fuochi d’artificio delle prime indagini – tutto questo disinteresse, questa mancanza di attenzione da parte dell’informazione (almeno di quella che conta) sui successivi sviluppi di questa come di numerose altre analoghe vicende? E ancora, è mai possibile che a nessuno degli organi a cui spetta di valutare la professionalità dei magistrati e la funzionalità degli uffici giudiziari – e quindi in primo luogo al Csm– interessi o sia venuto in mente di approfondire le ragioni di un simile fallimento (perché l’assoluzione di un imputato innocente dopo otto anni di indagini e di processo rappresenta pur sempre e per definizione un fallimento)? Ebbene, a me pare che proprio questa assenza di ogni controllo costituisca la vera anomalia italiana. In un Paese liberale l’informazione rappresenta il principale baluardo della democrazia, un fondamentale strumento di controllo contro gli abusi e le inefficienze del potere. Ricordiamo ancora oggi la storica inchiesta del Washington Post che nel 1972 portò alla luce lo scandalo Watergate con la richiesta di impeachment e le conseguenti dimissioni del presidente Richard Nixon. Noi non pretendiamo così tanto, ci mancherebbe. In verità ci basterebbe molto di meno. Ma vorremmo almeno sapere per quale ragione, in questo nostro strano Paese, accada spesso che alcune inchieste, all’inizio così tanto pubblicizzate da certa stampa, si concludano, a distanza di anni, con proscioglimenti e assoluzioni che non interessano ormai più a nessuno. Paolo Itri

«Con la responsabilità civile dei magistrati, Pignatone dovrebbe rispondere di danni patrimoniali». Salvatore Buzzi, insieme a Carminati, è stato uno dei principali imputati di "Mafia Capitale". Ora annuncia il suo sì al referendum per la giustizia. Il Dubbio il 21 settembre 2021. In un’intervista rilasciata al quotidiano “Libero”, Salvatore Buzzi, principale imputato di “Mafia capitale”, parla della magistratura e della sua vicenda giudiziaria. A tal proposito, Buzzi ha spiegato anche i motivi che lo hanno portato a firmare i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali e dalla Lega di Matteo Salvini. «Ritengo doverosa la separazione delle camere.11 pm ha il controllo delle forze di polizia. Ha un potere enorme. Non può essere sullo stesso piano del giudice. E sono contro l’abuso della carcerazione preventiva e per la responsabilità dei giudici. Ora non paga nessuno per gli errori commessi. Se ci fosse la responsabilità civile diretta dei magistrati, Pignatone dovrebbe rispondere dei danni patrimoniali e reputazionali causati alla città di Roma con questa indagine». A Buzzi, il suo processo, non piace chiamarlo “Mafia Capitale”. «Ex Mafia capitale, l’aggravante mafiosa è stata esclusa dai giudici. Di 46 arrestati, 18 sono stati assolti. In compenso, 1200 famiglie che lavorano nella 29 Giugno per il comune di Roma nella gestione del verde e dei servizi sono state gettate sul lastrico in quanto la cooperativa è fallita». E aggiunge: «Io e Carminati siamo stati dipinti come mostri che facevamo reati di tutti i tipi, avendo creato un giro di corruzione senza precedenti. Ma è stato dimostrato dopo 228 udienze e 300 testimoni che ho pagato tangenti per soli 65mila euro a fronte di commesse per milioni di euro. Ovvio, non è commendevole, ma che dire di Luca Parnasi che è accusato di aver pagato 200mila euro di mazzette? A me sono anche saltate le attenuanti perché non ho detto che il sindaco Alemanno era corrotto e che Carminati era mafioso. Se lo avessi detto adesso sarei in regime di protezione e avrei i beni che mi hanno confiscato». «Io voto Sgarbi. E se potessi, ma non è nel mio collegio, alle politiche voterei Palamara» dichiara Buzzi. «Io sono stato del Pci, poi dei Ds, del Pds ed infine del Pd. La cooperativa 29 Giugno era organica al partito, partecipando a tutte le sue iniziative, ad iniziare dalle campagne elettorali quando si trattava di trovare i voti. Al momento dell’arresto sarebbe stata sufficiente una telefonata di chiarimenti a Pignatone. I vertici del partito avrebbero potuto spiegargli la nostra storia e chi eravamo. Certamente non dei delinquenti. E lui non si sarebbe intestardito con l’accusa di mafia».

Gli intoccabili. La magistratura è l’unica istituzione che non controlla la qualità dei suoi funzionari. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 Ottobre 2021. Le disfunzioni della giustizia italiana non vengono mai ricondotte alla scarsa efficienza di chi dovrebbe farla funzionare. Le riforme sono rapide quando si tratta di comprimere i diritti di chi subisce il processo, ma s’incagliano quand’è il caso di intervenire sulla disinvoltura di chi lo dirige. Vogliamo ipotizzare che a causa delle disfunzioni della giustizia si ponga, oltre che la voglia dei criminali di farla franca, oltre che il lavorìo dei loro complici, cioè quei farabutti degli avvocati, oltre che la vasta cospirazione della politica corrotta, oltre che il garantismo peloso, oltre che il neoliberismo e il cambiamento climatico e il malocchio, anche un pizzico di responsabilità di chi opera in quell’amministrazione, e cioè i magistrati? No, perché se c’è un’ipotesi esclusa risolutamente da tutta la chiacchiera che si fa in argomento è questa: il costume della magistratura, il normale disbrigo del servizio giudiziario, il livello di efficienza personale degli addetti alla giustizia possano essere anche solo vagamente da mettere sul conto delle cose che non vanno in quel settore. Non c’è inefficienza amministrativa di cui si discuta senza dare un’occhiata almeno distratta al curriculum e al profitto di quelli che la gestiscono: salvo appunto il caso della magistratura, un ambito di potere impassibile non si dice al controllo di qualità, ma persino all’idea che i difetti per cui si segnala il sistema possano dipendere anche solo in misura pulviscolare dal contributo negativo del funzionariato in toga. È per effetto di questa indipendenza e autonomia della magistratura da qualsiasi regola, da qualsiasi criterio di controllo ed efficienza, da qualsiasi obbligazione giuridica, sociale, civile di rendere conto del proprio operato, che le riforme in materia di giustizia prendono e mantengono un corso forzato e veloce quando si tratta di comprimere i diritti di chi subisce il processo e invece s’incagliano quand’è il caso di intervenire sull’abitudine alla disinvoltura di chi lo dirige, e cioè il magistrato-untouchable. In un ribaltamento radicale di prospettiva si procede, così nel civile come nel penale, allo scrutinio delle soluzioni migliori secondo che esse soddisfino o disturbino il meno possibile l’interesse di quella categoria, puntualmente gabellato per interesse comune poiché, notoriamente, la giurisdizione non costituisce un servizio pubblico ordinario, ma la missione di un esercito apostolare che spazza via i corrotti, rimette in sesto l’economia marcia, tiene pulite le liste elettorali esposte all’insidia mafiosa e – perché no? – sorveglia qua e là, tra un rastrellamento e l’altro, che le multinazionali in mano agli ebrei non somministrino troppa acqua di fogna spacciandola per vaccino. È tutta roba che sta comoda ora, senza le riforme di cui si vagheggia la portata epocale, e che si accomoderà identicamente a riforme approvate. Buone per altro, magari (mica tutte e mica sempre), ma comunque orientate a lasciare intonso il libro del privilegio giudiziario.

I numeri dello scandalo. I magistrati non sbagliano mai: in 4 anni dal Csm solo 35 giudizi negativi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. Sarà arrossito qualcuno, a partire dal Presidente del Csm fino all’ultimo dei consiglieri, quando la ministra Cartabia ha snocciolato i dati indecenti sulle valutazioni delle capacità professionali dei magistrati? Proprio ora, nei giorni in cui, a sentir parlare di giustizia e di toghe, sembra ormai di entrare in qualche girone dell’inferno, e si possono scegliere i “peccati” di ciascuno a caso, ecco i numeri dell’indecenza. Negli ultimi anni, cioè tra il 2017 e il 2021, ha spiegato la Guardasigilli, rispondendo a un‘interrogazione del deputato Enrico Costa, il Csm ha valutato positivamente la professionalità del 99,2% dei magistrati. E in tutto, sulle settemila e passa toghe esistenti in Italia, quelle che hanno ricevuto un giudizio negativo sul proprio operato sono state 35, cioè lo 0,5%, quelle così così 24, pari allo 0,3%, mentre le restanti 7.394 sono l’eccellenza. Quindi fino a ieri abbiamo scherzato. Quindi tutte le risse scatenate all’interno della procura più famosa d’Italia, quella di Milano, in cui ogni pm accusa l’altro delle peggiori nefandezze, addirittura della commissione di reati, contestazioni del genere “tu mi hai teso una trappola”, “tu mi hai preparato una polpetta avvelenata”, e poi tu hai omesso, ma tu hai inventato, tutto ciò che cosa era, manifestazione di alta professionalità? Certo, non va mai dimenticato quel che ha scritto il magistrato Luca Palamara nel libro Il Sistema, con Sandro Sallusti. E cioè che lo scambio tra correnti sindacali comportava anche il fatto dei favori reciproci: io do un giudizio positivo sull’operato del tuo collega di corrente se tu fai altrettanto per il mio. E la minaccia contraria, quella della vendetta. Non dimenticando mai anche il fatto che quello stesso magistrato su cui si potrebbe prospettare un giudizio negativo è lo stesso che poi ti dovrà votare proprio per farti entrare al Csm. Insomma, un gioco di specchi e di reciproci possibili ricatti che dà l’immagine piuttosto vicina a quelle di certe massonerie se non addirittura di certe cosche. Ma basterebbe anche confrontare i dati che assolvono i magistrati da ogni “peccato” con quelli dei risarcimenti per ingiusta detenzione, che vengono pure concessi con il contagocce. O aver letto a suo tempo il libro del giornalista dell’Espresso Stefano Livadiotti (Magistrati, l’ultracasta) o quello più recente di Stefano Zurlo che, parafrasando quello famoso sul comunismo, si intitola Il libro nero della magistratura. Ci sarebbe da ridere, se non fossimo costretti a piangere di disperazione davanti a tante toghe indegne, strappate nella dignità, a sentire le storie di vita che emergono dalle carte della commissione disciplinare del Csm. Si parte dai giudici lumaca, quelli che impiegano mesi o anni a depositare le motivazioni delle sentenze, fino a quelli – il che è ciò che di più grave si può fare – che “dimenticano” in cella per giorni e giorni il detenuto da scarcerare. Poi c’è tutto il settore del “tengo famiglia”, i casi in cui vengono giustificati, o al massimo sanzionati con un buffetto, comportamenti scorretti con la situazione familiare o personale del singolo magistrato. Tolleranza per gli errori dovuti a stress, ma anche al divorzio o all’abbandono da parte della fidanzata. Piccole e grandi distrazioni che giocano con la vita e la libertà degli altri, giustificate per salvare la progressione di carriera della vita di un singolo giudice o pubblico ministero. Staremo a vedere che cosa succederà, che sorte avranno non solo davanti ai colleghi di Brescia che li stanno giudicando, ma anche nel tribunale disciplinare del Csm, gli uomini della Procura di Milano che tanto stanno facendo parlare di sé in questi giorni. A partire dal capo dell’ufficio Francesco Greco, per il quale il suo ex sottoposto Francesco Prete, oggi procuratore capo a Brescia ha già chiesto l’archiviazione per il reato di omissione di atti d’ufficio. E poi i due aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale. Oltre ai due sostituti Storari e Spadaro. E all’ex Piercamillo Davigo. La procura di Milano è un antico fortino di Magistratura democratica. Funzionerà ancora il vecchio sistema spartitorio all’interno del sindacato e del Csm? Assisteremo ancora a pressioni reciproche e reciproci ricatti? Verranno salvati i nostri uomini? Insieme al mancato rossore per l’imbroglio sulle capacità professionali, resiste anche all’interno della categoria un certo coraggio spavaldo che rasenta la spudoratezza. Perché la giornata di mercoledì alla Camera ha segnato una tappa importante della commissione giustizia, la quale ha dato un parere definitivo, pur se non vincolante, al governo sullo schema di decreto legislativo sulla presunzione di non colpevolezza e i processi-show celebrati fuori dalle aule da alcuni procuratori. È stata messa una parola, che si spera sarà definitiva, in particolare sui rapporti tra le toghe e la stampa, con quel provvedimento che il Fatto quotidiano e il sindacato delle toghe chiamano “legge bavaglio”. Semplicemente perché si impegnano i capi degli uffici giudiziari a limitarsi a stringati comunicati per riferire notizie sulle inchieste e a restringere solo a motivati casi di urgenza e rilevanza nazionale le conferenze stampa. Il testo del decreto sottolinea anche la necessità di non presentare mai l’indagato o l’imputato come colpevole prima di una sentenza passata in giudicato. E anche di soprassedere da quella funesta abitudine di intitolare le inchieste con denominazioni spesso offensive. Come fu per esempio la famosa “Mafia capitale”, che fu sconfessata in sede processuale da una sentenza che escludeva l’esistenza di metodi mafiosi nella commissione dei reati. Perché diciamo che ancora esiste una certa spavalderia che confina con la spudoratezza? Perché proprio nelle stesse ore (qualche giorno prima) in cui si metteva quasi la parola fine (il governo ha tempo fino all’8 novembre per emettere i decreti attuativi) ai processi-show, in Calabria accadeva qualcosa che non teneva in nessun conto quel che stavano deliberando Camera e Senato. Una bella conferenza-stampa. Questa volta Nicola Gratteri è innocente. Stiamo parlando invece del procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, che ha presentato l’operazione “Mala pigna” in conferenza-stampa, affiancato dall’aggiunto Gaetano Paci, dai vertici dell’Arma e dal generale Antonio Pietro Marzo, comandante delle unità forestali degli stessi carabinieri. Tutti fuorilegge e passibili di sanzioni, nel prossimo futuro. Ma anche imprudenti già oggi, con l’aria che tira. Distratti, forse. Ma sicuramente con un eccesso di spavalderia del procuratore Bombardieri (la cui attività investigativa abbiamo su questo giornale lodato in altre occasioni), il quale non ha saputo resistere alla tentazione di dire la sua sull’unico arresto “eccellente”, quello dell’avvocato Giancarlo Pittelli. Che porta a casa un secondo “concorso esterno”, dopo quello che gli ha contestato il procuratore Gratteri nell’inchiesta “Rinascita Scott” (altra denominazione da far sparire). “Quel che è emerso nel caso di Pittelli – ha spiegato il procuratore- è una condotta complessiva, a tutto tondo, che esula dal mandato difensivo…”. Beh, anche quello del magistrato canterino ben presto esulerà dal suo mandato, dottor Bombardieri, che sarà limitato a quello di lavorare e parlare poco.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Poche condanne, molte archiviazioni. È la giustizia in casa delle toghe. Sono circa 170 l’anno i magistrati oggetto di una incolpazione disciplinare. Di questi la maggior parte sono pm. Sul totale di azioni promosse, le sentenze di condanna sono il 21,9%: i magistrati rimossi ogni anno dall’ordine giudiziario si contano sulle dita di una mano. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'11 settembre 2021. Sono circa 170 l’anno i magistrati, in media, oggetto di una incolpazione disciplinare. E sono quasi sempre tutti uomini.Pur essendo le magistrate in servizio il 55 per cento delle toghe,  3/4 degli illeciti sono stati contestati agli uomini. A finire maggiormente sotto la scure del disciplinare, in particolare, sono i pm (22 incolpazioni ogni 1.000 pm, rispetto a 15 ogni 1.000 giudici). Il grosso delle violazioni disciplinari viene commesso nei distretti del Sud Italia (60,6 per cento), rispetto al Centro (15,5 per cento) e al Nord (23,9 per cento).

Nel corso del 2020, il numero totale delle notizie “circostanziate” di interesse disciplinare iscritte quali procedimenti “pre disciplinari” da parte della Procura generale della Cassazione è stato di 1.775, cifra che reca un contenuto decremento (-6,5 per cento.) rispetto al 2019, quando le iscrizioni erano state 1.898. Di queste 1.775 pratiche, però, ben 672 sono state subito archiviate. Solo per il 4,2 per cento è stata poi disposta l’azione disciplinare davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.  Il totale delle azioni, comunque, è ripartito tra il 47,7 per cento di iniziative del ministro della Giustizia, che ha a disposizione l’Ispettorato, e il 52,3 per cento della Procura generale.

Le sentenze: le condanne sono il 21,9 per cento. E veniamo alla qualità delle sentenze. Quelle assolutorie sono state il 33 per cento, 44,7 per cento i provvedimenti di non doversi procedere, 21,9 le condanne. In più della metà dei casi la condanna è stata la censura, la sanzione più lieve. Si contano sulle dita di una mano i magistrati rimossi ogni anno dall’ordine giudiziario. Uno di questi, nel 2020, è stato Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Per quanto riguarda l’appello, l’indice di conformità tra le richieste conclusive della Sezione disciplinare del Csm e le decisioni delle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione nei ricorsi in materia disciplinare è pari al 72,4 cento. Le “difformità” vengono segnalate anche per conclusioni solo parzialmente differenziate (per un singolo capo, o per singoli motivi di impugnazione). Cosicché la difformità effettiva si riduce alla percentuale del 10,3% del totale. Una percentuale molto alta. Va ricordato, prima di concludere, che  ogni anno aumenta il numero delle segnalazioni, soprattutto da parte di cittadini “insoddisfatti” dei comportamenti processuali tenuti dai magistrati. Le regole attuali lasciano pochi spazi di manovra, essendo rivolte  esclusivamente ad accertare se la toga abbia tenuto condotte che integrano gli elementi costitutivi di uno degli illeciti tipizzati ed a sanzionarle. La legge in vigore stabilisce che nessun magistrato può essere punito per come ha valutato le prove o interpretato la legge.

«Basta con i magistrati giudicati dagli amici, ora un’Alta Corte». A Cernobbio, un rapporto dello studio Ambrosetti, che organizza il Forum, rimette sul tavolo l’idea di Violante: portare fuori dal Csm i procedimenti disciplinari sui magistrati e affidarli a un organismo esterno in cui giudici e pm non siano più in maggioranza. Ma mentre il mondo delle imprese incoraggia la politica al giro di vite sulla magistratura, alla festa del Fatto quotidiano Scarpinato e Davigo accusano: «Dietro referendum e riforma Cartabia c’è l’assalto finale dei partiti che vogliono tornare alle mani libere». Insomma: il caso Palamara non ha fatto ridotto le toghe a più miti consigli. Errico Novi su Il Dubbio il 7 settembre 2021. Una dinamica sorprendente, ma che forse annuncia il futuro mood della giustizia. Il nuovo paradigma del conflitto fra magistratura e politica. Domenica, al Forum di Cernobbio, l’ad di Ambrosetti Valerio De Molli rilancia l’idea di una «Alta Corte di giustizia» per valutare le condotte dei magistrati sul piano disciplinare. Un’idea antica, avanzata da Luciano Violante già diversi anni fa, ma che al Forum i padroni di casa inseriscono in un pacchetto di necessarie e auspicabili grandi riforme istituzionali. A segnalarlo è un editoriale firmato sul Corriere della Sera di oggi da Federico Fubini. Che cita Sabino Cassese e Gherardo Colombo tra le figure di alto prestigio chiamate da Ambrosetti a indicare le soluzioni per il futuro dell’Italia. Alla voce “giustizia” la priorità cade dunque sul nuovo tribunale per le toghe. Poi c’è la partita giocata sul fronte opposto. Dai magistrati. Che alla festa del Fatto quotidiano, come riferisce lo stesso giornale di Marco Travaglio evocano un «assalto finale» della politica per una «nuova stagione delle mani libere». Parole di Roberto Scarpinato, pg di Palermo ma condivise nella sostanza, anche da Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri. Quindi, da una parte un l’addio alla “giustizia fai da te” dei magistrati. Idea già circolante in ambito politico (Andrea Orlando l’ha rilanciata in un’intervista al Dubbio nel maggio scorso, subito dopo che Enrico Letta l’aveva inserita nel Piano dem per la giustizia) ma fatta propria ora dal mondo delle imprese, di Confindustria e dell’università. Dall’altra parte le toghe, secondo le quali non sarebbero loro a doversi sottoporre a un sistema disciplinare meno “casereccio”, ma è la politica che casomai cerca inopinatamente nuove scorciatoie per l’impunità. Prima di tutto con il referendum, spiegano Scarpinato e Davigo, ma anche con la riforma penale di Cartabia. Scontro serio, da non sottovalutare. Perché le migliori intelligenze del Paese riprendono l’ipotesi dell’Alta Corte come risposta agli scandali della magistratura (Palamara è solo un archetipo). E fino a pochi giorni fa sembrava che le toghe e l’Anm fossero sotto scacco, e che anche la riforma del Csm, destinata a entrare nel vivo tra poco, potesse riservare ai magistrati vari giri di vite. Ma a quanto pare la replica dell’ordine giudiziario consiste in un rovesciamento dello schema: non siamo noi ad avere bisogno di una giustizia interna più efficace e credibile, dicono in pratica le toghe, sono i politici che vogliono chiuderci in un angolo per tornare a prima di Mani pulite. Certo, così descritto, il gioco politica-magistrati può apparire semplificato. Eppure rischia appunto di essere il tormentone prossimo venturo, non appena la riforma del Csm guadagnerà il centro della scena. Nel dettaglio, la proposta di “Ambrosetti-The European House” ipotizza un’Alta Corte composta secondo un modello analogo a quanto previsto per la Consulta, e in ogni caso con una quota di magistrati che, diversamente da quanto avviene oggi al disciplinare del Csm, non sarebbe maggioritaria. L’organismo richiederebbe probabilmente una modifica costituzionale, che ragionevolmente non potrebbe entrare nel pacchetto Cartabia. Ma se venisse messa sul tavolo, come il Pd chiede da molto tempo, la partita si surriscalderebbe subito. A proposito delle accuse mosse da Scarpinato e Davigo alla politica, non si tratta di voci estreme e isolate. Con richiesta di riservatezza, un autorevole magistrato con un forte peso nell’Anm, interpellato dal Dubbio, sostiene: «Il referendum sulla custodia cautelare voluto dalla Lega è uno scudo, essenzialmente, per i colletti bianchi: limitare il carcere preventivo sul pericolo di reiterazione incide proprio sui reati contro la Pa. Ma in realtà anche l’ipotesi di pagelle per i pm, che avvicina Pd e FI, favorisce gli accusati di corruzione: è in quei processi», secondo il magistrato, «che la complessità può esporci a insuccessi». Ma una proposta come l’Alta corte può entrare nei piani di Cartabia? La ministra, sabato a Cernobbio, ha osservato due cose. Primo, che «i rapporti tra politica e magistratura sono infiammati non da oggi ma da tanti decenni» e «il viaggio della riforma si sta svolgendo, soprattutto su alcuni temi, in un’atmosfera turbolenta come sempre». Poi ha parlato di riforme che potranno compiersi «a piccoli passi». Un’Alta Corte, dunque, potrebbe non essere di immediata attualità ma neppure impensabile. D’altra parte, secondo la guardasigilli, «i giudici sono contraddistinti dall’indipendenza e dall’autonomia: non solo l’autonomia dell’ordine giudiziario rispetto agli altri poteri, ma anche del singolo giudice». Della serie: più che il diritto alla “giustizia fai da te” nel Csm, va assicurata a ciascun singolo magistrato una giustizia anche disciplinare davvero efficace. Sembrano buone premesse culturali, quelle di Cartabia, rispetto a una svolta sugli “autoprocessi” delle toghe. Utili almeno per cominciare a discuterne.

Si al referendum sulla giustizia, parla il professor Andrea Castaldo. Responsabilità diretta delle toghe, cari magistrati basta con i trattamenti speciali. Francesca Sabella su Il Riformista il 25 Agosto 2021. “Volete voi che sia abrogata la Legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1, limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa”; art. 16, comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’art. 8?” La responsabilità diretta dei magistrati è uno dei sei quesiti al centro del referendum sulla giustizia. Andrea Castaldo, avvocato penalista e professore ordinario di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Salerno, inaugura la rubrica di approfondimento del Riformista che da oggi e per i prossimi giorni tratterà i quesiti proposti dal Partito Radicale, Lega e da altre organizzazioni impegnate nella raccolta firme: Forza Italia, Nuovo PSI, UDC, PSI. Il professor Castaldo spiega il contenuto del secondo quesito del Referendum e illustra le ragioni del Sì: «I magistrati, non potendo essere chiamati a rispondere direttamente dei danni causati nell’esercizio delle funzioni, sono beneficiari di un ingiustificato privilegio rispetto agli altri pubblici funzionari e anche ai comuni cittadini e questo sistema non ha ragione di esistere. Ai magistrati che vedono minacciata la loro indipendenza dico che non è assolutamente così: la loro autonomia resterebbe invariata ma si eviterebbero le lungaggini processuali e l’eccesso di burocrazia, derivanti dall’attuale sistema di rivalsa obbligatorio. È evidente poi che quello attuale è un sistema che non funziona: dal 2010 al 2021 si contano 129 pronunzie tra i tribunali e la Cassazione, ma solo 8 condanne contro lo Stato».

Professore, oggi il diritto in che modo regola la responsabilità dei magistrati?

«Oggi la legge dice che chi ha subìto un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali. In sostanza, non può citare direttamente il magistrato, ma lo Stato che se poi risarcirà effettivamente il cittadino si dovrà rifare obbligatoriamente sul magistrato. Il magistrato, però, il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio non può essere chiamato in causa ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 105 del codice di procedura civile. In conclusione, con il testo vigente il magistrato risponde comunque dell’eventuale errore commesso, ma c’è lo Stato a fare da filtro e non lo si può citare direttamente».

Quindi, cosa propone il quesito?

«Propone in sostanza, trattandosi di un referendum abrogativo, un semplice un tratto di penna: cancellare dove troviamo scritto “contro lo Stato” e “non può essere chiamato in causa”. Quindi, votando sì, se passa il referendum, il cittadino può citare direttamente il magistrato, senza prima dover agire contro lo Stato e chiamarlo in causa».

Il “Sì” quali cambiamenti comporterebbe?

«Innanzitutto l’azione di rivalsa obbligatoria comporta un inutile appesantimento e allungamento del contenzioso, che verrebbe così evitato. Ma la questione più importante è che il lavoro del magistrato verrebbe equiparato a tutte le altre professioni: i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. I magistrati, invece, non potendo essere chiamati a rispondere direttamente dei danni causati nell’esercizio delle funzioni, sono beneficiari di un privilegio immotivato rispetto agli altri pubblici funzionari e anche ai comuni cittadini. Inoltre, osservando le statistiche è evidente che qualcosa in questo sistema giudiziario non funziona come dovrebbe: dal 2010 al 2021 si contano 129 pronunzie tra i tribunali e la Cassazione, ma solo 8 condanne, di cui 3 nei tribunali e 5 in Cassazione, contro lo Stato (l’1,4%). In tribunale, su 62 sentenze, ci sono state solo 3 condanne, in appello 11 sentenze e “zero” condanne, in Cassazione 23 sentenze e 5 condanne. Tra i distretti nei quali si iscrivono più cause spicca Perugia con 136 richieste in 11 anni, ma solo 6 sentenze emesse, di cui nessuna di condanna. Quindi il risultato è 136 a zero. Nessuna responsabilità mai riconosciuta, in ben 11 anni, in quel distretto».

Qualcuno, però, potrebbe obiettare che così facendo chiunque e anche senza una ragione effettiva potrebbe denunciare il magistrato.  

«Il rischio di uso strumentale dell’azione trova una smentita nell’art. 4, comma 2, Legge n. 117/1988 che recita: l’azione di risarcimento può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno».

C’è anche chi esprime la preoccupazione per una magistratura meno indipendente.

«Non è così. Esiste già una forma di responsabilità diretta: qualora il danneggiato scelga di costituirsi parte civile, quindi esperisca l’azione civile nel processo penale, non troverà il “filtro” dello Stato. Si crea una strana sperequazione tra esercizio dell’azione civile nel processo penale e quello nella sede naturale».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La riflessione. Perché i giudici hanno paura della responsabilità civile? Nicola Graziano su Il Riformista il 29 Luglio 2021. Torno sulla questione dei referendum sulla giustizia visto che la raccolta firme s’infiamma in attesa del rush finale, dopo la ripresa estiva. E ci torno perché più di una volta, anche sulle pagine di questo giornale, mi sono dichiarato favorevole all’iniziativa promossa dai Radicali. È un metodo, quello del contatto con la gente, che condivido da sempre in quanto reale, concreto e immediato. Ed è un sistema democratico del quale, specie in momenti di profonda crisi dei rapporti, si avverte un bisogno vitale. Tra i vari quesiti referendari oggi mi piace parlare di quello sulla responsabilità civile dei magistrati. È un tema ricorrente, sempreverde si direbbe, che di volta in volta infiamma il dibattito tra i sostenitori, convinti della necessità di una responsabilità diretta dei magistrati, e quanti in questa possibilità, invece, vedono uno strumento di vendette, rivendicazioni, lamentele e chi più ne ha più ne metta. Vi dico subito che ho deciso di andare a firmare perché io questo tipo di responsabilità non la temo come credo che non la temano tutti i magistrati italiani che, con professionalità, ogni mattina, raggiungono i rispettivi posti di lavoro per svolgerlo con la serenità che deve contraddistinguere l’esercizio della funzione giudiziaria. Eppure va chiarito perché non c’è da temere per questo quesito referendario. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è una legge chiara che disciplina una delle possibili forme di responsabilità in cui può incorrere un magistrato, cioè una forma di responsabilità che si può accompagnare a quelle, ben più gravi, che sono la responsabilità penale e quella disciplinare. Oggi la responsabilità civile è concepita in chiaro favore per i cittadini che subiscono un torto dal magistrato perché, con la previsione della responsabilità diretta dello Stato, in base al rapporto di immedesimazione organica, si garantisce la solvibilità patrimoniale del condannato, cioè dello Stato, salva poi la rivalsa dello stesso verso il magistrato. Allora la responsabilità diretta può contenere una insidia perché può individuare un debitore non solvibile visto che il magistrato vive di stipendio e potrebbe non essere assicurato e quindi non avere un garante a seguito di contratto nel caso di suo inadempimento, se e una volta condannato a risarcire. Ma vi è di più e questo a me sembra essere il nocciolo della questione. Se si analizza la legge, le ipotesi di responsabilità civile del magistrato sono davvero molto chiare. Esso sono previste nella legge 117 del 1988 e sono ben individuate: l’agire con dolo, colpa grave o per diniego di giustizia, laddove si esclude categoricamente che l’attività di interpretazione della legge ovvero la valutazione del fatto e delle prove possa essere fonte di responsabilità civile. Visti così, i comportamenti davanti ai quali ci troviamo potrebbero essere definiti patologici, cioè al di là del cosiddetto errore giudiziario che, se scusabile, chiaramente non comporta responsabilità (e nel distretto di Corte di appello di Napoli sono censiti numerosi errori giudiziari ai quali, per la verità, non sembrano far corrispondenza ipotesi clamorose di responsabilità civile del magistrato). E allora io dico che non bisogna arroccarsi in idee preconcette e su posizioni pregiudizievoli perché poi di tutto il clamore resta qualcosa di vero e una necessità da affrontare con decisione e immediatezza. Probabilmente i cittadini, che numerosissimi sono accorsi presso i luoghi di raccolta firme per il deposito dei referendum sulla giustizia, sono davvero stanchi di sentire che esiste una casta impunita e impunibile. È davanti a questo immaginario che nasce la ribellione di quanti sono stanchi di leggere quotidianamente che quel magistrato o quel pubblico ministero, dopo l’enorme clamore mediatico riservato a certe vicende giudiziarie, abbia visto cadere nel nulla le ipotesi di accusa lasciando segni indelebili su chi ha ingiustamente subìto l’infamia di una condanna personale che spesso sfocia anche in una condanna mediatica (questa davvero non risarcibile in nessun modo perché incancellabile). Se il referendum può essere utile a rasserenare questo rapporto, ormai in profonda crisi, tra cittadini e magistratura, allora ben venga. I magistrati a testa alta posso affrontare questa riforma perché sanno che non accadrà (perché non ammesso giuridicamente) un ricorso all’istituto della responsabilità civile solo per dare sfogo a critiche, risentimenti o per ottenere sotto altro aspetto una riforma di un provvedimento ritenuto ingiusto. Non è questo affatto consentito, nella legge oggi vigente: che resti o meno la responsabilità indiretta del magistrato non cambia il sistema di garanzie per il magistrato eventualmente e direttamente evocato in giudizio. Del resto il fatto che ricorra spesso, come una sorta di cantilena civile, il tema della responsabilità civile di giudici e pm suona come un campanello d’allarme davanti al quale la magistratura è chiamata a dare un “controsegnale” per recuperare quella fiducia che oggi è al lumicino e che va riconquistata senza se e senza ma. Ora, direi, o mai più. Nicola Graziano

"Ora basta coi magistrati che giudicano se stessi: il tetto vi cadrà addosso". Luca Fazzo il 26 Luglio 2021 su Il Giornale. Il costituzionalista avverte: "Va tolta al Csm la funzione disciplinare, serve un organo terzo". Alla fine, a decidere sul putiferio in corso nel palazzo di giustizia di Milano sarà il Consiglio superiore della magistratura: giudici che giudicano se stessi, una sezione disciplinare dove spesso sembrano contare più le appartenenze di correnti che i torti e le ragioni. Ma è venuto il momento di togliere al Csm la funzione disciplinare: sarebbe una svolta epocale, e a proporla è Sabino Cassese, uno dei più importanti costituzionalisti italiani. Che intanto avverte i Procuratori: attenzione, il tetto vi sta per crollare sulla testa.

Professore, a Milano più di metà di una procura insorge in difesa di un pm di cui il capo della stessa Procura ha chiesto l'allontanamento. È un caso senza precedenti. Fin dove si possono spingere i poteri del capo di un ufficio inquirente? I pm non sono liberi per legge?

«L'articolo 107 della Costituzione dispone che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario. Questo vuol dire che le garanzie del pubblico ministero non sono direttamente stabilite dalla Costituzione ma vengono stabilite dalla legge. In secondo luogo, le garanzie di indipendenza necessarie per gli organi giudicanti non sono simili a quelle necessarie per gli organi dell'accusa, le cui decisioni sono comunque sottoposte al giudizio della magistratura giudicante. Le implicazioni di queste due premesse mi paiono chiare».

Storari ha consegnato i verbali di Amara a Davigo sostenendo che di fatto gli veniva impedito di indagare. Ma in base alla Costituzione l'azione penale non sarebbe obbligatoria?

«Non conosco gli atti e ho una conoscenza sommaria dei fatti, come noti attraverso la stampa. I verbali erano atti riservati della procura e non dovevano circolare.

A giudicare Storari, di cui il pg della Cassazione ha chiesto il trasferimento cautelare da Milano e dalle funzioni, sarà lo stesso Consiglio superiore della magistratura di cui fanno parte consiglieri il cui nome compare negli stessi verbali di Amara. Come si esce da questo cortocircuito?

«In casi di questo tipo, i principi del diritto richiedono un obbligo di astensione di tutte le persone che abbiano conflitti di interessi».

Non sarebbe il momento di portare la funzione disciplinare fuori dal Consiglio della magistratura, in modo da impedire che a giudicare siano a volte i colleghi di corrente degli accusati?

«La funzione disciplinare dovrebbe essere comunque rimessa ad un organismo terzo, per assicurare indipendenza e imparzialità non solo rispetto al poter esecutivo, ma anche nei confronti del corpo della magistratura. Al di là di ciascuno dei singoli passaggi di questa vicenda, due considerazioni generali vanno fatte. La prima è che la declinazione dell'indipendenza in termini di autogoverno è stata errata fin dall'inizio (e duole dire che fu Lodovico Mortara a parlarne per primo, ancor prima della Costituzione). La seconda è che sarebbe consigliabile un maggior self-restraint del corpo dei procuratori, per salvaguardare l'ordine giudiziario, che altrimenti corre il rischio di vedersi precipitare il tetto addosso».

Davigo aveva il diritto di ricevere quei verbali informalmente?

«Non so se si possa parlare di un diritto di ricevere, mentre mi sembra abbastanza chiaro che vi era un obbligo di riservatezza di colui che ha consegnato».

Luca Fazzo. Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Magistrati, ogni anno vengono archiviati 1200 procedimenti disciplinari ma nessuno sa perché. Rosario Russo il 10 luglio 2021 su Il Fatto Quotidiano. Con il tacito consenso del ministro della Giustizia, ogni anno il Pg presso la Suprema Corte emette mediamente oltre 1200 provvedimenti d’archiviazione disciplinare, ma neppure il Csm li può leggere. Lo scandalo delle Toghe Sporche è oggetto di procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Perugia. Inoltre, tutte le condotte dei magistrati inquisiti o coinvolti a diverso titolo dalle intercettazioni pubblicate dalla stampa sono – o saranno – oggetto di indagine disciplinare da parte del Procuratore generale della Suprema Corte di Cassazione. Per legge, il Pg ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare, per prevenire che egli possa agire pro amico vel contra inimicum, mentre il ministro della Giustizia ne ha soltanto la facoltà, che esercita in base a valutazioni sostanzialmente politiche. Tuttavia, ricevuta una notizia disciplinare, con motivato provvedimento il Pg può discrezionalmente archiviare se il ministro non si oppone. Questo per effetto della riforma Mastella (2006) con cui è stata abrogata la disposizione che riservava al Csm la declaratoria di non luogo a procedere richiesta dal Pg al Csm, titolare del potere sanzionatorio nei confronti dei magistrati ordinari. Al Consiglio pervengono quindi soltanto le notizie disciplinari discrezionalmente non archiviate dal Pg. Non è l’unica grave anomalia del sevizio disciplinare: malis mala succedunt. Con sentenza 6 aprile 2020 n. 2309 – in netto contrasto con lo spirito dell’Adunanza Plenaria 2 aprile 2020, n. 10 – il C.D.S. ha statuito che l’archiviazione del Pg è accessibile soltanto al ministro della Giustizia, restando perciò interamente opaca per l’autore della segnalazione disciplinare e perfino per il magistrato indagato e il Csm. Perché sono importanti questi rilievi? Perché nel periodo 2012-2018 (sette anni) risultano iscritte mediamente ogni anno 1380 notizie d’illecito disciplinare (segnalazioni con cui avvocati o cittadini denunciano abusi dei magistrati). Ogni anno il 91,6% di tali notizie (cioè 1264) è stato archiviato dal Pg e quindi soltanto per 116 di esse è stata esercitata l’azione disciplinare. Consegue che mediamente ogni anno oltre 1260 archiviazioni sono destinate al definitivo oblio, sebbene conoscerne la motivazione è tanto importante quanto apprendere le ragioni (a tutti accessibili) per cui le sanzioni vengono disposte dal Csm. La ‘casa’ della funzione disciplinare, pilastro e primo avamposto della legalità, è dunque velata senza alcuna concreta ragione. Non è così infatti per altre archiviazioni. In ambito penale, se sia stata emessa l’archiviazione, qualunque interessato (indagato, terzo, denunciante o querelante) normalmente ha diritto di averne copia (art. 116 c.p.p.), essendo venute meno le ragioni della segretezza. Le archiviazioni disciplinari nei confronti degli avvocati sono d’ufficio notificate al denunciante; anche quelle nei confronti dei magistrati amministrativi sono ostese a chiunque ne abbia interesse. La segretezza delle archiviazioni disciplinari del Pg è quindi un inquietante unicum, specialmente a volere considerare che la Corte Costituzionale ha sancito da tempo “l’abbandono di schemi obsoleti… secondo cui la miglior tutela del prestigio dell’ordine giudiziario era racchiusa nel carattere di riservatezza del procedimento disciplinare” (sent. n. 497/ 2000). Anche il Consiglio Superiore della Magistratura ha sposato il principio generale della trasparenza (delibera del 5.3.2014). Le indagini penali nei confronti di taluni magistrati membri del Csm, coinvolti nello scandalo delle Toghe sporche, inevitabilmente hanno avuto – o avranno – anche un risvolto disciplinare. Se in qualche caso il Pg archiviasse – com’è in suo potere – non ne sapremo mai la ragione; eventuali archiviazioni in sede penale sarebbero invece accessibili. Absurdissimum, se si considera che, in sede disciplinare (come in sede penale), per il magistrato indagato l’archiviazione rappresenta l’esito più fausto e ambito (una… medaglia al valore giudiziario), anche rispetto alla sentenza di assoluzione emessa dal Csm o dalle Sezioni Unite (a tutti accessibile). Introdotta finalmente la legge sulla trasparenza (D. lgs. n. 33/2013), è tempo che – specialmente in questa grave contingenza storica – anche la ‘casa’ dell’archiviazione disciplinare cessi di essere opaca senza alcuna plausibile ragione. Se la decisione amministrativa o giurisdizionale si distingue da “un pugno sul tavolo” soltanto in virtù della motivazione, non è ormai accettabile che al cittadino che abbia segnalato qualche abuso dei magistrati si risponda dicendo: archivio perché… archivio! La rinascita della Giurisdizione, disfatta dal recente scandalo delle Toghe sporche, ne presuppone la piena e completa trasparenza. Rosario Russo, già sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte. Classe 1947, catanese, si laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti e la lode. Vincitore di borsa di studio, è professore a contratto presso l’Istituto di diritto privato etneo, diretto dal prof. G. G. Auletta. Nominato magistrato ordinario, presso i Tribunali di Caltagirone e Catania si occupa di diritto civile ma anche di maxiprocessi in Corte di Assise d’appello. Ha fatto parte dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia. Prima del pensionamento, ha svolto per oltre diciotto anni le funzioni (civili, penali e disciplinari) di sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte. Si è occupato dell’informatizzazione del sistema giudiziario e dei maxiprocessi. È autore di articoli e monografie di carattere prevalentemente giuridico. Scrive abitualmente sul sito Judicium.it, diretto dal prof. B. Sassani.

Inefficacia della legge Vassalli sulla responsabilità civile dello Stato per gli errori dei magistrati. Bruno Lago su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Qualcuno ricorda la brillante “Operazione Malta” della Procura di Napoli a fine 2010? L’allora Procuratore Capo Giandomenico Lepore, circondato da sostituti e alti ufficiali della finanza, annunciò in conferenza stampa il 14 dicembre di quell’anno: “Abbiamo sgominato una banda di truffatori internazionali dediti a frodi assicurative ai danni degli automobilisti campani!”, e quindi il blocco dell’attività della società di assicurazioni maltese EIG ltd, gli arresti per una dozzina di “truffatori” e il maxisequestro di altre 15 società italiane. Il Gip aveva scritto: “L’ egregia indagine condotta dalla Guardia di Finanza, condensata abilmente dal PM nella richiesta di custodia cautelare, è assolutamente completa, straordinariamente dettagliata, priva di lacune istruttorie e pervasivamente convincente”.  Un mese dopo il Tribunale del riesame ribaltava le frettolose conclusioni di Procura e Gip: “.la contestazione in esame è giuridicamente infondata…se la disanima del Gip si dimostra insufficiente, la prospettazione interpretativa fatta propria dal PM è errata”. Il procedimento fu conseguentemente archiviato nel 2013, molte di quelle società finirono in stato di insolvenza con perdita di posti di lavoro. Alla fine non si confermò alcun reato e nessun colpevole. La Corte d’appello di Napoli riconobbe alcuni indennizzi per ingiusta detenzione nel 2015. In conclusione hanno pagato solo i contribuenti e i magistrati hanno fatto carriera. Nel 2016, in qualità di ex Presidente della società maltese, ero stato accusato di esercizio abusivo di attività assicurativa e ostacolo alle attività di vigilanza.  Decisi di citare lo Stato ai sensi della legge Vassalli per la responsabilità civile dei magistrati che avevano ignorato il diritto dell’UE (la vigilanza spettava alle autorità maltesi, non all’ Italia, ma Procura e Gip l’hanno ignorato!). Poche settimane fa è stata pubblicata la sentenza di rigetto del Tribunale di Roma che non riconosce gli errori dei magistrati, a differenza del Riesame e della Corte d’appello di Napoli in sede di ingiusta detenzione. Ma lo zelo dei magistrati romani non si ferma qui perché vengo anche condannato a pagare subito 15 mila euro di spese legali alla Presidenza del Consiglio oltre a oneri e imposte: un messaggio chiaro per scoraggiare il ricorso in appello a tutela dei magistrati. Dopo il danno, la beffa è il caso di dire! Possiamo allora ancora sorprenderci che la legge Vassalli negli ultimi 12 anni abbia visto lo Stato soccombere solo in 8 casi su 544 procedimenti? Sono i dati forniti dall’ on. Costa pochi giorni fa e dimostrano che, malgrado la riforma del 2015, la legge non è uno strumento assolutamente efficace per risarcire il cittadino dei danni derivanti dagli errori dei magistrati per la pretesa esenzione da responsabilità che competerebbe alla funzione interpretativa dei giudici. La realtà di cui prendere atto è che una legge nata nel 1988 sull’ onda emotiva del referendum dopo il caso Tortora con oltre l’80% dei cittadini a favore della responsabilità civile dei giudici, è stata congegnata in modo da non funzionare per non irritare i magistrati. La riforma del 2015 – imposta da una sentenza della Corte di Giustizia del 2011 che stabiliva la responsabilità dello Stato per errori dei magistrati nell’applicazione del diritto dell’UE – ha subito la stessa sorte (Governo Renzi, Guardasigilli Orlando) sempre per le pressioni dei magistrati, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Occorre quindi mettere al centro di una riforma della giustizia oggi la revisione profonda della legge Vassalli perché solo attraverso una vera responsabilizzazione dei magistrati si potrà ottenere una giustizia più efficiente, rapida e giusta. Difficile che si trovi l’accordo politico sulla materia, diventa perciò importante che la campagna referendaria del Partito Radicale e della Lega sulla riforma della giustizia in corso di definizione proponga chiari quesiti referendari per evitare l’annacquamento della riforma come nel 1988! Bruno Lago 

GIUDICI CHE SBAGLIANO MA NON PAGANO. Inchiesta di Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo della rubrica DATAROOM tratta dal CORRIERE DELLA SERA del 31 Maggio 2021 riportata dal Corriere del Giorno. Il Csm e i titolari dell’azione disciplinare non offrono sempre una risposta veloce ed adeguata, ed è un errore grave, perché contribuendo alla perdita di credibilità della magistratura aiutano chi “lavora” per ridurne l’autonomia e l’indipendenza. Quando infine le sentenze disciplinari arrivano, e sono pubblicate, non si possono leggere. Gli omissis oscurano nomi e luoghi. Il giudice che sbaglia può nascondersi dietro una privacy negata ai comuni cittadini. Credibili e capaci di riscuotere fiducia. Così il capo dello Stato, vorrebbe i giudici. Senza ombre e sospetti. E pronti ad affrontare le proprie responsabilità. Ma chi sbaglia, ora, paga? I magistrati che commettono reati affrontano i tre gradi di giudizio, come tutti i cittadini. Ma nel frattempo è il Consiglio superiore della magistratura a decidere se trasferirli, sospenderli, radiarli, o lasciarli al loro posto fino a sentenza definitiva. Ed è sempre il Csm a decidere se, e come, sanzionare i comportamenti che non onorano la toga. Vediamo come funziona il sistema.

Rimozione: chi decide e quando. In casi gravi la rimozione arriva anche in tempi brevi. Silvana Saguto, presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo è stata radiata nel marzo 2018 per l’uso della “posizione di magistrato per ottenere vantaggi ingiusti”, 2 anni prima della condanna a 8 anni per il “patto corruttivo permanente” con avvocati, funzionari e ufficiali sulla gestione dei beni sequestrati ai mafiosi. Per rimuovere Luca Palamara, accusato di “manovre occulte” per condizionare il Csm, sono bastate 9 sedute. Ma in altri casi, altrettanto gravi, si viaggia più lenti. La legge Castelli concede al ministro della Giustizia e al Procuratore generale della Cassazione un anno di tempo dalla notizia del fatto per promuovere l’azione disciplinare; un altro anno al Pg per le richieste; un altro ancora alla sezione disciplinare per pronunciarsi. In più, tra ricorsi e contro-ricorsi, in Cassazione, il meccanismo si inceppa. E intanto la toga infangata resta indosso.

Da processato, processa gli altri. La sospensione da funzioni e stipendio è obbligatoria solo in caso di arresto. E’ facoltativa, invece, per chi è sotto procedimento penale. Così c’è chi, anche con accuse gravi pendenti, continua ad esercitare. Come Maurizio Musco, pm di Siracusa, accusato di favorire nelle indagini l’amico avvocato Piero Amara e i suoi amici. Il Guardasigilli, Paola Severino, aveva chiesto e ottenuto “con urgenza” il suo trasferimento cautelare a Palermo già a fine 2011. Nel 2014 il Gup lo assolve, la Procura impugna, ma il Csm lo rimanda a Siracusa, dove 8 magistrati su 11 denunciano il «rischio di inquinamento dell’azione della Procura». Viene ritrasferito, a Sassari. Intanto fioccano le condanne in Appello, in Tribunale a Messina (concussione da cui poi sarà assolto) e alla Corte dei conti. Il Csm lo radia solo nel 2019. La Cassazione conferma nel 2020. In quegli 8 anni Musco ha continuato a processare gli altri. O come Ferdinando Esposito, accusato per le pressioni improprie fatte tra il 2012 e il 2014 per avere un attico a due passi dal Duomo di Milano a canone stracciato. Per lui ci fu solo il trasferimento per abuso dei poteri. Chi avrebbe potuto chiederne la sospensione da funzioni e stipendio era la Procura generale della Cassazione, dove a capo, fino al 2012 c’era lo zio Vitaliano. Ma non lo fece, e Ferdinando Esposito ha esercitato fino alla radiazione, avvenuta tre mesi fa. Il problema è che se una pratica arriva istruita male, il Csm non può che archiviare. Per questo dovrebbero esserci magistrati senza ombre. Ecco perché ha fatto scalpore che il Pg Mario Fresa dopo aver sferrato, durante il lockdown, un pugno alla moglie, non sia stato trasferito dal Csm lo scorso 19 maggio (9 voti pro, 8 contro, 8 astenuti). Lei ritira la querela e ritratta.

Sentenze: i nomi oscurati. Ai magistrati del Tar e Consiglio di Stato invece la legge Castelli non si applica. La Procura di Catania nel 2020 ha chiuso le indagini accusando il giudice del Tar Dauno Trebastoni di corruzione in atti giudiziari. Ma la richiesta di sospensione al Cpga, l’omologo del Csm, è stata respinta. Andrea Migliozzi, presidente Tar di Bologna, non viene sospeso, malgrado sia indagato, in quanto il suo nome compare nella condanna per sentenze pilotate del consigliere di Stato Nicola Russo, come presunto responsabile di concorso negli stessi reati. E infatti continua a fare il giudice amministrativo. Quando infine le sentenze disciplinari arrivano, e sono pubblicate, non si possono leggere. Gli omissis oscurano nomi e luoghi. Il giudice che sbaglia può nascondersi dietro una privacy negata ai comuni cittadini.

Carabinieri presi a calci. Al magistrato sono richieste “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, e rispetto della dignità”. Ma spesso si chiude un occhio, come con Nicola Mazzamuto. Nel 2005 va in farmacia, e se la prende con due poliziotti che facevano portar via le auto in doppia fila, come la sua. Ne afferra uno per il collo procurandogli lesioni. Il Csm gli commina la censura, ma nel 2013 lo promuove presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina. Comprensione anche per Federico Sergi, che ne 2009, ubriaco, ha un incidente e prende a calci e pugni due carabinieri. Lo arrestano (sarà assolto). Scatta la sospensione cautelare per 2 anni. Rientrato in Tribunale viene trovato dai colleghi in bagno sotto effetto di sostanze. Il Pg di Cassazione ne chiede la rimozione. Il Csm gli dà solo la sospensione perché ravvisa una «censura» col passato. Ora è giudice a Potenza. Anche Luciano Padula, ex pm di Reggio Emilia, viene fermato alla guida della Bmw «in piena notte, barcollante, vestito da cavallerizzo». Insulta i vigili e ne strattona una minacciandola. Due condanne per lesioni aggravate, poi prescritte in Cassazione. Ma la carriera non viene bloccata, e va a fare il giudice penale a Spoleto. Lo scorso anno (10 anni dopo i fatti) dal Csm arriva la sospensione per due anni. Intanto la carriera avanza. Persino la valutazione negativa viene assegnata con tormento, visto che chi ne riceve due viene espulso. Giulio Cesare Cipolletta, giudice di Pisa, squarcia le gomme dell’auto di una collega nel parcheggio del Tribunale. Condannato per danneggiamento e porto ingiustificato d’arma, nel 2009, se la cava con una censura. Tre anni dopo riperde le staffe, sempre con una signora. Per un alterco sul traffico le dice: «Maledetta», e calciando lo sportello dell’auto da cui lei stava scendendo, la ferisce al ginocchio. La risarcisce con 3mila euro. Il Csm, nel 2017, lo censura di nuovo. Ma pochi mesi fa la valutazione per l’avanzamento di carriera è positiva «anche in ordine al prerequisito dell’equilibrio». Francesco Mollace, ex pm di Reggio Calabria di valutazione negativa ne aveva già una. Imputato di corruzione in atti giudiziari per i rapporti con Luciano Lo Giudice, accusato di ‘ndrangheta, viene assolto per insufficienza di prove. Ma i giudici definiscono alcune sue scelte investigative «censurabili in altra sede». Ovvero al Csm, dove arriva il fascicolo con la confessione del fratello, che si autoaccusa degli attentati ai magistrati di Reggio, e racconta l’amicizia tra i due. Viene trovato il numero di Mollace (mancante di una cifra), appuntato come “Don Ciccio”, in casa di Luciano che, intercettato, in carcere dice all’avvocato «mandagli un bacetto a don Ciccio». Alla fine il «no» alla promozione passa, ma solo a maggioranza. C’è anche chi, come l’ex pm dei reati sessuali Davide Nalin, sotto inchiesta al Csm per un ruolo nello scandalo Bellomo (il consigliere di Stato destituito che imponeva la mini alle aspiranti magistrate) tenta il piano “B”: il concorso al Tar. Scritto superato, orali a luglio.

Le colpe del sistema. C’è infine chi la passa liscia. Come la giudice del Tribunale Civile di Rovigo che ai suoi ospiti al party di compleanno aveva proposto come regalo una “lista di viaggio”: loro versavano denaro e lei sognava mari caldi. Peccato che fra gli invitati c’erano anche avvocati o periti: potenziali controparti in giudizio che avevano interesse a compiacerla. Pagando. Finisce sui giornali ma non al Csm. Le riforme, che il presidente Mattarella auspica rapide, partono anche da qui. Il Csm e i titolari dell’azione disciplinare non offrono sempre una risposta veloce ed adeguata, ed è un errore grave, perché contribuendo alla perdita di credibilità della magistratura aiutano chi “lavora” per ridurne l’autonomia e l’indipendenza. Oltre ad essere un danno per i tanti magistrati integerrimi e uno sfregio per quanti sono morti onorando la toga.

Quei magistrati sempre “assolti” dalla responsabilità civile. Dal 2010 al 2021 sono state depositate 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati e su 129 sentenze emesse finora ci sono state solo otto condanne. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 15 maggio 2021. Nemmeno il tempo di “esultare” per le proposte della commissione istituita dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione, torna alla carica per inserire nella riforma alcuni aspetti ancora necessari, a parer suo, di accorgimenti. Come nel caso della responsabilità civile dei magistrati, tema del quale si discute da decenni (il referendum targato radicali con il quale oltre l’80% si schierò a favore di un cambiamento delle regole è del 1987) e del quale si torna a parlare dopo la pubblicazione dei dati in cui si attesta che dal 2010 al 2021 sono state depositate 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati e su 129 sentenze emesse finora ci sono state solo otto condanne. Numeri che hanno fatto sobbalzare Costa sulla sedia e gli hanno fatto dire che «la legge sulla responsabilità civile dei magistrati va rivista subito e l’occasione giusta può essere proprio la riforma Cartabia». Il deputato spiega che attraverso la lettura dei dati «chiunque si potrà rendere conto» della gravità della situazione, visto che «solo l’1,4 per cento delle cause iscritte contro i giudici si è conclusa con una condanna definitiva». E pensare che nel 2015 l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva soppresso il filtro di ammissibilità, ragione per cui, ragiona Costa, le maglie per mettere sotto processo i giudici avrebbero dovuto allargarsi, ma non è stato così». Rispetto al 2015 in effetti il confronto tra le responsabilità contestate prima e quelle contestate dopo non subisce grandi mutamenti. A leggere i dati non c’è stata né la pioggia di cause che i magistrati temevano, tanto che l’allora presidente dell’Anm, Rodolfo Maria Sabelli, parlò di una «rivoluzione contro la giustizia e contro l’indipendenza dei magistrati», né tantomeno la pioggia di condanne. Di quella riforma, arrivata soltanto un anno dopo il taglio di cinque anni dell’età pensionabile dei magistrati, i magistrati contestarono sia l’eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi sia il passaggio da un terzo alla metà della rivalsa dello Stato sullo stipendio della toga, ma lo scontro già aspro arrivò sull’attività di interpretazione della legge. In quel caso la voce dell’Anm, assieme alle pressioni politiche, ebbe la meglio e la norma fu eliminata. Evidentemente, però, non era quello il vero problema. A dire la verità soprattutto nelle grandi città un cambio di passo dopo la riforma Orlando si può notare: come a Roma, dove rispetto alle 28 cause tra il 2010 e il 2015, ce ne sono state 66 dal 2016 al 2021; o a Milano, con 3 cause prima del 2015 e 11 nel periodo successivo. Come è noto, la responsabilità civile dei magistrati non è “diretta” ma ricade sullo Stato, che poi si rivale sulle toghe. Delle otto condanne avvenuta dal 2010 a oggi, tre sono arrivate dai tribunali, su 62 sentenze, nessuna dall’appello, su undici sentenze, e otto dalla Cassazione, su 23 sentenze. Nel distretto di Perugia, per citare un caso emblematico, ci sono state 136 richieste in undici anni e sei sentenze, di cui nessuna di condanna. Un altro dato che salta all’occhio è che la riforma Orlando prevedeva, in proiezione, una spesa per lo Stato di 540mila euro all’anno in seguito a condanne per i magistrati, frutto della media dei dieci anni precedenti in cui c’erano state otto condanne totali con risarcimenti medi di 54mila euro. Ebbene, non solo non si è realizzata la previsione di una decina di condanne all’anno, ma a quelle dieci condanne non si è arrivati nemmeno in undici anni. È per questo che Costa parla della responsabilità civile post Orlando come di «un flop» e da qui nasce l’idea di emendare ancora la riforma Cartabia con modifiche anche sulla responsabilità civile dei magistrati. «La legge va cambiata di nuovo perché anche palesi responsabilità non si riescono a perseguire – conclude il deputato – Per questo motivo, presenteremo degli emendamenti sulla responsabilità civile al testo di riforma del Csm e della magistratura. Se i magistrati sbagliano devono pagare. Non è possibile costringere i cittadini a vere e proprie peripezie giudiziarie per ottenere dopo anni e anni un risarcimento».

Responsabilità civile dei giudici, 8 condanne in 11 anni. Costa: "Legge da cambiare". Liana Milella su La Repubblica il 14 maggio 2021. I dati dal 2010 dimostrano che anche la legge Orlando del 2015 non ha funzionato. I Radicali con la Lega chiederanno un referendum. Il deputato di Azione: “La riforma Cartabia è l’occasione giusta”. “Otto condanne in 11 anni. Pazzesco. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati va rivista subito. E l’occasione giusta può essere proprio la riforma Cartabia. Basta leggere i dati, e chiunque se ne potrà rendere conto”. Dice così, mentre mostra e sfoglia le statistiche che ha ottenuto in esclusiva, il deputato di Azione Enrico Costa, divenuto ormai il garantista più prolifico di proposte sulla giustizia della maggioranza. E mentre i Radicali, con la Lega, annunciano la prossima battaglia sui referendum, Costa lancia i suoi dati e la sua proposta per una nuova responsabilità civile che cambi le regole attuali che, a suo dire, non funzionano affatto. Tema da sempre caldissimo: i giudici che sbagliano, ma non pagano per l’errore commesso. Un referendum, quello dei Radicali nel 1987, disse che l’80,21% degli italiani voleva che le regole cambiassero, e solo il 19,79% votò no. La legge Vassalli dell’88 lasciò l’amaro in bocca ai vincitori. Nel 2015 l’ex Guardasigilli Andrea Orlando cambiò le norme, eliminando il filtro di ammissibilità, ma adesso Costa ragiona sui dati e dice: “La legge va cambiata di nuovo perché anche palesi responsabilità non si riescono a perseguire”. E cita un caso, quella della povera Marianna Manduca, la donna uccisa dal marito a Caltagirone dopo che lo aveva denunciato per le sue violenze per ben dodici volte, ma inutilmente: “Se i magistrati sbagliano devono pagare. Non è possibile costringere i cittadini a vere e proprie peripezie giudiziarie per ottenere dopo anni e anni un risarcimento”. Ma i dati sulla responsabilità civile che cosa ci dicono? Eccoli qua. Dal 2010 al 2021 sono state avviate 544 cause di responsabilità civile nei confronti di altrettanti magistrati. In media 47 all’anno. Nel 2015, come abbiamo visto, la disciplina è cambiata, e quindi le maglie per mettere sotto “processo” i giudici avrebbero dovuto allargarsi. Ma non è stato così. E i dati lo dimostrano anche in questo caso. Perché rispetto all’anno 2015, il confronto tra le responsabilità contestate prima e quelle contestate dopo non subisce grandi mutamenti. Tranne in qualche città, a Roma per esempio, dove rispetto alle 28 cause tra il 2010 e il 2015, ce ne sono state 66 dal 2016 al 2021. A Milano ce n’erano 3 prima, e 11 dopo. A Brescia 5 prima, e 14 dopo. A Firenze una prima e due dopo. A Palermo solo una, dopo la nuova legge. A Reggio Calabria 7 prima e 6 dopo. A Lecce 6 prima e 9 dopo. “Ebbene - commenta Costa - la grande, immensa pioggia di cause non c’è stata”. Dal 2010 al 2021 si contano 129 pronunzie tra i tribunali e la Cassazione, ma solo 8 condanne - 3 nei tribunali e 5 in Cassazione - contro lo Stato. Poiché, in base alla legge, la responsabilità non è “diretta”, ma passa dallo Stato che poi si rivale sulla toga. Ricapitolando, dal 2010 e fino a oggi, “solo l’1,4% delle cause iscritte contro i giudici si è conclusa con una condanna definitiva”. Delle cause, certamente alcune si sono infrante contro il filtro di ammissibilità, soppresso poi dalla riforma del 2015, ma altre sono state rigettate, altre ancora sono tuttora in corso. Ma la conclusione di Costa è che “la tendenza è chiara, non c’è stata né la pioggia di cause che i magistrati temevano, né tantomeno la pioggia di condanne”. E cita una frase che, nel 2015, disse l’allora presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli: “Il ministro Orlando ha detto che questa riforma è una rivoluzione, invece è una rivoluzione contro la giustizia, contro l'indipendenza dei magistrati". Ma i fatti non sono andati così. L’opinione diffusa tra le toghe era quella che il governo Renzi, che già l’anno prima aveva tagliato ex abrupto di ben 5 anni l’età pensionabile dei magistrati, eliminando di fatto le toghe più famose e autorevoli, avesse solo la voglia di "normalizzare la magistratura". Pur senza arrivare allo sciopero, i magistrati contestarono sia l’eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi, sia il passaggio da un terzo alla metà della rivalsa dello Stato sullo stipendio della toga. Ma soprattutto quello che fece più discutere riguardava l’attività di interpretazione della legge, che alla fine però fu eliminato. Ma i dati, a questo punto, dimostrerebbero che la “nuova” responsabilità civile si è rivelata un flop. Almeno a detta dei super garantisti come Costa. Vediamo la situazione negli uffici giudiziari. In tribunale, su 62 sentenze, ci sono state solo 3 condanne, in appello 11 sentenze e “zero” condanne, in Cassazione 23 sentenze e 5 condanne. Ma in quali distretti si iscrivono più cause? Spicca Perugia con 136 richieste in 11 anni, e solo 6 sentenze emesse, di cui nessuna di condanna. Quindi il risultato è 136 a zero. Nessuna responsabilità mai riconosciuta, in ben 11 anni, in quel distretto. Infine ecco altri elementi utili che si possono trarre dalle tabelle. Dal 2005 al 2014 c’erano state 9 condanne con una liquidazione media degli importi pari a 54mila euro. Quando venne approvata la legge del 2015, ricorda Costa, nella relazione tecnica fu inserita una proiezione di possibile aumento delle condanne, prevedendo che ce ne potessero essere almeno dieci all’anno per una cifra complessiva di 540mila euro. Somma che fu prevista tra le possibili spese della legge di cui il bilancio doveva tenere conto. Facendo un bilancio Costa conclude: “Era una cifra minima, se si pensa ai numeri della responsabilità professionale negli altri settori in cui è prevista. Però a 10 condanne non si è mai arrivati, neanche in 11 anni”. 

Valentina Errante per “Il Messaggero” il 25 marzo 2021. Inchieste che sollevano bufere politiche e si concludono con un nulla di fatto, casi irrisolti, errori giudiziari e sentenze che non arrivano mai. Non tutti i casi sono uguali, ma le statistiche, in Italia, sono sconfortanti e l'immagine di Enzo Tortora, finito in carcere ingiustamente (condannato in primo grado a dieci anni) per poi essere assolto da tutte le accuse, è diventata il simbolo di una Giustizia ingiusta, tutt' altro che infallibile. Di contestazioni risultate false o comunque non supportate da prove, la storia giudiziaria è piena. Giovanni Falcone era finito al centro di furiose polemiche per non avere mai aperto un fascicolo nei confronti dell'ex eurodeputato Salvo Lima, ma sosteneva di non avere abbastanza elementi. E a fronte di processi che si concludono con assoluzioni ci sono anche indagini che partono male e non trovano una risposta, come il caso di via Poma. Alla lista si aggiungono i processi che non finiscono mai: a Milano è ancora aperto il dibattimento (uno dei tanti filoni) per il crac Parmalat, e sono fatti avvenuti tra il 93 e il 2003. Parlando di inchieste che si sono sgonfiate, un caso emblematico degli ultimi anni è quello che ha visto protagonista l'ex ministro del Lavoro, sindaco di Napoli e presidente della Campania, Antonio Bassolino: a parte alcune inchieste negli anni 90 finite con archiviazioni, ha collezionato diciannove assoluzioni in 17 anni. L'ultima, «perché il fatto non sussiste», è dello scorso novembre, per alcuni fatti di peculato. La prima indagine risale invece al 2003: due magistrati accusano Bassolino, che come governatore è anche commissario straordinario all'emergenza rifiuti, di avere compiuto una truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato. Le contestazioni sono frode in pubbliche forniture e abuso d'ufficio. A parte il numero dei processi, Bassolino non è certo l'unico politico travolto da inchieste che non hanno portato a una sentenza di condanna.

VIA POMA. Il caso di Simonetta Cesaroni, uccisa a Roma il 7 agosto del 90 è ancora un mistero. Anni di indagini non hanno dato una spiegazione a quelle 29 coltellate. I sospetti inizialmente ricadono su Pietrino Vanacore, portiere dello stabile dove si trovava la vittima, che era rimasto in carcere per quasi un mese. Poi sul giovane Federico Valle e su altri personaggi che avevano a che fare con il palazzo dove Simonetta lavorava ed era sede dell'Associazione ostelli della gioventù. Tutti scagionati. Ma il nodo sembra essere un altro: nelle indagini sono stati fatti errori grossolani. I vestiti della vittima erano scomparsi, insieme ad altri effetti personali. Così come l'arma (un tagliacarte). Ma nessuno aveva cercato nei cassonetti che erano in strada. Sulla scena del crimine era stato trovato un bigliettino con la scritta «Ce dead ok». Molto tempo dopo si era saputo che era di un poliziotto intervenuto sul posto. Nel 2000 il papà di Simonetta chiede provocatoriamente l'archiviazione del caso, e da via Arenula parte un'ispezione. Le indagini si riapriranno nel 2005, sotto processo finisce Raniero Brusco, all'epoca fidanzato della vittima. Dopo una condanna in primo grado, ci saranno due assoluzioni.

PARMALAT. Il caso Parmalat, invece, è infinito. In pochi sanno che è ancora in corso una parte del processo per il crac. Un buco in bilancio di circa 14 miliardi di euro, costato, tra l'altro, l'azzeramento del patrimonio di molti piccoli azionisti che avevano puntato sull'azienda di Collecchio. Con l'accusa di bancarotta fraudolenta, è stato condannato a 17 anni e mezzo il patron della Parmalat, Calisto Tanzi, e anche alcuni collaboratori, tra dirigenti, revisori dei conti e sindaci. Ma sette ex manager di Bank of America, assolti nel procedimento principale, sono ancora sotto processo per usura e bancarotta. La prima accusa dovrebbe essere prescritta, mentre la bancarotta, a 18 anni di distanza, ha come data di scadenza il prossimo luglio.

La responsabilità professionale delle toghe. Come valutare i magistrati, impossibile che siano tutti dei geni. Nello Rossi, già magistrato, direttore della rivista “Questione Giustizia”, su Il Riformista il 21 Gennaio 2021.

1. Il “sismografo” della professionalità dei magistrati non funziona bene. E a volte non funziona affatto. Il complicato apparecchio amministrativo dovrebbe misurare la complessiva qualità del lavoro di giudici e pubblici ministeri. Registrando non solo e non tanto le più gravi negligenze o violazioni della legge sostanziale o processuale (per questi casi c’è il procedimento disciplinare) ma le “costanti” positive o negative dell’operato dei singoli. Ad esempio il ripetuto rigetto da parte dei giudici di richieste e di iniziative di un pubblico ministero o il sistematico succedersi delle riforme o degli annullamenti delle sentenze di un giudice nei diversi gradi di giudizio. Se la strumentazione predisposta per misurare e vagliare l’operato dei magistrati perde colpi, la loro responsabilità professionale diventa letteralmente introvabile. E alcuni magistrati possono continuare impunemente a far danni e a fare carriera a differenza di quanto avviene in altre professioni intellettuali. È questa la denuncia dell’Unione delle Camere penali italiane – affidata ad un documento del 6 gennaio di quest’anno – che ha innescato una discussione tra avvocati e magistrati svoltasi sulle pagine de Il Riformista e altrove.

2. Il sismografo inceppato di cui parliamo sono le valutazioni periodiche di professionalità. Una procedura lunga, complicata, formalmente minuziosa che si ripete ogni quattro anni e che si dipana attraverso diversi adempimenti: autorelazione del magistrato, esame di provvedimenti estratti a sorte e forniti dall’interessato, rapporto del capo dell’ufficio, parere sulla professionalità emesso dal Consiglio giudiziario, giudizio finale del Csm. Un mare di carte che dovrebbe fornire un quadro fedele dell’operato dei magistrati e rendere conto della qualità della loro attività. Eppure in molti, troppi casi, ciò non avviene, perché le valutazioni appiattiscono i meriti, resi uniformi dal linguaggio burocratico, e non registrano quasi mai le cadute di professionalità. Sul filo dell’ironia si può dire che dalle valutazioni di professionalità i magistrati emergono quasi sempre come puntuali, laboriosi, competenti, addirittura geniali. Veri e propri geni “compresi”, sottratti al triste destino della maggior parte dei geni, ai quali tocca di essere misconosciuti dai loro contemporanei. È perciò legittimo chiedersi perché nelle valutazioni di professionalità non affiorano quei profili critici del modus operandi di alcuni giudici e pubblici ministeri che in molti conoscono e di cui molto si parla negli uffici giudiziari e nell’ambiente esterno.

All’origine di questa congiura del silenzio sta una tenace resistenza corporativa? O l’idea che i magistrati sono agenti e parafulmini dei conflitti e perciò vanno comunque messi al riparo da giudizi interessatamente malevoli? O, infine, l’intenzione di preservare negli uffici giudiziari una pace che sarebbe compromessa da pareri realistici e severi? Le difficoltà del giudiziario e l’asprezza del clima che lo circonda nel nostro Paese forniscono sostegno a ciascuna di queste motivazioni. E però, se si vuole rendere effettiva la responsabilità professionale è necessario uscire dalla palude nella quale le valutazioni di professionalità si sono impantanate, indicando credibili rimedi. Il primo: responsabilizzare i controllori. Chiamando (come oggi “di fatto” non avviene) i dirigenti degli uffici, che sono i primi giudici della professionalità, ad assumere la responsabilità per le informazioni ed i giudizi che, alla prova dei fatti, si rivelino non veritieri. Se un capo dell’ufficio redige una valutazione positiva (o elogiastica) della tempestività e della capacità di lavoro di un magistrato e questi, a seguito di una ispezione o di una segnalazione esterna incorre in una sanzione disciplinare per ritardi o scarsa laboriosità, il dirigente dovrebbe a sua volta essere chiamato dal Csm a rendere conto del suo giudizio. Ed analoga richiesta di rendiconto dovrebbe essere rivolta ai dirigenti che rispondono, con vaghe e fumose formule burocratiche, alle puntuali domande contenute nelle schede di valutazione sulla “corrispondenza” tra richieste avanzate da un pubblico ministero e provvedimenti adottati dai giudici o sui dati patologici delle decisioni non confermate nei successivi gradi di giudizio. Per non parlare, infine, dei casi più eclatanti nei quali è la giustizia penale a dover intervenire sulle cadute professionali che si traducono nella commissione di reati. Cominciare a “controllare i controllori” è un rimedio insufficiente? Tutt’altro. Sarebbe un antidoto efficace alla irresponsabilità burocratica di chi valuta, che rappresenta la prima fonte delle storture e delle fallacie del sistema. Se, come tutti riconoscono, non può essere un singolo caso, magari posto sotto i riflettori dai media, a fondare un credibile giudizio negativo sulla professionalità di un magistrato, è solo rivitalizzando e restituendo credibilità alle valutazioni professionali complessive e sistematiche che si può rendere effettiva la responsabilità professionale. A questo primo passo dovrebbe seguirne un secondo non meno significativo: moltiplicare le fonti di conoscenza cui attingere nelle valutazioni di professionalità e garantire la piena trasparenza dell’intera procedura valutativa. Nel ddl di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (A.C. 2681) il Ministro della Giustizia propone di semplificare le procedure e di introdurre un “diritto di tribuna”, cioè la facoltà per i cd. componenti laici dei consigli giudiziari (avvocati e professori universitari) di partecipare alle discussioni e deliberazioni relative alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Non sarebbe una novità assoluta ma solo la generalizzazione di un metodo virtuoso, giacché diversi consigli giudiziari hanno già adottato, con norme interne, questa regola di apertura e di trasparenza dei lavori. Su questa strada occorre procedere speditamente, senza arretramenti o dietrofront magari giustificati in nome dell’esigenza di tutelare la privacy dei magistrati. L’invocazione della privacy, sacrosanta per la sfera della vita privata, rischia di divenire, sul terreno professionale, uno schermo opaco, pretestuoso ed ingiustificato. Anche perché la privacy professionale dei magistrati ha un nome antico: corporativismo. La forza ed il radicamento istituzionale del governo autonomo della magistratura consentono di aprire le stanze nelle quali lavorano i magistrati senza che ne derivino soverchi pericoli per la serenità e indipendenza della stragrande maggioranza dei magistrati che operano con scrupolo e professionalità. A patto di sapere che lo scopo principale delle valutazioni non è mettere in fila i magistrati alla ricerca dei più bravi (compito praticamente impossibile data l’estrema diversità e complessità dei mestieri del magistrato) ma di individuare e stigmatizzare , nell’ottica della c.d. “selezione negativa”, proprio le patologie professionali su cui si appunta la denuncia delle Camere penali. Lavorando con umiltà in questa direzione si può sperare di sanare una clamorosa contraddizione. Quella tra l’esperienza quotidiana della giurisdizione – nella quale gli utenti della giustizia si rendono subito conto della professionalità, o delle carenze di professionalità, di un magistrato – e la difficoltà di trasporre questa razionale percezione nelle valutazioni ufficiali sul suo lavoro.

·        Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.

Ingiusta detenzione, la Corte dei Conti: «Stop al doppio binario per gli indennizzi». Per la magistratura contabile, bisogna impedire «il possibile cumulo delle azioni da cui potrebbe conseguire una duplicazione della spesa» per ingiusta detenzione e responsabilità civile dei magistrati. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 24 settembre 2021. Nel triennio 2017-2019 è stato rilevato un progressivo aumento della spesa pubblica, in termini di impegni di competenza, per i casi di errori giudiziari/ingiusta detenzione; nel 2020 si è invece registrata una diminuzione. In particolare, mentre nell’anno 2019 (48.799.858,00 euro) la spesa era risultata aumentata più del 27% rispetto al 2017 (38.287.339,83 euro), nel 2020 l’importo complessivo (43.920.318,91 euro) è risultato superiore a quello del 2017 ma inferiore a quelli del 2018 e 2019. È quanto rileva la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti nella Relazione su “Equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari”, che ricorda come la riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione sia prevista dagli artt. 314 e 315 del codice di procedura penale. La disciplina si applica anche ai casi di errore giudiziario regolati dall’art. 643. Tale istituto, spiega la Corte dei Conti, «rappresenta il riconoscimento, a livello normativo, del principio di civiltà giuridica e di attuazione dei valori di un ordinamento democratico in virtù del quale chi sia stato privato ingiustamente della libertà personale ha diritto ad una congrua riparazione per i danni materiali e morali patiti». Dall’indagine, sviluppata dalla Sezione del controllo esaminando un campione di ordinanze irrevocabili, «è emersa, tuttavia, una difforme applicazione dei criteri di liquidazione di tali ristori da parte delle Corti d’appello. Questo suggerisce l’opportunità di un monitoraggio del ministero della giustizia per l’acquisizione dei provvedimenti giudiziari per i quali si potrebbero prefigurare indennizzi». Attualmente, osserva la magistratura contabile, «né la normativa speciale, né il codice di procedura penale, prevedono norme di coordinamento tra la disciplina dell’indennizzo per ingiusta detenzione ex art. 314 e 315 cpp e quella di cui alla legge n. 117/1988 relativa a “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”, che, se introdotte, impedirebbero il possibile cumulo delle azioni da cui potrebbe conseguire una duplicazione della spesa per indennizzo e risarcimento del danno». E conclude: «Poiché anche in ambito europeo sussiste un disallineamento delle tutele previste dai vari Stati per i ristori economici a fronte delle ingiuste detenzioni, la Corte ritiene auspicabile l’attivazione di iniziative dirette alla tendenziale equiparazione dei criteri della loro quantificazione, in considerazione dei riflessi finanziari della sempre più frequente “circolazione” dei provvedimenti giudiziari nell’ambito dell’Unione europea». Andrebbe però ricordata una cosa: dal 2010 al 2021 sono state depositate 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati e su 129 sentenze emesse, finora ci sono state solo otto condanne. Con un solo magistrato chiamato personalmente a risarcire (10mila euro). «Esiste la totale impunità per i magistrati che sbagliano», commenta il deputato di Azione Enrico Costa, autore di una proposta di legge al riguardo.

In prigione da innocenti, Corte dei Conti preoccupata: “Attenti a non risarcirli troppo”. Angela Stella su Il Riformista il 23 Settembre 2021. È calata nel 2020 la spesa pubblica per i casi di errori giudiziari e di ingiusta detenzione, che invece nei tre anni precedenti aveva fatto registrare un progressivo aumento. In particolare, mentre nell’anno 2019 la spesa era risultata aumentata più del 27% rispetto al 2017, nel 2020 l’importo complessivo (43.920.318,91 euro) è risultato superiore a quello del 2017 ma inferiore a quelli del 2018 e 2019. A rilevarlo è la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti nella Relazione su “Equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari”. Un aspetto che lascia perplessi è il seguente: attualmente – osserva la magistratura contabile – né la normativa speciale, né il codice di procedura penale, prevedono «norme di coordinamento tra la disciplina dell’indennizzo per ingiusta detenzione, contenuta negli articoli 314 e 315 del codice, e le norme della legge del 1988 sul “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”». Se venissero introdotte, «impedirebbero il possibile cumulo delle azioni da cui potrebbe conseguire una duplicazione della spesa per indennizzo e risarcimento del danno». In pratica cosa significa: una persona che ha subìto una ingiusta detenzione in teoria potrebbe ricevere per questo un indennizzo a cui aggiungere la liquidazione dopo un’azione legale verso il magistrato che lo ha messo ingiustamente in carcere. «Un duplice riconoscimento dello stesso nocumento – si legge nella relazione – a carico dello Stato, con conseguente aggravio per la finanza pubblica». Per Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, fondatori dell’associazione Errorigiudiziari.com, «la Corte dei Conti sembra preoccuparsi più dei soldi spesi dallo Stato per indennizzare e risarcire gli innocenti in carcere che del numero spropositato di persone che ogni anno vengono arrestate o condannate ingiustamente. Il problema non è far risparmiare lo Stato – anche perché nessuna cifra, neanche la più alta, può compensare qualsiasi periodo trascorso in carcere senza motivo – bensì cercare di ridurre le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari che da 30 anni costituiscono l’emergenza più sottovalutata e trascurata del sistema giudiziario. Non ci spieghiamo perché chi ha sofferto per una ingiusta detenzione e per un errore giudiziario poi non possa fare anche una azione di responsabilità civile nei confronti del magistrato». Per il responsabile giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa, promotore del sito presuntoinnocente.com, «si tratta di un tema molto delicato, per cui tutte le attività di studio e approfondimento sono utili. La relazione della Corte dei Conti è ben strutturata ma sconta un problema generale: la mancanza di dati puntuali. È il Ministero dell’Economia ad averli ma non li fornisce. Io li ho chiesti più volte, anche tramite il Presidente della Commissione Giustizia. Ci hanno risposto che per fornire queste informazioni sarebbe servito uno sforzo organizzativo e operativo delle loro risorse che avrebbe potuto ritardare l’erogazione degli indennizzi. A ciò si aggiunge che è la stessa Corte nella sua relazione a sottolineare che il Ministero della giustizia era a conoscenza di informazioni parziali. Da ciò si conferma quanto diciamo da tempo: ossia che nel nostro Paese gli innocenti ingiustamente detenuti sono considerati come un fatto fisiologico per cui ci si volta con la faccia dall’altra parte». Angela Stella

In cella ingiustamente? Risarcimento più alto se la vittima è un politico. Massimo Malpica il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. La Cassazione: carriera compromessa da un errore dei giudici, indennizzo da ricalcolare. La legge è uguale per tutti, l'ingiusta detenzione - e pure la reputazione - invece no. Così per la Cassazione Enrico Niccolò Graziani, medico, già vicesindaco di Campo nell'Elba, arrestato a ottobre 2005 per concorso in abuso d'ufficio e concussione, e poi assolto perché il fatto non sussiste dopo aver passato 20 giorni in carcere e quattro mesi ai domiciliari, ha diritto a un risarcimento diverso, e superiore, a quei 17.804,41 euro stabiliti come equa riparazione a febbraio del 2020 da una sentenza della Corte di appello di Firenze. Per la Suprema corte, che lo ha messo nero su bianco in una sentenza datata 25 agosto, quel risarcimento in effetti non è affatto equo, pur rispettando i criteri di calcolo che tengono conto dei giorni di privazione della libertà. Perché, a differenza di un comune cittadino, il malcapitato Graziani, originario di Montenero di Bisaccia, come Antonio Di Pietro, pur avendo all'epoca compiuto 62 anni, era soltanto all'inizio della sua carriera politica. E quell'arresto, piovuto su di lui in una «realtà di piccole dimensioni», ha di fatto tagliato le gambe alle sue possibilità di crescere come amministratore, oltre a compromettere forse in modo irreparabile pure la sua reputazione, tanto da fargli perdere parte dei suoi assistiti. Quel giorno d'autunno Graziani, quando gli venne notificata l'ordinanza di custodia cautelare in carcere dagli uomini della Gdf, che lo trovarono per strada, tra la sede del Comune e il suo ambulatorio, crollò per terra, sdraiandosi sul marciapiede, in preda a un malore da stress, finendo in ospedale per un giorno prima di venire trasferito nel carcere Don Bosco di Pisa. Comprensibile, vista l'assoluzione con formula piena che sarebbe poi arrivata. Ma le cose, per lui, non si sono mai veramente «rimesse a posto». E così, dunque, finire ingiustamente dietro le sbarre per un politico è più dannoso rispetto a quanto lo è per un comune cittadino. Era stato proprio Graziani a sostenerlo, nel suo ricorso contro la sentenza fiorentina che gli riconosceva quel contenuto indennizzo, sostenendo che i giudici toscani avevano fatto un mero calcolo aritmetico connesso ai giorni di custodia cautelare patiti, senza considerare le «gravi conseguenze pregiudizievoli derivate all'interessato dalla detenzione subita», che appunto gli aveva causato problemi sul fronte professionale ed economico, oltre a interrompere prematuramente la sua carriera politica, «essendo l'interessato stato allontanato dal partito di appartenenza ed essendosi dovuto dimettere dalla carica di vicesindaco», ed avendo creato dissidi anche personali, sfociati «nella separazione dalla compagna». La Cassazione gli ha dato ragione. Bacchettando i giudici fiorentini per un «insanabile vizio motivazionale» del provvedimento, nella parte in cui si limita al conteggio aritmetico per stabilire il risarcimento, annullandolo e rimandando tutto alla Corte d'Appello di Firenze per un nuovo giudizio. I magistrati toscani, secondo la Quarta sezione penale della Cassazione, non avrebbero infatti affrontato «il tema della definitività o meno della reputazione derivante dall'applicazione di una misura custodiale in una realtà di piccole dimensioni, come quella in cui si è verificata la vicenda che ha coinvolto tutti gli aspetti della vita personale dell'interessato». I 17mila euro, dunque, non bastano. Perché accuse e carcerazione hanno provocato un danno maggiore all'uomo proprio in virtù del suo incarico, oltre che della sua professione. Massimo Malpica

Ha diritto a una riparazione maggiore di quella base. Caso Enrico Graziani: distrutto dai Pm dopo 16 anni merita un risarcimento più alto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Lo dice la Cassazione: se un politico ha visto interrotta la propria carriera politica da un arresto ingiusto, deve essere risarcito dallo Stato in modo più consistente di quanto previsto per gli altri cittadini. Perché ha subito un tasso maggiore di ingiustizia. Qualche considerazione prima di raccontare la storia di Enrico Graziani, medico ed ex vicesindaco Ds di Campo nell’Elba, arbitrariamente ammanettato, poi assolto e oggi risarcito. Quante volte abbiamo detto o sentito dire, dopo l’assoluzione di un uomo politico, “ma adesso chi lo risarcirà di tutto quello che ha perso nel suo ruolo pubblico, professionale e personale?” Quante volte? Sempre. L’ultima nel maggio scorso, quando il ministro Di Maio – e gliene abbiamo dato atto – ha chiesto scusa a Simone Uggetti per la gogna mediatica cui il suo partito e quello della Lega lo avevano sottoposto nel 2016 quando, nel pieno delle elezioni amministrative per la stesse città per cui si corre in questi giorni, il sindaco di Lodi fu arrestato per turbativa d’asta. Il fatto non esisteva, ma per avere l’assoluzione con la formula più ampia Uggetti ha dovuto aspettare cinque anni e la sentenza dell’appello. Ma nel frattempo quanto ha perso sul piano della salute propria e dei familiari oltre che su quello politico e della reputazione? La vicenda di Enrico Graziani, senza pretendere di classificare la gerarchia del dolore, meriterebbe ancora di più le prime pagine dei grandi giornali, se in Italia esistessero. Così, onore all’agenzia Agi, al Giornale e al Dubbio per averne parlato. Ma noi vogliamo fare di più, vogliamo esaminare e studiare la sentenza della quarta sezione penale della Cassazione e elogiarne ogni singolo membro, dalla presidente Patrizia Piccialli e la relatrice Maura Nardin fino agli altri componenti Aldo Esposito, Ugo Bellini, Daniela Dawan. I quali hanno stabilito che vada riconosciuto a Enrico Graziani un risarcimento più alto di quello standard calcolato in modo meramente matematico, anche per “la compromissione dell’avviata carriera politica”. Qualcuno penserà che sono solo soldi. Per noi è un bel precedente. Se la magistratura con un arresto ingiusto compromette la tua carriera politica, come minimo lo Stato ti deve risarcire in modo adeguato. Non perché il politico debba essere un privilegiato, ma proprio per il contrario, perché con quell’ingiustizia, ha perso molto di più -soprattutto per quella gogna mediatica per cui si è scusato Di Maio con Uggetti – di quel che capita ai signori Brambilla o Esposito. Ed ecco la storia. Enrico Graziani è un medico di base di quelli con molti pazienti che lo amano e lo scelgono giorno dopo giorno, vive una vita normale con la sua compagna a Campo dell’Elba, cittadina nell’isola da cui prende il nome, che conta a oggi 4.805 abitanti. Amministrazione di sinistra. Il medico entra a far parte della giunta, in quota Ds, fin dai primi anni duemila. In ruoli delicati come l’urbanistica, tanto che viene subito preso di mira dagli esposti di Legambiente, Wwf e anche da comitati di cittadini. Niente da fare, ogni inchiesta giudiziaria finisce in nulla, il vicesindaco ne esce sempre candido come un giglio. Finché la mattina del 12 ottobre 2005 la guardia di finanza bussa alla sua porta intorno alle sette, ora canonica delle brutte notizie. Come va a finire è facile da intuire: 20 giorni di carcere e quattro mesi ai domiciliari. E subito dopo? Mollato immediatamente dal suo partito, che si è sempre comportato allo stesso modo, si chiamasse Pci o Pds o Ds o Pd. Nel giro di un mese dimissioni da vicesindaco, con quella spontaneità che certi partiti sanno dolcemente indurre. Crollato subito fisicamente, tanto da avere un malore alla sola vista dell’ordine di custodia cautelare. Stressato nella “compromissione della vita familiare”, come leggiamo nella sentenza, «derivata dalla modalità esecutiva degli arresti domiciliari, accompagnati da vigilanza con telecamera all’entrata dell’abitazione di famiglia e da continui controlli e perquisizioni, generante un clima di grave tensione, sfociata nella separazione dalla compagna». Quindi, niente più ruolo politico, niente più vita affettiva. Questo naturalmente in una piccola realtà di 4mila abitanti, dove è facile pensare e dire, anche delle persone più stimate, se lo hanno arrestato qualcosa avrà fatto. Infatti il dottor Graziani perde gran parte dei suoi pazienti, che non riuscirà a recuperare neanche dopo la sua assoluzione. La sentenza di primo grado è del 2012. Ebbene sì, sette anni dopo l’arresto e tutto il resto. Questo nel Paese dove la magistratura associata e le grandi toghe che scrivono ogni giorno sullo stesso quotidiano vantano di avere i giudici più laboriosi d’Europa. Il medico di Campo d’Elba viene assolto “perché il fatto non sussiste”. Il verdetto diviene definitivo, ma intanto i giornali non ne parlano più. Viene avviata la pratica per il ristoro da ingiusta detenzione. E lo stress continua fino alla sentenza di cui stiamo parlando, che risale al 19 agosto. La quale esordisce così: «Con ordinanza del 3 febbraio 2020 la Corte d’appello di Firenze, a seguito di annullamento con rinvio dell’ordinanza del 23 febbraio 2018, ha condannato il Ministero dell’Economia e delle Finanze… al pagamento di euro 17.804,41 a titolo di equa riparazione…» in favore di Enrico Graziani. Si deduce che la Corte d’appello di Firenze ha deciso obtorto collo il risarcimento dopo averlo negato e solo dopo un ricorso in Cassazione dell’ex imputato. Il quale però non si è arreso, contestando il fatto che la cifra deliberata sia stata il frutto di un semplice calcolo matematico, cioè una cifra standard conteggiata sul numero di giorni di carcere ingiusto scontato. La Corte aveva addirittura affermato che la soddisfazione di esser stato assolto dovrebbe bastare come risarcimento anche morale. E aver perso la salute, i pazienti, la compagna e le prospettive di carriera politica? E la gogna mediatica in una comunità piccola? Tutto questo non conta niente? Conta moltissimo, affermano oggi (nel 2021! Dopo sedici anni) i cinque giudici della quarta sezione penale della Cassazione. Che respingono la richiesta di rigetto del ricorso presentata in forma scritta dal procuratore generale. Ma anche l’argomento avanzato dal Ministero “convenuto”, «secondo cui la lesione degli interessi economici e personali deriverebbero dalle accuse e non dalla privazione della libertà, essendo peraltro la reputazione del ricorrente stata riqualificata dall’assoluzione». Ragionano così: sei stato assolto? Che cosa vuoi di più? Ma intanto la Cassazione rinvia di nuovo alla Corte d’appello per un nuovo giudizio. Sono passati solo 16 anni. E in fondo Enrico Graziani di anni ne ha solo 78.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

E alla fine lo Stato riconobbe agli assolti un ristoro da 63 euro…Dopo aver dato l'Ok all'emendamento di Costa, il governo stanziò una cifra ridicola. E ora via Arenula non sa come evitare che una norma sacrosanta si riduca a una beffa. Errico Novi su Il Dubbio il 31 maggio 2021. È una legge giusta. Lo sanno tutti. Lo riconoscono tutti. Quando nel novembre 2020 il deputato di Azione Enrico Costa, primo firmatario dell’emendamento sui rimborsi agli assolti, ne parlò con l’allora guardasigilli Alfonso Bonafede, non si trovò affatto dinanzi a un interlocutore distante e scettico. «Caro Enrico», rispose l’ex ministro del Movimento 5 Stelle, «sono assolutamente d’accordo con te sull’opportunità che lo Stato ristori, nei limiti del possibile, le spese legali sostenute da chi sia stato imputato in un processo penale e abbia poi ottenuto il proscioglimento, perché si tratta di una norma di civiltà. Abbiamo però un problema». «Quale?», chiese preoccupato il parlamentare noto per le proprie battaglie garantiste e che, inizialmente, aveva proposto di approvare l’ipotesi formulata anni addietro dal Cnf, cioè la detraibilità delle spese di difesa. «Qual è l’ostacolo?», ripeté Costa a Bonafede. L’ex guardasigilli spiegò: «Non esiste una statistica sul numero dei cittadini che ogni anno escono assolti nell’ambito di un processo con una delle formule ampiamente liberatorie per le quali tu proponi giustamente di prevedere il rimborso. All’ufficio statistico di via Arenula», rivelò Bonafede, «non è mai stato condotto un rilevamento su questa casistica così particolare. E visto che non sappiamo quanti sono, sarà complicato approvare la norma, perché dovremmo andare al buio sulle coperture». Come ben capite, già in quella fase “prodromica” all’approvazione della norma (di cui vi diamo conto in modo dettagliato in altro servizio di questa edizione, nda) era chiaro quanto poco si pensasse di poter sacrificare, finanziariamente, per risarcire gli innocenti della pena loro inflitta con l’indebita sottoposizione a un processo. Era implicitamente pacifico quanto limitato potesse risultare lo “sforzo” che eravamo disposti a fare noi cittadini, noi amministrazione pubblica, noi maggioranza o ex maggioranza, per ristorare chi è stato costretto per anni al supplizio dell’accusa ingiusta, dell’infamia che ne deriva, della perdita del lavoro, e dell’onore, che spesso a quell’accusa si accompagna. Ma fino a che punto quella “concessione” sarebbe stata “risicata”?

Primo dato: il numero degli assolti interessati. Lo si capisce dai numeri che ora abbiamo a disposizione. Numeri che parlano chiaro, perché poi la norma è stata sì approvata (con la legge di Bilancio per il 2021), ma prevede che, per cominciare già quest’anno a restituire almeno una frazione delle spese legali sostenute dal malcapitato, è necessario che il guardasigilli, di concerto col ministro dell’Economia, adotti un decreto ministeriale attuativo. Il decreto ancora non c’è, quindi niente rimborsi. Ma non solo. Perché proprio pochi giorni fa si è scoperto anche per quale raggelante motivo il decreto non è stato ancora predisposto, nonostante la presenza a via Arenula di una ministra della Giustizia, come Marta Cartabia, attentissima alla tutela delle garanzie. Lo si è scoperto perché sempre il deputato Enrico Costa ha presentato martedì scorso, in commissione Giustizia a Montecitorio, un’interrogazione urgente alla guardasigilli, e già il giorno dopo ha ottenuto risposta dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Nel lungo documento di replica, Sisto ha dovuto esporre l’amara verità: va innanzitutto segnalata «la estrema complessità delle attività e dei relativi adempimenti da eseguire, segnatamente con riferimento alle opportune verifiche concernenti la congruità delle risorse annuali stanziate rispetto alla platea dei possibili beneficiari». Soprattutto, ha spiegato il sottosegretario Sisto, «vanno necessariamente sottolineati alcuni profili critici derivanti dalla esiguità del fondo appostato in bilancio» che è di «8 milioni di euro all’anno al massimo». Mentre invece è «potenzialmente molto ampio» il numero «dei soggetti aspiranti alla elargizione del beneficio» pari a «oltre 125 mila domande».

….e il secondo dato: quanto spetterebbe a ciascun assolto. Ecco quindi, finalmente, il dato di cui qualche mese prima Bonafede ancora non poteva disporre. Ma è da brividi il risultato della divisione: ne deriva «un rimborso medio nella esigua misura di 63 euro». Adesso, ci potremmo anche dilungare sulla microingegneria contabile del problema, non elusa da Sisto nella propria replica. Ad esempio, sul fatto che «non poche difficoltà comporta la locuzione per cui l’elaborazione dei “criteri” e delle “modalità di erogazione dei rimborsi” deve essere effettuata “attribuendo rilievo al numero di gradi di giudizio cui l’assolto è stato sottoposto e alla durata del giudizio” ». Come ha detto ancora il sottosegretario alla Giustizia nella risposta all’interrogazione, il ministero dovrà sforzarsi di offrire una «ragionevole interpretazione del dato normativo». Il che potrebbe anche voler dire che si eviterà l’elemosina dei 63 euro e si assicurerà il rimborso solo a chi è rimasto sotto processo per un numero particolarmente elevato di anni, oltre che per tutti i gradi di giudizio possibili. Ma c’è innanzitutto un evidentissimo problema, che induce lo stesso Costa a dichiararsi «per nulla soddisfatto della risposta ricevuta».

Il rischio che tutto si riduca a un’integrazione della “Pinto”. Il paradosso è nel fatto che, seppure si riuscisse ad assicurare un rimborso, per esempio, di 1.000 euro solo a chi abbia visto il proprio processo sforare soglie temporali assurde, dai 7 anni in poi, ci si ridurrebbe in pratica a una mera integrazione dell’indennizzo già previsto dalla legge Pinto per l’irragionevole durata del processo. E non erano certo questi l’obiettivo e la ratio della norma, che invece voleva far risaltare un altro aspetto: la drammatica condizione di chi deve difendersi da un’accusa ingiusta, anche con il sacrificio necessario a sostenere le spese per la difesa. Costa ha controreplicato con un’obiezione di significato politico: considerata la «continuità dell’azione amministrativa e governativa», il ministero non può, sostiene il deputato di Azione, «giustificare il proprio ritardo negli adempimenti richiesti sulla base di una presunta criticità della disposizione». Se il governo considera la norma inadeguata, «dovrebbe ricorrere nuovamente al Parlamento per la sua opportuna modifica».

L’ennesima sottile offesa al lavoro dell’avvocato. Va detto che Sisto, nella risposta, ha più volte ribadito come sia «fermo l’impegno del ministero al pronto adempimento di quanto previsto» e dunque a emanare il prima possibile il decreto attuativo. Ma forse c’è un risvolto sottile, anzi un doppio risvolto che ci pare di poter intravedere. Relativo innanzitutto al fondo stanziato che, come ricordato, è di appena 8 milioni. Nella sessione di Bilancio ci si è dovuti accontentare. E oltretutto, si trattava pur sempre di una proposta emendativa proveniente da un parlamentare come Enrico Costa che all’epoca non faceva parte della maggioranza. E quando in legge di Bilancio vengono approvate modifiche o richieste presentate dall’opposizione, non si largheggia mai. Va pure detto che, per esempio, l’allora ministro dell’Economia Roberto Gualtieri non è che abbia fatto uno sforzo particolare, in modo da assegnare a via Arenula qualche risorsa in più per poter assicurare il ristoro degli assolti. Ecco, ma a ben vedere, dietro tanta “ristrettezza”, che un po’ stona in un’epoca in cui a ogni pie’ sospinto si approvano decreti emergenziali da 40 miliardi, viene anche da pensare che non si sia avuta grande considerazione per il lavoro dell’avvocato. Quando c’è un cittadino accusato, processato e poi assolto, se ne passa qualche anno; e qualche anno di lavoro, anche per il difensore, non può certo essere monetizzato in una mancia buona per una seratina al pub. L’altra considerazione è più sottile, forse perfida, amara ma in fondo aperta a un’inopinata speranza: visto che un decreto lo si dovrà pur approvare, e che dunque a breve un criterio di assegnazione dei ristori andrà stabilito, e visto che dati i numeri esigui, in un modo o nell’altro il risultato sarà deludente, il giorno in cui si scoprirà che ci si è dovuti accontentare magari di concedere un ristoro da un migliaio di euro a una percentuale ristretta dei 125mila assolti, e che dunque in decine e decine di migliaia resteranno senza alcun rimborso, e si capirà che il tutto dipende dal fatto che per le persone ingiustamente accusate non si è stati capaci di andare oltre cifre simili, ebbene quel giorno forse sarà chiaro anche all’opinione pubblica meno garantista quanta sadica indifferenza noi, come Stato, siamo capaci di provare per le vittime della malagiustizia. E se pure solo una piccola parte del Paese sarà convinta, da tale constatazione, che quelle vittime meritano un po’ più di rispetto, oltre che di soldi, si sarà forse ottenuto un risultato prezioso, non quantificabile, capace di assicurare un “ritorno morale”, con tanto di interessi, per il futuro. 

Parlamento paralizzato dai 5 stelle. Perché serve il referendum sulla giustizia: su 11mila arresti di persone innocenti, 8 Pm puniti…Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Maggio 2021. Enrico Costa, parlamentare molto impegnato da sempre nel campo della giustizia e attualmente dirigente di Azione, ha fornito alla stampa i dati sulla responsabilità civile dei magistrati. I dettagli li trovate nell’intervista che pubblichiamo sul nostro giornale. Qui vorrei ragionare su una sola cifra: otto. Otto è il numero dei magistrati che hanno pagato (seppure in misura molto discreta) per i loro errori, i quali errori però sono stati pagati in misura assai maggiore dalle vittime. Chi sono le vittime? Gli imputati innocenti. Cioè quelle persone che sono finite in prigione pur non avendo commesso nessun reato e ci sono restate per qualche settimana, o mese, o anno. Recentemente, ad esempio, vi abbiamo parlato dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa, nella Locride, che fu prelevato dal letto nel quale dormiva una mattina alle cinque, quando aveva cinquantadue anni, trascinato via sotto gli occhi della sua bambina, e poi liberato quando di anni ne aveva ormai sessantadue. Cinque anni in cella. Poi assolto, in via definitiva. Qualcuno ha fatto almeno un rimproverino al Pm che aveva preso l’abbaglio? No, anzi, stanno pensando di promuoverlo procuratore di Milano. Andiamo bene. Ecco, allora guardiamo anche i numeri che riguardano gli errori giudiziari. Circa 1000 all’anno. Dunque negli ultimi undici anni (periodo durante il quale sono stati sanzionati questi otto magistrati) gli errori giudiziari che hanno provocato l’arresto di innocenti sono stati 11mila. Di questi 11mila errori ammettiamo pure che la metà fossero inevitabili, e dunque non prevedessero la sanzione (però l’errore di un medico, di un architetto o di un tranviere non è mai considerato inevitabile): ne restano 5.500, almeno, che erano evitabili. Otto di questi errori sono stati puniti, 5492 sono rimasti impuniti. A voi sembra che questa sia una cosa ragionevole? E cioè che i cittadini non si possano difendere in nessun modo dalla sconsideratezza, o dalla inettitudine, o dal dolo e dalla persecuzione di rappresentanti dello Stato che, tra tutti gli altri rappresentanti dello Stato, sono quelli con il potere più grande, che spesso è un potere tremendo e devastante di vite, affetti, lavoro, amicizie, progetti? Gli unici – assolutamente gli unici – che con un sorriso beffardo possono privarti della tua libertà, della tua dignità, dei tuoi amori, e ridurti alla disperazione. Questi problemi che sto illustrando sono vecchi, e non sono mai stati affrontati. Oggi emergono in forme clamorose per via dello scompenso provocato dal rapido crollo del prestigio e della credibilità della magistratura. Chi scrive su questo giornale – lo sapete – a questo prestigio non ha mai creduto. Ma fino a qualche anno fa, e anche a qualche mese fa, la gran parte dell’opinione pubblica considerava la magistratura il regno del bene, dell’onestà, del rigore e dell’imparzialità. Oggi il caso Palamara, poi il caso Amara, e poi a seguire le lotte feroci esplose tra le toghe, hanno reso evidente – credo – a chiunque sia in buonafede, che la magistratura è un luogo di potere inaffidabile e infetto. Devo ripeterlo ogni volta e lo ripeto: ovviamente non tutta la magistratura. Esistono alcune migliaia di magistrati (non molte migliaia) che se ne infischiano del potere e delle lotte di dominio, e esercitano con cultura, saggezza e anche umanità il loro lavoro. Vanno ringraziati, perché fanno la cosa giusta in condizioni difficilissime. Ma non sono la maggioranza. E comunque sono una minoranza esigua esigua esigua ai vertici della piramide. Il punto di degrado che riguarda i posti di comando della magistratura è un punto altissimo: una vetta. Persino il mondo della politica, se messo al confronto coi vertici della magistratura, appare un luogo di candore, onestà, ingenuità, senso del dovere e dell’onore. Pensate a quello che sta succedendo in questi giorni, e che ci racconta Paolo Comi. Il procuratore della più importante procura di Italia, quella di Roma, dichiarato illegittimo (perché nominato con forzature e sotterfugi dal Csm, in assenza di titoli, un anno fa) che resta al suo posto mentre si scatena una operazione a largo di raggio di rinvii e di trame per impedire che sia sostituito e che il suo gruppo di potere sia indebolito (sto parlando della vicenda Prestipino). Partendo da questo quadro, fosco fosco, a voi sembra che si possa sperare in una rapida riforma della giustizia che cancelli le sciagurate controriforme Bonafede (processo eterno, leggi speciali – di tipo fascista – sulla corruzione, trojan, intercettazioni…) e che introduca la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, una massiccia depenalizzazione, la riduzione ai minimi termini nell’uso della carcerazione preventiva eccetera eccetera? Ecco, la questione della carcerazione preventiva è strettamente legata al problema della responsabilità civile dei magistrati. Se fosse ridotta all’essenziale, poche centinaia di arresti all’anno, gli errori giudiziari sarebbero molti di meno o comunque molto meno gravi. Il problema di fondo non è quello di punire i magistrati colpevoli, ma di metterli in condizione di non sbagliare. Aumentando gli strumenti a loro disposizione per indagare correttamente, e riducendo gli strumenti a loro disposizione per punire. Soprattutto – ma non solo – per punire prima della condanna. Non credo che esista la possibilità di mettere mano davvero a queste riforme, con questa maggioranza e questo parlamento. I 5 stelle – e cioè la componente reazionaria del governo – sono in maggioranza, anche se il loro consenso si sta progressivamente assottigliando, e non permetteranno mai una riforma garantista. I 5 Stelle sono la componente più antiliberale che mai sia entrata nel Parlamento della Repubblica, e la loro illiberalità fa parte della loro ragion d’essere: non possono rinunciarci. Per questo i referendum proposti dai radicali, e ora sostenuti anche dalla Lega, sono essenziali. Nessuno mette in discussione le ottime idee della ministra Cartabia. Ma i ministri non possono fare le riforme se non dispongono di una maggioranza parlamentare. E Cartabia non dispone di questa maggioranza. I referendum non sono un siluro contro la Cartabia, sono uno scudo per difenderla e aiutarla. Difficile vincerli? Può darsi, sicuramente bisogna fare i conti con una componente giustizialista e punizionista che è ancora fortissima nell’opinione pubblica italiana. Ma, visto che oggi ricordiamo, a cinque anni dalla morte, Marco Pannella, ricordiamoci anche di quando, quasi mezzo secolo fa, sostenne le ragioni di un referendum (il primo della storia della Repubblica), quello sul divorzio, che tutti credevano sarebbe stato vinto dai democristiani e invece fu vinto dai laici e mise fine al fanfanismo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ingiusta detenzione, l'Italia paga per i pm. "Ora serve una vera responsabilità civile". Felice Manti il 12 Maggio 2021 su Il Giornale. L'Italia spende 38 miliardi ma non si rivale sulle toghe nonostante la legge. Se la libertà avesse un prezzo attaccato sopra sarebbe di 235,82 euro. Tanto vale un giorno passato ingiustamente in carcere. Nel 2020, mentre in lockdown ci siamo tutti sentiti «detenuti», lo Stato ha speso una carrettata di milioni di euro per risarcire chi da innocente è finito in cella ingiustamente. Quasi 38 milioni di euro, una media di 50mila euro per chi è stato privato per errore della libertà. Dei 38 milioni, quasi 27 hanno riguardato le sole Corti d'appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria. Che da sola «pesa» quanto Roma, Milano e Napoli insieme, mentre Catanzaro si ferma a 4,9 milioni. Cifre che danno l'entità del problema, al netto di alcune inchieste di 'ndrangheta con strascico di manette, pompate dai giornali ma dimostratesi evidentemente senza troppo fondamento. Ma mentre si discute di riforma della giustizia il dossier pubblicato online dal Sole24Ore riaccende i riflettori sul vero punto dolente legato all'ingiusta detenzione: la responsabilità civile dei magistrati. Chi paga? Il magistrato? No, lo Stato. La legge 18 del 2015 voluta da Matteo Renzi che ridefinisce la fattispecie di colpa grave «è rimasta praticamente inapplicata, pur essendo un pannicello caldo», spiega al Giornale Claudio Defilippi, legale esperto in revisioni processuali e ingiusta detenzione, come dimostrano i 4,5 milioni di euro per 23 anni da innocente in carcere che lo Stato ha riconosciuto al suo assistito Domenico Morrone. Tutti soldi nostri, non di chi l'ha fatto condannare. «Penso sia impossibile, e non solo al momento attuale, sperare in una legge diversa da quella vigente, che sembra costituire una sorta di presidio normativo non riformabile in peius», dice infatti un altro avvocato, Ivano Iai. E poi dal punto di vista disciplinare (e lo si è visto con il caos al Csm) «le toghe rischiano poco o nulla - insiste Defilippi - Bisogna anche potenziare l'ufficio giudiziario che verifica la progressione in carriera dei magistrati e istituire una commissione di controllo sugli errori giudiziari». Già, perché a combattere per la verità non dovrebbero essere solo gli avvocati ma soprattutto lo Stato. La cifra massima del risarcimento per legge peraltro non può mai eccedere l'importo complessivo di 516.456,90 euro (il vecchio miliardo di lire) da dividere per la durata massima della custodia cautelare in carcere, che è di sei anni. «Ma c'è gente che è rimasta dentro per 7 o otto anni», ribatte Defilippi, e poi in caso di indennizzo diretto, il responsabile cioè il magistrato «deve essere litisconsorte necessario, cioè deve entrare nel meccanismo risarcitorio». Cosa che oggi non è obbligatoria. Come uscirne? Con una vera riforma della giustizia. «Il mio auspicio è che venga introdotto almeno il principio della lealtà processuale - conclude Iai - ossia quel canone superiore idoneo a scongiurare nel magistrato iniziative manifestamente pretestuose od oggettivamente ostili all'imputato ancorché formalmente legittime».

Il focus. Boom di errori giudiziari, ma il Csm promuove i magistrati. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Maggio 2021. Nel Paese dove gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni raggiungono numeri alti al punto da ritenere patologiche alcune criticità del sistema giustizia, si scopre che i magistrati con una valutazione professionale negativa non arrivano al 2% ogni anno. Confrontare i due dati (errori giudiziari e valutazione dei magistrati) non può e non vuole servire a puntare indiscriminatamente il dito contro la categoria delle toghe. Di fronte a questi dati, però, è inevitabile porsi degli interrogativi. «Come si spiegano i 207 errori giudiziari e le 29.500 ingiuste detenzioni negli ultimi trent’anni? Coincidenza, casualità, congiunture astrali?», è la riflessione sollevata da Errori giudiziari, l’associazione creata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da 25 anni raccoglie storie e traccia bilanci sul fenomeno degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni. Possibile che le migliaia di casi registrati ogni anno siano soltanto coincidenze? «O magari anche incapacità, superficialità, sciatteria, distrazioni», ipotizzano. Una riflessione che a Napoli fa i conti con un triste primato a livello nazionale: da oltre dieci anni Napoli è in cima alle classifiche delle città italiane per numero di ingiuste detenzioni, cioè di innocenti finiti in carcere. Ora, noi sappiamo quanti bravi e scrupolosi magistrati lavorano negli uffici giudiziari, con quanto zelo e quanta dedizione si occupano di casi spesso complessi e in contesti che, come quelli napoletani, sono appesantiti da una particolare mole di procedimenti e da croniche carenze di risorse all’interno degli uffici. Ma sappiamo anche che ci sono numeri elevatissimi di indagini che finiscono in archiviazioni e ancor di più in prescrizioni, di processi che si sarebbero potuti evitare, di innocenti finiti in galera. Come mai? Se non è mai responsabilità dei magistrati, allora perché si verificano così tanti casi di malagiustizia? Può davvero essere solo colpa di testimoni che prima denunciano e poi, una volta in aula, ritrattano? Il Riformista si è già occupato di errori giudiziari e di ingiuste detenzioni, riportando le statistiche più aggiornate sul fenomeno. Attraverso i dati raccolti dal deputato di Azione Enrico Costa, prova ora ad analizzare un altro aspetto della questione: di chi è la responsabilità di tanti fallimenti giudiziari? Per il Csm non dei magistrati italiani, valutati quasi come infallibili. Se si osservano, infatti, i dati che l’onorevole Costa ha raccolto per presentare una serie di emendamenti alla riforma del processo penale, si nota che il Consiglio superiore della magistratura, organo di autogoverno delle toghe, negli anni ha sempre valutato più che positivamente il lavoro di giudici e pubblici ministeri, tanto che le valutazioni hanno avuto esito positivo nella quasi totalità dei casi: 97,73% nel 2010, 98,40% nel 2011, 97,15% nel 2012, 98,18% nel 2013, 97,13% nel 2014, 99,56% nel 2015, 99,30% nel 2016. I dati raccolti, sebbene non attualissimi, spiccano rispetto ai numeri che in quegli stessi anni chiudevano i bilanci su errori giudiziari e ingiuste detenzioni. Nel 2012, per esempio, la media era addirittura di un errore o un innocente in carcere ogni giorno e, alla data del 31 maggio 2012, delle 144.650 cause pendenti dinanzi alla Corte di Strasburgo, 14.150 provenivano dal nostro Paese e, in particolare, dinanzi alla Corte di appello napoletana pendeva il 9,53% dei casi nazionali. «La valutazione della professionalità dei magistrati denota che c’è una sorta di sei politico dato a tutti indifferentemente – commenta Costa – rispetto a una valutazione puntuale sul lavoro svolto. Questo crea un appiattimento che svilisce chi si impegna e premia chi non lo fa e dove c’è appiattimento, dove c’è valutazione come atto burocratico e non come sindacato puntuale di merito, ci sono meno stimoli per coloro che sono in condizione e si sentono di poter dare di più». «Ed è un peccato perché il merito va premiato – aggiunge Costa facendo poi riferimento alla questione delle correnti interne alla magistratura – Quando si sta tutti sullo stesso piano, a decidere è la corrente».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La testimonianza. Il vero colpevole è lo Stato che sequestra centinaia di innocenti. Don Franco Esposito su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Un po’ di tempo fa, papa Francesco, durante la messa a Santa Marta, ha sentito l’esigenza di pregare per tutti coloro che incappano nella malagiustizia e portano addosso ferite che difficilmente guariscono col passare del tempo: «Vorrei pregare per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento». È agli innocenti perseguitati e condannati che il papa ha dedicato la messa celebrata a Santa Marta: «In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subito Gesù e come i dottori della legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente». È vero, Gesù era innocente ma potremmo dire che se l’era cercata, sapeva bene che le sue azioni, le sue parole, le sue denunce contro il potere religioso e politico di allora avrebbero avuto conseguenze tragiche come la condanna a morte per crocifissione: una morte ignobile dopo una condanna “costruita a tavolino”. Sono passati 2mila anni, eppure ci ritroviamo a fare i conti con una giustizia dove sono tanti, troppi gli innocenti condannati, spesso senza aver compiuto nessuna azione tale da determinare un epilogo così tragico come giorni mesi o anni passati da innocente nelle “patrie galere”. Non credo che si possa immaginare la sofferenza di chi, senza colpa, deve scontare un tempo di carcere. Gente che non sa darsi una spiegazione per quello che le è accaduto, che pensa continuamente alla famiglia agli amici e attende – spesso invano – che si faccia chiarezza. Sono centinaia le persone che ogni anno vengono risarcite dallo Stato per essere finite dietro alle sbarre da innocenti: a Napoli, nel 2020, sono state ben 101. Tante altre, però, dopo essere state scarcerate, rimangono così segnate da decidere di non avere niente a che fare con la giustizia e di non chiedere alcuna riparazione per l’ingiusta detenzione. In tutti e due i casi la giustizia ne esce sconfitta, sia perché non è certo con un risarcimento che si ripara un tempo di detenzione ingiusta sia perché la fiducia nell’istituzione ne rimane ferita a morte. Sono tanti i casi che, durante il mio servizio in carcere, ho seguito e tanti sono i colloqui fatti di lacrime e disperazione. Molte volte non mi restava altro da fare che ascoltare e pregare. È vero, tanti detenuti si dichiarano innocenti per il reato che è loro contestato, ma dopo tanti anni s’impara a riconoscere quasi subito, già al primo colloquio, coloro che realmente stanno subendo un’ingiusta condanna, soprattutto quando certe confidenze vengono fatte in confessione. Lì ti rendi conto che davanti a te dovrebbero esserci altri a chiedere perdono. Ricordo un caso emblematico, quello di un tale accusato di un reato ignobile come la pedofilia. A denunciarlo era stata la moglie e le vittime erano i due suoi figli, vittime di presunte molestie sessuali. Ricordo i colloqui fatti durante un anno di detenzione: in quelle conversazioni, fatte più di pianti che di parole, mi rendevo sempre più conto che quell’uomo non avrebbe potuto compiere atti così infamanti. Mi raccontava del suo amore per la famiglia e, anche quando aveva scoperto una relazione extraconiugale della moglie, aveva reagito perdonandola. Purtroppo quest’amore e questo perdono non erano bastati perché la moglie, pur di vivere la sua vita, lo aveva accusato di molestie sessuali ai danni dei figli. Non entro nei particolari, ma posso dire che, dopo il primo grado in cui era stato condannato, quell’uomo è stato assolto perché il fatto contestatogli non si era mai verificato. Ora sono trascorsi vari anni, so che lui si è separato dalla moglie, ma vede con regolarità i suoi figli e provvede alle loro esigenze perché, nel frattempo, ha ritrovato il lavoro che aveva perso a causa della sua odissea giudiziaria. L’ho incontrato in qualche circostanza e la sua ferita è sempre aperta e sanguinante. Questo è un caso certamente dei più dolorosi perché, oltre la vergogna, coinvolge anche il rapporto con gli altri detenuti. Per questo in carcere c’è un reparto destinato ai sex offender dove ci si trova gomito a gomito con persone che hanno violentato e abusato e spesso soffrono di gravi disturbi psichici. Credo che un solo giorno in carcere da innocente con questa colpa sia un marchio indelebile che neppure mille assoluzioni possono cancellare. Ma chi paga per questi errori giudiziari? Quanta ipocrisia in un sistema di giustizia retributiva dove, quando è lo Stato a commettere il reato di “sequestro di persona” (questo è la carcerazione ingiusta), si pensa che tutto si possa risolvere con un risarcimento. L’ipocrisia sta nel fatto che quel risarcimento viene pagato dai proventi delle tasse dei cittadini, cioè di altri innocenti che, con il loro contributo, sopportano il peso gli sbagli commessi dai veri colpevoli. Don Franco Esposito

La malagiustizia. Lo scandalo più grande resta l’abuso della custodia cautelare. Alfredo Sorge su Il Riformista l'11 Aprile 2021. I dati sugli errori giudiziari impongono una riflessione sul tema che è tra i più delicati non soltanto del processo penale ma dello stesso patto sociale democratico, essendo questo il momento in cui lo Stato è chiamato a riparare i danni a quei cittadini che hanno subito un periodo di tempo in regime di arresti e sono poi stati pienamente assolti in modo definitivo. Com’è noto, la legge non permette di ottenere un vero risarcimento ma limita a chiedere e ottenere una somma a titolo di riparazione parametrata su dati quali forma e durata della detenzione, danno d’immagine e perdita di chance che quella detenzione preventiva ebbe a causare. Dunque, si tratta di somme in qualche modo già parametrate e contenute in un limite massimo liquidabile pari a 516mila euro. In base al dato normativo, la liquidazione viene limitata ai casi in cui l’avente diritto non abbia dato causa alla sua detenzione per dolo o colpa grave e che alcuni orientamenti giurisprudenziali non hanno mancato di dilatare quanto più è possibile il concetto di colpa grave, fino a ricomprendere casi invero assai discutibili, come quello dell’essersi avvalso della facoltà di non rispondere, censurando cioè il malcapitato tratto in arresto di non aver egli chiarito dal principio la infondatezza della ipotesi accusatoria cautelare (!): un cortocircuito logico palese a tutti. Eppure i casi sono davvero tanti e cospicuo l’importo delle somme erogate a titolo di riparazione cospicuo. E il distretto di Napoli, purtroppo, svetta nelle statistiche. La riflessione principale che occorre svolgere, che è poi anche la causa del triste fenomeno, è quella relativa all’eccessivo ricorso alla custodia cautelare carceraria e domiciliare. Ciò in quanto non è certo l’esito assolutorio del processo che deve destar sorpresa, ché anzi l’assoluzione dell’imputato è una delle fisiologiche conclusioni di un giudizio laddove, davanti ad un giudice terzo, ha luogo la verifica della ipotesi accusatoria: le statistiche, com’è noto, riferiscono di un numero considerevole di assoluzioni o di proscioglimenti dell’esito dei procedimenti penali. Quel che è patologico è che l’imputato debba attendere da detenuto lo svolgimento e la conclusione del suo processo, purtroppo non breve (anche a causa dell’assurdo allungamento dei termini di prescrizione) o comunque dopo un periodo spesso lungo di custodia cautelare. Patologico perché, nella scelta del nostro Legislatore e soprattutto in base alla Costituzione, l’imputato si presume innocente fino a condanna definitiva e la detenzione va riservata soltanto a casi limite, in presenza di indizi gravi di reato e di concrete e attuali esigenze cautelari, ovvero seri e obiettivi pericoli di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove, condizioni che andrebbero limitate a pochi titoli di reato e a poche fattispecie. Qui dobbiamo ricordare che anche le ultime riforme, a cominciare da quella del 2015, non hanno sortito gli sperati riflessi riduttivi dell’eccesso cautelare nella applicazione giudiziaria. Il discorso deve allargarsi alla tematica, sempre presente, che non deve vedere nel carcere la soluzione dei problemi della società, tantomeno quando si parla di carcerazione prima di una sentenza definitiva di condanna e soprattutto quando si parla dei troppi casi di carcerazione preventiva prima di una condanna perfino di primo grado. A mio parere il problema è di tipo culturale: il processo penale è oggi troppo sbilanciato a vantaggio della pubblica accusa che, per uomini, mezzi e dotazioni economiche, spesso è in grado di avere la meglio nella fase delle indagini, favorita anche da norme processuali assai criticabili. Ma ciò non accade nella fase del dibattimento laddove, davanti a un giudice terzo nella pienezza dei suoi poteri, si perviene all’esito assolutorio che sancisce l’ingiustizia della detenzione cautelare. L’auspicio, dunque, è quello a una sempre minore detenzione preventiva, da ridurre soltanto a casi e a periodi temporali in cui la stessa appare indispensabile: solo così diminuirà l’entità delle somme che lo Stato dovrà erogare alle vittime di ingiusta detenzione. 

Misure cautelari, circa 8mila persone detenute ingiustamente. I dati "nascosti" della relazione di Via Arenula sull'ingiusta detenzione. Costa (Azione): «Troppi i tribunali che non trasmettono i dati al ministero». Simona Musco su Il Dubbio il 15 giugno 2021. Il 24% dei tribunali non ha risposto al ministero della Giustizia, che ha quindi dovuto ricavare i dati sulle ingiuste detenzioni e le misure cautelari per altra via. Un dato emblematico, che si aggiunge ad un altro particolare: nonostante sia l’extrema ratio, la misura cautelare più utilizzata rimane quella carceraria, risultando ingiusta in un caso su 10. Dato che raddoppia se alle assoluzioni si sommano i casi in cui, a prescindere dall’esito del processo, le misure cautelari potevano essere evitate, essendo facilmente prevedibile, sin dalla genesi dell’inchiesta, la concessione della sospensione condizionale: è capitato in ben 4.548 casi. Tutto questo si evince dalla relazione sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione” riferita al 2020, relazione che il governo avrebbe dovuto consegnare alle Camere, per legge, entro il 31 gennaio. Ma per partotirla è stato necessario attendere il 9 maggio scorso, giorno in cui è apparsa sul sito del ministero della Giustizia. Su quelli delle Camere, invece, non c’è traccia, nonostante sia stata consegnata alle rispettive presidenze. A chiederne conto, ieri, è stato il deputato di Azione Enrico Costa, che con un tweet aveva bacchettato l’esecutivo sul mancato rispetto delle tempistiche prevista dalla legge 47 del 16 aprile 2015. La colpa, però, pare essere altrove: sul sito del Senato di tale relazione, infatti, non c’è traccia, su quello della Camera, nonostante la voce sia presente, il link risulta inaccessibile, rimanendo, di fatto, invisibile. Il documento, come detto, è però disponibile ed è stato anticipato, qualche settimana fa, dalle elaborazioni fatte dal sito errorigiudiziari.com. Stando al documento, a inviare i dati richiesti da via Arenula è stato il 76% dei tribunali, meno degli anni precedenti, quando la risposta superava l’80%, ma «i dati di taluni uffici che non hanno risposto sono stati ad ogni modo stimati», scrive il ministero. Tale percentuale spiega la riduzione delle misure cautelari rispetto agli anni precedenti, dato al quale bisogna aggiungere anche il rallentamento delle attività degli uffici causa pandemia. Ma ad indignare Costa è proprio il silenzio ostentato alle richieste di via Arenula. «È incredibile che i Tribunali non rispondano nemmeno al ministero – spiega il deputato al Dubbio -. Ed è per questo che ho presentato un emendamento alla riforma del Csm prevedendo un’ipotesi di illecito disciplinare per i capi degli uffici che non trasmettono tempestivamente i dati statistici richiesti». La relazione risulta aggiornata ad aprile: risale dunque a quella data il completamento della raccolta dati e la loro elaborazione, tenuto conto anche del cambio del governo. In totale sono state 82.199 le misure cautelari, delle quali 24.928 in carcere, 19.331 ai domiciliari senza braccialetto elettronico e 2.618 con braccialetto elettronico. In un anno, dunque, il numero di incarcerazioni è sceso di circa 6mila unità, ma i dati sono parziali. Le misure cautelari custodiali costituiscono, in totale, il 58% circa di tutte le misure emesse. Una su tre è quella carceraria (32%), mentre uno su quattro finisce ai domiciliari (25%). Misure che nei tre quarti dei casi (61.514) vengono stabilite dal gip mentre la restante parte viene emessa nelle sezioni dibattimentali. A detenere il record di misure cautelari in carcere, per distretto, è Roma, con quasi 10mila casi (12%), mentre per singolo tribunale a prevalere è Napoli, dove la percentuale è del 53,2%. La maggiore quota delle misure, in ogni caso, si concentra al nord (39,2%). Ma come si concludono le vicende processuali iniziate con un arresto? Per quanto riguarda i casi con misure cautelari coercitive – in totale 31.455 -, le condanne, nel 2020, sono state 28.586. Nove processi su 10, dunque, si sono conclusi con una condanna, definitiva in poco più di 7mila casi, ma il dato interessante è, come anticipato, un altro: quasi 5mila “casi” si sono conclusi con la sospensione condizionale della pena, tra processi definitivi e non, esito spesso prevedibile, ma che non ha evitato comunque l’applicazione della misura cautelare. E ciò nonostante sia la legge a vietarlo. Il Dipartimento per gli Affari di Giustizia sottolinea, infatti, che «il giudice non dovrebbe emettere le misure cautelari custodiali degli arresti domiciliari e del carcere in quei procedimenti ove ritenga possa essere concessa, con la sentenza di condanna, la sospensione condizionale della pena (ex art. 275, comma 2 bis, c.p.p.); tuttavia – si legge nella relazione – vi sono molteplici casi in cui tale norma risulta non essere stata osservata». Per il ministero il dato è «quantitativamente trascurabile». Per Costa, però, questa è ormai diventata una clausola di stile: «Nelle ordinanze di custodia cautelare spesso si dice che manca la prognosi della sospensione condizionale della pena. Ma in tanti casi lo stesso gip che firma l’ordinanza che poi fa patteggiare con la sospensione condizionale. Se sommiamo questi casi alle assoluzioni, circa il 20% delle misure cautelari risulta ingiustificato. Ma si parla di numeri come se non fossero persone». In realtà il dato è ancora più alto: sommati alle assoluzioni, che riguarda circa il 10% delle persone finite in carcere o ai domiciliari, la percentuale di custodie cautelari ingiuste schizza al 25%. Il totale degli assolti ammonta a 3.331, di cui 462 con sentenza definitiva, 1.745, invece, con sentenza non definitiva di assoluzione, 289 definitiva per altro e 662 definitiva e non definitiva per proscioglimento a vario titolo. Altro capitolo della relazione è quello riferito ai provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Nel 2020 sono stati 1.108 i procedimenti aperti, la maggior parte dei quali a Napoli (143), Roma (137), Catanzaro (106) e Reggio Calabria (101). Di questi, 283 sono stati accolti e non sono più impugnabili, mentre sono 133 quelli accolti ma ancora soggetti ad impugnazione, circa 296 in meno rispetto al 2019. La maggior parte degli accoglimenti si registra a Reggio Calabria (43 casi). In 80 casi, la riparazione dipende dall’illegittimità dell’ordinanza di custodia cautelare, in 203 casi, invece, da sentenze di proscioglimento. Errori per i quali lo Stato, lo scorso anno, ha sborsato 36.958.291 euro, circa sette milioni in meno rispetto all’anno precedente, in riferimento a 750 ordinanze, con un importo medio, però, più alto rispetto al 2019: 49.278 euro contro i 43.487. La città che detiene il record di risarcimento è Reggio Calabria (7.907.009, con una media di 87.856 euro a testa), seguita da Catanzaro, con 4.584.530 euro, e Palermo, con 4.399.761 euro. Ma i magistrati, spiega il ministero, poco c’entrano con questi errori. «Appare evidente come Il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione – si legge – non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto». E ciò perché «la riparazione può riconnettersi ad ipotesi del tutto legittime di custodia cautelare accertata ex post come inutiliter data: di frequente, la richiesta e la conseguente adozione di misure cautelari si basa su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale». Sono pochi, nel 2020, i procedimenti disciplinari aperti, tutti relativi, di base, all’affaire Palamara: 21, nessuno dei quali concluso. Ma in totale, nell’ultimo triennio, sono stati 61 i fascicoli aperti, 57 dei quali su iniziativa del ministero, la maggior conclusi con un nulla di fatto: sono 12 le assoluzioni, 17 i provvedimenti di non doversi procedere. Solo 4 le censure, nessun ammonimento. In attesa della conclusione dei 25 ancora in ballo. Per Costa, il punto è che l’azione disciplinare sulle ingiuste detenzioni non esiste: «Vengono fatte solo in caso di mancata scarcerazione nei termini – spiega -, ma quando c’è riparazione per ingiusta detenzione nessuno va a ritroso a verificare chi ha sbagliato. Per questo ho proposto una legge che prevede il passaggio automatico del fascicolo al titolare dell’azione disciplinare. Ci sono casi in cui in istruttoria dibattimentale cambia tutto e non c’è errore. Ma tutto questo va analizzato, necessariamente».

I numeri dell'abuso di carcere in Italia. Costa più Scanzi in tv che un giorno di ingiusta detenzione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Aprile 2021. Se nella stessa giornata capita di apprendere che persino nell’anno della pandemia lo Stato italiano ha dovuto risarcire con 46 milioni di euro i danni prodotti da ingiuste detenzioni ed errori giudiziari e nello stesso tempo che l’Italia è pari solo alla Turchia per sovraffollamento nelle carceri, almeno per un giorno sono un po’ tutti obbligati a occuparsene. La notizia c’è. E se si scopre che nel nostro Paese c’è un tasso pari al 120,3% (numero di reclusi ogni 100 posti letto) rispetto ai 115 della Francia piuttosto che ai 102 della Danimarca e che siamo anche primi in Europa per numero di prigionieri che hanno più di 50 anni, sicuramente saranno in molti a dire “poverini” e magari a proporre di costruire più carceri. Perché siamo di cuore grande, anche se dimentichiamo di domandarci come e perché più di 50.000 persone vivano la proprio vita, o una parte di essa, chiuse in una gabbia. Non vogliamo vedere né sapere. E ancor meno vogliamo trovare il bandolo della matassa, quel puntino rosso da cui, un giorno, tutto ha avuto inizio. Il giorno in cui hanno bussato alla tua porta alle sei del mattino e non era il lattaio. Al deputato di Azione, Enrico Costa e ai suoi collaboratori Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di “errorigiudiziari.com” il merito di aver elaborato e diffuso i numeri della strage. Strage di carcere ingiusto, strage di errori giudiziari. È una piccola porzione del tutto, sono numeri che potremmo tranquillamente raddoppiare o anche decuplicare per avere davvero il polso della nostra quotidiana ingiustizia. Perché questi numeri ci dicono quanto denaro lo Stato ha sborsato per risarcire, tra le tante vittime, quelle che hanno chiesto il risarcimento e tra loro quelle che l’hanno ottenuto. Infatti molti non chiedono, a volte perché non sono informati del proprio diritto o perché, dopo magari dieci anni di tormenti e vessazioni, non hanno proprio più voglia di pensare all’ingiustizia subita, vogliono chiudere gli occhi e cercare di pensare ad altro. Poi ci sono quelli che la domanda la presentano, ma poi la richiesta viene loro respinta, spesso perché nei primi giorni di custodia cautelare, quando si è ancora un po’ stravolti, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere al magistrato. Anche se in seguito vengono assolti, quel primo gesto di rifiuto viene considerato un’insubordinazione, come se uno avesse detto “mi dichiaro prigioniero politico”. Se sei contro lo Stato, lo Stato è contro di te e non riconosce più i tuoi diritti. Occhio per occhio, insomma. I numeri della strage sono spaventosi. Dal 1991 al 2020 lo Stato ha speso 870 milioni di euro per riparare 29.869 casi di detenzione ingiusta o errori giudiziari. Paga lo Stato, ma non i magistrati, perché siamo sempre in attesa dell’araba fenice, una decente legge sulla responsabilità civile delle toghe. Ma è orripilante il fatto che neanche le responsabilità disciplinari vengano mai riconosciute per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari (ammesso che si tratti sempre di “errori”, ci sono accanimenti che urlano vendetta). Per questo motivo Enrico Costa ha proposto che, ogni volta che sarà riconosciuta l’esistenza di un’ingiusta detenzione, il provvedimento venga inviato automaticamente al titolare dell’azione disciplinare. Sempre se ci fidiamo del Csm “rinnovato” dopo le vicende di Luca Palamara e tutti gli altri. I numeri più agghiaccianti sono nelle Regioni del sud, dove non solo c’è la maggior presenza di criminalità organizzata e maggior esercizio della giurisdizione, ma anche dove si sparge con maggiore facilità l’uso e l’abuso dell’applicazione dei reati associativi, spesso fondati sul nulla, ma utili per arrestare, intercettare e fare conferenze stampa. Il record di risarcimenti è del distretto di Napoli, che da nove anni è nelle posizioni di testa per numero di risarcimenti, 101 soltanto nel 2020 per esempio. Ma la vera strage è quella calabrese, la terra dove invano il procuratore generale Otello Lupacchini, durante la cerimonia di apertura dell’anno del 2019 (la sua ultima, prima di essere “punito” proprio per questo) aveva lanciato l’allarme contro i troppi casi di ingiusta detenzione nel distretto di Catanzaro. Undici mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, partirà l’operazione “Rinascita Scott” del procuratore Gratteri, con centinaia di arresti poi dimezzati da diversi giudici. E proprio il distretto di Catanzaro negli ultimi nove anni ha il record italiano per l’entità dei risarcimenti versati, 51 milioni di euro. E chissà che cosa ci aspetta nei prossimi anni, visto che l’attuale procuratore capo è lì soltanto dal 2016. Il problema è dunque partire da quel puntino rosso che costituisce il bandolo della matassa: perché e come si finisce in carcere quando suonano la mattina e non è il lattaio? Perché tanti magistrati ritengono che la detenzione sia l’unica forma possibile di pena? E ancora: perché in nome di una inesistente obbligatorietà dell’azione penale, tanti pm vanno in cerca del “reo” per attribuirgli in seguito qualche reato? Oggi lo ammette persino Tonino Di Pietro, ma un tempo erano gli stessi magistrati di sinistra a denunciare il fenomeno del “tipo d’autore”. Oggi è silenzio. E dobbiamo accontentarci dei numeri sui risarcimenti. Se pensiamo però di metterci il cuore in pace, visto che comunque nessun magistrato paga mai né in termini di denaro né di sanzione disciplinare, ma comunque qualche risarcimento da parte dello Stato arriva, si sappia che in ogni caso a chi ha sofferto ingiustamente il carcere e lunghi anni di tormenti processuali arrivano solo gli spiccioli. Circa 235 euro per ogni giornata di cella, calcola chi sa fare i conti. Il che significa che la mia libertà vale duecento euro? Il tempo di una vittima innocente vale sei volte meno di una comparsata di Scanzi da 1.500 in un programma Rai? Perché non invertire le cifre, visto che questi spiccioli sono l’unica soddisfazione rimasta per chi è stato vittima?

Il report. In Italia 30mila innocenti in cella che costano quasi un miliardo. Angela Stella su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Nel solo 2020 l’Italia ha speso ben 46 milioni di euro come risarcimenti per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. La fonte è il Ministero dell’Economia ma i dati che vi presentiamo oggi sono stati elaborati da Errorigiudiziari.com, l’associazione, nata e diretta dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, che da oltre 25 anni scatta la fotografia più attendibile del problema degli innocenti in manette nel nostro Paese. Premessa fondamentale per l’analisi dei dati: le vittime di ingiusta detenzione sono coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte; invece chi ha subìto un errore giudiziario è stato condannato prima con sentenza definitiva, per poi essere assolto dopo un processo di revisione. Come ci spiega Valentino Maimone «dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi totali di entrambi i fenomeni sono stati 29659: in media, poco più di 988 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 869.754.850 euro e spiccioli, per una media appena superiore ai 28 milioni e 990 mila euro l’anno. Circa il 95% dei casi si riferisce alle ingiuste detenzioni». Nel 2020 i casi di ingiusta detenzione sono stati 750, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 36.958.648,64 euro. Rispetto all’anno precedente, si assiste a un netto calo sia nel numero di casi (-250) sia nella spesa. Come si spiega questa flessione? Per Lattanzi «è molto probabile che sia dipeso dal Covid, che ha rallentato pesantemente l’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque presumibilmente anche quella delle Corti d’Appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione». In realtà, ci confida Maimone, «le nostre fonti ci dicono che già dal 2011, con la spending review introdotta dal Governo di Mario Monti, sia invalsa una precisa tendenza a respingere quante più istanze di riparazione per ingiusta detenzione possibili, per far risparmiare lo Stato». Se invece consideriamo gli errori giudiziari nel 2020 sono stati in tutto 16: quattro in meno, dunque, rispetto all’anno precedente. Da notare come negli ultimi anni dieci anni il numero complessivo degli errori giudiziari si sia mantenuto quasi sempre sopra quota dieci. Tuttavia la spesa complessiva relativa al 2020 supera di molto la media: «difficile interpretare con certezza questo dato – ci dice Lattanzi -. Non c’è un rapporto diretto tra i numeri dei casi e la quota complessiva dei risarcimenti. Partiamo dal fatto che per ogni giorno passato in carcere da innocente lo Stato ti rimborsa come minimo tabellare 235 euro, la metà se vai ai domiciliari. Ma se riesci a dimostrare, oltre al danno biologico e di salute, che hai subìto un lucro cessante, ossia un mancato guadagno dovuto ad esempio alla perdita del lavoro, allora il risarcimento aumenta. Quindi questo dato in salita potrebbe dipendere anche da questo fattore». Forse uno dei dati più drammatici riguarda coloro che sono finiti in custodia cautelare da innocenti: dal 1992 al 31 dicembre 2020 si sono registrati 29.452 casi; in media, 1015 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera i 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27.405.915 euro l’anno. «Se la situazione è così incancrenita da tanto, bisognerebbe fare una attenta riflessione sul perché accade ciò. L’anno scorso, – dicono Maimone e Lattanzi – l’ex Guardasigilli Bonafede disse di essere il ministro che più di tutti aveva attivato gli ispettori del ministero per andare a verificare nelle Corti di appello i casi di ingiusta detenzione. Ma i risultati di quel monitoraggio dove sono? Ha solo detto genericamente che nessuno dei casi era collegabile ad una sanzione disciplinare del magistrato. Lanciamo dunque un appello al Ministro Marta Cartabia affinché vengano resi noti i dati delle ispezioni». I due giornalisti si chiedono infatti: «Perché da decenni sempre nelle stesse Corti d’Appello i numeri sono così alti? Gli ispettori sono stati mandati lì?» Maimone e Lattanzi si riferiscono in particolare a due zone del sud Italia: il distretto di Napoli spicca in questa triste graduatoria con 101 casi nel 2020. Al secondo posto c’è il distretto di Reggio Calabria con 99 casi, terza Roma con 77 casi. Il record di spesa nel 2020 è detenuto dai distretti di Reggio Calabria e Catanzaro, con rispettivamente 7.907.008 euro e 4.584.529 euro. In terza posizione Palermo con 4.399.791 euro. Su base pluriennale Catanzaro è il primo distretto italiano per entità di indennizzi per ingiusta detenzione: soltanto negli ultimi 9 anni lo Stato ha versato quasi 51 milioni di euro. Il picco fu nel 2018 con quasi 10 milioni e 400 mila euro. Dal 2012 a oggi, la Calabria ha assorbito più del 35% del totale degli indennizzi nazionali. I primi quattro importi più alti versati sono andati sempre e solo a Catanzaro e Reggio Calabria. Questi numeri, suppongono i fondatori di Errorigiudiziari.com, «potrebbero essere legati anche alle maxi inchieste che si fanno contro la criminalità organizzata, durante le quali centinaia di persone vengono private della libertà personale con la carcerazione preventiva. Però non dobbiamo dimenticare che spesso sono privazioni della libertà ingiustificate», come emerso ad esempio nell’indagine su Rinascita Scott nella quale sono state già annullate 140 delle 300 misure cautelari irrogate. «C’è un aspetto significativo che non possiamo trascurare – dice il deputato di Azione Enrico Costa – la responsabilità dei magistrati, di fronte a questi macroscopici errori, non scatta mai. Infatti, a differenza di quanto previsto dalla legge Pinto, il provvedimento di indennizzo non viene trasmesso al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Questo è un punto fondamentale e non formale: per tali errori finora ha pagato solo lo Stato; il magistrato che sbaglia non ne risponde. Occorre intervenire».

30 anni gli errori dei magistrati sono costati 870 milioni. Errori giudiziari e ingiuste detenzioni, i numeri della malagiustizia: lo Stato paga 46 milioni per i magistrati intoccabili. Carmine Di Niro su Il Riformista l'8 Aprile 2021. Nel solo 2020 l’Italia ha speso la bellezza di 46 milioni di euro come risarcimenti per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. È il costo della ‘malagiustizia’ tricolore nei dati evidenziati in un report di ‘Errori giudiziari’ che il deputato di Azione Enrico Costa utilizzerà come ‘base’ per proporre già il prossimo 14 aprile in commissione Giustizia della Camera una proposta di legge “per sottoporre al processo disciplinare quei magistrati, sia il pm che il giudice, che hanno sottoscritto e dato il via libera alle manette agli innocenti”. Ma cosa dicono i numeri di "Errori giudiziari"? Partiamo da un presupposto fondamentale, ovvero la differenza tra ingiusta detenzione e errore giudiziario: quest’ultimo implica l’assoluzione di una persona che, dopo esser stata condannata in via definitiva, viene poi assolta con un processo di revisione; tra i primi invece vi sono coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolti. Nel 2020 l’Italia ha speso 46 milioni per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Arrestati per sbaglio, innocenti. Dal 1992 al 2020 gli indennizzati sono stati 30.000, con spesa di 870 milioni. Paga solo lo Stato: chi sbaglia continua indisturbato la sua carriera.

I CASI DI INGIUSTA DETENZIONE – I numeri (e i risarcimenti) per ingiusta detenzione evidenziano in maniera evidente i problemi e le storture del sistema giudiziario italiano. Dal 1992 al 31 dicembre 2020 sono stati registrati ben 29.452 casi, con una media quindi di 1015 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Numeri che si trasformano economicamente in un salasso per lo Stato: gli indennizzi sono costati oltre 794 milioni alle casse pubbliche, circa 27 milioni di euro l’anno.

Nel solo 2020 i casi accertati sono stati 750, con una spesa liquidata in indennizzi di 36.958.648,64 euro. Numeri in calo rispetto allo scorso anno, quando i casi erano stati 500, ma è probabile, evidenzia "Errori giudiziari", che sul calo sia dipeso il rallentamento dell’attività giudiziaria causa Covid.

GLI ERRORI GIUDIZIARI – Come ovvio, gli errori giudiziari sono in numero nettamente inferiore, vista la necessità di arrivare a sentenza definitiva e ad un nuovo processo di revisione. Guardando al 2020 appena trascorso, gli errori giudiziari sono stati 16, quattro in meno rispetto al 2019. Ma nella spesa dei risarcimenti l’anno appena trascorso ha fatto segnare un "boom" con una spesa per lo Stato di 9.104.875,44 euro, quasi tre volte in più rispetto a quanto versato alle vittime nel 2019. Dal 1991 al 31 dicembre 2020 il costo totale per l’Erario degli errori giudiziari compiuti dai magistrati è stato invece di 74.983.300,01 euro per 207 casi accertati.

GLI INDENNIZZI DAL 1991 – Mettendo insieme le vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari, i numeri fanno impallidire: dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi sono stati 29.659, poco meno di mille ogni anno, per una spesa complessiva di ben 869.754.850 euro, sfiorando di fatto quota 900 milioni di euro.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 9 aprile 2021. Circa 30mila innocenti in carcere dal 1992, e, nel dettaglio, 46 milioni di euro spesi dall' Italia nel solo 2020 per ingiuste detenzioni e per errori giudiziari. Se è vero che censire gli errori giudiziari o la galera ingiusta in Italia - detto da chi ne ha scritto cento volte - significa incappare ogni volta nell' incertezza, è anche vero che tra le associazioni più affidabili c' è senz' altro «errorigiudiziari.com» di cui è responsabile il deputato Enrico Costa (figlio di Raffaele, altro cuneese col pallino dei numeri) che ha fornito dati completi e soprattutto estesi, e che sono quelli esposti in apertura. Ma non è tutto, purtroppo: questo premettendo che c'è differenza tra le vittime di ingiusta detenzione (cioè coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi venire assolte) e chi subisce un errore giudiziario in senso stretto (vale a dire quelle persone che, dopo essere state condannate con sentenza definitiva, vengono assolte in seguito a un processo di revisione). Ci sarebbero - oddio - anche le vittime che ricorrono per la responsabilità civile dei giudici, ma non ne teniamo conto per la semplice ragione che dal 1988 (quando fecero la prima legge dopo il caso Tortora) nessun giudice ha mai risarcito le sue vittime: neanche uno, mai. Nella sostanza, quella legge non c'è. Quindi nel calcolo rientrano gli errori propriamente detti - riconosciuti cioè da una procedura di revisione del processo assai difficile da ottenere - oltre ai casi di ingiusta detenzione cautelare, ma andrebbero conteggiati anche i casi di prescrizione oltre a quelli ovviamente di chi ha visto concludersi un procedimento con un proscioglimento: viene mediamente scagionato quasi un imputato su due.  Dal 1999 non sono più previsti limiti per il risarcimento, ma prima di allora la «riparazione» oscillava tra le 70 e le 90 mila lire al giorno: questo a patto che l'Avvocatura dello Stato non trovasse un cavillo che impedisse ai disgraziati di prendere i soldi. Complice un iter macchinoso, tra coloro che ne avrebbero diritto chiede il risarcimento uno solo su cento. Vediamo i numeri con più precisione. Dal 1991 al 2020 i casi sono stati 29659; in media, poco più di 988 l'anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 869.754.850 euro, per una media appena superiore ai 28 milioni e 990 mila euro l'anno. E chi sono i campioni? Il distretto di Napoli - tu guarda - spicca nella graduatoria con 101 casi nel 2020, e lo stesso distretto figura nelle prime tre posizioni da 9 anni consecutivi (6 volte è stato primo). A Napoli hanno anche il record dei casi raggiunti in un anno: 211 nel 2013. Al secondo posto ecco il distretto di Reggio Calabria con 99 casi, terzo quello di Roma con 77 casi. Il record di spesa - parliamo ancora del 2020 - appartiene a Reggio Calabria e Catanzaro con rispettivamente 7.907.008 euro e 4.584.529 euro. In terza posizione Palermo con 4.399.791 euro. Su base pluriennale, Catanzaro è il primo distretto italiano per entità di indennizzi per ingiusta detenzione: solo negli ultimi 9 anni lo Stato ha versato quasi 51 milioni di euro. Il picco è stato nel 2018 con quasi 10 milioni e 400 mila euro, e, dal 2012 a oggi, la Calabria ha assorbito più del 35 per cento del totale degli indennizzi nazionali. I primi quattro importi più alti - ha spiegato l'associazione di Enrico Costa - sono sempre andati a Catanzaro e a Reggio Calabria. Va da sé che metterla su un piano solo contabile mette un certo disagio, perché ci sono esperienze che non sono risarcibili: il vergognoso dispendio di risorse pubbliche, perciò, è solo un aspetto del problema. Ce lo facciamo bastare, per oggi: posto che il più cospicuo indennizzo spesso non elimina marchi indelebili sulle vittime e davanti a comunità, colleghi e famiglie che sovente ne escono distrutte. Poi, appunto, ci sono i numeri: pare evidente che i dati sugli indennizzi per ingiusta detenzione, in termini di spesa e di numero di indennizzati, come visto, sono molto disomogenei sul territorio nazionale: ci sono tribunali in cui le ingiuste detenzioni sono numerosissime e fori dove si registrano solo sporadicamente. Il tema naturalmente ha molto a che fare anche con la lunghezza dei processi: gli indennizzi non a caso intervengono generalmente dopo più di dieci anni dall'ingiusta carcerazione, anche perché occorre aspettare il terzo grado e la sentenza definitiva. E sono dieci anni durante i quali la persona rimane esposta al pregiudizio e al sospetto. Detto tutto questo, bisognerebbe trovare qualcuno disposto ancora a negare che la custodia cautelare sia utilizzata anche per obiettivi diversi da quelli per cui è ammessa, qualcuno magari che neghi pure che la totale e perfetta irresponsabilità dei magistrati, in tal senso, non giochi un ruolo decisivo. Fa niente. Per gli errori finora ha sempre pagato solo lo Stato, il magistrato non ne risponde. Una curiosità, infine, per chi si avviasse a una brillante carriera da galeotto innocente: il limite massimo di un indennizzo per ingiusta detenzione risulta di 516.450,90 euro, di più non si mai riusciti ad ottenere. Da questa base possiamo calcolare la somma prevista per un singolo giorno di detenzione. Basta dividere la cifra per il numero massimo di giorni previsti dalla legge per la custodia cautelare, ossia 6 anni alias 2186 giorni. Fanno 235,82 euro al giorno nello stra-migliore dei casi. E i domiciliari? In genere la cifra si dimezza: 117,91 euro, che sarebbe un affare, in tempi di Covid e di domicili coatti.

Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 9 aprile 2021. L'altra sera, ospite da Floris a diMartedì, l' ex magistrato Piercamillo Davigo è tornato a sostenere che abbiamo una classe politica nella quale chi finisce sotto inchiesta e non collabora «è destinato a una folgorante carriera» e che minimo «diventa deputato». Invitato a fare nomi dal conduttore, Davigo ha citato Flavio Briatore, «condannato per truffa ha goduto di un' amnistia» ed è tornato in Italia «a fare la star dello spettacolo» perché da noi «funziona così, da noi non esiste il danno reputazionale». A parte che Briatore non è un politico né un uomo di spettacolo, ma un imprenditore che dà lavoro a mille persone in giro per il mondo; a parte che il tribunale di Torino, con ordinanza del 15 marzo 2010, lo ha riabilitato pienamente con estinzione di ogni effetto penale; a parte questo, Davigo ha centrato il punto del «danno reputazionale», che non dovrebbe valere solo per i politici. Per esempio, come ha svelato ieri la Repubblica, i magistrati fanno un mucchio di danni. Nel 2020 lo Stato ha dovuto pagare 46 milioni in risarcimenti a cittadini finiti ingiustamente in cella o condannati per errori giudiziari (dal 1992, anno di inizio dell' epopea dei Davigo, la cifra è astronomica: 870 milioni per trentamila soggetti). Qualcuno di questi magistrati incapaci o in malafede è stato messo fuori dal «sistema Davigo»? Non proprio: nel triennio 2017-2019, su tremila errori giudiziari, il Csm ha avviato solo 53 accertamenti, conclusi con solo 4 censure. E lei, dottor Davigo, ci viene a parlare di Briatore? Un imprenditore che sbaglia volontariamente o no una fattura merita la gogna perpetua, mentre per i suoi colleghi e amici che sbagliano un arresto (cosa un po' più grave anche in punta di Costituzione) c' è l' impunità perpetua? Diciannove inchieste politiche su Antonio Bassolino e zero condanne, dieci anni di calvario giudiziario per il sindaco di Parma Pietro Vignali (costretto alle dimissioni) conclusi con l' assoluzione completa e le scuse del pm («mi sono sbagliato«) e lei, dottor Davigo, fa il maestrino moralista in tv con i politici e con Briatore? Nessun magistrato ha mai pagato per i suoi errori, anzi hanno fatto tutti carriera come se nulla fosse. In compenso, di politici e di cittadini innocenti la magistratura ne ha rovinati tanti. È proprio vero, gli incapaci sono «destinati a folgoranti carriere».

A Napoli è boom di innocenti in cella, in 3 mesi 174 richieste di risarcimento. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Dinanzi alla Corte di Appello di Napoli l’anno giudiziario 2021 si è aperto con 174 procedimenti pendenti. Significa che ci sono 174 storie di innocenti finiti in carcere e assolti al termine del processo. A queste vanno sommate le centinaia di storie che ogni anno pongono Napoli in cima alla classifica delle città italiane con più casi di errori della giustizia. Come mai? Cos’è che non va? Ne abbiamo parlato con il professor Alfonso Furgiuele, avvocato penalista, giurista e titolare della cattedra di Diritto processuale penale all’università Federico II di Napoli. Spiega che i nodi della questione sono fondamentalmente due: «Il malgoverno, da parte degli organi giurisdizionali, delle norme stabilite dal codice in attuazione dei principi costituzionali, e lo sbilanciamento dell’attenzione giudiziaria verso la fase delle indagini preliminari». Il primo aspetto è quello che più inquieta. «È il dato più significativo e serio, deve far riflettere», spiega Furgiuele. «Più che sui numeri porrei l’accento sul fenomeno in sé. Se in un anno ci sono casi di persone assolte dopo aver trascorso anche un solo giorno di detenzione per me questo è un dato patologico, anche se parliamo di una sola persona. A ciò si aggiunga che il processo ha delle implicazioni anche mediatiche diverse a seconda che ci sia stata o meno una misura cautelare». Per questo motivo è inevitabile che dopo l’arresto scatti immediata la gogna mediatica, e poco conta se poi, spesso a distanza di anni visti i tempi lunghi della giustizia, si scopre che in cella c’è finito un innocente: ormai la giustizia sommaria ha già fatto il suo corso. «L’applicazione della misura cautelare comporta un aggravamento delle conseguenze della pendenza del processo – continua Furgiuele – Come qualcuno in passato ha detto, la prima pena non è quella stabilita all’esito della condanna ma è la pendenza del processo a carico di una persona: questa pena diventa molto più afflittiva nel caso in cui la pendenza processuale si sia accompagnata all’applicazione di una misura cautelare. Quindi, il fenomeno dell’assoluzione a seguito di una misura cautelare è un fenomeno grave che dovrebbe rappresentare un’eccezione assoluta. E se non è un’eccezione assoluta vuol dire che c’è una disfunzione del sistema giustizia, che c’è un’applicazione delle misure cautelari, da parte degli organi giurisdizionali, non conforme al dettato normativo del codice e non conforme ai principi stabiliti dagli articoli 13 e 27 della Costituzione». Il riferimento è ai principi di inviolabilità della libertà personale e presunzione di innocenza. Inoltre, proprio la materia cautelare è stata oggetto di molte modifiche normative a cominciare dal 1994, quindi all’indomani di Tangentopoli. «Modifiche – sottolinea il professor Furgiuele – finalizzate a limitare, in conformità con i principi costituzionali, i casi di ricorso alle misure cautelari personali». Nonostante ciò centinaia di innocenti ogni anno finiscono in carcere e il numero è sottostimato perché sono moltissimi gli innocenti che dopo l’assoluzione e la liberazione non hanno la forza psicologica o economica per affrontare la battaglia giudiziaria contro lo Stato per ottenere un indennizzo per l’ingiusta detenzione. Indennizzo che varia da caso a caso, che tiene conto di parametri molto relativi e legati all’impatto che la carcerazione cautelare ha sulla vita e sulla carriera del singolo. Indennizzo per il cui riconoscimento bisogna comunque superare non pochi ostacoli e cavilli. «Il fenomeno dell’ingiusta detenzione, già di per sé grave – aggiunge Furgiuele – denuncia tuttavia un altro fenomeno altrettanto grave: lo sbilanciamento dell’attenzione giudiziaria e mediatica verso la fase preliminare delle indagini spingendo a una sorta di giustizia sommaria». Si innesca un meccanismo perverso. «Con il ricorso abnorme alle misure cautelari si ottiene un’anticipazione del giudizio che compromette i diritti del cittadino che non saranno mai compensati completamente, indipendente dal se e dal quantum dell’indennizzo, dall’assoluzione successiva».

In cella senza condanna, in Campania 4 detenuti su 10 in attesa di giudizio. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Salute mentale e sovraffollamento: commentando la relazione annuale del Garante nazionale dei detenuti, Marta Cartabia non ha avuto esitazioni nell’indicare i principali problemi che affliggono i penitenziari italiani. Alla guardasigilli non saranno sfuggiti i dati sulla carcerazione preventiva che vedono la Campania al primo posto per numero assoluto di condannati non definitivi (1.233, pari al 18,8% del totale) e di reclusi in attesa del primo giudizio (1.252, cioè il 19,6% dell’intera popolazione carceraria). Numeri allarmanti che dimostrano come certa magistratura abusi delle misure cautelari e come, nella nostra regione come nel resto del Paese, dilaghi quella cultura giustizialista che vede nel carcere la principale – se non l’unica – risposta al fenomeno criminale. A sollevare la questione è stato il deputato Enrico Costa che ha invitato Cartabia ad affrontare il problema del sovraffollamento «partendo dal 30,5% di presunti innocenti»: su un totale di 53.660 detenuti, nelle carceri italiane se ne contano 16.362 in attesa di giudizio di cui 8.501 in attesa del primo giudizio. In proporzione, come dicevamo, la Campania fa segnare dati ancora più allarmanti se si pensa che, al 31 maggio scorso, addirittura il 37,9% dei 6.554 detenuti ospitati nelle 15 carceri regionali è composto da presunti innocenti. Peggio fanno solo Friuli Venezia Giulia e Sicilia, dove i detenuti in attesa di giudizio costituiscono rispettivamente il 41,2 e il 38,1% dell’intera popolazione carceraria. Se invece analizziamo i valori assoluti, la Campania è saldamente al comando della poco lusinghiera classifica sia dei detenuti in attesa di primo giudizio sia dei condannati non definitivi, seguita da Sicilia e Lombardia. «Si ha l’impressione che, sul territorio regionale, si faccia un uso sopra la media della custodia cautelare in carcere – osserva Vincenzo Maiello, punto di riferimento dell’avvocatura partenopea e docente di Diritto penale all’università Federico II – Questo è l’indizio di un uso forse non particolarmente sorvegliato delle norme in materia di misura cautelare che, in ragione della loro natura eccezionale, dovrebbero soggiacere a un regime stretta interpretazione e di rigorosa applicazione». Secondo il professore Maiello, inoltre, «il problema è soprattutto culturale: il legislatore è già intervenuto e ha fornito indicazioni inequivoche sul carattere di extrema ratio del ricorso al carcere come presidio cautelare. Spetta alla giurisprudenza uniformarsi.  Lo sta già facendo la Cassazione che ha impresso uno svolta intrisa di sensibilità garantistica agli orientamenti ermeneutici in materia. Tuttavia, nella prassi della giurisprudenza di merito, permangono impostazioni non sempre vicine al valore della presunzione d’innocenza e al principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale». Il tema dell’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, però, s’intreccia anche con quello del disagio psichico e della dipendenza dalla droga. Si stima che circa 450 persone afflitte da simili problemi si trovino attualmente nelle carceri campane sulla base di denunce presentate dai familiari. Proprio così: “spedire” dietro le sbarre un proprio figlio o fratello tossicodipendente o affetto da disturbi psichici rappresenta talvolta un disperato tentativo di cura e di cambiamento. «Ma per quelle persone – sottolinea Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti – la detenzione rappresenta un problema in più. Attenzione, dunque, alla custodia cautelare che spesso non costituisce la risposta più appropriata a problematiche di natura psicologia ed emotiva». Ovviamente, l’abuso della carcerazione preventiva incide negativamente sulla qualità della vita all’interno del carcere. Se si arresta con troppa nonchalance, non bisogna meravigliarsi del fatto che, in alcune celle di Poggioreale, siano stipati fino a 14 detenuti e che non tutti possano partecipare alle attività trattamentali previste. A spiegarlo è Antonio Fullone, dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria campana: «Se la carcerazione preventiva fosse l’eccezione, la vita in carcere sarebbe più sostenibile perché le celle non sarebbero sovraffollate e l’attività di rieducazione e risocializzazione, riservata ai soli condannati in via definitiva, risulterebbe molto più efficace». Come se ne esce, dunque? «Con un’ampia riflessione sulla detenzione – conclude Fullone – ma soprattutto cominciando a considerare il carcere come extrema ratio in coerenza con la Costituzione e i valori che ispirano il nostro ordinamento giuridico».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Arresti facili e processi lumaca. Benvenuti a Napoli, capitale degli errori giudiziari: arrestati 101 innocenti nel 2020. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Innocenti in manette. Nel 2020 a Napoli sono stati 101. Un record nazionale. Il dato è stato diffuso dall’associazione Errori giudiziari che da oltre 25 anni si occupa del fenomeno dell’ingiusta detenzione nel nostro Paese, mantenendo alta l’attenzione su uno dei grandi nodi irrisolti della giustizia italiana. Si tratta di stime aggiornate al 31 dicembre 2020 e relative sia ai casi dell’ingiusta detenzione, cioè di coloro che vengono sottoposti a custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari salvo poi essere assolti, sia ai casi di errori giudiziari in senso stretto, cioè di chi subisce un processo e una condanna salvo poi dimostrare con un processo di revisione di essere innocente. A pesare di più su questa realtà che pone Napoli in cima alla classifica delle città italiane, è l’ingiusta detenzione: sono ancora troppi gli innocenti arrestati. Il dato è strettamente collegato al modus operandi di alcune Procure, ancora orientate verso un uso eccessivo della misura cautelare. Nel 2020, in Italia, i casi di ingiusta detenzione sono stati 750 per una spesa complessiva in indennizzi che ha sfiorato i 37 milioni di euro. Rispetto al 2019 c’è stato un lieve calo: anche a Napoli i 101 casi del 2020 segnano un trend in calo rispetto ai 145 casi del 2019. Secondo gli esperti, però, questa flessione è più che altro effetto dei rallentamenti nell’attività giudiziaria causati dalla pandemia da Covid e quindi, presumibilmente, anche dei rallentamenti nel lavoro delle Corti d’Appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Il trend in diminuzione, dunque, non può ancora considerarsi come la spia di un cambiamento di cultura giudiziaria, di un cambio di passo degli organi inquirenti. I 101 casi, accertati nel 2020 nel distretto di Napoli e relativi a persone ingiustamente arrestate, portate in carcere o recluse ai domiciliari per poi essere assolte o scagionate, sono un record in Italia. Fra le dieci città con più casi di detenzioni ingiuste, dopo Napoli ci sono Reggio Calabria con 90 casi e Roma con 77, mentre Venezia chiude la classifica con 23 casi. Ora è vero che errare è umano, ma non si può considerare fisiologica l’ingiusta detenzione. Il fenomeno ha del patologico in un sistema, come quello della giustizia, per il quale ormai da troppo tempo si invoca una riforma ancora mai attuata. Sullo sfondo, inoltre, continua a esistere il paradosso di una Giustizia che si affretta ad arrestare sospettati ma poi fa durare i processi anche dieci anni, non riesce a eseguire le sentenze di condanna e arranca in un perenne stato di carenze ed emergenze. Tutto questo ha un costo e a pagarlo sono i contribuenti, quindi i cittadini che pagano le tasse. Nel distretto della Corte d’Appello di Napoli, nel solo 2020, sono stati liquidati indennizzi per circa due milioni e 900mila euro. Il dato, anticipato dal presidente della Corte d’Appello di Napoli Giuseppe De Carolis, è destinato a confluire nelle statistiche elaborate dal Ministero della Giustizia con cui periodicamente viene tracciato il quadro della situazione nei vari distretti giudiziari. Pur tenendo presente che le stime sull’ingiusta detenzione fanno riferimento a casi di misure cautelari emesse anni fa, c’è da immaginare che il trend sugli errori giudiziari non cambierà in maniera significativa nemmeno nel prossimo futuro se prima non cambia l’impostazione degli inquirenti, l’utilizzo che si fa della misura cautelare, i ritmi e la durata dei procedimenti nel nostro sistema giudiziario. Dei circa 6.400 detenuti attualmente reclusi nelle carceri della Campania, 2.349 sono in attesa di giudizio: di questi quanti saranno assolti e risulteranno vittime di una detenzione ingiusta? Difficile dare una risposta, il tema è complesso e delicato. Di oggettivo, al momento, ci sono solo le stime annuali sull’andamento di processi e indagini (circa il 40% dei processi si chiude con un’assoluzione e circa il 50% delle indagini sfocia in richieste di archiviazione) e l’amara consapevolezza che, per avere una risposta dalla giustizia, si è costretti ad attendere tanti, troppi anni.

Le storie di donne e uomini finiti in cella senza un motivo. Napoli è capitale della malagiustizia per colpa della fretta di qualche Pm…Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Aprile 2021. A volte è una svista investigativa, altre una cattiva interpretazione degli indizi, una valutazione sbagliata, superficiale o frettolosa. In qualche caso è legata alla mancanza di esperienza di chi indaga, in qualche altro è dovuta alla smania di trovare presto un colpevole o alla tentazione investigativa di innamorarsi di una pista e trascurare le altre. Quale che sia il motivo alla base degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, gli effetti che generano sono devastanti, spesso irrimediabili. Da oltre dieci anni Napoli è in cima alle classifiche delle città italiane per numero di ingiuste detenzioni. Vorrà pur dire qualcosa questo dato storico? Dovrebbe far riflettere. Non si può solo pensare di archiviarlo con un semplice «scusi, ci siamo sbagliati», anche perché non è nemmeno detto che arrivino le scuse. Nel 2012 la media era addirittura di un caso al giorno, cioè un errore o un innocente in carcere ogni giorno. Alla data del 31 maggio 2012, delle 144.650 cause pendenti dinanzi alla Corte di Strasburgo, 14.150 provenivano dal nostro Paese. Mentre Napoli deteneva il record nazionale: basti pensare che tra assoluzioni e risarcimenti, dinanzi alla Corte di appello napoletana pendeva il 9,53% dei casi nazionali. I risarcimenti? Negli anni hanno raggiunto centinaia di milioni di euro. Numeri comunque sottostimati, considerato che circa il 60-70% delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione viene respinto e il breve termine di prescrizione per presentare la richiesta (due anni) scoraggia chi deve intraprendere una causa contro lo Stato. Da 25 anni l’associazione Errori Giudiziari, creata e guidata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, raccoglie storie e traccia bilanci su errori giudiziari e ingiuste detenzioni. «Tutto è cominciato alla fine degli anni Ottanta con il caso di Enzo Tortora e con la storia di Lanfranco Schillaci, un papà ingiustamente accusato di violenza ai danni della figlioletta di due anni – spiega Lattanzi – Da 25 anni ci occupiamo di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa che riteniamo una delle emergenze del sistema giustizia ancora troppo sottovalutata». «In Italia – aggiunge Lattanzi – il vero problema più che gli errori giudiziari sono le ingiuste detenzioni». Nell’ultimo anno a Napoli i casi sono stati 101, ma si prevede che possano essere nella realtà moti di più. Molte vittime infatti, dopo lo choc dell’ingiusta detenzione, non hanno la forza, la voglia o i soldi per affrontare una causa e chiedere allo Stato un risarcimento. Inoltre, sono pochissime le azioni contro i magistrati che si risolvono con una condanna: su 604 azioni presentate tra il 2006 e il 2017, per esempio, solo 17 sono state accolte e in soli quattro casi le controversie sono arrivate a una pronuncia di condanna. Sullo sfondo, in ogni caso, restano le vite di innocenti segnati dall’esperienza del carcere e da accuse infondate. Antonio (il nome è di fantasia) è un imprenditore di Acerra: fu rinchiuso in carcere per 800 giorni per un’accusa terribile (omicidio), condannato in primo grado a trent’anni di reclusione e definitivamente assolto dopo il processo d’Appello, quando emerse che le accuse contro di lui si basavano su un’intercettazione ambientale male interpretata. Lo Stato lo ha riconosciuto vittima di una detenzione ingiusta, ma nessun risarcimento potrà mai ripagarlo per quella gogna ingiusta. Laura (anche questo nome di fantasia per tutelare la privacy della protagonista della storia) è una donna bulgara di trent’anni: ha vissuto in una cella per tre lunghi anni. L’arrestarono a Mondragone accusandola di far parte di un’organizzazione criminale che rapiva e faceva prostituire ragazze dell’Est Europa, ma solo dopo si scoprì che quelle accuse erano falsità che un’altra donna raccontò ai magistrati per vendicarsi di un litigio. Sempre dal Casertano, da Capua questa volta, arriva un’altra delle tante storie raccontate dall’associazione errorigiudiziari.com: è la storia di uno studente di 20 anni che si ritrovò d’un tratto sbattuto in una cella con l’accusa di aver commesso due rapine a mano armata nel centro di Aversa. Furono necessarie le indagini difensive per ricostruire, anche con tabulati e mappa delle celle telefoniche alla mano, tutti gli spostamenti del 20enne e dimostrare che non era lui l’autore di quelle rapine. Di qui l’assoluzione in primo e in secondo grado e il riconoscimento, dinanzi alla Corte di Appello di Napoli, a un congruo risarcimento per i dieci mesi di ingiusta detenzione. In compenso, però, quanta sofferenza e quanta ingiustizia. La stessa ingiustizia della storia di un imprenditore avellinese costretto a trascorrere 120 giorni in carcere e 330 agli arresti domiciliari per un riciclaggio di denaro mai commesso. In cella l’uomo perse venti chili, cominciò a star male, pensò persino al suicidio, mentre fuori la sua azienda perse soldi fino a sfiorare il fallimento. Perché stare in carcere da innocente equivale a una tortura.

Mille innocenti l'anno perseguitati per errore. La vergogna del Sud. Proposta di Azione per rendere automatica l'azione disciplinare per ingiusta detenzione. Stefano Zurlo - Ven, 09/04/2021 - su Il Giornale. Mille casi l'anno. Ingiuste detenzioni o, peggio ancora, errori giudiziari: innocenti condannati fino in Cassazione e «riabilitati» solo con la revisione. I numeri sono imponenti e non esiste ancora un meccanismo che costringa il sistema, al di là di valutazioni errate sempre possibili, a riflettere su questa stortura. Certo, ci può sempre stare l'assoluzione di un imputato che magari è transitato per le patrie galere e alla fine, fra un processo e l'altro, se l'è cavata in qualche modo, ma la processione dei numeri impone qualche domanda scomoda: 29.452 casi dal 1 gennaio 1991 al 31 dicembre 2020, 1.015 ogni dodici mesi, sono tanti. Troppi. Arduo sostenere che tutto possa rientrare nella normale dialettica fra le parti, ancora di più se si pensa che stiamo parlando di un tema incandescente come quello della libertà. L'innocente, come insegna la vicenda di Daniele Barillà che ha fatto scuola negli anni Novanta, semina indizi ma sono indizi della sua innocenza. Barillà fu scambiato, a un posto di blocco nell'hinterland milanese, per un corriere della droga che aveva un'auto quasi uguale alla sua. Anche nel numero di targa. Ma ben presto erano emerse clamorose incongruenze che invece non furono prese in considerazione nei successivi gradi di giudizio. E solo dopo sette e anni e mezzo l'artigiano di Nova Milanese fu finalmente scarcerato. Qualcosa è cambiato, la sensibilità si è affinata, ma a leggere le tabelle elaborate dall'Associazione errorigiudiziari.com, che da un quarto di secolo studia il fenomeno, c'è da arrossire. E colpisce il fatto che la giustizia sia andata fuori strada in alcune città in modo clamoroso. I risarcimenti della corte d'appello di Reggio Calabria nel 2020 ammontano a 7 milioni e 907 mila euro; al secondo posto troviamo la vicina Catanzaro a quota 4 milioni e mezzo e poco sotto Palermo sfiora i 4 milioni e 400 mila euro. Roma è al quarto posto in questa per nulla invidiabile classifica a 3 milioni e mezzo, Milano «solo» nona a 1 milione e trecentomila. Il Sud, pur afflitto dalla grande criminalità, fa peggio del Nord e la Calabria fa peggio di tutti. Come mai convivono da sempre standard diversi? Se si passa alle tabelle dei pagamenti effettuati sempre nel 2020 dalle corti d'appello si scopre che Catania (competente per gli errori di Caltanissetta) ha sborsato, per due sole persone, oltre quattro milioni di euro e Catanzaro (in questo caso per due defaillance di Potenza), più di 2 milioni e seicentomila euro. Cifre drammatiche, la spia rossa di deviazioni intollerabili. A fronte di questa situazione, ci sono realtà dove invece lo Stato ha versato poco o nulla. Ventottomila euro a Bolzano, ventiquattromila a Perugia, milleseicentocinquanta a Campobasso. Come mai questo alternarsi di distretti virtuosi e altri più esposti al passo falso? Come tutelarsi o rimediare al più presto ad una lettura sbagliata di un episodio? In tutto, nell'arco di un trentennio lo Stato ha dato qualcosa come 870 milioni, circa 29 l'anno. Ci sono segnali di miglioramento, ma non ovunque. Anzi: «Napoli - affermano Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, anima di Errorigiudiziari.com - è nelle prime posizioni da nove anni consecutivi. Per sei volte su nove è stata al primo posto e vanta pure un altro primato: 211 casi in un solo anno, il 2013». Ora Enrico Costa di Azione corre ai ripari: «Mercoledì prossimo porterò in commissione giustizia alla Camera una proposta di legge per rendere automatica la trasmissione dei fascicoli per ingiusta detenzione o errore giudiziario ai titolari dell'azione disciplinare. Nei tre anni dell'era Bonafede ci sono stati tremila casi, ma sono partite finora solo 53 azioni disciplinari e solo 4 volte è arrivata la condanna, con la censura del magistrato». Non servono le crociate, ma i controlli e, quando ci vuole, una sanzione adeguata.

Ingiusta detenzione, dati drammatici: 30mila innocenti in carcere in 30 anni. La spesa a carico dello Stato dal 1992 al 2020 per gli errori giudiziari è stata di 870milioni. Indennizzi per 46 milioni solo nell'ultimo anno. Ecco tutti i numeri della malagiustizia nella nota del deputato di Azione Enrico Costa. Il Dubbio l'8 aprile 2021. «Nel 2020 l’Italia ha speso 46 milioni di euro per le ingiuste detenzioni e per gli errori giudiziari. Persone arrestate per sbaglio, innocenti». Lo dichiara in una nota Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione, commentando i dati relativi al 2020, analizzati insieme all’associazione errorigiudiziari.com. «Dal 1992 al 31 dicembre 2020 le persone indennizzate sono state circa 30.000, per un totale di 870 milioni di euro. A pagare è solo lo Stato: chi ha sbagliato continua indisturbato la sua carriera. Per questo la prossima settimana sarà discussa alla Camera la mia proposta di legge che prevede che il provvedimento che riconosce la riparazione per ingiusta detenzione sia trasmesso automaticamente al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Inoltre si introduce una nuova e specifica ipotesi di responsabilità disciplinare per ’chi abbia concorso, per negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione di provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione», afferma Costa. «I dati sono drammatici. Il distretto di Napoli spicca in questa triste graduatoria con 101 casi nel 2020. E lo stesso distretto è tra le prime tre posizioni da 9 anni consecutivi. E per 6 volte su 9 è stato al primo posto. In più, detiene il record di casi raggiunti in un anno: 211 nel 2013. Al secondo posto c’è il distretto di Reggio Calabria con 99 casi, terza Roma con 77 casi. Il record di spesa nel 2020 è detenuto dai distretti di Reggio Calabria e Catanzaro, con rispettivamente 7.907.008 euro e 4.584.529 euro. In terza posizione Palermo con 4.399.791 euro. Su base pluriennale Catanzaro è il primo distretto italiano per entità di indennizzi per ingiusta detenzione: soltanto negli ultimi 9 anni lo Stato ha versato quasi 51 milioni di euro. Il picco fu nel 2018 con quasi 10 milioni e 400 mila euro. Dal 2012 a oggi, la Calabria ha assorbito più del 35% del totale degli indennizzi nazionali. I primi quattro importi più alti versati sono andati sempre e solo a Catanzaro e Reggio Calabria», continua il deputato di Azione, citando i dati elaborati dall’associazione errorigiudiziari.com. «Ma quale cifra può davvero risarcire il dramma personale di chi deve affrontare le conseguenze di una “Giustizia che sbaglia ed ammette di aver sbagliato”? Questo è il punto. L’enorme, vergognoso dispendio di risorse pubbliche è solo un aspetto marginale del problema. Anche in presenza del più cospicuo indennizzo, il marchio indelebile sulla persona non si cancella e la dignità strappata – davanti agli occhi della comunità, dei colleghi, dei propri cari, di un figlio – è estremamente difficile da recuperare. Con effetti traumatici soprattutto per le famiglie, che in molti casi ne escono distrutte. Ecco perché è così importante accendere i riflettori sul tema. Con questa lente di ingrandimento, potremo allora riconoscere alcuni sintomi di una grave patologia del nostro sistema processuale. Come non considerare che gli indennizzi per ingiusta detenzione in Italia, in termini di spesa e numero di persone indennizzate, sono fortemente disomogenei sul territorio nazionale? Abbiamo tribunali in cui le ingiuste detenzioni sono numerosissime e fori dove si registrano solo sporadicamente. Ma il tema ha molto a che fare anche con la lunghezza dei processi: ognuno di questi indennizzi avviene infatti generalmente dopo oltre 10 anni dall’ingiusta carcerazione subìta, perché la sentenza definitiva che accerta l’innocenza dell’imputato non arriva certo in tempi contenuti. Questo è forse uno degli aspetti più odiosi, perché nel frattempo la persona rimane esposta al pregiudizio e al sospetto. C’è poi la questione dell’abuso della carcerazione preventiva: non è un mistero che la misura cautelare venga utilizzata spesso per obiettivi diversi da quelli per cui è ammessa. Ma c’è un aspetto significativo che non possiamo trascurare: la responsabilità dei magistrati, di fronte a questi macroscopici errori, non scatta mai. Infatti, a differenza di quanto previsto dalla legge Pinto, il provvedimento di indennizzo non viene trasmesso al titolare dell’azione disciplinare per le valutazioni di competenza. Questo è un punto fondamentale e non formale: per tali errori finora ha pagato solo lo Stato; il magistrato che sbaglia non ne risponde. Occorre intervenire», conclude Enrico Costa.

Liana Milella per "la Repubblica" l'8 aprile 2021. Sono tanti 46 milioni di euro. Ci si potrebbe costruire un super tecnologico palazzo di Giustizia. E invece lo Stato, nell' anno della pandemia 2020, è stato costretto a spenderli per riparare il danno che deriva dalle "ingiuste detenzioni" e dagli "errori giudiziari". Quasi 37 milioni per chi è finito in cella e ha potuto dimostrare, sentenza alla mano, che non avrebbe dovuto andarci. E altri 9 milioni per gli evidenti sbagli commessi dalla giustizia. Repubblica anticipa i dati scoperti da Enrico Costa di Azione, elaborati dal gruppo "Errori giudiziari.com" di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Sui quali Costa ripropone la proposta di legge, che sarà discussa già mercoledì 14 aprile nella commissione Giustizia della Camera, «per sottoporre al processo disciplinare quei magistrati, sia il pm che il giudice, che hanno sottoscritto e dato il via libera alle manette agli innocenti». «Dal 1991 al 2020 lo Stato ha speso 870 milioni di euro per riparare 29.659 casi di errori giudiziari e ingiusta detenzione» documentano Lattanzi e Maimone. E Costa chiosa: «Per gli arresti di persone innocenti ha pagato, e profumatamente, solo lo Stato. I magistrati che hanno sbagliato non hanno mai subito conseguenze di carriera o disciplinari. Questo è profondamente sbagliato». E snocciola le azioni disciplinari per ingiusta detenzione, traendole dalle relazioni dell' ex ministro Alfonso Bonafede: «Nel triennio 2017-2019, su 3mila casi di ingiusta detenzione, le azioni disciplinari sono state 53, con sole 4 censure e 9 assoluzioni, mentre 31 casi sono tuttora in itinere». E sollecita il voto sulla legge: «Uno Stato serio deve verificare se i magistrati hanno sbagliato, come avviene per un medico che ha ucciso un paziente o un ingegnere che ha visto crollare un palazzo per colpa dei suoi calcoli errati». Costa è un super garantista, ed è noto. Nel suo studio, appesa alla parete, c' è tuttora la lettera - datata 30 agosto 1983 - che Enzo Tortora, su un foglio di carta a quadretti ormai ingiallito, mandò a suo padre Raffaele che all' epoca, per il Partito liberale, era sottosegretario all' Interno. In cui parlava «di questa spazzatura umana lasciata a fermentare, nei bidoni di ferro delle carceri, piene di disperati, di non interrogati, di sventurati, e di, come me, innocenti». Adesso, assieme a Lattanzi e Maimone, Costa commenta le tre tabelle su errori giudiziari e ingiuste detenzioni. Ecco i 9,1 milioni di euro pagati dallo Stato dopo le sentenze che hanno riconosciuto l' esistenza di un manifesto errore giudiziario: due casi a Catania per 4 milioni, due a Catanzaro per 2,6 milioni, uno a Roma per 1,9. Poi la lunga tabella dei rimborsi per le ingiuste detenzioni. Ben 101 casi a Napoli per 3 milioni; 90 a Reggio Calabria per quasi 8 milioni, 77 a Roma per 3,5 milioni, mentre Palermo, con 46 casi, è terza nella classifica dei rimborsi con 4,4 milioni. Ma ecco ancora 77 casi di Salerno (3,5 milioni), 68 a Bari (3,2 milioni), 66 a Catanzaro (4,5 milioni). Dati che andrebbero considerati come sottostimati perché può ottenere il riconoscimento per l' ingiusta detenzione solo chi, dopo una condanna definitiva, fa domanda alla Corte di appello e in caso di bocciatura ricorre anche in Cassazione. Appena reduce dal dibattito alla Camera sulla presunzione di innocenza Costa parla di «30mila persone messe in carcere ingiustamente dal 1992, uno stadio di calcio, con 30mila famiglie in sofferenza. Queste persone sono state considerate presunte innocenti? ». Da qui la prossima battaglia sulle responsabilità dei magistrati, pm o giudici che siano.

Umiliati e impoveriti: «Siamo le vittime della malagiustizia». Il presidente di Aivm, l'associazione che si occupa dei casi di malagiustizia: «Ho provato sulla mia pelle quanto sia difficile risollevarsi dopo essere stati colpiti in modo ingiusto». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 10 marzo 2021. L’anno prossimo l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm) compirà dieci anni. Un traguardo che ha stupito Mario Caizzone, il commercialista siciliano, da anni trapiantato a Milano, che nel 2012 al termine di una tormentatissima vicenda giudiziaria, decise di dar vita ad una associazione che si occupasse dei casi di “malagiustizia”. L’Aivm, che non riceve finanziamenti pubblici, ha sede nel capoluogo lombardo e si avvale della collaborazione di laureandi o laureati in materie giuridiche, oltre a quella di avvocati ed esperti psicologi. Il sito dell’associazione ha registrato nell’ultimo mese circa 30 mila accessi. «La malagiustizia è ovunque: nel penale, nel civile, nel tributario e nell’amministrativo», afferma Caizzone. «Ho provato sulla mia pelle – prosegue il commercialista – quanto sia difficile risollevarsi dopo essere stati colpiti ingiustamente da un procedimento giudiziario», ricordando «le pesanti conseguenze economiche e familiari» che quasi sempre accompagnano queste vicende nel disinteresse generale. «Sono tantissimi i casi di coloro che dopo essere incappati nelle maglie della giustizia hanno perso tutto, sono loro i ‘nuovi’ poveri», ricorda Caizzone. Ad oggi l’Aivm ha fornito assistenza ad oltre 9.000 persone. «La delusione nel sistema giustizia è il collante che lega quasi tutte le persone che si rivolgono alla nostra associazione», specifica Caizzone: «Non diamo assistenza legale, anche se molti di coloro che si rivolgono a noi ci chiedono il nome di un avvocato perché hanno difficoltà a trovare un difensore disposto ad assumere un incarico per un’azione di responsabilità nei confronti di chi ha causato loro tante sofferenze, soprattutto se si tratta di un magistrato». Dopo quasi diecimila casi affrontati, Caizzone ha stilato una graduatoria delle principali criticità del sistema giustizia: «Sottovalutazione dei problemi da parte dei giudici, mancanza di fondi e strutture adeguate, professionalità non sempre all’altezza da parte di consulenti, periti, amministratori giudiziari ed operatori del diritto». Tanti magistrati hanno, poi, carichi di lavoro eccessivi e questo è un “danno” per la giustizia. «L’associazione svolge una attività di sostegno e consiglio e non intende, come ho ricordato, in alcun modo sostituirsi all’attività forense: le persone che ci contattano sentono l’esigenza di parlare e di sfogarsi. Il nostro obiettivo è quello di diventare ‘intermediari’ tra le vittime e le istituzioni, stimolando quest’ultime affinché si facciano carico dei loro problemi». «Ultimamente sono in aumento gli imprenditori che si rivolgono all’associazione. Le criticità della giustizia civile, soprattutto l’eccessiva durata delle cause, penalizzano moltissimo coloro i quali devono, ad esempio, riscuotere un credito». Il tutto è stato aggravato dalla pandemia.«Colgo l’occasione per un appello al neo ministro della Giustizia, Marta Cartabia, donna di grandissima esperienza e professionalità, affinché provveda quanto prima ad una riforma complessiva del sistema. In questi anni sono stati fatti solo provvedimenti spot. Ci sarà un motivo perché la fiducia nella giustizia è ai minimi termini in questo Paese?», conclude amaro il dottor Caizzone, augurandosi che si torni a parlare seriamente di separazione delle carriere in magistratura e responsabilità civile per le toghe che sbagliano.

L'inchiesta. Troppi innocenti in cella, a Napoli in fumo altri 3 milioni di euro per errori giudiziari. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 24 Marzo 2021. Non sarà un record assoluto, ma si tratta comunque di una cifra allarmante. Sia perché quei soldi escono dalle tasche dei contribuenti sia perché rivelano migliaia di errori giudiziari. Tre milioni di euro: a tanto ammontano gli indennizzi liquidati nel 2020, nel distretto di Corte d’appello di Napoli, a decine di persone ingiustamente private della libertà. Ad anticipare il dato, destinato a confluire a breve nella relazione predisposta dal Ministero della Giustizia, è Giuseppe De Carolis di Prossedi, presidente della Corte d’appello di Napoli. Per la precisione si tratta di due milioni e 900mila euro: una cifra molto elevata in assoluto, eppure più bassa di quella record registrata nel 2019, quando alle persone ingiustamente arrestate furono versati circa tre milioni e 200mila euro. A ogni modo, i dati relativi agli ultimi due anni evidenziano un trend in crescita se si pensa che, nel 2018, gli indennizzi liquidati nel distretto di Corte d’appello di Napoli non superarono i due milioni e 400mila euro. Che cosa significa tutto ciò? Semplice: l’azione penale non è stata esercitata in modo corretto o misure cautelari come la custodia in carcere o gli arresti domiciliari non sono state adottate nel rispetto della legge. In entrambi i casi, un magistrato non ha fatto bene il proprio lavoro e qualcuno si è trovato improvvisamente e ingiustamente dietro le sbarre con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano personale e professionale. Non c’è da meravigliarsi, d’altra parte, se le carceri regionali scoppiano e se la metà dei detenuti si trova in cella in attesa di giudizio: secondo l’ultima relazione del garante regionale Samuele Ciambriello, a fronte di una capienza regolamentare di 6.156 persone, nelle 15 prigioni della Campania si registrano 6.329 reclusi di cui 2.349 in custodia cautelare. Tutto normale? Certo che no. «Certe statistiche – sottolinea Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli – dimostrano l’uso eccessivo delle misure cautelari che per troppi anni è stato fatto e che, insieme con le lungaggini dei processi, finisce per devastare le vite degli imputati». Il problema è che difficilmente poche migliaia di euro riescono a ripagare una persona ingiustamente arrestata e sbattuta in prima pagina, soprattutto nell’ipotesi in cui il processo sia durato anni e anni. «Tutto ciò è intollerabile – conclude Campora – Per ristabilire i principi costituzionali bisogna ridurre la durata dei processi attraverso una riforma organica della giustizia e una svolta rispetto a quella cultura che ha portato gli ultimi governi a dilatare la durata della prescrizione». Contro certe storture punta il dito anche De Carolis, secondo il quale è lo stesso sistema giudiziario ad alimentare casi di ingiusta detenzione. «Basti pensare al fatto che i gravi indizi di colpevolezza legittimano la custodia cautelare ma non una successiva sentenza di condanna, senza dimenticare che il materiale probatorio vagliato durante le indagini è diverso da quello analizzato nel corso del dibattimento – spiega il presidente della Corte d’appello partenopea – Tutto ciò sarebbe meno insopportabile se il processo seguisse immediatamente le indagini e si svolgesse rapidamente». Per ridurre le riparazioni per l’ingiusta detenzione, dunque, occorre celebrare i processi con più velocità. Nel frattempo, però, bisogna smaltire le centinaia di domande attraverso le quali, ogni anno, molte persone chiedono di essere indennizzate per il fatto di essere state ingiustamente arrestate. Ecco perché il presidente De Carolis ha istituito un collegio specializzato che dovrà occuparsi esclusivamente delle istanze di riparazione per l’ingiusta detenzione. In precedenza, infatti, questa materia era affidata alla sezione Minori e Famiglia che però, essendo oberata di lavoro, non riusciva a dedicare la giusta attenzione alle istanze presentate dalle (presunte) vittime della giustizia. Il nuovo collegio istituito, di cui De Carolis sarà presidente, dovrà segnare su un tema particolarmente delicato: «L’obiettivo- conclude il presidente della Corte d’appello – è fare in modo che gli aventi diritto ottengano la riparazione per l’ingiusta detenzione in maniera più rapida e senza il rischio di disparità di trattamento».

Ingiusta detenzione, è boom anche di risarcimenti. Il Dubbio il 17 gennaio 2021. Nel 2019 sono stati mille i casi di ingiusta detenzione nel 2019, come rileva “Errorigiudiziari.com”, che ha analizzato i dati del ministero dell’Economia. Mille casi di ingiusta detenzione nel 2019 ( ultimo dato disponibile): è quanto rilevato da “Errorigiudiziari.com”, che come ogni anno ha analizzato i dati in possesso del ministero dell’Economia e delle Finanze, incaricato dei risarcimenti, stilando una classifica dei casi distretto per distretto. Gli ultimi numeri disponibili raccontano di un incremento dei casi accertati ( 105 in più rispetto al 2018), con un aumento del 33 per cento della spesa, per un totale di risarcimenti pari a 44.894.510,30 euro. La città con più casi accertati è Napoli, che conta 129 ingiuste detenzioni, seguita da Reggio Calabria ( 120), Roma ( 105), Catanzaro ( 83), Bari ( 78), Catania ( 57), Messina ( 45), Milano e Venezia ( 42), Palermo ( 39). Sul piano dei risarcimenti, a guidare la classifica, con la spesa più alta, è Reggio Calabria, dove lo Stato ha dovuto sborsare poco meno di 10 milioni di euro ( 9.836.865), seguita a gran distanza da Roma ( 4.897.010 euro, circa la metà), Catanzaro ( 4.458.727 euro) e poi Catania, Palermo e Napoli ( poco più di tre milioni a testa), Bari, con due milioni e mezzo circa, Lecce e Messina ( poco meno di due milioni) e infine Venezia, con un milione e 300mila euro.

Solo nel 2018 sono state 895 le ordinanze di pagamenti per un totale di 33.373.830 euro. Quanto vale in Italia un giorno di ingiusta detenzione e chi ha diritto a richiedere il risarcimento. Rossella Grasso su Il Riformista l'8 Febbraio 2021. La giustizia italiana si è rivelata più volte fallibile: ogni anno sono numerosissimi i casi di errori giudiziari che causano anche la detenzione ingiusta, a volte anche per anni. Altre volte la custodia cautelare dura mesi, anche anni, giorni di vita strappati ingiustamente a qualcuno che poi il Tribunale stesso dichiara innocente. La legge italiana prevede però un risarcimento per ingiusta detenzione. È la stessa Costituzione italiana ad affermare che la legge deve determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. Certo nessuno potrà mai restituire anni di vita persi e il marchio che una detenzione può stampare a vita su una persona però il procedimento esiste e costa ogni anno allo stato milioni di euro. Basti pensare che solo nel 2018 sono state 895 le ordinanze di pagamenti delle riparazioni per ingiusta detenzione, per un totale di 33.373.830 euro risarciti. Il ministero delle Economie e delle Finanze ogni anno dovrebbe rendere noti quanti soldi pubblici sono stati destinati a questo tipo di risarcimento ma trovare tali dati è molto difficile.

Come si calcola la cifra del risarcimento?

La legge pone un limite massimo all’entità del risarcimento per ingiusta detenzione: l’importo della riparazione non può mai eccedere la cifra di 516.456,90 euro. Fare un calcolo aritmetico di una simile cifra è impossibile perché per ogni caso sono tantissime le varianti che ne possono determinare l’importo. “Ad esempio il numero dei detenuti presenti in cella durante il periodo di detenzione, le condizioni della detenzione stessa, il reato imputato, la lontananza dalla famiglia a cui la persona è stata costretta e tanti altri ancora”, spiega Samuele Ciambriello Garante dei detenuti della Regione Campania. Secondo un criterio aritmetico di ideazione giurisprudenziale, la somma indennizzabile per ogni giorno di ingiusta detenzione è di 235,82 euro. A tale importo si giunge dividendo l’importo massimo stabilito dalla legge (516.456,90 euro) per la durata massima della custodia cautelare in carcere, che è di sei anni. In pratica, il risarcimento spettante per ogni giorno di ingiusta detenzione si ottiene dividendo l’importo massimo indennizzabile per il termine di sei anni espresso in giorni. Si avrà, pertanto: 516.456,90 diviso 2190 (giorni in sei anni) = 235,82. Di conseguenza, se una persona è stata ingiustamente vittima di una misura cautelare per un anno, il risarcimento per ingiusta detenzione sarà pari a 86.074,30 euro (risultato di 235,82 moltiplicato per 365 giorni). “Qualsiasi cifra però non basterà a compensare tutti i danni che una detenzione può apportare – continua Ciambriello – basti pensare alla diffusione di notizie a mezzo stampa o social. Non ci sarà nessun risarcimento per quello, una volta che sei stato messo alla gogna ci rimani”. Il garante spiega che molte delle persone che hanno diritto al risarcimento spesso non lo chiedono nemmeno: “Una volta usciti dalla cerchia della giustizia non hanno voglia di rientrarci, di richiamare un avvocato e avere a che fare con giudici”. Dunque i soldi che lo stato dovrebbe spendere per errori giudiziari sarebbero molti di più di quelli dichiarati.

Chi ha diritto a richiedere il risarcimento per ingiusta detenzione?

Ne hanno diritto le persone che pur non essendo state condannate abbiano subito una restrizione della propria libertà a causa di un procedimento del giudice e sia stato posto agli arresti domiciliari o alla custodia cautelare carceraria e alla fine del processo è risultato innocente. Di seguito i casi riportati sul sito del Ministero delle economie e Finanze. Chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, se non ha concorso a darvi causa per dolo o colpa grave;

chi é stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, è stato prosciolto per qualsiasi causa quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 del codice di procedura penale;

chi è stato condannato e nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare quando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento di custodia cautelare è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 del codice di procedura penale;

chi è stato sottoposto a custodia cautelare e, successivamente, a suo favore sia stato pronunciato un provvedimento di archiviazione o una sentenza di non luogo a procedere;

chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per custodia cautelare;

chi è stato prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida.

Come e dove presentare la domanda?

La domanda (qui il modulo scaricabile) presso la Cancelleria della Corte d’Appello del distretto giudiziario in cui è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento; nel caso di sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, la domanda deve essere proposta presso la cancelleria della Corte d’Appello che ha emesso il provvedimento impugnato.  A consegnarla dovrà essere personalmente dall’interessato oppure a mezzo di procuratore speciale o avvocato. Va consegnata entro due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento o di condanna è divenuta irrevocabile, la sentenza di non luogo a procedere è divenuta inoppugnabile o il provvedimento di archiviazione è stato notificato alla persona nei cui confronti è stato pronunciato.

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In due anni lo Stato ha speso quasi 80milioni di euro "per errore". Quanto ci costa l’ingiusta detenzione, la Catanzaro di Gratteri regna incontrastata. Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. L’ingiusta detenzione in Italia non è rara. Parliamo di persone sottoposte a provvedimenti come la detenzione o la custodia cautelare, per mesi o anche anni e che poi risultano innocenti. Per fortuna è la legge italiana stessa a sancire le condizioni e i modi per la riparazione agli errori dei giudici. Ma il problema è diffuso e sentito soprattutto in alcuni tribunali e costa ogni anno allo Stato e quindi ai contribuenti, decine di milioni di euro. Lo testimoniano i dati. Dal 1992 parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione ben custodito dal Ministero delle Finanze. Dal 1992 al 31 dicembre 2019 si sono registrati 28.702 casi: in media, 1.025 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera i 757 milioni di euro in indennizzi, per una media di poco superiore ai 27 milioni di euro l’anno. Sono questi sono i dati raccolti da Errorigiudiziari.com, che ogni anno riepiloga i numeri di questa tragedia umana.

LA CLASSIFICA PER PROCURA –  Guardando alla classifica stilata mettendo insieme i dati del 2018 e 2019, in due anni sono stati emessi 1.895 provvedimenti per un risarcimento totale che sfiora gli 80 milioni di euro (precisamente 79.760.461), in media 42.090 euro per errore risarcito. Nella classifica regna incontrastata la procura di Catanzaro di Nicola Gratteri, il magistrato famoso per gli arresti di massa che poi vengono sgonfiati dopo poco. Solo nella sua Procura nei due anni presi in considerazione sono 265 i provvedimenti per un ammontare di 17.836.865 euro risarciti, con una media di 67.309 euro a errore. Il secondo posto del podio è occupato da un’altra procura calabrese, quella di Reggio Calabria con 184 provvedimenti e 12.122.437 euro risarciti, una media di 65.883 euro a errore. Alle calabresi poi segue Roma con 201 provvedimenti che sebbene siano tanti, sono costati allo Stato meno della metà di quanto sono costate le ingiuste detenzioni imposte dalla Procura di Catanzaro. In media la Procura di Roma ha speso 41.738 euro a caso. Anche la procura di Napoli non sta messa benissimo: 242 provvedimenti, per numero seconda solo a Catanzaro che ne ha appena 23 in più. Ma la cosa curiosa è che gli errori della procura di Napoli costano allo Stato circa il 30% rispetto a Catanzaro con 5.612.007 euro spesi per una media di 23.190 euro a caso. Al quarto posto c’è la Procura di Catania con 11 provvedimenti per 6.344.218 euro spesi con una media di 57.155 euro a caso. Nella classifica spicca anche la Procura di Bari con 156 provvedimenti ma “solo” 4.989. 925 euro spesi con una media di 57.155 a caso. Le più virtuose del biennio risultano le procure di Bolzano con un solo provvedimento da 20.345 euro e Campobasso con 1 solo caso da 7.422.

COME SI CALCOLA IL RISARCIMENTO –  La legge pone un limite massimo all’entità del risarcimento per ingiusta detenzione: l’importo della riparazione non può mai eccedere la cifra di 516.456,90 euro. Fare un calcolo aritmetico di una simile cifra è impossibile perché per ogni caso sono tantissime le varianti che ne possono determinare l’importo. “Ad esempio il numero dei giorni trascorsi in detenzione ingiustamente, in carcere o ai domiciliari, il numero dei detenuti presenti in cella durante il periodo di detenzione, le condizioni della detenzione stessa, il reato imputato, la lontananza dalla famiglia a cui la persona è stata costretta e tanti altri ancora”, spiega Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania.

A CATANZARO È PEGGIO – Dunque, considerato che in media in Italia il risarcimento di un singolo caso è circa 42mila euro, a Catanzaro la media sale a 67mila euro. Secondo quanto spiegato dal garante dei detenuti della Campania Ciambriello, il calcolo dei risarcimenti ha numerose variabili. Visto che ogni detenzione ingiusta a Catanzaro viene risarcita con più soldi, è evidente che i detenuti ingiustamente vengono trattati ancora peggio rispetto a quanto accade ad esempio a Napoli (che ricordiamo ha risarcimenti in media pari a 23mila euro circa).

UNA TRAGEDIA UMANA – La tragedia umana che si nasconde dietro questi numeri è che molte persone che sono cadute nelle pieghe di questa “mala-giustizia” una volta usciti indenni da una condanna non hanno voglia di tornare in quel vortice giudiziario e rinunciano a chiedere il risarcimento (che viene corrisposto per legge solo dopo formale domanda). Dunque quelli analizzati sono solo i numeri dei provvedimenti effettuati, ma sarebbero molti di più. A questo si aggiunge che nessun risarcimento economico può davvero ripagare il marchio che una persona, compresa la sua famiglia e la sua vita, si porta addosso dopo essere stata costretto a detenzione. “Qualsiasi cifra però non basterà a compensare tutti i danni che una detenzione può apportare – continua Ciambriello – basti pensare alla diffusione di notizie a mezzo stampa o social. Non ci sarà nessun risarcimento per quello, una volta che sei stato messo alla gogna ci rimani”.

Il caso dell'ex numero due del Sisde. Bruno Contrada, schiaffo della Cassazione: annullato il risarcimento per ingiusta detenzione. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. Colpo di scena in Cassazione. La Suprema Corte ha infatti annullato con rinvio l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto a Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, il servizio segreto civile, la riparazione per ingiusta detenzione di 667 mila euro. I giudici della Cassazione hanno dunque accolto il ricorso del sostituto procuratore generale di Palermo Carlo Marzella: quest’ultimo aveva sostenuto che al quasi 90enne Contrada non spettasse il risarcimento perché il carcere non sarebbe stato “ingiusto”. Come noto Contrada, 89 anni, era stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa trascorrendo 4 anni e mezzo in carcere e 3 anni e mezzo ai domiciliari, sentenza annullata dopo il ricorso e la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo che aveva dichiarato illegittimo il verdetto italiano. In particolare i magistrati europei condannarono nel 2015 l’Italia a risarcire l’ex poliziotto, anche destituito dalla polizia di Stato e poi reintegrato come pensionato nel 2017 dal capo Franco Gabrielli: la Cedu infatti con la sentenza ha stabilito che Contrada non andava né processato né condannato perché il reato di concorso esterno in associazione mafiosa era stato tipizzato e aveva assunto una dimensione chiara e precisa solo con la sentenza Demitry del 1994.La sentenza della Cedu era quindi stata utilizzata dai legali di Fontana per chiedere la revoca della condanna: in un primo momento la Corte d’Appello di Palermo giudicò il ricorso inammissibile, giudizio ribaltato dalla Cassazione e che portò al risarcimento per la detenzione illegittima, oggi annullato. “Aspettiamo di leggere le motivazioni per un esame più approfondito, – dice il suo avvocato Stefano Giordano – ma è evidente fin d’ora che la Corte di legittimità non ha dato esecuzione alla sentenza di Strasburgo, secondo cui Contrada non andava né processato, né condannato”. “Ora la palla passa nuovamente alla Corte d’Appello palermitana. Ma, comunque andrà a finire la vicenda, è probabile che il Contrada non vedrà mai un centesimo di quanto gli spetta, considerate la sua età e le sue condizioni di salute e la lunghezza dei tempi processuali”.

Bruno Contrada non va risarcito, fu condannato e incarcerato ingiustamente. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. Le cose certe sono due. Prima: Bruno Contrada non era colpevole. Seconda: Bruno Contrada ha passato quattro anni e mezzo in cella e altri tre e mezzo ai domiciliari (in tutto otto anni). Per un errore – anzi per diversi errori – molto gravi della magistratura. La sua non colpevolezza, a più di vent’anni dall’arresto, è stata accertata prima dalla Corte di Strasburgo e poi dalla nostra Cassazione. E su questa base la Corte d’appello di Palermo aveva quantificato in quasi 700mila euro il risarcimento dovuto. Non sono neanche tanti 700mila euro per una vita distrutta. Bruno Contrada è un importantissimo ex poliziotto, che operava in Sicilia, combatteva la mafia, e poi è stato anche il numero 2 dei servizi segreti. Fu condannato per “concorso esterno in associazione mafiosa” per fatti degli anni Ottanta. Contrada fece notare che quel reato non esiste nel codice penale italiano (e non esiste in nessun codice penale, in tutto il mondo). In genere viene usato quando gli inquirenti non trovano nessun reato specifico da imputare a una persona che però vogliono che sia condannata. Concorso esterno ha questo vantaggio: non devi provare né che l’imputato è mafioso né che abbia commesso delitti precisi. È una categoria dello spirito. La Corte Europea stabilì che in ogni caso questo reato, ”italianissimo”, prima del 1992 non esisteva né nel codice penale né in nessun aspetto della giurisprudenza, e dunque non poteva assolutamente essere contestato. Contrada non andava arrestato, non andava processato, non andava condannato, non doveva scontare nessunissima pena. La Procura e l’avvocatura dello Stato però hanno fatto ricorso contro la decisione della Corte d’Appello. Non vogliono che Contrada riceva una lira. Un caso limpido di accanimento. Dovuto a che cosa? Forse solo al fetido spirito dei tempi. E la Corte di Cassazione ieri ha deciso di sospendere il risarcimento e di chiedere alla Corte di Appello di Palermo di riesaminare il caso. Non si conoscono ancora i dettagli di questa sentenza. Però si sa che con i tempi della giustizia italiana, visto che Contrada ha quasi 90 anni, è probabile che non vedrà mai il risarcimento. È stato perseguitato, ingiustamente incarcerato, ridotto in miseria, e ora gli si dice: vabbè son cose che succedono. E dicendogli così si decide di trasgredire in modo clamoroso e sfacciato una sentenza della Corte Europea.

Bruno Contrada ha subito un’ingiusta detenzione ma il risarcimento slitta. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 gennaio 2021. La Cassazione ha rimandato alla corte d’Appello di Palermo l’ordinanza di risarcimento a Bruno Contrada per un vizio di forma. La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, ha annullato con rinvio l’ordinanza della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 Bruno Contrada la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. «Aspettiamo di leggere le motivazioni per un esame più approfondito – spiega il suo avvocato Stefano Giordano -, ma è evidente fin d’ora che la Corte di legittimità non ha dato esecuzione alla sentenza di Strasburgo, secondo cui il dottor Contrada non andava né processato, né condannato».

L’avvocato chiarisce che la Cassazione non è entrato nel merito. Ora la palla passa nuovamente alla Corte d’Appello palermitana. «Ma, comunque andrà a finire – osserva amaramente sempre l’avvocato Giordano -, è probabile che il dottor Contrada non vedrà mai un centesimo di quanto gli spetta, considerate la sua età e le sue condizioni di salute e la lunghezza dei tempi processuali». Inoltre, onde evitare facili strumentalizzazioni, il legale di Contrada sottolinea che la Suprema Corte non è entrata nel merito (né può farlo) del diritto di Contrada alla riparazione per ingiusta detenzione «ma ha probabilmente ravvisato un vizio motivazionale dell’ordinanza della corte d’Appello e pertanto ha disposto un nuovo giudizio». Ovviamente, tale sentenza non va annullare una verità giudiziaria scalfita sia dalla Corte Europea di Strasburgo, che dalla Cassazione.

Bruno Contrada non doveva essere né processato, né condannato. Quale? Bruno Contrada non doveva essere né processato, né condannato, dal momento che all’epoca dei fatti (dal 1979 al 1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa (nato dal combinato disposto dell’art. 110 e 416 bis c.p.) non era sufficientemente chiaro, né prevedibile, in quanto la sentenza chiarificatrice sarebbe arrivata solo nel 1994. Dopodiché, altra questione, con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo liquida a favore di Bruno Contrada la somma di 667 mila euro per ingiusta detenzione. Sì, perché ha trascorso ingiustamente 4 anni in carcere e 4 di arresti domiciliari. La conseguenza è stata disastrosa per lui e i suoi familiari. Ora però la Cassazione, per vizi motivazionali, rimanda l’ordinanza alla corte d’Appello. Due questioni diverse. Purtroppo, nella storia del nostro Paese, a fronte di migliaia di casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari non tutti poi vengono risarciti dallo Stato. Il caso Contrada, però, è emblematico. La condanna era avvenuta prendendo per vere le parole di alcuni pentiti. Alcuni di loro, sono proprio quelli che l’ex 007 ha fatto arrestare. Ma non basta. Contrada è diventato l’uomo perfetto per inserirlo in diversi teoremi giudiziari. L’ultima, è che avrebbe incontrato i boss Madonia. Peccato che sia stato proprio Contrada, interpellato irritualmente dall’allora procura di Caltanissetta, ad indicare i Madonia come esecutori della strage. Ci fu poi il depistaggio. Una volta smascherato, si scoprì che tra gli esecutori c’era proprio uno di loro.

·        Soliti casi d’Ingiustizia. 

Quell’ingiustizia subita che mosse persino Dante alla pietà per i dannati. Parola di Marta Cartabia. A 700 anni dalla morte del poeta, la Guardasigilli rilegge la Divina Commedia. «Come spesso accade è un’esperienza dolorosa che ci fa riflettere sulla pena». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 20 settembre 2021. «La giustizia che emerge dall’opera di Dante può essere severa e lo è in molte delle pene che sono inflitte ai dannati dell’Inferno, quasi crudele. Ma non è mai frutto di una fredda, aritmetica, rigida applicazione di regole predeterminate. Le eccezioni e gli incontri imprevedibili lungo il cammino dicono di una giustizia che non coincide con un giudizio irremovibile». Se ognuno avesse la lente di Marta Cartabia per rileggere la tradizione, allora ci apparirebbe meno sbiadito quel sentimento di «pietade» che fa della Divina Commedia l’opera più spietata, e al contempo umana, della nostra letteratura. Nell’anno dell’anniversario, dopo settecento lunghissimi anni dalla sua morte, del “Cantore di rettitudine” si è detto quasi ogni cosa. M a forse vale ancora la pena rimestare in quei versi di straordinaria crudezza per ricordarci che persino Dante, principe della morale, aveva pietà dei dannati. «Tanti autori – spiega Cartabia – hanno sottolineato che la Divina Commedia è in fondo una grande costruzione normativa. Ma c’è un’osservazione di Justin Steinberg che vorrei qui riportare: egli sottolinea che uno degli scopi di questa grandiosa composizione è la possibilità di esplorare i casi limite, le eccezioni alle ferree regole da lui immaginate». Ed ecco la prova: “I pagani sono salvati – scrive Steinberg – i dannati compatiti, i giuramenti infranti, le condanne ridefinite”. «Come spesso accade nella vita di ciascuno, è soprattutto attraverso l’esperienza della ingiustizia, o di quella che è percepita come tale, che ogni persona si accosta al grande universo della giustizia e al grande bisogno di risposte di giustizia». È ancora Cartabia a parlare, a rammentarci – ripercorrendo la vita di Dante – come «la giustizia lo abbia lambito attraverso un’esperienza dolorosissima»: la condanna all’esilio. «Dante stesso contempla l’ipotesi che la sua condanna sia rivista – ricorda la guardasigilli – . La revisione non arriverà, ma nella Commedia la giustizia è mossa e muove. Quante suggestioni per noi, nel nostro tempo, in una giustizia capace di muovere. La giustizia in Dante non è mai fissità perché la sua origine, il suo termine ultimo è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”». Un motivo biografico vincola il poeta al bivio eterno tra colpa e innocenza, tra condanna ed espiazione. Così come il gusto per i classici sembra indurre la ministra della Giustizia a inquadrare il suo mandato nella cornice del dubbio. La prima volta che la suggestione di Dante si affaccia nelle sue parole è il 9 dicembre 2020,quando la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa le conferisce il dottorato honoris causa in Legge. Per l’occasione, Cartabia tiene una lectio magistralis dal titolo “Per l’alto mare aperto. L’Università al tempo della grande incertezza”. «Ma misi me per l’alto mare aperto»: siamo nel XXVI Canto dell’Inferno, in compagnia di Ulisse. La futura ministra si serve di quell’immagine per ricordare agli studenti in balia della pandemia che «ci stiamo dirigendo verso una terra incognita, un mondo ancora sconosciuto, sì, ma da esplorare». La seconda volta che le sentiamo nominare Dante è in occasione delle celebrazioni per il settimo centenario dalla morte che si sono tenute l’8 settembre al palazzetto degli Anguillara “Casa di Dante”. Questa volta Cartabia legge con gli occhiali da guardasigilli per ricordare il «nesso ricorrente nell’opera di Dante tra Giustizia, Sapienza e Amore, per altro ritratte insieme all’ingresso della “città dolente”».

LA GIUSTIZIA “SOFFERTA” DA DANTE

La città dolente di Dante Alighieri è Firenze. Ma non è lì che muore da esule nel 1321. La malaria se lo porta via a Ravenna il 14 settembre di quell’anno, all’età di 56 anni. Quando inizia la sua Comedia, lo sappiamo, è nel mezzo del cammino della sua vita. Gli attribuiamo 35 anni, ché la prospettiva di vita secondo la Bibbia è di 70.Perseguitato, costretto all’esilio, il poeta realizza l’omaggio a Beatrice, la promessa annunciata negli ultimi versi della Vita Nuova: «Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».Il poeta della generazione dei poeti d’amore, il maestro delle rime volgari, vuole dire di Beatrice ciò che non fu mai detto di alcuna. Ma all’origine della Divina Commedia c’è anche un altro fattore: il trauma politico, la condanna a processo. L’ingiustizia, diremmo, e il desiderio di dimostrare la propria innocenza. Nella Firenze del 1300, sconquassata dalla rivalità tra la famiglia dei Cerchi e dei Donati, si stabilisce la potenza dei secondi, i Guelfi neri. Comincia una politica di sistematica persecuzione degli esponenti di parte bianca, ostili al Papa, che si risolve nella loro uccisione o nell’espulsione da Firenze. Dante allora si trova a Roma – trattenuto, si dice, da papa Bonifacio VIII – e da lì non farà più ritorno nella sua terra natìa: la storia lo colloca dalla parte dei Cerchi.Lo insegue, errante, l’accusa di «baratteria», usura, concussione, malversazione. Il Dante politico è travolto dalla gogna. Ché fondata o del tutto arbitraria che fosse l’accusa, si trattò certamente di un processo politico: «Se in contumacia vengono rivolte a Dante accuse di malversazione, è perché si pensa che ce ne sia materia, perché si ritiene di poterle vendere come plausibili all’opinione pubblica fiorentina», spiega lo storico Alessandro Barbero. E così, al cospetto del giudizio divino, Dante non risparmia nemmeno se stesso e sceglie di condannare i barattieri nella bolgia infernale del Ventunesimo Canto, lì dove eternamente ribolle un magma di pece nera. Ma ecco il punto: tanto è severa la sua sentenza, quanto è umana la sua comprensione per i dannati.

«SÌ CHE DI PIETADE/ IO VENNI MEN COSÌ COM’IO MORISSE…»

Il poeta aveva profuso tutto il suo genio per classificare il peccato. L’estasi non si può spiegare a parole, ci dice alla fine del Paradiso. Mentre il dolore si può provare anche attraverso la pelle degli altri. Di quei condannati che Dante non esita neanche un istante a consegnare all’eterno, all’infinita espiazione della pena. D’altronde non si può separare, neanche forzando la mano, il poeta dal tempo che visse. Dante è figlio del Medioevo. È disgustato dall’amministrazione terrena della giustizia. Non applica sconti, lo abbiamo detto, quando infligge la pena. Simbolo della sua imparzialità è il destino riservato a Guido Cavalcanti, dei suoi amici il più caro. Per non parlare del venerato maestro, Brunetto Latini, collocato all’Inferno tra i «sodomiti». Eppure a tutti i dannati Dante riserva rispetto. Ha riguardo per gli oppositori politici, gli epicurei, e tutti coloro che la sua morale non può tollerare: lo studio matto e disperato, direbbe Leopardi, lo aveva nutrito di filosofia naturale. Se Brunetto Latini gli aveva insegnato l’arte di fare politica, di farsi largo tra i decisori e i nobili di spirito e portafoglio, all’indomani della morte di Beatrice Dante trova ristoro nei «filosofanti». Tra tutti Aristotele, Tommaso D’Aquino, Boezio. Coloro che, in un estremo sforzo di sintesi, correlano lo studio della natura al modo di stare al mondo: la morale, appunto. Ma anche quando veste i panni di giudice rigoroso, Dante è sopraffatto dalla compassione. Di fronte al contrappasso che eternamente separa Paolo e Francesca, il suo corpo non regge: «Mentre che l’uno spirto questo disse/ l’altro piangea; sì che di pietade/ io venni men così com’io morisse/ E caddi come corpo morto cade». Siamo nel Canto V, secondo cerchio dell’Inferno, dove sono puniti i lussuriosi. Più avanti, nel Ventesimo Canto, Dante incontra i maghi e gli indovini. Ognuno di loro ha il collo e il viso girati dalla parte dei “reni”, condannati a guardare all’indietro così come in vita «vollero veder troppo avante». Una tale visione del corpo umano, sfregiato e deturpato, lo turba profondamente: non riesce a tenere «gli occhi asciutti», confessa al lettore, si abbandona a un pianto di compassione. Così Virgilio – sua guida, faro della ragione – lo riprende severamente e gli dà dello sciocco: «Chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta?». Si tratta della stessa “passione” che ritroviamo nel Canto XXVI dell’Inferno, il Canto di Ulisse.« Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi/ e più lo ‘ngegno affreno ch’i non soglio/ perché non corra che virtù non guidi/ sì che, se stella bona o miglior cosa/ m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi non m’invidi ».Fin dall’inizio del passo, leggiamo nelle parole di Dante una straordinaria partecipazione al dolore di Ulisse. Un ardente desiderio spinge il poeta ad ascoltare la sua confessione, così come il re di Itaca aveva voluto ascoltare il canto delle sirene. Un motivo biografico li lega al punto da poter definire Ulisse il “doppio di Dante”: entrambi esuli, l’uno rifiuta di riconoscere le proprie colpe condannando la propria famiglia alla miseria, l’altro rinuncia ai propri affetti per sete di conoscenza. Ma se il Dante personaggio avverte ed esalta il pericolo estremo che comporta la vicenda narrata da Omero, il Dante teologo, che giudica e condanna Ulisse all’Inferno, doveva pur concordare con l’imperativo morale del conoscere e sperimentare: «Che fatti non foste… ».

LA “RIVOLUZIONE” DEL PARADISO

«Nell’Inferno più che essere punita la persona è punito l’atto, è punita la violazione in sé», scrive l’ex magistrato Gherardo Colombo in un saggio a proposito della giustizia nella Divina Commedia.Dante attribuisce alla pena una funzione preventiva. «Secondo l’idea dell’epoca, che è tradotta esattamente nell’opera di Dante – spiega Colombo – la pena è efficace quando è proporzionata alla gravità della colpa, nel senso che quanto maggiore è la colpa, tanto maggiore deve essere la pena». Siamo in piena giustizia retributiva, il contrappasso. È la legge dell’occhio per occhio «che influenza ancora tanta parte della nostra cultura e che sicuramente influenzava la cultura dell’epoca di Dante», sottolinea l’ex magistrato. Ma Dante distingue il “giusto naturale”, il diritto naturale, dal “giusto legale”, la legge. Conosce il dilemma che definisce il diritto: l’insieme di regole del viver civile coincide sempre col “giusto”? Dove nasce il diritto? La giustizia viene da Dio, risponde il poeta, e si rivolge ai regnanti: “Diligite iustitiam”, amate la giustizia, “Qui iudicatis terram”, voi che regnate in terra (Canto XVIII, Paradiso). La pena funziona da deterrente verso comportamenti criminali futuri, ma la prevenzione non riguarda i dannati, inchiodati all’eternità, riguarda tutti: la pena agisce come monito universale. «Per gli uomini del mondo che “mal vive” è necessario, secondo il poeta, rinnovare se stessi e ciascun altro individuo», aggiunge Colombo. Bisognava ammonire e cancellare l’errore, più che il trasgressore. «Io… li errori della gente abominava e dispregiava, ma non per infamia o vituperio delli erranti, ma delli errori, li quali biasimando credea fare dispiacere… », leggiamo nel Convivio. E così più avanti nella Divina Commedia: nel modello retributivo di Dante si apre una prospettiva di riconciliazione. «Il Purgatorio rappresenta uno spiraglio – chiosa l’ex magistrato –. Nell’Inferno, infatti, la pena è vendetta. Nel Purgatorio la pena è espiazione. La pena è in qualche misura caritatevole, perché serve ad espiare i peccati e a reintegrare la dignità che conduce in Paradiso». Ché se l’Inferno è il suo capolavoro di immaginazione, la vera rivoluzione di Dante è il Purgatorio: lì dove si semina il dubbio che la retribuzione possa non essere «l’unica via per sanzionare un comportamento deviante».

Io, ex ministro, ora assolto: accuse infami. Corrado Clini il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale. Gentile direttore, mercoledì sono stato assolto dall'accusa infamante di avere utilizzato "a mio piacere" fondi del ministero dell'Ambiente per pagare gite lussuose in giro per il mondo.

Gentile direttore, mercoledì sono stato assolto dall'accusa infamante di avere utilizzato «a mio piacere» fondi del ministero dell'Ambiente per pagare gite lussuose in giro per il mondo. Forse non sono socialmente pericoloso, come aveva affermato la Procura della Repubblica di Roma. I giudici hanno esaminato la documentazione delle oltre 400 missioni di servizio effettuate tra il 2007 e il 2014, per rappresentare l'Italia nelle sedi internazionali ed europee, per coordinare con le Regioni l'applicazione delle direttive europee per la protezione dell'ambiente, per promuovere e realizzare oltre 1000 progetti in Italia e in 20 paesi in via di sviluppo. I giudici hanno concluso il loro lavoro decidendo per la mia piena assoluzione. Devo purtroppo rilevare che il ministero dell'Ambiente, per scelta del ministro di allora, si era costituito come parte lesa contro di me. Eppure, sono pubblici e certificati i risultati del mio lavoro, che hanno anticipato di almeno dieci anni le sfide culturali e tecnologiche della transizione energetica. I riconoscimenti che ho ricevuto hanno contribuito al prestigio internazionale del ministero e dell'Italia, così come è stato rilevante il supporto finanziario che ho ottenuto dalle istituzioni finanziarie internazionali, le banche di sviluppo, la Commissione europea (almeno 500 milioni di euro), solo per citare alcune delle più prestigiose realtà. Grato per l'attenzione, Corrado Clini. Già ministro dell'Ambiente

Due baresi assolti dopo dieci anni e sei gradi di giudizio. Giuseppe Massari e Vito Romito erano stati accusati di aver ucciso un pluripregiudicato barese nel 2011: assolti dopo sei gradi di giudizio. Il Dubbio il 20 dicembre 2021. Dopo dieci anni e sei gradi di giudizio, nessun colpevole per la morte del pregiudicato 55enne barese Nicola Massari, ucciso nella sua casa al quartiere San Paolo di Bari il 13 luglio 2011. La Corte di Assise di Appello di Bari ha confermato le assoluzioni dei due imputati, il nipote della vittima, il 38enne Giuseppe Massari, soprannominato «Balena», e il convivente di un’altra nipote, il 34enne Vito Romito. Stando alle indagini della Squadra Mobile di Bari, alla base del delitto c’era la pretesa di denaro per l’acquisto di droga. I due erano stati già assolti in primo e in secondo grado «per non aver commesso il fatto» (nel 2013 e nel 2014), ma la Cassazione un anno dopo aveva annullato la sentenza con rinvio. Al termine del processo di appello bis, nel luglio 2017, anche a seguito delle dichiarazioni di un pentito, la decisione era stata ribaltata e i giudici avevano condannato Massari a 22 anni e sei mesi di reclusione e Romito a 16 anni, per omicidio volontario e tentativo di rapina di un orologio indossato dalla vittima, un Rolex falso, disponendo la carcerazione di entrambi. La Cassazione, poi, nel 2018 ha nuovamente annullato con rinvio la sentenza (rimettendo entrambi gli imputati in libertà) e oggi, nel processo di appello ter, i due – assistiti dagli avvocati Daniela Castelluzzo e Raffaele Quarta – sono stati assolti.

Vincenzo Caramadre per “il Messaggero” il 16 dicembre 2021. Per dieci anni è stato costretto a convivere con l'ombra del sospetto e l'accusa più infamante per un uomo: aver abusato di una donna. Una spada di Damocle che sulla testa di un innocente è rimasta per 3600 giorni. La storia arriva da Isola del Liri, in provincia di Frosinone, dove un uomo si è ritrovato a dover tribolare anni per riuscire a dimostrare la propria innocenza. Si tratta di un ex agente di commercio di 60 anni accusato dalla domestica polacca di violenza sessuale e lesioni e prosciolto martedì scorso dal Gup del Tribunale di Cassino. Un'accusa totalmente inventata, secondo il giudice priva di fondamento e messa in piedi solo per ottenere denaro. Eppure, nonostante questo quadro c'è voluto un decennio perché l'incubo finisse. Una lungaggine della giustizia e un'accusa inventata che hanno minato i rapporti personali e familiari, le amicizie, ma soprattutto l'esistenza di quell'uomo. Ora è tutto finito e lui dice: «Voglio solo dimenticare».

DALLA DENUNCIA AL CAOS Quella che sarebbe diventata l'ennesima brutta pagina per la giustizia italiana è iniziata nel 2010, quando l'uomo, ora pensionato, decide di assumere una donna di origini polacche per il disbrigo delle faccende domestiche. L'accoglienza è cordiale e calorosa, tutto fila liscio. Quella donna sulla quarantina sembra essere la persona giusta: è mite e volenterosa. Qualcosa, però, si rompe perché la domestica pochi mesi dopo si reca al pronto soccorso, si fa refertare e poi denuncia ai carabinieri di essere stata abusata sessualmente. «Quell'uomo mi ha violentata», sostiene. Poi scompare. Le indagini partono nel 2011. Lui, che è sempre stato a piede libero, sin da subito respinge le accuse, ma nonostante ciò la giustizia tenta, paradossalmente, di fare il proprio corso. Con la chiusura delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio il fascicolo finisce dinanzi al Gup del Tribunale di Cassino. Viene incardinato il procedimento e l'imputato (assistito dagli avvocati Cinzia Mancini e Fabio Quadrini), in più occasioni, avrebbe chiesto un confronto con quella donna che lo accusava. Un faccia a faccia nel quale tentare di far emergere la verità. Lei, però, non si è più resa reperibile e non si è neppure costituita in giudizio dinanzi al Gup. È tornata nel suo paese. Forse ha già dimenticato tutto. 

«VOGLIO DIMENTICARE» L'agente di commercio ora alleggerito dal peso delle accuse ricorda ogni singolo giorno di questi 10 anni. Ma non ha molta voglia di ripercorrere tutte le tappe della vicenda. «È la fine di un incubo. Quella donna ha ricevuto solo del bene. Ho avuto fiducia nella giustizia che, se pur in ritardo, è arrivata. Ora voglio solo dimenticare»: poche parole che l'uomo ha affidato agli avvocati Mancini e Quadrini che lo hanno difeso in questo procedimento. I dieci lunghi anni che sono passati prima di arrivare alla sentenza di non luogo a procedere, sono trascorsi tra indagini, consulenze, rinvii, richieste varie e atti istruttori. Il provvedimento finale del Gup si poggerebbe ora su due elementi portati in evidenza dalla difesa dell'uomo: uno di fatto - di natura investigativa legato al Dna eseguito sugli indumenti della donna, dove lei sosteneva ci fossero tracce del suo violentatore, e che ha dato esito negativo. C'è poi l'aspetto di diritto, che non è proprio una sottigliezza. La difesa ha fatto entrare nel procedimento dinanzi al Gup, uno dei capisaldi del diritto alla difesa sanciti dalla Corte di giustizia europea che riconosce all'imputato il confronto con il proprio accusatore. La prolungata assenza della polacca dal territorio nazionale ha impedito ogni confronto, di conseguenza è stato leso il diritto alla difesa.

IL PIANO INIZIALE Ma non è tutto, perché nel corso dell'udienza di qualche giorno fa nel palazzo di giustizia di Cassino i difensori hanno sottolineato la vera intenzione della donna: «Monetizzare una storia inventata». È emersa, infine, altra importante circostanza legata alle dichiarazioni rese dalla donna all'atto della denuncia. Lei in pratica sosteneva di aver chiamato più volte una parente per chiedere sostegno, ma dai tabulati telefonici che la polizia giudiziaria ha depositato nel fascicolo, non c'è traccia. Una serie di elementi per i quali l'esito non poteva che essere: sentenza di non luogo a procedere. Fine della storia. Tutti felici e contenti? Non proprio. Nessuno ridarà i 10 anni di ansie, paure e sospetti all'uomo, l'unica parte lesa della vicenda. 

Il Pm Marino chiede scusa a Nerli: “Vittima di malagiustizia e di un’orribile gogna”. Viviana Lanza su Il Riformista il 2 Dicembre 2021. Anche nella storia giudiziaria napoletana non sono rari i casi di inchieste lanciate come tempeste devastanti su vite e carriere e poi sfumate in sede processuale, con assoluzioni che valgono a chiudere capitoli dolorosi ma quasi mai a sanare i danni causati da accuse che non hanno trovato conferma in giudizio. E ancor meno a far riconoscere gli errori o le sviste dei magistrati. Per questo assumono peso le parole pronunciate l’altro giorno dall’ex procuratore generale di Napoli, Raffaele Marino, al convegno organizzato da ShipMag per ricordare Francesco Nerli a un anno dalla sua morte. «Sono qui per chiedere scusa a Francesco Nerli. Perché quando la magistratura sbaglia, e sbaglia spesso, non paga mai. Ciò, come sottolineato di recente anche dal Presidente della Repubblica, ha reso indifferibile una sua profonda riforma, invocata anche attraverso la richiesta di un referendum popolare. E noi dall’interno, almeno i più sensibili, avvertiamo la necessità di questa riforma». Pesano su tante coscienze le parole di Marino ma al tempo stesso aprono uno spiraglio di luce. «L’intera città di Napoli deve chiedere scusa a Francesco e alla sua famiglia. Una città che spesso è stata matrigna con i suoi servitori, puniti soltanto perché avevano voglia di fare e sapevano fare, e volevano rendere Napoli una città migliore». Marino è stato per anni in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata napoletana. Non fu lui a coordinare le indagini su Nerli, ex senatore ed ex presidente dell’autorità portuale napoletana. Nerli fu accusato dalla Procura di concorso in concussione con riferimento a presunte pressioni per acquistare biglietti per partecipare a cene di finanziamento elettorale per Bassolino e i Ds. Ci vollero otto anni per arrivare alla prima sentenza che fu di assoluzione, un tempo lunghissimo che segnò profondamente la vita professionale e privata di Nerli. Per l’ex presidente dell’autorità portuale, il pm aveva chiesto la condanna a tre anni e mezzo. Quando i giudici pronunciarono l’assoluzione, Nerli pianse. «Dopo tutto questo tempo, pur avendo io ormai una lunga esperienza, vederli piangere mi ha commosso», commentò il compianto avvocato Alfonso Maria Stile che faceva parte del collegio di difesa. «Non c’è solo Francesco – aggiunge Marino nel suo intervento – Uno dei migliori investigatori che ho incontrato nella mia ultraquarantennale carriera di magistrato, e parlo di Vittorio Pisani, fu allontanato da Napoli, inquisito e assolto. E qui in sala abbiamo l’esempio più eclatante: Antonio Bassolino, che ha subìto trenta processi ed è stato trenta volte assolto». Nerli viene ricordato come una vittima di malagiustizia, ma anche di una città irriconoscente e indifferente: «Quanti hanno voltato le spalle o si sono messi a guardare da un’altra parte quando Francesco è stato inquisito», ricorda Marino. «Francesco fu costretto a subire l’onta di una misura cautelare, il divieto di dimora a Napoli, per lui una vera umiliazione, e sono convinto che tutto questo non sia estraneo alla sua successiva malattia. Perciò sono qui, per chiedere scusa a nome della magistratura e a nome della città di Napoli. Forse non ti meritavamo».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews). 

In carcere da innocenti: "ordinaria" ingiustizia. Massimo Malpica il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel libro di Zurlo nove storie simbolo di un sistema malato. Che non paga per i suoi errori. Innocenti dietro le sbarre. Nel '71 Nanni Loy e Alberto Sordi avevano provato a raccontare, sul grande schermo, le ingiuste detenzioni con Detenuto in attesa di giudizio. Ma l'odissea del geometra interpretato da Sordi non è fiction: la stessa sorte, tra 1991 e 2020, è toccata ad almeno 30mila persone, come ricorda Stefano Zurlo nell'introduzione alla sua ultima fatica letteraria, Il libro nero delle ingiuste detenzioni, edito da Baldini+Castoldi e con una prefazione dell'ex magistrato Carlo Nordio. Zurlo nel libro snocciola nove storie, alcune note e altre inedite, di vip o persone qualunque travolte da un destino inatteso e finite in galera per reati mai commessi, tentando di dimostrare un'innocenza che il sistema giudiziario dimostra, in queste storie, di non presumere affatto. C'è Jonella Ligresti, figlia di Salvatore, che si ritrova in manette a luglio 2013 per un errore di calcolo del consulente della procura e che esce dall'incubo, con l'archiviazione, solo a maggio di quest'anno, dopo otto anni. Il primo dei quali passato in carcere, lontana dai figli e dai familiari. E c'è Edgardo Mauricio Affè, ragazzo colombiano adottato da una famiglia siciliana che, per due schiaffi a un amico con cui aveva litigato, si è fatto due giorni in cella e sei mesi ai domiciliari con l'accusa di rapina (del cellulare) e lesioni. Eppure l'alterco era stato filmato da una telecamera: nessuna rapina (a raccogliere il telefono era stato un altro soggetto) e nessun pestaggio, solo due schiaffi, per i quali la «vittima» non ha nemmeno voluto sporgere denuncia. C'è la storia, incredibile, di un ex imprenditore della «Milano da bere» degli anni '80: quattro anni in galera per le dichiarazioni di due pentiti rilasciate nel corso di una rogatoria irregolare salvo poi scoprire di essere stato assolto, quindici anni più tardi, senza che nessuno si preoccupasse di notificargli la sentenza. L'imprenditore veneto Diego Olivieri, invece, si è fatto «solo» un anno di carcere per una storia inverosimile di traffico internazionale di stupefacenti, riciclaggio e associazione mafiosa, tutto per aver consegnato un orologio a un amico di un amico che l'aveva scordato in Canada, dove l'uomo operava con la sua azienda, col corollario di una «finta» liberazione seguita da un contestuale secondo arresto, odioso tranello per carpire una confessione che, da un innocente, non poteva arrivare. E poi ecco il perito assicurativo che denuncia le minacce fatte all'amante, ex prostituta, dal suo vecchio protettore e si ritrova sette mesi in cella con l'accusa di essere lui un protettore che estorceva e rapinava. E infine i casi più paradossali. Pietro Paolo Melis, arrestato per sequestro di persona per una intercettazione a lui erroneamente attribuita a 37 anni e tornato libero a 56 anni, quasi 19 anni dopo, e che a un lustro dalla ritrovata libertà aspetta ancora il risarcimento per l'ingiusta detenzione. E Giuseppe Gulotta. Arrestato per aver confessato di essere l'esecutore della strage di Alcamo, nel 1976, dopo essere stato selvaggiamente pestato in caserma per estorcere quell'ammissione. Che si è rivelata falsa solo 38 anni dopo, quando Gulotta aveva scontato 22 anni di carcere, ed era già in libertà condizionale da due anni. Non ha riavuto il tempo rubato dalla malagiustizia, ma 6,5 milioni di euro, risarcimento record, e l'onore. Quello che la giustizia in azione dietro queste storie non avrà mai.

Quegli “errori” delle toghe umiliano la democrazia. Dal caso dell’ex consigliere della regione Valle d’Aosta, Marco Sorbara, a quello del senatore Antonio Caridi: quando un politico viene arrestato ingiustamente, noi tutti siamo meno liberi. Davide Varì su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Sì, lo ammettiamo, stavolta era sfuggito anche noi. Ma del resto non passa settimana senza che vi sia un’assoluzione, un caso di malagiustizia che, spesso, colpisce parlamentari o semplici amministratori locali. Qualche giorno fa è toccato all’ex consigliere della regione Valle d’Aosta, Marco Sorbara. E diciamo ex perché Sorbara fu rimosso dal suo incarico politico e rinchiuso in galera per 214 lunghissimi giorni, 45 dei quali in isolamento. Senza contare i restanti 600 e rotti passati in custodia cautelare. Ma il 20 luglio scorso la Corte d’ Appello di Torino lo ha assolto perché il fatto non sussiste: “Ops, ci siamo sbagliati caro signor Sorbara, lei ora è di nuovo un uomo libero”. Ma non è così, il signor Sorbara non sarà mai più un uomo libero: troppo profonde e troppo dolorose le ferite lasciate dalla feroce ottusità di questa giustizia. Solo tre settimane fa era accaduto al senatore Antonio Caridi, ricordate? Secondo i magistrati era l’uomo di collegamento tra le cosche e la politica – il famigerato terzo livello politicomafioso, il padre di tutti i teoremi giudiziari – ma in realtà il senatore di FI era del tutto estraneo a quei fatti. Ora Caridi è stato scarcerato, certo, ma neanche lui è un uomo libero: la sua vita è stata schiacciata e la sua carriera è compromessa per sempre. Ma c’è di peggio: quando un politico viene arrestato ingiustamente, noi tutti siamo meno liberi perché viene intaccato il sistema della rappresentanza politica, viene mortificata e annientata la volontà degli elettori. Ma è la giustizia italiana, bellezza: la responsabilità civile è ancora una chimera e l’immunità parlamentare è stata sacrificata sull’altare del populismo penale. 

Accusati, lapidati e poi assolti: l’elenco dei politici rovinati dalla gogna. Centinaia sono i politici costretti a deporre le “armi” della partecipazione diretta per fare i conti con una giustizia a volte lenta e ingiusta. Monica Musso su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Poltrone che scottano e vite distrutte. Non esiste una sola regione in Italia che non abbia avuto, almeno una volta, un presidente indagato. Se ne contano oltre 60, negli anni, e a volte a qualcuno è toccato anche varcare le porte del carcere. E centinaia sono i politici, di ogni ordine e grado, costretti a deporre le “armi” della partecipazione diretta per fare i conti con una giustizia a volte lenta e ingiusta.

Il caso Caridi

L’ultimo caso in ordine di tempo è quello dell’ex senatore di Forza Italia Antonio Caridi, assolto dopo cinque anni perché il fatto non sussiste. L’ex politico – perché di politica non ne vuole più sapere nulla – era imputato nel processo “Gotha” assieme ad altre 29 persone. Un processo che si è concluso con 15 condanne e 15 assoluzioni (11 delle quali richieste dall’accusa) e che ha registrato anche la condanna a 25 anni dell’ex parlamentare del Psdi Paolo Romeo, considerato alla testa della cupola di invisibili che avrebbe governato la città per decenni. Per l’accusa Caridi avrebbe «agevolato» la ‘ ndrangheta «mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico», sfruttando tutte le cariche rivestite, dal Consiglio comunale al Senato. Da qui la richiesta d’arresto, che arrivò al Senato a luglio 2016 come un fulmine a ciel sereno. La giunta per le immunità, il 3 agosto, diede il via libera, dopo due giorni di discussione. Il giorno successivo, in un’aula straordinariamente piena, 154 senatori dissero sì al suo arresto, contro 110 contrari e 12 astenuti. Caridi lasciò Palazzo Madama in lacrime, consegnandosi a Rebibbia e attendendo un anno e mezzo prima di tornare a casa. Un anno e mezzo vissuto in celle da incubo, in attesa di conoscere la sua sorte. Per i giudici che lo hanno scarcerato arrestarlo fu un errore. Avrebbe potuto attendere il processo da uomo libero, ma così non è stato. E ciò nonostante le accuse a suo carico, per il tribunale di Reggio Calabria, fossero infondate.

Per Antonio Bassolino mai una condanna

I casi eclatanti non mancano, come quello dell’ex governatore della Campania, Antonio Bassolino, costretto a 27 anni di processi, con nove assoluzioni e nemmeno una condanna. Isolato dalla politica, emarginato dal proprio partito, quasi come fosse radioattivo. Le prime indagini a suo carico risalgono a quando era sindaco, ovvero al 1993. Almeno cinque o sei inchieste si sono sono chiuse con archiviazioni, per il resto ci sono i 19 processi dai quali è uscito assolto e che lo hanno costretto a passare gli ultimi 20 anni a difendersi per il lavoro svolto come governatore della Campania.

Ci sono anche Vasco Errani e Mario Oliverio

Ma la serie è lunga. Tra gli imputati eccellenti c’è Vasco Errani, ex governatore della Toscana, assolto dall’accusa di falso ideologico perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni.

In Calabria, dove a finire sotto indagine sono stati gli ultimi cinque governatori, c’è Mario Oliverio, assolto a gennaio scorso dall’accusa di corruzione e abuso d’ufficio, avanzata dalla Dda di Catanzaro nell’inchiesta “Lande desolate”. Un’inchiesta, quella del 2018, che costrinse l’allora presidente della Regione a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. Ma non solo: proprio a causa di quell’indagine Oliverio fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra. «Due anni di gogna mediatica», commentò dopo la decisione del gup. A febbraio è arrivata, dopo otto anni, l’assoluzione piena per 13 ex consiglieri regionali del Lazio, per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. Tra loro anche l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre. «Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?», aveva dichiarato ricordando la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici.

L’ex sindaco di Lodi

I più forti, quelli con la copertura mediatica maggiore, magari resistono alla valanga di fango dopo l’iscrizione sul registro degli indagati e durante i processi. Altri, invece, decidono di deporre le armi, a volte definitivamente. Come Simone Uggetti, l’ex sindaco del Pd di Lodi, colui che è riuscito nel miracolo di far scusare Luigi Di Maio per la gogna subita: il politico è stato assolto nei mesi scorsi dall’accusa di turbativa d’asta, dopo cinque anni lunghissimi. Anni in cui la sua vita è cambiata radicalmente, in cui «mi sono dovuto reinventare» e fare i conti continuamente con odio e rancore. Uggetti era stato arrestato nel 2016, dopo la denuncia di una dipendente comunale, che lo accusava di aver interferito illecitamente nella redazione di un bando da 4mila euro per la gestione estiva delle piscine comunali. La questione fu soprattutto politica: i grillini si lanciarono subito sul caso, per colpire soprattutto Matteo Renzi, all’epoca ancora segretario del Pd e presidente del Consiglio. E la gogna grillina era stata esasperante: quasi nessuno, tra i big, si era sottratto al gioco del tiro al bersaglio. L’elenco, dunque, è lungo. E la sensazione è che sia destinato ad allungarsi.

Giustizia, Pietro Senaldi: "Che pena meritano certi pm?". Cinque anni di calvario giudiziario per un imprenditore innocente. Libero Quotidiano l'08 luglio 2021. Pietro Senaldi, condirettore di Libero, dedica il suo editoriale di oggi alla storia di un imprenditore per spiegare il motivo per cui è a favore dei referendum della Lega e dei Radicali per riformare la giustizia. "Si tratta di un imprenditore che conosco e di cui non farò il nome", spiega Senaldi, "ma è una vicenda piuttosto nota". "Questo imprenditore compra con un socio una parte del Pio Albergo Trivulzio per ristrutturarlo e rivenderlo a scopo immobiliare", inizia a raccontare il direttore. "Siccome i pm subodorano, sentendo il nome Trivulzio, che c'è sotto Berlusconi, Ligresti, La Russa insomma tutti quelli che a loro stanno antipatici, mettono questo imprenditore e il suo socio sotto inchiesta. Il socio rilascia dichiarazioni spontanee. Il pm in cinque minuti capisce che Berlusconi non c'entra niente, che loro due hanno acquistato la parte di immobile regolarmente e ne proscioglie uno. Allora", prosegue Senaldi, "anche il secondo imprenditore chiede di essere ascoltato spontaneamente. Il pm lo riceve ma gli risponde che pur avendo lui ragione quando si è accorto che si trattava di un'inchiesta minore l'aveva passata a un giovane collaboratore di Procura. Quindi non poteva archiviarla, perché si trovava nelle mani di un altro. L'imprenditore si rivolge allora al giovane pm di Procura e gli racconta tutta la storia: il socio archiviato, non c'entra niente Berlusconi...". Il nuovo giudice gli dà ragione, "se è innocente non ha nulla da temere" gli dice, "ma prima di archiviarla devo leggere il fascicolo". Morale: il calvario giudiziario di questo imprenditore dura cinque anni. Continua Senaldi: "Le banche gli chiedono di chiudere i conti e per lui, che compra e vende immobili e quindi con le banche ci lavora, per cinque anni, al culmine della carriera, è praticamente fermo. Il suo avvocato, un principe del foro, lo rassicura sull'assoluzione. E infatti è così: dopo cinque anni c'è l'arringa di otto minuti, la parcella di 55 mila euro, e con tante scuse l'imprenditore viene assolto". "Ovviamente", fa notare Senaldi, "il danno non sono i 55 mila euro per l'avvocato che lo Stato ovviamente non gli ha restituito, ma sono i milioni di euro che avrebbe guadagnato in cinque anni di lavoro e che invece ha perso". "Questo è quello che succede alle persone innocenti in Italia basta che vogliano fare qualcosa", conclude Senaldi.

Il caso. Colpevole o innocente? Non si sa, ma intanto ha già scontato la sua pena…Elena Baldi su Il Riformista il 2 Luglio 2021. Eppure, questa volta, i tempi del processo sono stati proprio quelli giusti, quelli del giusto processo, dell’art. 111 della Carta Costituzionale. Indagini preliminari, primo grado e appello, tutto in poco più di un anno rispetto al fatto, quasi un esempio di cui andare orgogliosi. Per essere precisi mancherebbe ancora la Cassazione dal momento che Ait ha continuato a professarsi innocente anche con un ricorso complesso e argomentato, inoltrato alla Suprema Corte ma non ancora discusso e a oggi neppure fissato. E allora come può dirsi concluso un processo privo ancora del suo più autorevole grado di giudizio? In effetti la sentenza di condanna ad anni uno e mesi dieci di reclusione, pronunciata in primo grado e confermata in appello, formalmente non è ancora definitiva. Definita e definitiva però è stata la pena, nel significato sostanziale del termine e cioè nel senso che Ait l’ha già scontata, integralmente, recluso in un carcere italiano, in anticipo rispetto alla conclusione del processo. Si, nel nostro civilissimo Paese può capitare che un qualsiasi imputato, in ossequio al principio del pericolo di reiterazione del reato, di inquinamento della prova o della possibile fuga, prima sconti la pena e poi venga giudicato, come è stato per Ait: la legge e la giurisprudenza lo consentono. Ait è stato arrestato subito dopo aver commesso i fatti che lo hanno poi portato al processo e, nonostante il riesame, l’istanza di modifica della misura (al Gip e alla Corte d’Appello), gli appelli cautelari, ha trascorso continuativamente in carcere un anno e dieci mesi della sua vita libera e cioè tutta la pena, tutto il tempo che aveva stabilito in primo grado il Giudice e che, in difetto di impugnazione del P.M., rappresenta il tetto massimo oltre il quale non è potuta andare la Corte d’Appello che detta sentenza ha confermato, e non potrà andare la Corte di Cassazione, in quel processo inutile e beffardo che in un giorno futuro si farà. Ait è accusato di avere procurato lesioni volontarie al proprietario del suo appartamento che si era recato a casa sua per reclamare il pagamento del canone e che dopo avergli sfasciato con un bastone il televisore aveva riportato una ferita al cuoio capelluto a seguito di colluttazione. Ait, accusato di aver dolosamente provocato la ferita, ha eccepito la legittima difesa, ha chiesto la derubricazione nel reato di lesioni colpose e in ipotesi la concessione dell’attenuante della provocazione o le generiche. Tutte respinte le sue istanze ed eccezioni, in primo grado e in appello, mentre scorrevano le settimane e i mesi all’interno del carcere, privato delle garanzie minime che ogni detenuto, formalmente definitivo, può invece avere. Per lui, infatti, incarcerato e mantenuto in prigione in ragione del “pericolo di reiterazione del reato”, principio valido per i neofiti del diritto ma, quasi sempre, contenitore vuoto per chi è pratico di diritto penale live, non è stato possibile accedere al percorso rieducativo e neppure ai permessi premio, e neppure alla liberazione anticipata e neppure all’affidamento ai servizi sociali e neppure alla detenzione domiciliare e neppure al lavoro esterno. Insomma a lui, che non sappiamo ancora se sia colpevole o innocente, sono stati negati, “giustamente” e codice alla mano, tutti quei benefici a cui ha potuto e può accedere anche il più “definitivamente” incallito dei criminali. Ovviamente ad Ait è stato spiegato che, visto l’andazzo, sarebbe stato meglio rinunciare alla Cassazione, prendersi i “giorni” di liberazione anticipata e uscire dal carcere quattro mesi e mezzo prima di quanto poi avvenuto. Ma lui che chiedeva giustizia non ha accettato di mercanteggiare, neppure con la sua libertà. Può darsi che Ait abbia commesso il reato, può darsi che l’orribile sentenza di primo grado rispecchi proprio ciò che è avvenuto nella sua casa, ma ciò non sarà sufficiente ad assolvere il nostro sistema dalla profonda ingiustizia che si è già consumata, a prescindere da quanto un giorno stabilirà la Suprema Corte di Cassazione di uno Stato in questo caso irrevocabilmente perdente. Chi giudica e chi legifera non deve mai dimenticare le regole fondanti del diritto penale, quelle contenute nella nostra Carta Costituzionale (l’art. 24, l’art. 25, l’art. 111) quelle che ci hanno insegnato e tramandato i nostri Maestri. Chi giudica non deve mai dimenticare l’uomo. Probabilmente saranno queste le parole finali della nostra arringa quando un giorno saremo chiamati a Roma, a concludere un processo sostanzialmente inutile ma che, nelle speranze di Ait e nelle nostre speranze, inutile non è. Elena Baldi

Due prigionie diverse, ma entrambe crudeli. Giustizia perfida e stracciona: si accanisce con Emilio Fede e Cesare Battisti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Giugno 2021. Chissà perché mi è tornato nella mente “Pietà l’è morta”, il famoso canto partigiano scritto nel 1944 da Nuto Revelli, mentre nelle stesse giornate assistevo allo scempio sul riposo notturno del novantenne Emilio Fede e al digiuno di Cesare Battisti, “l’atto più degno che potessi fare per evitare di morire in ginocchio”. Ho pensato ai loro corpi legati a diverse prigionie, ma che avevano a che fare tutte e due con la crudeltà della giustizia, con la sua insensatezza, con la casualità di roulettes russe impazzite. Ha senso che un uomo di novant’anni, che un corpo e una mente per i quali i progetti di vita sono ridotti al lumicino debbano ancora subire forme di prigionia? Non ha senso alcuno, eppure, nel silenzio generale, nelle carceri ci sono questi corpi sequestrati, spesso malati, sempre dolenti. Ci sono perché violenta è la necessità di vendetta della cosiddetta funzione “retributiva” della pena, la fotocopia progressista dell’occhio per occhio dente per dente. Ci sono perché magari qualche aggravante “osta” all’applicazione umana della pena. E sono lasciati lì a porre termine ai loro giorni, magari di vite non proprio commendevoli, ma pur sempre vite. Troncate dalla pena di morte all’italiana, quella dell’imbroglio e dell’ipocrisia. Emilio Fede è stato processato e condannato per qualcosa di assurdo, dopo esser stato spiato insieme ai tanti ospiti di serate trascorse in casa di Silvio Berlusconi. Ed essendo stato il “capo” assolto in via definitiva, la vendetta giudiziaria della moralità di Stato si è abbattuta su altri mille rivoli laterali che hanno colpito amici e testimoni. Perché la giustizia giacobina ha questo effetto-tenaglia che, se ti pizzica, non te la scrolli più di dosso. Emilio deve restituire qualcosa allo Stato. Per esser stato amico di Berlusconi, prima di tutto. Per esser stato un direttore del Tg4 colto e irriverente. Per la sua vita di pokerista beffardo. Per l’ironia nei nomi storpiati (che il povero Travaglio non riesce a imitare) e i colpi che gli arrivavano alle spalle con i fuorionda carpiti mentre nel bel mezzo dei servizi sulla guerra del golfo lui si lasciava scappare un “bella cosciolona” e poi non se ne pentiva. Sembra quasi una nemesi storica il fatto che, mentre gli muore la moglie e lui compie novant’anni, la sua vita e il suo corpo subiscano la violazione di una visita notturna della polizia quasi a marchiare a fuoco il suo passato di nottambulo. Perché un tribunale di sorveglianza lo vuole prigioniero sempre, e rispettoso di orari e spostamenti. La logica vorrebbe che si dicesse agli zelanti poliziotti e ai burocrati in toga: ma lasciatelo in pace! Ha sepolto la moglie con cui sperava di poter spegnere le candeline, e voi siete ansiosi di sapere in quale letto sta dormendo? E magari anche con chi, visti i reati per cui è stato condannato? Ma il suo corpo non è suo da almeno quattro anni, il suo corpo è dello Stato occhiuto e proprietario implacabile. Il che sposta l’attenzione su un altro, ben diverso prigioniero, Cesare Battisti. Il quale, mentre Fede era schiacciato da quel lutto che avrebbe preferito non dover trascorrere in compagnia notturna di due poliziotti, aveva girato la boa dei venti giorni di sciopero della fame. Non certo per una sfida allo Stato che lasciasse emergere il trasgressivo che un giorno lui era stato, fino a privare altri della vita. Ma per illuminare le violazioni di legalità che stava subendo, essendo diventato lui stesso vittima di una forza dello Stato silenziosa quanto implacabile. Una sorta di ergastolo ostativo applicato in modo arbitrario ed extragiudiziale. Non mi interessa investigare per sapere se questo ex militante di sinistra e terrorista sia simpatico. E neanche se le condanne per i reati che ha commesso (e ammesso) siano state eque, visto che lui stesso le ha accettate, nonostante un percorso di commutazione dell’ergastolo fosse stato tentato dal suo avvocato Davide Steccanella. Mi interessa invece sapere perché, trascorsi i sei mesi di isolamento previsti dalla sentenza, gliene siano stati inflitti altri ventiquattro, cioè due anni, fuori dalla legge. Perché dopo un processo milanese, lui sia stato mandato in luoghi lontani come la Sardegna e la Calabria. Perché sia considerato ancora un terrorista e come tale sia classificato nella detenzione. Ha sofferto e sopportato per due anni e mezzo, dopo che era stato braccato nella sua latitanza più di un boss, dopo che il suo corpo era stato esibito come un trofeo da due ministri (vergogna), mentre i suoi occhi disperati vagavano nel nulla. Tagliategli la testa, ho pensato in quei momenti, perché mi era parso già di vederla rotolare. Di Emilio Fede oggi non si occupa quasi nessuno, qualche cronaca dopo l’irruzione notturna della polizia e lo sdegno, tra i politici, della sola capogruppo di Forza Italia al Senato Annamaria Bernini. Nessuno, o quasi, a vedere la contraddizione tra un novantenne abbandonato dai più ma pur sempre ancora prigioniero di questa giustizia stracciona ma eterna nella sua perfidia. Ma le baionette sono pronte per il nemico di sempre, quel Cesare Battisti odiato come assassino e invidiato come lo scrittore coccolato nei salotti parigini, ma perfetto “tipo d’autore” per ogni nefandezza. Quanto lui ha deciso di rinunciare al cibo “fino alla morte”, gli ha risposto Sergio D’Elia, il fondatore di “Nessuno tocchi Caino”, che si è messo al suo fianco, come fosse Pannella, a digiunare “fino alla vita”, la vita del diritto. Ma intorno intanto fischiavano le pallottole. Da Giorgia Meloni a Maurizio Gasparri: pietà l’è morta, appunto. Contro il nemico. Gli altri, quelli che comunque sostenevano il diritto di Battisti a una detenzione normale, si premuravano di premettere che comunque lui era una specie di mostro e che a loro stava sulle palle. Oltre a essere ripugnante in quanto assassino, ovviamente. Ma c’è anche Vittorio Feltri, per fortuna. Quello costretto a lasciare l’inutile Ordine della nostra categoria, probabilmente perché è il più bravo giornalista esistente. Feltri parla di dignità e del diritto di ogni detenuto, anche un pluriomicida, a “godere di un’esistenza non umiliante”. E si spinge a chiedere alla ministra Cartabia di eliminare l’ergastolo ostativo e l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Siamo parlando di Vittorio Feltri, di quel direttore considerato una specie di fascista volgare dai perbenisti del “sono garantista però.”. Lui non usa nessun “però” nel chiedere, non solo per Battisti, alla ministra “di provvedere ad eliminare certe gratuite crudeltà, che contrastano con le caratteristiche di un Paese civile”. Non sempre “Pietà l’è morta”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Massacrati per 5 anni e poi assolti: fine dell’incubo per 30 militari. Francesca Sabella su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Assolti «perché il fatto non sussiste». Lo ha stabilito Giovanna Carla Pasquale, giudice monocratico del Tribunale di Napoli, che ha così messo fine all’incubo di trenta militari campani in forza all’Esercito e all’aeronautica sui quali pendeva l’accusa di ricettazione. Secondo il pm che ha condotto l’inchiesta, Giancarlo Novelli, i militari erano riusciti a superare il concorso per arruolarsi dopo aver ricevuto, in cambio di un’ingente somma di denaro mai esattamente quantificata, le risposte alle domande contenute nel test di ammissione. L’assoluzione con formula piena arriva dopo quella di un civile accusato di aver venduto le risposte corrette. Nessun imbroglio, dunque, e niente denaro in cambio di informazioni riservate. I fatti risalgono al 2016 quando, secondo l’accusa, i trenta indagati avrebbero pronunciato al telefono frasi ambigue riconducibili all’acquisto del cosiddetto algoritmo capace di rispondere a tutti i quesiti somministrati ai partecipanti al concordo. «L’accusa si basava su alcune intercettazioni telefoniche, ritenute poi inutilizzabili, composte da poche parole non contestualizzate – spiega Michela Scafetta, avvocato di cinque dei trenta militari coinvolti finiti a processo e poi assolti – Una mia assistita è stata rinviata a giudizio sulla base di poche parole pronunciate nel corso di una telefonata con un interlocutore non identificato: “Ok, per tre”. La frase si riferiva alla prenotazione di un tavolo per la cena, visto che la ragazza, quella sera, aveva deciso di pernottare in albergo per poi raggiungere, la mattina seguente, la sede del concorso». Secondo la Procura partenopea, invece, la donna si riferiva al test di ammissione e alle risposte ricevute in anticipo. Ovviamente la stampa dedicò alla faccenda i soliti titoloni in prima pagina. E l’opinione pubblica si accanì sugli indagati, successivamente rinviati a giudizio, dando libero sfogo alle proprie pulsioni giustizialiste, come spesso accade. Per cinque anni, dunque, i trenta militari campani hanno dovuto sopportare l’immancabile gogna mediatica e i commenti al veleno dei colleghi. Alla fine, però, è arrivata l’assoluzione che, se da un lato ha posto fine al calvario giudiziario, dall’altro ha aperto un altro fronte. Nel dicembre del 2020, infatti, i trenta militari processati, che nel frattempo avevano continuato a prestare servizio, erano in procinto di entrare nell’Esercito e nell’Aeronautica in pianta stabile. Il requisito principale per superare questo step e continuare la carriera militare è la fedina penale pulita, al pari del momento in cui ci si arruola. I trenta militari, però, risultavano imputati, sicché per loro è scattato il congedo con effetto immediato. Risultato? Niente lavoro e niente stipendio. In questi anni le loro vite sono andate avanti, certo, sebbene col peso di un’accusa grave. Alcuni hanno persino messo su famiglia. Ora dovranno fare i conti con un’assoluzione arrivata dopo cinque anni dai fatti contestati loro dalla Procura, ma soprattutto con gli stravolgimenti che la giustizia ha determinato nelle loro vite private e carriere. «Oggi i miei assistiti – spiega l’avvocato Scafetta – dovranno aspettare che la sentenza passi in giudicato e poi fare ricorso al Tar. Dobbiamo sperare che i giudici amministrativi diano loro ragione e che stabiliscano il reintegro immediato all’interno dell’Esercito e dell’Aeronautica. Di certo c’è un contenzioso amministrativo da affrontare, con tutte le incertezze annesse e connesse, perché il reintegro in servizio non segue automaticamente l’assoluzione». Nel frattempo resteranno senza soldi e senza lavoro. «Tra 60 giorni il giudice renderà pubbliche le motivazioni della sentenza – conclude Scafetta – Si tratta senza dubbio di un errore di superficialità commesso dalla Procura di Napoli». È normale? Siamo sicuri di poter chiamare “giustizia” un sistema che indaga e processa per anni e anni, distruggendo vite e carriere di indagati e imputati che vengono spesso e volentieri assolti? Il fatto non sussisterà, come nella formula assolutoria usata dal Tribunale di Napoli, ma di certo sussiste la facilità con la quale si passa dalla condizione di servitore dello Stato a quella di vittima della giustizia. Ed è piuttosto preoccupante.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Presunti pestaggi a Pavia: la gip annulla l’archiviazione. L’Associazione Antigone nell’ultimo rapporto ha pubblicato gli episodi di pestaggi e violenza in Italia dopo le rivolte di marzo 2020. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 maggio 2021. Potrebbero aprirsi nuovamente le indagini, molto più approfondite, in merito ai presunti pestaggi avvenuti nel carcere di Pavia dopo le rivolte di marzo 2020. L’esposto presentato dai detenuti, presunte vittime di pestaggi, era stato archiviato mesi fa. Ma arriva il colpo di scena: la giudice Valentina Nevoso ha annullato l’archiviazione suggerendo di fare ulteriori indagini. Esulta l’associazione Antigone che ha seguito il caso fin dall’inizio tramite l’avvocata Simona Filippi. L’esposto dei detenuti riguarda un pestaggio che avrebbero subito all’indomani della rivolta dell’8 marzo, quella che ha riguardato diversi istituti penitenziari. Secondo la loro ricostruzione gli agenti si sarebbero prima presentati nelle loro celle, verso le due di notte, per insultarli e minacciarli. Il giorno dopo alcuni detenuti sarebbero stati convocati nella saletta ricreativa della sezione, dove sarebbero stati picchiati.

Sono diversi i procedimenti per presunti pestaggi dopo le rivolte di marzo 2020. Non è da poco, visto che con l’annullamento dell’archiviazione rimangono ancora in piedi diversi procedimenti riguardanti i presunti pestaggi avvenuti in seguito alle rivolte di marzo dell’anno scorso che hanno coinvolto diverse carceri italiane. Come spiega l’avvocata Filippi di Antigone, gli esposti sono tutti in fase di indagini, ad eccezione del caso del carcere di Modena dove si registrarono nove morti e la procura ha chiesto di recente l’archiviazione. A questo punto, vale la pena elencare i diversi procedimenti aperti sui presunti casi di reato di tortura post rivolte. Per questo bisogna rispolverare l’ultimo rapporto di Antigone “Oltre il virus”, dove c’è una panoramica completa.

Da Milano a Foggia: tantissime le denunce di violenze. Partiamo da Milano. A marzo 2020, nel corso dell’emergenza pandemica, Antigone viene contattata da molti familiari di persone detenute presso il Carcere di Opera, a Milano. L’associazione riceve la segnalazione di violenze, abusi e maltrattamenti nei confronti dei propri familiari, che sarebbero stati così puniti per la rivolta che avevano portato avanti in precedenza nel primo reparto. A seguire Antigone ha presentato un esposto per tortura. Sempre nello stesso periodo, Antigone viene contattata dai familiari di diverse persone detenute presso il carcere di Melfi. Denunciano gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai propri familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, verso le ore 3.30. Come a Milano, si tratterebbe di una punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo 2020. Le testimonianze parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Durante le traduzioni non sarebbe stato consentito loro di andare in bagno. E sarebbero state fatte firmare loro delle dichiarazioni in cui attestavano di essere cadute accidentalmente. Ad aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per violenze, abusi e torture. Nel mese di aprile del 2020, invece, Antigone viene contattata da familiari di varie persone detenute presso il reparto “Nilo” della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere per denunciare i presunti abusi, violenze e torture che alcuni detenuti avrebbero subito nel pomeriggio del 6 aprile 2020, anche qui come ritorsione per la protesta del giorno precedente, che aveva fatto seguito alla notizia secondo cui vi era nell’istituto una persona positiva al coronavirus. I medici avrebbero visitato solo alcune delle persone detenute poste in isolamento, non refertandone peraltro le lesioni. A fine aprile 2020 Antigone ha presentato un esposto per tortura, percosse, omissione di referto, falso e favoreggiamento. A giugno 2020 la Procura fa notificare dai carabinieri avvisi di garanzia a 44 agenti di polizia penitenziaria indagati per tortura, abuso di potere e violenza privata. Agli atti dell’inchiesta ci sarebbero video che mostrano i pestaggi, detenuti inginocchiati e picchiati con i manganelli. A questi casi, aggiungiamo la vicenda del carcere di Foggia. Sempre a seguito della rivolta nel mese di marzo 2020. Ad occuparsi del caso è stata “La rete emergenza carcere” composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare. Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima del trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le drammatiche testimonianze, compreso la violenza che si sarebbe perpetuata nei confronti di un detenuto in carrozzina. Il procedimento risulterebbe ancora aperto.

Clamoroso errore giudiziario. Accusati di furto e truffa, 39 impiegati perseguitati per anni: ma era un errore del pc, tutti innocenti. Elisabetta Panico su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Trentanove responsabili di diversi uffici postali inglesi sono stati per anni perseguiti dalla legge con un’accusa da parte delle Poste, di furto e truffa. Alcuni di loro sono finiti in carcere per “essere colpevoli” di aver falsificato dati di bilancio. Tra il 2000 e il 2014, le Poste inglesi avevano denunciato più di 700 responsabili di diverse filiali delle Poste in Inghilterra a seguito di una carenza nei bilanci dei conti di diversi uffici. Dopo anni, le indagini di sono concluse. La colpa dei conti che non tornavano non era delle 39 persone ma del sistema informatico Horizon, che era difettoso. Annunciando la sentenza della corte, il giudice Holroyde ha detto che le Poste “sapevano che c’erano seri problemi circa l’affidabilità di Horizon e avevano il dovere di indagare sui difetti del sistema. Ma l’ufficio postale ha costantemente affermato che Horizon era robusto e affidabile e ha efficacemente ignorato qualsiasi direttore postale che cercasse di contestarne l’accuratezza“. Il primo ministro Boris Johnson ha twittato: “Accolgo con favore la decisione della Corte d’Appello di ribaltare le condanne di 39 ex direttori di filiali nella controversia Horizon, una spaventosa ingiustizia che ha avuto un impatto devastante su queste famiglie per anni“. Sebbene la giustizia nonostante diversi anni ha portato un risultato positivo scarcerando tutti gli ormai ex dirigenti, gli anni persi nessuno potrà mai ridarglieli. Ormai le loro vite sono state segnate da questo bruttissimo incidente e sarà difficile per loro tornare ad avere una vita del tutto normale. A Sky, alcune di queste 39 vittime hanno raccontato la loro storia. Tra queste, la signora Misra ha dichiarato che lei lavorava nel 2005 nel suo ufficio postale e proprio quell’anno era rimasta incinta. Nonostante la gravidanza, finì in prigione con l’accusa di aver rubato 75 mila sterline dalla sua filiale. Il giorno della sentenza era anche il 10 compleanno del suo primogenito. “Mi sarei sicuramente uccisa se non fossi stata incinta – ha detto davanti alle telecamere – sono crollata in tribunale quando ho sentito il verdetto finale della sentenza” che la condannava a 15 mesi in carcere. Misra ha affermato di aver perso la fede nella giustizia e che non c’è giustizia in questo mondo. “Se questa cosa è successa a me, non stiamo vivendo nel mondo giusto“. Harjinder Butoy, è stato condannato per furto e incarcerato per tre anni e quattro mesi nel 2008. Butoy lavorava a Nottingham e ha detto che le Poste gli anno rovinato la vita per ben 14 anni. L’uomo innocente, ha descritto il tutto con una semplice parola “vergogna”. Ha inoltre aggiunto il suo pensiero che ora chi deve essere punito sono i responsabili di questo scandalo “Sono solo bulli, questo è tutto ciò che sono. Qualcuno deve davvero risolvere la questione e accusarli per questo. Non può essere messo sotto il tappeto ora“. Chi invece ha festeggiato con una bella bottiglia di prosecco dopo che la sua condanna è stata annullata è stato Tom Hedges “E’ un pomeriggio meraviglioso”. Successivamente all’ultima sentenza che ha scarcerato e dichiarato innocenti i 39 ex dipendenti delle Poste, a rilasciare delle dichiarazioni sono stati sia il presidente dell’ufficio postale Tim Parker sia l’amministratore delegato Nick Read. Parker ha dichiarato di essere estremamente dispiaciuto per l’accaduto e per l’impatto che ha avuto questo scandalo sulla vita personale degli ex dirigenti e delle loro rispettive famiglie. Helen Pitcher, presidente della Criminal Cases Review Commission (CCRC) ha dichiarato: “Questo è stato un grave errore giudiziario che ha avuto un impatto devastante su queste vittime e sulle loro famiglie. L’ufficio postale ha giustamente riconosciuto i fallimenti che hanno portato a questi casi e ha ammesso che i procedimenti giudiziari erano un abuso di processo. Ci auguriamo sinceramente che si traggano lezioni da questo per evitare che qualcosa di simile accada altrove in futuro“.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia

Oltre mille giorni in carcere, una storia di ordinaria malagiustizia. Solo tredici chilometri rievocano un caso avvenuto all'inizio degli anni duemila in provincia di Bolzano, quando un innocente finì in carcere per 1041 giorni. Jimmy Milanese - Mar, 09/03/2021 - su Il Giornale. Un legal thriller da poco nelle librerie che, riavvolgendo i verbali del processo, si ispira a un fatto di cronaca nera capace di scuotere l'opinione pubblica altoatesina tra il 2001 e il 2004. In questa vera e propria ricostruzione storica c'è una ragazza vittima di violenza e brutale omicidio, un avvocato alle prime armi, un innocente finito in galera e un Procuratore della Repubblica di Bolzano che si fissa su una tesi accusatoria nonostante nel corso del procedimento giudiziario emergano sempre più elementi utili al proscioglimento dell'imputato. Alla fine, quell'uomo sconterà 1041 giorni di ingiusta detenzione per colpa di una ricostruzione del tutto inesatta della vicenda da parte di una magistratura inquirente intestardita sulle proprie tesi accusatorie. Le penne che scrivono Solo tredici chilometri - il titolo di questo romanzo edito da Edizioni Alphabeta - sono quella di Giovanni Accardo ma, soprattutto, quella di Mauro De Pascalis, ovvero l'avvocato che nella realtà difese l'imputato di San Candido ingiustamente detenuto per un sospetto infamante. Se Accardo è uno scrittore affermato in provincia di Bolzano, De Pascalis è un noto avvocato penalista con un recente passato politico da consigliere comunale nelle file del Partito Democratico che proprio all'inizio della sua carriera professionale fu protagonista di un duro scontro con gli inquirenti del caso di cronaca ora trasposto in un romanzo capace di tenere il lettore sul filo del rasoio fino all'ultima riga. "Il mio ufficio ritiene che quanto prodotto dalla difesa sia assolutamente irrilevante ai fini del presente processo", arriva a sostenere la Procura - si legge in un passo del romanzo - quando l'avvocato Marco De Vitis porta nel processo le prove dell'innocenza del suo assistito. Perché Martin Scherer, accusato dell'omicidio di Johanna Pichler, ritrovata senza vita con un indumento che aveva subito indirizzato le indagini verso un unico imputato, in realtà con quella ragazza ci aveva avuto ben poco a che fare. E sicuramente non l'aveva uccisa, visto che dalle varie testimonianze era chiaramente emerso come in questa storia si fossero alternate altre persone, tra le quali un camionista tedesco dal torbido passato sul quale la Procura però si era sempre rifiutata di compiere indagini. In “Solo tredici chilometri” non c'è la persecuzione della magistratura verso una parte politica, non ci sono gli intrighi di palazzo svelati recentemente dal caso Palamara, non c'è traccia di alcun tipo di nemico da combattere ma c'è di peggio, se possibile. Il romanzo mette in evidenza come nella vicenda giudiziaria che ha rovinato la vita a un uomo innocente il quale nel corso del processo mai cambiò la sua versione dei fatti, nonostante ci fossero indizi che portavano chiaramente a valutazioni di indagine a favore dell'imputato, per motivi sconosciuti la Procura decise di percorrere cocciutamente e a testa bassa la sua tesi accusatoria, fino alla confessione del vero omicida. Cinque i vani tentativi di chiudere il cerchio delle indagini da parte del PM Capizzi, nonostante la richiesta della difesa di aprire un altro filone d'indagine favorevole all'imputato e che individuava nel camionista tedesco un possibile sospetto. Proprio perché sarebbe compito del PM, con i suoi potenti mezzi investigativi, fare indagini a 360gradi, quindi anche a favore dell'imputato. Un procuratore che scopra qualcosa in favore della persona indagata non dovrebbe fare finta di niente, grida il romanzo, come invece accade quando la PM Capizzi decide di non prendere in carico altre line investigative, mancando di fare le adeguate ricerche su quel camionista che era stato visto parlare con una ragazza che poteva corrispondere alla descrizione di Johanna Pichler. Perfino di fronte alla richiesta degli ispettori tedeschi di ottenere dalla Procura il fascicolo dell'indagine, questa risponde che non se ne ravvisa la necessità, visto che il colpevole dell'omicidio Pichler è già stato assicurato alla giustizia. Insomma, se i colleghi germanici avevano sospettato che quel camionista tedesco già detenuto per reati simili potesse essere l'autore materiale del delitto Pichler, la procura bolzanina semplicemente decise che per loro le indagini erano terminate. Ma un imputato non può essere condannato se non al di là di ogni ragionevole dubbio, si ripete continuamente l'avvocato De Vitis che in qualche modo sperimenterà sulla sua pelle lo sbilanciamento tra il bazooka investigativo messo in campo dalla Procura per sostenere la sua tesi e le magre possibilità di difesa di un legale alle prime armi. Se si legge questo romanzo consapevoli del fatto che il narrato rappresenta una perfetta ricostruzione della vicenda di cronaca,è impossibile non rimanerne angosciati, perché quel Martin Scherer potrebbe essere noi, oggi o domani. Alla fine, come nella vicenda reale di cronaca, la sentenza decreterà l'estraneità totale dai fatti per Scherer, anche se nessun imputato esce del tutto innocente da un'aula di tribunale. Perché anche la sentenza di assoluzione più totale prevede una condanna: il tempo passato nella sua attesa. In questo caso, 1041 giorni e 1041 notti!

La storia. Vietati i funerali a mia madre perché sono pregiudicato: la sua colpa? Avermi messo al mondo. Rosario Giugliano su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Vi racconto la mia storia. L’inizio è triste, per colpa mia. Il seguito è lieto, per merito mio. Il finale è di nuovo triste, ma non per colpa mia. Sono nato a Poggiomarino, Napoli, nel 1961, in una modesta famiglia di lavoratori che, nonostante le difficoltà economiche dell’epoca, non hanno mai fatto mancare nulla né a me né ai miei fratelli, tre maschi e due femmine. Fin da piccolissimo il più “vivace” dei figli ero io e col passare degli anni questa mia vivacità mi ha creato non pochi problemi. Sono stato arrestato la prima volta a 14 anni. Il carcere minorile invece che attenuare la mia vivacità l’ha accentuata. Nei due anni successivi ho commesso parecchi altri reati, sicché, nel 1977, all’età di 16 anni, sono stato arrestato di nuovo. Alla fine ho cumulato una condanna a 20 anni. Ho passato i primi due anni nelle carceri minorili e avevo una vera e propria allergia alle regole. Raggiunta la maggiore età, sono stato trasferito a Poggioreale, quando regnava Cutolo. Allora si viveva in un clima di ostilità, c’erano le rivolte e le contrapposizioni anche fra detenuti. Ho ripreso a girovagare per le carceri e nell’84 arrivai all’isola di Pianosa, dove ci restai per cinque anni, finché un Magistrato di Sorveglianza, Margara, persona perbene, ha compreso la vita disastrata che avevo vissuto e mi ha dato un’opportunità che non valorizzai. Al primo permesso, non rientrai più in carcere. Dopo aver causato molte vittime, la latitanza finì una mattina di aprile del 1991. Iniziai subito una riflessione su quello che era stato il mio vissuto o il non vissuto. Ero consapevole che i miei giorni li avrei finiti in un carcere. Questo non mi spaventava, sapevo di cosa ero responsabile e mi assunsi le mie responsabilità. Mi fu tolto l’ergastolo e mi venne comminata una condanna a trenta anni. Ma ho continuato a girare le carceri di mezza Italia, sono stato anche al 41 bis dove ci sono rimasto per 13 anni. Proprio nelle catacombe del 41 bis, nonostante le angherie di quel regime, la mia riflessione e la voglia di cambiare si rafforzarono sempre di più. Una “luce” si era accesa nel mio animo. Essendo di estrazione cattolica mi piace pensare che dall’alto “qualcuno” abbia voluto prendermi per mano e accompagnarmi in una nuova vita. Nel 2008 sono stato declassificato e trasferito a Opera dove c’era uno spirito e un approccio diverso, c’era modo di farsi conoscere come persona. Ho partecipato a diversi progetti trattamentali, tra cui quello di giustizia riparativa, progetto che umanamente mi ha dato tantissimo. Iniziai a usufruire di benefici, prima i permessi, poi la semilibertà che per me significò riprendere a vivere. Con la mia compagna iniziammo a comporre quei tasselli di “normalità” che ci portarono prima a intraprendere una nostra piccola attività e poi, nel 2015, a coronare il sogno della nostra esistenza, la nascita di Alberto, creatura che ha travolto, in senso positivo e gioioso, la nostra vita. Purtroppo, nel dicembre del 2015, per una infrazione al piano trattamentale, tutto fu messo di nuovo in discussione, mi fu revocata la semilibertà, e iniziai a vedere la mia compagna e il mio piccolino una volta al mese. Mi sono dovuto ricalare di nuovo nella quotidianità del carcere che sono riuscito a sopportare grazie a Nessuno tocchi Caino che si è inventato i “laboratori del cambiamento” e quel capolavoro di Ambrogio Crespi che è stato il docufilm “Spes contra Spem”. Ora, da un anno sono un uomo libero con il solo vincolo della sorveglianza speciale. In conclusione, perché ho fatto questo scritto? Semplicemente per dire che in questo Paese, se sei stato un colpevole, e io lo sono stato, se sei stato giustamente condannato, se hai ho scontato la pena fino all’ultimo giorno, questo non basta. Nonostante la Costituzione, per la giustizia italiana io rimarrò, finché sarò in vita, un colpevole. Lo dico perché alcuni giorni fa, il 17 febbraio, dopo una vita di sacrifici e alcuni mesi di grande sofferenza, è venuta a mancare mia madre, una donna di altri tempi e cultura, che ha sacrificato la sua vita dedicandola a mio Padre e a noi figli, tra cui Carmine, affetto sin dalla nascita di una gravissima malattia per cui non ha mai parlato, camminato, capito praticamente nulla. Fortunatamente, tranne me, gli altri figli non le hanno mai dato dispiaceri, tutti hanno intrapreso una vita regolare affermandosi nei loro mestieri, mai nessuno di loro ha trasgredito le regole del vivere civile, mai un appunto, men che meno una denuncia o una multa. La pecora nera della famiglia sono stato solo io. Morta mamma, essendo io sottoposto ad una misura di sicurezza, ho fatto istanza al Tribunale di Napoli per poter stare qualche ora a casa, assieme ai miei fratelli, da mamma e poi partecipare in chiesa ai suoi funerali. Il Tribunale mi ha concesso il permesso di partecipare all’intera funzione, ma poche ore prima che iniziasse il rito, funzionari della Questura hanno comunicato ai miei familiari un provvedimento del Questore di Napoli, Alessandro Giuliano, che sospendeva il funerale: “essendo la mamma del pluripregiudicato Giugliano Rosario, per motivi di ordine pubblico non si poteva fare il rito funebre”. Ho subito comunicato alle autorità che avrei rinunciato a partecipare ai funerali purché mia mamma, una donna molto cattolica, potesse passare per la chiesa. Non c’è stato nulla da fare, il questore aveva deciso e nulla avrebbe fatto cambiare la decisione.

Fosse stato il mio funerale, avrei capito e per quando mi riguarda, quando arriverà il mio momento, possono anche farmi un fosso da qualche parte e finirla lì. Ma mia mamma, poverina! Pur non avendo mai infranto nessuna legge di questo Paese e mai resasi responsabile di alcun reato, tranne la colpa di avermi messo al mondo, è stata trattata come una delinquente. La morale è che in questo Paese chi sbaglia, indipendentemente dal percorso che poi ha intrapreso, rimane sempre colpevole. Comunque, a parte l’amarezza, il mio percorso me lo tengo stretto, perché ritengo oggi di essere una persona migliore. Non so se lo Stato, questo Stato senza grazia e senza pietà, può dire lo stesso di sé.

Il caso. Sotto processo per 3 anni viene assolto, ma intanto è stato licenziato…Viviana Lanza su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Per quasi tre anni ha vissuto come in un incubo: è finito sotto indagine e sotto processo e, dopo un’iniziale sospensione, è stato addirittura licenziato. Per uno che ha scelto di dedicare il proprio impegno al servizio dello Stato, indossando la divisa della Guardia di finanza con l’intento di contrastare l’illegalità, è stato come perdere qualcosa di più del lavoro. Carlo (il nome è di fantasia per rispettare la richiesta di privacy del protagonista di questa storia) era accusato di truffa aggravata. E ieri la sentenza passata in giudicato ha consolidato la sua assoluzione con la formula più ampia: perché il fatto non sussiste. I giudici del Tribunale militare di Napoli hanno condiviso appieno la tesi difensiva dell’avvocato Antonio La Scala. Il castello accusatorio edificato dagli inquirenti è crollato del tutto, sgomberando il campo da ogni possibile dubbio sulla condotta assunta dall’appuntato della Guardia di finanza. La sentenza ha restituito dignità a Carlo e a breve dovrebbe restituirgli anche il suo lavoro, visto che ora che è stato assolto potrà fare richiesta di essere reintegrato nelle Fiamme gialle. Resta, tuttavia, l’interrogativo che storie come questa ripropongono e lo sconcerto di fronte al pensiero di come una vita personale e professionale possa essere stravolta per un sospetto relativo a un fatto che alla fine «non sussiste». Perché così recita la formula utilizzata per sentenziare l’assoluzione, «il fatto non sussiste». La sentenza è ora passata in giudicato. La Procura non ha impugnato il verdetto. La vicenda giudiziaria si chiude qui. Era nata nel 2018, dopo una denuncia in base alla quale Carlo avrebbe beneficiato dei permessi previsti dalla legge 104 senza utilizzarli per accudire l’anziana madre malata di Alzheimer. Di qui le indagini e i sospetti, il trasferimento a un altro ufficio, poi la sospensione dal suo incarico lavorativo e infine il licenziamento. E con tutte le conseguenze che ciò può avere nella vita di chi vive del proprio lavoro. La vita personale e professionale è stata stravolta dalla vicenda giudiziaria. Difeso dall’avvocato Antonio la Scala, Carlo ha sempre respinto le accuse. Trattandosi di un appuntato della Guardia di finanza, il processo si è svolto dinanzi al Tribunale militare. Il rito è stato snello, i tempi sicuramente meno biblici di quelli della giustizia ordinaria ma in ogni caso la vita dell’imputato è stata passata sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti prima e dei giudici poi. Sono stati passati al setaccio gli spostamenti di Carlo, le sue assenze dal lavoro, le cure prestate alla madre anziana e malata di Alzheimer. E tutto sull’asse Napoli-Caserta, perché la madre dell’appuntato risiede nel Casertano e lui lavorava a Napoli. E pensare che era stato proprio un Tribunale a nominare Carlo amministratore di sostegno della madre, indicandolo dunque come persona in grado di occuparsi delle cure di cui aveva bisogno l’anziana. Carlo è stato messo sotto indagine dai suoi colleghi. Addirittura, in uno dei giorni finiti al centro dell’inchiesta, l’appuntato si trovava in ufficio per una richiesta da protocollare. Errore giudiziario, si direbbe per definire questa vicenda. Una storia di giustizia che arriva dopo che la vita del protagonista è stata intanto stravolta, messa ai raggi X, costretta a una deviazione non naturale. Una storia che rientra in quel 40% di assoluzioni che ogni anno concludono cicli di indagini e di processi.

Odissea giudiziaria a Palermo. Rubò un paio di scarpe da 20 euro, assolta dopo 8 anni di processo. Giorgio Mannino su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Quasi tre anni di indagini, otto di processo e decine di udienze ovviamente tutte a carico dei contribuenti. Sembra il procedimento penale del secolo. Ma gli accusati non sono assassini, mafiosi o corruttori, bensì una signora che ha tentato di rubare in un centro commerciale un paio di scarpe dal valore di 19,99 euro. Incredibile ma vero. È l’ennesima storia che definisce i contorni di una giustizia schizofrenica. Troppo spesso lenta, macchinosa, capace però di tirare fuori le unghia, senza pietà, con i più deboli. La rappresentazione plastica del sistema giustizia ingolfato da processi come questi che non dovrebbero neanche essere istruiti. Condannata in primo grado a un mese di reclusione e al pagamento di 50 euro di multa, pochi giorni fa Maria (il nome è inventato) è stata assolta dalla Corte d’Appello per “la particolare tenuità del fatto”. Il prezzo pagato, però, è stato altissimo: «La giustizia nel nostro paese funziona molto male», dice Maria. «Io ho commesso – continua – un errore, ne sono consapevole e mi sono sin da subito pentita. Ma quello che mi ha causato più dolore è stato non poter più vivere con tranquillità. La mia vita è stata condizionata. Non ho potuto presentare domanda, a causa dei carichi pendenti, a diversi concorsi pubblici, ho rinunciato a una candidatura in politica. Psicologicamente è stato frustrante. Nonostante tutto continuo a credere nella giustizia ma molte norme vanno cambiate e la legge va applicata in modo corretto». L’odissea di Maria, al tempo 32 anni, inizia il 24 maggio 2013. Siamo a Palermo, quartiere San Filippo Neri. La donna – incensurata con un lavoro part-time e ragazza madre di un figlio allora minorenne – esce dal negozio "Pull&Bear" sito all’interno del centro commerciale Conca d’Oro. All’uscita scatta l’allarme: Maria viene bloccata dal titolare e, subito, in lacrime tira fuori dalla borsa il paio di scarpe che aveva tentato di rubare. Valore 19,99 euro. Maria riconsegna la merce e, vergognatasi del gesto, è pronta a pagarla. Il titolare del negozio, però, denuncia il tentato furto ai carabinieri. Che, ovviamente, contestano il reato per il quale si procede d’ufficio. I pezzi del mosaico sono tutti al loro posto: le scarpe sono state restituite, la donna ha confessato, non ci sono indagini da fare. Eppure il pubblico ministero tiene aperto il fascicolo per quasi tre anni. Si arriva così a ottobre 2016. «Il pm – spiega l’avvocato Mauro Barraco, legale della donna – aveva due possibilità: avanzare richiesta d’archiviazione per particolare tenuità del fatto in quanto nel 2015 era entrata in vigore una norma che prevede l’assoluzione quando un soggetto incensurato, non abituale a commettere reati, commette un reato che non desta allarme sociale e la cui pena non supera i cinque anni. Una norma utile a evitare ingolfamenti al sistema giustizia per reati bagatellari. Oppure chiedere il rinvio a giudizio». È stata scelta la seconda opzione. La prima udienza di un processo surreale inizia il 12 maggio 2017. «Per far sì che la mia cliente rimanesse incensurata – spiega Barraco – decidiamo di chiedere la messa alla prova. Di farle svolgere, dunque, un programma di tre mesi di volontariato per riabilitare la propria posizione. Il tribunale, invece, ha ritenuto che questo programma svolto per tre mesi fosse troppo blando e ha così emesso un’ordinanza spiegando che il programma sarebbe dovuto durare almeno un anno». Per Maria è impossibile accettare un anno di servizi sociali. Avrebbe perso il posto di lavoro, ma soprattutto non avrebbe potuto seguire al meglio il figlio. La donna non dà il consenso e viene giudicata in abbreviato. Nonostante la richiesta d’assoluzione per tenuità del fatto supportata da molte altre sentenze della Cassazione che hanno assolto protagonisti di casi molto più gravi, Maria il 6 novembre 2019 viene condannata in primo grado a un mese di reclusione e al pagamento di 50 euro di multa. Il pm, addirittura, aveva chiesto una pena di quattro mesi di reclusione e 200 euro di multa. Nelle motivazioni della sentenza il giudice sottolinea la sussistenza del reato di tentato furto e l’aggravante di “aver commesso il fatto – scrive – su cose esposte per necessità alla fede pubblica” e che “il valore economico della merce sottratta (19,99 euro, ndr), per quanto modesto, non può considerarsi di entità irrilevante e pertanto non consente di applicare la particolare tenuità del fatto». La giustizia, però, arriva in ritardo con la Corte d’Appello che, lo scorso 9 febbraio, accoglie la tesi della difesa dichiarando il fatto “non punibile”. «Ci sono situazioni incomprensibili – dice Barraco – a partire dal fatto che certi fascicoli che non richiedono indagini rimangano sul tavolo del pm così tanto tempo. La magistratura inquirente non ha accolto la norma del 2015. Secondo alcuni pm questa norma consente una sorta d’impunità. Ma intanto esiste e non si può decidere di non applicarla».

Quei politici assolti dopo 10 anni di gogna: «Ma non frega a nessuno». Simona Musco su Il Dubbio il 7 febbraio 2021. L’incubo di 13 ex consiglieri regionali del Lazio finisce con un’assoluzione piena. L’ottava sezione collegiale di Roma ha fatto cadere mercoledì scorso le accuse perché il fatto non sussiste. Un processo mediatico. Una gogna durata otto anni, per aver assunto il personale a chiamata diretta. L’incubo di 13 ex consiglieri regionali del Lazio finisce con un’assoluzione piena. L’ottava sezione collegiale di Roma ha fatto cadere mercoledì scorso le accuse, con la formula perché il fatto non sussiste, per l’ex capogruppo del Pd ed attuale sindaco di Fiumicino, Esterino Montini, per l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre, per l’attuale deputato Pd Claudio Mancini, per vicesegretario del Pd Enzo Foschi, Marco Di Stefano e Claudio Moscardelli e altri consiglieri. L’indagine riguardava fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. «Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?», ha dichiarato Astorre, che ha ricordato la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici. Anche da parte del M5s, oggi alleato del Pd e alle prese, esso stesso, con le indagini a carico dei propri amministratori. Come Virginia Raggi e Chiara Appendino, quest’ultima condannata per i disordini in piazza San Carlo. «Se fossi stato un sindaco avrei firmato anche io in sua difesa», ha sottolineato Astorre, in un lungo intervento su Facebook, col quale ha contestato i tempi del processo, lunghi in maniera irragionevole, nonostante «io non abbia messo messo in atto alcuna tecnica dilatoria». Ma nonostante ciò di Astorre e gli altri hanno dovuto attendere quasi un decennio per poter avere una sentenza. Il senatore dem lo ha annunciato in diretta: si batterà per una giustizia più giusta. Anche contro la riforma della prescrizione voluta dagli alleati del suo partito. Ma non solo: il senatore ha anche sottolineato la barbarie della gogna mediatica, gli attacchi subiti a mezzo stampa anche da parte di grandi firme, «che hanno costruito una carriera» sulle vicende giudiziarie a carico degli altri, ribadendo che «un avviso di garanzia non può essere percepito come una condanna». Un appello al mondo dell’informazione nel quale lo stesso Astorre crede poco: da domani, ha sottolineato, toccherà a qualcun altro subire la stessa tortura mediatica, fino a sentenza passata in giudicato e anche oltre. Astorre ha descritto i dieci anni sotto processo come un periodo di tempo lungo e difficile, tale da precludere possibilità e occasioni, ma anche capace di deteriorare i rapporti umani. «Non è stata tanto dura difendersi nel processo – ha sottolineato -, anche se sono stati 8 anni, con un dispendio economico anche importante». L’aspetto più grave, ha sottolineato, sono stati «gli attacchi mediatici, gli avversari scatenati, la freddezza da parte della comunità, la stampa scatenata». Ed è stato durissimo, ha sottolineato, far riportare la notizia dell’assoluzione, una difficoltà inversamente proporzionale alla facilità con la quale, una volta ricevuto l’avviso di garanzia, è stato «condannato» dal tribunale della stampa, che non ha risparmiato epiteti e facili slogan. «Se si viene rinviati a giudizio – ha evidenziato – allora si va incontro ad una condanna eterna e del processo non frega più niente a nessuno. Mi batterò sempre contro questa situazione, perché chi fa l’amministratore pubblico può sempre finire in vicende giudiziarie» . Non c’è stato, dunque, alcun illecito nelle nomine dei collaboratori assegnati al gruppo consiliare del Pd e ai singoli consiglieri negli anni 2011/ 2012. Tutto legale, tutto tracciato, tutto secondo legge. «Nel corso dell’istruttoria dibattimentale – ha evidenziato Astorre – è stata dimostrata l’assoluta infondatezza del reato di abuso d’ufficio contestato anche al sottoscritto, allora vice presidente del Consiglio Regionale, come sostenuto dall’avvocato Alicia Mejía Fritsch che ringrazio. Con questa sentenza il Tribunale riconosce che la nomina dei collaboratori del gruppo è di natura fiduciaria». I collaboratori potevano infatti essere assunti direttamente dal gruppo consiliare e la legge, contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura, non prevedeva l’obbligo di ricorrere al personale interno della Regione o della Pubblica Amministrazione. Soddisfatto anche l’ex senatore ed attuale sindaco di Fiumicino Esterino Montino. «Sono sempre stato fiducioso – ha evidenziato in un post su Facebook -, ma non nascondo che ho aspettato con ansia la conclusione di questo processo durato tanti anni. La sentenza ha ristabilito l’ordine vero delle cose: il gruppo di allora del Pd alla Regione Lazio aveva solo fatto il proprio dovere lavorando in totale trasparenza e onestà. Mi hanno amareggiato le tante polemiche, anche molto velenose che, purtroppo, sono nate anche al nostro interno e che qualcuno ha pensato di utilizzare per farsi spazio nel partito. Ringrazio l’avvocato Antonio Andreozzi per l’eccellente lavoro svolto fino ad oggi. Ora si apre una fase nuova, per me e per la mia famiglia che si libera di un peso portato per tanto tempo. Continuerò a lavorare con la passione e l’onestà che hanno sempre guidato la mia azione politica e di amministratore» .

Titti Beneduce per corriere.it il 5 febbraio 2021. Un anno fa, a Napoli, non si parlava d’altro: il caso del professore dell’Accademia di Belle arti accusato di abusi su un’allieva teneva banco su siti, televisioni, giornali. Un anno dopo (nel frattempo lui, sottoposto a un formidabile stress, si è dimesso) arriva la conferma di quello che i suoi avvocati hanno sempre sostenuto: non c’è stata alcuna violenza, si trattava di un rapporto tra persone adulte consenzienti. Quell’accusa di violenza sessuale nei confronti del professor Stefano Incerti (56 anni, regista e sceneggiatore pluripremiato) è stata archiviata. Per questo oggi, per la prima volta, il Corriere del Mezzogiorno fa il suo nome. Va detto che, approfondendo altre denunce sporte da studentesse dopo il clamore mediatico, il pm Cristina Curatoli, che indaga con il coordinamento dell’aggiunto Raffaello Falcone, ha ritenuto che Incerti si sia reso responsabile di violenza nei confronti di un’altra studentessa: l’avrebbe palpeggiata all’uscita di un’aula dopo una lezione; si tratta di un episodio che risale al 2015. Ad un altro docente, Salvatore Crimaldi, di 60 anni, viene mossa un’analoga contestazione nei confronti di un’altra allieva; l’avrebbe palpeggiata mentre realizzava un disegno durante la lezione di Arte. Ad entrambi è stato notificato nelle scorse ore un avviso di chiusura delle indagini preliminari. Gli avvocati Lucilla Longone e Maurizio Sica, che assistono Incerti, ritengono di riuscire, documenti alla mano, a dimostrare l’insussistenza delle accuse anche in questo caso.

«Additato come un mostro». Archiviata l’accusa che gli pesava addosso come un macigno, Incerti finalmente parla: «L’anno scorso ho subìto un attacco personale senza precedenti attraverso i social e la televisione. Sono stato additato come il mostro dell’Accademia. Il forte stress psicologico mi ha addirittura costretto a dimettermi, ingiustamente. Oggi si è finalmente scritta la verità: tutte quelle accuse di molestie verso le mie studentesse e di favori sessuali in cambio di esami, artatamente proposte e riproposte dai media, erano assolutamente infondate; così come si è rivelata falsa quella più grave e pesante di violenza sessuale. Quest’accusa pesantissima, più volte richiamata per screditare il mio lavoro, è stata definitivamente archiviata, grazie al lavoro dei miei difensori e della magistratura. Adesso che le indagini sono finalmente chiuse ed ho provato che di quelle tante accuse nessuna era vera, dimostrerò l’infondatezza anche di quest’ultimo episodio, riprendendomi finalmente la mia dignità di uomo, professore e regista». Un episodio, come detto, che risale al 2015, che tra breve sarà prescritto e a proposito del quale, secondo la difesa, a Incerti la Procura non ha dato la possibilità di riferire. Nei prossimi giorni gli avvocati torneranno alla carica per consegnare agli inquirenti documenti che, a loro avviso, potrebbero evitare il rinvio a giudizio.

Il clamore mediatico. Si sgonfia, dunque, il caso che tra febbraio e marzo dello scorso anno avvelenò l’Accademia di Belle arti: contro il professor Incerti furono organizzate manifestazioni di protesta e petizioni, furono affissi striscioni e proclamati scioperi. Tuttavia la studentessa che aveva denunciato la presunta violenza non in Procura, ma alla Consulta degli studenti, all’allora direttore Giuseppe Gaeta aveva ammesso che con Stefano Incerti intratteneva una relazione. Gaeta emise un richiamo formale nei confronti del docente, chiedendogli di avere un atteggiamento più adeguato e di evitare comunicazioni improprie con gli allievi. Dopo l’avvio dell’inchiesta e il clamore mediatico durato per settimane, gli avvocati difensori del docente esibirono in Procura numerosi messaggi di testo e audio, corredati da immagini e filmati, dai quali si evinceva appunto che tra il professore e la studentessa esisteva una relazione affettiva consolidata e che ciascuno dei due contattava l’altro per chiedere di incontrarsi. Solo in un secondo momento la giovane ritenne di avere subito atti di violenza.

Tra giudice e avvocata era amore. Ma su di lei è scattata la gogna. Simona Musco su Il Dubbio il 4 febbraio 2021. La sentenza di Salerno: nessuna corruzione, tra il giudice Petrini e l’avvocata Tassone solo un rapporto sentimentale. «Nel contesto di una stabile relazione sentimentale», le prestazioni sessuali devono «considerarsi connotate da reciprocità, per cui non si comprende perché solo l’una delle parti debba considerarsi averle prestate in favore all’altro». Le considerazioni del giudice Vincenzo Pellegrino sono chiare: non è dato sapere perché, nonostante una coppia sia composta da due persone, solo ad una di esse venga contestato di aver utilizzato il proprio corpo per ottenere qualcosa in cambio. E non c’è nemmeno bisogno di spiegarlo: quell’unica persona accusata di essersi svenduta è una donna. La premessa è d’obbligo per inquadrare una vicenda dai connotati grotteschi, perché da fatto di cronaca giudiziaria si è trasformata in vero e proprio gossip. Fino alle sue degenerazioni più bieche, tali da distruggere la figura professionale di un’avvocata, rea soltanto di essersi innamorata. Si tratta di Marzia Tassone, giovane professionista del foro di Catanzaro, indagata nell’inchiesta “Genesi”, al centro della quale c’è l’ex presidente della Corte d’Appello di Catanzaro, Marco Petrini. Il 23 novembre scorso, l’ex magistrato è stato condannato a 4 anni e 4 mesi in abbreviato per corruzione in atti giudiziari, sentenza che ha escluso l’ipotesi, formulata dalla procura di Salerno – competente per i reati compiuti dai colleghi di Catanzaro -, di aver favorito la ‘ndrangheta. Piuttosto, assieme agli altri coimputati, «ha agito per fini squisitamente personali». Un tornaconto che nulla ha a che fare con clan e boss, quanto, piuttosto, con l’ingordigia. Ma tra le 156 pagine che compongono la sentenza un pezzo è dedicato anche a lei, l’avvocata Tassone. Nonostante il suo iter giudiziario sia ancora tutto in divenire, un pezzo delle contestazioni a lei mosse in concorso con Petrini si riversa anche in questo processo, dal quale è emerso che Petrini non favorì la donna con la quale ha intrattenuto, per un periodo di tempo, una relazione sentimentale. Secondo la procura di Salerno, Tassone avrebbe sfruttato la propria relazione con il giudice per ottenere aiuto in alcuni processi. Un fatto che non sussiste, stando alla sentenza. Gli episodi contestati sono tre. Per due – una promessa d’aiuto per la difesa di un imputato e alcuni suggerimenti forniti da Petrini all’avvocata in vista di un’udienza davanti al Riesame -, secondo il giudice «è di evidenza l’insussistenza del delitto contestato», in quanto quei processi non solo «non erano trattati da Petrini», ma neppure «erano pendenti presso l’Ufficio» di cui Petrini era presidente, per cui «non è dato comprendere quale atto del proprio ufficio l’imputato avrebbe offerto in corrispettivo al mercimonio sessuale». Inoltre mai Petrini avrebbe promesso di intervenire per «veicolare una soluzione favorevole agli assistiti di Tassone», come provano anche le intercettazioni. Ma non solo: il magistrato aveva invitato la donna a partecipare ad un concorso per funzionario giudiziario, suggerendole, tra il serio e il faceto, di continuare ad arrotondare facendo l’avvocato, cosa vietata dalla legge, suggerimento di fronte al quale la donna ha reagito malamente. La terza contestazione riguardava, invece, il rigetto di utilizzare i verbali di un pentito in un processo che vedeva Tassone tra i difensori di uno degli imputati. Verbali alla cui acquisizione, però, Tassone non si era mai opposta e che risultavano ininfluenti, in quanto il collaboratore avrebbe potuto riferire soltanto su fatti successivi al periodo di contestazione. Ma, soprattutto, proprio in quel periodo, Tassone e Petrini avevano interrotto momentaneamente la relazione, «a causa di problematiche prettamente “personali”» . Il dato sociologico emerge tra le righe della sentenza. Emerge la condanna, per quanto sottile ed educata, al pregiudizio che ha travolto Tassone, costretta a fare i conti con i commenti, le accuse e gli insulti, come se il centro di tutta l’inchiesta fosse lei. Come se la sola responsabile di quella relazione fosse lei. E come se provare un sentimento fosse un reato. Il giudice, infatti, sottolinea che quello tra i due era un «rapporto sentimentale ( almeno da parte della donna)», iniziato da almeno due anni e andato avanti tra alti e bassi. E tutto ciò che c’era tra loro era questo, sentimento: «Tassone aveva subito il fascino intellettuale del magistrato cui aveva chiesto consiglio, o meglio un confronto, su temi giuridici ma sempre in relazione a procedimenti che non gli erano assegnati, che neppure pendevano davanti alla Corte di appello di Catanzaro e rispetto ai quali Petrini mai aveva promesso alcuna forma di intervento né diretto né indiretto». Difficile capire come la vita privata della stessa sia finita, dunque, alla mercé dell’opinione pubblica, che mai ha mostrato indulgenza per l’intimità violata di una donna, allo stato dei fatti, ancora innocente. Ma il giudice riporta il rapporto tra i due ad una parità sostanziale. Perché quanto accadeva tra quell’uomo e quella donna era «reciproco». E il loro rapporto sentimentale e intimo, esistente da tempo, esclude «la possibilità stessa di degradare la concessione sessuale dell’una a “indebita utilità” percepita dall’altro; di individuare gli elementi integrativi di un mercimonio; di stabilire un collegamento sinallagmatico e/ o motivo, quale che sia, tra prestazioni sessuali ( che, si ripete, nel contesto di una stabile relazione sentimentale devono considerarsi connotate da reciprocità) e sviamento della funzione giuridica». Era solo amore. Almeno per lei.

·        Adolfo Meciani.

Meciani, ucciso da stampa, giudici e intellettuali. Simona Musco su Il Dubbio il 31 gennaio 2021. Il 31 gennaio 1969 sparì il piccolo Ermanno Lavorini, il cui corpo venne ritrovato a marzo senza vita sul lungomare di Viareggio. Giornali e polizia iniziarono una caccia all’uomo fino a che non individuarono in Adolfo Meciani il “mostro” ideale. Processato e condannato dalla stampa perché gay, si uccise in carcere con una corda collo. Era innocente. Un ragazzo vestito di bianco e di ruggine, scrive il giornalista Carlo Laurenzi quando il corpo di un ragazzino viene ritrovato sepolto nelle dune della pineta di Marina di Vecchiano. È il 9 marzo 1969 e quel ragazzo, Ermanno Lavorini, 12 anni e boccoli biondi, lo cercano ormai da due mesi. Lo hanno rapito e ucciso e all’inizio nessuno capisce perché. Una telefonata a casa reclama un riscatto di 15 milioni al padre commerciante di stoffe. Inutile, perché Ermanno muore lo stesso giorno in cui lo portano via, il 31 gennaio di 52 anni fa, 10 minuti prima di quella telefonata. Ed è il primo bambino della storia italiana ad essere rapito. È una storia con tante vittime, quella del piccolo Ermanno. E lui, quel bimbo, è la prima. Le altre vite rubate sono quelle degli uomini dati in pasto alla folla, ai giornali, colpevoli solo di essere «capovolti». Li chiamano così, sulla carta stampata, gli omosessuali. A caratteri cubitali, marchiati a fuoco. Le altre vittime sono Adolfo Meciani, ucciso dalla vergogna e dalla disperazione dopo una brutale aggressione mediatica, e Giuseppe Zacconi, a cui si ferma il cuore per il peso dell’umiliazione. Quella tragica giornata inizia con Ermanno che dopo pranzo inforca la bici rossa ricevuta a Natale per andare al luna park. È l’ultimo venerdì di gennaio e il ragazzino promette a sua madre di rimanere fuori solo un’ora. Ma arriva la sera ed Ermanno ancora non si è fatto vivo. Sono quasi le 18 e la tensione in casa viene spezzata dal suono del telefono. Marinella, la sorellina, alza la cornetta: «Ermanno non tornerà a casa, anzi ritorna dopo cena scandisce la voce di un uomo – Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia». Le forze dell’ordine annaspano fino a quando, poche settimane dopo, un maresciallo dell’Aeronautica, passeggiando sulla spiaggia, vede delle macchie di sangue e il corpo senza vita di Ermanno spuntare dalla sabbia. Non si capisce cosa gli sia capitato, ma è vestito e non ci sono segni di abusi. Gli investigatori provano a far quadrare le cose, sentono gli amici del ragazzino e arrivano a tre sospettati: Marco Baldisseri, 16 anni, Rodolfo Della Latta, becchino, detto Foffo, 20 anni, e Andrea Benedetti, detto “Faccia d’angelo”, 14 anni. Sono tutti estremisti di destra, iscritti al Fronte monarchico giovanile. Ragazzi scapestrati, che si vendono agli omosessuali della pineta e che, piano piano, uno dopo l’altro, crollano. Prima Baldisseri, poi Foffo, poi Benedetti. Marco dice di aver litigato con Ermanno, di averlo colpito con un pugno e averlo visto morire. Omicidio «per futili motivi», caso chiuso, dice alla stampa il 20 aprile il colonnello De Julio. Ma non è chiuso affatto e lo scandalo scoppia presto fragoroso. Marco prende in giro gli inquirenti, accusa decine di persone, cambia versione cento volte. Incolpa perfino suo padre, poi se stesso, poi parla di droga e orge. La pineta è il luogo in cui si incontrano «gli invertiti». E allora non ci vuole molto a formulare l’equazione omosessuali uguale pedofili. Si indaga nel «mondo degli anormali», scrivono i giornali, abitanti di una «oscena, lurida, Sodoma». L’assassino altro non sarebbe che un «pederasta viareggino» con la maschera di uomo rispettabile. Un omosessuale, «un mostro». Alle etichette, ben presto, si sostituiscono i nomi, dettati da Baldisseri. Il primo è il figlio dell’attore Ermete Zacconi, Giuseppe, proprietario del cinema Eden, costretto calarsi i pantaloni davanti ai poliziotti per dimostrare di essere impotente dalla nascita e, dunque, innocente. Pochi mesi dopo, nel 1970, stremato dagli interrogatori, il suo cuore si ferma. «Mi hanno tolto la merda di dosso – dice – ma il puzzo è rimasto». Incolpa anche il sindaco della giunta socialista di Viareggio e il presidente dell’azienda di soggiorno, poi scagionati. E tocca infine ad Adolfo Meciani, ricco e affascinante titolare di stabilimenti balneari di Viareggio, fama di latin lover e un segreto dentro. Ha una moglie, dei figli e un alibi. Ma frequenta la pineta di Marina di Vecchiano, dove, dice Baldisseri, «rimorchia i ragazzini», compreso Ermanno, «drogato, spogliato e ucciso con un’iniezione endovena». Adolfo cade in depressione, perde 10 chili e finisce in clinica. «Dopo la scomparsa di Lavorini – scrivono i medici – è subentrata in lui, ossessionante, la paura che questa sua tendenza ( l’omosessualità, ndr) potesse essere resa palese, che lo sapesse la moglie, che venissero rovinati reputazione, matrimonio, figlio». Non dorme, viene divorato dall’ansia e dalla depressione. In 25 giorni subisce sette elettrochoc. E intanto, fuori, la stampa se la prende con gli «immondi» omosessuali, da L’Espresso al Borghese. Adolfo con Ermanno non c’entra nulla, ma non riesce ad attendere. Finisce in carcere più volte, rischiando anche il linciaggio davanti alla caserma dove viene interrogato. Terrorizzato e umiliato, in una cella a Pisa decide di dire basta. Strappa un lenzuolo, lo assicura al termosifone, lo lega al collo e si impicca. Rimane in coma qualche giorno prima di morire. E sua moglie, al funerale, indosserà l’abito da sposa. È un giornalista, Marco Nozza, ad accorgersi che Baldisseri porta al bavero un simbolo monarchico. È il giovane cassiere del Fronte giovanile, il cui segretario è Pietro Vangioni, militante di destra. La sede viene improvvisamente smantellata, le carte scompaiono. Ma Baldisseri gli punta il dito contro: «è stato Vangioni a organizzare il rapimento, avremmo dovuto estorcere dieci, quindici milioni ai Lavorini e quindi uccidere Ermanno», con lo scopo di finanziare alcune attività eversive. Ed è questa la verità consegnata alla storia, nel 1977, con una sentenza definitiva di condanna: 8 anni e sei mesi a Baldisseri, 11 anni e 10 mesi a della Latta, 9 anni a Vangioni, poi tutti condonati di due anni. Ma nessuno, a parte Nozza, scrive più nulla. «Finché c’erano da raccontare i particolari morbosi, fin quando il movente pareva sessuale, tutti a scrivere, a commentare, a stigmatizzare – scrive -. Ma quando venne fuori la squadraccia del Fronte, l’interesse si sgonfiò».

·        Alessandro Limaccio.

Alessandro Limaccio, il sociologo detenuto che urla la sua innocenza ed è in cella dal 1995. Valentina Stella su Il Dubbio il 2 febbraio 2021. Alessandro Limaccio, 4 ergastoli ostativi per 5 omicidi, è il primo recluso italiano che ha conseguito un dottorato di ricerca. Alessandro Limaccio, siciliano di Lentini, è in carcere dal 1995, da quando aveva 23 anni, condannato a quattro ergastoli ostativi per cinque omicidi dei quali si è sempre proclamato innocente, anzi estraneo. Sociologo, nel 2018 è stato insignito del Premio Nazionale alla cultura “Sulle ali della libertà”, con l’Alto patrocinio del Presidente della Repubblica. È il primo detenuto in Italia ad aver conseguito un dottorato di ricerca dietro le sbarre ed è anche il primo a rifiutarsi di chiedere i permessi per poter proclamare con più forza la sua innocenza. Ora è in libreria con «Il sociologo detenuto – Una storia Etnografica» (Herald Editore, collana Quaderni del carcere, pag. 178, euro 15) in cui realizza un resoconto etnografico dei suoi anni in carcere.

Un racconto di sofferenza. Se per la Treccani l’etnografia è la «Rappresentazione scritta delle forme di vita sociale e culturale di gruppi umani», per il nostro autore «non è mai un semplice elenco di cose viste e sentite, ma è una più o meno complessa operazione di scrittura, una modalità di presentazione dei dati, che siano in grado di produrre non soltanto etnografia di una determinata cultura, ma anche etnografia di un incontro di culture (quella del sociologo e quella che quest’ultimo vuole studiare), attraverso un rapporto dialogico, interattivo, interpretativo e riflessivo». Detta in maniera più semplice il libro «descrive le mie esperienze sul campo: le pagine che seguono sono un racconto di sofferenza, determinazione, angoscia, coraggio, speranza e fede». Già, quella speranza che lui non perde pur avendo un “fine pena mai” che, come ricorda il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma nella nota introduttiva al libro, rappresenta «una “pena capitale” così come Luigi Ferrajoli l’ha definita poiché – egli scrive – “cambia radicalmente la condizione esistenziale del detenuto, il suo rapporto con sé stesso e con gli altri, la sua percezione del mondo, la sua raffigurazione del futuro. Pena capitale nel duplice senso: perché è una privazione di vita e non solo di libertà, una privazione di futuro, un’uccisione di speranza».

Un ragazzo di sana famiglia e attivista della Democrazia cristiana. Ma chi è Alessandro Limaccio? Impariamo a conoscerlo in un racconto nel racconto grazie all’introduzione di Enrico Rufi, storica voce notturna di Radio Radicale: « Io ho conosciuto Alessandro tre anni e mezzo fa. Volevo abbracciare le persone che pochi mesi prima dal reparto G8 del carcere di Rebibbia, qui a Roma, avevano scritto una fraterna lettera di vicinanza e consolazione alla mamma, alla sorella e al papà (Rufi, ndr) dell’unica ragazza che non era tornata dalla Giornata Mondiale della Gioventù», per una meningite fulminante. Rufi crede profondamente nell’innocenza di Alessandro, ragazzo di sana famiglia che credeva nelle istituzioni, lontanissimo da contesti mafiosi, e attivista della Democrazia cristiana; «eppure le gesta criminali che gli vengono attribuite fanno di lui non un killer assoldato all’occorrenza, un comodo insospettabile “monouso” per così dire, ma un picciotto regolarmente inquadrato nei ranghi di un clan mafioso». Ed è così che becca quattro ergastoli ostativi che secondo il giornalista di Radio Radicale sono la conseguenza di una vendetta di un marito tradito «che aveva subito l’umiliazione di veder la moglie quarantenne scappare con quel ventenne aitante e intraprendente, lui che era uno degli uomini più potenti nelle istituzioni a Catania». A ciò devono aggiungersi: «Telefonate anonime, voci confidenziali, pentiti, pseudopentiti, ma anche giudici ricorrenti e intercambiabili. Si prenda Francesco Aliffi: giudice a latere nella Corte d’Assise di Siracusa che aveva condannato Alessandro Limaccio al primo ergastolo nel procedimento “Tauro”; pubblico ministero nel procedimento “San Marco” che comminò tre ergastoli al futuro sociologo per i quattro omicidi appena citati». Il libro e la storia di Alessandro sono molto di più di queste parole, quindi non dovete far altro che comprarlo. La conclusione di questa recensione la affidiamo proprio alle parole di Alessandro Limaccio: « Per quanto riguarda il mio caso giudiziario, con incrollabile fede in Dio, continuerò a urlare la mia innocenza, credendo nella magistratura e sperando che un Giudice onesto si interessi al mio caso, lo prenda a cuore e abbia il coraggio di non negare l’evidenza della mia totale estraneità ai fatti a me imputati e, con lealtà verso il diritto e applicando la legge, mi renda quella giustizia che ho sempre chiesto». E noi speriamo con lui.

·         Daniela Poggiali.

Pazienti morti in corsia, infermiera killer assolta. "Ora libera, sono felice". Tiziana Paolocci il 26 Ottobre 2021 su Il Giornale. Scarcerata Daniela Poggiali, accusata per i decessi di due anziani: "Il fatto non sussiste". È stata assolta e sarà scarcerata. Ieri si è chiuso il lungo capitolo con la giustizia di Daniela Poggiali, l'ex infermiera dell'ospedale Umberto I di Lugo accusata della morte di Rosa Calderoni, la 78enne la cui vita si era spenta l'8 aprile del 2014 e di quella di Massimo Montanari, il 94enne, ex datore di lavoro del compagno dell'imputata, deceduto il 12 marzo 2014 sempre a Lugo. Doppia assoluzione della Corte di assise di appello di Bologna che l'ha assolta perché «il fatto non sussiste» nell'appello ter. La sua è una vicenda giudiziaria che va avanti da anni, nonostante la donna, che lavorava in corsia nell'ospedale del Ravennate, si fosse sempre proclamata innocente sostenendo di non aver ucciso i due anziani somministrando loro dosi di potassio. Ma la Ausl Romagna non ci ha mai creduto e si era anche costituita parte civile. Ieri in aula, alla presenza del fratello e della cognata, la Poggiali ha chiesto di parlare, facendo delle dichiarazioni spontanee prima della sesta sentenza. In primo grado, infatti, le era stato dato l'ergastolo, poi due assoluzioni, cassate però dalla Suprema Corte. Ieri, in 7 minuti, ha ripercorso quanto era accaduto il giorno del decesso di Rosa Calderoni. Ha raccontato che l'anziana era entrata in stato comatoso, che il medico aveva disposto la somministrazione della fiala di konakion e poi tutti gli altri dettagli fino al prelievo da inviare all'emogas analisi. «Sono stata accusata di aver sostituito il prelievo effettuato con quello di un altro paziente - ha aggiunto -. È qualcosa di folle, non è successo, io ho preso il prelievo fatto alla signora Calderoni e quello ho inviato al laboratorio». Il procuratore generale Luciana Cicerchia, però, alla fine delle dichiarazioni ha confermato la richiesta di ergastolo , ovvero la stessa condanna che la corte d'assise di Ravenna aveva inflitto all'infermiera in primo grado per la morte della 78enne. Poi, in due successivi appelli a Bologna, la Poggiali era stata assolta, ma entrambe le sentenze erano state sconfessate da due Cassazioni a Roma. Invece per la fine dell'altro paziente, Massimo Montanari, in primo grado era stata condannata a 30 anni e messa in carcere. Secondo l'accusa quella notte lei si era offerta di sostituire una collega nel «giro delle glicemie» ai pazienti del settore, una scusa per riuscire a entrare nella stanza dell'anziano e somministrargli la dose letale, presumibilmente cloruro di potassio. Omicidio aggravato con premeditazione, secondo il gup di Ravenna, che come movente aveva indicato una minaccia di morte rivolta dalla Poggiali all'uomo, che nel 2009 era il datore di lavoro del suo compagno. L'ex infermiera era stata criticata anche per un selfie che scattato sorridente coi pollici alzati accanto a una paziente appena morta. Ma il procedimento per vilipendio di cadavere era stato subito archiviato, perché nonostante fosse stato un atto di cattivo gusto non sono stati ravvisati illeciti penali nella sua condotta. Ora è fuori da tutte queste ombre e potrà riprendere la sua esistenza normalmente. «La mia assistita è stata assolta da tutte le accuse perché il fatto non sussiste. Finalmente è stata fatta giustizia, anche se tardiva», commenta il legale, avvocato Gaetano Insolera. «Sono felice, non poteva che andare così», ha detto lei ascoltando la sentenza, arrivata dopo 2 ore di camera di consiglio. Ora raggiungerà Forlì, dove era in custodia cautelare per prendere i suoi effetti personali e tornare finalmente libera. Tiziana Paolocci 

Pazienti morti in corsia: assolta l'ex infermiera. Valentina Dardari il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. L’ex infermiera, accusata di aver ucciso due pazienti, è stata assolta e verrà presto scarcerata “perché il fatto non sussiste”. La corte di Assise di appello di Bologna ha assolto Daniela Poggiali, l'ex infermiera dell’Ospedale Umberto I di Lugo di Romagna, comune in provincia di Ravenna, imputata per l'omicidio di pazienti morti in ospedale, perché il fatto non sussiste, nell'appello-ter per la morte di Rosa Calderoni, la 78enne deceduta l'8 aprile del 2014 a causa di una iniezione di potassio poche ore dopo il ricovero in ospedale. La donna è stata assolta anche per il caso riguardante Massimo Montanari, l’ex datore di lavoro 94enne dell’allora compagno della Poggiali, deceduto sempre a Lugo il 12 marzo del 2014, la sera prima delle sue dimissioni.

Scarcerazione immediata per la Poggiali

Nel primo caso la condanna iniziale era stata l'ergastolo, due volte riformato da assoluzioni in appello, poi annullate da altrettanti verdetti della Cassazione. Mentre nel secondo caso era di 30 anni in primo grado. Durante l’udienza in appello-ter l’ex infermiera aveva respinto le accuse di omicidio di entrambi i pazienti e di aver manipolato e scambiato campioni ematici. Per la donna è stata anche disposta la scarcerazione immediata."La mia assistita è stata assolta da tutte le accuse perché il fatto non sussiste. Finalmente è stata fatta giustizia, anche se tardiva" ha commentato a LaPresse l'avvocato Gaetano Insolera, legale di Daniela Poggiali. La Poggiali raggiungerà quindi Forlì, dove si trova in custodia cautelare, per recuperare i propri effetti personali. Poi sarà nuovamente libera, come avvenne nel 2017 in seguito alla prima assoluzione arrivata dopo 1000 giorni di carcere. Presenti in aula sia la sorella che il cognato.

Le foto choc

Per l’ex infermiera si trattava del sesto processo, il terzo in corte d’Appello, che la vedeva come imputata. Il rappresentante dell’accusa in udienza aveva chiesto per la Poggiali la conferma della condanna all’ergastolo. La difesa ne aveva invece chiesto l’assoluzione lamentando la totale mancanza di elementi a carico dell’assistita, da dicembre in custodia cautelare in carcere in ragione proprio della condanna pronunciata al termine del rito abbreviato dal gup del Tribunale di Ravenna. Ai tempi avevano scioccato alcune foto che l’ex infermiera si era fatta scattare sorridente e facendo gesti di scherno accanto alla paziente morta. Le foto, scattate da una collega della Poggiali, le erano state poi inviate su WhatsApp e avevano portato al licenziamento di entrambe le sanitarie. La difesa aveva però impugnato il licenziamento sostenendo che la paziente non era ancora morta ma si trovava nella stanza del tanatogramma in stato di incoscienza ma viva.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

"Il fatto non sussiste". Iniezioni letali in ospedale, doppia assoluzione e scarcerazione per l’ex infermiera Daniela Poggiali accusata di omicidio. Redazione su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. Daniela Poggiali, l’ex infermiera imputata per l’omicidio di due pazienti morti in corsia all’Ospedale di Lugo, ha ricevuto una doppia assoluzione e la scarcerazione immediata. La sentenza della Corte di Assise di Appello di Bologna, presieduta da Stefano Valenti, perché il fatto non sussiste nell’appello ter per la morte di Rosa Calderoni e per il caso di Massimo Montanari. Calderoni aveva 78 anni ed era morta l’8 aprile del 2014. Montanari era deceduto invece a 94 anni nello stesso ospedale in provincia di Ravenna. Per il primo caso la condanna in primo grado era stata l’ergastolo, due volte riformato da assoluzioni in appello, quindi annullate da altrettanti verdetti in Cassazione. In primo grado, per il caso del 94enne, la condanna era stata di trent’anni. Era il sesto processo, terzo in Corte d’Appello che vedeva imputata l’infermiera. Il rappresentante dell’accusa aveva chiesto in udienza la conferma della condanna all’ergastolo. Per Poggiali è stata ordinata l’immediata scarcerazione. L’imputata raggiungerà quindi Forlì, dov’è in custodia cautelare, e una volta presi i suoi effetti personali sarà di nuovo libera. Presenti in aula la sorella e il cognato della donna. Quattro le assoluzioni in appello dalle accuse di omicidio e per la seconda volta nel giro di quattro anni per l’ex infermiera. L’infermiera era stata arrestata una prima volta il 9 ottobre del 2014. Era stata indagata per vilipendio di cadavere (per via di alcune foto che la vedevano sorridente sul corpo di una persona deceduta) e sospettata di altri delitti tramite iniezioni letali di cloruro di potassio. “I risultati della consulenza statistica depongono per un’opera sistematica di eliminazione di ricoverati”, scrivevano i giudici del Tribunale del Riesame nel 2015 rigettando la sua istanza di scarcerazione. Una consulenza dell’Istituto di Medicina Legale di Verona riferiva di un anomalo tasso di mortalità nell’Ospedale di Lugo quando Poggiali lavorava in reparto. “Il fatto non sussiste”. “Mi hanno già condannato come una serial killer ma la verità è che senza la prescrizione del medico non ho mai dato neppure un sedativo ai pazienti. Figuriamoci se ho ucciso”, diceva in un’intervista a Il Corriere della Sera nel 2015 scusandosi per le fotografie con i pazienti morti. “Sono felice, non poteva che andare così”, le parole di Poggiali di oggi riportate dall’Ansa. “La mia assistita è stata assolta da tutte le accuse perché il fatto non sussiste. Finalmente è stata fatta giustizia, anche se tardiva“, il commento dell’avvocato Gaetano Insolera, legale di Daniela Poggiali, dopo le assoluzioni della Corte d’Assise d’Appello di Bologna a Lapresse.

Daniela Poggiali, l'infermiera assolta dopo 7 anni da killer: "Così ho resistito per 43 mesi in carcere". Today.it il 27/10/2021. "Ho trovato persone straordinarie che non hanno guardato a quanto si sapeva dell'inchiesta, ma a come ero dentro - dice alla Stampa - Mi hanno conosciuto e hanno capito che non ero la serial-killer dei giornali". Anni e anni vissuti con l'infamante accusa di essere una "infermiera killer". Daniela Poggiali, 49 anni, ha passato dietro le sbarre tre anni e mezzo degli ultimi sette, da quando partirono le indagini per due morti sospette all'Ospedale Umberto I di Lugo. Una doppia sentenza in Corte d'Assise d'Appello l'ha assolta perché il fatto non sussiste, sia per il decesso della 78 enne Rosa Calderoni l'8 aprile del 2014, sia per quello del 94 enne Massimo Montanari il 12 marzo dello stesso anno. Non aveva ucciso lei i degenti, come si era detto, con iniezione di potassio. Negli scorsi giorni è stata scarcerata nella casa del fidanzato nel Ravennate. In primo grado aveva subito condanne pesantissime: ergastolo e trent'anni di carcere. Non è chiaro se l'accusa ricorrerà nuovamente in Cassazione. Come ha resistito per 43 mesi in carcere? "Ho avuto sostegno dalla mia famiglia, dal mio compagno, dagli avvocati Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera, che hanno sempre creduto in me, e anche dalla fede in Dio - dice oggi alla Stampa - Ho trovato persone straordinarie che non hanno guardato a quanto si sapeva dell'inchiesta, ma a come ero dentro. Mi hanno conosciuto e hanno capito che non ero la serial-killer dei giornali, e questo sia le compagne di cella sia il personale". Le foto di fianco ai corpi dei pazienti avevano fatto il giro dei media all'epoca: "Non sono selfie, ma scatti fatti da un'ex collega che era lì. Non sono mai girate, ma la mia collega le ha mostrate a caposala e primario e da loro sono finite ai carabinieri quando il mio cellulare è stato sequestrato. Le avevo detto di cancellarle, invece le ha tenute".

Ma come le giustifica?

«È stato un momento di leggerezza di cui mi sono pentita e per cui ho chiesto scusa, ma sotto stress puoi fare qualcosa di stupido. Me ne sono presa la responsabilità e sono stata licenziata, ma quelle due foto mi hanno dipinta come serial- killer».

Ritiene che abbiano influito sull'opinione dei giudici e sui processi?

«Fin dalla prima udienza del primo processo, in aula è stata subito mostrata una gigantografia. Di certo, quelle foto hanno pesato molto, altrimenti forse la cosa sarebbe stata gestita diversamente».

Poggiali attende scuse ufficiali e valuterà se chiedere i danni, come sempre insieme ai suoi legali. La sua resterà negli annali come una storia processuale inquietante, per chiunque creda alla giustizia italiana. Prima condannata all’ergastolo, per la morte della donna, poi due assoluzioni in appello e quindi due annullamenti in Cassazione. Per la morte dell’uomo, 30 anni di carcere, poi in appello l’assoluzione. Benché assolta, rischia di restare nell’immaginario di tutti per sempre come l’infermiera killer, fotografata vicino al paziente deceduto con le dita in segno di vittoria.

"E' proprio la discordanza di giudizio tra i vari giudici che sconvolge il cittadino. Sono i 6 processi resisi necessari per arrivare all’assoluzione" scrive sul quotidiano torinese l'avvocato Annamaria Bernardini de Pace. Fonte: La Stampa

Franco Giubilei per "la Stampa" il 26 ottobre 2021. L'immagine del mostro Daniela Poggiali ha fatto di tutto per cucirsela addosso, col sorriso strafottente ai fotografi mentre veniva portata via in manette, ma soprattutto con quel selfie sciagurato e osceno scattato mentre alzava il pollice davanti a una paziente inconsapevole, dallo sguardo perso nel vuoto e la bocca storta per la sofferenza. Il cammino giudiziario invece si è rivelato molto più contrastato di quell'espressione da colpevole perfetta, culminando nella doppia sentenza di assoluzione di ieri: la corte d'assise d'appello ha respinto per la terza volta la richiesta di ergastolo della procura generale relativa alla morte di Rosa Calderoni, 78 anni, l'8 aprile 2014 all'ospedale Umberto I di Lugo, cancellando anche i trent' anni disposti in primo grado per il decesso in corsia del 94 enne Massimo Montanari. Per l'ex infermiera, 49 anni, è una vittoria giudiziaria importante, anche se il processo potrebbe trovare nuovo impulso in caso di nuovo ricorso in Cassazione: «Sono felicissima, non poteva che andare così, da domani (oggi, ndr) mi godo la mia famiglia», ha commentato Poggiali. La sorella e il cognato, presenti in aula, hanno festeggiato con lei una decisione che sancisce anche la sua scarcerazione. A conferma dell'andamento soffertissimo del processo, le sentenze opposte: dalla colpevolezza piena in primo grado per aver soppresso le sue vittime con iniezioni di potassio ad assoluzioni altrettanto piene in appello perché «il fatto non sussiste». In questi anni, l'ex dipendente dell'ospedale di Lugo si è fatta qualcosa come mille giorni di carcere, contando solo il periodo precedente alla prima scarcerazione, avvenuta nel 2017 dopo l'assoluzione in appello per il presunto delitto dell'anziana: per il giudice era morta per cause naturali. La Vigilia di Natale di tre anni dopo Poggiali è tornata in cella dopo i trent' anni comminati per la morte del 94 enne. L'altalena giudiziaria è proseguita alternando ricorsi in Cassazione dell'accusa contro le assoluzioni in appello, cui il giudice di secondo grado ha sempre risposto, come ieri, mandando assolta l'imputata. Ieri, in apertura di udienza, l'ex infermiera ha ricostruito la vicenda, respingendo le accuse e negando la sostituzione di un campione di sangue prelevato a Rosa Calderoni, morta poche ore dopo il ricovero l'8 aprile del 2014. Quanto alla seconda vittima, Massimo Montanari, morto il 12 marzo dello stesso anno, gli inquirenti sono risaliti a Poggiali per le modalità del decesso, trovando analogie con l'altra morte e insospettendosi per il fatto che l'uomo era stato il datore di lavoro del compagno dell'infermiera. Il ruolo del mostro, consacrato mediaticamente dalle due foto di cui si diceva, le stava addosso così bene che vennero compiuti accertamenti statistico-forensi sulle sue presenze in ospedale, rilevando singolari coincidenze fra i turni in cui Poggiali era in servizio e un sensibile aumento delle morti in corsia: il tasso di mortalità fra i pazienti era risultato «tre-cinque volte superiore rispetto alla media degli altri infermieri». Un diabolico angelo della morte doveva avere agito fra i degenti dell'ospedale di Lugo, ma le prove raccolte dagli inquirenti, valutate come chiari segni di colpevolezza in primo grado, venivano puntualmente smontate in appello, per poi tornarvi dopo i ricorsi in Cassazione in un estenuante gioco dell'oca. Quando ha parlato ieri, Poggiali ha definito l'accusa «qualcosa di folle», ma quel che l'andirivieni del giudizio dimostra ha piuttosto a che fare con elementi di prova tutt' altro che incontrovertibili, se i giudici si sono spaccati fra colpevolezza e innocenza. Esultano anche i difensori della donna, Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera: il primo, in particolare, definisce la sentenza «un passo nevralgico e decisivo», entrando nel merito di un'inchiesta caratterizzata da modalità di repertazione discutibili, da parte dei dipendenti Ausl, delle tracce di potassio in un deflussore. Le indagini? Per l'avvocato sono state, oltre che «fai-da-te e inaffidabili», pure «abusive».

Enea Conti per corriere.it il 27 ottobre 2021. «Le foto con i cadaveri? Ho sbagliato e lo riconosco. Ma ho pagato fin troppo per questo mio errore». Daniela Poggiali, l’ex infermiera 49enne assolta ieri dall’accusa di omicidio per la morte di Rosa Calderoni e Massimo Montanari è libera. Nel rispetto della sentenza pronunciata ieri nel Tribunale di Bologna dalla Corte di assise di appello al termine del terzo processo di secondo grado è stata scarcerata nella tarda serata di ieri ed è tornata a casa, dove vive assieme al compagno. «Cosa farò ora? Riprenderò in mano la mia vita».

Si aspettava questa sentenza, questa doppia assoluzione?

«Sì perché le carte ci hanno sempre dato ragione e nel contesto dell’ultimo processo anche tutto ciò che è stato prodotto dai consulenti incaricati». 

Quali persone le hanno mostrato più affetto in questi mesi? Ha sentito i suoi ex colleghi?

«La mia famiglia in primis e i miei avvocati Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera. Sono stati soprattutto loro a mostrarmi più vicinanza. Non più avuto contatti diretti con i miei ex colleghi anche perché di fatto non ho più avuto il mio cellulare, anche se tramite il mio compagno ho comunque ricevuto indirettamente il sostegno di alcuni di loro»

Oggi è libera, che sensazioni ha?

«Ora il mio impegno è volto in primo luogo a riappropriarmi della mia libertà, della mia vita e soprattutto del mio quotidiano dopo il periodo di reclusione. In carcere ho patito una sofferenza infinita. Chi non c’è stato non può capire cosa significhi e figuriamoci capire che cosa provi chi ci è finito ingiustamente»

E di quegli scatti con i cadaveri cosa dice?

«Chiunque può commettere un errore, nella vita tutti possiamo sbagliare. Per quegli scatti ho pagato più di quel che dovevo. Lo ripeto: ho sbagliato e ho pagato e ripeto più del dovuto e di certo quelle foto non fanno di me un mostro»

È vero che vuole ritornare a fare l’infermiera?

«Perché no, in un futuro mi piacerebbe tornare a fare il mio lavoro e di sicuro la competenza e l’esperienza in quel campo non mi mancano». 

Sa che il regolamento le impone che per cinque anni non potrà esercitare la professione?

«Credo di poter dire con abbastanza certezza che il mio avvocato Lorenzo Valgimigli sfrutterà tutte le vie percorribili per l’eventuale riammissione dall’albo professionale forse anche prima dei cinque anni, magari con un ricorso». 

·        Domenico Morrone.

Sette processi e 15 anni di carcere prima di essere dichiarato innocente. Domenico Morrone non è un assassino, è incensurato e ha pure un alibi. Ma nessuno gli crede. Sette processi e 15 anni di carcere: la sua storia. Simona Musco su Il Dubbio il 28 agosto 2021. Quindici lunghi anni in carcere. Ovvero 5475 giorni dentro una cella malconcia, senz’acqua e senza dignità, per uno scambio di persona. O forse peggio, per una macchinazione o per superficialità. Domenico Morrone non è un assassino, è incensurato e ha pure un alibi. Ma nessuno gli crede, fino a quando due pentiti non fanno il nome del vero colpevole. Ci vorranno sette processi prima che quell’uomo, che ormai ha perso tutto, possa dimostrare la sua innocenza. Un’innocenza sempre proclamata, urlata, sbandierata ma mai creduta.

La storia di un pescatore. La sua vita cambia il 30 gennaio 1991. Domenico è un pescatore, viene da una famiglia onesta, ha una fidanzata. Una vita normale, insomma. La sua fedina penale è immacolata. Ma all’improvviso viene macchiata da un’accusa terribile: aver ucciso due ragazzini, due minorenni. Trucidati davanti alla scuola media Grazia Deledda di Taranto. Sono le 13.50 di quel giorno di 29 anni fa quando un sicario spara diversi colpi con una pistola calibro 22 contro due studenti, Antonio Sebastio (15 anni) e suo fratello Giovanni Battista (17 anni). I proiettili volano in mezzo alla gente, i due ragazzi rimangono a terra senza vita mentre tutti intorno scappano in preda al panico. Una scena orribile. Poche ore dopo la squadra mobile ha già una pista: si presenta a casa di Morrone, su ordine del Pm del Tribunale di Taranto, Vincenzo Petrocelli. Cerca delle armi, ma non ci sono, e così i poliziotti trascinano l’uomo fino in Questura e poi, a sera, nel carcere di Taranto. Domenico non capisce nulla. Gli dicono che in base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri è quasi sicuramente colpevole, anche se lui non sa nemmeno di cosa si stia parlando. Così, poche ore dopo i fatti, viene sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Lo incastra la testimonianza di alcune persone, ragazzini, per lo più. Morrone scuote la testa, spiega che non c’entra nulla. Che è tutto un clamoroso errore.

Le accuse contro Domenico Morrone. Secondo l’accusa, Morrone avrebbe perso la testa per un litigio avuto una ventina di giorni prima con quei ragazzetti, che trafficavano pezzi di motorini rubati davanti al portone. Eppure dopo il litigio qualcuno ferisce Domenico alle gambe. Qualche giorno dopo, secondo una testimonianza poi ritrattata, avrebbe minacciato i due ragazzini, ritenendoli responsabili di quel ferimento. E tanto basta, secondo la procura, a spingere un uomo di 27 anni innamorato del mare ad armarsi e uccidere. Provano a collegarlo ai clan, ma lui non sa cosa significhi quella domanda, “a chi appartieni”. «A mamma e papà», dice ingenuamente. Urla di essere incensurato, «ma non è una carta di credito», contesta il pm. In tempo record la notizia finisce in tv: l’assassino della scuola è stato acchiappato. Viene sbattuto in isolamento per due mesi, con il divieto di parlare con i suoi difensori e la madre. Ci rimane con i vestiti intrisi di salsedine che aveva al momento dell’arresto, che riesce a cambiare solo dopo una settimana e che prova a lavare da solo, tra quelle quattro mura, con una saponetta. Ma quello è solo l’inizio di un calvario lungo 15 anni, 2 mesi e 22 giorni.

I processi. Al processo, Morrone spiega il suo alibi: al momento del delitto non era davanti alla scuola, ma nell’appartamento di alcuni vicini di casa ai quali stava riparando un acquario. Lo confermano i coniugi e la madre di Domenico, che quel giorno incontra anche un appuntato dei Carabinieri all’angolo di una salumeria. Per i giudici è tutta un’invenzione: è impensabile, sostengono, che all’ora di pranzo qualcuno ripari un acquario. E così sia i vicini sia la madre di Morrone vengono condannati per falsa testimonianza. Per i giudici, il duplice omicida è lui e basta. Ma in quell’aula i fatti prendono pieghe strane. A Morrone, una volta arrivato in Questura, viene eseguito lo stub. Un esame di rito che in un primo momento conforta la speranza dell’uomo di affermare la propria innocenza. Sulla mano sinistra vengono rintracciate due piccole particelle di piombo ed ammonio, sostanze che avrebbe potuto trovare quasi ovunque. Così nell’immediatezza viene annotato che quelle mani, quel giorno, non hanno impugnato un’arma. Ma un anno dopo viene effettuata una nuova perizia e il risultato è sconvolgente: Morrone ha sparato con tutte e due le mani e oltre al piombo e all’antimonio viene individuato anche il bario, che fornisce la prova dello sparo. Ma c’è di più: gli abiti di Domenico che quel giorno indossa jeans e camicia col colletto marrone – spariscono dalla cancelleria del Tribunale dopo esser stati visionati dai testimoni oculari e che non li riconoscono come gli abiti usati dal killer, che invece sono neri. Nemmeno l’identikit corrisponde a quello di Morrone: chi ha sparato è quasi calvo ed alto, mentre lui, anche oggi, ha ancora tutti i capelli ed è poco più di un metro e sessanta. Quanto al mezzo, l’assassino spara da un’auto nera, Domenico ne ha una bianca, parcheggiata in garage perché con le ruote a terra e malconcia.

La procura non gli crede. Ma tutti questi elementi non bastano. Per la procura le prove sono granitiche, anche se Domenico, leggendo le carte, capisce che le cose non tornano. I testi che lo accusano, due ragazzini, sembrano poco credibili. Dicono di averlo indicato come il colpevole forse in un momento di confusione e ritrattano tutto. Morrone si convince di poter essere assolto. Ma a fine ‘ 91, con già un anno di custodia cautelare sulle spalle, arriva la stangata: 21 anni di condanna. La sua fiducia nella giustizia si incrina. La condanna, processo dopo processo, diventa definitiva. Domenico perde il lavoro e la fidanzata, che lo lascia per la vergogna. La madre anziana, senza di lui, vive da sola e in povertà. Per due volte la Cassazione annulla la sentenza d’appello e per altrettante i giudici di secondo grado di Bari confermano la condanna a 21 anni. Morrone non ci crede più. Ma dopo sei anni, a settembre del 1996, qualcuno parla. Due collaboratori di giustizia squarciano il velo: non è stato Morrone. Ma devono passare altri 10 anni per poter ottenere una revisione del processo, perché la richiesta della difesa viene respinta quattro volte. Solo la quinta volta, quando già Domenico ha trascorso 13 anni in carcere, ce la fa: nel 2004 inizia il processo di revisione davanti alla Corte d’appello di Lecce. Domenico torna a guardare in faccia dei giudici, ma questa volta gli credono, credono ai testimoni, credono ai pentiti.

Il colpevole è un altro. A sparare, spiegano, è stato in realtà un uomo che voleva vendicare lo scippo subito da una donna la mattina del delitto proprio dai due ragazzini. Saverio Martinese e Alessandro Ble, i due collaboratori di giustizia, lo dicono chiaramente, indicando Domenico Morrone: «Quell’uomo è estraneo agli omicidi, il vero colpevole è un altro. Si tratta del figlio della donna che ha subito lo scippo, ce lo ha detto lui». Nel 2006, 15 anni, 2 mesi e 22 giorni dopo il suo arresto, la verità bussa alla porta: assoluzione per non aver commesso il fatto, Domenico ha ormai 42 anni. In carcere ha contratto l’epatite b e ne esce psicologicamente devastato e con 20 chili in più. Il suo primo pensiero è avvisare la madre: «Sono innocente, mamma – le dice al telefono piangendo -. Mi hanno detto che sono innocente!». Quando la sentenza diventa definitiva, gli avvocati di Morrone presentano il conto allo Stato: una richiesta di risarcimento tra gli 8 e i 12 milioni di euro per errore giudiziario. Ne ottengono 4 e mezzo, poco più di 800 euro per ogni giorno passato dentro da innocente. «Oggi sono libero e felice. Però non è una felicità piena. Continuo a chiedermi perché nessuno mi ha mai creduto? Era tanto difficile ammettere di aver sbagliato? Mi hanno umiliato. Perché?». 

·        Francesca Picilli.

Il ragazzo disse alla polizia che non aveva alcuna intenzione di ucciderlo. Chi è Francesca Picilli, la donna graziata da Mattarella: uccise il fidanzato, ma lui disse che non voleva. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Era la notte tra il 4 e il 5 marzo 2012 quando Francesca Picilli, al culmine di una lite colpì con un coltello a serramanico il suo fidanzato, Benedetto Vinci a Sant’Agata di Militello nel Messinese. L’uomo fu subito portato in ospedale. Morì 10 giorni dopo. Francesca Picilli fu condannata a dieci anni e sei mesi di reclusione per omicidio preterintenzionale. Ora il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con la grazia parziale, ha disposto per lei una riduzione della pena di quattro anni.

La vicenda di Francesca Picilli. Francesca aveva 27 anni quando durante una lite con il fidanzato Benedetto lo colpì con un coltello. Un’accesa discussione per futili motivi. Inizialmente il giovane non sembrava fosse grave, tanto che disse alla polizia che la ragazza non aveva alcuna intenzione di ucciderlo. Ricoverato all’ospedale Cervello di Palermo, il giovane venne dimesso. Ma qualche giorno dopo morì. Dopo avere chattato con gli amici su Facebook, si addormentò, senza più svegliarsi. L’autopsia stabilì che a ucciderlo era stata la coltellata al torace, che aveva provocato un aneurisma dell’arteria con conseguente rottura della stessa. Francesca Picilli, inizialmente fu accusata di omicidio volontario, poi riqualificato in omicidio preterintenzionale. Era stata condannata in primo grado a 18 anni di reclusione, ridotti in appello a 14 anni. La Cassazione, cui si rivolse la difesa della giovane, nel maggio 2018 aveva annullato con rinvio quella condanna. A novembre 2018, i giudici della Corte di assise di appello di Reggio Calabria concessero a Francesca Picilli le attenuanti generiche e ridussero la pena da 14 anni a 10 anni e 6 mesi di reclusione. Dieci mesi dopo, scattato l’ordine di carcerazione, la donna si è costituita. A Reggio Calabria furono riconosciuti all’imputata le attenuanti generiche, perché la donna, nel corso della lite, non colpì il fidanzato con l’intenzione di ucciderlo.

La grazia parziale. Era in carcere a Bollate dal 16 settembre 2019, oggi Francesca ha 44 anni. Quella terribile vicenda l’ha sicuramente segnata. Mattarella ha deciso di attribuirle la grazia parziale insieme al regista Ambrogio Crespi. La firma dei due decreti per la concessione di grazia parziale è stata comunicata dal Quirinale con una nota: “Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato – ai sensi di quanto previsto dall’art. 87 comma 11 della Costituzione – due decreti con i quali è stata concessa grazia parziale. Le decisioni tengono conto del parere formulato dalla Ministra della Giustizia a conclusione della prescritta istruttoria. In particolare, i condannati nei cui confronti è intervenuta la grazia parziale sono: Ambrogio Luca Crespi, condannato a sei anni di reclusione per il delitto di concorso in associazione di tipo mafioso, per fatti commessi dal 2010 al 2012, per il quale è stata disposta una riduzione della pena di un anno e due mesi; Francesca Picilli, condannata a dieci anni e sei mesi di reclusione per il delitto di omicidio preterintenzionale commesso nel 2012, per la quale è stata disposta una riduzione della pena di quattro anni. Per effetto dei provvedimenti del Capo dello Stato agli interessati rimarrà da espiare una pena non superiore a quattro anni di reclusione, limite che consente al Tribunale di sorveglianza l’applicabilità dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 dell’ordinamento penitenziario). Nel valutare le domande di grazia presentate in favore degli interessati, il Presidente della Repubblica ha tenuto conto del positivo comportamento tenuto dai condannati durante la detenzione e della circostanza che il percorso di rieducazione sino ad ora compiuto dai predetti potrebbe utilmente proseguire – qualora la competente Autorità giudiziaria ne ravvisasse i presupposti – con l’applicazione di misure alternative al carcere”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·        Francesco Casillo.

TOGHE SPORCHE. Lo Stato risarcirà l'imprenditore Casillo per l’arresto-truffa di Trani. I 21 giorni trascorsi ingiustamente tra carcere e domiciliari: «I miei familiari pagarono affinché uscissi». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Luglio 2021.  Undici giorni trascorsi in carcere, altri dieci passati ai domiciliari. Tutto per una accusa che, oggi lo sappiamo, fu «inventata» dalla cricca dei giudici di Trani, l’ex pm Antonio Savasta e l’ex gip Michele Nardi. Francesco Casillo, il re del grano, all’epoca aveva quarant’anni. Oggi che l’imprenditore ne ha 55, la Cassazione ha deciso che dovrà essere risarcito per quell’arresto illegittimo. Francesco Casillo fu arrestato il 10 gennaio 2006 nell’ambito dell’inchiesta condotta da Savasta sul grano contaminato all’ocratossina, su ordinanza cautelare emessa dal gip tranese Nardi. Sei anni dopo è stato assolto da ogni accusa: le analisi stabilirono che il grano era buono. Casillo (avvocato Andrea Di Comite) ha dovuto attendere il 2016 per chiedere allo Stato il risarcimento che spetta a chi è stato ingiustamente arrestato, e tre anni ancora per raccontare ai pm di Lecce che quell’indagine di Trani fu, in realtà, un clamoroso tentativo di estorsione da parte dei due magistrati. «Mentre ero in carcere, immediatamente dopo il mio arresto - è il racconto fatto da Francesco Casillo ai carabinieri -, Enzo Perrone (un amico di famiglia, ndr) venne avvicinato da Antonio Longo, capo di una cooperativa di vigilanza privata e che per quanto mi è dato a sapere era molto amico di Savasta e Nardi. Costui anticipò al Perrone che il giorno seguente sarebbero stati arrestati tutti gli altri miei fratelli e gli suggerì di rivolgersi immediatamente agli avvocati Miranda Vincenzo di Trani e Domenico Tandoi di Corato i quali avevano rapporti con i due predetti magistrati». E così andò: «Mi ha riferito Perrone che lui si recò subito da Miranda, a distanza di qualche ora dalle misure restrittive, e chiese come doveva comportarsi. Miranda gli rispose che lui costava un milione di euro e Enzo non intuì subito a cosa si riferisse. Alle sue legittime richieste di chiarimenti, Miranda affermò che erano necessari 250mila euro a fratello aggiungendo che il suo potere contrattuale gli avrebbe consentito di dare a breve un segnale, ovvero la liberazione di mia sorella che poi in effetti è avvenuta. Enzo, alle richieste del Miranda, contattò subito mio padre con il quale reperì la cifra di 400mila euro che consegnò in diverse tranche ed in diversi momenti al Miranda. Queste ultime circostanze naturalmente le ho apprese direttamente da Enzo Perrone che, con non poche difficoltà, me le ha raccontate». La vicenda giudiziaria dei Casillo, ormai prescritta, è stata utilizzata nelle indagini di Lecce per ricostruire il «clima» del Tribunale di Trani: un posto dove, ha detto senza mezzi termini l’allora pm Fabio Buquicchio alla Procura di Potenza, «il dottor Savasta in vista di sequestri anche del tutto infondati da effettuare, ovvero a seguito di sequestri effettuati, sguinzagliava alcuni suoi avvocati “di fiducia” che stavano al suo gioco, i quali, a loro volta, avvicinavano i destinatari di tali sequestri e facevano intendere che pagando una parcella cospicua avrebbero risolto i loro problemi». La richiesta di indennizzo di Casillo è stata bocciata una prima volta dalla Corte d’appello di Bari nel 2018, decisione cancellata dalla Cassazione. Dopo il rinvio, i giudici baresi hanno nuovamente detto «no» rilevando che l’istanza sarebbe stata proposta fuori termine. Ma pochi giorni fa la Cassazione ha annullato nuovamente il «no», stabilendo che la Corte d’appello dovrà pronunciarsi di nuovo, unicamente sulla quantificazione del danno. Nel frattempo, appunto, sono arrivate le sentenze di Lecce su Nardi (condannato a 16 anni e 9 mesi) e Savasta (10 anni). L’appello contro la condanna in abbreviato, fissato a lunedì 12, sarà rinviato a settembre proprio su richiesta della difesa dell’ex pm, che con l’avvocato Massimo Manfreda sta cercando la strada per ritrovare la libertà. Savasta è in custodia cautelare dal gennaio 2019, prima in carcere e adesso ai domiciliari. L’unica possibilità di uscire (e di non tornare in carcere) è che la condanna definitiva scenda sotto i 7 anni.

·        Franco Bernardini.

L.D.P. per “La Verità” il 19 maggio 2021. Un poliziotto innocente finisce in carcere a causa di un rivale in amore. I fatti risalgono al 1997: Franco Bernardini aveva 38 anni ed era sovrintendente di polizia al commissariato Appio nella capitale. Il 1° marzo riceve un'ordinanza di custodia cautelare e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Quel giorno era in corso una maxi operazione volta a smantellare una presunta banda specializzata nel favorire l'ingresso di clandestini in Italia, ma presunta responsabile anche di diversi altri reati: corruzione, concussione, peculato, falso, uso di sigilli contraffatti. Gli agenti della questura effettuano decine di arresti e tra questi ci sono alcuni poliziotti. Uno di loro è Bernardini. Pur non avendo nulla a che fare con le accuse, l'agente passa più di un mese in carcere e 35 giorni agli arresti domiciliari. Lo incastrerebbero le dichiarazioni di due cittadini stranieri, ma soprattutto quelle di un co-indagato che aveva deciso di collaborare con gli inquirenti. Nel processo di primo grado, il difensore di Bernardini, l'avvocato Riccardo Radi, costringe il tribunale a riascoltare l'accusatore. «In sede di controinterrogatorio», ricorda il penalista, «sono riuscito a far emergere le mille imprecisioni nelle sue dichiarazioni e il fatto che avesse del malanimo nei confronti del Bernardini per la gelosia relativa a una donna. Non vi era nessun riscontro oggettivo in relazione a dazioni di denaro ricevute dallo stesso Bernardini». Devono passare però 7 anni dall'arresto perché, il 5 febbraio 2004, la quarta sezione penale del tribunale di Roma assolva il poliziotto da tutti i capi di imputazione, con la formula più ampia: perché il fatto non sussiste. Il 6 giugno 2006 l'avvocato Radi presenta un'istanza di riparazione per ingiusta detenzione. Solo il 12 giugno 2008 la Corte d'appello di Roma accoglie la domanda di indennizzo per i giorni trascorsi in prigione e ai domiciliari: 13.750 euro. Oggi Franco Bernardini non è più un poliziotto: la vicenda lo ha profondamente colpito e ha chiesto il pensionamento anticipato. La sua vita privata è stata distrutta e si è separato dalla moglie.

·        Gennaro Oliviero.

Oliviero indagato per un pranzo, ma il Gip smonta le accuse. Viviana Lanza su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Il presidente del Consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, ieri mattina si è ritrovato sulle prime pagine di tutti i siti di informazione immaginando che di lui si scriverà da oggi anche sui quotidiani in edicola. Ha saputo dell’indagine dalla stampa, e precisa subito di avere «piena fiducia nella magistratura» e di essere «pronto a chiarire la mia estraneità ai fatti». Il suo nome è associato all’inchiesta con cui Nas e Procura di Napoli Nord hanno puntato i riflettori sulla sanità casertana ipotizzando, a diverso titolo, episodi di assenteismo e corruzione, nonché la presunta spartizione dei fondi finalizzati alla cura di pazienti delle cosiddette “fasce deboli”. L’indagine ha portato ieri a dodici arresti, sei misure interdittive e sequestri per un milione e mezzo di euro. Oliviero, per il quale non c’è stata alcuna misura cautelare, figura per un’ipotesi di traffico di influenze illecite: è sospettato di aver assecondato le richieste di Luigi Carizzone, sotto accusa anche per altri episodi, affinché questi ottenesse la proroga della nomina a direttore del Dipartimento di salute mentale di Caserta e affinché all’avvocato Victor Gatto fossero affidati incarichi legali, «ottenendo indebitamente – si legge nel capo di imputazione -, come prezzo della propria mediazione illecita, un pranzo organizzato e pagato da Carizzone». Sì, proprio così, un pranzo. Pure a voler considerare che si svolse in un rinomato ristorante a Lusciano, nel Casertano, è parsa poca cosa persino al gip. «Si suppone che Gennaro Oliviero abbia possibilità economiche tali da non doversi “vendere” per un pranzo per quanto caro esso possa essere costato», scrive il giudice Iagulli del Tribunale di Napoli Nord sostenendo la «totale assenza dei gravi indizi di colpevolezza» in relazione al traffico di influenze illecite. Il gip boccia la ricostruzione investigativa sia su un piano procedurale sia nel merito. Quanto al primo aspetto, spiega che l’accusa si fonda su intercettazioni inutilizzabili perché a strascico, in quanto disposte nel più ampio ambito delle indagini e quindi per altri reati. Il sospetto sul traffico di influenze, infatti, era casualmente emerso da alcune telefonate di Luigi Carizzone, mentre un’ambientale riprese gli ospiti del pranzo a Lusciano avvenuto il 30 ottobre 2018, cinque giorni dopo la proroga dell’incarico di direttore concessa a Carizzone, ma, come osserva il gip facendo riferimento alla sentenza Cavallo delle Sezioni Unite della Cassazione, «non vi sono i presupposti normativi» per usare quelle intercettazioni dal momento che il reato di traffico di influenze illecite non rientra tra quelli per i quali il codice di procedura penale avrebbe consentito le intercettazioni, è un reato dei privati contro la pubblica amministrazione ed è punito con una pena inferiore ai cinque anni di reclusione senza l’arresto obbligatorio in flagranza. Quanto al merito, partendo da considerazioni sul ruolo politico di Oliviero basato sul consenso dell’elettorale e su una pratica diffusa per cui «non sono rari i casi in cui ci si rivolga al politico di turno per ottenere raccomandazioni o fare pressioni su organi amministrativi per ottenere un qualunque vantaggio», il gip evidenzia che in generale «il politico non cura l’interesse del proprio elettore per soldi o per l’ottenimento di altre utilità ma piuttosto per ottenere credito presso il proprio elettorato e continuare quindi a essere eletto». Quindi, «Carizzone – ricostruisce il giudice esaminando i risultati delle indagini preliminari- ha effettivamente invitato a pranzo Oliviero. Lo ha fatto per un proprio tornaconto… per ottenere l’interessamento del politico in questione, per ottenerne la simpatia, forse l’amicizia, forse ancora per contraccambiare la cortesia ma non è dimostrato né dimostrabile che si sia trattato del “prezzo” dell’interessamento di Oliviero». 

·        Gianni Alemanno.

Alemanno «fu condannato senza prove»: le motivazioni dell’assoluzione fanno venire i brividi. Viola Longo martedì 9 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. La Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza di assoluzione di Gianni Alemanno dall’accusa di corruzione. In sostanza, gli ermellini hanno chiarito che l’ex sindaco di Roma fu condannato senza uno straccio di prova. E sono così netti nel sottolinearlo e nel sottolineare le «gravi carenze del ragionamento» dei giudici di primo e secondo grado da alimentare, certo involontariamente, un sospetto che in molti era circolato ai tempi delle condanne, ovvero che quelle contro Alemanno fossero sentenze a “tesi”. «Nella sentenza di primo grado e in quella di appello risulta del tutto vago e indimostrato quale sia stato il ruolo di Alemanno nella vicenda illecita della gara n. 18/11 indetta da Ama», scrivono gli ermellini, che invece l’ex sindaco della Capitale l’8 luglio scorso lo hanno assolto dall’accusa di corruzione con formula piena, al termine però di un calvario giudiziario durato sette anni. 

Nessuna prova a carico di Alemanno

La lettura delle motivazioni dell’assoluzione di Alemanno offre così uno spaccato inquietante di cosa può accadere nelle maglie della giustizia italiana, tanto più perché a delinearlo sono altri giudici. «La sentenza di appello, a fronte delle censure difensive che avevano lamentato la mancata dimostrazione della partecipazione del ricorrente al patto illecito di Buzzi e Panzironi per l’alterazione della gara – scrive la Cassazione – si è limitata ad indicare quale prova a suo carico i bonifici fatti da Buzzi alla Fondazione Nuova Italia (legata all’ex sindaco, ndr.) in prossimità della aggiudicazione della gara (risalente al 5 dicembre 2012)».

Dai giudici di primo e secondo grado un «ragionamento gravemente carente»

«Tale ragionamento – sottolineano i supremi giudici – è gravemente carente e il Collegio ritiene che gli atti descritti in sentenza non siano tali da fornire, al di là di ogni ragionevole dubbio, la prova della partecipazione» di Alemanno «al reato contestato». In particolare, si legge nella sentenza, «doveva essere dimostrato che l’unica condotta in definitiva ascrivibile» all’ex sindaco «nella vicenda in esame (la delega di poteri di fatto a Panzironi in Ama) fosse stata non solo strettamente correlata all’alterazione della gara n.18/11 in favore di Buzzi, ma anche retribuita con la dazione in denaro».

Alemanno «non disponibile a mediazioni illecite»

«Elementi», sottolineano ancora i giudici della Cassazione, che «non sono in alcun modo esplicitati nel percorso motivazionale della sentenza, che ha ricollegato in termini del tutto generici il comportamento» dell’ex sindaco (la delega di poteri a Panzironi) «tanto alla alterazione della gara quanto alle somme ricevute attraverso la Fondazione». «Se da un lato è emersa in questo procedimento la generica e permanente disponibilità dei privati a ricercare e retribuire economicamente l’intervento di mediazione illecita» di Gianni Alemanno, «dall’altro non vi sono elementi per ravvisare la medesima permanente disponibilità da parte di quest’ultimo ad intercedere all’occorrenza per interessi del privato sull’attività della P.a».

·        Giosi Ferrandino.

Ferrandino scagionato dopo anni di gogna, ma chi pagherà per la morte del padre? Amedeo Laboccetta su Il Riformista il 13 Luglio 2021. Non sono molti quelli che ricordano la vicenda giudiziaria nella quale rimase ingiustamente intrappolato Giosi Ferrandino, già sindaco di Casamicciola, che conobbi nel 2004 quando fui candidato nelle elezioni suppletive a Ischia. Si creò subito un feeling che non si interruppe neppure quando Giosi virò verso il centrosinistra. Quando, nel 2015, ben 12 carabinieri con tanto di mitraglietta bussarono all’alba alla porta di casa del vecchio padre di Giosi in cerca del “delinquente” da sbattere nel “Grand Hotel Poggioreale”, fui tra coloro che gli espressero immediatamente solidarietà. Si trattava di una vicenda relativa ad appalti a Ischia che non poteva certo vederlo tra i protagonisti. Eppure quelle indagini, condotte con estrema superficialità, costrinsero Ferrandino a Poggioreale per 22 giorni e ai domiciliari per tre mesi. La gogna mediatica fu pesantissima. La famiglia Ferrandino ne uscì sconvolta. Il padre di Giosi, mentre gli veniva notificata una citazione in qualità di testimone, venne stroncato da un infarto: un fatto che mi colpì in modo particolare avendo io vissuto una vicenda analoga sulla mia pelle. Quando fui arrestato con l’accusa (totalmente infondata) di concussione, riuscii a preservare mia madre dallo choc perché non era presente e, con un escamotage che vedeva complici mia moglie e un amico, le facemmo credere per tre mesi che mi ero recato all’estero per lavoro: l’amico imitava la mia voce al telefono fingendosi me, mentre io giacevo da innocente nelle patrie galere. Fui assolto dopo undici anni con formula piena. E non venni neppure risarcito perché i giudici ritennero che la mia persona fosse così autorevole da indirizzare, con la sola presenza o assenza, il voto di un’assemblea elettiva. Follia giudiziaria. Fatto sta che ci sono eventi la cui portata è in grado di sconvolgere una comunità e di lasciare segni indelebili nel tempo. Anche Giosi è stato poi scagionato in primo grado e in appello. Adesso i pm hanno deciso di non impugnare la sentenza di assoluzione che, di conseguenza, è divenuta definitiva. Ma sono stati anni drammatici, in cui un onesto e anziano albergatore, padre dei fratelli Ferrandino, ha pagato con la vita il dolore e la tensione provocati dall’arresto del figlio. Nessuno pagherà mai per l’errore giudiziario (uno dei tanti) che va a incrementare il terribile record che il distretto di Corte d’appello di Napoli ha fatto segnare anche nel 2020.  Nessuno chiederà scusa ai Ferrandino. Nessuno pagherà per la superficialità delle indagini, per la decisione affrettata di disporre gli arresti. Nessuno risarcirà economicamente e moralmente un galantuomo come Giosi. Quell’esperienza può essere compresa solo da quanti ci sono passati. E sono tanti, troppi. Ecco perché è sacrosanto battersi per il referendum sostenuto dai Radicali. Ed ecco perché tutti farebbero bene a leggere Il Sistema, il libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, e ad assistere agli spettacoli che Edoardo Sylos Labini sta portando nei teatri. Napoli, la Campania e il Sud devono essere in prima linea nel sottoscrivere tutti i quesiti referendari e nel sostenere la battaglia per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla magistratura. Ferrandino ha trovato un “giudice a Berlino”. Ma la politica deve trovare il coraggio per una vera e strutturale riforma della giustizia. Non deve temere le reazioni stizzite dell’Anm né i sermoni ipocriti di David Ermini. Non deve preferire il quieto vivere del politically correct. È ora di riformare la giustizia arginando abusi e delitti. Mai più dobbiamo vedere fatti come quelli di Santa Maria Capua Vetere, dove uomini delle forze dell’ordine hanno usato violenza nei confronti dei carcerati. Dobbiamo vigilare: perché l’agibilità democratica va di pari passo col buon funzionamento della giustizia. Amedeo Laboccetta

·        Giovanni Bazoli.

La sentenza del tribunale di Bergamo. Piena assoluzione per Bazoli, ma smontato lo scandalo i giornali restano in silenzio…Angelo De Mattia su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Dai giornali che avevano dato grande e ripetuta evidenza al rinvio a giudizio di Giovanni Bazoli poco è stato scritto dopo la piena assoluzione per “non aver commesso il fatto” per il reato di illecita influenza in assemblea e perché “il fatto non sussiste” per l’ostacolo all’Autorità di Vigilanza. I fatti si riferiscono a un’assemblea di Ubi banca, di cui Bazoli era stato Vice Presidente, tenuta circa sette anni fa per la quale erano stati ipotizzati presunti reati per 30 esponenti, 29 dei quali sono stati assolti e/o prosciolti per intervenuta prescrizione. L’assoluzione è stata decisa dal Tribunale di Bergamo dopo che la Procura aveva chiesto condanne da otto mesi a sei anni (dei 30 esponenti l’unica condanna irrogata – a un anno e sei mesi – riguarda l’ex presidente del consiglio di gestione della Banca). Chi conosceva da tempo Bazoli non aveva mai dubitato della sua integrità. Ma egli ha ragione di sottolineare, accanto all’apprezzamento dell’autonomia del Tribunale giudicante, lo sconvolgimento della vita patito per sette anni. Quanto alla stampa, siamo alle solite: il rinvio a giudizio, se non addirittura le indagini, costituiscono la notizia. Ciò che avviene dopo, archiviazioni, assoluzioni, proscioglimenti, interessa molto meno, anche se tocca profondamente la vita dei cittadini. Certo, si dirà, questa è la fisiologia del processo (non certo per la sua durata anomala) che mira all’accertamento della verità. Ed è bene che vi sia una pluralità di organi che corregge gli errori, a volte marchiani, delle iniziali incolpazioni. Ma, soprattutto in un campo complesso e delicato, qual è quello finanziario, occorre una svolta nell’organizzazione e nella competenza, innanzitutto del ramo inquirente. Occorre un irrobustimento delle professionalità che riduca pure la dipendenza da consulenti vari quando addirittura questi non siano funzionari delle stesse Autorità di controllo che, nel processo, possono svolgere un diverso ruolo, da parti civili a comunque esercenti una funzione di collaborazione con l’accusa. Ma nella vicenda in questione abbiamo anche letto iniziali inopinate dichiarazioni colpevolizzanti di presunti esperti i quali, per primi, oggi dovrebbero fare autocritica, se non altro per la loro credibilità. Bazoli ha alle spalle un nutrito cursus honorum, da quando, su richiesta dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, assunse la presidenza del Nuovo Banco Ambrosiano, frutto dell’estinzione del vecchio Banco di Roberto Calvi finito in dissesto per il suo coinvolgimento nelle vicende della P2 e della delinquenza organizzata. Quella fu una fase assai delicata della vita del Paese sotto le minacce di poteri occulti che pochissimi anni prima avevano scatenato un attacco, con le commistioni con gruppi politici ed economici, contro la Banca d’Italia di Baffi e Sarcinelli, facendo sì che una parte deviata della Magistratura inquirente li incriminasse per reati palesemente inesistenti (Sarcinelli fu addirittura arrestato), salva, poi, la netta correzione con la piena assoluzione dei due uomini di Stato verso i quali il Paese ha ancora un debito ideale. Con rigore, esperienza e competenza Bazoli ha portato quell’entità iniziale a crescere progressivamente con una serie di acquisizioni e aggregazioni fino a diventare, trasformata in Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana, con l’apporto di saperi e professionalità che, da Presidente, ha saputo scegliere e valorizzare nonché con la collaborazione delle Fondazioni e, innanzitutto quella del leader del settore, Giuseppe Guzzetti. Bazoli, che è stato un docente universitario, è spesso intervenuto sui temi dell’assetto dell’economia, sostenendo, antesignano, la linea dell’esigenza di un “capitalismo temperato”, verso il quale oggi cominciano a orientarsi nel mondo anche grandi associazioni imprenditoriali, come di recente è avvenuto negli Usa. Più volte il suo nome era stato fatto per un impegno diretto in politica (da ultimo, nell’Ulivo), ma Bazoli vi ha sempre rinunciato per la necessità di continuare, con autonomia intellettuale, il proprio impegno nel mondo bancario con uno sguardo costante non solo alla crescita di valore per gli azionisti, ma anche agli interessi generali. La sentenza del Tribunale di Bergamo induce anche a riflettere sul reato di ostacolo all’attività di Vigilanza sul quale non si è ancora formato un solido indirizzo giurisprudenziale. Ma già ora può sostenersi che bisogna distinguere tra ciò che è vero ostacolo da ciò che l’ispettore o chi comunque controlla non abbia individuato, mentre era nelle normali possibilità il disvelamento. Non tutto può essere, insomma, con leggerezza attribuito a questa ipotesi di reato. In definitiva, dalla sentenza di Bergamo può scaturire non poco su cui riflettere.

L’ex ad di Ubi: «Assolto dopo 8 anni, ma la mia reputazione distrutta è stata comunque una pena». Victor Massiah, amministratore delegato di Ubi Banca dal 2008 al 2020, è stato assolto perché «il fatto non sussiste» nel procedimento che, a Bergamo, lo vedeva imputato assieme ad altri trenta manager dell’istituto, tra i quali Giovanni Bazoli. Il Dubbio il 10 ottobre 2021. «Nel nostro mestiere la fiducia e la reputazione sono le cose più importanti, e sono state messe in dubbio per otto anni: la durata delle indagini e del processo. È come se avessimo già scontato una condanna, anche morale». A dirlo, in un’intervista a La Stampa, è Victor Massiah, amministratore delegato di Ubi Banca dal 2008 al 2020. Si tratta della prima intervista rilasciata dopo le dimissioni, rilasciata il giorno dopo l’assoluzione perché «il fatto non sussiste» nel procedimento che, a Bergamo, lo vedeva imputato assieme ad altri trenta manager dell’istituto, tra i quali Giovanni Bazoli, presidente emerito di Ca’de Sass, che alla sentenza ha usato parole durissime: «È inaccettabile che la vita di incensurati cittadini e stimati professionisti e imprenditori sia stata sconvolta da una accusa ingiusta». Massiah era accusato di ostacolo alle funzioni di vigilanza mentre per un’altra ipotesi di reato – l’illecita influenza sull’assemblea del 2103 – è scattata la prescrizione. «Una condanna l’abbiamo già scontata nei fatti – racconta Massiah -: per come ci hanno guardato l’opinione pubblica, le autorità di vigilanza, i colleghi. Per quanto ci sia la presunzione di innocenza il dubbio c’è sempre, il punto è farlo durare il meno possibile. Spero il governo Draghi lavori al meglio per una riforma che aiuti tutti, magistratura e cittadini, a migliorare l’efficienza. Non stiamo parlando della capacità di giudizio ma della efficienza mantenendo la qualità». Secondo l’ex ad, «alle banche, negli anni, è stato affibbiato un ruolo da cattivi: è un fatto. C’è chi ha cavalcato questa cosa, e non parlo della magistratura, ma di chi ha presentato gli esposti che hanno fatto scattare le indagini». Ma che migliaia di risparmiatori e piccoli soci siano finiti sul lastrico, con salvataggi a spese dei contribuenti e famiglie disperate è un dato di fatto, fa notare il giornalista. «Lei ha ragione. Dobbiamo fare una premessa: in ogni campo ci sono situazioni oggettivamente negative, nel caso nostro però nessun risparmiatore o cliente ha perso un euro, come purtroppo è avvenuto in altre situazioni. Dai noi le indagini sono partite da una serie di esposti fatti da qualche privato che poi ha transato con la banca che ci ha acquisito uscendone con un ritorno economico. Un meccanismo vizioso, va corretto. Il tutto in una situazione che si è dimostrata non penalmente rilevante. Non scordiamoci infine che questa lentezza nel procedimento ha anche portato alla prescrizione di una delle accuse: non è bene per nessuno». Una vicenda che ha danneggiato la sua carriera da manager, afferma Massiah: «Inevitabilmente in qualche modo crea un dubbio anche nelle autorità di vigilanza». «Dopo la crisi del 2008, che da noi è arrivata nel 2011 – continua -, le banche erano considerate causa del problema. Oggi, con l’emergenza Covid, sono la soluzione visto che sono state usate come trasmissione delle garanzie statali. Il fatto che si siano risolte situazioni di mala gestio e ci sia stato un cambio di paradigma non può che fare bene a tutti». Le banche italiane, assicura, «sono molto solide, si sono liberate dalla grande maggioranza dei crediti a rischio, c’è stata pulizia e hanno rafforzato il capitale». Oggi Massiah insegna come professore a contratto all’università Cattolica, «che ringrazio per la fiducia, e attraverso una serie di investimenti sto aiutando dei giovani a lanciare avventure di successo. Un esempio: il25 ottobre c’è inaugurazione del primo stabilimento di Planet Farms, che sostanzialmente produce insalata e in futuro coltivazioni di bassa altezza, dentro serre verticali che usano meno acqua e terra e stanno avendomi grande successo di vendite». E i cda non gli mancano: «Mi piace dedicare quest’ultima fase di lucidità della mia vita ai giovani».

La sentenza nel silenzio generale. Processo Ubi Banca, tutti assolti ma Fatto e co. ignorano la sentenza. Frank Cimini su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. È diventato molto difficile di questi tempi per le procure vincere i processi ai cosiddetti “colletti bianchi”. L’assoluzione per tutti gli imputati (tranne uno e per una vicenda sicuramente secondaria) è arrivata anche a Bergamo nella vicenda Ubi banca. L’imputato più noto è Giovanni Bazoli uno dei protagonisti delle storie bancarie del paese che rispondeva di ostacolo alle autorità di vigilanza, Consob e Bankitalia oltre che di influenza illecita sulle scelte dell’assemblea che aveva portato alla nascita di Ubi nel 2013. È molto interessante osservare il comportamento dei giornali nel dare conto della sentenza arrivata nella serata di venerdì scorso dopo una decina di ore di camera di consiglio. Il Fatto Quotidiano che aveva dedicato più di altri mezzi di informazione spazio alla vicenda per anni sposando in toto le tesi dell’accusa pubblicava poco più di una breve, 25 righe, nelle pagine interne e senza tornare nei giorni successivi sull’argomento che tanto aveva appassionato. Sul fronte opposto a quello del Manette Daily troviamo il quotidiano locale L’Eco di Bergamo che aveva seguito l’inchiesta e anche il processo con il suo cronista giudiziario sempre presente a tutte le udienze ma pubblicando solo pezzettini di poche decine di righe. Il giorno dopo il verdetto invece si sono lette due intere pagine e successivamente un’intervista molto accomodante, in pratica senza domande, all’imputato Andrea Moltrasio. L’Eco è di proprietà della Curia, caso unico in Italia, che aveva acquistato un bel pacchetto di azioni Ubi che nel frattempo si sono deprezzate fino a valere circa la metà. Insomma è la storia dell’editore potere forte della città in una sorta di conflitto di interessi e che mostra riverenza e rispetto per un altro potere forte. Un altro quotidiano che era stato molto sensibile (eufemismo) all’ipotesi della procura (ricordiamo che per Bazoli la richiesta di pena era stata di 6 anni e 2 mesi) Repubblica pubblicava zero righe. Il giornale che ha il record di aver perso più copie in Europa negli ultimi anni del resto era già stato protagonista di una simile esperienza quando Silvio Berlusconi venne assolto per il caso Mediatrade. Manco una riga dopo aver cavalcato oltremisura la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Più corretto è stato il comportamento del Corriere della Sera che aveva in pagina un pezzo in nazionale e l’apertura del fascicolo locale. La Stampa e Il Giornale davano notizia dell’assoluzione ma senza esagerare. Nei giorni successivi invece silenzio generale da parte di tutti i media. L’attenuante (parziale) sta in un’imputazione molto tecnica non facile da spiegare al grande pubblico. Frank Cimini

Francesco Battistini per il "Corriere della Sera" il 28 settembre 2021. «È stato come essere condannati a morte...». Nell'aula bunker di Rebibbia, quando all'una e mezza i giudici dell'ottava sezione penale l'assolvono con formula strapiena, Giffoni scoppia a piangere. Si strofina gli occhi e si scusa, perché da una vita il suo mestiere è quello di nascondere le emozioni e adesso non gli riesce: «Mi spiace, sono in pieno choc emotivo Ma dovete capire: quel che m' hanno inflitto in questi sette anni e mezzo, per un ambasciatore equivale alla pena capitale. Sì, non lo dico io, lo dice una legge del 1953: la radiazione d'un diplomatico è equiparata alla fucilazione per alto tradimento in tempo di guerra E loro m' hanno fucilato, senza alcun diritto di farlo. La mia vita è stata distrutta. Una prova durissima di resistenza fisica, morale e materiale. M' hanno espulso dal corpo diplomatico, ho avuto due infarti, un ictus, un tumore, il mio matrimonio è finito, m' è rimasto vicino solo mio figlio di 12 anni e son dovuto tornare in casa da mia mamma, a sopravvivere con la sua pensione E questo perché? Per cose che non solo non avevo mai fatto, ma neanche mai pensato di fare. Era tutto infondato». Assolto perché il fatto non sussiste: non si sognò mai di formare un'associazione a delinquere. Assolto perché il fatto non costituisce reato: men che meno, si mise mai in testa di favorire l'immigrazione clandestina. Nella mostruosa galleria dei Kafka italiani, ecco il caso della fucilazione senza processo inflitta sette anni e mezzo fa all'ormai ex ambasciatore Michael Giffoni, 56 anni, newyorkese di nascita e italianissimo per spirito di servizio, incarichi dalla Bosnia alla task force del «ministro» europeo Javier Solana, che nella storia sarà ricordato perché fu il primo ad aprire una nostra ambasciata a Pristina, subito dopo l'indipendenza del Kosovo. E il primo, anzi l'unico, a essere cacciato con disonore: «Senza che nemmeno fosse cominciato il processo, il ministero degli Esteri mi tolse tutto: rango, incarichi, stipendio. Feci due volte ricorso al Tar, che per due volte mi reintegrò. Ma per due volte la Farnesina ribadì la mia destituzione: una a firma dell'allora ministra Federica Mogherini; la seconda, del segretario generale Elisabetta Belloni. Ero accusato di dolo e colpa grave, senza uno straccio di sentenza penale contro di me». La sentenza ora è arrivata, «dopo 4 anni di processo, di tanta gente che t' abbandona, di soldi che non ci sono, d'un telefono che passa da cento chiamate al giorno a sette-otto all'anno». E ha appurato come l'ambasciatore Giffoni non c'entrasse proprio nulla con quel suo collaboratore locale - peraltro figlio di Ibrahim Rugova, il «Gandhi del Kosovo» - che fra il 2008 e il 2013 trafficava in visti e permessi di soggiorno. Chi l'ha conosciuto nei suoi 23 anni da diplomatico sul campo, uno che è stato a Sarajevo sotto le granate e ha visto gli orrori di Srebrenica, non ha mai dubitato un attimo di Giffoni. Ma alla Farnesina si son fatti un altro film: «Non so se in Kosovo io abbia mai toccato interessi o suscettibilità. Non me la sento neanche di dare colpe. Credo che il mio caso sia stato più che altro un impazzimento. Un accanimento feroce e disumano. Di chi conosceva il mio profondo attaccamento al Paese e ai valori dell'Ue». E ora? «Non è finita, lo so. In uno stato di diritto la mia riabilitazione dovrebbe essere automatica: non in Italia. Per me, fare l'ambasciatore era una missione e questo è il peggio: m' hanno destituito non solo dal mio lavoro, ma dalla mia vita e dalla mia anima».

·        Giovanni Novi.

Giovanni Novi: «Io come Tortora: prima l’arresto show poi l’assoluzione». Il calvario giudiziario di Giovanni Novi, ex presidente dell’Autorità portuale di Genova, a processo per reati mai commessi. «Mia moglie è morta 11 giorni dopo l’arresto: non ha retto», racconta al Dubbio. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 22 maggio 2021. «Mi spiace solo che mia moglie quando sono stato assolto non c’era più», afferma Giovanni Novi, ex presidente dell’Autorità portuale di Genova, fondatore di una della società di brokeraggio più importanti del Paese, cavaliere del lavoro. La vicenda giudiziaria di Novi è stata racconta dal giornalista del Foglio Ermes Antonucci nel suo ultimo libro “I dannati della gogna”, edito da Liberi libri, dal mese scorso nelle librerie. La mattina del 4 febbraio 2008 Novi sta trascorrendo il suo penultimo giorno da presidente dell’Autorità portuale di Genova, carica che ricopre da quattro anni con piena soddisfazione del ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi per le iniziative portate a termine. Mentre è a casa a fare colazione con sua moglie e con una coppia di amici milanesi, improvvisamente squilla il telefono. «È un tenente della guardia di finanza, un mio amico: mi dice che deve notificarmi un documento. Gli do appuntamento in ufficio, ma mi risponde che sarebbe stato dalle mie parti e avrebbe portato lui il documento. Passa un’ora, però, e lui non arriva. Lo chiamo anche al telefono tre volte», racconta Novi. «Ho saputo solo dopo – prosegue – cosa stesse succedendo: sono stati un’ora davanti casa mia e poi sono arrivati i giornalisti e i fotografi a riprendermi mentre i finanzieri mi notificava gli arresti domiciliari». «I pm volevano che ci fossero i fotografi», precisa Novi. La Procura del capoluogo ligure avanza contro di lui una serie infinita di accuse; alla fine saranno tredici i capi di imputazione, che vanno dalla concussione alla turbativa d’asta, dalla truffa all’abuso d’ufficio, per presunte irregolarità nella concessione dei moli del porto ai terminalisti. In particolare, Novi viene accusato di essere il garante di un patto stipulato da un gruppo di terminalisti, camalli, famiglie di armatori e la stessa Autorità portuale per la spartizione del terminal “Multipurpose”, uno dei pezzi pregiati dello scalo genovese. Il processo di primo grado durerà oltre sei anni, al termine del quale Novi verrà assolto per dodici imputazioni su tredici e condannato solo per turbativa d’asta a due mesi di carcere (i pm avevano chiesto la condanna a sei anni). Due anni dopo, in appello, il reato finirà in prescrizione, ma Novi verrà comunque condannato al risarcimento dei danni a favore dell’Autorità portuale. Nonostante la prescrizione, l’ex presidente e gli altri imputati decidono di fare ricorso in Cassazione. L’epilogo giunge il 13 marzo 2014, quando la Suprema corte confermerà l’assoluzione per Novi, per tutti i tredici capi di imputazione, e per gli altri imputati. Nella sentenza i giudici sottolineando che Novi non solo non commise alcun reato ma agì per il bene del porto, lo assolverà perché “il fatto non sussiste”. Nel frattempo, però, le accuse avevano macchiato per anni la sua figura. La prima a pagare le conseguenze del blitz dell’arresto mediatico, come detto, era stata sua moglie, Nucci Ceppellini, ex assessore al Turismo della regione: dopo la visita dei finanzieri e dei cronisti, in serata crollerà. Viene ricoverata in ospedale dove il marito non può andare in quanto posto agli arresti domiciliari. Quando Novi ottiene il permesso ha solo il tempo di salutarla essendo entrata in coma. Il giorno successivo Nucci muore, a undici giorni di distanza dall’arresto sotto i riflettori del marito. «Ad ammazzare mia moglie è stato il tumore certo, ma, come mi hanno spiegato i medici, in casi di forte choc vengono a mancare le difese immunitarie», spiega Novi. «I pm hanno un potere in mano enorme. Per cinque-sei anni possono tenere le cause in piedi. Praticamente nessuno dice niente se loro sbagliano», sottolinea l’ex presidente dell’Autorità portuale.

·        Giovanni Paolo Bernini.

Aveva subito false accuse di voto di scambio. Fine dell’incubo per Giovanni Paolo Bernini, assolto due volte ma non bastava…Paolo Comi su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Nemmeno l’assoluzione ferma la Procura della Corte dei Conti. Che però, poi, fortunatamente, viene battuta. Giovanni Paolo Bernini, ex presidente del Consiglio comunale di Parma e attuale responsabile Giustizia in Emilia-Romagna per Forza Italia, venne coinvolto nel 2015 nell’indagine Aemilia, la maxi inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta al Nord. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio, è stato poi assolto in primo e secondo grado. Secondo i pm, che avevano anche chiesto la custodia cautelare in carcere nei suoi confronti, avrebbe dato cinquantamila euro al boss cutrese Romolo Villirillo in cambio di voti per le elezioni amministrative nel 2007, dove era poi risultato il più votato. Interrogato durante il processo, però, Villirillo aveva smentito di aver ricevuto un solo euro dal politico forzista. Bernini, che pensava dunque di aver scampato il pericolo, non aveva considerato la Procura regionale della Corte dei Conti. Pur in presenza di assoluzione, i pm contabili gli hanno aperto un procedimento per “danno d’immagine” al Comune di Parma, ora guidato dall’ex grillino Federico Pizzarotti. Essendo stata contestata una dazione di 50mila euro, il risarcimento in via “equitativa” era diventato il doppio. La Procura regionale della Corte dei Conti era talmente sicura della bontà del proprio operato al punto da inserire questo procedimento all’interno della relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario tenutasi lo scorso 26 febbraio a Bologna. Per il procuratore Carlo Alberto Manfredi Selvaggi il “caso” Bernini, fra le centinaia di procedimenti pendenti, era uno dei più meritevoli di attenzione da parte del grande pubblico. Il mese scorso, comunque, la lieta notizia: la Corte dei Conti ha respinto la richiesta della procura e ha stabilito la nullità dell’azione risarcitoria. Per i giudici la mancanza di una sentenza di condanna non poteva comportare quella maxi richiesta danni di 100mila euro. «Da anni sono oggetto di tortura giudiziaria. La richiesta di risarcimento della Procura era completamente assurda», ha affermato Bernini che si è subito tolto un sassolino dalle scarpe. «Sto valutando – prosegue – di denunciare per diffamazione i vertici politici dell’amministrazione di Parma: in questa vicenda hanno fornito una ricostruzione dei fatti non corrispondente alla verità giudiziaria». Paolo Comi

·         Giuseppe Gulotta.

Giuseppe Gulotta e la strage di Alcamo: «I miei 22 anni in carcere per un delitto mai compiuto». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 27 ottobre 2021. Voleva essere reclutato nella Guardia di Finanza, Giuseppe Gulotta, ragazzo di Alcamo. Aveva diciotto anni, compiuti il 7 agosto 1975. Era andato a Roma, aveva riempito un mucchio di scartoffie e firmato un sacco di documenti. Gli avevano detto che era andato bene e che un giorno sarebbe stato assunto e forse la sua prima destinazione sarebbe stata l’Isola d’Elba. Fin da ragazzo aveva lavorato, da barbiere o da manovale. Ma lo Stato che voleva servire lo ha sbattuto in galera per 22 anni, innocente. Parlo con lui, sopravvissuto all’ingiustizia. «Quando, la sera del 12 febbraio del 1976 Mi è sembrato normale: ho pensato che, giustamente, la Guardia di Finanza voleva sapere tutto di me, prima di farmi indossare la divisa grigioverde. Ma quando sono uscito fuori, erano le dieci di sera, c’erano troppe macchine ad attendermi. A fine gennaio erano stati uccisi due ragazzi dell’Arma, nella caserma di Alcamo Marina. Trucidati. Si chiamavano Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, uno aveva 35 anni, l’altro solo 18. La mia stessa età. Un assassinio che sconvolse la mia città, la Sicilia e l’Italia intera. Mi portano in caserma e lì mi tengono in una stanza un paio d’ore. Io chiedevo perché mi trattenessero, ma loro mi intimavano di stare zitto e che prima o poi mi avrebbero detto le ragioni. All’improvviso, verso la mezzanotte, si apre la porta ed entra un bel numero di carabinieri. Mi afferrano con forza, mi mettono su una sedia. Mi legano mani e piedi alla sedia e iniziano a bastonarmi e a tirarmi pugni e schiaffi. “Dai confessa, sappiamo tutto”. Sembrava uno di quei film in cui c’è il poliziotto buono e quello cattivo: uno cerca di convincerti con le parole, l’altro con le mazzate. È stata una notte tremenda, uscivano e rientravano, quando ritornavano mi dicevano che gli altri avevano confessato, ma non mi dicevano chi erano questi “altri”. Io non capivo di cosa parlassero, mi sembrava tutto assurdo, un incubo inspiegabile. Io ripetevo solo che non sapevo nulla, non mi rendevo conto di quello che improvvisamente mi stava succedendo, del gorgo in cui ero precipitato. A un certo punto mi dissero che ero accusato dell’assassinio dei due carabinieri di Alcamo Marina. Io continuavo a gridare, in quella notte infame, c he non sapevo nulla, non c’entravo nulla. Ero un ragazzo di diciotto anni e volevo solo tornare a casa mia. Ma la parola “nulla” era una miccia che li accendeva, appena la pronunciavo partivano i pugni. Così tutta la notte. C’era un uomo in divisa, sembrava un ufficiale. Io non sapevo chi fosse, non conoscevo la natura dei gradi. La mattina sono svenuto, il mio fisico non ce l’ha fatta più; me la sono anche fatta addosso. Quando sono rinvenuto gli ho detto che avrei confessato quello che volevano, tutto quello che volevano, purché la facessero finita. È così che mi sono autoaccusato. Mi hanno dato pugni, schiaffi, tirate di capelli, calci nelle gambe... Mi hanno puntato la pistola sulla faccia, facendomi sentire il rumore, mi hanno afferrato e strizzato i testicoli. Mi urlavano di farmela pure addosso, dopo una notte intera, che tanto non mi avrebbero mai fatto andare in bagno. Avevo diciotto anni, ero terrorizzato. Volevo solo che finisse, che finisse presto. Mi dicevano che se non confessavo non sarei mai più uscito. Avevo dolore e paura. Qualsiasi ragazzo della mia età, che non aveva mai avuto nulla a che fare con quelle cose, avrebbe confessato di tutto... E così ho fatto io, Giuseppe Gulotta. Con questo nome e cognome mi hanno fatto firmare un verbale in cui mi autoaccusavo di aver ucciso due ragazzi. Funzionava in questo modo: loro ricostruivano come volevano gli eventi di quella notte del 27 gennaio, e io dovevo rispondere ad ogni frase da loro pronunciata. Loro dicevano: “È andata così, vero?”. E io dovevo rispondere solo “sì”. Così fu redatto il verbale. Al momento della firma non volevo più sottoscrivere quella follia. Fui strattonato e uno mi sibilò: “È meglio che firmi, altrimenti ricominciamo come e peggio di prima”. Il mio nome lo aveva fatto un ragazzo che conoscevo, al quale i carabinieri avevano inflitto la stessa pena». Giuseppe Vesco, è un giovane fragile, con idee e comportamenti confusi. Gli manca un braccio, perduto nel maneggiare da bambino una bomba della guerra. Fin dalle prime ore successive alla strage di Alcamo, esattamente come sarà per la morte di Giuseppe Impastato, viene fatta circolare la «pista rossa». Vesco non ha alcun precedente politico, ma improvvisamente si dichiara membro di sconosciute formazioni armate siciliane. La verità sulla notte dell’arresto la racconterà alla Commissione Antimafia Nicola Biondo, un giornalista che ha seguito da sempre questa vicenda. A Vesco hanno fatto bere, legato, acqua e sale, un metodo di tortura ben conosciuto. E poi: «Viene recuperato in questa caserma un telefono da campo, vengono scoperchiati i fili, Vesco viene denudato quasi completamente e vengono attaccati gli elettrodi ai suoi testicoli. Per chi non lo avesse mai visto, neanche nei film, un telefono da campo è una scatoletta con i fili e la rotella. Ogni rotella è una scarica. Vesco fa così il nome del capobanda, dell’uomo adulto, che magari poteva avere qualche «pregiudizio di polizia» — si diceva un tempo — o qualche parentela. È Giovanni Mandalà, fa il bottaio, viene da una famiglia molto umile e vive a Partinico, a pochissimi chilometri da Alcamo, in provincia di Palermo...Vesco ha fatto, in quelle condizioni, il nome di Gulotta e di due suoi amici. Tutti insieme, per capirsi, avevano festeggiato il diciottesimo compleanno di Gulotta, solo qualche mese prima. Vesco, per essere credibile, ha aggiunto, o gli hanno fatto aggiungere, l’indicazione di un adulto, Mandalà. Una persona che Gulotta neanche conosceva. Il caso è chiuso. Tutti hanno confessato. Seguirà una interminabile sequenza di processi, appelli, sentenze della Cassazione. dire la verità sugli interrogatori per la strage di Alcamo Marina. Seddik era uno dei carabinieri che aveva partecipato alle indagini. Decise di raccontare la verità. Venimmo interrogati dalla Procura di Trapani. Riscontrarono che raccontavamo le stesse cose. Anche se i luoghi delle violenze erano stati prudentemente trasformati, nuovi arredamenti e nuove tinte alle pareti. Il processo di revisione inizia finalmente nel 2010, dura due anni. Grazie alle testimonianze e alle intercettazioni dei sospettati si arriva alla verità. Nel 2012 viene decretata l’assoluzione per tutti. “Per non aver commesso il fatto”. La sentenza è arrivata, è assurdo, esattamente lo stesso giorno del mio arresto. Ma trentasei anni dopo. Ventidue dei quali trascorsi in carcere. Anni che ho regalato allo Stato. Ho perduto il mio tempo migliore. Avevo diciotto anni, ero un ragazzo. Quando sono stato assolto ne avevo cinquantacinque. Una vita spezzata a metà». rapporto abbia ora con l’Arma. «Ho grande rispetto e grande considerazione. Se non ci fossero i carabinieri sarebbe il Far West. Io ce l’ho solo con quelli che hanno sporcato la divisa e non onorato la memoria di quei ragazzi morti che non hanno avuto giustizia. Le loro famiglie fanno bene a dire: “Per quarant’anni lo stato mi ha indicato dei colpevoli, ora non ci sono più. Ma chi ha ucciso i nostri figli e fratelli?”». Già, la domanda resta quella che gli investigatori dovevano porsi quella sera. Invece di perquisire, come fecero, la casa di Giuseppe Impastato o di fare del male a dei ragazzini innocenti. Anche di Gladio, sostenendo, da parte di un ispettore di polizia, che i due carabinieri avrebbero fermato un camion sospetto, sul quale c’erano armi appartenenti alla struttura clandestina già operante in zona da tempo.

Possiamo però concludere questo allucinante racconto con le parole di un autorevole magistrato siciliano: «La strage di Alcamo Marina, insieme ai mandanti degli omicidi politici Reina, Mattarella e La Torre e ad altri importanti fatti di sangue, sono buchi neri su cui nessuno ha saputo fare luce. Neanche i collaboratori di giustizia che la procura di Palermo ha messo insieme nel corso degli anni, hanno saputo dire nulla di utile, ad esempio, proprio sulla strage della casermetta. Questo porta a pensare che Cosa Nostra non abbia avuto nulla a che vedere con quell’eccidio».

·        Jonella Ligresti.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 19 maggio 2021. Quel ricordo punge ancora come uno spillo: «Era la sera del 20 luglio 2013, mi avevano arrestato tre giorni prima ed ero sfinita dal viaggio interminabile iniziato a Cagliari alle quattro del mattino». Jonella Ligresti prende fiato, mentre la sua faccia si rannuvola: «Ricordo le Vallette di Torino con angoscia, ma il momento dell' ingresso in cella, in quella cella, come un supplizio. Sulla porta ho visto quella stanzetta, due metri per quattro, un letto a castello e nemmeno una sedia per mangiare, e mi è preso il panico: mi sentivo soffocare, una crisi di claustrofobia, non capivo più niente, urlavo, mi sono aggrappata al muro. Poi è arrivato un prete e mi ha detto: Devi entrare perché ti hanno arrestato. Ho aperto la mano, ho lasciato la presa e ho fatto quei due passi. In quell' ambiente strettissimo ho trascorso due mesi durissimi, sempre in compagnia di una donna anziana e semicieca accusata di concorso in omicidio». Ligresti è seduta nel salotto della sua casa milanese, dalle parti dell' ippodromo di San Siro e degli amati cavalli; ai suoi piedi una muta di quattro cani in adorazione. Lei si asciuga le lacrime che non sono uscite e riprende, quasi di corsa: «La domenica sono andata a messa e il sacerdote mi ha detto: "Tu devi rinnegare il tuo cognome". Ma io non dovevo rinnegare niente, anzi io sono una figlia innamorata di suo papà che era un genio. Citylife deve molto a mio padre; me lo ricordo a discutere con Libeskind: erano chini sulle carte del progetto e a un certo punto papà ha tirato fuori la sua matita rossa e blu, la stessa che gli ho infilato nel taschino prima di chiudere la bara, e ha iniziato furiosamente a fare correzioni. L' archistar ascoltava, poi in italiano ha detto: "Hai ragione Salvatore". Piazza Gae Aulenti dovrebbe chiamarsi piazza Salvatore Ligresti». Adesso che tutto è finito è arrivato finalmente il momento di raccontare: il 12 maggio, il gip su richiesta della procura di Milano ha archiviato tutte le accuse. Il falso in bilancio e l' aggiotaggio informativo. L' hanno prosciolta, come avevano assolto, in un altro procedimento, il fratello Paolo e, dopo la revisione, la sorella Giulia. Ma in mezzo ci sono otto anni di inchieste e dibattimenti, quattro mesi in carcere - Cagliari, Torino e Milano - altri otto ai domiciliari, una condanna poi annullata in primo grado a Torino a 5 anni e 8 mesi, la perdita della compagnia assicurativa di famiglia, la Fonsai, e di tutte le altre cariche, decine di articoli in cui era dipinta come una manipolatrice del mercato senza scrupoli. Adesso guarda l' Ipad: è un messaggio di posta elettronica dove, in poche righe, il giudice di Milano, dove il fascicolo era arrivato nel marzo 2019 per competenza, mette la parola fine a tutta questa storia, senza nemmeno bisogno di arrivare al dibattimento. «Ero la presidente di Fonsai non per chissà quali competenze, ma solo perché ero la figlia dell' azionista più importante. Però il lavoro mi piaceva e andava bene. C' era stata un' ispezione dell' Isvap che aveva raccomandato prudenza su una singola posta di bilancio, chiedendo di rinforzare le riserve, ma nulla di più». E invece a luglio 2013 la magistratura di Torino parte in quinta: «Papà finisce ai domiciliari, io e Giulia in cella, mio fratello evita le manette solo perché cittadino svizzero. Non avevo fatto niente, non capivo perché ero finita dentro, ma dopo i primi giorni di disorientamento mi sono fatta coraggio: l' importante in prigione è darsi un ritmo, anche se sei in condizione drammatiche. Scrivevo le lettere per le Rom che mandavano notizie ai loro cari e nel caldo insopportabile dell' estate, seduta o sdraiata sul letto 22 ore al giorno, avevo allestito il mio frigo personale nel bidet». Jonella interrompe la conversazione, si accende una sigaretta e parla con la figlia Ludovica che ha appena creato un brand di moda. «C' è stato un giorno in cui mi sono arresa: era ottobre, ero a San Vittore, con una coinquilina napoletana, pure dentro per omicidio, che cucinava meravigliosamente e aveva recuperato un sontuoso set di pentole, lasciate da Patrizia Reggiani che aveva appena abbandonato la cella di fronte. L' avvocato Lucio Lucia, che mi veniva a trovare quasi quotidianamente con gli altri difensori Marco Salomone e Salvatore Scuro, mi chiama: «Ce l' abbiamo fatta. Vai a casa». Ho aspettato tutto il giorno, ma non era vero. Mi avevano illuso. La mattina dopo è venuta a trovarmi mia figlia Ludovica: «Mamma, Paolino piange tutte le notti, vuole la sua mamma, mamma basta, patteggia, patteggia ed esci». Paolino, che oggi fa ingegneria come il nonno, aveva solo 11 anni: «Ho dato l' ok al patteggiamento e ho firmato una carta in cui ammettevo non so che cosa. La mia fortuna è stata che il giudice ha ritenuto la pena non congrua e il patteggiamento è saltato». Ora è tutto passato, ma le ombre restano e l' impero di famiglia è sparito. «Ho aperto un ristorante in Sardegna - spiega mentre Lulù, la maltese, abbaia festosa - e ho ripreso a cavalcare, la mia grande passione. Ma non posso dimenticare che papà è morto in solitudine, in questa casa, mentre il gruppo veniva spogliato dei suoi beni e rimaneva un guscio vuoto, con addosso una condanna pesantissima che gli è stata tolta solo ora che non c' è più. Papà negli ultimi tempi era silenzioso e aveva lo sguardo disperato di chi vede distruggere tutto quello che ha costruito. Ma papà è ancora con me: la sua firma è tatuata sul mio polso». E questa volta una lacrima, una sola, scende.

·        Leandra D'Angelo.

Da “La Verità” il 14 maggio 2021. Leandra D'Angelo, titolare di un negozio di vendita per conto terzi e di un banco nel mercato domenicale di Porta Portese a Roma, per colpa di intercettazioni telefoniche errate è finita in carcere per 23 giorni e ha dovuto aspettare 3 anni prima di avere giustizia. Il 25 giugno 2009 alla sua porta bussano i carabinieri con un'ordinanza di custodia cautelare, emessa dal Gip di Roma il giorno prima. L'accusa è detenzione di sostanze stupefacenti: 10 grammi di hashish. La donna è incensurata. Arrestato anche il convivente. I due figli minorenni devono trasferirsi dai nonni. Leandra D'Angelo è stata inguaiata da una telefonata intercorsa con un tale Osmanovic, intercettato, nella quale i due parlano di un'auto da vendere. Gli inquirenti all'ascolto si convincono che i due usino un linguaggio cifrato per nascondere la compravendita di droga. Così, la donna finisce coinvolta in un'operazione che porta all'arresto di 54 persone di etnia rom. La donna resta nel carcere di Rebibbia dal 25 giugno al 17 luglio 2009, quando il tribunale della libertà di Roma accoglie il ricorso dell'avvocato Riccardo Radi e annulla l'ordinanza di custodia cautelare sia per la D'Angelo sia per il suo convivente. La vicenda giudiziaria si concluderà tre anni dopo l'arresto. «Le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche erano state chiaramente travisate», ricorda l'avvocato Radi. «Mi bastò ascoltarle attentamente e farle trascrivere come si deve, per dimostrare la completa estraneità della mia assistita a ogni accusa. Ebbi la netta sensazione che il Gip avesse fatto in quell'occasione di tutta l'erba un fascio, senza distinguere le singole posizioni dei vari indagati. Il risultato fu che la mia cliente subì un arresto ingiusto, un'ingiusta detenzione di oltre tre settimane e tre anni di vicenda giudiziaria senza colpa». Nel 2012, divenuta irrevocabile la sentenza di archiviazione, l'avvocato presentò un'istanza di riparazione per ingiusta detenzione. L'obiettivo era di ottenere un indennizzo per i 23 giorni di carcere di Leandra D'Angelo da innocente. Nel 2013 la quarta sezione della Corte d'appello di Roma ha accolto la domanda, disponendo la liquidazione di 4.200 euro. Per la donna, ma soprattutto per i figli, non è stato facile superare il trauma: hanno avuto tutti bisogno di una lunga terapia psicologica. L.D.P.

·        Luciano Cantone.

Giustizia da riformare. Imprenditore assolto 7 anni dopo il suicidio in carcere: “Riabilitata la memoria”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Era accusato, insieme con altri ex dipendenti, di gestire due sale bingo nel Casertano in società con esponenti del clan Russo, una costola dei Casalesi. A distanza di sette anni dall’apertura dell’inchiesta, Luciano Cantone è stato assolto con formula piena dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Un motivo di gioia per l’imprenditore che, con questa sentenza, vede riabilitata anche la memoria del fratello Mario. Già, perché Mario Cantone, anch’egli coinvolto nell’indagine che nel 2013 portò all’arresto di decine di persone e al sequestro di beni per 450 milioni di euro in tutta Italia, finì ben presto in carcere e nel 2014 si suicidò impiccandosi alle sbarre della cella. All’epoca 46enne, Mario Cantone fu l’unico ad andare in prigione; chiese gli arresti domiciliari per due volte e per due volte gli furono negati, sebbene versasse in condizioni psicologiche alquanto precarie; in una circostanza il Riesame impiegò circa tre mesi per depositare le motivazioni del provvedimento. Ora, a distanza di circa sette anni dalla sua morte, Mario Cantone viene di fatto assolto insieme con il fratello e i loro ex dipendenti. La vicenda colpisce non solo per il dramma umano che porta con sé, ma soprattutto per l’immagine della giustizia campana e italiana che restituisce. Lascia basiti la lentezza con cui i magistrati hanno accertato l’insussistenza di qualsiasi legame tra i Cantone e la camorra. Sette anni sono tanti, troppi, e confermano una giustizia pachidermica, farraginosa, capace di costringere indagati e imputati ad autentiche odissee nelle aule di tribunale. La giustizia che ha assolto Cantone a sette anni dall’apertura dell’inchiesta sulle sale bingo è la stessa che poche settimane fa ha sbattuto in carcere un 47enne napoletano condannato per reati commessi nell’ormai lontano 1999; è la stessa che ha impiegato 18 anni per fissare la prima udienza istruttoria nel processo davanti a un giudice di pace; è la stessa che ha richiesto quasi vent’anni per chiarire definitivamente la correttezza dell’operato dell’ex sindaco e governatore Antonio Bassolino. A prescindere dal fatto che la sentenza finale sia di assoluzione o di condanna, una giustizia tanto lenta travolge necessariamente vite e carriere, famiglie e aziende, imponendo a indagati e imputati una compressione delle libertà personali, un surplus di tensione emotiva e spese legali e, spesso, una gogna mediatica francamente inaccettabili. Oltre che lenta, però, la giustizia si dimostra tutt’altro che infallibile: nel 2019, nel solo distretto di Napoli, sono stati registrati 129 errori giudiziari che hanno portato alla liquidazione di indennizzi per l’ingiusta detenzione pari a tre milioni e 200mila euro. In tutta Italia, però, le azioni disciplinari avviate nei confronti dei magistrati non sono state più di 24 e quasi in nessun caso hanno portato a qualche forma di sanzione. Segno che, a più di trent’anni dal caso Tortora, troppe toghe continuano a sbagliare e a non pagare per gli errori commessi. Tutto ciò s’inserisce in un contesto generale in cui la credibilità dei giudici è ridotta ai minimi storici dal sistema di spartizione degli incarichi tra le diverse correnti e dai rapporti poco trasparenti tra queste ultime e ampi settori della politica. Ecco perché servono riforme serie: per restituire efficienza alla giustizia e credibilità alla magistratura.

·        Marcello Dell’Utri.

"Il fatto non sussiste". Marcello Dell’Utri assolto a Napoli: la Procura aveva chiesto 7 anni per i libri dei Girolamini. Redazione su Il Riformista il 19 Gennaio 2021. “Il fatto non sussiste”. Questa la formula con la quale i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Napoli hanno assolto l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri è stato assolto dall’accusa di concorso in peculato in relazione all’appropriazione di 13 volumi trafugati dalla Biblioteca dei Girolamini di Napoli attraverso il direttore Massimo Marino De Caro. La richiesta della Procura di Napoli era di sette anni di reclusione. I giudici della prima sezione panale, presieduta da Francesco Pellecchia, hanno accolto le tesi difensive degli avvocati di Dell’Utri, Claudio Botti e Francesco Centonze. L’ex braccio destro di Berlusconi è tornato in libertà lo scorso 3 dicembre 2019 dopo una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Dal luglio del 2018 era agli arresti domiciliari per motivi di salute, dopo una detenzione in regime di alta sicurezza nel carcere di Parma prima e Rebibbia poi. Gli restano i due anni di sorveglianza speciale decisi nella sentenza di condanna e il conseguente obbligo di firma alla polizia. Dell’Utri entrò in carcere nel maggio del 2014 dopo una breve fuga in Libano alla viglia della pronuncia della Cassazione che ha reso definitiva la sua condanna. Venne così estradato in Italia e trasferito in carcere.

Leandro Del Gaudio per "Il Messaggero" il 20 gennaio 2021. Ha pianto quando gli hanno comunicato la notizia dell'assoluzione. E ha ripetuto un concetto espresso di recente, nel corso del processo al sacco della biblioteca dei Girolamini: «Non ho rubato libri - aveva detto - né ho favorito la carriera di qualcuno, in cambio di testi antichi». Ieri, di fronte all'assoluzione, l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri ha spiegato: «Sono contento che le ragioni della difesa abbiamo infine trovato ascolto. Questa sentenza mi restaura in buona parte l'anima bibliofila, ma non può purtroppo restituirmi quella integrità fisica e serenità psicologica che mi sono mancate in tanti anni di accuse giudiziarie e mediatiche». Prima sezione penale (presidente Pellecchia) del Tribunale di Napoli: assolto perché il fatto non sussiste. Cade l'accusa di peculato, in relazione alla nomina di Marino Massimo De Caro come direttore della biblioteca di via Duomo, che - secondo l'accusa iniziale - sarebbe stata ricompensata con il dono di alcuni testi antichi, da parte dello stesso De Caro. Per Dell'Utri, la Procura aveva chiesto una condanna a sette anni, nell'ambito di una più ampia indagine che ha riguardato l'appropriazione di diversi testi (alcuni ritenuti inestimabili), proprio sotto la gestione di De Caro. Spiegano gli avvocati Francesco Centonze e Claudio Botti, legali dell'ex senatore: «Siamo soddisfatti, perché siamo riusciti a dimostrare che con la nomina di direttore di De Caro, Dell'Utri non ha svolto alcun ruolo». Una vicenda investigativa che si è via via arricchita di intercettazioni telefoniche, acquisizioni di documenti, di confessioni parziali da parte dello stesso De Caro. Stando alle sintesi dei carabinieri del contenuto di alcune conversazioni, Dell'Utri e De Caro si incrociavano in conventi o in biblioteche, a Milano o a Roma, per ragionare di testi. E tra i titoli citati da De Caro, c'erano autori del prestigio di Vico e Moro. Fu poi lui, il direttore De Caro, a sostenere di aver consegnato sei libri a Dell'Utri. Scattò un primo intervento dei carabinieri in via Senato a Milano, dell'allora leader forzista, che culminò in un doppio risultato: il ritrovamento dei libri offerti dal direttore; e la consegna - sponte sua - di altri sette libri, sempre indicati come gentile concessione dello stesso De Caro. Ma conviene rimanere al valore dei testi finiti sotto sequestro e ricondotti a Napoli, al termine della prima fase investigativa. Siamo nel 2014, quando i carabinieri sono alla ricerca dei libri spariti da Napoli. Ne ottengono tredici, anche se non è stato mai ritrovato un testo prezioso, forse il più pregiato tra quelli trafugati a Napoli: parliamo della edizione cinquecentesca della Utopia di Tommaso Moro, un libro inventariato e citato come uno dei pezzi pregiati del complesso monumentale di via Duomo. Fatto sta che tra i «regali» di De Caro, sono saltati fuori la legatura cinquecentesca «Canevari», nonché un'edizione de «Il Principe» di Leon Battista Alberti. Poi: l'«Artificium Perorandi» di Giordano Bruno, il «Clavis Artis Lullianae» di Johann Heinrich Alsted; il «De rebus gestis» di Giovanbattista Vico, che pure De Caro aveva ammesso di aver consegnato al senatore. Unica lacuna, quella rara edizione del 1518 della Utopia di Moro, che finisce al centro di una sorta di palleggio di responsabilità. Un giallo internazionale. Nella sua memoria difensiva, infatti, Dell'Utri cita l'Utopia come donazione dello stesso De Caro, che - dal canto suo, però - declina ogni responsabilità a proposito della scomparsa di quel volume. Ma che fine ha fatto l'ex direttore dei Girolamini? Tornato nella sua Verona, De Caro ha scontato una condanna a sette anni e mezzo per il saccheggio del complesso che avrebbe dovuto tutelare e amministrare. Difeso dai penalisti Leo Mercurio e Ester Siracusa, attende gli esiti del processo per devastazione e saccheggio. Un caso nato all'inizio dello scorso decennio, che ha fatto emergere la vulnerabilità delle testimonianze antiche a Napoli. E il furto di pochi giorni fa, a Napoli, del dipinto Salvator Mundi di scuola leonardesca dalla basilica di San Domenico Maggiore è solo l'ennesima conferma.

L'incubo giudiziario dell'ex senatore: "Sono stato male". Assoluzione Dell’Utri, giudici demoliscono inchiesta nata dalle intercettazioni tra due amici. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. La sentenza è arrivata dopo oltre due anni di dibattimento, una lunga lista testi, le relazioni di consulenti e la testimonianza dell’imputato, che in aula ha spiegato quanto l’accusa al centro del processo abbia pesato sulla sua vita e sulla sua salute più della carcerazione al tempo della condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. L’imputato è Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia e protagonista della prima stagione berlusconiana, appassionato bibliofilo e collezionista d’arte. La sentenza è stata emessa ieri dai giudici della prima sezione penale del Tribunale di Napoli (presidente Francesco Pellecchia) e ha assolto l’imputato con la formula più ampia: «perché il fatto non sussiste». Il processo a Dell’Utri era nato partendo dalla sua passione per i libri antichi e l’accusa si concentrava su quattordici volumi che l’ex direttore dei Girolamini Massimo Marino De Caro (già condannato a sette anni, in un diverso filone processuale, per i libri fatti sparire dallo storica biblioteca) gli aveva regalato e che erano poi risultati tra i testi trafugati. Peculato, il capo di imputazione contestato dai pm di Napoli che avrebbero voluto la condanna di Dell’Utri tanto da concludere la requisitoria con una richiesta di sette anni di reclusione.  I giudici hanno deciso per l’assoluzione. «Siamo soddisfatti – ha dichiarato l’avvocato Claudio Botti, che assieme all’avvocato Francesco Centonze ha rappresentato la difesa di Dell’Utri -. Il senatore teneva moltissimo a questo processo, anche perché riteneva assurdo e ingiusto che uno che ha 40mila libri rari provenienti da tutto il mondo venisse coinvolto in questa bruttissima vicenda solo per alcuni libri avuti in regalo dal signor De Caro. Questa sentenza – aggiunge il penalista – è l’ennesima dimostrazione che quando un processo si fa a fari spenti, si aiutano i giudici a essere autonomi e sereni nelle loro valutazioni». Tra 90 giorni saranno depositate le motivazioni con cui i giudici demoliscono l’inchiesta della Procura. Un’indagine avviata sulla scorta di alcune intercettazioni telefoniche tra Dell’Utri e De Caro, legati da una conoscenza che risaliva a molti anni prima che De Caro assumesse la direzione della biblioteca di via Duomo, e che aveva avuto anche un’eco milanese con il sequestro di 40mila volumi della collezione privata dell’ex senatore in via Senato, poi restituiti dopo l’archiviazione del filone avviato dalla Procura lombarda. «Me li hanno restituiti con un tir dopo averli tenuti sei anni. Molti sono stati rovinati e questo mi fa male ancora oggi» aveva raccontato Dell’Utri dinanzi al Tribunale di Napoli. L’ex senatore aveva l’abitudine di catalogare ogni volume annotando a matita data, occasione e persona da cui lo aveva ricevuto. Aveva fatto lo stesso anche con i volumi donati da De Caro. «Non potevo immaginare che mi regalasse anche libri sottratti dalla biblioteca dei Girolamini» è sempre stata la sua difesa.

Dell’Utri assolto al processo Stato-mafia. Assolti anche i carabinieri. Giovanni Bianconi, inviato a Palermo, su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2021. Cadono le accuse per gli ufficiali dei carabinieri Mori, Subranni e De Donno e anche per Marcello Dell’Utri. Quanto ai boss, prescrizione per Brusca, pena ridotta a Bagarella, condanna confermata per Cinà. «Il fatto non costituisce reato»: la trattativa tra i carabinieri e Cosa nostra avviata tramite l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino al tempo delle stragi di Capaci e via D’Amelio fu dunque legittima, e non c’era il dolo né la volontà da parte degli ex ufficiali dell’Arma Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno di innescare o rafforzare il ricatto mafioso alle istituzioni. Cadono l’accusa e le condanne per minaccia a un Corpo dello Stato. Lo ha stabilito la corte d’assise d’appello di Palermo con la sentenza pronunciata ieri pomeriggio, dopo tre giorni di camera di consiglio, ribaltando quella di primo grado che il 20 aprile 2018 aveva giudicato colpevoli gli ex carabinieri.

La sentenza ribaltata

Per Marcello Dell’Utri l’assoluzione è ancora più radicale: lui «non ha commesso il fatto», cioè non ha veicolato la minaccia al governo guidato da Silvio Berlusconi nel 1994, che fu solo «tentata». Non arrivò dunque a destinazione. Anche l’ex senatore di Forza Italia nel 2018 era stato condannato, come intermediario del ricatto mafioso. Il verdetto d’appello rovescia quindi completamente quello che tre anni e mezzo fa aveva suscitato tanto clamore, sollevandone a sua volta. In questo caso infatti non escono sconfitti soltanto la Procura e la Procura generale che hanno sostenuto l’accusa nei due gradi di giudizio, ma anche i giudici della corte d’assise che avevano individuato reati e colpevoli. E il clamore — per qualcuno lo scandalo, anche se è così che funziona il sistema giudiziario — è ancora più grande perché questo processo non s’è limitato a mettere alla sbarra un pezzo di politica e di apparati investigativi, lo Stato che giudica se stesso; stavolta c’è stato un conflitto istituzionale arrivato ai massimi livelli, coinvolgendo l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intercettato casualmente nei suoi colloqui con l’ex ministro Nicola Mancino. Uno scontro tra il Quirinale e la Procura di Palermo finito davanti alla Corte costituzionale. Furono i danni collaterali dell’indagine sfociata in un processo in cui l’allora capo dello Stato fu chiamato a testimoniare, e le sue dichiarazioni sul ricatto subito dallo Stato con le bombe del 1992 furono tra gli elementi fondanti delle condanne in primo grado.

La prospettiva

In appello, per quello che si può capire dal dispositivo, è cambiata la prospettiva con cui sono stati interpretati gli stessi fatti. Tutto ruota, nella sostanza, intorno all’iniziativa dei Ros dei carabinieri spiegata dallo stesso generale Mori nel 1998, al processo per le stragi del 1993, sintetizzando il dialogo con Ciancimino: «“Ma che cos’è questa storia? Ormai c’è un muro contro muro, da una parte Cosa nostra dall’altra lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”. La buttai lì convinto che lui dicesse “cosa vuole da me?”, invece disse “ma sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. Allora dissi “Provi”». Per le difese era la semplice spiegazione di un’attività info-investigativa tutta in salita e comunque lecita; per l’accusa e i primi giudici un’offerta di disponibilità a trattare che rafforzò la convinzione mafiosa che le stragi producevano risultati. Ora i giudici d’appello hanno stabilito che non c’era la volontà né la consapevolezza, e nemmeno l’accettazione del rischio che con quella proposta si poteva agevolare il ricatto dei boss.

L’assoluzione di Mannino

E questo avevano già affermato i giudici che hanno assolto in tutti i gradi di giudizio l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, accusato dello stesso reato ma uscito prima di scena attraverso il rito abbreviato. Può darsi che quella sentenza definitiva dopo la pronuncia della Cassazione (arrivata a dicembre 2020, a proposito di tempi abbreviati...) abbia influito sul verdetto di ieri. Di certo per la Procura Mannino aveva innescato la trattativa temendo — dopo l’omicidio del collega di partito Salvo Lima il 12 marzo ’92 — di essere la vittima successiva e rivolgendosi al comandante del Ros per salvarsi la vita. Dunque l’anello iniziale della catena s’era già spezzato. Inoltre secondo il verdetto il ricatto al governo Berlusconi fu solo tentato; perciò al boss Bagarella è stato tolto un anno di pena (da 28 a 27), mentre è stata confermata la condanna del medico mafioso Antonino Cinà, considerato un tramite della trattativa che coinvolse i carabinieri. «Non siamo qui per giudicare la storia — aveva detto aprendo il processo il presidente della corte Angelo Pellino —. Gli imputati non sono archetipi socio-criminologici, ma persone in carne e ossa che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto, se si tratta di reati. Questo è l’impegno della corte». Le assoluzioni di ieri sono figlie di quell’impegno, e le motivazioni che saranno rese note fra tre mesi spiegheranno come ci si è arrivati.

Dal "Corriere della Sera" il 24 settembre 2021. «La cosa peggiore di questa stagione segnata dalla presunta trattativa adesso sfumata nelle assoluzioni di uomini politici e ufficiali dei carabinieri è il tempo perso e il danno di immagine fatto all'Arma, all'intero Paese, visto che un certo storytelling ha superato i confini nazionali diventando verità assoluta pure per chi non conosce nemmeno le carte...». È durissimo il verdetto di Giovanni Fiandaca, il cattedratico di diritto penale a Palermo, il professore emerito in passato vicino al Pci e membro del Csm, che ha avuto come allievi proprio alcuni sostituti procuratori impegnati sin dal primo momento nell'impianto accusatorio. «Allievi infedeli», si lascia sfuggire ora che la sentenza di secondo grado conferma tutti i dubbi esposti già nove anni fa con un primo saggio critico e rilanciati nel 2014 con un libro scritto per Laterza con lo storico Giuseppe Lupo. Parla di «tempo perso» perché per lui «era chiaro già all'inizio del processo che mancavano i presupposti giuridici per ipotizzare un concorso nel reato previsto dall'articolo 338 del codice penale per minaccia a un corpo politico». Le sue critiche sono diventate ancora più nette dopo la sentenza di primo grado con una sfilza di condanne commentate nella rivista italiana di diritto e procedura penale «evidenziando i punti deboli sia sul versante della ricostruzione del fatto sia su quello dell'impianto giuridico». Sonore bacchettate per i pm e per la corte presieduta da Alfredo Montalto: «La contraddittorietà degli esiti processuali dimostra come l'impostazione accusatoria fosse ben lontana dalla regola probatoria dell'oltre ogni ragionevole dubbio». Stupito soprattutto dal persistere nelle accuse dopo l'assoluzione per l'ex ministro Calogero Mannino: «Proprio quella aveva fatto venir meno il primo pilastro dell'originaria impostazione».

Paolo Colonnello per "la Stampa" il 24 settembre 2021. «Sono felice, commosso, mi tolgo un gran peso». La voce è ancora squillante ma l'accento palermitano è sempre più attenuato. Il "peso", come lo chiama lui, era gravosissimo: 12 anni di carcere in primo grado, annullati ieri pomeriggio dalla Corte d'Appello di Palermo, «per non aver commesso il fatto». Certo, Marcello Dell'Utri, 80 anni compiuti un paio di settimane fa, non è più l'uomo di una volta, quello ruggente e un po' sprezzante ritratto nelle foto degli anni d'oro, quando inventò Forza Italia, i club di fans per sostenere Silvio Berlusconi e diede vita a quella formidabile impalcatura di consenso ante litteram ottenuta attraverso l'esercito dei venditori di Publitalia, la sua creatura più riuscita, in fondo. Già condannato in via definitiva come concorrente esterno di associazione mafiosa («Un reato che non esiste, inventato per me» raccontò in una lontana intervista), l'ex senatore con quattro anni passati in carcere nel silenzio più assoluto e uno agli arresti domiciliari, è ora un uomo incanutito con i segni del tempo e del destino ben visibili in volto. Dell'Utri ieri ha atteso la sentenza di Palermo che l'ha mandato assolto dall'accusa di violenza o minaccia ai corpi dello Stato, giornalisticamente tradotta in "trattativa Stato-mafia", dalla sua abitazione di Milano Due. Aspettando la telefonata fatidica dell'avvocato Salvatore Centonze, il legale che lo ha accompagnato nell'ultimo decennio di battaglie giudiziarie, tra i libri che ricoprono le pareti di uno studio che si affaccia sul primo foliage settembrino del quartiere satellite per ricchi che fu la vera utopia del Cavaliere. 

E adesso?

«Adesso niente, oggi è il giorno della gioia, dell'allegria. Anche se mi hanno riversato tanto di quel fango addosso. Ma ormai è finita, anche se gli stent rimangono...». 

Che significa?

«Che in tutti questi anni, ho subito due infarti e ho dovuto farmi operare. Chi mi ripaga di questo danno? Nessuno. Ma non mi voglio lamentare, nossignore». 

Vorrebbe far causa allo Stato?

«Ma figuriamoci. E a chi poi? Lo Stato sono anch' io. No, basta così». 

Una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e adesso un'assoluzione dall'accusa di aver portato le richieste della mafia a Berlusconi. Qualcosa stride, non le pare?

«È sempre stata la stampa a dire che ero un mafioso. Io non l'ho mai pensato di me stesso e dunque direi che questa assoluzione mette in dubbio anche la precedente condanna». 

Ci saranno ricorsi?

«Senta, io sono stanco di queste cose. Stanco, capisce?». 

Passeggiate ai giardinetti d'ora in poi, da bravo pensionato?

«Macché, vivo tra i miei adorati libri. Sopra, sotto, a fianco, dietro di me: ovunque sono sommerso da libri. Ogni giorno lo passo nella mia adorata biblioteca. Vado in via Senato e lì mi rinchiudo». 

Carcerato tra i tomi. C'è qualcuno che deve ringraziare?

«Certo: i miei avvocati e la mia famiglia innanzitutto che in questi anni ha sopportato quanto me questo calvario. E tutti quelli che hanno creduto nella mia innocenza nonostante tutto, nonostante il fango che mi è stato gettato addosso". 

Silvio Berlusconi lo ha sentito?

«La ringrazio per la telefonata...».

Un ultima domanda: qual è il libro che leggerà per festeggiare l'assoluzione?

«Pinocchio, il mio adorato Pinocchio. Il più bel libro che ci sia».

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per ilfoglio.it il 14 ottobre 2021.

Ma è vero che Berlusconi le baciava le mani, e la chiamava don Dell’Utro?

“Certo che è vero. Noi raccontavamo persino spiritosaggini su Mangano, il famoso stalliere di Arcore. Ci inventavamo storie. Il Cavaliere mi sfotteva. Ridevamo come matti. Ma le pare che uno fa così se ha un mafioso in casa? Le racconto una cosa che la prego di non scrivere, perché chissà come viene interpretata. Qua nessuno sembra capire l’ironia”.

Ma no, carissimo don Dell’Utro, l’ironia è il giusto salvacondotto.

“Guardi che la usano contro Berlusconi”.

Ma no, ormai il Cav. è in via di santificazione.

“In effetti lui pensa di andare al Quirinale. Cosa che io… boh… mi pare improbabile. Anche se io a Silvio gli ho visto fare cose che sembravano impossibili. Quindi mai dire mai”.

In effetti lui fa tutto in grande.

“Sì, pure il Bunga Bunga”.

"Sa come lo chiamavamo noi Gianni Letta? “Smorza Italia”. Se c'era una nomina, lui la dava sicuro alla sinistra" 

""Craxi? faceva la pipì sulla tavoletta a casa di Berlusconi. E Silvio, per evitare che gli ospiti vedessero, sistemava" 

La mitologica Trattativa. Anzi, "quella gran minchiata della Trattativa", come dice lui.

"Certo che ho sofferto. Mi sono anche ammalato. Oggi ho una decina di stent", aggiunge. E poi, con cupo sarcasmo: "Diciamo che anzi ormai “vivo di stent”". 

"Mi ricordo quando moltissimi anni fa mi convocò Antonio Ingroia. Un “babbasunazzo”, come si dice da noi". Insomma un mezzo citrullo." 

"Confalonieri veniva a trovarmi in carcere, almeno una volta al mese. Mi portava i saluti di Silvio. Sempre. Ma la verità è che io Silvio me lo sognavo pure la notte. Ripensavo ad Arcore. Ai tempi belli e lontani. Quell'uomo mi ha cambiato la vita". 

L'ha fatta finire in galera anche.

"Mi ha reso ricco, ma soprattutto mi ha fatto divertire, mi ha fatto sognare, mi ha permesso di fare cose che altri non fanno in dieci vite. Senza di lui forse oggi sarei un ex direttore di banca in pensione.” 

Entrò in politica per farsi gli affari suoi?

"Credeva nella possibilità di fare dell'Italia la prima nazione in Europa. Ma è vero che in quegli anni c'erano dei rischi che gravavano sulle sue attività. Mi ricordo benissimo quando il Credito Italiano gli chiese di rientrare con il prestito. Capimmo che volevano fare con lui quello che già avevano fatto con Rizzoli". Spolparlo. "E allora reagimmo. La discesa in campo fu anche una difesa dell'azienda. Ma lui ci credeva al progetto di trasformare l'Italia".

A lei non piace Salvini.

"Per niente. Preferisco quelli che non urlano, che non sparano minchiate dalla mattina alla sera, che parlano poco. Meno parli più fai. E infatti Draghi mi ha convinto, mi piace lo stile. E mi fa anche simpatia epidermica. Non va neanche in televisione. Fantastico". 

 E Giorgia Meloni?

"Che le devo dire? E' brava. Ma è un'altra urlatrice. Dovrebbe lavorare sul tono. E' come se un attore, invece di conquistare la platea suadendo, cerchi di assordarla gridando. La gente brava la dovevamo portare noi prima". 

E invece?

"E invece è andata male. Il Berlusconi politico non c'è riuscito. Dopo di lui non resta niente. Mentre nel mondo dell'impresa è stato diverso".

Dell’Utri: “In aula mi sentivo come un turco alla predica. Quelle accuse erano assurde”. La Repubblica il 24 settembre 2021. "E' stato un processo mostruoso, era da annullare in primo grado. Averlo debellato è una prova di democrazia, finalmente. Le sofferenze le ho patite, gli stenti subiti, ma ora bisogna andare avanti e fare cose buone". Marcello Dell'Utri ha passato la giornata al telefono a rispondere alle tante persone che hanno voluto congratularsi per l'assoluzione. Non trattiene la gioia per una sentenza che non esita a definire "una svolta non solo per me ma anche per la giustizia italiana. "L'assoluzione è la migliore risposta a tutti quelli che spargevano odio", afferma con un tono duro. Poi scherza: "Sono contento di essere arrivato uno" , dice, rievocando la famosa frase attribuita a Gustavo Thoeni.

Dell'Utri, a fine 2019 è tornato libero dopo una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ora incassa una assoluzione "per non avere commesso il fatto": cosa pensa della Giustizia?

"Ho recuperato un po' fiducia nella magistratura: per fortuna ci sono ancora dei magistrati che guardano le cose, leggono le carte e ascoltano i difensori. Era impossibile non riconoscere l'assurdità dell'impianto accusatorio".

Qual è stato il suo primo pensiero quando ha saputo dell'esito della sentenza?

"E' andato a tutti quelli che mi hanno sostenuto in questi anni, le persone e tutti gli amici che hanno creduto nella mia innocenza.  Mi voglio invece dimenticare tutti gli altri, quelli che odiano".

I giudici di secondo grado non hanno ritenuto che lei, ex politico fedelissimo di Silvio Berlusconi, fosse il collegamento fra la politica e cosa nostra in quella che viene ritenuta la seconda fase della trattativa del 1993 e 1994. Si aspettava l'assoluzione?

"Sono commosso, mi si è tolto un peso dal cuore, onestamente non me l'aspettavo. Ma me la sognavo. Intendiamoci, poteva accadere anche il contrario, il buon senso diceva che avrebbero dovuto assolvere e annullare questo processo, però purtroppo il buon senso nella giustizia non sempre funziona".

Come ha trascorso questi anni in attesa della conclusione di questo processo sulla trattativa Stato-mafia: in primo grado era stato condannato a 12 anni?

"Sono sempre stato tranquillo, altrimenti non sarei qui. Ho vissuto un film ma la trama era inventata totalmente. Io questo processo non l'ho neanche seguito. Mi sono sentito come un turco alla predica, di cosa stanno parlando? Ma avevo paura potessero credere a queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi per conto loro, servendosi di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Ripeto, non potevo essere certo di un’assoluzione, ma la speravo intimamente".

Eppure nel processo era accusato di avere avuto un ruolo di primo piano in una trattativa che prima era stata iniziata dai carabinieri.

"Non so esattamente di cosa fossi accusato. Credo fosse per aver ricevuto minacce dai mafiosi, che dovevo riferire a Berlusconi, minacciandolo a sua volta se non avesse provveduto a fare leggi a favore dei mafiosi. Tutta una cosa allucinante, Nel governo di Berlusconi ci sono state solo leggi contro i mafiosi".

Come spiega allora la condanna in primo grado?

"Il clima allora era tale che non bisognava vedere le carte. Io credo che oggi questa Corte abbia lavorato con criterio, cognizione e coscienza. I miei avvocati hanno smontato il processo dalle fondamenta, ho ascoltato le arringhe e non era possibile non riconoscere l'assurdità dell'impianto accusatorio".

Cosa farà in futuro, tornerà in politica?

"Ma non scherziamo".

E cosa farà, allora?

"Mi occuperò della mia collezione di libri conservati nella Fondazione di Milano. Sto per allestire la più grande biblioteca siciliana, che è mia intenzione donare un giorno alla Sicilia".

"Ancora non ci credo. Mi hanno infangato ma posso perdonare". Stefano Zurlo il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. L'emozione del politico: " A ogni udienza non capivo di che cosa stessero parlando". 

Senatore Marcello dell'Utri... 

«Ancora non ci credo». 

Se l'aspettava? 

«In effetti è l'unica domanda da farsi». 

Sì, ma che cosa risponde? 

Si sente che è sollevato. Dirà che questa sentenza è stata una «svolta»; che in fondo in fondo era «tranquillo altrimenti... Non sarei qui»; che però di «tornare in politica non ci penso nemmeno, preferisco i miei libri». Lui, uno dei più grandi collezionisti di volumi antichi e non. Sono passate meno di due ore dalla lettura del verdetto della Corte d'Assise di Palermo. Marcello Dell'Utri assapora la sentenza che lo toglie dalla ragnatela vischiosa dei rapporti fra Cosa Nostra e lo Stato. Ci sarà tempo per leggere le motivazioni, intanto la pronuncia segna il flop di una delle più ambiziose indagini della storia giudiziaria italiana. «Ero accusato di aver ricevuto minacce da mafiosi che avrei dovuto riferire a Berlusconi minacciandolo a sua volta se non avesse provveduto a fare leggi a favore dei mafiosi. Una cosa allucinante, pensi che durante il governo Berlusconi ci sono state soltanto leggi contro i mafiosi». 

Insomma, era convinto di farcela? 

«Ci speravo, ma non ero sicuro di essere assolto. In questo Paese non basta avere avvocati bravissimi come i miei avvocati, che in aula avevano smontato tutta questa storia». 

Lei arrivava da una condanna di primo grado.

 «No, non mi parli del primo grado, ero nauseato». 

Il clima è cambiato? Oppure i giudici sono stati coraggiosi? 

«Su questo non dico niente. Dico che udienza dopo udienza stavo come un turco alla predica». 

Come chi? 

«Provi a pensare a un turco che va in chiesa e sta lì ad ascoltare. Cosa vuole che capisca?». 

Lei che cosa capiva? 

«Non capivo niente, o, meglio, non capivo di cosa parlavano. Dicevano che avevo incontrato questo, poi avevo incontrato quello, poi non so che cosa altro. Un film, totalmente inventato». 

C'erano delle accuse formulate dai pubblici ministeri di Palermo. 

«Qui non c'era il fatto. C'era un mostro, davvero ancora non ci credo. Era scontato che la condanna dovesse cadere, ma non ero sicuro che venisse giù. Era impossibile non riconoscere l'assurdità dell'impianto accusatorio. Il buonsenso diceva che avrebbero dovuto assolvermi e annullare questo processo, ma il buonsenso nella giustizia non sempre funziona». 

Forse il vento soffia da un'altra parte. 

«Sono stati dieci anni di fango. E sono contento per me, per la mia famiglia e pure per gli sconosciuti che mi hanno sostenuto. Aggiungo che sono disposto a dimenticare quello che mi hanno rovesciato addosso i giornali e le televisioni». 

Le parole lasciano spazio ad una smorfia, fra l'amaro e il sarcastico. Poi, il fondatore di Publitalia, l'amico di gioventù di Silvio Berlusconi, riprende a parlare e si capisce che è emozionato. «Sì, voglio davvero dire grazie ai tanti che non so nemmeno chi siano, ma mi sono stati vicini in questa storia interminabile». 

Che libro leggerà per festeggiare l'assoluzione? 

«Questa sera (ieri per chi legge, nda) non ho tempo per dedicarmi alla lettura». 

Non c'è un filosofo adeguato? 

«No, ci vuole un buon vino. E io ho scelto l'Amarone». Stefano Zurlo

Stato-Mafia, Labocetta: “Dell’Utri sopravvissuto al fango grazie ai suoi libri”. Redazione su Il Riformista il 24 Settembre 2021. “Esultai non poco quando – a dicembre di due anni fa – Marcello Dell’Utri ottenne la libertà. Oggi ho parlato lungamente con lui e ho provato una gioia immensa, una straordinaria emozione: la storia ha cancellato una pagina di fango gratuito, il tempo è stato galantuomo. I veri farmaci che gli hanno permesso di affrontare questo calvario giudiziario, che avrebbe distrutto chiunque, sono stati i suoi libri. E dai libri ripartirà insieme a quanti condividono la sua stessa passione: il grande impegno culturale. In quest’ottica il prossimo 9 novembre a Napoli, nel Teatro Sannazaro, insieme con Dell’Utri e Marcello Veneziani, autore di un capolavoro su Dante Alighieri a 700 anni dalla morte, onoreremo proprio il Sommo poeta, vero padre degli Italiani. Ringrazio con affetto il fraterno amico Dell’Utri per aver confermato un impegno assunto in tempi non sospetti. Sarà anche e soprattutto un modo per dire alla Politica – che purtroppo è ancora in esilio – che il suo ritorno nella nostra Nazione può avvenire solo se ci si affida ad un rivoluzionario progetto culturale. Grazie Dell’Utri, per non aver mai mollato. Insieme a tanti Italiani stiamo tornando a riveder le stelle”. Lo dichiara Amedeo Laboccetta, ex deputato di Napoli, presidente di Polo Sud.

Sentenza Stato-Mafia, parla la moglie di Dell’Utri: «A Palermo esiste un giudice, è la fine di un incubo». Il Corriere della Sera il 25 settembre 2021. Lo sfogo di Miranda Ratti: è la nostra vittoria, anche i nostri figli hanno pagato un prezzo altissimo. «A Palermo esiste un giudice. Che si chiama Angelo Pellino. Chapeau nei suoi confronti. Spero che questa sentenza segni un punto di partenza per la costruzione di uno Stato di diritto vero. Speriamo che si vada avanti nel modo giusto. Per noi finisce un incubo». A parlare, in una intervista rilasciata all’agenzia Adnkronos, è Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell’Utri, l’ex senatore assolto «perché il fatto non sussiste» nel processo d’appello sulla trattativa tra Stato e mafia.

Le accuse. Dell’Utri era accusato di minaccia a corpo politico dello Stato. Un’assoluzione netta per l’ex politico che ha ormai finito di scontare una pena a sette anni di carcere per concorso estero in associazione mafiosa. Per i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo Dell’Utri non avrebbe fatto da «cinghia di trasmissione», come scrissero i giudici di primo grado che lo condannarono a 12 anni, della seconda trattativa messa in campo dai padrini di Cosa nostra nei confronti del governo Berlusconi, che si insediò nel 1994. 

«La nostra vittoria». «Questa è la nostra vittoria — dice ancora la signora Miranda — io che non credo nella magistratura, e mi riferisco ad esempio, al caso Palamara alla loggia Ungheria, posso dire oggi che c’è un giudice a Palermo». E ricorda questi ultimi anni, dopo la condanna definitiva, il carcere, la malattia, il processo trattativa. «Un prezzo altissimo che abbiamo pagato tutti in famiglia, anche i ragazzi — dice ancora —, c’era sempre questo “marchio” della mafia. Quando c’era gente che veniva a vedere la casa diceva: “Ah, ma questa è la casa di un mafioso”. E io rispondevo: “Si accomodi prego”. Soprattutto all’estero la gente non conosce le dinamiche politiche di uno Stato. E, alla fine, quello che scrive un giornale diventa verità».

"Finisce un incubo". Parla la moglie di Dell'Utri dopo l'assoluzione. Francesca Galici il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. La signora Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell'Utri, esprime soddisfazione per l'assoluzione del marito e ringrazia il giudice della corte d'Appello. Con la sentenza d'Appello che assolve Marcello Dell'Utri "perché il fatto non sussiste" nel processo d'appello sulla trattativa tra Stato e mafia, si chiude un incubo per l'ex senatore e la sua famiglia. "A Palermo esiste un giudice. Che si chiama Angelo Pellino. Chapeau nei suoi confronti. Spero che questa sentenza segni un punto di partenza per la costruzione di uno Stato di diritto vero. Speriamo che si vada avanti nel modo giusto", ha dichiarato Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell'Utri in una intervista all'agenzia Adnkronos. L'ex senatore era accusato di minaccia a corpo politico dello Stato ma per lui c'è stata un'assoluzione netta perché, per i giudici della corte d'Appello, Dell'Utri non ha fatto da "cinghia di trasmissione", come scrissero i giudici di primo grado che lo condannarono a dodici anni. "Questa è la nostra vittoria. Io che non credo nella magistratura, e mi riferisco, ad esempio, al caso Palamara alla loggia Ungheria, posso dire oggi che c'è un giudice a Palermo", ha proseguito la moglie dell'ex senatore. Sono stati lunghi anni difficili per la famiglia Dell'Utri, non solo per l'ex senatore, come ha voluto ricordare Miranda Ratti: "Un prezzo altissimo che abbiamo pagato tutti in famiglia, anche i ragazzi. C'era sempre questo 'marchio' della mafia. Quando c'era gente che veniva a vedere la casa diceva: 'Ah, ma questa è la casa di un mafioso'". Quindi, la moglie dell'ex senatore ha fatto una riflessione: "Soprattutto all'estero la gente non conosce le dinamiche politiche di uno Stato. E, alla fine, quello che scrive un giornale diventa verità". Ora, con la sentenza di assoluzione in tasca e in attesa delle motivazioni, Marcello Dell'Utri e la sua famiglia vogliono cominciare una nuova vita. "Adesso si ricomincia, sia da parte nostra che da parte sua", ha proseguito Miranda Ratti, che ha ricordato anche che con la sentenza è stato annullato il divieto di espatrio, "così, finalmente, può farsi un pò di vacanza, visto che dal 2014 non ha fatto un solo giorno di vacanza". La signora Miranda Ratti è tornata sulla condanna a sette anni per concorso esterno: "Si è fatto il carcere ingiusto che nessuno gli ripaga. Ha rischiato anche la vita, con la sepsi in carcere. Ma stiamo scherzando? È stata una cosa drammatica". Quindi, la moglie dell'ex senatore ha ringraziato i legali che hanno seguito Marcello Dell'Utri negli ultimi anni: "Sono stati in grado di ricostruire e tirare fuori le vergogne di questa accusa. I pg dicevano 'si può dedurre che', ma mica si può fare un processo sulle deduzioni. Una cosa fuori dal mondo che un pg porti davanti a una corte una cosa così opinabile. Sono grata a questo giudice Pellino non solo per mio marito ma anche per i generali Mori, Subranni e per il colonnello De Donno". La signora Ratti ha concluso: "Adesso aspettiamo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Perché c'è ancora in ballo il ricorso dei nostri legali". 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Sentenza Stato-mafia, assolti Dell’Utri e i carabinieri: ecco cos’era la presunta trattativa. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 17 aprile 2018. La mafia avrebbe alzato il tiro contro le istituzioni dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso, lo Stato, per fermare l’ondata di sangue avrebbe intavolato un dialogo segreto con i boss. le fonti di prova (e i punti deboli) del teorema

Personaggi e interpreti

Il processo sulla cosiddetta trattativa stato mafia, che oggi è approdato alla sentenza d’appello ha fatto «ballare» politica e giustizia in Italia per una ventina d’anni. L’accusa si è mossa sulla base di uno scenario in base al quale di fronte all’offensiva di Cosa Nostra che insanguinò l’Italia a partire dagli anni ‘90, lo Stato avrebbe risposto cercando un accordo con i capi della mafia. Sul banco degli imputati davanti alla Corte d’Assise di Palermo si sono trovati rappresentanti delle istituzioni (gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) , Marcello Dell’Utri e i capimafia Antonio Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca. All’inizio delle udienze nel processo erano accusati anche Totò Riina e Bernardo Provenzano, poi deceduti. Stralciata la posizione degli ex ministri Calogero Mannino (nel frattempo assolto) e Nicola Mancino (quest’ultimo accusato solo di falsa testimonianza). 

 La rottura: l’omicidio Lima

Il fatto da cui sarebbe scaturita la trattativa viene fissato dai pm di Palermo nell’omicidio dell’europarlamentare Dc Salvo Lima (marzo 1992): ritenuto contiguo ai clan, Lima agli occhi dei boss sarebbe stato ucciso in quanto non più in grado di garantire i rapporti tra Cosa Nostra e istituzioni. La frattura avviene in particolare dopo la sentenza definitiva sul maxiprocesso di Palermo. Rotti questi equilibri, la mafia si sarebbe vendicata alzando il tiro contro lo Stato. Tale strategia sarebbe passata attraverso gli omicidi «eccellenti» di Falcone e Borsellino, gli attentati del ‘93 a Milano, Firenze e Roma, tutti attribuiti a Totò Riina e ai suoi complici. 

Mannino diede il via alla trattativa?

Sempre nel quadro «disegnato» dall’accusa, il primo passo dello Stato verso la mafia viene compiuto da Calogero Mannino: divenuto bersaglio di minacce l’indomani dell’omicidio Lima (gli viene recapitata una corona funebre), l’esponente Dc contatta i vertici dei carabinieri e questi ultimi (in particolare il generale Mori) avrebbero a loro volta avvicinato l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia Vito Ciancimino. Mori ha sempre ammesso questo contatto ma non lo ha mai inquadrato come un «patteggiamento» con Cosa Nostra. Da qui si sarebbe dipanata la trattativa i cui «segnali» sarebbero stati la revoca del carcere duro per oltre 300 condannati per mafia nel ‘93, la cattura di Riina («venduto ai carabinieri» in cambio della latitanza per Provenzano), l’omicidio Borsellino (ucciso perché contrario alla trattativa) e presunti incontri tra capimafia (ad esempio i fratelli Graviano) ed esponenti della politica. E più avanti un abboccamento per far convergere i voti di Cosa Nostra su Forza Italia attraverso Cinà, Dell’Utri e lo «stalliere» Vittorio Mangano. 

Il «papello» mai trovato

Cuore della trattativa sarebbe però il cosiddetto «papello»: un documento fatto recapitare da Riina agli esponenti delle istituzioni (attraverso i carabinieri) con una serie di richieste. Tra esse ci sarebbero state l’abolizione del carcere duro per i mafiosi e del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. In cambio di quella richiesta veniva promessa una «pax» mafiosa e la cessazione degli attentati. Quel pezzo di carta, tuttavia, non è mai stato ritrovato. Anzi: una copia messa a disposizione degli inquirenti da parte di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, si è rivelato una «patacca». Costata l’incriminazione allo stesso Ciancimino junior.

Le fonti di prova? I pentiti

Le fonti di prova per questa trama portate dalla procura all’attenzione della Corte sono state essenzialmente le deposizioni dei pentiti. Giovani Brusca in primis, ma anche Salvatore Cancemi, Nino Giuffrè e Gaspare Spatuzza. Tutti (ma solo loro) avvalorano il fatto che l’indomani del delitto Lima e degli attentati venne avviato il dialogo tra i carabinieri e i capimafia. Anche alcune sentenze avvalorano l’ipotesi che sia esistito un patteggiamento tra Stato e malavita organizzata ma sempre sulla scorta dei collaboratori di giustizia. Vengono ritenute inoltre rilevanti le intercettazioni in carcere dei colloqui di Totò Riina con un compagno di cella. In particolare una frase («Sono loro che si sono fatti sotto...») che alluderebbe secondo i pm a una volontà dello Stato di avvicinare i capi della mafia per intavolare la trattativa. Ci sono poi i colloqui tra i carabinieri e Vito Ciancimino, ai quali i giudici di primo e secondo grado hanno però dato valutazioni contrapposte.

I punti deboli dell’accusa

L’impianto dell’accusa, tuttavia, ha subito alcuni colpi che ne hanno messo in dubbio la solidità. Questi colpi sono arrivati in particolare da sentenze «esterne» al processo Stato-mafia ma ad esso connesse. Ad esempio, Calogero Mannino è stato assolto definitivamente dopo 25 anni di processi da tutte le accuse: dunque nel suo comportamento non è stato ravvisato alcun «avvicinamento» con le cosche. Anche il generale dei carabinieri Mario Mori è stato assolto dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano: questa avrebbe dovuto essere una delle «monete di scambio» tra la mafia e le istituzioni. E infine era già crollata la credibilità di Massimo Ciancimino, le cui presunte rivelazioni (ad esempio sulla partecipazione di un fantomatico «signor Franco» dei servizi segreti alla partecipazione delle stragi mafiose) sono rumorosamente crollate a dispetto della loro eco mediatica.

Le intercettazioni di Napolitano

Le indagini sono arrivate anche a lambire il Quirinale e in particolare il presidente emerito della repubblica Giorgio Napolitano. Nicola Mancino, ex ministro degli interni, avrebbe chiamato più volte il Quirinale sostenendo che le indagini dovessero essere tolte alla procura di Palermo; i colloqui avvennero anche con il consigliere del Capo dello Stato, Loris D’Ambrosio il quale arrivò anche a sospettare che fossero stati sottoscritti «indicibili accordi» tra Stato e clan. Quelli di D’Ambrosio, nel frattempo deceduto, rimasero dei sospetti. Indagando su Mancino, tuttavia, i pm di Palermo intercettarono involontariamente alcuni colloqui tra quest’ultimo e Napolitano. La procura chiese a questo proposito di distruggere le telefonate irrilevanti e di conservarne altre che avrebbero potuto tornare utili in futuro. Nel 2012 Napolitano solleva però un conflitto di attribuzione davanti alla corte Costituzionale sostenendo che quelle intercettazioni fossero illegittime e non potessero divenire oggetto di valutazione se non nell’ambito del reato di alto tradimento o attentato alla Costituzione. Il 4 dicembre 2012 la Consulta ha dato ragione a Napolitano e ordinato l’immediata distruzione dei colloqui.

·        Mario Marino.

Storia di Mario Marino: “Accusato ingiustamente e condannato due volte per 80 euro”. Angela Stella su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. Qualche tempo fa vi abbiamo raccontato la vicenda di Maria Grazia Modena, eccellenza della cardiologia italiana, accusata ingiustamente dalla procura di Modena di presunte sperimentazioni cliniche non autorizzate su pazienti inconsapevoli. Lei è stata assolta in Cassazione avendo scelto l’abbreviato, i suoi colleghi al momento in appello con rito ordinario. Oggi vi raccontiamo la storia Mario Marino, ex Comandante del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Modena: anche lui è stato accusato ingiustamente dalla stessa Procura ed è stato prosciolto da tutte le accuse, assistito dagli avvocati Massimiliano Iovino di Bologna e Nicola Avanzi del foro di Verona. È una storia complessa che si inserisce in una più ampia inchiesta denominata gli ‘Intoccabili’, nata nel 2013 per smantellare un presunto sodalizio criminale di usura, estorsioni e riciclaggio.

Dottor Marino Lei come e quando entra in questa inchiesta?

«Nel 2014, dopo appena 6 mesi dall’assunzione del Comando del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Modena, a luglio mi congedai per entrare in qualità di primo dirigente presso la Fondazione Cariverona in Verona. Il 2 ottobre del 2015, la Procura di Modena mi notificherà un ordinanza con obbligo di firma, revocata dal Tribunale dei Riesame di Bologna quindici giorni dopo,  poiché indagato per corruzione per fatti accaduti durante il periodo di comando a Modena».

Di cosa la accusavano?

«La Procura mi contesterà la circostanza che tra maggio e luglio 2014, a seguito di alcune telefonate con un brigadiere, avrei dato a costui la mia disponibilità a contattare il direttore dell’Agenzia delle Entrate di Modena per risolvere una questione riguardante un suo amico, l’ imprenditore Adamo Bonini, al centro dell’inchiesta gli "Intoccabili". Secondo la Procura avrei ricevuto dall’imprenditore presunti vantaggi economici, quali il prestito gratuito di un macchina per 14 giorni e la riparazione di un’autovettura, una Fiat Punto in cambio del mio interessamento presso l’Agenzia».

Ma Lei davvero gli fece il favore con l’Agenzia delle Entrate?

«No. Assillato dalle continue pressioni del mio collaboratore, ed essendo oramai in procinto di lasciare il mio incarico per congedarmi, dissi che mi stavo interessando alla vicenda del Bonini e che avevo parlato con il direttore dell’Agenzia delle Entrate di Modena. Dalle intercettazioni sul mio cellulare di servizio, si rinvenirà infatti un solo colloquio tra me e l’imprenditore  in cui in un passaggio dirò “sto lavorando per te”. Per l’accusa era la prova che mi inchiodava alle mie responsabilità.  In verità, come poi si scoprirà, non ho mosso un dito, né alzato il telefono e neppure mi sono mai recato all’Agenzia delle Entrate di Modena».

E allora perché l’hanno portata a processo?

«Basandosi unicamente su 5 colloqui telefonici intercettati che non hanno peraltro dato, – ed è il paradosso – i riscontri che l’accusa sperava, ed infatti la Procura sarà suo malgrado costretta a concludere: “Resta il dato probatorio negativo delle indagini volte a riscontrare l’identità del funzionario contattato, posto che da un lato gli impiegati addetti dell’Agenzia delle Entrate, escussi a sommarie informazioni testimoniali, hanno tutti negato ingerenze di sorta, o anche solo una conoscenza personale con il Capitano Marino, e dall’altro lato anche l’esame degli accessi in banca dati non ha dato alcun esito”, e allora, “interpretando” il principio dell’oltre ragionevole dubbio, pur di arrivare al processo, così motiveranno: “Le s.i.t. assunte dalla P.G. dimostrano che tale verifica rappresenta un lavoro svolto in equipe e con la partecipazione di numerose figure burocratiche, sicché non pare facile astrattamente che si sia potuto verificare un radicale distrorcimento della funzione ispettiva esercitata dall’ Ufficio Finanziario”. Mi chiedo se sia giuridicamente accettabile che un ipotesi, “astratta” possa assurgere a motivo per giustificare un rinvio a giudizio, una misura cautelare e pur anche una condanna. Peraltro dimostrai, circostanza non contestata dall’accusa, che il prestito non fu a titolo gratuito.  Senza la virtù del dubbio il finale è già scritto, e così per la Procura un’asserzione indimostrata, – quella che vorrebbe che avessi parlato con qualcuno dell’Agenzia delle Entrate – verrà  ammantata come verità incontrovertibile».

Com’è andato il processo?

«Chiesi di procedere con rito abbreviato, volendo uscire il più velocemente possibile da questa vicenda, e sperando di allontanare il mio nome da persone e vicende che non mi appartenevano. L’accusa di corruzione si scioglierà come neve al sole, ma verrò condannato ad un anno di reclusione per millanteria. Per il giudice avrei millantato la conoscenza del direttore dell’Agenzie delle Entrate per ottenere come vantaggio economico il secondo prestito di 4 giorni dell’autovettura, considerato che il primo prestito era antecedente alla presunta millanteria. Il vantaggio per la millanteria? Circa 80 euro, nonostante, ripeto, abbia pagato per il prestito».

In appello cosa è successo?

«La Corte di Appello di Bologna nel gennaio dell’anno appena trascorso ha smentito per la seconda volta la Procura di Modena sull’ipotesi corruttiva con “il fatto non sussiste”, cassando anche la  millanteria. Sentenza passata in giudicato l’8 settembre. A cui si aggiunge la smentita del Tribunale del riesame. Il compianto Sandro Ciotti avrebbe detto: 3-0 e palla al centro».

Cosa Le ha fatto più male di questa vicenda?

«Era necessario chiedere la misura cautelare e sottopormi ad un “penoso” fotosegnalamento? La Procura di Modena temeva forse che potessi “darmi alla macchia”, considerato che ero incensurato, una posizione lavorativa e economica importante, una famiglia, oltre ad una storia lunga più di 6 lustri nell’Arma dei Carabinieri? Sospettava che potessi inquinare le prove o reiterare un reato, tenuto conto che mi ero congedato da oltre un anno e non vivevo più a Modena?»

In conclusione?

«Un passato lungo 34 anni, faticosamente costruito con sacrificio e abnegazione “evaporato”, un futuro “distrutto”, con riverberi ancora più devastanti per la mia famiglia. Questa vicenda poi ha innescato un epilogo ancora peggiore, poiché fui costretto dal d.g. e dal Presidente della Fondazione Cariverona a dare le dimissioni. Il paradosso è che mi furono chieste le dimissioni dal Presidente il quale pochi anni prima venne rinviato a giudizio per bancarotta privilegiata; non solo non si dimise, ma oltretutto fu pure riconfermato nell’incarico. Per tutelare il mio diritto al lavoro sono stato costretto a citare Fondazione Cariverona in giudizio. La conclusione? Accusato ingiustamente e condannato due volte: dalle persone che ritengono che quanto narrato in una conferenza stampa da un PM corrisponda necessariamente ad una verità assoluta e incontrovertibile, e dalla Fondazione Cariverona. Ciò che stabilirà un giudice, sarà poi un dettaglio».

·        Mario Tirozzi.

L.D.P. per “La Verità” il 17 maggio 2021. È finito in carcere per droga perché «non poteva non sapere». Parlava di soldi e pagamenti con la segretaria di un'azienda di fiori, ma il Pm si era convinto che fosse d'accordo con presunte attività illecite della ditta. I carabinieri in piena notte gli piombano in casa e gli consegnano l'ordinanza di custodia cautelare. All'epoca, era il 28 settembre 2015 quando scattò l'operazione che diede il via alla sua odissea giudiziaria, Mario Tirozzi era un fioraio di 31 anni e viveva con i genitori a Capua (Caserta). Il racconto, raccolto da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone dell'archivio online Errorigiudiziari.com, è incredibile. L'accusa è traffico internazionale di stupefacenti. «Si basava sul principio per cui non potevo non sapere», dice Tirozzi. «Risultavano alcune intercettazioni telefoniche e ambientali con le segretarie di un'azienda di Latina che fornisce piante e fiori, in cui parlo di pagamenti e soldi. Qualcosa di ovvio per un imprenditore del settore come me, e invece gli investigatori dicevano che non potevo non sapere che quei soldi finivano in obiettivi illeciti, un'attività parallela fuori legge». Tirozzi resta chiuso in carcere per 21 mesi e mezzo. Dopo il primo processo, con rito abbreviato, il tribunale di Roma lo condanna a 7 anni di reclusione. In un primo momento gli contestano anche il reato di ricettazione, ma il giorno della requisitoria il pm ammette di avere sbagliato. Tirozzi chiede ripetutamente gli arresti domiciliari per assistere il padre malato, ottenuti dopo una serie di dinieghi. Il 29 novembre 2017 al processo d'appello viene assolto, ma la sua vita è in frantumi. L'azienda è stata messa in liquidazione, fornitori e clienti lo hanno abbandonato. Il danno psicologico è stato forse più forte. A chi gli chiede se ha ancora fiducia nella giustizia, risponde di no.

·        Massimo Luca Guarischi.

Il fatto non sussiste, ma la sua condanna resta. L’odissea di Massimo Luca Guarischi, corruttore senza corrotti che ha perso tutto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Luglio 2021. Si può essere corruttori anche se i presunti corrotti sono stati assolti “perché il fatto non sussiste”? In Italia si. Questa è la storia di Massimo Luca Guarischi, un innocente arrestato nel 2012 e ancora in giro per tribunali nel 2021, cui due giorni fa la Corte d’appello di Brescia ha dichiarato inammissibile la richiesta di revisione del processo che lo aveva condannato a Milano per aver corrotto Roberto Formigoni. Che però è stato assolto. Un colpo di scena che ha lasciato quasi tramortito l’ex consigliere regionale della Lombardia: «Mi sento come uno che è stato violentato –sussurra- e che non sa chi accusare per lo stupro». Colpo di scena doppio, perché le motivazioni della Corte d’appello di Brescia saranno depositate entro novanta giorni. Poi si potrà andare in cassazione. Si può solo cercare di decifrare quel che ha detto il procuratore generale, il primo a sollecitare l’inammissibilità. Il succo del discorso è che, se anche Guarischi non ha corrotto Formigoni, potrebbe comunque aver commesso un altro reato. Ma lui è stato condannato per corruzione, quindi che si fa, lo si processa ancora per qualcosa d’altro? La storia ha le luci e le ombre tipicamente lombarde. A Milano c’è il circo mediatico scatenato contro il “Celeste”, i suoi viaggi, le barche, la villa in Sardegna. Le famose “pubbliche utilità” con cui l’ex Presidente della Regione Lombardia si sarebbe fatto corrompere. Perché, e questo andrebbe ricordato sempre, mai una lira o un euro è stato trovato nelle tasche o nei conti bancari o sotto il materasso di Roberto Formigoni. Luca Guarischi è un suo amico, di vacanze con lui ne ha fatte parecchie. Alcune in particolare, quelle che ne hanno determinato l’arresto e i primi nove mesi di custodia cautelare tra S. Vittore e Opera, tra il 2009 e il 2012 in barca in Croazia. “Ogni coppia ha pagato per sé”, ricorda Guarischi, facendo crollare il mito di un Formigoni scroccone. E la conferma da parte di un certo capitano croato che affittava la barca al gruppo di amici, interrogato nell’ambito di una rogatoria internazionale disposta (e mai utilizzata) dal tribunale di Milano, sarà fondamentale invece nel processo di Cremona. Siamo a Cremona, a novanta chilometri da Milano, fuori dai circhi mediatici. Il processo è la fotocopia di quello di Milano dove Guarischi è stato condannato a cinque anni di carcere per aver corrotto non solo Formigoni, ma anche Simona Mariani, all’epoca direttore generale dell’Ospedale Maggiore, e Carlo Lucchina, direttore generale alla sanità in Regione. Il fatto riguarda il “Vero”, un acceleratore lineare per cure oncologiche. Nel 2011 l’ospedale Maggiore di Cremona l’aveva acquistato per otto milioni di euro dalla Hermes Italia di Giuseppe Lo Presti. Il quale aveva dichiarato di aver versato 447.000 euro a Luca Guarischi per le sue “entrature” presso Formigoni. In realtà quella di Guarischi, che gestiva uno studio di strategie industriali e di marketing, altro non era che una provvigione per la sua attività lavorativa. Chiarito questo, ecco spuntare l’argomento preferito da magistrati e cronisti giudiziari: la Vacanza! Come potrebbe l’ex consigliere regionale aver corrotto Formigoni se non gli ha dato soldi? Con le gite in barca. Ma le testimonianze croate porteranno all’assoluzione dei tre imputati. Ma questo è accaduto intorno alla metà di luglio del 2020. E noi avevamo lasciato il povero Luca Guarischi in carcere, proprio per quella storia che non è mai esistita. La sua vicenda è straziante, un vero caso di persecuzione. Nove mesi di custodia cautelare, e qualche trattamento venato di piccolo sadismo. Perché lui è vedovo e con l’arresto a casa era rimasta da sola la figlia di diciassette anni e tre mesi. Una minorenne senza mamma, con il pm che dice al padre non si preoccupi, tanto tra poco sarà maggiorenne. E festeggerà da sola il compleanno perché il papà non avrà il permesso. L’iter giudiziario in seguito è pazzesco. Perché quando la sentenza milanese è diventata definitiva Guarischi, che lavorava in Algeria, ha preso due aerei e un treno per andare a consegnarsi al carcere. il 10 gennaio del 2019, il 22 entra in vigore la legge “spazzacorrotti” che definisce come ostativi ai benefici penitenziari i reati contro la pubblica amministrazione. Guarischi deve scontare ancora meno di quattro anni, ma gli bloccano l’affidamento ai servizi sociali. Inoltre, per un errore della questura di Milano, che confonde il suo fascicolo processuale con quello di un altro, viene definito come “affiliato organico della ‘ndrangheta”. Si perde tempo per correggere l’errore. Si arriva finalmente al 14 gennaio del 2020 e lui può andare verso i servizi sociali. Il ministro Bonafede gli ha regalato un anno di detenzione in più. Si arriva a due giorni fa, al processo di revisione, “un caso di scuola –lo definisce la sua avvocata Silvia Oddi– perché la corruzione è un reato di concorso necessario”. Cioè, perché il reato si verifichi bisogna essere almeno in due, il corrotto e il corruttore. Si dà per scontata l’ammissibilità del ricorso, dal momento che Formigoni è stato assolto. Invece no. Certo, ci sarà la cassazione, dopo i novanta giorni di tempo per le motivazioni. Ma intanto un innocente deve ancora scontare un altro anno di servizi sociali. Ed è retorico dirlo, ma drammatico, perché intanto lui ha perso tutto, non ha casa né lavoro né denaro per far studiare sua figlia. Chi pagherà tutto ciò?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

·         Michael Giffoni.

Michael Giffoni, l’ambasciatore assolto: «I miei sette anni d’inferno. Ne esco pulito ma senza sogni». di Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 29 settembre 2021.  Licenziato nel 2014 perché accusato di traffici in Kosovo, fu radiato.

 Ora è stato assolto con formula piena. L’ex ambasciatore racconta la cacciata e il processo kafkiano: «Per vivere ho aiutato nei campi».

«Ora che m’hanno assolto, arrivano venti telefonate l’ora. Un bombardamento. Al confronto, Sarajevo era Disneyland…».

Un Michael Giffoni che riesce anche a sorriderne, finalmente…

«Adesso sì. Ma la mattina del 7 febbraio 2014, la ricordo minuto per minuto. E non sorridevo. Ero rientrato da una missione in Libia, andai in ufficio all’ora di pranzo e la segretaria mi disse: ‘La cercano dall’ufficio risorse umane, è urgente’. Mi chiesi come mai. Appena entrato, mi ricevette il direttore del personale, Elisabetta Belloni, che oggi è capo dei servizi segreti».

L’ambasciatore Giffoni assolto dopo 7 anni: «La mia vita è distrutta»

Che le disse?

«Me lo comunicò subito: ‘Guarda, ieri c’è stato un consiglio straordinario sulla tua vicenda…’. Caddi dalle nuvole: quale vicenda? ‘Uno scandalo all’ambasciata del Kosovo, un traffico di visti irregolari durante il tuo mandato. Dai resoconti della polizia europea, Eulex, emerge un tuo coinvolgimento personale e diretto’. Ero senza parole, non capivo. Ma la Belloni aveva già pronta una lettera. Me la fece firmare: ‘S’è deciso che non puoi continuare le tue attività: sei un diplomatico conosciuto, hai rilevanza mediatica… Questo è il decreto: ho proposto la tua sospensione cautelare. Con effetto immediato’. Il pomeriggio, ero già fuori. Agghiacciato».

Mai più messo piede alla Farnesina?

«Mai più».

C’è ancora un silenzio d’imbarazzo, intorno a Michael Giffoni. Tace la giustizia, che l’ha processato con l’accusa d’aver fatto arrivare in Italia kosovari jihadisti, prima, e l’ha assolto con formula piena, poi. Tace il ministero degli Esteri, che non aspettò nemmeno il rinvio a giudizio e lo radiò — caso senza precedenti nella storia italiana — dal corpo diplomatico. Tace chi l’abbandonò a sette anni di disoccupazione, povertà, malattia, sofferenza: «Ho sentito sulla mia pelle la vera solitudine».

La sua cacciata fu decisa all’unanimità?

«So che erano divisi. La sospensione fu firmata da Emma Bonino, la destituzione da Federica Mogherini. Provai a contattare le ministre, il segretario generale Michele Valensise, chiunque. Mi dicevano: prendiamo nota, la richiameremo. E invece nulla».

Anche se il Tar ordinò per due volte il suo reintegro?

«Fu impugnato dal ministero. Dissero che c’era solo un vizio di forma. E mi destituirono due volte. Perché, sostenevano, avevo arrecato un grave danno d’immagine».

E i giudici, intanto?

«Tre anni e mezzo, prima che cominciasse il processo. Chiesi di chiarire, il pm Marcello Cascini non m’ha mai ascoltato. Fui ascoltato solo 10 minuti da un ufficiale di polizia. E poi mi ritrovai in aula».

Un accanimento. Ma è vero che erano gli americani ad avercela con lei? Lei passava per dalemiano...

«Non voglio crederlo. Se c’era qualche contrapposizione, era trasparente. Massimo D’Alema m’inviò a Pristina solo perché conoscevo bene la situazione. La mia nomina fu l’ultima firma dell’ultimo Consiglio dei ministri di Prodi. Discussero d’Alitalia, alla fine si stavano alzando e D’Alema mise la lettera davanti a Prodi, da firmare».

Nessuno l’ha aiutata?

«Io avevo avuto una carriera esemplare. Al mio primo incarico, ero stato mandato a Sarajevo da Susanna Agnelli; avevo affiancato Carl Bildt, lo svedese che costruì la pace di Dayton; avevo aperto l’ambasciata italiana in Kosovo; avevo lavorato con la Commissione europea di Prodi; ero stato l’uomo del “ministro” europeo Javier Solana nei Balcani... Quando scoppia la cosa, allego decine di testimonianze di militari, funzionari che mi conoscono. Anche D’Alema scrive una lettera in mio favore. E pure l’ex ministro Gianfranco Fini. Niente: al Tar, queste mie “referenze” non vengono neanche lette».

Lei amava il suo lavoro...

«I miei erano emigrati a New York, mio papà mi fece appassionare alla politica internazionale. Ho due lauree, mi sono specializzato in Germania mentre cadeva il Muro, facevo discussioni appassionate col mio amico Alexander Langer. Bei ricordi. Quando in Kosovo venne Tony Blair, che con Clinton aveva voluto la guerra a Milosevic, gli presentai dodici ragazzi: in segno di gratitudine, li avevano chiamati tutti Toniblér, scritto proprio così. Lui rise, quasi non ci credeva... Io ho sempre fatto il diplomatico sul campo: durante il massacro di Srebrenica, scrivevo a Roma che cosa stava succedendo, ma nessuno mi rispondeva. Tornai in Italia con una forte sindrome post-traumatica, andai anche in analisi».

Le è servita?

«La resistenza può sembrare una parola vuota, ma se ci metti dentro tutte le forze, ce la puoi fare. Avevo anche mio figlio Adriano: da quando ha 5 anni, mi vede in questa situazione. Il suo vanto era resistere con me e andare bene a scuola, per darmi l’esempio».

Le sono venuti ictus, infarti e tumore. Ha perso la casa. E’ tornato a vivere da mamma nel Salernitano...

«La sua pensione m’ha fatto sopravvivere. Assieme a un amico ambasciatore, Maurizio Serra, che talvolta ha messo mano al portafogli. Scrivo articoli, ma nessuno te li paga. Chiedo aiuto ad aziende, ma quando sanno di queste accuse, le porte si chiudono. Farei il muratore, se fossi capace. Riesco a dare una mano nei campi, ma neanche troppo con la mia salute».

Sua moglie l’ha lasciata...

«L’avevo conosciuta in Bosnia, una bellissima storia d’amore. Ma in quella situazione, capisco, era difficile sopportarmi. Ero innocente, passavo ore con gli avvocati».

Sogna di rientrare in diplomazia?

«Sogni, non ne ho più. Volevo solo uscire pulito. Ce l’ho fatta».

Michael Giffoni: «Lo Stato che ho servito mi ha messo sotto accusa, ora il ministero mi riabiliti». Intervista all'ex ambasciatore italiano Michael Giffoni, assolto dopo 7 anni dall'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina: «Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. Un presunto colpevole invece che un presunto innocente. Sa come mi sono sentito? Come se mi avessero destituito della mia stessa anima». Simona Musco su Il Dubbio il 2 ottobre 2021. «Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. Un presunto colpevole invece che un presunto innocente. Sa come mi sono sentito? Come se mi avessero destituito della mia stessa anima». A cinque giorni dalla sua assoluzione Michael Giffoni, ex ambasciatore italiano a Pristina, ha già la voce più serena. Per lui è la fine di un incubo, anche se la strada per la riabilitazione manca ancora di un pezzo: rientrare al ministero degli Esteri che lo ha cacciato prima ancora che qualcuno decidesse se fosse colpevole e innocente. Tutto è accaduto nel 2014, quando Giffoni, mente raffinatissima e con un curriculum da fare impallidire chiunque, è stato destituito dall’incarico e addirittura radiato dalla diplomazia italiana sulla base di accuse dalle quali, sette anni dopo, è stato scagionato con formula piena: di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere. Tutto questo, sette anni dopo, è svanito nel nulla. Ma la sua carriera è ormai distrutta.

Ambasciatore, come ci è finito in questa situazione?

È una vicenda complessa e ingarbugliata dal punto di vista giuridico e dolorosa dal punto di vista umano. Non mi sento una vittima della malagiustizia, perché la giustizia mi ha salvato. Lo sono se consideriamo i tempi, perché l’iter è stato lunghissimo, ma è stato grazie ad un tribunale se ho avuto questa liberazione. La cosa peggiore, però, è che le accuse sono state alla base della mia destituzione, provvedimento amministrativo sanzionatorio a dir poco estremo. Da quel momento si è sviluppato un incredibile corto circuito tra legge, procedure disciplinari, procedure giuridico-amministrative e processo penale. Il tutto ha creato, alla fine, una situazione difficile da sbrogliare.

Il tribunale più duro è stato quello interno al ministero degli Esteri?

Essere destituiti per un funzionario dello Stato, almeno per quello che io sono e sono sempre stato, ha significato la destituzione della mia stessa anima, del mio modo di essere, della mia dimensione umana. Questo sulla base non di accuse accertate e attestate da chi ha la competenza giurisdizionale per farlo, ma da una commissione disciplinare interna al ministero. È molto difficile da accettare: per quanto legalmente ortodossa, dal punto di vista umano e civile è molto grave, perché la Costituzione prevede il principio di presunzione di innocenza. E io avrei dovuto essere considerato innocente fino a prova contraria. Ma questo vige solo sulla carta, perché per sette anni e mezzo sono stato privato di tutto, della mia stessa essenza, sulla base di accuse mai provate. Un presunto colpevole. Una cosa difficile da accettare in uno Stato diritto, perché questo contraddice in pieno i principi dello stesso.

È stato audito dalla commissione?

Sì, ho spiegato le mie ragioni fin dall’inizio e fin dall’inizio ho fatto presente che quelle accuse si basavano su voci e pregiudizi. Non c’era nessuna prova, ma il ministero ha deciso comunque di sanzionarmi. Il Tar del Lazio mi ha dato ragione ben due volte, proprio sulla base della presunzione di innocenza, evidenziando che le accuse non erano mai state accertate e che il ministero non poteva intestarsi una funzione che non aveva, in quanto organo del potere esecutivo e non di quello giudiziario. Quindi avevano ordinato la mia riammissione in servizio, in attesa di un processo . Il Consiglio di Stato, però, ha ribaltato il ragionamento, dando ragione al ministero che aveva valutato l’esistenza di un danno ingente allo Stato. Bene, questo danno, come la sentenza ha dimostrato, in realtà non c’è mai stato. Penso che questo capovolgimento sia alquanto bizzarro.

Come sono stati questi sette anni?

Non voglio star qui a rimuginare: questi sette anni sono andati. La sentenza mi ha ridato la dignità civile e morale, ha ristabilito la verità, mi ha fatto giustizia. Certo, ci si poteva mettere di meno. Però quello che ora esigo è semplicemente una cosa: che mi venga restituita anche la dignità professionale, che per me era una missione di vita. È come se avessero scomunicato un sacerdote, sulla base di accuse infondate. Essendo venuti meno i fondamenti di quei provvedimenti che avevano giustificato sanzioni così estreme, penso che sia un’aspettativa legittima e fondata quella di tornare a lavorare al ministero degli Esteri.

Qualcuno le ha chiesto scusa?

Figuriamoci. Non c’è stato finora nessun contatto. Lo so che probabilmente non è la fine, ma per me in ogni caso è un nuovo inizio, perché finalmente sono sereno. Prima non potevo esserlo. Sono finalmente sereno da lunedì 27 settembre 2021 alle ore 13.45. Spero che da parte dell’amministrazione prevalga il buon senso e che si prenda atto che la sentenza è inequivocabile. La conseguenza immediata dovrebbe essere la mia riabilitazione.

Quindi non ha perso totalmente la fiducia nelle istituzioni?

Io sono un funzionario dello Stato e lo sono nell’anima, lo sono stato anche in questi sette anni. In molti mi hanno invitato a portare la mia storia nei salotti tv, ma io non sputo nel piatto in cui ho mangiato, non porto lo Stato, nonostante mi abbia riservato questo trattamento, sul palco degli accusati. Ma ora sì. Ora ho una sentenza. Ora io dico che le conseguenze di questa sentenza se le devono assumere le istituzioni, perché la riabilitazione professionale che voglio io non me la può ridare un tribunale, me la deve dare chi mi ha cacciato.

Lei ha firmato i referendum promossi dal Partito Radicale. Per quale ragione?

Non perché vada di moda o perché si tratta di temi legati alla giustizia, ma perché ho letto le proposte e le ho trovate sensate e ho pensato che potesse essere un modo per iniziare a migliorare la situazione. La mia è stata una vicenda grave, fatta di sofferenze, ma se la paragoniamo a tante situazioni estreme mi è andata anche bene: c’è gente che ha fatto anni di carcere prima di essere assolto. E mi sembra che queste proposte possano alleviare, almeno, quelli che sono i problemi principali.

Secondo lei cosa non funziona?

In primo la presunzione d’innocenza, che deve esistere nei fatti e non solo sulla carta. Deve tornare ad essere un principio fondamentale. Poi il processo deve finalmente uscire dalla natura inquisitoria nel quale ancora, nonostante tutto, si trova. Deve basarsi sulle garanzie e sulle tutele degli imputati, che non possono essere condannati prima ancora che sia emessa la sentenza. E poi c’è il problema dei tempi: nel mio caso è stato un iter micidiale. Tecnicamente si deve trovare una soluzione e non penso che sia solamente un problema di organico, ma anche un problema di mentalità.

Anche la sua vita personale ha subito dei duri colpi.

Abbiamo tutelato soprattutto gli interessi del bambino, che è cresciuto bene e sono contento di essere riuscito a spiegare tante cose ad un ragazzo che all’epoca aveva 5 anni e quindi è cresciuto con questo dramma. Poi il matrimonio è un’altra storia: è nato sotto l’assedio a Sarajevo e sono stati 20 anni bellissimi. Ma lasciamo perdere: la fine della storia è frutto di un momento difficile. Era difficile starmi vicino, perché mi sono ritrovato sbalzato in una situazione completamente diversa, che era l’annullamento di tutta la mia vita. Le sofferenze però sono state immani, anche fisiche. Non sto a dire che le malattie dipendono solo da quello, ma in gran parte sì: prima ero sano come un pesce e poi improvvisamente ho avuto problemi cardiologici, endocrinologici, istologici… Qualche cosa ci deve essere stato. Poi ho avuto sofferenze materiali, perché non essendoci più entrate sono finiti i risparmi. Mia madre mi ha aiutato, qualche amico ha messo mano anche al portafogli e non gliene sarò mai grato abbastanza. Queste situazioni le abbiamo superate, ma quello che lascerà strascichi sono le conseguenze morali. Era difficile ogni giorno alzarsi e sentirsi un colpevole senza processo. È stata un’odissea. Ma ci sono state tantissime lezioni ed io non sono così stupido da non coglierle al volo. Nessuno può ripagarmi per questi anni, sono andati. Ma ciò che ho imparato lo metterò a frutto e sono sicuro che la vita mi ridarà altri sette anni di cose positive.

Igor Pellicciari per formiche.net il 29 settembre 2021. Ci sono tristi vicende umane e giudiziarie irrisolte per anni che, anche se non ci toccano direttamente, lasciano un senso di amarezza e di insicurezza che resta a lungo in agguato quando riaffiorano nella cronaca o nella mente. L’idea che esse possano un giorno colpire a caso chiunque fa rabbrividire. Tanto che quando si prova ad immedesimarsi nell’eventualità, il pensiero si ferma a metà della simulazione, gesto scaramantico per esorcizzarle. Quando queste vicende si concludono con epiloghi positivi per gli accusati, è curioso come questi nonostante tutto sviluppino una sorprendente rassegnata serenità e addirittura un ottimismo verso il futuro. Non vi è rancore in loro, nemmeno nelle prime dichiarazioni a caldo. Per paradosso, il senso di sdegno e di rivalsa è più presente ed esplicito in coloro che delle vicende in oggetto sono stati semplici spettatori passivi o indiretti. Sono condizioni ben riassunte nella vicenda vissuta da Michael Giffoni, già Ambasciatore Italiano a Pristina destituito dall’incarico e addirittura radiato dalla diplomazia italiana sulla base di una serie di gravissime accuse da cui anni dopo è stato scagionato con formula piena. Sintetizzata in questi termini, la vicenda potrebbe sembrare un “semplice” caso di malagiustizia nostrana, ennesimo frutto di una logica burocratico-amministrativa che – qui starebbe la novità – ha riguardato la diplomazia di carriera.  Ovvero una categoria che di suo attira poca compassione nel sentire popolare di questi tempi alimentato dal populismo ai sentimenti “anti” (casta, politica, impresa, vaccino, etc). In realtà la formula della completa e totale assoluzione di Giffoni serve per ricordare le premesse personali e professionali di tutta la vicenda. Che oggi rendono ancora più incomprensibile e gettano un’ombra sulla sua originaria messa in stato d’accusa e sull’accanimento (solo in parte giudiziario) che ne è seguito. Tra i giovani più promettenti della Farnesina negli anni ’90, era arrivato all’incarico in Kosovo come il diplomatico italiano che meglio conosceva i Balcani Occidentali post-bellici. Questa expertise, riconosciutagli anche negli ambienti accademici e nelle numerose organizzazioni internazionali presenti nell’area, era stata maturata in Bosnia dove era stato Primo Segretario a Sarajevo, braccio destro dell’Ambasciatore Michele Valensise (in seguito Segretario Generale della Farnesina dal 2012 al 2016).  Fu in quegli anni che Giffoni optò per un modo di interpretare il suo ruolo molto più simile alla tradizione diplomatica americana (che egli, nato da famiglia italiana a New York, ben conosceva). Ovvero, spendendosi sul campo, setacciando il difficile terreno bosniaco del dopo-Dayton e tessendo reti relazionali con la miriade di suoi livelli istituzionali anche a livello degli enti locali. Una eccezione tra i rappresentanti della Comunità Internazionale restii a muoversi fuori dalla comoda Sarajevo. Inoltre, altra rarità, Giffoni si rendeva sempre accessibile e disponibile a collaborare con quanti si rivolgevano a lui, sia per la sua carica istituzionale che per la sua conoscenza del territorio. Ha sostenuto attivamente un piccolo esercito di organizzazioni ed operatori di ogni nazionalità ed estrazione politica (tra cui anche il sottoscritto, all’epoca a capo di un progetto del Consiglio d’Europa nella città di Tuzla). Quando iniziarono le sue vicissitudini giudiziarie questo gruppo di persone non mancò di fare sentire la propria voce in sua difesa, certo che i reati che gli venivano contestati in Kosovo non potevano essere a lui ascrivibili. Se fosse stato mosso da desideri corruttivi, sarebbe stato molto più facile e profittevole occuparsi di traffico di visti in Bosnia nel dopoguerra piuttosto che (come sosteneva l’accusa) nella piccola e sovraffollata capitale del Kosovo, dove un segreto non sopravvive al talk-of-the-town dalla mattina al pomeriggio. Senza considerare che anche uno studente alle prime armi di Diritto Internazionale sa che non spetta alle competenze di un Ambasciatore occuparsi della sezione consolare che emette i visti. Ciononostante, si è deciso di non dare alcun ascolto a questi argomenti e di proseguire con un approccio burocratico dove la parte accusatrice era anche quella giudicante, portando all’esito scontato di assurgere a verità amministrativa quello che era un palese falso storico. Conclusa l’esperienza Bosniaca, Giffoni, già accreditato nella Comunità Internazionale nei Balcani,  fu scelto per ricoprire uno degli incarichi in assoluto più importanti dell’epoca – Capo della Task Force UE per i Balcani istituita dal primo responsabile della neonata diplomazia di Bruxelles, Javier Solana (già Segretario Generale della NATO). Nonostante l’importanza e lo status del ruolo, aveva continuato a muoversi secondo la sua personale ed efficace prassi diplomatica, apprezzata più all’estero che in patria dove i suoi ritmi eccessivamente dinamici hanno faticato a farsi accettare. La visibilità ed il lavoro raccolto con la Task Force gli garantirono di bruciare le tappe della carriera ad arrivare al prestigioso incarico storico di essere primo Ambasciatore italiano accreditato in Kosovo. Per di più, quando il piccolo Stato balcanico, da poco ottenuta l’indipendenza, ancora conquistava l’apertura dei notiziari mondiali. Alla luce di tutto questo, è eccessivo e probabilmente fuorviante ipotizzare che si sia deliberatamente tesa una trappola a Giffoni per interromperne una carriera in rapida ascesa. Più probabile è che, inciampato “all’italiana” in un episodio di malagiustizia, gli sia stato fatale non potere contare sul sostegno e difesa della sua amministrazione, nella quale il suo modus operandi diplomatico gli aveva impedito di integrarsi a pieno. A tal punto che il MAE non fece scattare nel suo caso quei meccanismi di difesa in genere quasi automaticamente riservati ai propri funzionari sotto accusa. Almeno fino all’arrivo del giudizio finale del procedimento che li riguarda. Il punto è che, così facendo, non solo si è distrutta la carriera dell’Ambasciatore Giffoni. Si è anche privata la nostra politica estera di un validissimo diplomatico che aveva ancora tanto da dare soprattutto la dove le principali risorse e sfide future aspettano il nostro paese. Sul piano multilaterale europeo.

L’ambasciatore Giffoni assolto dopo 7 anni: «La mia vita è distrutta». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2021. Accusato di traffici in Kosovo, fu cacciato e radiato. «È stato come essere condannati a morte...». Nell’aula bunker di Rebibbia, quando all’una e mezza i giudici dell’ottava sezione penale l’assolvono con formula strapiena, Giffoni scoppia a piangere. Si strofina gli occhi e si scusa, perché da una vita il suo mestiere è quello di nascondere le emozioni e adesso non gli riesce: «Mi spiace, sono in pieno choc emotivo… Ma dovete capire: quel che m’hanno inflitto in questi sette anni e mezzo, per un ambasciatore equivale alla pena capitale. Sì, non lo dico io, lo dice una legge del 1953: la radiazione d’un diplomatico è equiparata alla fucilazione per alto tradimento in tempo di guerra… E loro m’hanno fucilato, senza alcun diritto di farlo. La mia vita è stata distrutta. Una prova durissima di resistenza fisica, morale e materiale. M’hanno espulso dal corpo diplomatico, ho avuto due infarti, un ictus, un tumore, il mio matrimonio è finito, m’è rimasto vicino solo mio figlio di 12 anni e son dovuto tornare in casa da mia mamma, a sopravvivere con la sua pensione… E questo perché? Per cose che non solo non avevo mai fatto, ma neanche mai pensato di fare. Era tutto infondato». Assolto perché il fatto non sussiste: non si sognò mai di formare un’associazione a delinquere. Assolto perché il fatto non costituisce reato: men che meno, si mise mai in testa di favorire l’immigrazione clandestina. Nella mostruosa galleria dei Kafka italiani, ecco il caso della fucilazione senza processo inflitta sette anni e mezzo fa all’ormai ex ambasciatore Michael Giffoni, 56 anni, newyorkese di nascita e italianissimo per spirito di servizio, incarichi dalla Bosnia alla task force del «ministro» europeo Javier Solana, che nella storia sarà ricordato perché fu il primo ad aprire una nostra ambasciata a Pristina, subito dopo l’indipendenza del Kosovo. E il primo, anzi l’unico, a essere cacciato con disonore: «Senza che nemmeno fosse cominciato il processo, il ministero degli Esteri mi tolse tutto: rango, incarichi, stipendio. Feci due volte ricorso al Tar, che per due volte mi reintegrò. Ma per due volte la Farnesina ribadì la mia destituzione: una a firma dell’allora ministra Federica Mogherini; la seconda, del segretario generale Elisabetta Belloni. Ero accusato di dolo e colpa grave, senza uno straccio di sentenza penale contro di me». La sentenza ora è arrivata, «dopo 4 anni di processo, di tanta gente che t’abbandona, di soldi che non ci sono, d’un telefono che passa da cento chiamate al giorno a sette-otto all’anno». E ha appurato come l’ambasciatore Giffoni non c’entrasse proprio nulla con quel suo collaboratore locale — peraltro figlio di Ibrahim Rugova, il «Gandhi del Kosovo» — che fra il 2008 e il 2013 trafficava in visti e permessi di soggiorno. Chi l’ha conosciuto nei suoi 23 anni da diplomatico sul campo , uno che è stato a Sarajevo sotto le granate e ha visto gli orrori di Srebrenica, non ha mai dubitato un attimo di Giffoni. Ma alla Farnesina si son fatti un altro film: «Non so se in Kosovo io abbia mai toccato interessi o suscettibilità. Non me la sento neanche di dare colpe. Credo che il mio caso sia stato più che altro un impazzimento. Un accanimento feroce e disumano. Di chi conosceva il mio profondo attaccamento al Paese e ai valori dell’Ue». 

E ora? «Non è finita, lo so. In uno stato di diritto la mia riabilitazione dovrebbe essere automatica: non in Italia. Per me, fare l’ambasciatore era una missione e questo è il peggio: m’hanno destituito non solo dal mio lavoro, ma dalla mia vita e dalla mia anima».

·        Nunzia De Girolamo.

Nunzia De Girolamo, il dramma: “Ho pensato di buttarmi dalla finestra”. Alice su Notizie.it il 04/02/2021. Nunzia De Girolamo ha confessato il dramma vissuto a causa della lunga vicenda giudiziaria che l'ha vista coinvolta. Nunzia De Girolamo ha confessato per la prima volta il dramma da lei vissuto in seguito al processo sulle consulenze dell’Asl (conclusosi con la sua piena assoluzione) e che l’ha costretta a dimettersi dalla carica di ministro. Per la prima volta Nunzia De Girolamo ha confessato come avrebbe vissuto i 7 anni di vicenda giudiziaria che l’ha vista coinvolta a causa del processo sulle consulenze dell’Asl di Benevento. L’ex ministro ha confessato di aver vissuto con enorme dolore quell’esperienza, e ha rivelato che a salvarla sarebbe stato l’amore per sua figlia Gea, nata dall’amore per suo marito, il politico Francesco Boccia. “Senza il suo amore gigante, avrei davvero potuto compiere una sciocchezza e buttarmi da una finestra. Anche per dare un segnale forte a questo Paese, a questi giudici che spesso decidono della vita altrui senza aver coscienza delle conseguenze”, ha dichiarato Nunzia De Girolamo, che dal processo è stata assolta con formula piena. Molto presto l’ex ministro sarà al timone di un nuovo programma tv, Ciao Maschio, di cui uno dei primi ospiti sarà l’amico Massimo Giletti. I due hanno rilasciato un servizio svelando i retroscena della loro amicizia. Nelle foto pubblicate i due erano intenti a posare scherzosamente con foto equivoche e a tal proposito Nunzia De Girolamo ha affermato che suo marito non sarebbe geloso: “Massimo ha finto di baciarmi il ginocchio e ha detto: "Questa la mandiamo a Boccia". Non mi aspettavo di vederla pubblicata”, ha dichiarato.

·        Pierdomenico Garrone.

Sedici anni senza essere interrogato. Assolto l'ex presidente di Enoteca Italia. Luca Fazzo il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel 2006 la vita di Garrone rovinata da un'indagine che si è chiusa soltanto adesso: "Lo Stato paga le spese legali, ma chi mi risarcisce?" Sedici anni da indagato, la carriera distrutta, le spese legali che nessuno gli ridarà mai più: e l'assoluzione con formula piena. Una storia simile purtroppo a centinaia o migliaia di altre, quella dell'ex presidente di Enoteca Italiana Pierdomenico Garrone. Ma a Garrone spetta forse un record: mai, neanche una sola volta, in tutti questi anni, ha potuto vedere in faccia i suoi accusatori. Non è mai stato convocato per un interrogatorio, non ha mai avuto la possibilità di convincere un pm della sua innocenza. Come se alla macchina che lo aveva inghiottito la sua verità non interessasse nemmeno. Tre giorni fa, la Corte d'appello di Roma ha chiuso definitivamente la faccenda, respingendo il ricorso presentato dalla procura della Capitale, ultimo approdo del fascicolo aperto sedici anni fa ad Asti, con il blitz del 5 aprile 2006. «Quel giorno ero in treno - racconta Garrone - ed erano le sette del mattino. Mi arrivano le telefonate di mia madre e di mia sorella che mi raccontavano che la Guardia di finanza aveva fatto irruzione in casa con un mandato di perquisizione. Alle dieci e mezza la Procura di Asti fece la conferenza stampa raccontando tutto come se fossi già stato dichiarato colpevole».

Protagonista dell'inchiesta, il procuratore di Asti Salvatore Sorbello: autore recentemente di una autobiografia dal pacato sottotitolo «storie pubbliche e private di un magistrato coraggioso». A Garrone e ad altri sette indagati, Sorbello nell'aprile 2006 contesta una sfilza di reati: associazione per delinquere, false fatturazioni, e truffa ai danni dello Stato. Al centro, Enoteca Piemonte e Enoteca Italia, due enti per la promozione dei vini. Garrone si dimette il giorno stesso dalla carica. Ma curiosamente pochi mesi dopo si dimette anche Sorbello, che lascia la magistratura per andare a fare il presidente di un ente pubblico contro la contraffazione dei marchi. «Io - dice adesso Garrone - non ho elementi per dire che la visibilità pubblica sia stata usata da Sorbello per fare carriera. Mi chiedo solo se abbia sostenuto un concorso per andare a occupare quel posto». Dopo l'addio del procuratore, anche il fascicolo di indagine su Enoteca Italia lascia Asti, direzione Roma. E approda nelle mani di un pubblico ministero di cui le cronache si sono dovute occupare nel corso del «caso Palamara»: il pm Stefano Fava, finito indagato e sotto procedimento disciplinare insieme all'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. «Neanche Fava ha mai ritenuto necessario interrogarmi. Però ha chiesto e ottenuto il mio rinvio a giudizio». Nel 2017, il tribunale di Roma assolve Garrone con formula piena. Ma Fava non demorde, e presenta ricorso presentando anzi anche un'altra accusa, il concorso in bancarotta. Venerdì scorso, la Corte d'appello dichiara il ricorso inammissibile. Fine della partita? In realtà no: perché se finisce la vicenda giudiziaria rimane aperta la ferita nella reputazione, l'eterna memoria di Google che a ogni ricerca sul nome di Garrone e delle altre migliaia come lui sfornerà l'etichetta di indagato e non quella di assolto. «Per questo - dice Garrone, che da una vita si occupa di comunicazione - sto lavorando alla creazione di un'associazione che si chiamerà Diritto alla buona fama e si occuperà della tutela della reputazione delle persone e delle aziende a fronte di situazioni come quella che mi ha coinvolto a lungo. Sono stato assolto e le spese processuali le paga lo Stato, ma io vorrei sapere a chi dare il mio Iban per il risarcimento di quello che ho speso. E vorrei sapere perché se le auto in circolazione sulle strade sono obbligate ad avere una assicurazione, non debbano avere una assicurazione anche i pubblici ministeri che circolano nei nostri palazzi di giustizia e che possono fare danni altrettanto gravi».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'odissea dell'ex manager di Enoteca Italia. Assolto dopo 16 anni senza mai essere interrogato, l’incubo di Pierdomenico Garrone: “Chi mi risarcisce?” Redazione su Il Riformista il 2 Novembre 2021. Una vita da indagato, o quasi. È finito, solo parzialmente, quattro giorni fa l’incubo di Pierdomenico Garrone: l’imprenditore, ex presidente di Enoteca Italiana, è stato infatti assolto definitivamente dopo il coinvolgimento in una inchiesta della Procura di Asti dell’aprile 2006. A Garrone, così come ad altri sette indagati, l’allora procuratore Salvatore Sorbello contestava reati come associazione per delinquere, false fatturazioni, e truffa ai danni dello Stato. Una inchiesta nata nel 2005 per la natura di alcune fatture e poi estesa ad indagare sul crac di Buonitalia, società che aveva assorbito Enoteca Italia, avvenuto nel 2013, otto anni dopo le dimissioni di Garrone.

Una vicenda giudiziaria chiusa il 29 ottobre scorso dalla Corte d’Appello di Roma che ha respinto il ricorso presentato dalla procura della Capitale, dove il fascicolo si era ‘trasferito’ negli anni scorsi. Una decisione che per Garrone “sancisce che la gestione dell’ente da parte mia fu corretta e non ci fu alcun tipo di illecito”. A ripercorrere le tappe della vicenda è lo stesso Garrone: “Quel giorno ero in treno – racconta Garrone aIl Giornale – ed erano le sette del mattino. Mi arrivano le telefonate di mia madre e di mia sorella che mi raccontavano che la Guardia di finanza aveva fatto irruzione in casa con un mandato di perquisizione. Alle dieci e mezza la Procura di Asti fece la conferenza stampa raccontando tutto come se fossi già stato dichiarato colpevole”. Garrone, presidente di Enoteca Piemonte e Enoteca Italia, due enti per la promozione dei vini, si dimette il giorno stesso. Ma a lasciare è anche il procuratore Sorbello, che diventa presidente di un ente pubblico contro la contraffazione dei marchi, col fascicolo che passa a Roma. Nella Capitale ad indagare è il pm Stefano Rocco Fava (oggi giudice civile a Latina), recentemente rinviato a giudizio assieme a Luca Palamara per presunte ‘soffiate’ a giornalisti. Dodici anni dopo l’avvio dell’inchiesta arriva la sentenza di assoluzione in primo grado perché il fatto non sussiste: Fava presenta ricorso, rigettato e dichiarato inammissibile in Appello dopo altri quattro anni confermando dunque la sentenza di primo grado. Ma Garrone non denuncia solo la giustizia lumaca, la carriera distrutta da una inchiesta finita nel nulla: l’ex presidente di Enoteca Italiana denuncia infatti di non essere mai stato interrogato dai suoi accusatori, sia Sorbello che Fava. “Io da quel magistrato non sono mai stato ascoltato, non l’ho mai visto. Così come non avrei visto nessuno dei pubblici ministeri che gli sono subentrati”, spiega Garrone. “Rifarei tutto perché tutto è sempre stato fatto con terzietà di interesse – aveva spiegato subito dopo la sentenza il manager, fondatore de Il Comunicatore Italiano e con ruoli ricoperti anche in Aeroporti di Roma e Regione Piemonte -, assenza di conflitti di interesse, per l’interesse pubblico e generale del settore vitivinicolo di Acqui Terme, della Regione Piemonte, del Governo Berlusconi che mi aveva nominato. Carta dei Vini dell’Enoteca d’Italia e così del Piemonte resta ancora oggi un modello di promozione di successi”. Ma 16 anni vissuti da imputato hanno avuto effetti drammatici per la reputazione del manager. Per questo, spiega lo stesso Garrone, “sto lavorando alla creazione di un’associazione che si chiamerà Diritto alla buona fama e si occuperà della tutela della reputazione delle persone e delle aziende a fronte di situazioni come quella che mi ha coinvolto a lungo. Sono stato assolto e le spese processuali le paga lo Stato, ma io vorrei sapere a chi dare il mio Iban per il risarcimento di quello che ho speso”.

Il calvario di Garrone: «16 anni sotto processo da innocente. Mai interrogato da un pm». La storia di Pierdomenico Garrone, ex presidente di Enoteca del Piemonte e di Enoteca d’Italia, assolto pochi giorni fa in appello dopo l'assoluzione in primo grado. Simona Musco su Il Dubbio il 3 novembre 2021. Una vita sospesa per sedici anni. Una carriera distrutta, spese infinite, reputazione a pezzi. Fino all’assoluzione con formula piena, dopo esser stato accusato perfino di un reato commesso otto anni dopo le sue dimissioni. «Sarebbe bastato chiamarmi in procura e chiedermi delucidazioni. Non azionare tutto questo meccanismo inquisitorio, fare una conferenza stampa, poi abbandonare l’inchiesta per andare a fare l’amministratore di una società pubblica e lasciare che tutti gli imputati, intanto, nelle more, subissero le angherie sociali che abbiamo subito. Immagini una persona perbene, di una famiglia normale, che si vede al mattino le macchine coi lampeggianti accesi e i mitra davanti casa». Tutto questo è la storia di Pierdomenico Garrone, ex presidente di Enoteca del Piemonte e di Enoteca d’Italia, che pochi giorni fa, in appello, si è visto confermare l’assoluzione già rimediata in primo grado quattro anni fa.

Da Asti a Roma, la storia di Pierdomenico Garrone

Un processo e un’inchiesta lunghissimi, senza esser mai stato sentito dai pm che lo accusavano di aver fatto carte false sfruttando il suo ruolo. A chiudere una storia che si era aperta ad Asti, ad opera dell’allora procuratore Sebastiano Sorbello, ci ha pensato la Corte d’Appello di Roma, che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’allora pm romano Stefano Rocco Fava. Ma nel frattempo Garrone è stato escluso dal mondo della politica e dal mondo della professione. Un tipo di evitare, insomma, nonostante fosse innocente. «Si vive l’esperienza di quello che in giro si vede indicare macchie sulla camicia che non ritiene di avere», sottolinea.

Il blitz della Guardia di Finanza

Tutto è cominciato un giorno di aprile del 2005, alle sette del mattino. «Ero in viaggio in treno tra Torino e Milano – racconta al Dubbio Garrone – e ho ricevuto una telefonata da mia madre, che era anziana: così come mio suocero e mia sorella, si era vista arrivare a casa la Guardia di Finanza che, col mitra spianato, stava mettendo sottosopra le nostre proprietà. Una volta arrivato ad Acqui Terme ho scoperto di essere indagato». Tra le proprietà perquisite, però, mancava proprio casa sua. Così Garrone decise di condurre lui stesso le forze dell’ordine nel suo appartamento, assieme al suo commercialista. «Non volevo essere accusato di aver nascosto o manomesso prove e feci mettere a verbale che nel mandato di perquisizione non era stato inserito il mio luogo di residenza», spiega. Nel frattempo, alle undici e mezza, nei locali della procura andò in onda la conferenza stampa, dove l’inchiesta venne presentata «come se fossi già stato dichiarato colpevole».

Il giorno delle dimissioni

Da quel momento la vita di Garrone cambiò radicalmente, a partire dalle dimissioni da presidente di Enoteca Piemonte ed Enoteca d’Italia, posti in cui era stato piazzato rispettivamente dalla Regione e dal governo e dalla conferenza delle Regioni. Due istituzioni per la promozione del vino in piena attività, con una rilevanza istituzionale in Italia e all’estero. Garrone, all’epoca, presiedeva il Consiglio di amministrazione, dove tutte le decisioni venivano prese all’unanimità. «Non volevo recare nocumento alle due istituzioni, quindi mi sono immediatamente dimesso», spiega. Il 100% di Enoteca d’Italia apparteneva a Buonitalia, società che poi ha incorporato la prima. «La verifica e il controllo spettavano a Buonitalia – racconta -. Io non ricevevo denaro direttamente dal ministero, mi limitavo all’atto di indirizzo di progettazione di comunicazione per la promozione, che è il mio mestiere».

Fascicolo trasferito a Roma

Pochi mesi dopo le dimissioni di Garrone, anche Sorbello – che agli otto indagati (tutti assolti) contestava le accuse di associazione per delinquere, false fatturazioni e truffa ai danni dello Stato – lasciò la magistratura, diventando presidente di un ente pubblico contro la contraffazione dei marchi. L’avventura giudiziaria di Garrone, però, andò avanti anche senza di lui, con il trasferimento del fascicolo a Roma, dove il caso finì in mano a Fava, recentemente rinviato a giudizio nell’ambito del caso Palamara con le accuse di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, abuso d’ufficio e accesso abusivo a sistema informatico. Neanche lui, però, interrogò mai Garrone. E dopo l’assoluzione in primo grado, decise di ricorrere in appello, ipotizzando per l’ex numero uno di Enoteca la bancarotta fraudolenta per il crac di Buonitalia, fallita nel 2013, ovvero otto anni dopo le sue dimissioni e nonostante non avesse deleghe operative per fare fatti concreti.

«Dopo di me ci sono stati altri presidenti e commissari e quindi altri collegi sindacali – evidenzia -. Inoltre, i vertici di Buonitalia non sono mai stati indagati. Giuridicamente l’accusa è risultata assurda anche per il procuratore generale, che ha aperto l’udienza dichiarando di non poterla sostenere». Com’è stato possibile far durare tanto questo processo? «Credo che sia nelle logiche che leggiamo sui giornali: si tiene poco conto dell’impatto che queste indagini hanno sulla vita delle persone. Ed è per questo che intendo costituire l’associazione “Diritto alla buona fama”», racconta.

Mai stato sentito dai pm

Garrone non ha mai subito misure restrittive, tranne quella alla sua reputazione. Il che, per un uomo che vive di politica e affari, è praticamente tutto. «Rimango un signore che nel 2005 riceve un avviso di garanzia più le perquisizioni. Uno che non è stato mai stato sentito né a cui sono stati chiesti chiarimenti, ma che per 16 anni si è portato dietro un carico pendente», sottolinea. E tutto ciò, di fatto, gli ha impedito di proseguire la sua carriera di manager pubblico. «Ho perso chance non indifferenti: consideri che il settore vitivinicolo è uno dei principali asset del pil di questo Paese e io ne presiedevo la promozione. Io mi occupo di web reputation, vendo credibilità e competenza, ma quando la credibilità è inficiata da un atto di questa natura è fortemente limitata la promozione sul mercato».

Il danno economico

Anche economicamente, dunque, le perdite sono state mostruose, a partire dai costi per l’esercizio legale per finire ai danni patrimoniali e professionali da centinaia di migliaia di euro, per tutte le possibilità alle quali non ha potuto accedere. A ciò si associa la fine di Enoteca: «All’epoca della mia presidenza c’era il Salone del vino in Piemonte e il Piemonte era la regione che guidava l’Enoteca d’Italia. Dopo Garrone non c’è più il Salone del vino, non c’è più Enoteca del Piemonte, non c’è più Enoteca d’Italia. E la promozione del vino non è più a sistema com’era stata progettata allora». Ora Garrone intende chiedere i danni per i 16 anni rimasti a mollo nel pozzo della giustizia: «Provocatoriamente ho già detto che scriverò per sapere a chi devo dare il mio iban per il risarcimento dei danni che ho subito – conclude -. Farò tutto ciò che la legge consente, ma certamente non si può pretendere che si spengano le luci e finisca la festa. Altre persone stanno subendo e subiranno le stesse angherie che ho subito io».

·        Pietro Paolo Melis.

Pietro Paolo Melis, un innocente al quale la giustizia ha rubato 18 anni. Pietro Paolo Melis fu arrestato nel 1997 e condannato sulla base di prove inesistenti a 30 anni di carcere per il sequestro dell’imprenditrice Vanni Licheri. Simona Musco su Il Dubbio il 4 ottobre 2021. E’ la storia di due due vite rubate. Una, quella di Vanna Licheri, perduta per sempre, risucchiata da un buco nero. L’altra, quella di Pietro Paolo Melis, spezzata in due, inesorabilmente. Due vite che non si sono mai incrociate e che però sono legate indissolubilmente. Pietro Paolo Melis ha trascorso 18 anni, sei mesi e cinque giorni in carcere, accusato ingiustamente di aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 e mai più tornata a casa. La portano via mentre si trova a mungere il bestiame di prima mattina, nell’azienda di famiglia. Accade tutto a pochi chilometri dal centro di addestramento di Abbasanta, distaccamento super moderno e super attrezzato nel quale vengono preparati gli agenti delle scorte di magistrati e politici e gli uomini delle squadriglie anti-sequestri. Occhi vigili e pronti ad ogni evenienza che però, in quel momento, sono all’oscuro del dramma che si sta consumando a pochi passi. Un dramma doppio, capace di logorare le vite di molte persone. A quei tempi Melis è un allevatore di 38 anni della provincia di Nuoro, in procinto di crearsi una famiglia. Ma il 10 dicembre 1997 i suoi progetti cambiano bruscamente e inesorabilmente direzione. Una pattuglia dei carabinieri lo aspetta sul ciglio della strada mentre fa ritorno a casa, lo ferma e gli punta il mitra contro. Pietro non sa che aspettarsi, ma è tranquillo. I carabinieri lo arrestano alle porte del suo paese, Mamoiada (Nuoro): in mano, oltre al mitra, i militari hanno un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Cagliari. Lo cercano per sequestro di persona, ma questo Pietro lo immagina già, perché per la scomparsa di Licheri – che manca da casa già da due anni e mezzo – ha già ricevuto un avviso di garanzia. In quei due anni e mezzo più volte i quattro figli della donna si dicono disponibili a pagare il riscatto, ma la legge non glielo permette. I beni sono congelati, non possono muovere un dito. Devono solo sperare che la macchina della Giustizia non si ingolfi e riporti a casa la loro madre e che i suoi carcerieri ne abbiano pietà. Speranza che si rivelerà vana. Melis non ha idea di chi sia quella donna. Mai vista, mai sentita, dice ai carabinieri. E quindi li segue tranquillo, sicuro che l’innocenza sia un biglietto da visita più che valido per non finire in cella. Sbaglia. Insieme a lui in carcere ci finiscono pure Giovanni Gaddone – che poi si scoprirà essere un ‘emissario’ dei sequestri -, Sebastiano Gaddone, Tonino Congiu – gli ultimi due ritenuti i custodi della donna – e Salvatore Carta. Ma vengono condannate solo due persone: Pietro Paolo Melis e Giovanni Gaddone. È il 1997 quando arriva la sentenza di primo grado. Melis, che in aula spiega che la sua famiglia è stata vittima dei sequestri e, dunque, non potrebbe mai macchiarsi di tale crimine, si becca 30 anni di carcere sulla base di alcune intercettazioni telefoniche, nelle quali gli inquirenti riconoscono la sua voce: è lui, per la procura, l’uomo che discute con Gaddone dei particolari organizzativi per la prigionia dell’imprenditrice. Lui, in aula, lo dice più volte: quella voce non è la mia. Ma non serve a nulla se non può dimostrarlo. Il 13 dicembre 1999 la sentenza diventa definitiva: dovrà passare 30 anni in cella. Pietro è distrutto, piange, non sa spiegarsi cosa gli sia accaduto. Sa solo che è innocente. Prova a sopravvivere in carcere, a prendersi cura del suo corpo ma anche della sua mente, studiando e diplomandosi all’istituto artistico in carcere. Sa che rassegnarsi e limitarsi a contare i giorni è il modo sicuro per morire. Per impazzire e farsi del male, come in tanti, intorno a lui, fanno. Insieme a tre compagni detenuti vince un concorso, con un progetto sulle fontane di Spoleto. Il primo premio sono sette ore di libertà. Gli avvocati Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci però non vogliono rinunciare. Provano a scagionarlo, chiedendo una revisione del processo che nel 2012 viene respinta dalla Corte d’Appello di Roma. Lì gli avvocati hanno chiesto nuove analisi su quella telefonata, ma per i giudici la perizia fonica su cui si basa la condanna dell’allevatore sardo non può essere messa in discussione dalle nuove tecnologie. «L’elemento indiziario, rappresentato, secondo la perizia, dalla riferibilità alla persona del Melis della voce intercettata nella conversazione con il Gaddone – scrivono i giudici non è stato considerato, in sé e per sé, fattore decisivo per l’affermazione della responsabilità, ma è stato dal giudice ritenuto dato utilizzabile per la formazione del suo convincimento una volta che, dopo averlo associato, in un processo di intreccio e concatenamento agli altri elementi di eguale valenza è giunto a ritenere che fosse proprio Pietro Paolo Melis il mamoiadino delle intercettazioni ambientali, non senza puntualizzare che il Melis non ha in alcun modo contestato con i motivi del gravame la ricostruzione operata dal primo giudice a riguardo del ruolo avuto, nel sequestro Licheri, dal mamoiadino delle intercettazioni suddette, essendosi limitato a sostenere di non essere lui l’interlocutore del Gaddone». Insomma, non ha urlato a sufficienza la sua innocenza. Gli avvocati, però, non si arrendono: fanno ricorso in Cassazione, dove i giudici annullano la decisione presa a Roma spedendo gli atti a Perugia. Anche lì i giudici dicono di no e così tocca fare un altro ricorso in Cassazione prima di trovare un giudice a Perugia. Toccherà fare un nuovo processo, questa volta, però, con la speranza che quell’innocenza possa essere finalmente dimostrata. Il processo di revisione parte e arriva la certezza: la voce in quella registrazione, la prova chiave dell’accusa contro Melis, non è sua. Ma non si tratta solo di questo: quella persona, chiunque essa sia, non è nemmeno originaria di Mamoiada, come lo è Pietro. L’accento lo dice chiaramente: è qualcuno che viene da un’altra parte. Qualcuno che non verrà mai identificato. E il 15 luglio 2016, sono passati due anni e quattro mesi dalla riapertura del processo. La corte d’Appello di Perugia dà ragione, dopo 18 anni, a quell’uomo, che intanto ha perso tutto: Pietro Paolo Melis non ha commesso il fatto, può tornare libero. «Il mio antidoto in tutti questi anni è stato la speranza – ha raccontato dopo la scarcerazione in un’intervista a Panorama -. Sapevo di essere innocente. In carcere, prima a Spoleto e poi a Nuoro, ho avuto solo qualche permesso per far visita ai miei genitori. Mio padre è morto mentre ero dietro le sbarre, mia madre ottantacinquenne mi ha rivisto pochi giorni dopo essere uscito di prigione e non credeva ai suoi occhi. Non ho voluto un pranzo o una festa, non ho nulla da festeggiare. Mi hanno rovinato per sempre. Al momento dell’arresto avevo 38 anni, oggi 56. Avevo una compagna, volevo costruirmi una famiglia, lei ha resistito otto anni poi mi ha lasciato. Non l’ho neanche sentita dopo la mia liberazione, non so se si sia sposata. Con una sola visita a settimana puoi resistere qualche anno, poi i sentimenti si raffreddano, è inevitabile ».

Arrestato nel 1997, verrà scagionato nel 2015. Pietro Paolo Melis, innocente in carcere per 18 anni: l’infinito calvario dopo la condanna per sequestro. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Agosto 2021. Un "happy ending", se così si può dire, alla fine è arrivato, ma non prima di 18 lunghi anni di reclusione da innocente. È la storia di malagiustizia, devastante, che vede protagonista Pietro Paolo Melis. Allevatore della provincia di Nuoro, è il 10 dicembre del 1997 quando i carabinieri lo arrestano alle porte del suo paese, Mamoiada. L’accusa? Aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 e mai più ritrovata. Melis al momento dell’arresto è tranquillo: sa di essere innocente nonostante abbia già ricevuto un avviso di garanzia per il caso. Non sa però che finirà in carcere: con lui ci finiscono Giovanni Gaddone, "emissario" dei sequestri, Sebastiano Gaddone e Tonino Congiu, ritenuti i custodi della donna, e Salvatore Carta. Di questi verranno condannati solo Melis e Gaddone. In primo grado, siamo ancora al 1997, l’allevatore viene condannato a 30 anni. Inutile il suo proclamarsi innocente, ricordare ai giudici che anche la sua famiglia è stata vittima dei sequestri. Per il tribunale infatti è di Melis la voce che viene intercettata al telefono con Gaddone per organizzare il sequestro dell’imprenditrice Licheri. Passano due anni e, come racconta Il Dubbio, il 13 dicembre 1999 la sentenza diventa definitiva: Melis dovrà trascorrere 30 anni dentro una cella. L’allevatore, 38enne all’epoca dei fatti, è disperato ma non molla: in carcere studia e si diploma all’istituto artistico, assieme a tre compagni vince un concorso con un progetto sulle fontane di Spoleto, ‘conquistando’ sette ore di libertà. Chi invece da fuori il carcere non molla la presa sul caso sono gli avvocati Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci, che tentano in ogni modo di dimostrare l’innocenza di Melis. Tentano nel 2012 la revisione del processo, respinta dalla Corte d’Appello di Roma, quindi due ricorsi in Cassazione, che finalmente accoglie la tesi dei legali: servono nuove analisi su quella telefonata che aveva inchiodato l’allevatore di Mamoiada. Una tesi che viene confermata nel processo di revisione: la perizia fonica smentisce quanto accertato nel primo processo, quella voce non è di Melis e non è neanche di una persona originaria di Mamoiada. Insomma, chi parlava con Gaddone non potrà mai essere identificato. Così, dopo oltre 18 anni di reclusione, la corte d’Appello di Perugia il 15 luglio 2016 ( a oltre 2 anni dalla riapertura del processo) dà ragione a Melis: è assolto perché non ha commesso il fatto, può tornare a casa. Già, ma quale casa? Il padre di Pietro è morto mentre il figlio era in carcere, la compagna con cui voleva costruire una famiglia ha resistito otto anni prima di lasciarlo. Una vita rovinata per sempre.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

·        Raffaele Chiummariello.

Coinvolto nell'inchiesta dalle bugie di alcuni pentiti. Dall’arresto all’archiviazione: finisce l’incubo di Chiummariello, intercettato e perseguitato perché avvocato del boss. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Da concorso esterno in associazione mafiosa ‘grazie’ alle testimonianze discordanti di alcuni pentiti all’archiviazione della sua posizione. Finisce dopo due anni e mezzo l’incubo giudiziario dell’avvocato Raffaele Chiummariello, coinvolto in una inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli che il 26 giugno del 2019 ha portato all’esecuzione di 126 misure cautelari, 89 delle quali in carcere. Nel mirino l’Alleanza di Secondigliano, storica organizzazione camorristica napoletana, e nello specifico il clan Contini e il suo storico boss Eduardo Contini, detenuto in regime di carcere duro da oltre un decennio. Chiummariello secondo le rivelazioni contraddittorie di alcuni pentiti, e nello specifico Giuseppe De Rosa, il figlio Teodoro e Pasquale Orefice, viene coinvolto nell’inchiesta condotta dai magistrati Ida Teresi, Alessandra Converso e Maria Sepe, sotto il coordinamento dell’allora procurare aggiunto Giuseppe Borrelli (oggi a capo della procura di Salerno) e del procuratore Giovanni Melillo. Considerato il tramite tra il boss Contini e i suoi referenti in libertà, per Chiummariello la procura partenopea chiese una misura cautelare respinta dal Gip del tribunale di Napoli Roberto D’Auria per carenza della gravità indiziaria e non impugnata dalla stessa Procura già all’epoca. Dopo 19 mesi il Gip Roberto D’Auria, su richiesta degli stessi pm che avevano condotto all’epoca le indagini (concluse nel 2016), ha archiviato la posizione dell’avvocato Chiummariello (difeso dal collega Rocco Antonio Briganti), per anni intercettato dai magistrati perché avvocato difensore prima di Contini poi del cognato Patrizio Bosti e del figlio Ettore, tutti considerati elementi apicali dell’organizzazione camorristica. Un incubo iniziato con dichiarazioni discordanti da parte di Giuseppe e Teodoro De Rosa (quest’ultimo smentito dallo stesso genitore) e riconoscimenti in foto errati da parte del terzo pentito, Pasquale Orefice. Incongruenze rilevate già all’epoca dal Gip Roberto D’Auria ma che non bastarono ad evitare l’immancabile gogna mediatica per Chiummariello ribattezzato in quei giorni “l’avvocato della camorra”.

I pm si arrendono, archiviata l'indagine. Intercettazioni, sospetti e gogna mediatica: l’incubo dell’avvocato del boss dura 15 anni. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. All’inizio avrebbero voluto arrestarlo. Per anni (la prima informativa risale all’8 novembre 2005) lo hanno intercettato e hanno interrogato collaboratori di giustizia per saperne eventualmente di più. Alla fine ne hanno chiesto l’archiviazione. E ieri il caso è stato ufficialmente chiuso con la decisione del gip del Tribunale di Napoli. Per l’avvocato Raffaele Chiummariello finisce così un lungo incubo giudiziario. Noto penalista napoletano, nel corso della sua carriera Chiummariello si è trovato più volte a essere nominato difensore di boss e personaggi coinvolti in processi di criminalità organizzata, dai capi dei clan del centro storico di Napoli a quelli della cosiddetta Alleanza di Secondigliano, ai boss Bosti e Contini. Ma mai avrebbe immaginato che assumere la difesa di camorristi o presunti tali potesse valergli un’accusa grave come il concorso esterno in associazione camorristica e anni di indagini che lo hanno tenuto sospeso nella bolla dei sospetti investigativi innescati dal “sentito dire” riferito da due collaboratori di giustizia. È quindi dal 2005 la Dda ha valutato informative delle forze dell’ordine e dichiarazioni di pentiti, solo ieri è arrivata l’archiviazione: «Gli elementi raccolti non consentono di sostenere l’accusa in dibattimento né appaiono suscettibili di ulteriori approfondimenti investigativi alla luce del lasso di tempo trascorso». In tutti questi anni Chiummariello, difeso dall’avvocato Antonio Briganti, ha sempre scelto di dire la sua nelle sedi opportune, quelle giudiziarie, evitando dichiarazioni e commenti pubblici e chiedendo ai pm di essere interrogato sin da subito, prima ancora della perquisizione nel suo ufficio, non appena si rese conto – studiando gli atti di un’inchiesta che riguardava un suo assistito – che nelle intercettazioni c’erano anche sue conversazioni. Per raccontare il resto della storia bisogna tornare indietro nel tempo, a giugno 2019. L’estate è alle porte e la Dda di Napoli ottiene la retata, con oltre un centinaio di arresti, nel bunker del clan Contini. L’indagine si concentra non solo su traffici di droga e malaffare, ma anche sulla rete di connivenze su cui può contare il clan. Tra gli indagati c’è anche l’avvocato Chiummariello. Due collaboratori di giustizia, Giuseppe e Teodoro De Rosa, gli stessi che hanno puntato il dito sugli interessi della camorra all’ospedale San Giovanni Bosco, riferiscono di aver sentito dire che il penalista avrebbe fatto da ambasciatore per il boss Eduardo Contini, detenuto al 41 bis, portando suoi messaggi agli affiliati liberi. Di qui l’accusa ipotizzata dalla Procura di concorso esterno in associazione camorristica e la richiesta di una misura cautelare che il gip non accoglie per mancanza della gravità indiziaria. La gogna mediatica, tuttavia, scatta ugualmente: sono sufficienti la perquisizione nello studio legale del penalista e la notizia dell’indagine. Nell’ufficio del professionista gli inquirenti non trovano nulla di rilevante ai fini della loro inchiesta e nemmeno dalle intercettazioni emerge mai qualcosa che possa sostenere quel pesante sospetto di concorso in associazione mafiosa. L’indagine, però, dura due anni. Le conversazioni di Chiummariello sono spiate dagli 007 dell’Antimafia. I pm insistono arrivando anche ipotizzare che il penalista possa aver adottato maggiori cautele immaginando di essere sotto intercettazione. Ma si tratta ancora di ipotesi e i riscontri non si trovano, così come non si trovano conferme alle parole dei pentiti. Dopo la perquisizione di giugno 2019 e la gogna del sospetto a cui il penalista è esposto, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati e la Camera penale di Napoli firmano un comunicato per stigmatizzare «la modalità di rappresentazione della notizia e la (negativa) enfasi mediatica che ne è conseguita» ponendo l’attenzione sul fenomeno della «sovrapposizione tra l’esercizio della funzione difensiva e la posizione, e le presunte responsabilità, dell’assistito» e sottolineando come «lungi dall’essere il garante dei diritti processuali riconosciuti a chiunque in relazione a qualsivoglia accusa, in ossequio all’imperativo costituzionale che presidia il diritto di difesa, l’avvocato è stato inaccettabilmente rappresentato come il difensore senza scrupoli del reato». La storia di Chiummariello diventa un caso. Da ieri un caso archiviato.

·        Raffaele Fedocci.

Il Pm parlò male del colonnello, ma è vittima a dover risarcire…Paolo Comi su Il Riformista il 25 Marzo 2021. L’applicazione “alla lettera” del regolamento generale dell’Arma, qualche volta, gioca brutti scherzi. È quanto accaduto al colonnello Raffaele Fedocci, dal 2002 al 2005 comandante provinciale di Catanzaro. Tutto inizia a marzo del 2003, quando il sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Gerardo Dominijanni decide di convocare per una riunione “operativa” Fedocci e il dirigente della locale squadra mobile. Il colonnello, fra i più stretti collaboratori dell’allora pm Luigi de Magistris nell’indagine Poseidone, decide di delegare il comandante del Nucleo operativo del Reparto operativo, ossia il “responsabile del servizio di PG a livello provinciale”, figura posta alle dipendenze funzionali della Procura esattamente come il capo della mobile della Questura. Dominijanni la pensa diversamente dal regolamento generale dell’Arma e segnala l’accaduto all’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna che cerca di stemperare i toni. Passa qualche mese, siamo nel 2004, e si conclude una maxi indagine contro l’ndrangheta condotta dai carabinieri sotto la direzione dello stesso Dominijanni. Pur non avendo avuto alcun ruolo, il procuratore di Catanzaro Mariano Lombardi decide di inviare una nota, sottoscritta anche da Dominijanni, al comandante generale dell’Arma. Dopo aver auspicato una ricompensa per il personale che aveva operato, i magistrati segnalano anche «l’atteggiamento assunto da Fedocci che più volte si è posto in contrasto con le direttive e le iniziative in materia di coordinamento e di contrasto alla criminalità organizzata assunte da questo Ufficio». Il Comando generale, ovviamente, dispone immediati accertamenti. Il procuratore di Catanzaro parlando con il generale Eduardo Centore, comandante della Legione carabinieri Calabria, in controtendenza al testo della lettera, manifesta «i più convinti sentimenti di piena ed incondizionata fiducia nonché di gratitudine per l’attività sviluppata da Fedocci, dichiarandosi senz’altro disponibile a sottoscrivere un attestato di indiscutibile considerazione verso l’ufficiale». È il turno ora delle carte bollate. Il primo a scendere in campo è Fedocci, a ottobre del 2005, con una querela per diffamazione nei confronti del solo Dominijanni, in relazione a quanto riferito dal procuratore nel colloquio con Centore. L’atto viene prima inviato alla Procura di Salerno e nel 2008 trasmesso a Roma per competenza territoriale. La Procura capitolina propone una richiesta di archiviazione a cui Fedocci si oppone. Al secondo tentativo il giudice dispone l’imputazione coatta nei confronti di Dominijanni. Il processo si conclude con l’assoluzione del magistrato “perché il fatto non sussiste”. Il giudice ritenne in quel caso che lo scritto fosse stato diretto solo al comandante generale e, pertanto, carente della “diffusività” richiesta per poter integrare la diffamazione. Fedocci, che non si era costituito parte civile, chiede allora alla Procura generale di fare appello. Rilevata preliminarmente «un’anomalia relativa alla mancata imputazione del procuratore della Repubblica che a pari del sostituto, aveva sottoscritto la missiva», la Procura generale sottolinea che trattandosi di uno scritto diretto al vertice dell’Arma avrebbe potuto essere conosciuto da terzi, come poi è effettivamente avvenuto. Nonostante ciò, la Procura generale nota che il reato di diffamazione si è già prescritto e che pertanto quest’ufficio, “anche appellando, non potrebbe avanzare alcuna pretesa punitiva nei confronti di Dominijanni”. Ad ottobre 2013 tocca a Dominijanni replicare con un ricorso d’urgenza al Tribunale di Locri con il quale, tra le altre cose, evidenzia le conseguenze patite «sotto il profilo della sofferenza psichica, della lesione della reputazione personale e professionale», con conseguente richiesta risarcitoria per 500mila euro. A luglio 2015 il giudice, dopo avere ritenuto “non configurabile nel caso in esame il delitto di calunnia che tuttavia, non esclude una responsabilità del resistente” , scrive che «i fatti in precedenza esposti dal ricorrente se non sono idonei ad integrare il dolo della calunnia (…) rileva la circostanza che la querela non sia stata presentata anche nei confronti del procuratore della Repubblica se è vero, come è vero, che il resistente si sia sentito diffamato dal contenuto della missiva di cui lo stesso risulta essere il principale autore (…) pertanto va affermata una responsabilità colposa del resistente ritenuta presuntivamente fonte di danni non patrimoniali per il ricorrente”. Da ciò la condanna di Fedocci a risarcire Dominijanni con 12mila euro oltre ad interessi legali. In altre parole, il giudice ha utilizzato un elemento che la Procura generale di Roma aveva considerato “una anomalia”, la mancata imputazione del procuratore della Repubblica, come una negligenza di Fedocci che aveva denunciato un fatto “vero” chiedendo all’Autorità giudiziaria di valutare se nella lettera sottoscritta da Dominijanni vi fossero gli estremi della diffamazione. Fedocci a settembre 2015 si è appellato alla Corte di appello di Reggio Calabria. Dopo cinque udienze sempre rinviate il 6 aprile 2021 è prevista la sentenza. Salvo colpi di scena dell’ultima ora.

·        Rocco Femia.

Definitiva l’assoluzione dell’ex sindaco Femia. L'ex primo cittadino di Marina di Gioiosa passò cinque anni e 10 giorni in carcere da uomo innocente. Ora l'assoluzione diventa definitiva: la procura generale non ha impugnato la sentenza d'appello. Simona Musco su Il Dubbio il 9 novembre 2021. La sentenza di assoluzione dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa, Rocco Femia, diventa definitiva. A certificarlo è il provvedimento depositato oggi in Corte d’Appello di Reggio Calabria, che ha dunque sancito la fine della disavventura giudiziaria dell’ex primo cittadino, arrestato a maggio 2011 e rimasto in carcere per cinque anni e 10 giorni. L’assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria lo scorso 10 marzo, infatti, non è stata impugnata dalla procura generale, confermando, dunque, che quello ai suoi danni è stato un vero e proprio errore giudiziario. Arrestato nel 2011 con l’operazione “Circolo Formato”, che svelò gli interessi della cosca Mazzaferro sulle elezioni amministrative del 2008, Femia fu condannato sia in primo grado sia in appello a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, indicato dai giudici come «partecipe consapevole» di tutte le dinamiche della cosca che ne avrebbe supportato l’elezione. Una certezza prima ritenuta inossidabile e che ha iniziato a vacillare in Cassazione, nel 2018, quando i giudici, escludendo categoricamente che l’ex sindaco potesse ritenersi un affiliato al clan, rispedirono gli atti alla Corte d’Appello, invitando i colleghi a capire se fosse quantomeno un concorrente esterno alla cosca e se, dunque, ci fosse stato un patto tra le due parti. Ma nella sentenza d’appello anche quell’accusa si è sbriciolata: i giudici, infatti, hanno contestato la presenza di «un quadro probatorio del tutto privo di significatività ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato per una contestazione di estrema gravità, quale quella di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso». Nel secondo processo d’appello, il procuratore generale ha dapprima chiesto una condanna a 8 anni, salvo poi, il giorno della sentenza, prendere nuovamente la parola per riformulare la richiesta, che è dunque passata al minimo della pena con il massimo delle attenuanti generiche. Secondo i giudici d’appello, dunque, il processo non avrebbe fatto emergere alcuna prova concreta a carico dell’ex sindaco. Anzi, sarebbero state diverse le evidenze di come l’amministrazione Femia, stroncata dopo tre anni con l’operazione che fece finire in carcere anche tre assessori (poi tutti assolti), si fosse impegnata nel senso opposto a quello evidenziato dall’accusa. I giudici hanno infatti valorizzato «una serie di attività dell’amministrazione guidata dal sindaco Femia Rocco (documentate dalla difesa e non contrastate da alcuna emergenza processuale di segno contrario) finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale». Come ad esempio la scelta, subito dopo l’insediamento della nuova giunta, di delegare alla Stazione unica appaltante provinciale tutti gli appalti pubblici, anche quelli al di sotto dei 150mila euro. Così come, tra le altre cose, erano stati sequestrati e affidati in custodia gli animali rinvenuti sui terreni di proprietà dei clan. Insomma: nessun occhio di riguardo. «L’assenza di apprezzabili possibilità di diverse acquisizioni istruttorie» idonee a concludere un accordo con i clan, dunque, hanno portato all’assoluzione di Femia «per non aver commesso il fatto». Nonostante ciò, si è ritrovato per cinque anni rinchiuso in carcere, prima a Reggio Calabria, in «un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo», poi a Palermo, dove i detenuti subivano continui controlli notturni della polizia penitenziaria, che duravano circa un’ora, «senza nessun riguardo per il nostro corredo: salivano sui letti con gli stivali, buttavano tutto giù e ci toccava rimettere tutto a posto», per chiudere la sua esperienza nel «lager» di Vibo Valentia. «La battitura era continua – ci ha raccontato in relazione al periodo in Sicilia – ed è un rumore che mi è rimasto in testa». La sua vita, racconta oggi Femia, «è stata distrutta». Azzerato il suo decennale impegno in politica, l’ex sindaco ha dovuto vendere buona parte delle sue proprietà per far fronte alle spese processuali, trovandosi costretto a usare anche il risarcimento incassato da uno dei figli, rimasto in coma per giorni a seguito di un incidente stradale. Figli che, nel frattempo, si sono visti sbarrare la strada: nessuna possibilità di concorrere per posti pubblici, così come di portare avanti la carriera calcistica intrapresa da uno dei tre, stroncata sul nascere a seguito dell’arresto del padre. Ora, dunque, il momento del riscatto. «Finalmente è arrivata l’ufficialità della mia “definitiva” assoluzione – ha commentato Femia con un post su Facebook -. Ringrazio la procura di Reggio Calabria che non si è appellata alla sentenza della Corte d’Appello rendendo così definitiva la mia assoluzione. Ringrazio tutti i legali che mi hanno seguito in tutti questi anni (Scarfò, Macrì, Furfaro, Minniti, Martino e Coppi) , ringrazio la mia comunità di Marina di Gioiosa Jonica che mi è “sempre” stata vicina, ringrazio infinitamente la mia meravigliosa famiglia che in questi lunghi anni non mi ha mai, dico mai, lasciato solo. Un ringraziamento particolarissimo carico di affetto e di amore lo dedico a mia moglie e ai miei meravigliosi figli, sempre presenti. Un calvario giudiziario che si è concluso dopo circa 10 lunghi anni. Dedico questa sentenza definitiva a una donna meravigliosa che mi ha sempre trasmesso i valori della famiglia, dell’onestà, del rispetto delle regole, dell’amicizia, della legalità eccetera: mia madre, venuta a mancare mentre ero “sequestrato” in carcere. Infine rivolgo un caloroso ringraziamento a tutte le persone che conoscendo Rocco Femia non hanno mai “pensato” che potessi essere uno ndranghetista».

Storia di Rocco Femia, sindaco di Marina di Gioiosa assolto dopo 10 anni nel tritacarne. Ilario Ammendolia su il Riformista il 12 Marzo 2021. Circa dieci anni fa il sindaco di Marina di Gioiosa (Rc), Rocco Femia, veniva arrestato assieme ad altre persone nell’ambito dell’inchiesta denominata “Circolo formato”. Qualche tempo dopo il consiglio comunale veniva sciolto. E tanto per abbondare, successivamente, sciolto di nuovo. Quasi tutti gli indagati, tra cui molti amministratori, sono finiti in carcere con l’accusa di associazione mafiosa. Passano i giorni, quindi i mesi e gli anni. Al processo di primo grado l’impianto accusatorio regge, e ciò ha stimolato l’aggressività e l’ istinto inumano e forcaiolo che ha finito per mettere sotto accusa il nostro garantismo contrabbandato come contiguità alle associazioni criminali. Sono stato sempre consapevole di quanto il garantismo sia una posizione difficile da sostenere soprattutto in terra di mafia. Oggi ci limitiamo a sintetizzare e pubblicare quanto abbiamo scritto molti anni fa su Riviera e Il Garantista: «Confermo e ribadisco: Rocco Femia… e tanti altri insieme a lui, è in carcere da circa mille giorni. Sconta una pena senza condanna. Non mi pare si tratti di un killer o di una persona che possa sparare all’impazzata. Non mi sembra sia accusato di omicidio, di strage o di stupro e neanche di episodi di violenza. È un mafioso? Non ho alcun elemento per escluderlo, lo si dimostri in processo giusto ed equilibrato. Molti invece accusano noi e considerano normale quanto avviene. In nome della legge tutto è consentito. Bene, proprio in casi come questo bisogna avere il coraggio di dire: sia pur tutti, io no. Non considero normale che una persona, chiunque sia ed ovunque abiti, venga tenuta in carcere senza una sentenza definitiva. Non è in discussione solo la libertà di singole persone, bensì i principi fondamentali della nostra Costituzione. Non ho alcuna simpatia né debolezza per la ‘ndrangheta né per gli ‘ndranghetisti. Non li ho mai avuti tra i miei amici. Proprio per questo penso che la lotta alla ‘ndrangheta comporti il rispetto assoluto per la persona umana. Considero un delitto sfruttare la giusta ansia di sicurezza e le paure dei cittadini per costruire monumenti di odio e di ingiustizia…». Sono passati dieci (10!) anni. Dopo che l’inchiesta “Circolo formato” era già caduta in mille pezzi in appello, la Cassazione ha definitivamente assolto Rocco Femia. Il mio discorso potrebbe chiudersi qui e non l’avrei modificato d’una virgola neanche se Rocco Femia fosse stato condannato. È stato assolto e ho piacere per lui, la sua famiglia e il suo paese, per quanti credono nella giustizia giusta. Mi auguro che qualcuno troverà un momento di tempo per riflettere su quanto è avvenuto. Non giudico quanti sono rimasti in silenzio e neanche quanti hanno gridato al “crucifiggi”. Ma consentitemi di rivendicare quella frase scritta dieci anni fa: “Sia pur tutti, io no”. E non c’è nulla di eroico in chi è convinto di doversi impegnare con tutte le sue forze per difendere la Costituzione e l’integrità della persona umana. Chiunque sia!

«Oggi rinasco dopo 5 anni in carcere da innocente. Ma mi hanno distrutto la vita». Rocco Femia, ex sindaco di Gioiosa Marina, è stato arrestato nel 2011 con l'accusa di essere uno 'ndranghetista. Dopo 10 anni di processo e più di 1800 giorni in cella è stato assolto «perché il fatto non sussiste».  Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 12 marzo 2021. «Rinato. Dopo la sentenza di ieri mi sento di essere rinato». Ha un sorriso piegato dall’amarezza Rocco Femia, l’ex sindaco di Gioiosa Marina arrestato la notte del 3 maggio del 2011 con la pesantissima accusa di essere parte integrante della cosca dei Mazzaferro, e scagionato mercoledì dalla seconda sezione della corte d’Appello di Reggio Calabria che lo ha mandato assolto al termine del processo bis, «perché il fatto non sussiste». Una sentenza arrivata dopo cinque anni di carcere preventivo e due condanne – in primo e secondo grado – a dieci anni di reclusione. Poi, nel 2017, la sentenza dei giudici di Cassazione che ha smontano punto per punto l’ipotesi investigativa della distrettuale antimafia dello Stretto e ieri, dopo il nuovo processo in Appello, la tanto attesa sentenza di assoluzione. Un calvario giudiziario durato 10 anni, cinque dei quali trascorsi tra il carcere di Reggio e quello di Palermo. «I giornali, o almeno quelli che ne hanno parlato, visto che in tanti dopo avermi massacrato in occasione dell’arresto neanche hanno riportato la notizia della mia assoluzione, raccontando la mia storia parlavano di 5 anni di carcere. E invece no: sono 5 anni e 9 giorni; i nove giorni sono quelli che sono pesati di più».

Dal comune al carcere. Consigliere dal 1988, poi assessore e candidato alla Provincia, quella di Rocco Femia per la politica è una fissa antica. L’ex sindaco si fa tutta la gavetta amministrativa prima di vincere le elezioni comunali nel 2008 alla guida di una lista civica che verrà poi smontata dall’operazione “circolo formato” che nel 2011, oltre al sindaco, arresta anche tre assessori della sua giunta, anche loro assolti a distanza di anni dai giudici del Palazzaccio perché il fatto non sussiste. «Quando sono stato scarcerato, Gioiosa Marina era completamente diversa da come l’avevo lasciata – racconta Femia seduto a un tavolino del bar gestito dalla moglie dove, all’indomani della sentenza di assoluzione, fanno capolino amici e semplici cittadini per un saluto o per una stretta di mano – Il paese allora era riuscito a ritagliarsi un posto importante nel panorama turistico regionale. Tutte le sere sul nostro lungomare c’erano almeno 10 mila persone a passeggiare o a gustarsi uno degli innumerevoli spettacoli gratuiti che avevamo organizzato. Stavamo lavorando bene, lo dicono i cittadini che a distanza di tanti anni si ricordano con fierezza dell’amministrazione di Rocco Femia. Guardi ora in che condizioni si trova il paese». Poi gli arresti, lo scioglimento dell’amministrazione per infiltrazioni mafiose e il lungo commissariamento prefettizio che cambiano completamente la situazione. «Davamo gli appalti alla Suap ( la stazione unica appaltante, ndr) prima ancora che diventasse obbligatorio farlo. Abbiamo abbattuto strutture abusive, alcune delle quali appartenenti proprio ai Mazzaferro e poi mi dite che faccio parte del clan? Ma che state dicendo? Tra tutte le pratiche che gli inquirenti hanno passato al setaccio, non hanno trovato niente di irregolare, niente di associabile agli interessi della ‘ndrangheta. Mi sono sentito spesso un capro espiatorio. Ho sempre amministrato con la massima trasparenza, si vede che a qualcuno non andava bene. E ora la mia comunità chi la risarcisce? Chi risarcirà i danni per questa splendida comunità che ha subito per anni l’onta della mafia?».

Una vita distrutta. Ex calciatore, professore di educazione fisica in un liceo della zona e molto attivo nell’associazionismo, l’arresto del 2011 stravolge completamente la vita di Femia. «La mia è una famiglia di sportivi, ma quale ‘ndrangheta? La ‘ndrangheta non è mai entrata nella mia famiglia e non ci entrerà mai. Io ho quattro figli – racconta indicando uno di loro che lavora dietro il bancone del bar – uno di loro giocava a calcio a Livorno. Dopo il mio arresto la sua carriera è finita ad appena 17 anni. Un altro dei miei figli invece voleva fare carriera nelle forze armate. Intendeva entrare in Marina ma non gli hanno consentito di partecipare al concorso perché suo padre era in carcere con l’accusa di essere un mafioso. Ora hanno superato l’età per i loro sogni. Ma i giudici non ci pensano, ti sbattono in galera perché devono occupare le prime pagine, devono dimostrare che hanno fatto 100, 200, 300, 400 arresti. E poi diamo anche le medaglie a queste persone». La famiglia dell’ex amministratore, nonostante la situazione, si compatta nel momento più buio, stringendosi ancora di più attorno a Femia. «L’unica nota positiva di questa storia è la mia famiglia; mi ha dato la serenità necessaria a superare tutto questo. Non mi ha mai fatto mancare il suo sostegno, la sua presenza. Mia moglie non ha mai mancato un colloquio, è stata sempre presente. E anche i ragazzi, non hanno saltato un udienza. Molti in carcere non hanno avuto la mia stessa fortuna e sono caduti in depressione».

Mai stato in silenzio. Filo comune di tutto il calvario giudiziario resta la voglia e la necessità di chiarire la situazione e in più di un’occasione, sia durante le indagini preliminari sia poi all’interno del dibattimento, ha chiesto di essere ascoltato dai magistrati. «Io non sono mai stato in silenzio. Mai. Ho chiesto innumerevoli volte di essere interrogato da Gratteri (all’epoca dei fatti Procuratore aggiunto dell’ufficio retto da Giuseppe Pignatone, poi divenuto capo della Procura di Roma, ndr) che non mi ha mai ascoltato, e mi ha mandato una sua collaboratrice. Avrei voluto chiedergli i motivi per cui ero finito in carcere, ma non è stato possibile, non ha voluto ascoltarmi, diceva di essere sempre impegnato. Anche durante il processo (assistito dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Martino, ndr), ho fatto quasi due ore e mezzo di dichiarazioni spontanee rispondendo alle tante domande che mi faceva il presidente della Corte. Non mi sono mai tirato indietro, io non sono un mafioso. Ma non è servito a niente, visto che prima della pronuncia della Cassazione ero stato condannato sia in primo che in secondo grado». Sentenze che hanno dell’incredibile alla luce delle ultime decisioni del Tribunale. Un ribaltamento che però non è bastato a ricucire lo strappo profondo che si è creato tra lui e il sistema giustizia: «Ho grande rabbia, sono rimasto traumatizzato da tutto quello che è successo. Uno che passa tutto quello che ho passato io, come può avere ancora fiducia nella giustizia?»

·        Sergio De Gregorio.

Da stylo24.it il 22 febbraio 2021. E’ stato assolto con formula piena, «perché il fatto non sussiste» (hanno sentenziato i giudici), l’ex senatore della Repubblica, Sergio De Gregorio. La sentenza è stata emessa nelle scorse ore dai magistrati della VI Sezione del Tribunale di Napoli. L’episodio è relativo al 2004, e ha spesso innescato attacchi mediatici, ma poi si è risolto in un nulla di fatto. Le accuse scaturirono dal rinvenimento di alcuni assegni, nel corso di un accesso della guardia di finanza, nell’abitazione di R.C., e per i quali la Dda di Napoli, ipotizzò la sostituzione dei titoli con soldi di illecita provenienza. Sergio De Gregorio, ha sempre dichiarato, invece, che quegli assegni erano relativi ad una compravendita immobiliare che non fu mai perfezionata. «Non è la prima che al mio assistito, ex senatore della Repubblica, sia capitato in passato di pagare prezzi politici e personali per accuse che poi, come in questo caso, si sono rivelate assolutamente prive di ogni fondamento», ha tenuto a sottolineare l’avvocato Carlo Fabozzo, legale difensore di De Gregorio.

Assolto con formula piena. L’ex senatore De Gregorio assolto dopo 17 anni: le accuse di riciclaggio “non sussistono” . Redazione su Il Riformista il 22 Febbraio 2021. Assolto con formula piena dopo 17 anni perché il fatto non sussiste. Questa la sentenza emessa dai giudici del tribunale di Napoli sull’ex senatore Sergio De Gregorio per un episodio risalente al 2004. De Gregorio fu accusato dalla Dda di sostituzione dei titoli con soldi di illecita provenienza, a seguito di ritrovamento di alcuni assegni, nel corso di una perquisizione della guardia di finanza, nell’abitazione di Rocco Cafiero, detto "o’ Capriariello", considerato vicino al clan Nuvoletta. L’ex senatore nel corso del processo si è difeso specificando come quegli assegni fossero relativi a una compravendita immobiliare, che però non fu mai portata a termine. Come spiega il legale dell’ex senatore Sergio De Gregorio, Carlo Fabbozzo, il collegio (della sesta sezione del Tribunale di Napoli), presieduto dal dottor Pellecchia (relatore dottoressa Daniele, giudice a latere dottor Bottillo, pm dottor Cozza), ha pronunciato la sentenza di assoluzione, relativa a fatti intercorsi nel 2004, “a corredo di inquietanti ipotesi di collegamento con la criminalità organizzata”. “Al mio assistito, ex senatore della Repubblica – aggiunge Fabbozzo -, è già accaduto in passato di aver pagato prezzi politici e personali per accuse poi risultate infondate, come nel caso del suo proscioglimento in istruttoria a Reggio Calabria dai reati di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio, contestati addirittura per l’abbraccio a un soggetto omonimo di un boss nel corso di una manifestazione elettorale”.

·        Simone Uggetti.

Le motivazioni della sentenza del caso Uggetti. Turbativa formale, i giudici scoprono il ruolo politico dei sindaci. Giulio Cavalli su Il Riformista il 21 Novembre 2021. Sono parole che in un Paese normale aprirebbero un sano dibattito sul potere di discrezionalità quelle con cui la Corte d’Appello di Milano motiva l’assoluzione per l’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, finito nel tritacarne politico per una condanna in primo grado per turbativa nel bando di gestione delle piscine comunali che gli è costata dieci giorni di carcere poi una condanna a 10 mesi. Le giudici Rosa Polizzi, Angela Fasano e Roberta Nunnari hanno analizzato i profili penali «scevri da ogni lettura indotta da impostazioni soggettive, non immuni da una polemica politica o locale» (e sarebbe un’ottima postura anche per la politica e il giornalismo) rivenendo «la coerenza degli obbiettivi perseguiti da Uggetti». Scrive la Corte che «non risulta essersi verificato alcun sviamento di potere, nemmeno nell’esplicazione di quel margine discrezionale di intervento riconosciuto dalla legge per l’esercizio di potere e di indirizzo; nemmeno, secondo la Corte, può fondatamente affermarsi che l’obbiettivo di un’incidenza indebita e collusiva sul bando di gara, atta ad integrare il reato come contestato, abbia animato le intenzioni degli imputati». Ma le motivazioni della sentenza di assoluzione spingono a una nuova e più ampia lettura del reato di turbativa, al di là del singolo caso. Scrive la Corte: «Ci si deve, infatti, confrontare con la necessità di non punire indiscriminatamente le mere irregolarità formali attinenti all’iter procedimentale, irregolarità che, invece, devono essere idonee a ledere i beni giuridici protetti dalla norma, non essendoci un interesse fine a se stesso a garantire la regolarità e la trasparenza della gara, essendo la tutela della mera regolarità formale dell’asta e della pubblica amministrazione non il bene tutelato dall’articolo 353 c.p., ma un presidio per la libera concorrenza, strumentale al perseguimento dell’interesse della Pubblica Amministrazione». «Dunque – scrivono le giudici – la turbativa non ricorre in presenza di qualsiasi disordine relativo alla tranquillità della gara, essendo necessaria una lesione, anche potenziale, agli scopi economici della Pa e all’interesse dei privati di poter partecipare alla gara, dovendosi comunque guardare alla realizzazione delle condizioni per la migliore soddisfazione delle esigenze utilitaristiche della Pa»· Insomma, il sindaco non è un mero esecutore di norme e meccanismi burocratici ma evidentemente gli tocca fare anche il politico. E anche sulla contestata questione dei contatti dell’ex sindaco con realtà associative del territorio (che tanto ha fatto gridare allo scandalo certi superficiali manettari) nella sentenza si legge che l’esercizio della responsabilità politica «può comportare e tollerare, purché non ne sia fuorviato, certo la consulenza ma anche l’ascolto dei soggetti della società civile interessati»· Il ministro Di Maio in luglio aveva rivolto le sue scuse per «l’imbarbarimento del dibattito associato ai temi giudiziari». Ora, uscite le motivazioni, si aspettano tutti gli altri che, vedrete, non arriveranno.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Il Fatto processa i giudici che hanno assolto Uggetti. La sentenza che ha assolto l'ex sindaco di Lodi ha ristabilito il primato della politica: ed è questo che non va giù a Travaglio...Davide Varì su Il Dubbio il 23 novembre 2021. Potremmo chiamarlo “Quarto grado” di giudizio, come la trasmissione tivvù. Oppure “il controprocesso”, perché in fin dei conti è proprio questo che si sta celebrando sulle pagine del Fatto quotidiano: un controprocesso all’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti e un nuovo e inedito processo ai giudici che hanno osato assolverlo. Del resto c’è da capirli: l’assoluzione del sindaco di Lodi è un boccone troppo amaro da mandare giù anche a causa del gran gesto di Luigi Di Maio, il quale chiese pubblicamente scusa per la gogna mediatica cui sottoposero il povero Uggetti nei giorni in cui finì in galera. Ma la cosa che più brucia ai grillini rimasti affezionati ai vecchi slogan, sono le motivazioni con cui i giudici, pochi giorni fa, hanno spiegato quell’assoluzione. In  poche ma incisive righe i magistrati hanno infatti riaffermato l’autonomia della politica e il suo primato anche nei confronti alla giustizia: che non vuol dire impunità ma diritto a prendersi responsabilità politiche. Ed è questo che più brucia dalle parti del giornale di Travaglio: il fatto che un giudice riconosca l’autorità della politica, il suo diritto a “condizionare”, nel senso più alto del termine, le direzioni dei singoli bandi. E non per favorire gli amici degli amici ma nel supremo interesse pubblico. Vale la pena rileggere qualche passaggio di quelle motivazioni perché sono una pietra angolare del Diritto e un esempio di quello che dovrebbe essere il rapporto tra politica e giustizia. Partendo da una sentenza della Consulta e da una legge regionale, i giudici spiegano che «la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa “costituisce un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’articolo 97 della Costituzione”». Viene inoltre ristabilito il principio secondo cui il sindaco ha «un margine di intervento entro il quale l’esercizio di una responsabilità politica è espressione non collusiva, ma legittima del perseguimento di un bilanciamento – proprio dell’attività politica – fra pluralità di interessi pubblici». Insomma, mentre il Fatto processa i giudici, noi consideriamo questa sentenza uno dei momenti più alti del complicato rapporto tra giustizia e politica: questione di punti di vista…

Da “la Repubblica” il 27 maggio 2021. Caro Merlo, l'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, l'avvocato Marini, l'imprenditore Pasquini e il dirigente comunale Demuro sono stati assolti, con formula piena, dalla corte d'appello di Milano dall' accusa di turbativa d' asta. È il "famoso" "scandalo piscine" che, il 3 maggio 2016, esplose con l'arresto del sindaco Uggetti. Nessuno potrà risarcire Uggetti, a partire dalla possibilità di concludere il suo mandato e, magari, ricandidarsi, ma pagherà chi ha compiuto tale enorme errore? E, in più, il presunto comico Dado non sente il dovere di scusarsi pubblicamente per quella canzone (reperibile su YouTube) "Sindaco di Lodi arrestato, il Pd di don Raffaè", in cui pronuncia frasi da brivido contro Simone Uggetti? Daniele Passamonti, Lodi

Risposta di Francesco Merlo. Io stesso scrissi nel 2016 che "quell' arresto avrebbe spaventato Robespierre e confortato Stalin". Le dico però che tratterei Dado da povero comico: assecondava la vulgata popolare e, sulla scia malsana di Beppe Grillo, spacciava per lezioni di morale le sue tristi battute. E veniamo al processo: cinque anni sono un'eternità umanamente e giuridicamente, ma la Giustizia ha funzionato e Uggetti è stato assolto. La terribile verità è che la fisiologia del processo è stata sconquassata dall' arresto che, ingiustamente disposto dal gip con dismisura di linguaggio, costrinse il sindaco a dimissioni infamanti (Virginia Raggi, per esempio, è stata imputata, processata e assolta e non si è mai dimessa). Quel gip sostenne che gli imputati, avendo personalità "negativa e abietta", chissà quanti altri delitti avevano commesso facendola franca. "Come si vede - scusi se mi cito ancora - è un pregiudizio che somiglia al proverbio: picchia tua moglie, tu non sai il motivo, lei sì. La variante qui è: arresta il politico prima o poi ti dirà lui perché. Ma com' è possibile che un imputato di turbativa d' asta sia marchiato come abietto?". Il gip dovrebbe rispondere di quelle motivazioni, ma in Italia la legge sulla responsabilità civile non contempla il vilipendio dell'imputato.

Simone Uggetti, l'ex sindaco di Lodi assolto in appello: "Fatta giustizia, ho agito nell'interesse pubblico. Ma questi cinque anni sono stati devastanti". Mauro Rancati su La Repubblica il 25 maggio 2021. Era accusato di turbativa d'asta, nel 2016 finì anche in carcere: "La custodia cautelare ha tolto serenità anche alla mia famiglia, ma poi i cittadini mi fermavano per strada per dirmi che erano dalla mia parte. Il ritorno in politica? Oggi mi godo la tregua". Assolto dalla corte d'Appello di Milano perché "il fatto non sussiste". Cinque anni dopo l'arresto, il 3 maggio 2016, per cui passò dieci giorni a San Vittore e 25 ai domiciliari, ieri l'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti (Pd), ha vinto il processo a suo carico. Era accusato con altre tre persone di turbativa d'asta per una gara d'appalto per la gestione delle piscine comunali.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 27 maggio 2021. La solita storia, sempre uguale, per la milionesima volta: Simone Uggetti, sindaco di Lodi eletto nel Pd, nel 2016 viene arrestato per turbativa d' asta e nel 2021 viene assolto perché «il fatto non sussiste». Davanti alla solita storia si potrebbero dire le solite cose, e andrebbe benissimo. Si potrebbe dire che cinque anni per accertare l'innocenza di una persona sono un tempo spropositato e tirannico, si potrebbe dire che la presunzione d' innocenza per gli altri dovrebbe esserci indispensabile come l'aria perché coincide con la presunzione d' innocenza per noi, si potrebbe dire del migliaio di italiani innocenti che ogni anno finiscono in manette, e sarebbe giusto, sacrosanto, il minimo per un uomo come tutti gli altri. Ma qui c' è un problema ulteriore, e il problema è che Simone Uggetti non era un uomo come tutti gli altri: nonostante le sciocchezze populiste di cui si cerca di riempirci la testa, era qualcosa di più, era un sindaco, era l'uomo scelto dai suoi concittadini per amministrare il Comune. La giustizia è un affare serio, e non ha da fermarsi davanti a nulla, ma in casi come questi, ormai quotidiani, le toccherebbe muoversi con particolare attenzione perché non soltanto si priva della libertà un uomo, ma si privano i cittadini del diritto di essere rappresentati da chi hanno votato. Infatti Uggetti fu costretto a dimettersi e si indissero nuove elezioni (vinte dal candidato della Lega), cioè la volontà democratica fu inquinata e sovvertita. Fino a quando saremo disposti a sopportare che il sospetto di un qualsiasi pm valga, sempre e comunque, più del fondamento della democrazia?

Michele Serra per “la Repubblica” il 27 maggio 2021. L'assoluzione in Appello, per "non avere commesso il fatto", dell'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, cinque anni fa arrestato come un ladro e tradotto a San Vittore per quella che, al massimo, poteva essere la forzatura di un iter burocratico (senza che un solo euro gli finisse in tasca), meriterebbe un dibattito ampio, e sereno, sull' orribile attitudine dei media di dare massimo rilievo alle colpe presunte, e minimo alle colpe cancellate. Questo dibattito non ci sarà, perché è troppo faticoso mettere in discussione uno dei grandi motori psicologici, e commerciali, dell'informazione: il colpevole ai ceppi piace alla folla più dell'innocente che torna alla sua casa, alle sue abitudini e alla sua vita, o a quello che ne resta dopo la tempesta. Sia lode, comunque, a Radio Uno, che ieri sera a Zapping ha dedicato molti minuti alla chiusura di quello che molti giornali definirono, con grottesca enfasi, "scandalo delle piscine" (perché non "piscinopoli"?) pur essendo, la piscina, una sola normalissima piscina comunale, e pur essendo, lo "scandalo", sostanzialmente una disputa sulla legittimità di una firma: che cosa c' entrasse San Vittore è cosa che Uggetti, e la sua famiglia, si chiedono ancora oggi. Ci inzupparono la penna in tanti, tra i quali piace menzionare il blog di Beppe Grillo, allora intemerato azzannatore dei "politici" a prescindere: oggi magari l'esperienza suggerisce qualche tentennamento in più. Chi scrive ha sempre diffidato del derby tra "manettari" e "garantisti", in forza dell'ovvia circostanza che esistono i colpevoli ed esistono gli innocenti, l'importante è cercare di non confonderli per non confondersi. Ma non c' è dubbio che la storia di Uggetti, in quel derby, sia un clamoroso autogol dei manettari.

(ANSA il 28 maggio 2021) "Le scrivo la seguente lettera perché è giusto che in questa sede io esprima le mie scuse all'ex sindaco di Lodi e rivolga a lui e alla sua famiglia i migliori auguri per l'esito di un caso giudiziario nel quale il dottor Uggetti, con forza, tenacia e dolore è riuscito dopo anni a dimostrare la sua innocenza". Così il ministro degli Esteri ed esponente del Movimento 5 stelle, Luigi Di Maio, in una lettera a "Il Foglio", ha parlato della vicenda giudiziaria dell'ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, che è stato prima condannato e poi assolto in appello dall'accusa di turbativa d'asta. "Non ho mai conosciuto Uggetti e non abbiamo contenziosi pendenti. Penso soltanto che glielo dovevo, da persona e da essere umano, prima ancora che da uomo delle istituzioni", ha aggiunto. Nei giorni della notizia del suo arresto "nella stessa piazza e nello stesso week-end, prima il Movimento 5 stelle con la mia presenza e il giorno dopo la Lega di Matteo Salvini, con Calderoli, organizzarono dei sit-in contro il dottor Uggetti fino a spingerlo, un mese dopo l'arresto, alle dimissioni - ha ricordato Di Maio - l'arresto era senz' altro un fatto grave in sé, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell'assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli. Il periodo dell'arresto di Uggetti coincise con le campagne elettorali che nel 2016 coinvolsero le città di Roma, Torino, Napoli, Milano e Bologna: una tornata, lo ricorderà, senza esclusione di colpi. Anche io contribuii ad alzare i toni e a esacerbare il clima. Sul caso Uggetti fu lanciata una campagna social molto dura a cui si aggiunse il presidio in piazza, con tanto di accuse alla giunta di nascondere altre irregolarità". "Non vorrei essere frainteso, io sono fortemente convinto che chi si candida a rappresentare le istituzioni abbia il dovere di mostrarsi sempre trasparente nei confronti dei cittadini, e che la cosiddetta questione morale non possa essere sacrificata sull'altare di un 'cieco' garantismo - ha concluso - il punto qui è un altro e ben più ampio, ovvero l'utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale".

Intervista all’ex sindaco di Lodi massacrato per 5 anni e poi assolto. Uggetti: “Le menzogne contro di me di Travaglio e Barbacetto”. Giulio Cavalli su Il Riformista il 29 Maggio 2021. “Di Maio chiede scusa ma l’ex sindaco assolto ha confessato”. Titola così oggi Il Fatto Quotidiano con un pezzo a piena pagina sull’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti. Che Uggetti avesse confessato l’aveva scritto già il direttore del Fatto Marco Travaglio addirittura in prima pagina solo che in quell’occasione. Uggetti non poté rispondere poiché si trovava in carcere. Oggi da uomo libero e assolto con formula piena gli abbiamo chiesto cosa ne pensi.

Uggetti, Il Fatto Quotidiano (e molti commentatori in scia) scrive ancora oggi che la sua assoluzione è incomprensibile poiché avrebbe confessato. Che ne dice?

Non solo non ho mai confessato ma sfido Barbacetto e il suo direttore Travaglio a trovare negli atti processuali (che gli metto volentieri a disposizione) una sola riga che attesti una mia confessione.

Però Barbacetto insiste sulle sue pressioni nei confronti di una funzionaria comunale che ha addirittura registrato la conversazione.

Fui registrato a mia insaputa dalla funzionaria comunale e quella registrazione fu sventolata come prova regina per giustificare la mia carcerazione. A Travaglio e Barbacetto forse manca un pezzo della storia: durante il processo ho chiesto per ben due volte che quella conversazione fosse ascoltata in aula e per ben due volte l’accusa si oppose. La terza volta fu il giudice a disporre l’ascolto. Finita l’udienza ricordiamo tutti il volto incredulo del giudice. Se vogliono, spedirò a Travaglio e Barbacetto anche quell’audio.

Nella pagina del quotidiano oggi in edicola si ripete anche che lei sarebbe stato arrestato perché avrebbe avuto intenzione di distruggere le prove. Neanche questo è vero?

È documentale la testimonianza del responsabile e informatico del comune che consegno alla finanza un hard disk completamente integro.

Ma quindi quell’articolo è pieno di falsità?

Sono tantissime. Un esempio: nel pezzo si dice che le piscine scoperte della città fossero un affare, abbiamo la testimonianza del revisore dei conti e la perizia di una primaria società internazionale che dimostrano esattamente il contrario. Gli metto a disposizione anche questo.

Ma non c’è un problema giornalistico, oltre che politico, nell’uso strumentale della gogna come ha detto ieri Di Maio?

Assolutamente si. Soprattutto quando non si cerca la verità ma solo la conferma alle proprie tesi. Io della verità non ho paura e sono pronto ancora adesso a rispondere su ogni punto di quel processo.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

La vicenda. L’ex sindaco di Lodi Uggetti massacrato per 5 anni e poi assolto: non ha vinto la giustizia. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Se c’è una cosa che dobbiamo evitare con cura, di fronte alla ennesima vicenda di malagiustizia quale quella occorsa all’ex Sindaco di Lodi Simone Uggetti, è la retorica della Giustizia che infine trionfa. Una retorica inutile e beffarda, che finisce per coinvolgere perfino le vittime di queste ordalie (“ho sempre avuto fiducia nella Giustizia”, sentiamo spesso dire all’imputato con voce rotta dalla emozione). Dobbiamo capire bene che queste vicende non vanno analizzate e giudicate dalla loro conclusione. Una assoluzione pronunziata dopo anni dal fatto può avere significati e spiegazioni le più diverse. Per l’imputato, certo, significa solo -e ci mancherebbe altro- riconoscimento della propria innocenza; ma questo non vale se dobbiamo giudicare, come dire, la innocenza o la colpevolezza della indagine. Si può essere assolti perché la indagine era ab origine infondata e pretestuosa, o invece perché sono emerse nel dibattimento, grazie al confronto dialettico proprio del processo ma anche solo al trascorrere del tempo, circostanze (documentali, testimoniali, tecniche) che hanno infine smentito l’Accusa. Possono esserci state ritrattazioni testimoniali, o anche solo riqualificazioni giuridiche della condotta. Insomma, è evidente come una assoluzione non basti certo a qualificare come “malagiustizia” quella vicenda processuale: essa impone una analisi retrograda, al momento in cui l’Accusa è sorta, ed a come è stata governata e coltivata. Nel caso del sindaco Uggetti, apprendiamo dalle cronache che costui fu arrestato (in carcere!) per una ipotesi di turbativa d’asta relativa all’appalto della gestione della piscina comunale di Lodi. Il valore dell’appalto era di 4000 euro l’anno, e la presunta scrittura illegittima del bando di gara sarebbe stata volta a favorire, per sovrappiù, la società partecipata dal Comune. Eccolo, il punto: eccolo il bandolo della matassa, se non vogliamo smarrire il senso della vicenda Uggetti nel mare magnum delle opinioni e delle valutazioni, tutte legittime. Il punto è che l’assoluzione di oggi non toglie e non mette una virgola rispetto a ciò che era legittimo chiedere già il giorno stesso dell’arresto. Non c’era e non c’è bisogno di attendere un’assoluzione per porre questa semplice domanda: si può arrestare e sbattere in galera un sindaco in carica, democraticamente eletto e dunque rappresentante legittimo della comunità dei suoi cittadini, un signore con una storia personale e politica integra, per la presunta manipolazione di un bando di gara del valore di 4mila euro annui, a tutto concedere finalizzata a favorire l’aggiudicazione allo stesso Comune? Certo che no, non si può, o meglio: non si potrebbe, non si dovrebbe. Colpevole o innocente, non cambia nulla. Le norme che autorizzano un giudice, su richiesta di un P.M., a privare della libertà personale un cittadino sono molto chiare. Non basta che vi siano, in quel momento, gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato. Non so se ve ne fossero – oggi dobbiamo ritenere di no- a carico del sindaco Uggetti al momento del suo arresto, e non mi interessa nemmeno saperlo. Perché dovete sapere che la legge ammonisce il Giudice che comunque ciò non è affatto sufficiente. Occorre infatti che sia altrettanto accuratamente valutata la sussistenza di “esigenze cautelari” (pericolo di fuga, di inquinamento delle prove, di reiterazione del reato) che giustifichino l’adozione della misura. Ed ancora, sempre la legge impone al giudice che, una volta valutata (non in astratto, ammonisce, ma “in concreto” e con rigoroso e motivato giudizio di “attualità”) la sussistenza di una o più di quelle tre esigenze cautelari, egli debba scegliere ed applicare quella che implichi il minor sacrificio possibile della libertà personale. PM e GIP hanno, da questo punto di vista, una ricca scatola degli attrezzi, che va dalla misura interdittiva dell’esercizio della propria attività (di Sindaco, nel caso di specie), all’obbligo di firma o di dimora, agli arresti domiciliari, fino al carcere, extrema ratio come si dice nei convegni giuridici. Uggetti, per una vicenda del genere, è stato sbattuto in carcere per dieci giorni, e poi ai domiciliari. Se vogliamo fare una cosa utile, andiamo a leggere come il PM motivò la richiesta del carcere, come il GIP ne ha motivato la concessione, come -immagino- il Tribunale del Riesame ne ha confermato la legittimità. Questo deve essere il tema della discussione, se la vicenda giudiziaria di questo signore deve servire a qualcosa. Altrimenti, si scende al livello di quel tale, che è stato perfino Ministro di questo sventurato Paese, ed è a quanto pare destinato ad interpretare il futuro della sinistra italiana (insieme alle Taverna, ai Di Maio, ai Grillo che sfilarono a Lodi invocando la forca). Si scende al livello di quel Toninelli che ha detto: prima di parlare di scuse, voglio leggere le motivazioni della sentenza di assoluzione. Ho appena cercato di spiegare che ciò che serve oggi è leggere l’ordinanza di custodia cautelare. Anche perché, onorevole Toninelli, detto tra noi: oltre che leggerle, le motivazioni, tocca anche capirle. E qui la cosa si complica.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Vittorio Feltri, quell'avviso dopo il caso Uggetti: "Attenti ai magistrati, usano il carcere come un'aspirina".  Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo di Francesco Battistini, uno dei pochi talenti rimasti sul mercato. Il testo era corredato da una fotografia che ritraeva l'ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, in lacrime e abbracciato al suo avvocato difensore, il quale lo ha fatto assolvere in Corte d'Appello a Milano, dopo cinque anni di incriminazioni fasulle rivelatesi infine infondate. Cinque anni di tribolazioni e sofferenze trascorsi in attesa di giudizio tra galera e arresti domiciliari. Le accuse erano le solite che investono gli amministratori locali, lavori pubblici scorretti e balle varie. I giudici ci hanno messo un lustro per capire che la giustizia aveva preso, tanto per cambiare, un granchio. Ora, grazie al cielo, è libero e smacchiato, ma nessuno risarcirà quest' uomo provato e maltrattato. Egli non avverte odio ma solo sollievo, felice che gli sia stata restituita intonsa la reputazione. Però la sua atroce esperienza induce a qualche riflessione. Le nostre leggi evidentemente sono suscettibili di distorte interpretazioni a danno di cittadini specchiati. Andrebbero riscritte in modo chiaro allo scopo di evitare equivoci che comportano scempi mostruosi a chi viene gratuitamente perseguito. Ormai i magistrati sono diventati talmente insensibili dal punto di vista umano che arrestano con facilità chi è colpito da sospetti. Si somministra il carcere come fosse una aspirina, cosicché gente innocente, prima di dimostrare di essere tale, è costretta a subire la tortura della cella per un determinato periodo. Ovviamente esistono reati di sangue che impongono la reclusione per evitare che l'autore dei medesimi possa replicarli. Tuttavia in molti altri casi sarebbe opportuno fare i processi prima di ricorrere alle manette onde castigare l'eventuale reo. Tra l'altro segnalo una incongruenza. Se un poliziotto per mantenere l'ordine pubblico usa metodi bruschi nei confronti di un individuo, rischia di essere condannato, mentre le toghe se ingabbiano un cittadino la cui colpevolezza non è ancora stata accertata, la passano liscia quand'anche l'imputato in questione venga poi assolto. L'ex pm Gherardo Colombo ha scritto un saggio al fine di spiegare che la gattabuia non è una panacea. Ha ragione da vendere. Prima di sbattere dietro le sbarre un tizio bisogna pensarci non due bensì tre volte, poiché si tratta di un essere umano e non di un manichino. Mi domando come Simone Uggetti e tanti altri come lui, dopo esperienze assurde in un istituto di pena, siano in grado di riprendere a vivere serenamente. Si ciarla da parecchio tempo di riforma dell'ordine giudiziario, però la politica non muove un dito. E le malvagità continuano. 

Sallusti: “I pm che hanno sbattuto in carcere Uggetti prenderanno 10 in pagella? Palamara ha aperto solo una crepa”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 28 Maggio 2021. “Quanto avranno in pagella i magistrati che hanno sbattuto in carcere preventivo il sindaco di Lodi? Perché il 96% dei pm hanno voti altissimi, una media quasi da 10, nella loro valutazione quadriennale”. Lo chiede Alessandro Sallusti, neo direttore di Libero, nel corso della presentazione al teatro Sannazaro a Napoli del libro “Il Sistema” realizzato insieme all’ex magistrato Luca Palamara. Libro che ha aperto solo una “crepa” sul mondo della magistratura italiana e sui rapporti tra le varie correnti, la politica, le lobby e i servizi segreti. “Ora si deve andare avanti perché siamo di fronte a una storia monca e il mio impegno sarà cercare altri pezzi perché questo primo libro ha dimostrato molto interesse nell’opinione pubblica”. Tornando all’ennesimo accanimento giudiziario contro Simone Uggetti, Sallusti non ama generalizzare ma teme che “il sistema” da lui descritto nel libro “si faccia scudo della maggior parte dei magistrati onesti. Ci sono tanti pm bravi così come tanti giudici, ad esempio quelli che hanno assolto a Milano con formula piena il sindaco del Pd di Lodi che si era fatto un mazzo tanto per essere eletto. Per provare a essere credibili, bisogna iniziare a cambiare queste valutazioni”. Parole che hanno generato il consenso dell’ampia platea presente al Sannazaro, nell’evento organizzato dall’ex onorevole Amedeo Laboccetta, presidente dell’associazione culturale Polo Sud. Il dibattito, moderato dal giornalista Simone Di Meo, è andato avanti per circa due ore e, oltre ai due autori del libro, ha visto la partecipazione dei giudici Carlo Nordio, Arcibaldo Miller e Luigi Bobbio (ex pm e politico) e degli avvocati Vincenzo Maiello, Domenico Ciruzzi e Nicolas Balzano. Presente in platea anche Catello Maresca, alla sua prima uscita ufficiale da candidato sindaco di Napoli.

“Non sono un esperto di giustizia e credo che questo sia stato il segreto, la novità, di questo libro” precisa Sallusti nel suo discorso introduttivo. “Il Sistema” è nato “dal confronto tra un incompetente e un competente e non è stato facile perché avevo ben 200 ore di registrato e l’app per sbobinare non capiva la cadenza romano-calabra di Palamara, quindi è stata una faticaccia”. Sallusti si sofferma sul mondo dell’informazione “complice di questo sistema per mille motivi: per ideologia, cialtroneria, manie di protagonismo. Tanti mie colleghi ora dicono ‘eh ma già si sapeva qualcosa’, ‘cretino perché allora non l’hai scritto?’ ho risposto”. Poi aggiunge: “La mia categoria ha enormi responsabilità. Anche io quando ero al Corriere della Sera all’epoca di Tangentopoli so bene che cosa abbiamo fatto: ci siamo sdraiati a tappetino davanti ai pm quando la gente veniva buttata in carcere”. Poi annuncia l’intensione di dare un seguito alla prima “crepa” aperta da Palamara: “Non so se ci ha raccontato tutto o se ci sono cose che non ha intercettato nel suo percorso. Il libro ha dimostrato che l’opinione pubblica è interessata. Questa storia è monca e va raccontata appieno. Il mio compito adesso sarà quello di trovare altri pezzi anche perché è vero che la maggior parte dei magistrati è onesta ma è altrettanto vero che per fare carriera bisognava passare per forza di cose dal sistema: per andare in Nazionale o in Champions ti dovevi rivolgere a loro“. Sulla riforma della giustizia, Sallusti si mostra scettico sull’attuale maggioranza di governo: “Non dimentichiamoci, per non fare gli ipocriti, che due leader dello schieramento politico attuale sono sotto lo schiaffo della magistratura e lo sono in maniera pesante. Mi riferisco a Berlusconi e Salvini”. Per l’avvocato Nicolas Balzano “è impossibile una riforma della giustizia se il Parlamento non attua un provvedimento preliminare di cautela”. Ovvero “ripristinare l’immunità parlamentare almeno durante tutta la durata del percorso riformatore perché i magistrati la riforma non la vogliono e fioccheranno avvisi di garanzia a scopo intimidatorio”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Finisce l’incubo dell'ex sindaco. Sbattuto in carcere per la macchina del fango grillino-leghista, Uggetti assolto dopo 5 anni. Giulio Cavalli su Il Riformista il 27 Maggio 2021. Mi sono detto che forse il fatto di essere lodigiano avrebbe potuto condizionare il mio ruolo da giornalista. Anzi, a pensarci bene, ho anche l’onta di essere cresciuto e di avere passato parecchi anni della mia vita fianco a fianco con Simone Uggetti, l’ex sindaco Pd di Lodi che fino a 48 ore fa era uno dei criminali, bocconi sempre ghiotti, da usare come clava contro gli avversari politici e ora è improvvisamente santo. «Non mi sento per niente riabilitato, non ho nessun senso di colpa perché non ho mai fatto nulla di male e oggi sono altri a dover riflettere sui propri errori» mi ha detto ieri al telefono senza nemmeno avere quella naturale voglia di rivalsa che sarebbe perfino una debolezza perdonabile. Poi mi sono detto che forse proprio perché sono “dentro” a questa vicenda questo pezzo sarebbe stato ancora più leale, anche perché ho passato anni a leggere pessimi editoriali di esimi colleghi e direttori che hanno raccontato l’arresto di Uggetti più per confermare se stessi che per analizzare i fatti. Uggetti finisce in carcere a maggio del 2016. «Quando sono arrivati gli uomini della Guardia di Finanza ho sentito che parlavano di custodia cautelare e ho visto nero. Non avevo minimamente idea per cosa mi stessero arrestando», racconta. L’arresto è perfetto per le telecamere e per i taccuini: prelevato in casa lo hanno portato nel piazzale della Polizia di Stato sfilando davanti a 30/40 poliziotti, poi viene portato in Comune in gran parata nella piazza principale della città mentre si svolgeva il mercato settimanale e infine tradotto nel carcere di San Vittore. L’accusa? Turbativa d’asta. E qui qualcuno si immagina un ricchissimo appalto con chissà quali oscuri interessi: si parla della gestione delle piscine comunali per un valore di 5mila euro. Avete capito bene: 5mila euro. L’inchiesta era partita dalla denuncia di una dipendente comunale, Caterina Uggè, tra le altre cose sorella della presidente di una società sportiva che fino a quel momento era sempre rimasta fuori dalla gestione delle piscine lodigiane. Secondo la tesi dell’accusa il sindaco di Lodi avrebbe brigato un bando ad hoc per favorire la società a maggioranza pubblica Sporting Lodi per permetterle di compensare le perdite che aveva nella gestione di un’altra piscina. Non c’è nemmeno un centesimo promesso, non ci sono privati pronti ad arricchirsi, niente di niente. C’è la scelta del Comune di affidare la gestione di una piscina comunale a una società di cui il Comune possiede la maggioranza. Un osservatore allora si potrebbe chiedere: perché il carcere? Per il gip di Lodi, Uggetti è «soggetto autoritario che riesce a imporsi su coloro che gli ruotano intorno, ponendoli in soggezione, il che rende oltremodo realistica la capacità di questi di subornare e intimidire i testimoni». Gli indagati «con assoluta spregiudicatezza portano avanti con protervia i loro fini, ma anche attività volte a distruggere le tracce del loro accordo […] manifestando apertamente il fastidio derivante da chi denuncia a gran voce le loro condotte nefaste e contrarie alla legge». Uggetti avrebbe personalità «negativa e abietta» porta a ritenere «con decisa verosimiglianza» che gli imputati «abbiano potuto sistematicamente gestire la cosa pubblica con modalità illecite, commettendo reati contro la pubblica amministrazione». Racconta Uggetti che durante l’interrogatorio con la Gip lei parla di un appalto da 100mila euro. Lui non capisce, chiede dove abbia letto quella cifra. «Sul giornale locale», risponde lei. In carcere finisce anche un avvocato, Cristiano Marini, che ha compiuto il terribile reato di essere stato generoso: Uggetti si era rivolto a lui per un consulto gratuito, per non spendere soldi pubblici. Quando Marini viene portato in carcere la moglie è incinta al sesto mese. Il ministro Di Maio si fionda a Lodi per denunciare una città ostaggio del malaffare. Anche la Lega decide di manifestare ma Salvini annusando l’aria all’ultimo momento spedisce al suo posto Calderoli. È il tempo del fango: editoriali, servizi, gogna sui social. Uggetti in primo grado viene condannato a 10 mesi di reclusione e 300 euro di multa. Perfino la condanna sembrava risibile per una vicenda che è stata sulle prime pagine di certi quotidiani per giorni. Ovviamente per Uggetti la carriera politica è finita e intanto a Lodi arriva un commissario e poi alle successive elezioni vince il centrodestra. «Quell’arresto ha cambiato il corso della mia vita e ha stravolto il percorso istituzionale di un’intera comunità». Pochi scrivono che persino nella sentenza della condanna i giudici riconoscono che il sindaco ha agito «per il bene pubblico». Ora è arrivata l’assoluzione ma come capita sempre ormai chi poteva cogliere l’occasione di quell’arresto ormai ha già raccolto i frutti mediatici e politici. Assoluzione perché “il fatto non sussiste”, assolti anche gli altri coimputati. Eppure al di là dell’assoluzione che questa inchiesta fosse mostruosa era visibile fin dall’inizio. «Io non devo riabilitarmi in niente», dice Uggetti. Altri probabilmente invece sì ma non accadrà come sempre.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2021. «Mamma santa, quante me ne han fatte! Si sono inventati cose sulla mia famiglia, han detto che gestivo un sistema di potere. Sistema di potere! Io, che mi facevo un mazzo così a riparare lampioni e riempire buche! Tutti sparlavano di me. I giornalisti fissi sotto casa. Guardavo le tv come se non ci fosse stato un domani, non potevo dire niente per difendermi».

Ebbe un crollo?

«Per fortuna sono robustello. Feci 4-5 colloqui con gli psicologi di San Vittore, avevano paura che mi suicidassi. Ma il problema non era stare dentro: era l'onta del carcere. Essere costretto a dimettermi da sindaco e anche dal mio lavoro. Fino al giorno prima, stai dettando l'agenda a un'intera provincia per 14 ore al giorno. Il giorno dopo, non sei più nessuno. E non hai più nulla da fare».

Come s' è aiutato?

«Mia moglie, il figlio che è nato dopo il carcere, gli amici. Mi sono finalmente laureato. Ho lavorato in un'associazione culturale, ora sono amministratore di un'ex start-up. Ho scritto anche un libro su questa storia. Ogni tanto passo davanti a quella piscina, da ragazzo ci giocavo a pallanuoto, e le dico: io ho dato l'anima, per te...»

Se le lacrime sono il sangue dell'anima, fate una trasfusione a Simone Uggetti, 47 anni, che negli ultimi cinque ne ha versate in abbondanza. Martedì a Milano, in appello, le lacrime fluivano quando i giudici l'hanno assolto perché il fatto non sussiste: da sindaco di Lodi non turbò aste, i lavori per la piscina comunale furono regolari e il 3 maggio 2016 la Procura sbagliò a sbatterlo dieci giorni a San Vittore, più altri 25 ai domiciliari. Tutto cancellato. Eppure: «Sono stato enne giorni sulle prime pagine. Ora sono in quelle interne, se ci sono».

Ce l'ha più coi media, coi giudici o coi politici?

«Con questo clima d' odio che non ci porta da nessuna parte. Di Maio, che venne in piazza a Lodi. Salvini fu più furbo: voleva venire anche lui, poi capì che qualcosa non quadrava e al suo posto venne Calderoli».

Ha sentito Gaia Tortora, che è figlia di Enzo e ha certe sensibilità, elencare i tweet M5S che inneggiarono al suo arresto? Grillo, Toninelli, Taverna, Morra, Castelli, Di Battista.

«Non ci fu un grillino che si dissociò. Nella Lega invece sì: Pietro Foroni, consigliere in Regione Lombardia, fu leale».

Il Pd l'abbandonò.

«Non tutti. Ieri mi hanno chiamato subito Giorgio Gori e Beppe Sala. Alessandro Alfieri venne due volte in carcere. Eccezionale fu Fabio Pizzul, il figlio di Bruno... Cose che distinguono il politico dal politicante. All' epoca, Matteo Renzi si limitò a minimizzare: sapeva che ero una brava persona, poteva dire di più».

A Lodi, il Pd è Lorenzo Guerini.

«Sono stato suo assessore, quand' era sindaco. Parlò di me una sola volta, disse che ero perbene. Abbiamo temperamenti diversi, io avrei fatto diversamente».

E la gente?

«In una piccola città ci sono gli hater. Ma anche chi ti dimostra il bene. Mi fermavano per strada: ho pregato per te, ti pensavo, gente che non sapevo quasi chi fosse...».

Chi paga per questa verità tardiva?

«Il mio non è un caso isolato. Anche il miglior chirurgo può sbagliare intervento, ma è normale che tutti i sindaci siano nei guai giudiziari? Sala, Appendino...».

Che cosa pensa, se passa davanti a un tribunale?

«Quando avevo vent' anni, facevo il tifo per Mani pulite. Poi però vidi a Lodi gli otto anni di processo che subì Aurelio Ferrari, il sindaco galantuomo. Dovevo capirlo lì, che qualcosa non funzionava».

Il carcere, la gogna e l’assoluzione: l’Odissea dell’avvocato Marini. "Il fatto non sussiste": la Corte D'Appello di Milano ha assolto il legale e l'ex sindaco di Lodi accusati di turbativa d’asta nell’ambito della gestione delle piscine comunali. Nel 2016 il Gip evidenziò, per la posizione del legale, che essere operatore del diritto è un'aggravante. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 27 maggio 2021. Assolto perché il fatto non sussiste e revoca delle statuizioni civili. È quanto ha deciso la Corte d’appello di Milano due giorni fa nei confronti dell’avvocato Cristiano Marini e di altri tre imputati, compreso l’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti. Le motivazioni arriveranno tra novanta giorni. I fatti risalgono al 2016. Marini, all’epoca consigliere di Astem spa e della Sporting Lodi, e l’ex sindaco Uggetti vennero accusati di turbativa d’asta nell’ambito della gestione delle piscine comunali. Il Tribunale di Lodi li condannò rispettivamente a 6 e 10 mesi di reclusione. Per entrambi si aprirono le porte del carcere. Marini trascorse dieci giorni nella casa circondariale di Pavia ed un mese ai domiciliari. Nell’inchiesta sono state coinvolte altre due persone, Luigi Pasquini e Giuseppe De Muro. Due giorni fa la svolta a Milano che ha permesso all’avvocato Marini di riappropriarsi di un po’ di serenità, dopo anni di gogna mediatica che ne hanno offuscato l’immagine di uomo e di professionista. L’inchiesta del Comune di Lodi destò non poco scalpore. Nell’ordinanza custodiale del 2016, a seguito dell’avvio dell’inchiesta sulle piscine di Lodi, il Gip Isabella Ciriaco utilizzò espressioni che censuravano l’operato dell’avvocato Marini con valutazioni moralistiche strettamente connesse al suo ruolo di operatore del diritto. Circostanza ritenuta aggravante e per ciò meritevole della massima misura cautelare personale. Nella ricostruzione e motivazione del Giudice per le indagini preliminari essere avvocato ed avere “cognizioni tecniche” rappresentava addirittura uno strumento per perseguire “fini economici propri e particulari”. Una concezione della funzione dell’avvocato che fa a pugni con il suo ruolo di difensore dei diritti e dei valori costituzionalmente garantiti. «Nell’intera vicenda –  dice al Dubbio l’avvocata Angela Maria Odescalchi, difensore di Marini con Cristiano Schiavi – ho potuto constatare la dignità e la correttezza con cui il collega che ho assistito ha affrontato la drammatica esperienza giudiziaria.  Non ha mai rilasciato dichiarazioni pubbliche e si è sempre estraniato dalle polemiche, decidendo di difendersi nel processo, come sempre dovrebbe essere. È la dimostrazione di come ancora una volta le notizie di cronaca giudiziaria vengano strumentalizzate per obiettivi politici e non, incuranti delle sofferenze di chi ne è suo malgrado protagonista». Quando Marini venne arrestato, la moglie era incinta ed il figlio nacque poco dopo il periodo di carcerazione. «Cinque anni fa – aggiunge Odescalchi, che è anche presidente del Coa di Lodi –  lo scandalo delle piscine comunali sottopose alla gogna mediatica l’ex sindaco Uggetti ed un giovane avvocato. Prime pagine dei giornali e tanto clamore su tutti gli organi di informazione. Oggi, con l’assoluzione in Corte d’appello, solo notizie della cronaca locale». Secondo Odescalchi, bisogna continuare a nutrire fiducia nella giustizia e nel suo corso. «La sentenza della Corte d’appello – commenta – ha consentito di ritrovare la fiducia nel sistema giudiziario. I valori che caratterizzano il nostro lavoro e a cui non ci sottraiamo nemmeno quando siamo coinvolti in prima persona devono sempre essere un punto di riferimento. Non manca però il rammarico per il continuo uso delle notizie di cronaca giudiziaria per soddisfare pruriti del pubblico, spettacolarizzazione dei casi giudiziari, per sentenze sommarie emesse ancor prima che gli interessati abbiamo voce in capitolo e ancora per il continuo calpestio del ruolo dell’avvocatura nell’esercizio della giurisdizione».

·        Ugo de Flaviis.

Alluvione di Nocera del 2007: dopo 14 anni assolti dall’accusa di disastro colposo politici e dirigenti. Francesca Sabella su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Assolto per non aver commesso il fatto: finisce così, con un’assoluzione piena firmata dal giudice monocratico del Tribunale di Nocera Inferiore Paola Montone, l’odissea giudiziaria di cui l’ex assessore regionale all’Ambiente Ugo de Flaviis è stato suo malgrado protagonista per ben 14 anni. Era accusato di disastro colposo a seguito di una violenta alluvione che, nell’ottobre del 2007, provocò la rottura degli argini dell’Alveo Comunale Nocerino nella zona di Merighi, vicenda per la quale la Procura aveva chiesto un anno di reclusione. Insieme con de Flaviis sono stati assolti anche l’ex assessore Luigi Nocera e l’ex dirigente del settore Programmazione interventi di protezione civile sul territorio Michele Palmieri. Tutti e tre erano accusati di comportamenti “omissivi” per non aver disposto e provveduto a far effettuare interventi strutturali lungo i corsi d’acqua dei torrenti Solofrana, Cavaiola e Alveo Comune Nocerino, ma nessuno dei tre è stato giudicato penalmente responsabile. Ci sono voluti 14 anni di gogna mediatica, titoli urlati dalle pagine dei giornali che li avevano già condannati, attesa e paura prima che i tre imputati venissero scagionati dal peso di un’accusa gravissima. «Siamo stati trattati come dei potenziali assassini – afferma l’ex assessore de Flaviis – ma non c’entravamo nulla con quella vicenda e mi auguro che chi ha determinato tutto questo si vergogni almeno un po’». Ma facciamo un passo indietro. Le indagini cominciarono nel 2007; poi, «dopo un’indagine molto breve e approssimativa» come sottolinea de Flaviis, la Procura di Nocera chiese il rinvio a giudizio. «L’ipotesi di reato a nostro carico era molto pesante – spiega de Flaviis – Siamo stati accusati di disastro colposo, nello specifico alluvione colposa, perché con un atteggiamento omissivo avremmo disatteso gli appelli del Comune di Nocera che ci chiedeva di controllare gli argini. E questo mancato controllo avrebbe contribuito a provocare l’alluvione del 2007, cioè quando io avevo già rassegnato le dimissioni da tre anni». Che l’amministrazione comunale avesse sollecitato gli organi regionali a occuparsi e intervenire, qualora necessario, su quel tratto di fiume, è vero. Ma c’è un errore nella ricostruzione della vicenda. «La lettera che il sindaco di Nocera avrebbe mandato alla Regione, io non l’ho mai ricevuta – racconta de Flaviis – Il primo cittadino sostiene di averla spedita a me in qualità di assessore all’Ambiente, mentre in realtà l’aveva inviata agli uffici tecnici della Regione. Quella missiva non l’ho mai ricevuta né letta». Secondo l’ex assessore era il Comune che avrebbe dovuto occuparsi del controllo dello stato degli argini, in collaborazione con il Consorzio di bonifica; entrambi gli enti, però, non sono mai stati ritenuti responsabili dell’alluvione. «Vorrei sapere dalla Procura perché sono finito sotto inchiesta – afferma de Flaviis – Il Comune di Nocera che sicuramente avrebbe dovuto controllare l’abusivismo dilagante in quella zona. E il Consorzio di bonifica si sarebbe dovuto occupare della manutenzione degli affluenti del fiume». Senza entrare nel merito delle responsabilità, resta il fatto che ci sono voluti 14 anni per arrivare alla conclusione della vicenda e all’assoluzione dei tre imputati. «Le indagini sono state svolte con superficialità – spiega de Flaviis – perché il processo era tecnico e, come tale, avrebbe avuto bisogno del supporto di tecnici. Tra l’altro, durante le indagini, non sono mai stato sentito: ho parlato per la prima volta in aula l’anno scorso». Ma cosa vuol dire vivere così tanto tempo con questa spada di Damocle sul capo? «Convivere con un carico pendente e con un’accusa così pesante ha inciso non poco sul mio lavoro, oltre al fatto che i giornali ci avevano già condannato – conclude de Flaviis – Io, però, non nutro rancore verso nessuno. Adesso voglio godermi l’assoluzione». Sì, quella sentenza arrivata dopo quattordici anni. Quattordici.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.