Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
LA GIUSTIZIA
DECIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le condanne.
Cucchi e gli altri.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa fanno. Sabrina e Cosima: sono innocenti?
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Massimo Bossetti è innocente?
Il DNA.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Colpevoli per sempre.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Morire di TSO.
Parliamo di Bibbiano.
Nelle more di un divorzio.
La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
L’alienazione parentale.
La Pedofilia e la Pedopornografia.
Gli Stalker.
Scomparsi.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Da contributo unificato a pedaggio? Tangente o Pizzo?
La Giustizia non è di questo Mondo.
Magistratura. L’anomalia italiana…
Il Diritto di Difesa vale meno…
Figli di Trojan: Le Intercettazioni.
A proposito della Prescrizione.
La giustizia lumaca e la Legge Pinto.
A Proposito di Assoluzioni.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Verità dei Ris
Cosa è il 41bis, il carcere duro in vigore da quasi 30 anni.
Le Mie Prigioni.
I responsabili dei suicidi in carcere.
I non imputabili. I Vizi della Volontà.
Gli scherzi della memoria.
Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.
La responsabilità professionale delle toghe.
Errori Giudiziari ed Ingiusta detenzione.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Adolfo Meciani.
Alessandro Limaccio.
Daniela Poggiali.
Domenico Morrone.
Francesca Picilli.
Francesco Casillo.
Franco Bernardini.
Gennaro Oliviero.
Gianni Alemanno.
Giosi Ferrandino.
Giovanni Bazoli.
Giovanni Novi.
Giovanni Paolo Bernini.
Giuseppe Gulotta.
Jonella Ligresti.
Leandra D'Angelo.
Luciano Cantone.
Marcello Dell’Utri.
Mario Marino.
Mario Tirozzi.
Massimo Luca Guarischi.
Michael Giffoni.
Nunzia De Girolamo.
Pierdomenico Garrone.
Pietro Paolo Melis.
Raffaele Chiummariello.
Raffaele Fedocci.
Rocco Femia.
Sergio De Gregorio.
Simone Uggetti.
Ugo de Flaviis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Viareggio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Saipem spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Tangentopoli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso MPS Monte dei Paschi di Siena.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Muccioli spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Beppe Signori spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Iaquinta spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Oliverio spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gigi Sabani spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Enzo Tortora spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ottaviano Del Turco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Maroni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Bassolino spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Anna Maria Franzoni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Matteo Sereni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marco Vannini spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Gianluca Vacchi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Fabrizio Corona spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ambrogio Crespi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Antonio Di Fazio spiegato bene.
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’uso politico della giustizia.
Incompatibilità Ambientale e Conflitto di Interessi delle Toghe.
Traffico di influenze illecite: da "Mani Pulite" allo "Spazzacorrotti".
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Avvocati specializzati.
Le Toghe Candidate.
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Le Intimidazioni.
Palamaragate.
Figli di Trojan.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Magistratopoli.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giornalistopoli.
Le Toghe Comuniste.
Le Toghe Criminali.
I Colletti Bianchi.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della Moby Prince.
Il Mistero del volo Malaysia Airlines MH370.
L’affaire Modigliani.
L’omicidio di Milena Sutter.
La Vicenda di Sabrina Beccalli.
Il Mistero della morte di Christa Wanninger.
Il Mistero della scomparsa di Antonio e Stefano Maiorana.
Il Mistero di Marta Russo.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero delle Bestie di Satana.
Il Mistero di Charles Sobhraj.
Il Mistero di Manson.
Il Caso Morrone.
Il Caso Pipitone.
Il Caso di Marco Valerio Corini.
Il Mistero della morte di Pier Paolo Pasolini.
Il Caso Claps.
Il Caso Mattei.
Il Mistero di Roberto Calvi.
Il Mistero di Paola Landini.
Il Mistero di Pietro Beggi.
Il Mistero della Uno Bianca.
Il Mistero di Novi Ligure.
Il mistero di Marcella Basteri, la madre del cantante Luis Miguel.
Il mistero del delitto del Morrone.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Mistero del Mostro di Milano.
Il Mistero del Mostro di Udine.
Il Mistero del Mostro di Bolzano.
Il Mistero della morte di Luigi Tenco.
Il Giallo di Attilio Manca.
Il Giallo di Alessandro Sabatino e Luigi Cerreto.
Il Mistero dell’omicidio Varani.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il Mistero di Viviana Parisi.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il Mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Cranio Randagio.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Elena Livigni Gimenez.
Il Mistero di Saman Abbas.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.
Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.
Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.
Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.
Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.
Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.
Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.
Il Mistero di Roberto Straccia.
Il Mistero di Carlotta Benusiglio.
Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.
Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.
Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.
Il Giallo di Sebastiano Bianchi.
Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.
Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il Mistero della "Signora in rosso".
Il Mistero di Polina Kochelenko.
Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.
Il Mistero di Giulia Maccaroni.
Il Mistero di Tatiana Tulissi.
Il Mistero delle sorelle Viceconte.
Il Mistero di Marco Perini.
Il Mistero di Emanuele Scieri.
Il Mistero di Massimo Manni.
Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.
Il Mistero di Bruna Bovino.
Il Mistero di Serena Fasan.
Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.
Il Mistero della morte di Vittorio Carità.
Il Mistero della morte di Massimo Melluso.
Il Mistero di Francesco Pantaleo.
Il Mistero di Laura Ziliani.
Il Mistero di Roberta Martucci.
Il Mistero di Mauro Romano.
Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Il Mistero di Wilma Montesi.
Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.
Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.
Il Mistero di Maurizio Gucci.
Il Mistero di Maria Chindamo.
Il Mistero di Dora Lagreca.
Il Mistero di Martina Rossi.
Il Mistero di Emanuela Orlandi.
Il Mistero di Gloria Rosboch.
Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".
Il Mistero del delitto di Garlasco.
Il Mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.
Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.
Il giallo di Stefano Ansaldi.
Il Giallo di Mithun.
Il Mistero di Stefano Barilli.
Il Mistero di Biagio Carabellò.
Il mistero di Kasia Lenhardt, ex di Jerome Boateng.
Il Caso Imane.
Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Simonetta Cesaroni.
Il Mistero di Serena Mollicone.
Il Mistero di Teodosio Losito.
Il Caso di Antonio Natale.
Il Mistero di Barbara Corvi.
Il Mistero di Roberta Ragusa.
Il Mistero di Roberta Siragusa.
Il Caso di Niccolò Ciatti.
Il Caso del massacro del Circeo.
Il Caso Antonio De Marco.
Il Giallo Mattarelli.
Il Giallo di Bolzano.
Il Mistero di Luca Ventre.
Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.
Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.
Il Mistero di Federico Tedeschi.
Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.
Il Mistero di Gianmarco Pozzi.
Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero della strage di Bologna.
LA GIUSTIZIA
DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La strage di Piazza Fontana: pista Nera o Rossa? Verità processuale e mediatica e Verità storica.
La strage di piazza Fontana, spiegata. Andrea Muratore su Inside Over il 19 Dicembre 2021. Diciassette morti e nessun colpevole accertato. Un attentato brutale condotto contro la popolazione civile nella capitale economica del Paese. Piste di indagine fallaci, morti sospette, depistaggi. Piazza Fontana è stata una pagina buia nella storia d’Italia e, a oltre mezzo secolo di distanza, l’attentato che il 12 dicembre 1969 colpì la Banca nazionale dell’agricoltura situata a poca distanza dal Duomo di Milano è ricordato sia come il punto di inizio vero e proprio della strategia della tensione sia come un simbolo dei misteri d’Italia che si accompagnano alla fase più complessa della storia della Repubblica.
L’attentato che sconvolse l’Italia
Il 12 dicembre 1969 alle 16.30 la sede milanese della Banca nazionale dell’agricoltura, che offriva un servizio prolungato rispetto all’orario di chiusura degli altri istituti, situata nella piazza ove ha sede l’arcivescovado milanese era ancora piena di clienti giunti soprattutto dalla provincia; sette minuti dopo nella banca scoppiò un ordigno contenente sette chili di tritolo, che uccise 13 persone e ne ferì 91, quattro delle quali morirono in seguito, portando il totale delle vittime a diciassette.
Uno choc brutale, un boato trafisse in quel momento l’Italia. Altri attentati, contemporaneamente, andarono in scena a Roma, provocando diversi feriti ma nessuna vittima. L’attacco è al cuore della Repubblica, a un Paese che in quel momento era reduce dalle grandi passioni del decennio dei Sessanta, iniziato e proseguito nel segno del boom economico, della crescita delle industrie, dei consumi, dell’urbanizzazione e concluso con la complessa parabola del Sessantotto e le avvisaglie di una crescente conflittualità sociale, con i cortei e le manifestazioni operaie dell’Autunno Caldo. Il decennio che aveva visto un’altra morte tragica e misteriosa, quella di Enrico Mattei, i tranelli del Piano Solo e le prime avvisaglie di una lotta per il cuore del potere della Repubblica si chiuse con la strage che segnò uno spartiacque definitivo.
In primo luogo perché con la bomba del 12 dicembre 1969 emerse definitivamente la natura di Paese conteso e di faglia geopolitica tra Est e Ovest della penisola. In secondo luogo perché le indagini storiche e giudiziarie hanno accertato che con Piazza Fontana andò in scena la prima, strutturata saldatura tra componenti deviate degli apparati, degli organi dello Stato e della massoneria da un lato e elementi terroristici legati, in questo caso, all’estrema destra dall’altro. Tutto questo con la solita sequela di depistaggi e inquinamenti di prove che ha contraddistinto l’evoluzione delle indagini. In terzo luogo perché l’analisi “geopolitica” del contesto in cui è maturato l’attentato permette di capire come la strategia della tensione non sia stata solo una sequela di delitti e non sia stata solo un affare italiano ma abbia rappresentato la fase più acuta della Guerra fredda, investendo molti Paesi come l’Argentina, la Grecia, il Brasile, l’Indonesia, la Bolivia, il Cile. Analizziamo questi elementi con ordine.
L’Italia era sempre più importante, nel cuore della Guerra fredda, come Paese di confine tra Est e Ovest. Il Paese aveva retto alla svolta modernizzatrice guidata dalla Democrazia cristiana prima e dopo la consociazione al potere del Partito socialista, manteneva il Partito comunista più grande dell’Occidente, era costantemente attenzionata dagli Stati Uniti che nell’era dell’amministrazione Nixon avevano iniziato un pressing costante per fermare l’avanzata delle sinistre nella loro sfera di influenza. In Italia, figure come Aldo Moro, ai tempi ministro degli Esteri, desideravano coniugare l’appartenenza al campo atlantico con il mantenimento di gradienti di autonomia nello spazio mediterraneo.
L’Unione sovietica, parimenti, manteneva una profonda attenzione su Roma come possibile pivot diplomatico con l’Occidente in termini distensivi; dialogava a tutto campo con il Pci del segretario Luigi Longo, ex comandante partigiano ed eroe della Guerra di Spagna che aveva seguito il predecessore Palmiro Togliatti nell’iniziare a porre dei distinguo tra la “via italiana al socialismo” e l’ortodossia moscovita.
Erano anni di grandi cambiamenti anche per il Vaticano reduce dal Concilio Vaticano II e in cui Paolo VI si stava facendo garante del mantenimento della stabilità e del dialogo tra componenti sociali e politiche interne al Paese, mediato dalla classe politica che si era formata alla sua ombra nell’era della Resistenza.
Forze che auspicavano la stabilizzazione dell’Italia si confrontavano con apparati che, invece, puntavano a vedere rapidi cambiamenti: diversi storici e magistrati, da Aldo Giannuli a Guido Salvini, nei loro lavori hanno individuato l’avvio della strategia della tensione e del percorso che portò a Piazza Fontana nell’opera dei fautori di una svolta autoritaria interni a apparati dei servizi segreti, strutture Nato, frange reazionarie della politica italiana aventi il loro strumento operativo nei gruppi terroristici di stampo neofascista.
In quest’ottica l’opera di Giannuli, sostanziata nel saggio La strategia della tensione (Ponte alle Grazie), ha di fatto contribuito a sottolineare il ruolo giocato da Federico Umberto D’Amato, dominus dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, che nella sua veste di massimo dirigente del servizio segreto civile operò per coprire e depistare le indagini. Le ombre su D’Amato sono tante e tali da portare l’ ex generale dei servizi segreti Nicola Falde a ritenere che la super-spia del’Uar fu addirittura l’organizzatore materiale della strage.
D’Amato operò per promuovere una manovra di infiltrazione dei partiti di sinistra e le organizzazioni extraparlamentari, provocare con falsi manifesti inneggianti alla rivoluzione culturale cinese affissi in diverse città l’idea di un movimento rivoluzionario di stampo comunista e contribuendo a depistare le indagini verso i primi indiziati, gli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda, giudiziariamente e storicamente scagionati da ogni accusa.
Gli anarchici non solo erano già ritenuti responsabili di una serie di esplosioni avvenute il 25 aprile nella fiera nella Stazione centrale di Milano (successivamente attribuite ai neofascisti), centrali nella marcia d’avvicinamento a Piazza Fontana. Pinelli, in particolare, fu di fatto la diciottesima vittima della tragedia: fu trattenuto in questura a Milano e sottoposto a un duro e aggressivo interrogatorio per tre giorni, più delle 48 ore in cui la legge permette di prolungare un fermo senza l’autorizzazione di un magistrato.
Il terzo giorno Pinelli morì dopo essere precipitato dalla finestra al quarto piano dell’edificio, e questo generò una serie di accuse e vendette incrociate che avrebbero portato alla tragica uccisione del commissario Luigi Calabresi da parte dell’estrema sinistra tre anni dopo.
La pista nera, giudiziariamente accertata, ha messo nel mirino, in particolare modo, l’organizzazione eversiva di Ordine Nuovo. Tra prescrizioni, processi conclusisi con assoluzioni spesso per mancanza di prove e depistaggi, nessun colpevole è mai stato individuato a fini processuali, ma le sentenze hanno nel corso degli anni, assieme al lavoro degli storici, delineato il quadro politico in cui la strage maturò: istigare la possibilità che la minaccia comunista e anarchica portasse la Democrazia cristiana a una svolta autoritaria e repressiva sulla scia di quanto avvenuto due anni prima in Grecia.
La strategia non era particolarmente sofisticata o approfondita, ma si basava su uno schema sostanzialmente lineare:
L’obiettivo era creare uno stato di allarme sociale diffuso che creasse un compattamento della maggioranza silenziosa costituita dai ceti medi
La scelta di luoghi come le banche come sede degli attentati non era in tal senso casuale. Sulla base della richiesta di sicurezza, si mirava a convincere la Dc a giungere alla proclamazione dello “stato di emergenza” ed alla conseguente sospensione delle garanzie costituzionali.
Come hanno scritto Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin in Piazza Fontana – Verità e memoria (Feltrinelli): “Il colpo di Stato abortito del 12 dicembre 1969 è il primo tentativo di una vasta congiura ordita da politici e militari atlantisti che, pur andando dall’estrema destra più fascista ai socialisti saragattiani, sono tutti animati da comune e fanatico anticomunismo. L’origine di questa congiura si inscrive nella collaborazione avviata a metà degli anni Sessanta tra fascisti e servizi segreti (in particolare dopo il convegno dell’Istituto ‘Alberto Pollio’ all’hotel Parco dei Principi a Roma del maggio 1965)”.
Nel giugno 2005 una sentenza della Corte di Cassazione stabilì che la strage fu opera di “un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine nuovo e capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”, non più perseguibili a seguito di un’assoluzione ricevuta nel 1987 in un processo tenutosi a Bari. Carlo Digillo, terrorista di Ordine Nuovo soprannominato “zio Otto” (1937-2005) fu reo confesso ma con pena prescritta, per concorso nella strage di piazza Fontana ed è stato coinvolto anche nella strage di piazza della Loggia, segno della continuità dello stragismo nero nell’era della strategia della tensione.
Concentrata tra il 1969 (Piazza Fontana) e il 1974 (strage di Piazza Loggia a Brescia) la strategia della tensione come programma di destabilizzazione del Paese si inserì nel quadro di un contesto globale in cui, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, diversi Paesi strategici per la strategia degli Stati Uniti furono interessati da manovre volte a instaurare regimi autoritari e fortemente anti-comunisti.
Il colpo di Stato brasiliano del 1964 contro il regime “sovranista” di Joao Goulart e quello argentino del 1966 guidato da Juan Carlos Ongania riportarono i due Paesi a fianco del contrasto più duro e netto al comunismo; il golpe indonesiano del 1965, con cui il generale Suharto guidò un vero e proprio genocidio contro mezzo milione di comunisti o sospetti tali, puntellò il domino nell’Indo-Pacifico nel pieno della guerra in Vietnam; nel Cile, nel 1973, andò in scena il golpe di Augusto Pinochet. Tutti questi eventi si inseriscono alla perfezione in una vera e propria “strategia della tensione mondiale” che ebbe un agente acceleratore, sul fronte italiano, nel ruolo di copertura offerto dal regime castrense dei colonnelli greci all’eversione nera.
“La Grecia”, ha scritto Giannuli, “diverrà un modello anche per la destra ed i militari di altri Paesi: ad esempio nel marzo 1971 i militari presero il potere in Turchia. Ma è in Italia che il modello greco trovò i suoi più convinti imitatori nel gruppo di Ordine Nuovo, che aveva stretto fitti rapporti di collaborazione con Kostas Plevris”, giovane leader del gruppo neo nazista greco “Movimento 4 agosto”. D’altro canto, “gli ordinovisti ebbero altri autorevoli consulenti nell’Aginter Presse di Yves Guerin Serac che, da Lisbona, teneva le redini dell’internazionale nera di cui, peraltro, facevano parte anche i greci del “4 agosto”.
Secondo quanto scrive lo storico greco Dimitri Deliolanes nel suo corposo saggio Colonnelli. Il regime militare greco e la strategia del terrore in Italia (Fandango libri), la giunta militare ha tentato di “esportare la rivoluzione” in Italia, in maniera costante, persistente e usando ingenti risorse, anche per far pagare alla classe di governo della Dc e a Moro in particolare la scelta di espellere Atene dal Consiglio d’Europa che divenne operativa proprio il giorno della strage di Piazza Fontana. E dal 1969 in avanti l’Italia fu al centro del mirino, per almeno cinque anni, nel quadro di una strategia volta alla crescente destabilizzazione del sistema politico che aveva creato democrazia, sviluppo e autonomia per il Paese. Ed è, vista a oltre mezzo secolo di distanza, indubbiamente ammirevole la capacità che l’Italia ebbe di resistere alla strategia della tensione sconfiggendo gli opposti estremismi e sviluppando gli anticorpi contro ogni forma di autoritarismo nel cuore della faglia più calda della Guerra fredda in Europa.
Storia. La strage di Piazza Fontana: una verità processuale. Da Focus 11 dicembre 2020. 12/12, la bomba di Piazza Fontana: 10 anni di processi, depistaggi, condanne e assoluzioni visti dal giudice Guido Salvini, che ha condotto l'istruttoria 1989-97.
12 dicembre 1969, ore 16:37: una bomba confezionata con 7 kg di tritolo esplode nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano - una strage che costò 17 morti e 88 feriti. Pubblichiamo un articolo di Focus Storia (2006): 10 anni di processi, depistaggi, condanne e assoluzioni raccontati a Focus dal giudice Guido Salvini, che ha condotto l'istruttoria dal 1989 al 1997.
Il 12 dicembre 1969 iniziò per l'Italia una sorta di oscuro, lento, ma comunque micidiale "11 settembre": incominciava cioè la strategia della tensione. Come si tende a fare con i brutti ricordi, si parla poco di quei fatti, ma la strategia della tensione, fatta di bombe nelle banche, di stragi di civili sui treni e nei comizi sindacali, appartiene alla nostra storia recente, e la conoscenza storica può aiutare a non essere più vittime di certe logiche politiche e di potere.
ROMA E MILANO: 5 BOMBE IN 53 MINUTI. Tutto ebbe inizio il 12 dicembre 1969 con le bombe all'Altare della Patria e nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro a Roma, con alcuni feriti. E, in contemporanea, con la terribile bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, in Piazza Fontana, a Milano, che provocò 17 morti e 88 feriti, che mutò radicalmente il pensiero di molti verso le istituzioni del Paese.
Su questa strage sono stati celebrati dieci processi, con depistaggi, fughe all'estero di imputati, latitanze più che decennali, condanne, assoluzioni. Fino alla definitiva assoluzione dei presunti esecutori: Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi. «Ma non dell'area nazifascista che aveva organizzato la strage e di quella parte degli apparati dello Stato con loro collusa, per favorire, attraverso la paura, l'insediamento di un governo autoritario in Italia», afferma il giudice milanese Guido Salvini - che ha condotto l'istruttoria 1989-97 su Piazza Fontana sulla base della quale si sono avute la condanna degli imputati in primo grado (30 giugno 2001) e la loro assoluzione in appello (12 marzo 2004) con conferma dell'assoluzione in Cassazione (3 maggio 2005).
Ecco la sua intervista a Focus Storia nel 2006.
Giudice Salvini, nonostante non si sia arrivati alla definitiva condanna processuale di singole persone, Lei continua a essere un testimone della memoria storica su quei fatti. In che cosa consiste oggi questa memoria?
Tutte le sentenze su Piazza Fontana, anche quelle assolutorie, portano alla conclusione che fu una formazione di estrema destra, Ordine Nuovo, a organizzare gli attentati del 12 dicembre. Anche nei processi conclusi con sentenze di assoluzione per i singoli imputati è stato comunque ricostruito il vero movente delle bombe: spingere l'allora Presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza nel Paese, in modo da facilitare l'insediamento di un governo autoritario.
Come accertato anche dalla Commissione Parlamentare Stragi, erano state seriamente progettate in quegli anni, anche in concomitanza con la strage, delle ipotesi golpiste per frenare le conquiste sindacali e la crescita delle sinistre, viste come il "pericolo comunista", ma la risposta popolare rese improponibili quei piani. Il presidente Rumor, fra l'altro, non se la sentì di annunciare lo stato di emergenza. Il golpe venne rimandato di un anno, ma i referenti politico-militari favorevoli alla svolta autoritaria, preoccupati per le reazioni della società civile, scaricarono all'ultimo momento i nazifascisti. I quali continuarono per conto loro a compiere attentati. Cercarono anche di uccidere Mariano Rumor, con la bomba davanti alla Questura di Milano (4 morti e 45 feriti) del 17 maggio 1973, reclutando il terrorista Gianfranco Bertoli.
Il Golpe Borghese
Il 7 dicembre 1970 inizia a Roma l'operazione Tora Tora, un tentativo di colpo di Stato. A dirigerlo, il principe Junio Valerio Borghese (1906-1974) dalle stanze della sede romana del Fronte Nazionale, movimento politico di estrema destra. I bersagli sono i ministeri della difesa e dell'interno, la sede Rai e le centrali telefoniche e telegrafiche, con l'obiettivo di scatenare il caos nel Paese colpendo il cuore dello Stato - il piano prevede infatti anche il rapimento del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, e l'assassinio del capo della Polizia, Angelo Vicari. Ma il golpe fallisce e Borghese fugge in Spagna (da Focus Storia 170, disponibile in versione digitale).
Perché non si è arrivati ad avere sufficienti prove sulle responsabilità personali nell'attentato di piazza Fontana?
L'assoluzione definitiva è stata pronunciata con una formula che giudica incompleto, ma non privo di valore, l'insieme delle prove raccolte. Sono esistiti in questa vicenda pesanti depistaggi da parte del mondo politico e dei servizi segreti del tempo. Però non è del tutto esatto che responsabilità personali non siano state comunque accertate nelle sentenze. Almeno un colpevole c'è, anche nella sentenza definitiva della Cassazione del 2005: si tratta di Carlo Digilio, l'esperto in armi e in esplosivi del gruppo veneto di Ordine Nuovo, reo confesso, che fornì l'esplosivo per la strage ed il quale ha anche ammesso di essere stato collegato ai servizi americani.
Digilio ha parlato a lungo delle attività eversive e della disponibilità di esplosivo del gruppo ordinovista di Venezia, di cui faceva parte Delfo Zorzi, assolto poi per la strage per incompletezza delle prove nei suoi confronti, in quanto la Corte non ha ritenuto sufficienti i riscontri di colpevolezza raggiunti. Né sono bastate le rivelazioni di Martino Siciliano, che aveva partecipato agli attentati preparatori del 12 dicembre insieme a quel gruppo, con lo scopo di creare disordine e far ricadere le accuse su elementi di sinistra. Ma nelle tre sentenze risultano confermate le responsabilità degli imputati storici di Piazza Fontana, pure loro di Ordine Nuovo: i padovani Franco Freda e Giovanni Ventura. Essi però, già condannati in primo grado nel processo di Catanzaro all'ergastolo, e poi assolti per insufficienza di prove nei gradi successivi, non erano più processabili. Perché in Italia, come in tutti i paesi civili, le sentenze definitive di assoluzione non sono più soggette a revisione.
Ci può spiegare meglio? Intende dire che Freda…
Sì, se Freda e Ventura fossero stati giudicati con gli elementi d'indagine arrivati purtroppo troppo tardi, quando loro non erano più processabili, sarebbero stati, come scrive la Cassazione, condannati.
Può fare un esempio?
L'elemento nuovo, storicamente determinante, sono state le testimonianze di Tullio Fabris, l'elettricista di Freda che fu coinvolto nell'acquisto dei timer usati il 12 dicembre per fare esplodere le bombe. La sua testimonianza venne acquisita solo nel 1995. Un ritardo decisivo e "provvidenziale" per gli imputati. Fabris nel 1995 descrisse minuziosamente come nello studio legale di Freda, presente Ventura, furono effettuate le prove di funzionamento dei timer poi usati come innesco per le bombe del 12 dicembre.
Le nuove indagini hanno anche esteso la conoscenza dei legami organici fra i nazifascisti, elementi dei Servizi Segreti militari e dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno, diretto all'epoca da Federico Umberto D'Amato. E c'è di più: il senatore democristiano Paolo Emilio Taviani, in una sofferta testimonianza resa poco prima di morire e purtroppo non acquisita dalle Corti milanesi, ha raccontato di aver appreso che l'avvocato romano Matteo Fusco, agente del SID, il Servizio Informazioni della Difesa, il pomeriggio del 12 dicembre del 1969 era in procinto di partire da Fiumicino alla volta di Milano in quanto incaricato, seppure tardivamente, di impedire gli attentati che stavano per avere conseguenze più gravi di quelle previste. La missione, non riuscita, confermata dalla testimonianza della figlia ancora vivente dell'avvocato Fusco, che aveva ben presente il rammarico del padre negli anni per non avere potuto evitare la strage, indica ancora una volta che la campagna di terrore non fu solo il parto di un gruppetto di fanatici, ma che a Roma almeno una parte degli apparati istituzionali era a conoscenza della preparazione degli attentati e che cercò solo all'ultimo momento di ridurne gli effetti. Dopo l'esito tragico, si adoperarono per calare una cortina fumogena sulle responsabilità a livello più alto.
La frammentazione delle prove nei tanti processi ha favorito questa cortina fumogena?
Indubbiamente. Ma la ricostruzione dell'accusa, senza effetti, ripeto, su persone non più processabili, è che il gruppo di Freda acquistò valige fabbricate in Germania in un negozio di Padova e comprò i timer, di una precisa marca, che mise nelle valige insieme con l'esplosivo che probabilmente il gruppo veneziano disponeva di propri depositi. Alcune valige furono portate a Roma e consegnate agli esponenti di Avanguardia Nazionale che effettuarono gli "attentati minori". Altri militanti invece raggiunsero Milano con altre due valige esplosive, attesi dai referenti locali di Ordine nuovo. Una bomba alla Banca Commerciale di piazza della Scala non esplose, l'altra, alla banca dell'Agricoltura, provocò la strage. Gli obiettivi di Roma e Milano potevano tutti essere interpretati in chiave anti-capitalista e antimilitarista in modo da fare ricadere la colpa sugli anarchici e più in generale sulla sinistra.
Tre giorni dopo la strage un anarchico, Giuseppe Pinelli, volò dal quarto piano della Questura di Milano. Un altro anarchico, Pietro Valpreda, fu incarcerato e indicato come il "mostro" nelle prime pagine dei quotidiani e nei telegiornali. Quando non si pensava nemmeno lontanamente a Internet un gruppo di giovani, in soli sei mesi, scambiandosi informazioni, mise in piedi una contro-inchiesta collettiva raccolta poi in un famoso libro, "La strage di Stato". Che valore ebbe questo loro impegno per le indagini giudiziarie successive?
Fu davvero profetico e quasi propedeutico rispetto agli accertamenti giudiziari avvenuti dopo. Soprattutto, ebbe il merito di smontare rapidamente la pista anarchica, fabbricata apposta da infiltrati di Ordine nuovo, di Avanguardia Nazionale e dei servizi segreti per depistare le indagini e mettere sotto accusa di fronte all'opinione pubblica gli anarchici e, per estensione, gli studenti contestatori e le forze di sinistra impegnate nelle lotte sindacali di quel periodo, preparando così il clima per la svolta autoritaria. Che non ci fu, anche perché la grande stampa, dopo un po', fece suoi molti temi di quel libro inchiesta.
Quali conclusioni si devono trarre da questa storia?
La strage di Piazza Fontana non è un mistero senza mandanti, un evento attribuibile a chiunque magari per pura speculazione politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti se non proprio da un progetto, da un clima comune (come disse nel 1995, alla Commissione Parlamentare Stragi, anche Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro). Nei cerchi più esterni c'erano forze che contavano di divenire i "beneficiari" politici di simili tragici eventi. Completando la metafora, i cerchi più esterni, appartenenti anche alle Istituzioni di allora, diventarono subito una struttura addetta a coprire l'anello finale, cioè gli esecutori della strage quando il "beneficio" risultò impossibile poiché quanto avvenuto aveva provocato nel Paese una risposta ben diversa da quella immaginata: non di sola paura, ma di giustizia e di mobilitazione contro piani antidemocratici.
L'anniversario di quei tragici eventi del 12 dicembre 1969 non è solamente "amarezza" o sdegno per la strage e ciò che ne è seguito: è anche un insegnamento per le giovani generazioni, perché la memoria serve anche a ridurre il rischio che simili trame e sofferenze possano nel futuro ripetersi.
Guido Salvini: «La guerra tra pm ha fermato la verità su piazza Fontana». Intervista al magistrato che ha indagato sulla strage del 12 dicembre del ’69, scrive Rocco Vazzana il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «Senza la “guerra tra magistrati” che io ho solo subito gli esiti di quei processi sarebbero stati diversi e la verità completa». A quasi cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, Guido Salvini, ex giudice istruttore nel processo di Milano, ripercorre gli anni in cui la democrazia rischiò di sbriciolarsi sotto le bombe.
In tutto questo tempo si sono svolti tre processi, sono stati individuati due colpevoli, gli ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura, ma nessuna condanna è stata mai pronunciata. Come è possibile?
«Aggiungo a Freda e Ventura Carlo Digilio che è stato dichiarato colpevole di concorso della strage per aver preparato l’ordigno ma già in Corte d’Assise ha avuto la prescrizione in quanto collaboratore. Ciò che ha danneggiato queste indagini, e in generale le indagini sulle stragi, è stata la frammentazione dei processi. Perché le collaborazioni e le testimonianze sono arrivate in tempi diversi, in un arco temporale lungo più di trent’anni. In questo modo nessun processo ha potuto utilizzare tutte le prove esistenti, ognuno ne ha utilizzato solo una parte. Se oggi, per fare un’ipotesi metagiudiziaria fosse possibile celebrare un processo mettendo insieme tutte le prove raccolte sino ad oggi probabilmente quelli che sono stati imputati sarebbero condannati».
Perché il processo fu spostato a Catanzaro?
«Con la giustificazione dell’ordine pubblico. Il Procuratore capo di Milano e poi la Cassazione stabilirono che a Milano vi era il rischio di scontri di piazza fra gruppi opposti. La sede scelta però era troppo distante. L’unico precedente paragonabile, da questo punto di vista, è stato il processo per il disastro del Vajont, che fu trasferito a L’Aquila, un luogo praticamente irraggiungibile per i valligiani. Sono decisioni che ledono il diritto di partecipare delle persone offese. E l’obiettivo credo che fosse quello che in un’aula così distante si annacquassero testimonianze imbarazzanti per lo Stato. A Catanzaro l’istruttoria fu anche resa difficile dalla distanza dello scenario delle indagini, tutti i testimoni erano in Veneto. Eppure il giudice istruttore di allora, Emilio Ledonne, fece un ottimo lavoro con il filone che portò al rinvio a giudizio di Delle Chiaie e Facchini, anche se poi assolti nel 1988. E fu Ledonne a individuare, già all’epoca, come esplosivista del gruppo “zio Otto”, anche se allora non fu identificato in Carlo Digilio, l’uomo che 15 anni dopo diventerà con me l collaboratore di giustizia per la strage. Anche se nessuno ha scontato delle pene, però, le indagini non sono state affatto inutili. Le sentenze dicono che la strage di Piazza Fontana è stata organizzata lì in Veneto, dalle cellule di Ordine Nuovo. Su quanto avvenuto si sa praticamente tutto e la paternità politica è indiscussa».
Perché lei definisce il 12 dicembre una strage “incompleta”: cinque attentati e una sola strage?
«Quel giorno è senza dubbio accaduto qualcosa di strano. Perché gli attentati di Milano e Roma erano stati preceduti da 17 episodi simili dall’inizio del 1969. Erano attentati dimostrativi che erano stati tollerati perché servivano a stabilizzare il quadro politico: c’era Rumor che spingeva per mantenere un monocolore con l’appoggio solo dei socialdemocratici, che si era separati dal Psi, i socialisti e le sinistre andavano isolate e l’asse del governo spostato a destra».
Fino a quel momento, la strategia “dimostrativa” è condivisa da vari gruppi dell’estrema destra, compreso il Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese…
«Senza dubbio, il Fronte nazionale in quel 1969 si sta preparando a una sterzata istituzionale: stringe rapporti col mondo imprenditoriale, Piaggio per citarne uno, attiva propri civili e militari in tutto il Paese e rappresenta una forza non trascurabile della destra reazionaria italiana. Borghese si era rivolto anche all’ambasciatore americano a Roma Graham Martin prospettandogli il suo progetto, senza ricevere in cambio un pieno consenso ma una risposta evasiva. Gli Stati Uniti non comprendevano bene la reale forza del Fronte. L’Italia non era la Grecia, dove gli americani erano certi che nel 1967 il golpe sarebbe riuscito poiché la struttura democratica era molto più debole».
Ma il 12 dicembre finisce la fase “dimostrativa” perché a prendere in mano la situazione è un altro gruppo: Ordine Nuovo.
«Quello che accade il 12 dicembre non doveva essere molto diverso da ciò che era accaduto nei mesi precedenti. Si alza però il tiro, si scelgono due città importanti come Milano e Roma e si punta su obiettivi facilmente confondibili: le banche, dunque il capitalismo, e la patria, con gli attentati all’Altare della patria. Attentati quindi attribuibili tranquillamente all’estrema sinistra. È presumibile che questi cinque attentati contemporanei dovessero rimanere gravi ma nell’alveo degli attacchi dimostrativi, ma a un certo punto Ordine Nuovo deve aver pensato che fosse arrivato il momento dell’assalto finale alla democrazia. E ha trasformato la bomba della banca Milano in una strage. Prendendo di sorpresa anche le forze di destra più moderate che fino a quel momento avevano visto di buon occhio la strategia “stabilizzatrice” di azioni solo dimostrative».
Perché Ordine Nuovo decide di accelerare all’improvviso?
«È stata quasi certamente una scelta dei diretti esecutori. Il fatto che ci sia stato un momento in cui la strategia cambia repentinamente è testimoniato dall’allora vice presidente del Consiglio Paolo Emilio Taviani, uno politico che sapeva e sa quello dice. Taviani ha testimoniato davanti a noi di aver appreso allora da alti funzionari dei Servizi che un avvocato e agente del SID, Matteo Fusco Di Ravello, stava partendo da Roma per Milano per fermare l’attentato perché si era capito che avrebbe provocato una strage. E questo finale non faceva parte del piano “morbido” di stabilizzazione. Ma quando Fusco arrivò all’aeroporto sentì alla radio: “Esplode una caldaia a Milano” e capì che ormai non poteva far nulla. E c’è un dettaglio molto umano, che rende credibile questo racconto: l’avvocato ha una reazione istintiva, si attacca al telefono per sentire la figlia che si trova in albergo a Milano in piazza della Scala, cioè davanti alla Banca Commerciale dove era stata piazzata la seconda bomba. La ragazza è una militante di estrema sinistra che partecipa attivamente alla vita politica. La figlia è stupita da tanta apprensione e ne chiede il motivo. La risposta è quasi un dramma di famiglia: “Perché è successo qualcosa di grosso e non sono riuscito a impedirlo”. La figlia di Fusco lo ah testimoniato davanti a noi».
Perché gli attentati contemporanei avvenuti a Roma, uno alla Bnl e due all’Altare della Patria, non provocano vittime?
«Chi ha piazzato la bomba alla BNL ha avuto probabilmente un’esitazione e ha abbandonato l’ordigno in un sottopassaggio dove ha causato solo feriti. Me se la bomba fosse stata deposta come a Milano nel salone la storia e le conseguenze di quel giorno sarebbero completamente diverse Per due giorni dopo infatti, il 14 dicembre era stata da tempo convocata una manifestazione nazionale della destra a Roma, organizzata dal MSI, ma a cui avevano aderito tutte le sigle di destra, compreso Ordine Nuovo. L’avevano battezzata “Appuntamento con la nazione”. Se gli attentati romani fossero andati a segno con vittime quella manifestazione sarebbe stato il pretesto per scatenare una specie guerra civile, assalti alle sedi dei PCI, reazioni della sinistra, morti strada e di conseguenza la dichiarazione dello stato di emergenza».
Lei ha detto che quel 12 dicembre accadde troppo e troppo poco allo stesso tempo. Cosa intendeva?
«Troppo per chi pensava ad attentati dimostrativi che servivano solo a mantenere alta la tensione, troppo poco perché sarebbe servita una seconda strage per mettere in ginocchio la democrazia. Per capire quei fatti bisogna anche inserire i fatti italiani in un contesto internazionale ben preciso. Nel febbraio del ‘ 69 Nixon arriva in visita a Roma. È l’occasione per chiedere al Presidente Saragat di impedire l’avvicinamento dei comunisti al governo. Saragat, il più filo atlantico dei socialdemocratici, concorda. E se guardiamo con attenzione alla stagione più calda della strategia della tensione, quella con le sue le stragi più gravi, notiamo che va dal 1969 al 1974, un periodo di tempo che coincide esattamente con la presidenza Nixon, con Kissinger al suo fianco. Sono anni in cui è ancora pensabile intervenire in quel modo nella politica dei Paesi europei. In Italia accadono Piazza Fontana, la strage alla Questura Piazza della Loggia, la strage di Gioia Tauro, i fatti di Reggio Calabria e una lunga serie altri attentati. Tutto ciò che accade dopo è più difficile da capire. Per intenderci, già Bologna è meno interpretabile».
Un ruolo chiave, da un punto di vista processuale, lo ha giocato il collaboratore Digilio…
«Il racconto di Digilio ruota attorno al casolare ai Paese, vicino a Treviso, in cui lui, Zorzi, Ventura, Pozzan avevano la loro santabarbara: armi, esplosivi e anche una stampatrice per il materiale di propaganda. Lì avevano preparato gli ordigni. È un casolare in campagna che per lungo tempo non si è riusciti a rintracciare».
Perché non è stato trovato?
«È stata la conseguenza di chi credeva di poter fare tutto da solo. Attorno a quel casolare ruotava la credibilità della testimonianza di Digilio. La Procura di Milano decise, senza neanche avvisarmi, di fotocopiare un po’ di atti del processo di Catanzaro e non si accorse che in mezzo a quel materiale c’era l’agenda di Ventura, in cui c’era traccia del casolare raccontato da Digilio. E quando il casolare venne finalmente trovato dalla Procura di Brescia, anni dopo, il processo di piazza Fontana era già finito. La Procura di Milano non si è accorta di nulla, si è fatta sfuggire la prova regina. Se avessero guardato quell’agenda ci sarebbero state sicuramente le condanne».
Una sbadataggine in buona fede?
«Per presunzione. Volevano fare tutto da soli, senza collaborare con me che ero il Giudice Istruttore e seguivo quelle indagini da anni. Anzi, hanno occupato il loro tempo ad attaccarmi, chiedendo al CSM di farmi trasferire da Milano con una serie di pretesti. Invece di privilegiare il gioco di squadra hanno creato un clima di guerra tra magistrati che ha favorito solo gli ordinovisti».
Quanto hanno contribuito i Servizi a confondere le acque nel corso dei vari processi?
«Se c’è un dato certo nella storia di piazza Fontana è la copertura del SID. Perché le condanne al gen. Gianadelio Maletti e al cap. Antonio Labruna, benché modeste, sono comunque definitive. Condannati per aver fatto fuggire all’estero Pozzan e Giannettini due personaggi decisivi».
La politica ha avuto un ruolo?
«I governi dell’epoca hanno a lungo negato che Giannettini fosse un agente del Sid. Lo hanno ammesso solo nel 1977, quindi molto tardi. E’ chiaro i vertici dello Stato sapevano chi fosse Giannettini e che era l’elemento di collegamento con la cellula di Padova. È questo uno degli elementi che la fanno definire quella una strage di Stato».
Un anno fa ci disse di aspettare ancora le scuse da parte di Francesco Saverio Borrelli per averle “fatto la guerra” con esposti al Csm per cacciarla via da Milano. Sono arrivate?
«No. Borrelli fa parte di quelle persone che pensano di non sbagliare mai. E ricordo che il trasferimento per un magistrato equivale alla morte civile: via dalla propria città, via dalle proprie indagini e anche via dalla propria famiglia. A me quegli anni hanno cambiato la vita. Forse lui non se ne ricorda nemmeno».
Ma perché quell’astio da parte della Procura?
«Per invidia, perché ero arrivato dove loro non erano riusciti. Un po’ lo stesso problema che si presentò con Felice Casson».
Che accadde con Casson?
«La mia indagine, pur considerando Gladio una grande scoperta per la ricostruzione della storia d’Italia dagli anni ‘50 in poi, aveva comunque rifiutato l’idea sposata da Casson secondo cui Gladio aveva commesso le stragi. Quando, con il mio lavoro, questa ipotesi, viene esclusa per concentrarsi sugli ordinovisti veneti che operavano nel suo “cortile di casa”, certo a Venezia questo non fu molto gradito. Perché a venir meno non era solo un filone d’indagine ma anche una ricostruzione che aveva dato grande credito politico. Tanto è vero che due ordinovisti in un’intercettazione telefonica dicono: “Quel giudice di Milano ha tolto a Casson il pane di bocca”».
Il giudice Salvini: Preparavano lo stato di emergenza. Senza giustizia, Piazza Fontana 1969-2019. I rapporti tra i nostri servizi segreti e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, che erano il Pci e le sinistre. Mario Di Vito il 10.12.2019 su Il Manifesto. Guido Salvini è l’uomo che più di tutti ha cercato nei tribunali la verità sulla strage di piazza Fontana. Negli anni ’70 faceva parte di un collettivo chiamato Movimento Socialista Libertario: una frangia ridottissima della sinistra extraparlamentare milanese del periodo («In sostanza eravamo in due: io e Michele Serra», dice oggi con un sorriso) di estrazione cattolica e radicale. Tempo dopo, a metà anni ‘90, da giudice istruttore del tribunale di Milano, Salvini avrebbe rimesso le mani sulla bomba di piazza Fontana, arrivando a processare i neofascisti Maggi e Zorzi, condannati all’ergastolo in primo grado e poi assolti in Appello e in Cassazione. La maledizione di piazza Fontana è l’ultima opera del magistrato, da poche settimane in libreria per Chiarelettere. Una storia amara di depistaggi e misteri, ma i segreti rivelati non sono più segreti e, a distanza di mezzo secolo dalla bomba, la verità è qualcosa in più della somma dei dubbi e dei sospetti accumulati.
Lei dice che la strage ormai non è più un mistero. Perché?
«Anche se la sentenza della Cassazione del 2005 ha assolto Maggi e Zorzi, ha confermato che responsabili della strage siano state le cellule venete di Ordine Nuovo, come avevano già visto negli anni ‘70 i magistrati Stiz e Calogero».
C’è stato però il ribaltamento totale del verdetto in Appello.
«È un problema di valutazione delle prove raccolte. Le sentenze vanno rispettate ma ritengo discutibile la logica della frammentazione degli indizi, ognuno dei quali viene valutato singolarmente e non concatenato a quelli successivi. Un modo di procedere che finisce per sottovalutare contesto storico e moventi, portando inevitabilmente all’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove».
Era già avvenuto con Freda e Ventura.
«Sì, anche in quel caso nel processo di appello. Comunque la sentenza del 2005 ha stabilito esplicitamente la responsabilità di Digilio, prescritto perché aveva collaborato, e la colpevolezza di Freda e Ventura, che non erano però più processabili in quanto definitivamente assolti nel precedente processo: il risultato sul piano giuridico è stato parziale ma su quello storico si è fatta invece definitiva chiarezza».
Cosa doveva succedere dopo quel 12 dicembre?
«Quel giorno ci furono tra Milano e Roma cinque attentati. Due giorni dopo avrebbe dovuto tenersi a Roma un grande raduno della destra, manifestazione che venne sospesa all’ultimo momento dal ministero dell’Interno. Ci sarebbero stati gravi incidenti che avrebbero reso inevitabile la dichiarazione dello stato di emergenza. Probabilmente fu anche il fatto che l’attentato alla Bnl di Roma fallì a non dare la forza sufficiente agli eversori per far precipitare la situazione».
Piazza Fontana e le altre stragi chiamano in causa la connivenza di parte dei nostri apparati di sicurezza.
«I rapporti tra i nostri servizi e Ordine Nuovo non furono occasionali ma organici, secondo un reciproco scambio di favori contro il nemico comune, costituito dal Pci e dalle sinistre con la tutela poi dell’inconfessabile segreto su quanto avvenuto. In molti casi uomini delle istituzioni ostacolarono il lavoro dei magistrati, fabbricando false piste, occultando reperti, agevolando l’espatrio di ricercati. Non si trattò di singole mele marce».
Il «lasciamoli fare» era la logica dei vertici della politica di allora?
«Sono esistiti livelli di collusione della politica sottili, una disponibilità a beneficiare di una strategia terroristica che avrebbe giovato al rafforzamento degli assetti di potere e allontanato il pericolo comunista. Qualche bomba dimostrativa come avvenuto nei mesi precedenti, non certo una strage come quella di piazza Fontana. È probabile che Ordine Nuovo andò oltre quelli che erano i taciti accordi».
A livello umano che impressione ha avuto degli esponenti di Ordine Nuovo?
«Erano autentici fanatici imbevuti di un’ideologia mitica, spesso esoterica e comunque del tutto antistorica. I loro piani, in un paese con una democrazia radicata come l’Italia, non potevano che fallire».
Nella sua indagine ha avuto degli ostacoli?
«Sì, e dall’interno del mio mondo purtroppo. Se il Csm non mi avesse reso le indagini e la vita impossibili con la minaccia del trasferimento d’ufficio e con i procedimenti disciplinari, finiti nel nulla ma durati sei anni, non sarebbero andate perse quelle energie che servivano per raggiungere l’intera verità. Chi ha voluto quegli attacchi contro di me porta addosso una grande responsabilità».
12 DICEMBRE 1969: QUANDO L’ITALIA PIOMBÒ NEL TERRORE. Maurizio Delli Santi su L’Opinione 13 dicembre 2021. È un pomeriggio piovoso di un venerdì, quel 12 dicembre 1969, quando nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana, alle 16.37, esplode un ordigno. Muoiono sul colpo 14 persone, 88 rimangono ferite. Altri due decessi si verificano dopo qualche settimana, e la diciassettesima vittima perirà un anno dopo, per le lesioni riportate. In contemporanea viene rinvenuto un ordigno, stavolta inesploso, nella vicina Banca commerciale italiana in Piazza della Scala. A Roma, alle 16.55 deflagra una bomba alla Banca del Lavoro in via Veneto, nel seminterrato, ferendo 14 persone. E un altro ordigno esplode all’Altare della Patria, ferendo quattro persone. Infine, la terza bomba esplode sui gradini del Museo del Risorgimento, causando il crollo del tetto dell’Ara Pacis.
Quel 12 dicembre è indicato come la data d’inizio degli “anni di piombo”, della “strategia della tensione”, e del triste periodo delle stragi: seguiranno quelle del 1974 di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus, fino alla strage della stazione di Bologna, del 1980. Le prime indagini su Piazza Fontana sono rivolte alla pista dei movimenti anarchici, quelli del Circolo di Ponte della Ghisolfa di Milano e del Circolo 22 Marzo di Roma. Uno degli appartenenti al circolo milanese è Giuseppe Pinelli, un ferroviere milanese, già staffetta partigiana durante la Resistenza, che durante il fermo muore cadendo dal quarto piano della questura. Ne deriva un clima di tensioni che il 17 maggio 1972 porterà all’assassinio del commissario Calabresi, che aveva interrogato Pinelli. Una successiva sentenza del tribunale di Milano stabilirà che Pinelli è morto per un “malore attivo”, che gli aveva fatto perdere l’equilibrio nei pressi della finestra.
Indro Montanelli espresse subito dubbi sul coinvolgimento degli anarchici in una intervista a Tv7, come confermò vent’anni dopo: “Io ho escluso immediatamente la responsabilità degli anarchici per varie ragioni. L’anarchico spara al bersaglio, in genere al bersaglio simbolico del potere, e di fronte. Assume sempre la responsabilità del suo gesto. Quindi, quell’infame attentato, evidentemente, non era di marca anarchica o anche se era di marca anarchica veniva da qualcuno che usurpava la qualifica di anarchico”. C’è poi il “caso Valpreda”, un altro anarchico rimasto recluso dal 1969 al 1972, che viene liberato perché le testimonianze che lo accusano si rivelano infondate e scadono i termini della custodia cautelare.
È la volta della “pista nera” e degli apparati deviati dei servizi, che secondo la Commissione Stragi spingevano per una deriva autoritaria. Ma l’esito della vicenda giudiziaria è tristissimo: dopo circa 40 anni, trasferimenti dei processi da Roma a Milano per incompetenza territoriale, e infine a Catanzaro per questioni di “ordine pubblico”, non ci sono condanne definitive. Il 30 giugno 2001 la Corte d’Assise di Milano condanna all’ergastolo tre esponenti veneti di Ordine nuovo e condanna a pene inferiori i complici neofascisti milanesi. Una sentenza in secondo grado li assolve, facendo emergere però in maniera netta la responsabilità di un’altra cellula di Ordine nuovo.
La Corte di Cassazione confermerà questa sentenza nel 2005, ma non ci possono essere condanne. Nel 1987 i due leader del gruppo neofascista sono stati già assolti in un altro processo: per il ne bis in idem non possono essere processati due volte per lo stesso reato. Qualcuno denunciò sui giornali che le spese di oltre 30 anni di processi stavano per essere addossate ai parenti delle vittime. Almeno questo scempio non c’è stato, perché alla fine se ne è fatto carico lo Stato. Il cui primo dovere nei confronti dei cittadini sarebbe quello di rendere giustizia.
Piazza Fontana: depistaggi, misteri e nessun colpevole. Moreno D'Angelo il 13 Dicembre 13 2021 su nuovasocieta.it.
Moreno D'Angelo. Laurea in Economia Internazionale e lunga esperienza avviata nel giornalismo economico. Giornalista dal 1991. Ha collaborato con L’Unità, Mondo Economico, Il Biellese, La Nuova Metropoli, La Nuova di Settimo e diversi periodici. Nel 2014 ha diretto La Nuova Notizia di Chivasso. Dal 2007 nella redazione di Nuova Società e dal 2017 collaboratore del mensile Start Hub Torino.
La strage di Piazza Fontana ha compiuto 52 anni. Un tragico evento rimasto nell‘immaginario collettivo (anche per chi all’epoca era un ragazzino). Dieci processi e nessun colpevole, fughe all’estero degli imputati, latitanze e immancabili depistaggi. Alla fine tutti assolti, tra ambiguità, servizi deviati e pazienza per i 17 morti e 88 feriti (persone che son sopravvissute ma che hanno subito amputazioni o danni e traumi irreversibili). Uno scenario che si è spesso ripetuto nel nostro Paese ma che rafforzò la coscienza e la reazione democratica popolare di un’intera generazione di giovani. Uno scenario in cui fu lasciato campo libero alle forze nere ultraconservatrici di scatenarsi, anche con terrificanti attentati, per fermare l’onda di proteste crescenti contro la guerra del Viet Nam e per una società più giusta libera. Lotte che incendiarono un intero continente dando ulteriore spazio a sogni rivoluzionari che portarono a nuove tendenze ma anche alla deriva terroristica.
Quel 12 dicembre 1969 fu un momento topico della storia italiana che diede il via alla strategia della tensione e agli anni di piombo. Quel giorno si aprì un ulteriore vortice che portò milioni di giovani in piazza. Tra assemblee, occupazioni e collettivi. Giovani che anche dopo anni di silenzi e ambiguità, urlavano: “Dodici dicembre la strage è di Stato, il proletariato non ha dimenticato”.
Un moto di libertà per fermare concreti rischi di golpe. Questo In un panorama allucinante che vedeva regimi fascisti in Portogallo, in Spagna, in Sud America, per non parlare dell’esempio dei colonnelli in Grecia.
Quel 12 dicembre non ci fu solo la bomba nella banca dell’Agricoltura (17 morti e 88 feriti). Solo per un fortunato caso le altre bombe, piazzate in Piazza della Scala e in altri uffici giudiziari, non esplosero. A Roma invece si contarono 16 feriti.
Ricordo come, qualche anno dopo quella strage, lessi con attenzione, insieme Cent’anni di solitudine di Marquez, un volumetto con la contro indagine anarchica su Piazza Fontana. Una denuncia articolata e argomentata che alimentò la protesta contro le macchinazioni che coprirono la ricerca della verità e dei veri colpevoli e mandanti. Protesta che fece da argine contro possibili svolte autoritarie. Sono gli anni del Cile di Salvador Allende e della sua Unitad Popular, schiacciata dalla feroce repressione di Pinochet, che tanta solidarietà alimentò nel nostro paese.
La vicenda della strage di Piazza Fontana fu emblematica. La ricerca del mostro da sbattere in prima pagina fu la cartina di tornasole di un regime vetusto, ancora pieno di nostalgici nei gangli chiave delle sue istituzioni. Come noto fu individuato l’identikit del killer perfetto da mostrare alle masse: quel Pietro Valpreda anarchico, ballerino, gay e nemmeno simpatico. Uno decisamente fuori dall’ordine sociale costituito di tempi in cui l’adulterio era ancora considerato un reato. (”La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina”art. 559 CP).
Oltre a Valpreda tra i fermati vi fu quel Giovanni Pinelli. Ferroviere che secondo gli anarchici “è stato suicidato” accedendo un vortice di infinte polemiche e drammatiche conseguenze e vendette che diedero il via agli anni di piombo.
Quella strage fu davvero un viatico per una strategia della tensione mirata a fermare un movimento operaio e studentesco imponente che guardava a sinistra ma non alla Russia sovietica.
Dopo la strage vi fu una sequela di attentati che caratterizzarono quegli anni di piombo in cui emerse il drammatico fenomeno del terrorismo. Una variabile che inizialmente trovò anche consensi in una classe operaria esasperata da quanto accadeva in fabbrica, nelle immense catene di montaggio, ma fu proprio quella classe a decretare la sua fine prendendo le distanze da una deriva criminale inaccettabile.
Una strategia della tensione che apri la vergognosa stagione di quei misteri italiani. Tutti con una costante: non vi è mai un colpevole. Una fila interminabile di attentati che passa dalla bomba alla manifestazione sindacale di piazza della Loggia (maggio 1974) al treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti), fino alla strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti). Per passare all’uccisione di Pasolini, (dove pare furono tre personaggi, legati a servizi deviati, a finire lo scrittore e non il debole Pelosi), fino ai surreali interventi di dell’aeronautica militare per coprire quanto successe all’Itavia in volo sopra Ustica nel 1980. Senza andare a riprendere quel caffè al cianuro che mise fine alla vita del potente banchiere, mentre restano accese le polemiche su Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana sparita nel nulla dopo una lezione di musica a Sant’Apollinaire il 22 giugno 1983.
Sono i misteri italiani. Quei cold case su cui permane da decenni una spessa coltre di nebbia insieme a mirate operazioni di depistaggio. Un quadro inquietante su cui ogni tanto qualche politico illuminato promette di svelare omissis custoditi in dossier riservati ma senza che ne seguano significativi esisti. Un po’ come negli Usa quando si promette di dare una sbirciatina agli archivi sugli Ufo. Intanto sono passati 52 da piazza Fontana senza alcun barlume di giustizia e verità per le tante vittime innocenti. In nome della ragion di Stato si sono coperte troppe azioni infamanti e non è sana una società che non è in grado o ha paura di fare i conti con il proprio passato.
A quanto pare anche nel nuovo mondo liberal, dominato dagli algoritmi dietro cui si celano le decisioni dei soliti potenti, fra tanti innegabili progressi permane la paura di aprire squarci di verità assoluta. Mentre i polli di Renzo continuano a bisticciare stupidamente.
Strage di piazza Fontana, la verità che manca ancora: 52 anni dopo "nessuno è stato". Massimo Pisa su milano.repubblica.it il 12 dicembre 2021. Il 12 dicembre del 1969 alle 16,37 una bomba esplose a Milano, nella sede della Banca nazionale dell'Agricoltura: e ancora oggi non c'è nessun colpevole ufficiale. I tre momenti della memoria, tre segmenti di dolore e testimonianza. Quello istituzionale, stretto attorno al sindaco Beppe Sala, alle testimonianze di Paolo Silva e Federica Dendena (eredi delle vittime Carlo e Pietro), all'Anpi e alla Cisl. Poco dopo il turno di una cinquantina tra collettivi e centri sociali, associazioni e sindacalismo di base, con la presenza di Silvia e Claudia Pinelli e il saluto di mamma Licia. Infine, gli anarchici del Ponte della Ghisolfa e gli animatori dell'Osservatorio democratico, che ricorderanno il ferroviere e Saverio Saltarelli, la vittima dell'anno dopo.
Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, la storia d'Italia precipita nel suo pozzo nero: è l'ora della strage di piazza Fontana, della bomba che uccide 17 persone e apre quella che poi verrà definita la strategia della tensione. Nelle foto d'archivio ripercorriamo a cinquant'anni da quel giorno quanto avvenne in quei giorni: dai primi sopralluoghi dopo la bomba, con l'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura trasformata in uno scenario di guerra, ai funerali di Stato in Duomo, con migliaia di milanesi in una piazza fredda e coperta di nebbia, e le istituzioni in chiesa, fino ai funerali dell'anarchico Giuseppe, Pino, Pinelli, considerato la 18esima vittima di piazza Fontana.
Tutti a ricordare la strage alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, i sedici morti immediati o quasi, la vittima postuma (Vittorio Mocchi, scomparso nell'83), gli ottantotto feriti, la caccia agli anarchici, i depistaggi di Stato, la tensione e le sue strategie. Tutti a stringersi alle verità parziali che cinquantadue anni hanno distillato, condensate nella grossolana approssimazione della pietra d'inciampo che attribuisce a Ordine Nuovo la matrice della strage. Ma nessuno, non ancora, conosce davvero l'autore. Chi è stato.
Vale la pena, allora, ricordare oggi, il troppo che ancora non sappiamo. A cominciare dall'ultima fase, quella mortale, di un piano stragista che quel giorno prevedeva un'altra bomba (non esplosa) a Milano e tre ordigni non letali piazzati a Roma. La mano stragista che depose la borsa in vilpelle Mosbach & Gruber sotto il tavolone ottagonale al centro della banca, tra gli agricoltori e le loro trattative del venerdì, falciati da una cassetta Juwel, il timer che la fece saltare i sei chili di gelatina esplosiva al binitrotoluolo. Mezzo secolo ha depositato soltanto un elenco di sospettati, gli indiziati, i processati e i chiacchierati. Assolti, prosciolti, mai sfiorati.
Il primo, il "mostro" sbattuto in prima pagina e sepolto per tre anni in cella prima delle assoluzioni, fu Pietro Valpreda: libertario, ballerino di fila, contestatore, naif, tutto meno che carnefice. Morì nel 2002, trentuno anni dopo il suo accusatore, il tassista Cornelio Rolandi del celebre (e manipolato) "l'è lü!". Ma da subito, in quell'indagine sghemba e inquinata, entrarono i sosia. Di uno, l'attore anarchico Tommaso Gino Liverani, parlò lo stesso Valpreda: non c'entrava nulla.
Un altro, Nino "il fascista" Sottosanti, ha mantenuto fino alla scomparsa nel 2004 la sua ambiguità di mussoliniano ma frequentatore d'anarchici: lo sospettò l'Ufficio politico di Milano, insieme al suo commensale del 12 dicembre, Pino Pinelli, "ucciso tragicamente" o " morto innocente": le due verità, su lapide, sono ancora lì. Perfino il ferroviere morto in Questura, per un paio di giorni, fu raggiunto dall'ennesimo schizzo di fango: il testimone Fiorenzo Novali, imprenditore bergamasco, giurò di averlo visto davanti alla banca su un'Alfa Romeo rossa. L'auto, in effetti, la videro in molti. Novali, però, indicò un viso sbarbato, senza la barbetta di Pinelli. E fu scartato.
Fascista prima, quasi rosso poi era anche Pio D'Auria: somigliava a Valpreda, era amico del coimputato Mario Merlino, era a Milano una settimana prima della strage. Gli indizi raccolti da Gerardo D'Ambrosio non andarono oltre. Era già il 1972, epoca di "piste nere" e muri di gomma. Una pista portò a Padova. Ma non all'ideologo Franco Freda, quanto al suo braccio destro Massimiliano Fachini: D'Ambrosio approfondì finché l'indagine non gli venne tolta. Lo scartarono i magistrati di Catanzaro Migliaccio e Lombardi, lo indicarono negli anni Ottanta diversi pentiti neofascisti: Sergio Latini, Sergio Calore, Angelo Izzo. Dissero di averlo sentito in cella da Freda, che negò. Fachini fu processato e assolto. E mai nemmeno indagato il suo sodale Giancarlo Patrese, indicato da un appunto dei carabinieri di Milano, datato 1973 come esecutore materiale.
L'indagine di Guido Salvini, negli anni Novanta, puntò tutto sull'ordinovista Delfo Zorzi, accusato direttamente da Carlo Digilio, Martino Siciliano e, per un breve periodo, dal leader di On Carlo Maria Maggi (che poi ritrattò con veemenza), e indirettamente dal neofascista parmense Edgardo Bonazzi, che coinvolse pure il milanese Giancarlo Rognoni per l'attentato fallito alla Banca Commerciale.
Condannati in primo grado, assolti in seguito. E mai sfiorati da una vera indagine gli ultimi due nomi ipotizzati in ricostruzioni postume: Claudio Orsi, nazimaoista ferrarese amico di Freda (lo scrisse, e se lo rimangiò, il giornalista Paolo Cucchiarelli), e Claudio Bizzarri, il "paracadutista", veronese e ordinovista, indicato dallo stesso Salvini in un suo libro. Nessuno di loro è stato. E allora chi?
Piazza Fontana” di Paolo Morando. Recensione a: Paolo Morando, Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, Roma – Bari 2019, pp. 384, 20 euro (scheda libro). Scritto da Andrea Germani su pandorarivista.it. Il 12 dicembre 1969, alle ore sedici e trentasette, un ordigno esplose nell’androne della Banca Nazionale dell’Agricoltura sita in Piazza Fontana a Milano. La deflagrazione costò la vita a diciassette persone e ne ferì ottantotto. L’evento è stato identificato da studiosi e inquirenti come l’atto iniziale di una scia di stragi programmate che insanguinarono l’Italia per più di un decennio: la strategia della tensione, come fu denominata da Leslie Finer, un giornalista inglese che seguiva le vicende italiane dell’epoca. La strage è stata per lungo tempo oggetto di indagini approfondite e speculazioni da parte di giornalisti e storici, tuttavia ci vollero anni prima che emergesse la verità storica e giudiziaria e si potesse con certezza indicare perlomeno la matrice ideologica di provenienza dei mandanti e degli esecutori – ad oggi identificati con chiarezza – pur essendo stati assolti in sede giudiziaria.
Paolo Morando, giornalista e vicecaporedattore del Trentino, si è già occupato in due saggi delle vicende della Prima Repubblica: Dancing Days. 1978 – 1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia (2009) e ’80. L’inizio della barbarie (2016), entrambi editi da Laterza. In Prima di Piazza Fontana Morando si è impegnato a raccontare gli eventi che precedettero la strage. La bomba che devastò i locali della banca è infatti l’ultima di una serie di esplosioni che segnarono il 1969, l’anno dell’autunno caldo e dell’inasprirsi delle contestazioni operaie e studentesche, agitazioni a cui seguì una durissima risposta da parte delle istituzioni nel tentativo di ripristinare l’ordine e assicurare stabilità al regime di produzione e di consumi che aveva portato in pochi anni l’Italia ai vertici dell’economia mondiale. In questo contesto di disordine e repressione si inserisce la bomba di Piazza Fontana con tutto il corredo di instabilità politica e senso di insicurezza che la nazione si porterà dietro per tutti gli anni Settanta. Mesi di lavoro pregresso di alcuni membri dell’esecutivo avevano contribuito a creare una serie di precedenti additabili ai veri protagonisti di questa storia, fra i più intransigenti nelle contestazioni all’ordine costituito: gli anarchici.
Milano, 25 aprile 1969, ore 19 e 03. Alla Fiera campionaria sta per chiudersi la quarantasettesima Esposizione Internazionale, la banda della Marina Militare è giunta da Taranto per intonare il proprio inno in occasione della cerimonia di chiusura della rassegna commerciale iniziata sei giorni prima. Improvvisamente un boato proveniente dalla saletta del padiglione della Fiat adibita alla proiezione di documentari sconvolge i partecipanti che, increduli, si convincono si tratti di un colpo sparato a salve dai marinai come parte delle celebrazioni conclusive. Si tratta invece di una bomba, nessuno rimane ucciso ma venti persone sono ferite non gravemente. Nemmeno due ore dopo un’altra esplosione devasta l’ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni, questa volta nessun ferito, i tre membri del personale rimasti in ufficio fino a sera erano abbastanza lontani da non essere colpiti. Anche in questo caso, una bomba. Le deflagrazioni di aprile inaugurano una stagione di esplosioni che proseguirà nei mesi estivi, con le bombe alle stazioni ferroviarie dell’8 e del 9 agosto e gli ordigni inesplosi rinvenuti a Milano Centrale e Venezia Santa Lucia, e si chiuderà il dodici dicembre con la strage di Piazza Fontana.
Due giorni dopo la deflagrazione alla Fiera campionaria l’anarchico Paolo Braschi viene condotto in questura da due agenti dell’ufficio politico per rispondere ad alcune domande, tornerà a casa solamente due anni dopo. Per lui, come per gli altri anarchici Paolo Faccioli, Tito Pulsinelli, Angelo Della Savia, Giuseppe Norscia e Clara Mazzanti inizia un lungo calvario poliziesco e giudiziario che si chiuse solamente anni dopo fra assoluzioni e drastiche riduzioni di pena rispetto a quelle ben più severe richieste dai pubblici ministeri. Nell’inchiesta viene coinvolto anche l’editore Giangiacomo Feltrinelli, nominato in più occasioni nelle inchieste dell’ufficio politico della questura milanese, ritenuto il finanziatore delle fazioni più radicali della sinistra extraparlamentare. Le istruttorie si fondano precipuamente su informazioni fornite da Rosemma Zublena professoressa di lingue psicologicamente instabile che confessò agli inquirenti di essersi invaghita di Paolo Braschi, e dalla «fonte Turco», informatore del Servizio di informazioni della Difesa, rivelatosi poi essere Gianni Casalini, esponente padovano del MSI che aveva rapporti mai chiariti con la destra eversiva veneta, informatore messo a tacere nei primi anni Settanta, proprio quando cominciava a confidare informazioni affidabili sugli attentati del 1969.
Le procedure d’indagine messe in atto tanto dalla questura di Milano, nelle figure di Luigi Calabresi e Antonino Allegra, quanto dalla procura del capoluogo lombardo, nella persona di Antonio Amati, furono fortemente criticate dagli avvocati degli anarchici in fase processuale; l’impressione che emerge leggendo le pagine del libro di Morando è che si fossero decisi i colpevoli ancor prima di avviare le inchieste, suggestione questa poi parzialmente confermata persino da alcuni esponenti del potere giudiziario. La stampa darà man forte nel dipingere gli anarchici come personaggi violenti e socialmente pericolosi, rafforzando un pregiudizio insito nella mentalità degli italiani sin dalla fine dell’Ottocento. Morando mostra come lo stesso impianto accusatorio congiunto verrà riproposto mesi dopo con Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda nell’attentato di Piazza Fontana. A tal proposito l’Autore ritiene che le bombe di aprile e agosto furono una prova generale (da qui il sottotitolo del libro) della strage che si sarebbe consumata di lì a poco; la colpa sarebbe dovuta ricadere sugli anarchici come parte di un più ampio piano di delegittimazione dei movimenti sociali, propedeutico a un colpo di stato militare, sul modello di quello greco del 1967, da effettuarsi in caso di serio pericolo per le istituzioni repubblicane. Già ai tempi delle prime bombe il disegno complessivo sembrava chiaro agli anarchici milanesi che in un comunicato datato lunedì 28 aprile 1969, tre giorni dopo la bomba alla Fiera campionaria, scrivevano che ci si trovava di fronte alla «vile manovra in atto da parte delle forze fasciste e reazionarie che come in altre città, Padova, Catania e Roma, compiono attentati terroristici con il chiaro intento di creare un clima di terrore tale da consentire e giustificare l’avvento di un governo di destra» (p.88).
Paolo Morando nel suo saggio si addentra in un campo poco battuto dalla letteratura storica sul periodo delle stragi; le bombe del 1969, spesso ridotte a mero fatto di cronaca dai cronisti di quegli anni, si rivelano così essenziali per comprendere la strategia messa in atto da alcuni uffici della Repubblica Italiana nel finire degli anni Sessanta. Non solo, un capitolo è dedicato agli attentati ai grandi magazzini della Rinascente il 30 agosto e il 15 dicembre 1968, azioni ad oggi quasi sconosciute dal grande pubblico e dai ricercatori del settore. Vista la scarsità di materiale sugli eventi, le informazioni sono state raccolte da Morando mediante un minuzioso lavoro di analisi della stampa dell’epoca e degli atti processuali contenuti nell’Archivio di Stato di Milano.
In sintesi, si può affermare che il lavoro di ricerca svolto da Morando sia servito a far luce su una questione archiviata da anni, seppur utile a chiarire alcuni aspetti della vicenda di Piazza Fontana, oltre che a introdurre nuovi elementi nel dibattito storiografico sulla strategia della tensione. Già in alcuni saggi sull’argomento, così come nel film del 2012 di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, la questione delle esplosioni sui treni e alla Fiera campionaria veniva menzionata per mostrare la genesi della criminalizzazione programmatica degli anarchici milanesi messa in atto dagli uomini delle istituzioni. Il tema viene affrontato nella sua completezza in questo volume per la prima volta, in occasione del cinquantesimo anniversario della strage, forse nel tentativo di aggiungere ulteriori elementi alla faticosa ricerca della verità che da anni impegna inquirenti, storici e famigliari delle vittime.
Andrea Germani. Nato a Perugia nel 1989, concluso il liceo classico si è spostato a Bologna per studiare Filosofia, attualmente è Dottorando in Diritto e Scienze Umane all’Università dell’Insubria dove si occupa di Filosofia Politica. Collabora da anni con la rivista online Deckard e svolge occasionalmente attività didattiche all'Università.
Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 28 maggio 2009. Dividono le nuove ipotesi sull'attentato di Piazza Fontana che emergono dal libro «I segreti di Piazza Fontana», di Paolo Cucchiarelli. Da una parte possibilisti e convinti, dall'altra chi considera la doppia matrice anarchica/fascista non corroborata da alcun elemento. E così un episodio tragico e oscuro sul quale anni di lavoro della magistratura sono stati depistati e rallentati da apparati deviati dello Stato resta intrappolato nella cronaca. Guido Salvini, giudice istruttore dell'inchiesta sulle trame nere che nel '90 fece riaprire l'indagine sull'attentato del 12 dicembre 1969, da sempre sostiene che molti «buchi neri» non sono stati colmati.
«La mia indagine - dichiara - dovette concludersi per scadenza termini nel '97, quando, anche per gli ostacoli che mi furono posti dall'interno del mio mondo, non tutto era stato approfondito e dissodato. Dopo mancò forse lo slancio necessario per continuare e non furono svolti accertamenti decisivi ancora possibili, come quelli sugli esplosivi usati».
Secondo il giudice, però, si può sperare di trovare la verità da persone ancora in vita: «Se le conclusioni di Cucchiarelli fossero anche solo in parte esatte, molti sanno e possono raccontare ormai senza rischiare nulla». La tesi della doppia bomba convince Giovanni Pellegrino. Per l'ex presidente della commissione stragi «è assolutamente plausibile: vista anche la massa di documenti e riscontri da cui è accompagnata la ricerca, siamo ben al di là della semplice verosimiglianza».
Conclusione alla quale lui stesso fu vicino («ma non trovai le prove»). «Tesi credibile» anche per Ugo Paolillo, giudice d'appello a L'Aquila, che lavorava a Milano e che il giorno della strage come magistrato di turno fu tra i primi a recarsi nella Banca dell'Agricoltura, così come per l'avvocato Federico Sinicato, legale di parte civile al processo.
«È una cosa che non sta né in cielo né in terra» taglia corto l'ex giudice istruttore sulla strage Gerardo D'Ambrosio, «non è mai stata trovata alcuna traccia né di micce né di esplosivo, se non di quello che ha provocato il buco per terra». Grazia Pradella, pm dell'ultimo processo, fa notare che «dagli atti è esclusa la pista anarchica, risultata precostituita». È la stessa la linea del pg del processo d'appello, Laura Bertolè Viale, dell'avvocato Guido Calvi che difese Valpreda («lui non c'entrava») e di Gaetano Pecorella, legale di Delfo Zorzi, imputato assolto, il quale ritiene «non plausibile» la doppia matrice.
Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 28 maggio 2009.
«Sì, due borse. Lo scriva. Così la finiamo».
È la frase che Silvano Russomanno, l'alto dirigente del Sisde che la sera del 12 dicembre 1969 andò a Milano per gestire le indagini, dice a Paolo Cucchiarelli, il giornalista dell'Ansa che da dieci anni lavora all'inchiesta di oltre 700 pagine che oggi Ponte alle Grazie manda in libreria - titolo: «Il segreto di piazza Fontana», - e che il Corriere ha potuto leggere in bozza.
Due borse, due tipi diversi di esplosivo, e quindi due bombe. Una portata in piazza Fontana dall'anarchico Pietro Valpreda. E una - predisposta e collocata dai fascisti - che fa esplodere anche l'altra, con una duplice conseguenza: causare una strage, e addossarla politicamente all'estrema sinistra. «Sebbene la bomba di Valpreda non dovesse, nei suoi piani, fare vittime, la sua corresponsabilità finì per inchiodare al silenzio lui e tutta la sinistra, abbarbicandola a una difesa politica che con il tempo ha trasformato un segreto in un mistero».
Oltre ai colloqui con Russomanno, Cucchiarelli fonda la sua tesi sugli incontri con Ugo Paolillo, il magistrato che per primo indagò sulla strage. Sulla testimonianza di un neofascista rimasto anonimo. Sulle carte dell'ufficio affari riservati del Viminale, solo in parte utilizzate nelle inchieste e nei processi. E sulla controperizia del generale Fernando Termentini, esplosivista che fornisce riscontri alle ipotesi formulate nel libro. Fondamentale poi l'inchiesta di Salvini che il libro sviluppa descrivendo gli ostacoli frapposti al magistrato milanese.
Nel salone della Banca nazionale dell'Agricoltura fu ritrovato uno spezzone di miccia a lenta combustione. Subito dopo la strage, un rapporto della direzione di artiglieria sosteneva che anche a Roma, alla Bnl di via Veneto, era stata utilizzata una miccia. Eppure, nel suo primo rapporto datato 16 dicembre, il Sid cita il timer e solo il timer, dando il proprio sigillo all'idea di una strage per errore, sostenuta nel tempo da Taviani e da Cossiga.
«Il timer, caricato prima dell'esplosione, dava modo di costruire il mito della strage preterintenzionale; la miccia invece consentiva al massimo pochi minuti di ritardo tra l'accensione e lo scoppio, e decretava che chi aveva deposto la bomba sapeva, vedendo tutte le persone accanto a sé, che avrebbe sterminato tanti innocenti». I timer usati il 12 dicembre erano timer particolari, a deviazione: «L'ideale per costituire una vera e propria trappola».
Poiché erano gli unici con le manopole e i dischetti conta-minuti intercambiabili. Scrive il libro che Franco Freda si procurò timer in deviazione sia da 60 che da 120 minuti: «Se Freda avesse montato una manopola da 120 su un timer che avrebbe corso solo per 60 minuti, chi doveva deporre la bomba avrebbe immaginato che sarebbe esplosa a banca ormai deserta».
Tra i reperti individuati dal perito Teonesto Cerri, il primo a entrare nel salone devastato della Banca, c'erano frammenti del materiale di rivestimento e frammenti della struttura metallica: «Entrambi indicano che in quel salone sono esplose due borse». Una di similpelle nera, marca Mosbach&Gruber, e una di cuoio marrone. Ma quest'ultima borsa «scompare». Forse per un errore dei magistrati che aprirono la pista nera: «Tutto fu condizionato dalla scoperta che il 10 dicembre 1969 a Padova, la città di Freda, erano state vendute quattro borse Mosbach&Gruber, dello stesso modello ritrovato alla Commerciale», dove il 12 dicembre fu scoperta una bomba inesplosa.
«Tutte in similpelle». I magistrati che puntavano a incastrare i fascisti Freda e Ventura cercarono in ogni modo di ravvisare nei reperti proprio quelle quattro borse. «Alessandrini e Fiasconaro avanzarono il dubbio che potessero esserci state due borse e due bombe; tuttavia, condizionati dall'acquisto di Padova, scartarono l'ipotesi».
Il perito Cerri identificò subito la presenza di nitroglicerina e di binitrotoluolo, tipico degli esplosivi al plastico. Più tardi, nel determinare con il collegio dei periti il tipo di esplosivo più probabile, si concentrò su due gelatine dinamiti. In sintesi: «In piazza Fontana abbiamo due borse con due bombe. Nella prima, accanto alla cassetta con candelotti e timer, è stato collocato un detonatore esterno. La seconda bomba fu attivata non con un timer ma con un accenditore a strappo, che ha dato il via a una miccia. Grazie al detonatore esterno aggiunto alla prima borsa, la seconda bomba per simpatia fa esplodere anticipatamente anche l'altra: creando una devastazione di potenza doppia».
Ma chi avrebbe messo le due bombe? «Le due bombe furono poste da gruppi diversi. La prima - che doveva esplodere a banca chiusa, come fatto dimostrativo - fu collocata da mano anarchica ma 'teleguidata' da Freda e Ventura; la seconda, che doveva trasformare la prima in un'arma letale, fu predisposta e sistemata da mani fasciste. Ma tutto fu calcolato perché la firma risultasse inequivocabilmente di sinistra".
La «mano anarchica» sarebbe proprio quella di Pietro Valpreda. «Il 12 dicembre furono due i taxi sospetti che arrivarono in piazza Fontana. Sul primo c'era Valpreda, anarchico con ambigue amicizie tra i fascisti romani»; e c'era Cornelio Rolandi, il tassista che lo riconobbe.
«Sull'altro taxi c'era un uomo di destra che a Valpreda rassomigliava molto. Tutto, attraverso i depistaggi, fu predisposto perché il taxi diventasse uno solo, come una sola doveva essere la bomba». Il libro ipotizza che l'uomo del secondo taxi possa essere Claudio Orsi, amico di Freda (una foto mostra la somiglianza con Valpreda).
Era stata la difesa dell'anarchico a parlare per prima di un «sosia». In genere, però, la versione di Valpreda appare costellata di bugie: il libro sostiene che l'anarchico ha mentito sul suo pomeriggio del 12 dicembre, sulla sua fantomatica influenza, sul viaggio a Roma, sul cappotto datogli dai parenti subito dopo la strage per cambiare immagine in vista di un possibile arresto. «Tutte le bugie profuse da lui e dai suoi parenti portano a ritenere che Valpreda abbia collocato la sua bomba a piazza Fontana».
Il libro riporta la foto inedita di uno dei manifesti trovati il 12 dicembre, «ricalcati» sui manifesti del Maggio francese: «Parte del piano studiato da servizi segreti per attribuire la strage alla sinistra», e in particolare a Giangiacomo Feltrinelli. Il magistrato Paolillo si ricorda bene del manifesto. Ricorda anche di averlo autenticato, e testimonia che fin da subito c'era chi aveva capito che la provenienza di quei manifesti era di destra, legata all'Oas e all'Aginter Press. Capo militare dell'Aginter era Yves Guérin-Sérac, tra i fondatore dell'Oas, citato nell'informativa del Sid del 16 dicembre come mente degli attentati, ma definito «anarchico».
L'incaricato alla diffusione di manifesti e volantini anarchici era a Milano Pino Pinelli, scrive il libro, ipotizzando che fossero proprio questi i manifesti trovati dal capo dell'ufficio politico Antonino Allegra addosso a Pinelli.
L'alibi di Pino Pinelli per il 12 dicembre - sostiene il libro - non regge. Pinelli tace sull'incontro con Nino Sottosanti, uno degli estremisti di destra infiltrati nei circoli anarchici; mentre «racconta un incontro con i due fratelli Ivan e Paolo Erda, che non esistono». Nella notte in cui cade nel cortile della questura, Pinelli è sotto torchio non per piazza Fontana, ma per altre bombe. Quelle del 25 aprile, di cui Antonino Allegra gli chiede conto, attorno alle 23 e 30, citando come fonte altri anarchici, informatori della polizia. E altre due bombe presto scomparse dalle inchieste, trovate quel 12 dicembre a Milano, presso una caserma e il grande magazzino Fimar di corso Vittorio Emanuele. Il libro ipotizza che Pinelli avesse «qualcosa di ben preciso da nascondere: il fatto che quel 12 dicembre si era mosso per bloccare le due bombe milanesi 'scomparse' che gli anarchici avevano preparato ».
Cucchiarelli riporta la testimonianza di Antonino Allegra al direttore dell'ufficio affari riservati Federico Umberto D'Amato - divenuta accessibile nel 1997 però «mai rivelata ai magistrati e mai presa in considerazione finora in un'inchiesta» -, secondo cui Pinelli era caduto di spalle. Testimonianza che il libro incrocia con una delle ricostruzioni esaminate dal magistrato D'Ambrosio, prima di approdare alla conclusione del malore attivo: «Un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo che ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto».
La posizione di spalle spiegherebbe il dettaglio delle suole delle scarpe - l'ultima immagine di Pinelli che tutti i testimoni ricordano -, l'assenza di slancio e la caduta radente al muro, dinamica confermata dal giornalista dell'Unità che assiste alla scena dal basso. E il gesto di difesa, ipotizza il libro, potrebbe essere stato compiuto nei confronti di Vito Panessa, il brigadiere che andava incalzando Pinelli sulle altre bombe; «colui che nelle testimonianze ai processi si inceppò, contraddisse, ingarbugliò in maniera più marchiana».
LA PISTA NERA.
Pino Nicotri su blitzquotidiano.it il 13 dicembre 2019. In occasione del 50esimo anniversario della strage milanese di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e delle bombe fatte esplodere in contemporanea anche a Roma sono stati pubblicati libri e inchieste giornalistiche riassuntive riguardanti sia la strage e le altre bombe di quel giorno sia il contorno che le aveva precedute nel corso dell’anno. Con l’occasione, ho deciso di ripubblicare il libro Il Silenzio di Stato che ho scritto nel ’72 e che condusse i magistrati a scoprire finalmente che la verità era a Padova. Per essere reperibile in tempo per il 12 dicembre il libro Silenzio di Stato l’ho pubblicato con Il Mio Libro, di Kataweb, con una nuova copertina che ricalca quella originale. Il libro è ordinabile online o nelle librerie Feltrinelli con il codice ISBN 9788892364189. La riedizione l’ho arricchita con una sostanziosa e DOCUMENTATA introduzione, che spiega meglio varie cose alla luce di quanto avvenuto dal ’72 ad oggi. Nei vari libri in uscita in occasione del 50esimo quell’episodio cruciale è citato solo dal magistrato Guido Salvini, nel suo libro recentissimo intitolato La maledizione di Piazza Fontana: l’unico che ha fatto rilevare un particolare tanto strano quanto grave, del quale parleremo tra poco. Vediamo cosa è successo a suo tempo. Intanto notiamo che le bombe erano contenute tutte in borse di similpelle della ditta tedesca Mosbach&Gruber, particolare accertato grazie al fatto che un ordigno, quello piazzato nella filiale della Banca Commerciale (Comit) in piazza della Scala a Milano, non era esploso ed era stato ritrovato pertanto intatto, alle 16:25, compresa la borsa che lo conteneva. Borsa che risulterà identica a quelle contenenti gli altri ordigni, tutte caratterizzate dalla chiusura laterale metallica di colore giallo recante impresso il disegno del profilo di un gallo: il logo della ditta tedesca Mosbach&Gruber. La borsa conteneva una cassetta metallica marca Juwel, che a sua volta conteneva l’esplosivo fortunatamente non esploso. Pochi minuti dopo tale rinvenimento in piazza della Scala un altro ordigno composto da circa sette chili di esplosivo saltava in aria, alle 16:37, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La più grave strage italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dai reperti rinvenuti sul luogo della strage di Milano i periti hanno potuto stabilire che la bomba era contenuta in una cassetta metallica marca Juwel nascosta in una borsa di similpelle marca Mosbach&Gruber. Gli inquirenti e quindi i giornali e la Rai, all’epoca le radio e le tv private non esistevano ancora, sostennero immediatamente e in coro compatto che quel tipo di borse erano in vendita solo in Germania e che in Italia non se ne trovavano. Un modo per insinuare che gli anarchici subito accusati della strage non fossero un gruppo di balordi milanesi e romani, ma avessero invece ramificazioni e rapporti con altri Paesi, quanto meno con anarchici e terroristi tedeschi. Una versione pubblica durata ben 33 mesi, vale a dire poco meno di tre anni. La strage era avvenuta nel pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969. Ma solo dopo il 10 settembre del 1972, cioè dopo ben tre anni meno tre mesi, si scoprirà che la vulgata delle Mosbach&Gruber inesistenti in Italia era assolutamente e sfacciatamente falsa. E che erano sicuramente in vendita in almeno due negozi della città di Padova. Uno dei negozi padovani aveva venduto a un unico acquirente proprio quattro borse di quel tipo due giorni prima della strage. E la commessa che le aveva vendute, signora Loretta Galeazzo, era corsa a dirlo in questura non appena aveva appreso dalla Rai e dai giornali i particolari del ritrovamento nella filiale della Banca Commerciale. A riconoscere Freda era stata anche la collega della Galeazzo in valigeria, che aveva chiacchierato con l’acquirente mentre un commesso andava a prendere dal deposito le altre tre borse. E quando a Padova hanno arrestato per istigazione dei militari all’eversione Giorgio Franco Freda, neonazista di Ordine Nuovo, la stessa commessa è corsa di nuovo in questura per dire che dalle immagini in televisione e sui giornali locali aveva riconosciuto in Freda la persona che aveva comprato le borse. Due testimonianze che avrebbero potuto far arrestare gli autori della strage nel giro di pochi giorni. E che invece sono sparite…Questa assurda negligenza del mondo dell’informazione giornalistica è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di diventare giornalista. Ero uno studente di Fisica, fuoricorso perché per studiare e campare facevo vari lavori saltuari, ero il presidente dell’Assemblea d’Ateneo e abitavo dal ’65 o dal ’66 in un appartamento di cinque stanze più bagno e cucina, preso in affitto all’ultimo piano di via Oberdan 2, in pieno centro storico di Padova, affianco al famoso caffè Pedrocchi. La stanza più grande la utilizzavo come ufficio, non aperto al pubblico, dell’Italturist, l’agenzia turistica del PCI specializzata in viaggi soprattutto di gruppo nei Paesi comunisti dell’est europeo. Due stanze le avevo affittate a due studenti di Treviso: Giorgio Caniglia, che studiava Ingegneria, e Carla, che studiava Lettere. Il venerdì nel primo pomeriggio se ne tornavano entrambi a casa dei rispettivi genitori a Treviso, cosa che fecero anche quel venerdì 12 dicembre della strage, per tornare a Padova la domenica sera, cosa che fecero anche la domenica successiva alla strage, cioè il 14 dicembre sera. Sabato pomeriggio sono arrivati a casa mia i carabinieri con tre mandati di perquisizione, uno per me, uno per Giorgio e uno per Carla, assenti perché andati a casa loro a Treviso come sempre per il fine settimana. Il giorno dopo, sabato 13 dicembre, in serata sono poi arrivati come al solito anche Giorgio e Carla. Appena entrato in casa Giorgio mi ha mostrato la sua borsa di similpelle nera, quella che usava ogni giorno anche per andare a lezione e che avevo visto in varie occasioni dentro e fuori casa. Con una mano me la mise davanti agli occhi dal lato della chiusura di metallo e con l’altra mi indicò il disegno che ne caratterizzava la borchia: era il disegno di un gallo preso di profilo. Era cioè proprio il logo delle Mosbach&Gruber. Poi Giorgio mi disse: “Non capisco perché radio, televisione e giornali dicono tutti in coro che queste borse in Italia non si trovano. Io l’ho comprata qui a Padova”. Ho detto a Giorgio: “Beh, domattina va in questura, mostra la borsa e racconta dove l’hai comprata. Così, se non ti arrestano accusandoti della strage, capiscono che in Italia si vendono. E che si vendono anche a Padova, dove c’è quel gruppo di fanatici nazifascisti capitanato da Giorgio Franco Freda e Massimiliano Facchini con base alla libreria Ezzelino di via Patriarcato”. Lunedì sera Giorgio mi ha raccontato che era uscito di casa poco dopo le 10 con la sua borsa per andare a farla vedere in questura, distante più o meno 200 metri, ma dopo pochi passi aveva incontrato un poliziotto della squadra politica della questura, quello che era solito tenere d’occhio l’area del caffè Pedrocchi e del Bo, compreso il portone di casa nostra, e di avere mostrato subito a lui la borsa e il logo della Mosbach&Gruber. Ricevendone come tutta risposta un ben strano: “Ah, ma ormai non ci interessa, sappiamo già chi è il colpevole, uno di Milano”. Se il poliziotto fosse stato meno menefreghista e più professionale i colpevoli della strage e delle altre bombe del 12 dicembre, oltre che degli altri mesi dello stesso anno, potevano essere individuati nel giro di 48 ore. Ripeto: a quell’epoca ero studente universitario e il giornalismo non sapevo neppure cosa fosse. Inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare a quell’epoca obbligatorio, era detto “nàia”, motivo per cui temevo che se avessi reso pubblico a gran voce, magari con una apposita assemblea d’Ateneo, lo scandaloso falso delle borse tedesche introvabili in Italia e annesso menefreghismo del commissario della squadra politica, sarebbe potuto capitarmi per vendetta di un qualche apparato statale qualcosa di grave durante la nàia. Decisi così di restare zitto, aspettare di fare il servizio militare, che all’epoca durava 18 mesi, e di scrivere solo in seguito un libro per raccontare come a Padova Freda e i suoi erano stati protetti sistematicamente da organi dello Stato, fino all’iperbole del falso sulle borse introvabili in Italia e del rifiuto del funzionario della squadra politica di prendere in considerazione quanto gli aveva detto e mostrato il mio amico e inquilino Giorgio. Il libro volevo intitolarlo significativamente Il Silenzio di Stato. E poiché ero ben lontano dal pensare di poter fare il giornalista decisi di non firmarlo col mio nome, ma come Comitato di Documentazione Antifascista di Padova, che in realtà ero pur sempre io. Col mio nome mi sarei limitato a formare la poesia che avevo composto per dedicare il libro a quattro miei amici. E in effetti, finito il servizio militare, iniziato a metà del ’70 e concluso verso la fine del ’71, mi sono messo all’opera raccogliendo anche materiali d’archivio della stampa locale riguardanti i rapporti Freda/magistratura/polizia/carabinieri, uno strano suicidio probabile omicidio, altri attentati nel corso del ’69 e molto altro ancora. Ad agosto del’72, ormai ben documentato e pronto a scrivere, mi sono ritirato nella isolatissima casa di montagna dei miei suoceri vicino a Gallio, poco più di mille metri di altezza sull’altipiano di Asiago. Tramite la moglie di un giovane docente universitario, andata per qualche giorno da amici a Roma, la notizia che stavo preparando un libro sulle bombe del 12 dicembre ’69 è arrivata alle orecchie di Mario Scialoja, giornalista del settimanale L’Espresso, già molto famoso. Stavo lavorando nel silenzio più assoluto al terzo piano della casa, un pezzo di casera di montanari in un posto isolato, quando verso le 11 ho sentito arrivare dall’ingresso e cucina al pian terreno un baccano di porte aperte e richiuse con forza e sedie spostate senza tanti complimenti. Mi sono affacciato piuttosto allarmato alla tromba delle scale e ho visto un signore trafelato, con barba biondastra e un grande naso rosso come un pomodoro, che guardando in alto mi gridava:
“Buongiorno! Sono il giornalista Mario Scialoja, del settimanale L’Espresso”.
“Buongiorno! Io sono Napoleone Bonaparte. Mi dica”
“Ma io sono davvero Mario Scialoja!”.
“E io sono davvero Napoleone Bonaparte. Osa forse mettere in dubbio la mia parola, qui in casa mia? Guardi che la caccio via. Perché è entrato, facendo ‘sto fracasso? Cosa vuole?”.
“Cerco Pino Nicotri, che mi hanno detto sta scrivendo un libro anche con la storia delle borse delle bombe del 12 dicembre ’69, borse che a quanto pare lui sostiene si vendessero anche a Padova”.
La mia lunga amicizia fraterna con Mario e il mio inopinato ingresso nel giornalismo sono iniziati così.
Sempre correndo come un pazzo e bevendosi una dozzina di tornanti in discesa come fossero tutti rettilinei, Mario mi ha portato a Treviso, dove a casa sua Giorgio mi ha venduto per 5.000 lire la borsa. E così l’ho regalata a Mario perché la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio, che in veste di giudice istruttore a Milano conduceva l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana senza risultati apprezzabili. Ringraziandolo calorosamente, ha ricevuto la borsa dalle mani di Mario già il mattino successivo, 2 settembre.
Mario nel numero de L’Espresso datato 10 settembre ha pubblicato il grande scoop che raccontava della consegna della borsa al magistrato e di come ne avesse avuto notizia dal sottoscritto.
D’Ambrosio inviando a Padova a fare ricerche il maresciallo dei carabinieri Sandro Munari poteva finalmente scoprire dove erano state vendute le borse utilizzate per trasportare e nascondere le bombe del 12 dicembre ’69. Scoperta clamorosa, che non solo ha fatto crollare rumorosamente la pista anarchica di Valpreda&Co, ma che ha anche permesso di scoperchiare l’incredibile verminaio delle protezioni statali a favore di Freda&Co, arrivate a fare scomparire non solo le due testimonianze della commessa della valigeria Al Duomo. E io finalmente pubblicai, con Sapere Edizioni, il libro. Con il titolo che avevo in mente da tempo: Il Silenzio di Stato. Conservo ancora alcune copie del libro con la dedica di Valpreda, che venne a Padova per la presentazione del libro e che non ha mai smesso di ringraziarmi.
Per risparmiare sulle tasse il libro è stato edito come numero del periodico InCo, acronimo di Informazione e Controinformazione, periodico registrato presso il tribunale di Milano, avente come editore Sapere Edizioni e come direttore responsabile un sindacalista, non ricordo se della CISL o delle ACLI. Il fatto che fosse stato pubblicato come periodico mi ha infine convinto a farmi rilasciare dal direttore responsabile la dichiarazione firmata che tutti i singoli capitoli erano miei articoli e che mi erano stati pagati.
E’ stato così che quando mi sono iscritto come pubblicista all’albo dei giornalisti ho allegato anche quelli – vale a dire, tutti i capitoli de Il Silenzio di Stato – assieme ai vari articoli pubblicati su giornali veri negli ultimi 24 mesi prima della domanda di iscrizione. Ho voluto che fosse documentato in modo incontrovertibile, anche per tabulas e non solo per la firma della mia poesia di dedica ai miei amici, che quel libro era totalmente ed esclusivamente frutto del mio lavoro.
Senato della Repubblica Camera dei deputati XIII LEGISLATURA DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI - DOCUMENTI IL SUICIDIO DI PINELLI
Senato della Repubblica Camera dei deputati: I depistaggi intorno alla vicenda di Piazza Fontana si possono considerare articolati in tre fasi. Una prima fase in cui si sono di fatto bloccate e circoscritte le indagini indirizzate verso gli «anarchici» e si sono confuse le acque, rendendo impossibile risalire alla verità su ciò che è realmente accaduto a Piazza Fontana: verità che, proprio per l'inquinamento del quadro investigativo determinato fin dalle prime battute, forse non conosceremo mai. Una seconda fase in cui si è costruita, spesso con dei passaggi assolutamente artificiosi, la «pista nera». Una terza fase, a partire dai primi Anni '80, che ha visto l'utilizzo dei pentiti a sostegno del teorema giudiziario. A questa terza fase, purtroppo, sembra non essere estraneo, a trentun anni di distanza, nemmeno il processo attualmente in corso a Milano.
Come è morto Giuseppe Pinelli? E' impensabile poter risolvere il rebus di Piazza Fontana fino a quando non si darà una risposta accettabile a questa domanda, che è il «grande buco nero» dell'inchiesta sulla strage, insieme alla latitanza di Giangiacomo Feltrinelli. Giuseppe Pinelli, anarchico del circolo milanese Ponte della Ghisolfa, amico o ex amico di Pietro Valpreda, dieci minuti prima della mezzanotte del 15 dicembre 1969 precipita dalla finestra della questura di Milano. Si era appena concluso il primo e unico interrogatorio condotto dal commissario Luigi Calabresi, che però al momento del fatto non è nemmeno presente nella stanza: è andato nella stanza del capo dell'Ufficio, Antonino Allegra, per portargli il verbale d'interrogatorio. Eppure, nonostante questa circostanza sia nota da subito, per anni Calabresi sarà accusato di essere il responsabile dell' «assassinio» di Pinelli. Giuseppe Pinelli era l'unico, tra circa centoventi estremisti di destra e sinistra, convocati in questura a partire dal tardo pomeriggio del 12 dicembre, ad essere stato trattenuto in stato di fermo non per particolari volontà vessatorie della polizia o perchè vittima predestinata della macchinazione ordita dalla polizia ai danni degli anarchici, ma per un fatto molto più prosaico: il suo alibi per il pomeriggio della strage era risultato irrimediabilmente falso. Quando avviene l'interrogatorio nei suoi confronti non c'è alcuna accusa, non ancora almeno. L' ultimo interrogatorio di Pinelli basta leggere il relativo verbale è tutto incentrato sui suoi rapporti con Valpreda, sugli scatti di ira e di violenza che caratterizzano la personalità di Valpreda, sui motivi che nel movimento anarchico hanno provocato profonde diffidenze verso Pietro Valpreda negli ultimi mesi, da quando si è messo ad esaltare l' «azione diretta». Pinelli ha un rapporto preferenziale con l'Ufficio politico. Durante l'interrogatorio gli è stato consentito di modificare le sue dichiarazioni più volte, a tratti è apparso reticente, di certo è stato molto attento a non interpretare il ruolo del delatore ma anche a non fare ammissioni che possano essere compromettenti per lui. In quel momento è assolutamente plausibile ritenere, come ritiene l'Ufficio politico, che Pinelli per il suo ruolo ricoperto nel movimento anarchico è al centro di una fitta ragnatela di rapporti internazionali e gestisce i fondi «per le vittime politiche» ± possa sapere molto di più di quanto abbia dichiarato. Basterebbero questi dati di fatto e questa considerazione, facilmente riscontrabili, per comprendere come l'ultimo tra i protagonisti sulla scena ad avere qualche interesse ad eliminare Pinelli fosse proprio la polizia. Tutti i testimoni subito interrogati sulla sua morte, compresi i quattro brigadieri di polizia e il capitano dei carabinieri presenti nella stanza dove si trovava Pinelli, furono sostanzialmente concordi, a parte discrepanze superficiali giustificabili con la tensione e la concitazione del momento: Pinelli si è gettato dalla finestra.
Eppure appare perfino incredibile come da un lato si sia alimentata su notizie totalmente false una campagna di stampa per accreditare la versione di un «Pinelli suicidato dalla polizia», una campagna culminata con l'omicidio Calabresi e che ha compromesso probabilmente per sempre le indagini sulla strage di Piazza Fontana. Mentre dall'altro siano stati sistematicamente omessi, nascosti o distrutti tutti quegli elementi che confermavano l'ipotesi del suicidio di Pinelli, provocato dalla consapevolezza di essere stato coinvolto in un crimine orrendo, avvalorando così la pista anarchica. Tra le azioni umane, il suicidio è una delle più insondabili. Ma certo non si può non rimarcare come in un caso tanto clamoroso siano state ignorate circostanze che appaiono determinanti. Come ad esempio il fatto che, pochi istanti prima del tragico volo dalla finestra, nella stanza dove si trovava Pinelli era stata portata una cassetta portavalori di metallo, identica a quella utilizzata per la strage di Piazza Fontana e per il fallito attentato alla Banca commerciale. La circostanza è stata rivelata dal capitano dei carabinieri Savino Lograno, presente all'interrogatorio di Pinelli. Al processo per diffamazione intentato dal commissario Calabresi contro Lotta continua testualmente dichiarò: «Ero presente per seguire le indagini sulla strage ... Dalle 23 in poi non mi mossi più da quella stanza... Verso le 23 e 25, 23 e 30 entrò un altro brigadiere, quello con gli occhiali. Tornava costui da un'operazione di polizia concernente una cassetta di sicurezza prelevata in un paesino vicino Milano, cassetta che doveva servire per confrontare le schegge e il materiale repertato sul luogo di piazza Fontana e si allontanò per redigere la sua relazione...». Sentito nella stessa sede, il brigadiere con gli occhiali Pietro Mucilli dell'Ufficio politico, seppure non prodigo di particolari, ha confermato: «Entrai due volte nell'ufficio del commissario Calabresi. Una prima volta (saranno state le 23 e 40, 23 e 45) entrai nella stanza per deporre una borsa come al solito sul piano di un mobile che chiamiamo libreria... Mi soffermai per quattro, cinque, sei minuti per rileggere quanto avevo scritto nell'espletamento di un'operazione di polizia effettuata all'esterno». Quell'operazione di polizia effettuata all'esterno era consistita appunto nell'individuazione esatta ± nella mattina di quello stesso 15 dicembre ± del tipo di cassette metalliche usate negli attentati e nel prelevamento di alcuni esemplari nella fabbrica produttrice «Cesare Parma» di Lainate. Pietro Mucilli è morto circa vent'anni fa. Nè lui nè l'ex capitano dei carabinieri Savino Lograno tra le migliaia di testimoni sentiti che annovera l'inchiesta sulla strage sono mai stati interrogati nell'ambito delle indagini su Piazza Fontana. La stessa inchiesta sulla morte di Pinelli, sollecitata a furor di popolo dopo una prima archiviazione, per come si è articolata e per gli elementi inconsistenti su cui si è retta può essere considerata un depistaggio. Come è noto, nel 1975 il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio ha archiviato il caso, prosciogliendo il commissario Calabresi, i quattro brigadieri di polizia e il capitano Lograno presenti all'interrogatorio, formalmente incriminati - si badi bene - per omicidio volontario dall'autunno del 1971. Il giudice D'Ambrosio ha accolto le conclusioni univoche cui sono giunti periti diversi in epoche diverse: tesi dell'omicidio per la morte di Pinelli assolutamente impossibile perchè sul corpo non è stato trovato un solo segno di violenza che fosse possibile far risalire a prima della caduta; tesi del suicidio possibile ma ritenuta dal giudice improbabile «perchè Pinelli amava la vita». D'Ambrosio per spiegare le circostanze in cui è morto l'anarchico, ha optato per una spiegazione che non era tra le ipotesi sottoposte ai periti, ovvero il «malore attivo»: Pinelli è caduto dalla finestra della questura per una contrazione involontaria dei muscoli provocata dallo stress accumulato e dalla stanchezza. Si può credere al «malore attivo» e si può accettare come verità storica la verità giudiziaria. Oppure si può ritenere che sia necessario capire. Certo è che se da una parte la sentenza d'Ambrosio ha avuto il merito e il coraggio di restituire piena dignità ai funzionari di polizia, seppure post mortem nel caso di Calabresi, dall'altra ha sepolto per sempre il «caso Pinelli», sgombrando così da un ostacolo insormontabile il pieno dispiegarsi della pista nera. La morte di Pinelli, o meglio la gestione politica della sua morte, resta la chiave di volta di Piazza Fontana. L'altro grande mistero si chiama Giangiacomo Feltrinelli.
LA FUGA PROTETTA DI GIANGIACOMO FELTRINELLI Il 15 dicembre 1969, il giorno in cui scompare Giuseppe Pinelli, puntello fondamentale delle indagini sulla pista anarchica, non è un giorno qualsiasi ma ± a settantadue ore dalla strage ± le indagini sono ad una svolta. In mattinata è stato fermato Pietro Valpreda in base a due elementi, a dispetto di quanto ha affermato in tutto questo tempo la «vulgata», del tutto fortuiti e casuali: la segnalazione giunta dall'Ufficio politico della questura di Roma secondo la quale da qualche giorno Valpreda ha lasciato la capitale e si troverebbe proprio a Milano, e la testimonianza del tassista Cornelio Rolandi che dice di aver trasportato l'attentatore e che ritiene di identificarlo in Pietro Valpreda. Contro Rolandi, sindacalista della Cgil e con la tessera del partito comunista in tasca, si scatena un'opera di linciaggio bestiale (Rolandi morirà nel luglio 1971). A rendere credibile, perfettamente plausibile il suo racconto, è la testimonianza al di sopra di ogni sospetto del professor Liliano Paolucci: è stato lui che per primo e del tutto casualmente quella stessa mattina del 15 ha raccolto lo sfogo di Rolandi e lo ha invitato a rivolgersi alla polizia. Prova ne è il fatto che per anni le Br, nell'ambito della loro «controinchiesta» su Piazza Fontana, hanno custodito il nastro con la testimonianza registrata di Paolucci, poi ritrovato nel covo di Robbiano di Mediglia, di cui parleremo più avanti. Ma le indagini sugli «anarchici» devono aver fatto scattare sensori molto sensibili, se lo stesso giorno della scomparsa di un teste chiave come Pinelli si attiva un apparato in grado di esercitare una notevole influenza anche negli ambienti giudiziari. Il 15 dicembre il sostituto procuratore dott. Ugo Paolillo, senza motivare in alcun modo la propria decisione, respinge ± potremmo dire «d'ufficio» ± la richiesta, avanzata il giorno prima dalla questura milanese, di perquisire gli uffici dell'editore Feltrinelli. EÁ una richiesta tutt'altro che infondata: c'è la necessità di cercare eventuali volantini di rivendicazione, visto che in occasione di precedenti attentati anarchici compiuti a Milano volantini sono stati inviati all'Istituto Feltrinelli così come all'Istituto di studi sociali di Amsterdam, un centro di riferimento storico ± quest'ultimo ± per i gruppi anarchici di tutto il mondo. EÁ una «pista minore», ma che avrebbe potuto dare buoni frutti. Tanto più che recentemente, a distanza di decenni, secondo una pubblicistica più che attendibile si è saputo che l'Istituto di Amsterdam aveva sempre attirato l'interesse del Kgb. In pratica: inviare i volantini di rivendicazione a Feltrinelli e all'Istituto di Amsterdam era come fornire il calendario degli attentati anarchici disseminati in Italia. C'era anche un'altra ragione per interessarsi di Feltrinelli. Una ragione di carattere riservato ma che è stata resa nota e più volte ribadita da Massimo Pugliese, all'epoca responsabile del Centro di controspionaggio di Cagliari e che in quella veste si era interessato di Feltrinelli per i suoi progetti di abbinare Graziano Mesina e il banditismo sardo alla rivoluzione. Pugliese ha rivelato di aver appreso poco dopo la strage da una sua fonte, dimostratasi sempre attendibile e che per di più era uno dei più stretti collaboratori di Fetrinelli, che l'editore era coinvolto negli attentati del 12 dicembre. Come di consueto l'informazione fu girata al Ministero dell'Interno. Massimo Pugliese ovviamente si è assunto la responsabilità delle sue affermazioni ma, anche in questo caso, non è mai stato sentito dagli organi inquirenti. In ogni caso, in trent'anni non è mai stata fornita una spiegazione, umana prima ancora che giudiziaria e politica, al comportamento assunto da Feltrinelli immediatamente prima e soprattutto dopo la strage di Piazza Fontana. Giangiacomo Feltrinelli lascia Milano il 5 dicembre 1969, il giorno dopo essere stato interrogato dal giudice Amati nell'ambito del processo sui precedenti attentati anarchici (è accusato di falsa testimonianza) e dopo che proprio nel corso di quell'interrogatorio la sua posizione si è aggravata. Davanti al giudice l'editore non ha escluso di aver ricevuto volantini di rivendicazione delle bombe anarchiche ma ha affermato di «non poterlo sapere con precisione». Secondo le notizie di cui viene in possesso l'Ufficio Affari riservati, Feltrinelli si sarebbe imbarcato su un volo per l'Egitto: il che tra le tante versioni fornite renderebbe plausibile quella che lo vuole, quando scoppia la bomba nella Banca dell'agricoltura, ad Amman in un campo d'addestramento del leader palestinese George Habbash. Se l'assenza di Feltrinelli da Milano il giorno della strage sia una prova inconfutabile della sua innocenza oppure sia un alibi precostituito, è questione che non è mai stata affrontata. Subito dopo la strage Feltrinelli torna a Milano ed è un uomo sconvolto. Si rivolge agli ex comandanti partigiani, quelli che sono stati i capisaldi dell'apparato clandestino parallelo, come Cino Moscatelli (audizione dott. Allegra). Ma viene messo alla porta bruscamente. EÁ a questo punto che Feltrinelli si affida alla struttura occulta di Potere operaio per passare clandestinamente la frontiera con la Svizzera. E’ il primo gennaio 1970: da questo momento e fino alla notte fra il 14 e il 15 marzo 1972 (quando morirà a Segrate mentre sta innescando alcune cariche di esplosivo) Feltrinelli si muoverà sotto la copertura di almeno cinque identità false diverse e secondo le regole della clandestinità. Perchè uno degli uomini più ricchi del mondo dopo la strage di Milano si è dato alla latitanza, conclusa sotto il traliccio di Segrate? A questa domanda nessuna delle risposte date finora è credibile. Non è credibile la spiegazione della fuga per il timore di un imminente colpo di Stato: Feltrinelli aveva terminali molto attenti dentro Botteghe Oscure dove ± come vedremo presto ± non c'era alcun vero allarme per tale eventualità. Non è credibile che per quasi tre anni si sia dato alla latitanza perchè temeva che con Piazza Fontana si fosse messo in atto un complotto della polizia per colpire la sinistra, che lo si volesse «incastrare»: era un personaggio pressochè intoccabile e avrebbe potuto permettersi i migliori avvocati. Perché, da che cosa è fuggito Feltrinelli dopo il 12 dicembre 1969? Bisognerebbe chiedersi se la vera minaccia non sia apparsa a Feltrinelli l'ostracismo decretato dal partito dopo averlo messo al riparo dalle indagini su Piazza Fontana: nessuno come lui, sulla base di una consuetudine pluridecennale con le operazioni riservate e con l'apparato occulto del partito, sapeva che fuori da quell'ombrello protettivo era un bersaglio fin troppo facile. Una vittima predestinata. Qualche barlume in più può venire dal verbale della riunione tenuta dalla Direzione del Pci il 19 dicembre 1969, sette giorni dopo la strage di Piazza Fontana.
LA RIUNIONE DEL PCI DEL 19 DICEMBRE 1969 Il verbale della riunione tenuta dalla Direzione del Partito comunista italiano il 19 dicembre 1969 e presieduta da Enrico Berlinguer è stata acquisita dal professor Aldo S. Giannuli nell'ambito della perizia disposta dal giudice Guido Salvini. è un documento di eccezionale valore storico e politico. Ma sul piano giudiziario non ha avuto alcun effetto, non ha suscitato nessuna considerazione neppure nel ventilare lo scenario storicopolitico dell'epoca come è inevitabile in questo genere di procedimenti. Sono due le parti che colpiscono maggiormente in questo documento. Una è quella che potremo definire la «doppia verità» di cui, attraverso la propria rete informativa, è entrato in possesso il partito dopo la strage e che provvederà a tenere nascosta. Il condirettore dell'Unità Sergio Segre, chiamato alla riunione per riferire le informazioni «non ufficiali» da ritenersi più attendibili, l'esito di ciò che potremo chiamare la «controinchiesta» avviata dal partito sui fatti di Milano, riferisce il dialogo avuto con l'avvocato Guido Calvi, allora esponente del Psiup, e legale di Valpreda. Riferisce Segre: «Ieri sera ho parlato con un compagno del Psiup, Calvi. Calvi ha condotto una sua indagine parlando con gli amici del gruppo "22 marzo". L'impressione è che possono averlo fatto benissimo. Gli amici hanno detto: dal nostro gruppo sono stati fatti attentati precedenti. Ci sono contatti internazionali. Valpreda ha fatto viaggi in Francia, Germania, Inghilterra. Altri hanno fatto viaggi in Grecia. Alle spalle cosa c'è? L'esplosivo costava 800 mila lire e c'è uno che fornisce i quattrini. I nomi vengono fatti circolare». Chi è quel qualcuno che fornisce i quattrini? Pensare a Feltrinelli è fin troppo ovvio. «L'avvocato va a rassegnare il mandato dopo un colloquio con Valpreda». Interpellati recentemente, Sergio Segre e il senatore Guido Calvi hanno risposto: il primo che «se quelle cose sono scritte sul verbale è perchè Calvi me le ha dette»; il secondo: «non fui io ± all'epoca non ero nemmeno iscritto al Pci ± a riferire quelle informazioni ma probabilmente si tratta di notizie raccolte dalla Federazione del partito». Ma non è questo l'aspetto determinante. Ciò che colpisce è l'esistenza di una «doppia verità»: una «verità riservata» ai vertici del partito, nella quale i sospetti su chi ha compiuto la strage coincidono largamente con i primi risultati delle indagini della polizia, e una «verità pubblica» con la quale l'Unità indicherà sin dalle ore immediatamente successive alla strage nei neofascisti, nei golpisti, nelle trame nere, nelle connivenze dei servizi deviati, dei colonnelli greci e della Cia i responsabili. Nessuno dei partecipanti alla riunione della Direzione del Pci è mai stato sentito dall'autorità giudiziaria.
Ma di gran lunga più importante è quanto ebbe a dichiarare Enrico Berlinguer, insieme alla lucidissima analisi politica da lui tracciata nel corso della riunione. Berlinguer comunica ai presenti: «Ci possiamo muovere su basi sicure per quanto riguarda le ripercussioni politiche. La campagna di esasperazione della destra finora ha avuto un risultato abbastanza limitato». A sette giorni della strage, dunque, c'è la certezza che non è in atto alcun complotto per colpire, attraverso gli arresti degli anarchici, «il partito e tutta la sinistra». In questo senso, come ha ricordato nella sua audizione davanti alla Commissione stragi il sen. Luciano Barca, a Botteghe Oscure erano state fornite precise garanzie dal ministro dell'Interno Restivo. Per quanto la posizione di Berlinguer sia improntata alla massima cautela («può essere stato un gruppo molto ristretto di fanatici; può essere valida l'ipotesi che si sia trattato di un anello di un vero e proprio complotto reazionario...»), per quanto sia viva la preoccupazione per una situazione tutt'altro che chiara, tra le preoccupazioni che nutrono i vertici del partito non vi è traccia di un ipotetico colpo di Stato. Cadono così i due alibi ± «il complotto contro la sinistra e il Pci» e «il pericolo di un colpo di Stato» ± avanzati per trent'anni per giustificare comportamenti e condotte equivoci, se non addirittura compromettenti, come appunto la «latitanza» di Giangiacomo Feltrinelli. Più viva di quella per un colpo di Stato, è certamente la preoccupazione che, a Milano soprattutto, le indagini possano coinvolgere militanti del partito e qualche frangia dell'apparato occulto. «C'è una tendenza per ora alla generalizzazione delle indagini che, in certi luoghi, riguardano nostri compagni...» riferisce Sergio Segre. EÁ questa preoccupazione che induce i dirigenti del partito a ritenere che sia opportuno accentuare la distanza e la polemica con i gruppi della sinistra extraparlamentare. Per il resto le valutazioni espresse nella riunione, che meriterebbero una ben più approfondita analisi politologica e storiografica, mettono in luce come dall'eccidio della Banca dell'agricoltura non venga minimamente scalfita ma anzi sia accentuata l'aspettativa di vedere riconosciuto un ruolo maggiore al Pci, grazie alla spinta impressa dalla «stagione delle lotte», e l'attesa di un rapido ingresso del partito nel governo attraverso l'accordo con la «parte più avanzata» della Dc. EÁ un traguardo, quello dell'ingresso del Pci al governo, che viene addirittura previsto da Giorgio Amendola «nel quadro di una campagna elettorale». E’ nei giorni immediatamente successivi alla strage della Banca dell'agricoltura che si sperimenta l' «antifascismo» come collante capace di orientare nuovi assetti e di condizionare il quadro politico. Con una sintesi forse approssimativa e un po' rozza ma non lontana dal vero si può affermare che la strage di Piazza Fontana ha tenuto a battesimo il primo vagito del compromesso storico.
I DEPISTAGGI DELL'OBSERVER La relazione precedentemente ricordata afferma che l'espressione "strategia della tensione" «si affacciò in un articolo di Leslie Finner, sull'Observer del 7 dicembre 1969». Non è esatto. La precisazione non vuole essere una manifestazione di pedante puntigliosità. Ma è doverosa perchè altrimenti così facendo, cioè anticipando di una settimana il debutto effettivo del termine, forse non si percepisce in tutta la sua portata e gravità questo depistaggio riferibile ad «ambienti informativi» di un Paese amico come è la Gran Bretagna. L'espressione «strategia della tensione» non compare il 7 dicembre 1969 ma sul numero del settimanale inglese Observer in edicola il 14 dicembre 1969: due giorni dopo la strage avvenuta a Milano alle 16 e 35 del 12 dicembre. La collocazione temporale ha ± lo vedremo subito ± la sua importanza. Il 7 dicembre 1969 è la prima puntata di questa massiccia operazione di disinformazione. A firma del corrispondente Leslie Finner viene pubblicato un presunto rapporto dell'ambasciata greca in Italia al ministero degli Esteri ellenico in cui si afferma che tutti gli attentati avvenuti in Italia sono opera di neofascisti; si fa riferimento ad un complotto orchestrato tra gli ambienti militari e della destra italiana e la «giunta dei colonnelli» al potere in Grecia per determinare un colpo di Stato in Italia, al ruolo del misterioso «signor P.» tramite tra i golpisti italiani e i greci. Il documento è palesemente un falso. Non verrà mai preso sul serio ± almeno questo ± in alcuna aula di giustizia, al contrario di quanto avverrà nelle redazioni e nelle case editrici. Il vero scopo di quell'articolo è racchiuso in due righe del supposto rapporto dei servizi greci, nelle quali si attribuisce ai neofascisti l'esecuzione degli attentati del 25 aprile 1969 (alla Fiera di Milano e all'Ufficio cambi della Stazione centrale), per i quali invece si trovavano in carcere alcuni membri della cellula milanese degli anarchici individualisti e le indagini avevano portato al coinvolgimento di Giangiacomo Feltrinelli. Che la pubblicazione dell'articolo sull'Observer coincida con la scomparsa di Feltrinelli da Milano e segua solo di pochi giorni il suo primo e unico interrogatorio a seguito del quale la sua posizione giudiziaria si è aggravata, non può che aggiungere ulteriori elementi di perplessità. La definizione «strategia della tensione» (in italiano nel testo) compare sull'Observer del 14 dicembre: responsabile della «strategia della tensione» è il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Saragat secondo l'Observer era la personalità che aveva riunito una coalizione politico-militare la quale, attraverso attentati e stragi per drammatizzare lo scontro sociale in atto nel Paese, avrebbe voluto determinare una svolta reazionaria. Che si indicasse nel massimo rappresentante della socialdemocrazia italiana, oltre che dello Stato italiano, il demiurgo di un progetto parafascista e di uno schieramento di estrema destra, avrebbe dovuto far sorgere qualche sospetto sulla reale provenienza e sui veri obiettivi di questa opera di disinformazione in due atti. Invece, per quanto possa sembrare pazzesco, la «strategia della tensione» ha continuato ad essere il principale schema con cui per trent'anni, con successivi aggiustamenti, abbiamo interpretato non solo Piazza Fontana ma l'intero fenomeno dello stragismo, e al quale fa sostanzialmente riferimento anche il processo in corso a Milano sulla strage alla Banca dell'Agricoltura. A questo punto è necessaria una piccola riflessione tecnica. La bomba di Piazza Fontana è esplosa alle 16 e 35 circa di venerdì 12 dicembre 1969. Tra quando è accaduto il fatto e l'uscita del settimanale, l'Observer ha avuto poco più di 24 ore per raccogliere le notizie di un articolo dettagliatissimo così ricco di informazioni e di particolari in esclusiva, redigere il servizio, andare in stampa e arrivare in edicola. EÁ almeno lecito avanzare l'ipotesi che a Londra e all'Observer si sapesse con un certo anticipo di quanto sarebbe accaduto. E’ inutile dire che nessuno degli autori ± escluso Leslie Finner «interrogato» con una rogatoria estremamente superficiale molti anni dopo quando si trovava a Washington è mai stato sentito come testimone. Ci sono da aggiungere altri due particolari. L'Observer non è un giornale scandalistico nè tanto meno è un giornale qualunque. Negli ambienti politici e diplomatici è considerato una voce governativa semi-ufficiale, tradizionalmente vicino al premier laburista. Ma l'Observer è anche il giornale occidentale in cui l'infiltrazione del Kgb ha raggiunto, forse, i livelli più alti. Sotto la copertura di corrispondente da Beirut agiva Kim Philby, ex vicecapo del controspionaggio britannico, prima di fuggire nel '63 a Mosca. Questi sono i fatti. Ci si può chiedere se il primo, devastante e irreversibile depistaggio su Piazza Fontana sia stato opera di qualche agente del Kgb che operava sull'Observer (esattamente come è avvenuto con L'Espresso per il Piano Solo). Oppure se a «pasticciare» intorno alla strage di Piazza Fontana e alle vicende immediatamente precedenti, inquinando la «scena del delitto», abbiano trovato una loro sintonia la rete spionistica sovietica e quella inglese. Nel novero delle ipotesi e degli scenari possibili, è bene ricordare, come fa l'elaborato presentato dal senatore Athos De Luca, che proprio nel dicembre 1969 gli inglesi vengono espulsi dalla Libia, perdendo basi militari importantissime, e si avvia il processo di indipendenza di Malta, a tutto vantaggio dei rapporti intrattenuti sia dalla Libia che da Malta con il nostro Paese. Il ministro degli Esteri dell'epoca si chiamava Aldo Moro.
LA FONTE «ANNA BOLENA» Nella precedente relazione («Per una rilettura degli Anni Sessanta») abbiamo visto come il procedimento a carico degli anarchici per gli attentati del 1963 a Milano non abbia avuto alcuno sviluppo fino a sfociare nella dichiarazione di non luogo a procedere nel 1975 ± dodici anni dopo ± per prescrizione del reato. Nell'inchiesta su Piazza Fontana è avvenuto di più e di peggio: ogni notizia che potesse dare impulso alla pista anarchica è stata semplicemente ignorata. Nessuno sviluppo ebbero in particolare le informazioni fornite dall'anarchico Enrico Rovelli, già arrestato nel 1963, in contatto con il commissario Luigi Calabresi con il nome di copertura «Luigi» e sotto lo pseudonimo «Anna Bolena» con il maresciallo Ermanno Alduzzi e per le questioni di maggior importanza ± con il dottor Silvano Russomanno, entrambi dell'Ufficio Affari Riservati. In particolare sulla strage di Piazza Fontana, «Anna Bolena» riceve le confidenze di Augusta Farvo, militante anarchica di vecchia data, punto di riferimento di tutti gli anarchici milanesi (a lei presso la sua edicola in via degli Osii nel cuore della città si rivolse ad esempio Gianfranco Bertoli, appena arrivato a Milano, il giorno prima di compiere la strage alla questura). «Anna Bolena» comunica regolarmente le notizie ottenute da Augusta Farvo ai suoi referenti della questura e dell'Ufficio Affari Riservati. Nell'informativa dell'8 gennaio 1971, redatta da Ermanno Alduzzi, si legge: «... (Augusta Farvo) assicura di essere a conoscenza che il Nino (ndr, Nino Sottosanti detto Nino il fascista) dopo il pranzo in casa Pinelli, tentò in tutti i modi di convincere quest'ultimo ad accompagnarlo in centro, ma che Pinelli rifiutò... L'Augusta avrebbe saputo questo dalla moglie del Pinelli. Questo categorico rifiuto del Pinelli a portarsi in centro, è interpretato dalla stessa come una conferma che il Pinelli stesso era a conoscenza di quello che doveva accadere e che preferiva rimanere al bar per l'alibi...». Nino Sottosanti il 12 dicembre 1969 si era incontrato a pranzo con Pinelli dopo che nei giorni precedenti davanti al giudice Amati aveva reso una testimonianza favorevole o compiacente che avrebbe dovuto suffragare l'alibi di Tito Pulsinelli. L'aver taciuto l'incontro con Sottosanti e l'alibi fornito per il pomeriggio della strage sono i motivi per cui Pinelli fu trattenuto in questura, e sono la causa indiretta della sua morte. EÁ dunque difficile ritenere irrilevante l'eventualità, espressa dalla moglie di Pinelli, che l'anarchico precipitato dalla finestra della questura fosse a conoscenza degli attentati che sarebbero avvenuti nel pomeriggio del 12 dicembre, e che per questo si fosse predisposto l'alibi del bar poi effettivamente risultato falso o quanto meno estremamente dubbio. Alla fine del dicembre 1969 Enrico Rovelli-«Anna Bolena» su incarico dell'Ufficio politico di Milano si recò a Parigi e a Bruxelles per avere informazioni nell'ambiente anarchico internazionale. Questo è l'esito di quel viaggio, riassunto nella «Riservata» del 17 gennaio 1970, a firma del questore Marcello Guida, inviata alla Direzione generale di Polizia-Divisione Affari Riservati: «A Parigi il fiduciario ha conosciuto negli ambienti anarchici uno spagnolo di circa 35 anni, che si fa chiamare "Andrè Calvajo"». «Andrè Calvajo» è il capo militare della FIJL, la Federazione iberica della gioventù libertaria. Di lui si conosce anche l'indirizzo parigino: boulevard la Villette 54. Ad «Anna Bolena» il compagno Calvajo «ha confidato di aver conosciuto molto bene Pinelli e di avergli spedito, a sua richiesta, del materiale esplosivo da inviare in Grecia. Detto materiale fu portato in Italia, probabilmente dallo stesso Calvajo, verso la fine dello scorso settembre». Ad «Anna Bolena» è stato descritto anche il percorso dell'esplosivo che da Milano avrebbe dovuto essere inviato a Roma e quindi in Grecia per un' «azione internazionalista» contro la giunta dei colonnelli. Da ciò si possono trarre le conclusioni che si ritengono più opportune. Ma non si può ignorare la straordinaria coincidenza tra le informazioni fornite da «Anna Bolena» e i reperti della cosiddetta controinchiesta Br su Piazza Fontana rinvenuti nel '74 nel covo di Robbiano di Mediglia, misteriosamente scomparsi 18 anni dopo e di cui parleremo tra poco. Dalle annotazioni in margine ad alcune delle informative provenienti da «Anna Bolena» si può arguire che tali informative furono trasmesse all'autorità giudiziaria di Milano che all'epoca indagava su Piazza Fontana. A proposito della mancata escussione come teste di Augusta Farvo per un periodo lunghissimo di tempo è significativa la lapidaria spiegazione che alla Commissione Stragi ha dato il dottor Antonino Allegra: «Se l'avessimo interrogata non ci avrebbe detto niente...». All'età di 85 anni Augusta Farvo è stata sentita per la prima e unica volta da un ispettore capo della Digos, su decisione della dottoressa Grazia Pradella, il 3 marzo 1997. Ma per le condizioni di salute estremamente precarie la Farvo, colpita da un ictus e semiparalizzata, è risultata essere ormai un testimone inutilizzabile. L'ex fonte «Anna Bolena» Enrico Rovelli sentito, sempre per iniziativa della dottoressa Pradella, il 15 aprile 1997 e il 12 maggio 1997 non solo ha confermato il contenuto di quelle vecchie informative ma ha potuto aggiungere ulteriori particolari. Tuttavia, come accade spesso in questi casi, una inopportuna fuga di notizie approdata al Corriere della Sera del 7 marzo 1998 relativa, si badi bene, non alle dichiarazioni di Enrico Rovelli ma al suo ruolo di «spia» al servizio degli Affari Riservati lo ha bruciato come teste, provocandogli danni pesantissimi nella sua attività di manager di cantanti famosi come Vasco Rossi e Antonello Venditti. Nell'occasione la dottoressa Pradella ha manifestato tutto il suo disappunto per la «fuga di notizie», definita un attacco alle indagini che stava svolgendo. Forse sarebbe risultata utile l'audizione della dottoressa Pradella davanti alla Commissione stragi.
LA PISTA NERA Non corrisponde assolutamente a verità, come pure è opinione diffusa, che la pista nera per la strage di Piazza Fontana sia emersa quando ad opera della «controinformazione» democratica fu sbugiardata la «montatura» della polizia e si rivelarono in tutta la loro inconsistenza gli elementi a carico degli anarchici. E’ vero esattamente il contrario. Sommessamente ma doverosamente è appena il caso di ricordare che le indagini sulla pista anarchica per la strage di Piazza Fontana furono condotte dal sostituto procuratore Vittorio Occorsio, magistrato integerrimo e senza pregiudizi ideologici, che ha pagato con la vita il suo rigore (assassinato per mano del neofascista Pierluigi Concutelli). La pista nera nasce pochi giorni dopo l'attentato alla Banca dell'agricoltura e per la precisione il 15 dicembre 1969, il giorno in cui muore Pinelli e il tassista Cornelio Rolandi si rivolge ai carabinieri per la sua prima testimonianza (il giorno dopo riconoscerà con assoluta certezza in Pietro Valpreda il presunto terrorista di Piazza Fontana). Poi cresce e si dilata parallelamente alla pista anarchica, ne diventa il suo doppio, vi si sovrappone fino a soppiantarla del tutto. Con una curiosa particolarità: la pista nera ha delle improvvise accelerazioni tutte le volte che l'inchiesta su Valpreda e gli anarchici arriva a delle svolte decisive (interrogatori degli imputati, richiesta di rinvio a giudizio, sentenza ordinanza di rinvio a giudizio, eccetera). Cinque istruttorie (divise tra Milano, Treviso, Roma e Catanzaro), otto processi, senza contare i pronunciamenti della Suprema Corte, sulla vicenda di Piazza Fontana hanno depositato un numero di documenti (nell'ordine di milioni di fogli) che nessuno eÁ in grado di indicare con precisione. Ed è questo forse il depistaggio più macroscopico. Ricostruire l'iter giudiziario della strage di Piazza Fontana è praticamente impossibile. Cercheremo ± nel limite del possibile ± di sintetizzare alcune delle fasi salienti. Il 15 dicembre 1969 il professor Guido Lorenzon, esponente della sinistra democristiana, si rivolge all'avvocato Stancanella (il primo incontro con il sostituto procuratore di Treviso Pietro Calogero ci sarà alla fine del mese) per riferirgli le confidenze ricevute da un suo amico, l'editore Giovanni Ventura, il quale gli ha confidato di essere coinvolto in alcuni attentati. Ma, oltre all'irrefrenabile desiderio di confidarsi con il suo amico Lorenzon, Giovanni Ventura risulterà avere un alibi di ferro per la bomba esplosa alla Banca dell'Agricoltura di Milano: il 12 dicembre era a Roma. Per avere un'idea della genesi della pista nera, è bene riportare le conclusioni a cui è giunta nel 1986 la Corte d'Assise d'Appello di Bari a proposito del prof. Guido Lorenzon «che scrivono i giudici nelle motivazioni in quelle tempestose giornate del gennaio 70 fece di tutto: accusò Ventura, ritrattò e mentre ritrattava raccolse ulteriori confidenze del suo interlocutore e tornò ad accusarlo». Pochi giorni dopo, il 19 gennaio 1970, il dott. Pietro Calogero trasmette a Roma, che indaga su Piazza Fontana (pubblico ministero Vittorio Occorsio, giudice istruttore Ernesto Cudillo), gli atti dell'inchiesta su Franco Freda e Giovanni Ventura. Nel carcere di Regina Coeli si sono da poco conclusi gli interrogatori decisamente poco favorevoli agli imputati ± di Pietro Valpreda, Mario Merlino, proveniente dall'estrema destra e presunto infiltrato, e degli altri anarchici del circolo «22 marzo». Da questo momento ci vorranno quasi tre anni di serrate indagini perchè nella strage di Piazza Fontana siano coinvolti i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura. Il giudice istruttore Ernesto Cudillo il 20 marzo 1971 ordina il rinvio a giudizio con l'accusa di strage per Pietro Valpreda, Mario Merlino, e due degli altri giovani anarchici in carcere. Il 12 aprile 1971 su mandato del giudice di Treviso Giancarlo Stiz scatta il primo arresto di Freda e Ventura: l'accusa è di «ricostituzione del partito fascista». La svolta decisiva alla pista nera è impressa da Alberto Sartori, ex comandante partigiano del Pci fino alla metà degli Anni '60, esponente di spicco del Partito comunista d'Italia marxista-leninista, che l'editore «neofascista» Giovanni Ventura ha voluto a tutti i costi a capo della sua azienda tipografica Litopress. Il 26 aprile 1971 Sartori spontaneamente si presenta dal giudice Stiz e consegna al magistrato alcuni «documenti riservati», veline dei servizi, di cui, sostiene, è in possesso Giovanni Ventura. Il principale artefice del decollo della pista nera merita un ritratto a sè, che forniremo nel prossimo capitolo. In realtà quei documenti, su esplicita richiesta di Giovanni Ventura, sono stati forniti ad Alberto Sartori dal «conte rosso» Pietro Loredan, anche lui con una buona fama di ex partigiano. EÁ con tutta evidenza una manovra che alla disinformazione unisce la provocazione. Di fatto costituirà la premessa attraverso il coinvolgimento dell'agente del Sid Guido Giannettini che di quei documenti eÁ l'estensore e il fornitore per arrivare al coinvolgimento dei vertici dei nostri servizi segreti e dei vertici militari nel processo di Piazza Fontana. Il 22 dicembre 1971 la magistratura di Treviso ordina un nuovo arresto di Freda e Ventura per le armi ritrovate casualmente durante i lavori di ristrutturazione in un appartamento di Castelfranco Veneto di proprietà di Gianfranco Marchesin, consigliere comunale socialista, che dice di aver custodito l'arsenale per conto dei fratelli Ventura. Ma perchè la pista nera approdi definitivamente alla strage di Piazza Fontana c'è bisogno di un ulteriore salto mortale. Il 4 marzo 1972 è arrestato Pino Rauti, membro della direzione nazionale del Msi, per decisione dei magistrati di Treviso. Le accuse nei suoi confronti sono le seguenti: aver partecipato ad una riunione che il 18 aprile 1969 si sarebbe svolta a Padova con Freda, Ventura e Merlino ed essere il misterioso «signor P.» citato dall'Observer come l'«ufficiale di collegamento» tra i golpisti italiani e i colonnelli greci. E’ in base ai loro rapporti con Pino Rauti che, finalmente, anche Freda e Ventura potranno essere ufficialmente incriminati per la strage di Piazza Fontana. C'è anche qui una coincidenza temporale con la pista anarchica? Certamente: il 28 febbraio 1972: si è appena aperto a Roma il processo contro gli anarchici per la strage, il 24 la corte si è dichiarata incompetente e ha rinviato gli atti a Milano. Anche gli atti di Treviso passano a Milano. I magistrati ± i sostituti procuratori Emilio Alessandrini, Luigi Fiasconaro e il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio ± scarcerano per assoluta insufficienza di indizi Pino Rauti, che sarà eletto deputato il 7 maggio, ma ritengono valide le accuse contro Freda e Ventura. Il 28 agosto 1972 il giudice D'Ambrosio firma i mandati di cattura contro i due per la strage di Piazza Fontana. Peccato che due giorni dopo il procuratore capo Enrico De Peppo, quale ultimo suo atto prima di andare in pensione, chieda che il processo su Piazza Fontana sia spostato ad un'altra sede per legittima suspicione: a Milano non ci sono le condizioni per garantire uno svolgimento sereno del giudizio. In ottobre la Cassazione opta per Catanzaro. Le coincidenze temporali non finiscono qui. La prima udienza presso la Corte d'Assise di Catanzaro del processo in cui sono imputati Pietro Valpreda e gli altri anarchici è fissata per il 18 marzo 1974. Il 18 marzo 1974, a conclusione dell'istruttoria milanese il giudice D'Ambrosio ha rinviato a giudizio per la strage di Piazza Fontana i «neri» Franco Freda e Giovanni Ventura. Su richiesta delle parti civili, il 18 aprile 1974 la Corte di Cassazione dispone l'unificazione dei due processi. Da questo momento sarà praticamente impossibile riafferrare il bandolo della matassa. Perchè quello che va in scena a Catanzaro e si conclude il 23 febbraio '79 è un giudizio monstre che si celebra a dieci anni dai fatti e nel quale non si processano i presunti responsabili dell'eccidio di Piazza Fontana e gli eventuali mandanti, se ci sono, ma si processano lo Stato italiano e la sua classe dirigente. Riassumiamo brevemente l'esito di questo primo iter giudiziario. Sentenza di primo grado: condannati all'ergastolo Franco Freda, Giovanni Ventura, Guido Giannettini; assolti per insufficienza di prove dall'accusa di strage Pietro Valpreda e Mario Merlino. Sentenza d'appello della Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro: assolti per insufficienza di prove Freda, Ventura, Giannettini, Valpreda e Merlino. Cosiddetta sentenza d'appello bis pronunciata nel febbraio '86 dalla Corte d'Assise d'Appello di Bari: riconferma dell'assoluzione per insufficienza di prove per tutti e anche per Valpreda nonostante che per lui fosse stata chiesta l'assoluzione con formula piena dall'accusa, che preannuncia ricorso. Nell'87 la Cassazione respinge tutti i ricorsi mettendo la parola fine a questo primo troncone giudiziario. Ma non sono finite le indagini su Piazza Fontana. Anche il processo d'appello bis è stato disturbato dall'ennesima istruttoria parallela - la quarta - che ha preso il via a Catanzaro mentre è in corso il processo presso la Corte d'Assise d'Appello di Bari e che rilancia la pista nera. Questa volta fanno il loro ingresso i «pentiti», tra cui Angelo Izzo (il massacratore del Circeo), Sergio Calore, Sergio Latini: tutti hanno esordito con le loro confessioni al processo per la strage di Bologna. Sulla base delle loro dichiarazioni vengono incriminati Massimiliano Fachini, quale esecutore materiale della strage di Piazza Fontana, e Stefano Delle Chiaie, quale mandante, leader di Avanguardia Nazionale. Entrambi saranno assolti non con formula dubitativa ma con formula piena il 20 febbraio 1989 in primo grado, il 5 luglio 1991 in appello.
LA PISTA ROSSA.
Strage piazza Fontana, 51 anni fa moriva l’anarchico Pinelli: “Continuare a chiedere verità”. A cura di Giorgia Venturini il 16 dicembre 2020 su fanpage.it. La notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 l’anarchico Giuseppe Pinelli morì in circostanze misteriose cadendo da una finestra della Questura di Milano. Ci entrò poche ore dopo la strage di piazza Fontana come sospettato: solo dopo anni si sapranno i veri nomi dei responsabili della bomba. Per una delle figlie del ferroviere anarchico, Silvia, il padre “fu ucciso nel momento in cui entrò nei locali della questura”. Il Comune di Milano lo ha ricordato con una targa come “la 18esima vittima di piazza Fontana”. A distanza di 51 anni la segretaria del Pd di Milano Silvia Roggiani scrive: “Ricordarlo significa continuare a chiedere verità su una pagina drammatica della nostra storia moderna”.
Cinquantuno anni di silenzi e misteri. Di accuse ingiustificate e di verità nascoste. Perché a distanza di tempo dalla morte di Giuseppe Pinelli tanti restano i dubbi e poche le certezze: quello che si sa è che l'allora 41enne anarchico entrò nella Questura di Milano il 12 dicembre del 1969 per morire la notte tra il 15 e il 16 dicembre, in circostanze mai chiarite, precipitando da una finestra della questura. Pinelli finì in manette poche ore dopo la strage di piazza Fontana dove morirono 17 persone e rimasero ferite altre cento per un'esplosione all'interno della Banca dell'Agricoltura. Per gli agenti di polizia i sospetti caddero subito sugli anarchici, in particolare su Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda: il primo morì tre giorni dopo, il secondo venne invece scagionato dalle accuse. Sarà poi la storia a fare emergere ben altri nomi e ambienti quali i veri mandanti della bomba di piazza Fontana: nel 2005 la Cassazione ha confermato che dietro la bomba all'interno della banca c'era il gruppo eversivo di estrema destra Ordine Nuovo, guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura. Entrambi, nonostante la sentenza all'ultimo grado di giudizio, non vennero processati in quanto già irrevocabilmente assolti dalla Corte d'assise d'appello di Bari. Chi fisicamente mise la bomba, invece, resta uno dei tanti misteri italiani.
Per la giustizia il caso di Pinelli venne archiviato con un secco "ucciso da un malore attivo": ma per Silvia, una delle due figlie, la versione dei fatti è un'altra: "Pino era un anarchico e una staffetta partigiana. Era un ferroviere che venne ucciso nei locali della questura di Milano – ha ribadito in un'intervista a Fanpage.it -. Fu ucciso nel momento in cui entrò quel 12 dicembre nei locali della questura e ne uscì, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre". Da allora la famiglia di Pinelli ha sempre chiesto verità su quanto accadde veramente quella notte.
Per il Comune di Milano Pinelli è la 18esima vittima di piazza Fontana, tanto che lo scorso anno, quando si sono celebrati i cinquant'anni dalla strage, è stata posizionata una targa in piazzale Segesta sotto la casa in cui il ferroviere ha abitato con la famiglia. Lo ricorda anche la segretaria al Pd Silvia Roggiani sulla sua pagina Facebook: "Un anno fa il sindaco di Milano Sala, a 50 anni dalla morte di Giuseppe Pinelli, ha fatto un gesto necessario. Assieme alla quercia rossa e alla targa in piazzale Segesta, sotto la casa del ferroviere anarchico, ha chiesto scusa a nome della città per i silenzi e le menzogne di cui l'uomo è stato vittima". E poi ha aggiunto: "Milano, quindi, vuole ricordare la storia di Pino Pinelli, la diciottesima vittima di Piazza Fontana, entrato vivo e uscito morto tre giorni dopo dalla Questura, e non accetta revisionismi o riscritture rispetto a quello che accadde". Infine, ha concluso: "A 51 anni dall'attentato neofascista alla Banca dell'Agricoltura, vogliamo ricordare la storia di un uomo accusato ingiustamente per quella strage. Ricordarlo significa continuare a chiedere verità su una pagina drammatica della nostra storia moderna".
La morte dell'anarchico. Omicidio di Giuseppe Pinelli, così la polizia buttò l’anarchico fuori dalla finestra. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Dicembre 2020. “Pinelli è stato assassinato”. E se oggi ce lo confermasse qualche “barba finta”? Quante volte il grido è risuonato nelle strade e nelle piazze degli anni settanta. Quante volte, per lunghi cinquanta anni, si è chiesta verità, una verità che almeno assomigli un poco alla realtà dei fatti, su quel che accadde in quell’ufficio della questura di Milano dalla cui finestra l’anarchico Pino Pinelli precipitò e morì verso la mezzanotte del 15 dicembre 1969. Ed ecco che spunta, mentre ci prepariamo alla cinquantunesima ricorrenza, dal nulla di una lunghissima latitanza africana, la voce di un uomo di novantanove anni, il generale Adelio Maletti, che fu uomo importante dei servizi segreti di quei tempi e che fu condannato per il depistaggio sulle indagini della strage di piazza Fontana.
E dice che in effetti qualcosa andò storto quella notte. E che la tesi ufficiale del suicidio di Pinelli “era una bufala”, come gli confidò un altro che la sapeva lunga, il generale Miceli. Se dobbiamo credere alle barbe finte, l’anarchico Pino Pinelli è proprio stato sbattuto giù dalla finestra. L’intervista a Miceli, pubblicata dal Fatto quotidiano, è stata realizzata da Andrea Sceresini e Alberto Nerazzini ed è stata registrata per un programma su piazza Fontana. È stata anche raccolta una battuta di uno dei poliziotti che quella notte erano nella stanza del commissario Calabresi, uno dei due sopravvissuti, il brigadiere Panessa: “Quella notte Pinelli se l’è cercata”. Una frase violenta e impietosa. Ma che non fa che confermare come quella notte sia accaduto qualcosa di diverso dal suicidio di un colpevole, ma anche qualcosa di diverso dall’”incidente di lavoro”. In quella stanza, lascia intendere Panessa, non c’era stato solo un imprevisto di poliziotti un po’ maneschi. No, qualcuno si era vendicato nei confronti del reprobo che si ostinava, dopo tre giorni di interrogatorio illegale, a non confessare.
Il generale Maletti non si limita ad avanzare un’ipotesi, anche se nell’intervista la presenta come tale. “Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedersi sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade”. Non è un’ipotesi, perché a Maletti, che sarà al Sid solo dal 1971, lo scenario viene confermato da diversi personaggi che invece allora c’erano, se non nella stanza, negli ambienti dei servizi segreti dove si costruì la famosa tesi ufficiale del suicidio di Pino Pinelli. E cioè dal maggiore di carabinieri Giorgio Burlando, responsabile del centro di controspionaggio di Milano, dal colonnello Antonio Viezzer, capo della segreteria del reparto D del Sid, e appunto dal generale Vito Miceli, capo del servizio segreto militare dal 1970 al 1974, quello che definì “una bufala” la storia del suicidio. A qualcuno è scappata la mano? O è sfuggito di mano proprio il corpo di Pinelli?
Per un’intera generazione, per quelli di noi che c’erano, per quelli che hanno gridato e ritmato “Pinelli- è stato- assassinato”, l’intervista di Maletti è solo una conferma. La conferma di quel che la giustizia penale non ha saputo o voluto accertare. È la dimostrazione del fatto che non sono state inutili le nottate passate con il giudice D’Ambrosio in quel cortile della questura a guardar buttare giù in vari modi quel manichino che non era Pinelli e che in nessun modo mai veniva giù come un corpo di chi si dà una spinta volontaria. Cadeva sempre come un corpo morto. Anche se poi, in modo poco coraggioso la sentenza finale parlò di “malore attivo”.
Oggi uno che si intende di intrighi e imbrogli e bugie di Stato ci dice che non ci fu nulla di “attivo” in quella precipitazione. Perché il volo di Pinelli non fu suicidio, ma neanche accostamento volontario alla finestra. No, l’anarchico ci fu spinto e poi sempre più spinto all’infuori del davanzale fino a cadere. Questo si chiama omicidio. E questi si chiamano sistemi da Gestapo. Il codice penale usa tante formule e sfumature, compresa quella del dolo eventuale, per definire situazioni come quella che dipinge il generale Maletti. E insieme a lui una serie di altri spioni di Stato molto anziani e molto, ne siamo sicuri, di buona memoria.
Non credo sia interesse di nessuno oggi processare i morti o mandare in galera i vegliardi. Ma la verità si, quella vogliamo saperla. Per Pino, per la moglie Licia e le figlie indomite Claudia e Silvia, per il movimento anarchico. E per tutti noi ragazzi e ragazze di allora che avevamo capito e siamo stati imbrogliati da una giustizia che ci ha messo il bavaglio perché non potessimo più dirla, quella verità. Oggi, 15 dicembre, il nostro amaro in bocca è un po’ meno amaro. Che cosa diceva quella ballata incisa su un 45 giri, “parole e musica del proletariato”? Una spinta e Pinelli cascò. E non faceva neanche tanto caldo, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Le figlie di Pinelli: “Montanelli disse menzogne su nostro padre, poi dovette chiedere scusa”. Francesco Loiacono il 16 giugno 2020 su Fanpage.it. Mentre infuriano a Milano le polemiche e il dibattito sulla figura di Indro Montanelli, dopo l’imbrattamento della statua a lui dedicata, un altro tassello per ricordare chi era il giornalista arriva dalle figlie di Giuseppe Pinelli, l’anarchico morto tragicamente precipitando da una finestra della questura di Milano pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana. “Scrisse che Pinelli era un informatore della polizia e che si sarebbe suicidato – scrive Claudia Pinelli -. Erano tutte menzogne, in tribunale dovette più volte chiedere scusa”. L’altra figlia, Silvia, a Fanpage.it parla della “lettera a Camilla” Cederna scritta nel 1972 da Montanelli: “È una cosa allucinante, anche come tipo di accuse”. Sulla statua: “Va trovata un’altra collocazione”. In questi giorni in cui infuria il dibattito attorno alla figura di Indro Montanelli, dopo l'imbrattamento della statua nei giardini di Milano a lui intitolati e la richiesta di rimozione del monumento, un altro tassello per ricordare chi fu il giornalista arriva dalle figlie di Giuseppe Pinelli, l'anarchico morto tragicamente in circostanze mai chiarite la notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era stato portato con altri anarchici a seguito dell'attentato di piazza Fontana. Sono due, in particolare, i ricordi di Montanelli che le figlie di Pinelli hanno voluto condividere pubblicamente in questi giorni sui loro profili Facebook. Il primo riguarda le menzogne che il "grande giornalista", come lo definisce ironicamente Claudia Pinelli, scrisse riguardo al padre sul "Giornale". "Il 24 ottobre 1980 Montanelli scrisse di aver saputo, undici anni prima, cioè subito dopo la strage di Piazza Fontana, che Giuseppe Pinelli fosse un informatore della polizia e avesse confidato al commissario Calabresi che gli anarchici stavano preparando ‘qualcosa di grosso' – spiega Claudia Pinelli -. Quando avvenne la strage non resistendo all’idea che i suoi compagni lo qualificassero come delatore, si sarebbe suicidato gettandosi dalla finestra… Inutile dire che erano tutte menzogne". Quando poco dopo, durante il processo d'appello per la strage di Piazza Fontana che si tenne a Catanzaro, il giornalista venne chiamato a rispondere delle sue affermazioni in tribunale "Montanelli dovette più volte chiedere scusa, ammettere di essersi sbagliato, di aver capito male, di non essersi espresso bene, di essersi inventato di sana pianta particolari rilevanti", scrive Claudia Pinelli. La figlia maggiore del ferroviere ricorda anche che, costretto a rimangiarsi tutto davanti al giudice, iniziò a sfaldarsi il "mito" di Montanelli anche nel procuratore generale, che disse: "E io che fin da ragazzo l'ho sempre considerata una specie di mito, oggi questo mito è crollato". L'altra figlia di Pinelli, Silvia, ha aggiunto un altro tassello al ricordo di Montanelli, pubblicando la "Lettera a Camilla" che il giornalista scrisse alla collega Camilla Cederna (una delle prime a indagare sulla morte di Pinelli, autrice del famoso libro "Pinelli: una finestra sulla strage") sul "Corriere della sera" il 21 marzo del 1972, pochi giorni dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli. "La ricordavo vagamente – spiega a Fanpage.it Silvia Pinelli – ma l'ho recuperata grazie a un libro di Corrado Stajano, ‘La città degli untori'. È una cosa allucinante, anche come tipo di accuse che rivolge alla Cederna". Nella "lettera a Camilla" Montanelli prima sembra "rimproverare" alla collega di essersi interessata tardi alla "cronaca" fatta di bombe e attentati, dopo anni passati come "testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino". Poi Montanelli usa un tono e un linguaggio sessisti: "Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della cafè society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d'uomo anche se forse un po' troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci". Anche per via di ciò che hanno vissuto sulla propria pelle, il giudizio delle figlie di Pinelli sulla figura di Montanelli è "estremamente negativo". E rispetto al dibattito in corso sulla statua Silvia Pinelli aggiunge: "Va rimossa, può tranquillamente trovare un'altra collocazione. Magari se si farà il Museo della Resistenza può andare lì, per ricordare coloro che hanno combattuto per la Resistenza e quelli, come lui, che hanno sempre combattuto contro. Più che altro mi sorprende che non ci fu una discussione simile quando, nel 2006, venne collocata la statua". Per Silvia Pinelli Montanelli "era fascista d'origine, e lo è sempre stato". La figlia minore sposa in toto la definizione di Stajano su Montanelli: "Forcaiolo anarcoide, reazionario travestito da vecchio saggio".
Gianni Bonina per "Libero quotidiano" il 21 dicembre 2021. In capite venenum. Il j' accuse che Aurelio Grimaldi punta contro la sinistra italiana è tutto nel titolo, Fango (Castelvecchi, pp. 260, euro 18,50), dove l'esplicito riferimento alla "macchina del fango" sottende responsabilità, quanto al delitto Calabresi, fino ad oggi sottaciute quando non sono valse come meriti: quelli che il quotidiano Lotta continua di Adriano Sofri rivendicò inneggiando alla giustizia proletaria. Dopo il pamphlet Il delitto Mattarella, divenuto anche un film-verità, il regista di Mery per sempre che si dice «idealmente e incrollabilmente di sinistra» si scaglia contro la sua area politica di riferimento demistificandone lo spirito rivoluzionario trasmodato nel 1972 nell'omicidio del commissario di polizia di Milano, tre anni dopo il 15 dicembre 1969, giorno della morte dell'anarchico Pinelli che gli veniva imputata nel quadro delle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Nella farragine di libri testimoniali e biografici sul caso, questo di Grimaldi si distingue perché inteso non a scoprire nuove verità, ormai tutte storicizzate, quanto a stabilire come l'apparato cosiddetto progressista, che comprendeva ambiti politici, giornali e intellettuali, si fosse reso artefice nonché mandante del delitto, coalizzandosi entro una logica che coinvolgeva anche giudici, avvocati, dirigenti di polizia.
DAGLI ALL'ASSASSINO Testate di informazione e di opinione come L'Espresso e Il Manifesto guidarono di fatto una campagna di accanimento così tenace e violenta contro il "commissario assassino", additato ingiustamente quale allievo della Cia, gorilla di generali americani, agente dei Servizi segreti, da portare militanti di Lotta continua ad armarsi e uno di loro, Leonardo Marino, a costituirsi sedici anni dopo come autore materiale del delitto. Marino nel '92 scriverà un suo libro per dichiararsi convinto, come tutti, che Calabresi fosse stato davvero l'omicida di Pinelli, giusto il fatto che figure quali Norberto Bobbio, Pier Paolo Pasolini, Dario Fo e altri ottocento intellettuali, avevano firmato un manifesto di condanna nei suoi confronti. Fu quello il momento più basso toccato nella Seconda repubblica dalla cultura italiana più impegnata, che cullò la "strategia della tensione" e istruì la dottrina integralista e persecutoria della sinistra extraparlamentare sostenuta a gran forza dai partiti del cosiddetto "arco costituzionale", compatto nel professare una retorica dell'odio che Grimaldi paragona agli orrori della Colonna infame. La massima aberrazione, una vera vergogna nazionale, si ebbe forse al momento del processo contro il direttore prestanome di Lotta continua Pio Baldelli, querelato dal commissario per diffamazione, un processo che però vide imputato lo stesso Calabresi (pur scagionato già da due giudici) e arrivato al punto da ammettere la riesumazione della salma di Pinelli. Il presidente del tribunale Carlo Biotti finì per essere ricusato e poi cacciato dalla magistratura per aver imbastito un dibattimento nel quale erano annunciati due esiti: l'assoluzione di Baldelli e la condanna di Calabresi. Che però venne ucciso prima della sentenza.
MISSIONE COMPIUTA Parole grondanti forte esecrazione ha poi Grimaldi circa la primaria partecipazione che la giornalista soubrette Camilla Cederna (artefice del Manifesto degli ottocento intellettuali) offrì nel gettare "fango" su Calabresi. Tornata dal luogo del delitto, in un articolo intitolato «Hanno ammazzato Calabresi», la giornalista ufficiale della sinistra giustizialista e fondamentalista si dilungò con sussiego a parlare della scorta che le era stata assegnata e di quanto i due poliziotti fossero emozionati e felici, oltre che ammirati, di poterle stare vicini, mentre sul cadavere ancora caldo spese solo parole di presa d'atto nel segno di una missione compiuta. Cederna fu la più invelenita, come lo sarà con Leone, ma l'intera stampa di sinistra non ebbe remore nel mostrare le peggiori intenzioni. «La ricostruzione romanzata di quella tragica notte del 15 dicembre 1969, pubblicata su Vie Nuove, il settimanale del Pci, è agghiacciante, vergognosa, ignobile» scrive Grimaldi, che confessa: «Avevo sempre pensato, dalla mia gioventù, che pregiudizi, intolleranza, menzogne e infamità (in una parola: il fango) fossero patrimonio della sola destra fascista. Ero un povero illuso ottenebrato da puerile ottimismo e ingenue idealità». Grimaldi, paladino della sinistra, compie allora atto di resipiscenza ideologica e di revisionismo storico nel momento in cui muove anche la più implacabile requisitoria contro un Gotha che ha preteso di fare la storia e pure di scriverla.
Da "Il Riformista" il 17 maggio 2009. Pubblichiamo un capitolo di "Il revisionista", di Giampaolo Pansa (Rizzoli, 474 pagine, 21 euro) in libreria da mercoledì 20 maggio.
La sera di lunedì 15 dicembre 1969, dopo aver trasmesso il mio articolo a Torino, stavo a casa di un collega, Corrado Stajano. Dovevamo mettere a punto il progetto di un libro che poi sarebbe uscito da Guanda nel maggio 1970: Le bombe di Milano. Era passata da poco la mezzanotte quando un'ansia insolita mi spinse a telefonare all'ufficio della Stampa, in piazza Cavour.
Rispose Gino Mazzoldi, il capo della redazione. Era molto turbato e mi disse: «Un anarchico è caduto da una finestra della questura. L'ha visto Aldo Palumbo, il cronista dell'Unità. Pare l'abbiano portato all'ospedale Fatebenefratelli. Mi sono segnato il nome: Pino Pinelli. Vive con la famiglia in via Preneste».
Corremmo a chiamare la zia di Stajano, che abitava nella casa vicina: Camilla Cederna, una delle star dell'Espresso. Lei se n'era già andata a dormire e la tirammo giù dal letto. Mise un cappotto sulla camicia da notte e corse con noi all'ospedale per capire che cosa fosse successo. Pinelli era già morto, ma stava ancora sulla barella. Una coperta di lana marrone lo nascondeva quasi per intero. Chiedemmo di poterlo vedere e un medico ci rispose che era vietato.
Allora ci precipitammo all'indirizzo di via Preneste. Case popolari d'anteguerra, un luogo povero, l'intonaco dei muri scrostato come per una lebbra. Suonammo il campanello e la porta si aprì di poco, appena uno spiraglio. Intravidi per la prima volta Licia Pinelli, la moglie di Pino. Era una donna giovane, dal bel viso, l'espressione dolce e forte. Indossava una vestaglietta e ci scrutò senza dir nulla.
Le domandammo di lasciarci entrare in casa, ma lei si rifiutò. Poi ci disse poche parole, senza un tremito né un pianto. Più di un mese dopo, quando la intervistai, mi avrebbe spiegato: «Io non piango in pubblico. I miei sentimenti sono soltanto miei».
Non potevo saperlo, ma quella visita mi portò dentro il cuore dei misteri di Milano. Il mistero si presentava con due volti. Uno era dell'anarchico Pinelli, morto cadendo dal quarto piano in un'aiuola della questura: qualche cespuglio stento e un po' di neve sporca, la sua tomba.
L'altro era del commissario di polizia Luigi Calabresi, il funzionario mandato a fermarlo la sera della strage di piazza Fontana. Anche Calabresi era destinato a morire, dopo una campagna di odio senza precedenti in Italia. Quella campagna ebbe una bandiera del disonore: il manifesto contro di lui, firmato da ottocento eccellenze della cultura, dell'università, del sindacato, della politica, del cinema e del giornalismo.
Avrei dovuto sottoscriverlo anch'io il manifesto contro il commissario Calabresi, definito torturatore e assassino dell'anarchico Pinelli. Ero incalzato da colleghi che mi chiedevano la firma. E tra costoro ce n'erano parecchi che non sapevano quasi nulla della strage del 12 dicembre e di quel che era accaduto dopo.
Questi zelanti cercatori di firme si erano sempre occupati d'altro, di politica internazionale, di cultura, di sport. Ma avevano letto e leggevano i giornali giusti: quelli di sinistra e soltanto quelli. E ritenevano di conoscere tutto dell'attentato e della fine di Pinelli.
Le loro certezze erano tre. Prima certezza: la strage alla Banca dell'Agricoltura era stata compiuta dai fascisti per distruggere quel poco di democrazia che ancora resisteva in Italia. Seconda certezza: d'accordo con i neri, la polizia voleva addossare la colpa del massacro agli anarchici. Terza certezza: nell'ambito di questo complotto, Calabresi aveva ucciso Pinelli con un colpo di karate al collo e poi l'aveva scaraventato dalla finestra. Per far pensare a un suicidio e avvalorare la pista anarchica.
Quei colleghi mi mettevano sotto gli occhi il racconto del delitto pubblicato da Vie Nuove, il settimanale del Pci. Era una descrizione minuziosa di quanto era avvenuto nella stanza dell'Ufficio politico della questura la sera del 15 dicembre: Pinelli morente per il colpo di karate sotto la nuca, lo smarrimento rabbioso dei cinque poliziotti che lo circondano, la decisione di scaraventarlo dalla finestra... Un vero pezzo di bravura. Peccato che fosse falso, dall'inizio alla fine. Eppure terminava con queste parole: «A voler essere franchi, e senza dire niente di nuovo, ma solo a cucire assieme le mezze notizie, Giuseppe Pinelli è morto così».
In realtà, Pinelli non aveva mai ricevuto nessun colpo di karate. A stabilirlo con certezza fu l'autopsia. Ma i giornali di sinistra seguitarono a scrivere che quel colpo mortale c'era stato. E di lì partì una campagna mostruosa di disinformazione, di bugie costruite sul nulla, di falsità spacciate per verità assolute. Una follia collettiva, destinata a sfociare in un assassinio.
Quali erano questi giornali bugiardi? Me li ricordo bene. E li rammenta con precisione anche Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi. Nel libro dedicato al marito, la signora disse con schiettezza: la campagna non fu il giornale di Lotta Continua a iniziarla, bensì il quotidiano del Psi Avanti!, il quotidiano del Pci l'Unità e il suo settimanale Vie Nuove. A queste testate devo aggiungere L'Espresso, il ferro di lancia della campagna di stampa contro Calabresi, soprattutto grazie alla penna di Camilla Cederna, esperta di costume e scrittrice brillante.
Quella campagna sfociò in una grande raccolta di firme contro Calabresi. Ne parlerò più avanti, ma voglio mettere nero su bianco quel che ho sempre pensato: il manifesto che la proponeva e i tantissimi vip di sinistra che lo firmarono mi sono rimasti nella memoria come l'episodio più degradante dei mesi che seguirono la strage di piazza Fontana.
Senza rendersene conto, e di certo senza volerlo, con le loro firme quei personaggi diedero un avallo al successivo assassinio di Calabresi. Sarebbe ingiusto dire che ne chiesero la condanna a morte. Ma di certo si trovarono a far da coro ai killer che l'avrebbero accoppato.
Mi rifiutai sempre di firmare quel testo. Per due ragioni. La meno importante è che di solito non aderisco ad appelli, a petizioni pubbliche, a dichiarazioni collettive. Non mi va di ritrovarmi al fianco di persone che non conosco. E poi il mio nome voglio spenderlo in calce ai miei scritti, articoli o libri che siano. Da quando ho iniziato a lavorare nei giornali, ho firmato migliaia di testi. Buoni o cattivi non lo so, ma tutti farina del mio sacco.
Il secondo motivo, ben più pesante, era che mi ripugnava la descrizione di Calabresi: «il commissario torturatore» e «il responsabile della fine di Pinelli». Se ripenso al me stesso di quel tempo, rammento che non avevo certezze granitiche. Tuttavia ritenevo che nelle stanze della questura di Milano non si torturasse nessuno. E che non si usasse gettare dalle finestre i fermati.
Nessun poliziotto poteva essere così stupido da commettere due delitti nel proprio ufficio, correndo il rischio di essere scoperto un minuto dopo. Però non conoscevo quel che era accaduto la sera del 15 dicembre in via Fatebenefratelli. Questo mi obbligava a essere cauto. E a non sposare nessuna tesi. Meno che mai quella affermata dal manifesto che mi chiedevano di sottoscrivere.
Le insistenze per avere la mia firma furono molte. Anche perché ero l'inviato della Stampa a Milano e sin dal primo giorno avevo scritto di piazza Fontana e poi di quanto era avvenuto dopo. Avevo seguito tutta la vicenda legata all'arresto di Pietro Valpreda, avevo intervistato la signora Pinelli e prima di lei il tassista Cornelio Rolandi. Quest'ultimo seguitò a giurarmi di aver portato Valpreda verso piazza Fontana, attorno all'ora della strage e con una borsa in mano.
In quegli anni, tra la fine del 1969 e il 1972, tirava un'aria pessima a Milano. Un'aria che puzzava di faziosità spietata, di furibondo partito preso, di certezze proclamate con il sangue agli occhi, di dubbi rifiutati con disprezzo. E se non ti accodavi alla maggioranza dei giornalisti che aggrediva Calabresi, qualche prezzo eri costretto a pagarlo.
Le accuse erano sempre le stesse: ti schieri con i fascisti, cerchi i favori della polizia, fai del giornalismo prezzolato, non ti riconosciamo più... Ma ero giovane, avevo il sostegno della mia testata, di Ronchey, di Casalegno, di Giovannini, ed ero certo di fare il mio lavoro in modo corretto. Di tutto il resto non m'importava nulla.
A rendere ostinato il mio rifiuto, esisteva poi una serie di fatti che adesso rammenterò.
La tempesta che avrebbe annientato Calabresi cominciò subito, a pochi giorni dalla morte di Pinelli. E iniziò con una grandinata di bugie. Dopo l'inesistente colpo di karate, si scrisse che il commissario era un agente della Cia ed era stato addestrato negli Stati Uniti. Ma il commissario non era mai andato in America. E neppure poteva essere l'uomo di fiducia di un generale americano sospettato di golpismo, un'altra accusa fantastica.
Quindi entrarono in scena i grossi calibri di Lotta Continua, il gruppo leader della campagna di linciaggio. Calabresi aveva querelato il loro giornale, che gli rispose con una violenza mai vista prima. Lotta Continua se ne sbatteva del processo. E spiegò che il proletariato avrebbe emesso il proprio verdetto e lo avrebbe eseguito in piazza: «Sappiamo che l'eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati. Ma è questa, sicuramente, una tappa fondamentale dell'assalto dei proletari contro lo Stato assassino».
Davanti a quella promessa di morte, Calabresi si scoprì inerme. Dopo la sua querela, ben quarantaquattro redazioni di riviste politiche e culturali, e tra loro alcune cattoliche, sottoscrissero un documento di solidarietà a Lotta Continua. E i pochi disposti a difendere il commissario si trovarono anch'essi sotto la tempesta. Per mia fortuna, La Stampa di Ronchey non si accodò mai a questa corrida nauseante. Anche se a Torino, dentro la redazione, erano in parecchi a pensarla come i lottacontinua.
C'è un libro che rievoca nei dettagli quel che accadde in quel tempo nei giornali italiani: "L'eskimo in redazione". L'ha scritto un collega coraggioso e ben documentato: Michele Brambilla, oggi vicedirettore del Giornale. Ha avuto tre edizioni: la prima nel 1991 per l'Ares di Milano, la seconda con Bompiani nel 1993 e la terza per Mondadori nel 1998. Ed è servito anche a me per precisare questi ricordi.
Brambilla rammenta un'altra tappa del linciaggio di Calabresi. Il 3 luglio 1970, il giudice istruttore Antonio Amati, su conforme richiesta del pubblico ministero Giovanni Caizzi, concluse l'inchiesta sulla morte di Pinelli affermando che non esistevano gli estremi per promuovere un'azione penale nei confronti di qualcuno. E questo scatenò contro i due magistrati milanesi la stampa di sinistra.
L'Espresso pubblicò una dichiarazione firmata dal padre della psicanalisi italiana, Cesare Musatti, e da altri cattedratici. Dicevano che la sentenza di Amati aveva ucciso la fiducia nella giustizia. E ribadivano che Pinelli era stato assassinato. Non c'erano prove per affermarlo, ma che cosa importava ai firmatari dell'appello?
A proposito di Lotta Continua e del fascino che esercitava anche su ambienti che avrebbero dovuto restare lontani dalle sue follie, Brambilla rievoca quel che accadde a Torino nell'ottobre 1971. La procura della Repubblica aveva denunciato per istigazione a delinquere dei militanti di Lotta Continua. Insorsero in loro difesa cinquanta vip, disposti persino a controfirmare l'impegno di quegli attivisti a iniziare una lotta armata.
Infatti le ultime righe della lettera aperta dicevano: «Quando essi si impegnano a "combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento", ci impegniamo con loro». I nomi dei firmatari stanno nel libro di Brambilla. Mi sono domandato se dovevo trascriverne qualcuno. Poi mi sono risposto di no.
Molti di costoro stanno ancora in campo. E forse si saranno vergognati di aver avallato quella voglia di terrorismo che, a partire dall'anno successivo, cominciò ad angosciare l'Italia. Ma tra un istante qualche nome lo farò.
Infatti la parata firmaiola più spettacolare, di ben ottocento eccellenti, fu quella che dilagò sulle pagine dell'Espresso, per tre settimane, a partire dal 13 giugno 1971. Era il documento che avrei dovuto firmare anch'io, contro Calabresi «commissario torturatore» e «responsabile della fine di Pinelli». Nella parata sfilavano tanti vip della cultura di sinistra. Dai filosofi ai registi, dai pittori agli editori, dagli storici agli scienziati, dagli architetti agli scrittori, dai politici ai sindacalisti, sino a un buon numero di giornalisti.
Anche in questo caso i nomi li troverete nel libro di Brambilla. E oggi anche in calce all'ultimo lavoro di Adriano Sofri, "La notte che Pinelli", pubblicato da Sellerio nel gennaio 2009. Qualche firmaiolo stavolta lo cito: Norberto Bobbio, Federico Fellini, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Vito Laterza, Giulio Einaudi, Inge Feltrinelli, Gae Aulenti, Paolo Portoghesi, Alberto Moravia, Toni Negri, Umberto Terracini, Giorgio Amendola, Paolo Spriano, Lucio Villari, Margherita Hack, Dario Fo, Giorgio Benvenuto, Pierre Carniti, Ugo Gregoretti, Paolo e Vittorio Taviani, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Furio Colombo, Carlo Rognoni, Morando Morandini, Nello Ajello, Enzo Golino, Giuseppe Turani.
Ho riletto quell'elenco sterminato reagendo in due modi. Il primo è lo stupore per le tante intelligenze che gettavano alle ortiche la loro sapienza. E si accodavano a una barbara caccia all'uomo.
Il secondo è la cattiveria divertita. Perché tra gli ottocento ho ritrovato non pochi dei maestroni autoritari che, in questi ultimi anni, mi hanno dato burbanzose piattonate in testa per i libri revisionisti. Penso a Scalfari e al suo aristocratico fastidio per i miei lavori. Penso a Bocca e alle ingiurie che mi ha riservato. Penso a Furio Colombo quando dirigeva l'Unità. Penso a Lucio Villari, ma di lui racconterò in seguito.
E mi sono detto: forse dovrebbero revisionare il loro passato. E pentirsi del sostegno offerto alle nefandezze di quegli anni. Tra gli ottocento c'è chi lo ha fatto e in pubblico. Ma sono stati pochi, davvero pochi.
Nel frattempo, Calabresi e la sua famiglia stavano percorrendo una via crucis orrenda. Manifesti su tutti i muri di Milano e di molte città italiane: Calabresi wanted, ricercato, con l'indicazione della somma che toccherà in premio a chi lo cattura. Promesse di morte urlate nei cortei: Calabresi sarai suicidato. Insulti: il commissario Finestra, il commissario Cavalcioni. Vignette carogna: il poliziotto che insegna alla figlia come tagliare la testa alla bambola anarchica con una piccola ghigliottina.
Una bufera di lettere anonime, spedite all'indirizzo di casa. Telefonate orribili. Centinaia di articoli per indicarlo al disprezzo e alla sacrosanta vendetta. Il processo intentato contro Lotta Continua che diventa una mattanza per il querelante, in un clima da Colosseo: tigri nell'arena giudiziaria e il morituro che non può difendersi. Quando Calabresi fu promosso commissario capo, Milano venne tappezzata di nuovi manifesti che lo mostravano con le mani grondanti sangue. Lo slogan gridava: «Così lo Stato assassino premia i suoi sicari».
Odio allo stato puro. Quello di cui ci lamentiamo oggi è un dispetto da asilo infantile. Calabresi fu obbligato a fare la cavia di una tecnica distruttiva tipica dei poteri autoritari. Lotta Continua e i maestroni che la fiancheggiavano si riempivano la bocca di parole come democrazia, rispetto dell'uomo, giustizia. Ma si comportavano come i nazisti e i comunisti sovietici. Con prepotenza isterica, sparavano menzogne con la stessa violenza che le Brigate Rosse avrebbero poi imitato sparando pallottole.
Prima che dai proiettili del suo killer, Calabresi venne accoppato giorno dopo giorno da una parte della stampa, da migliaia di manifesti, da centinaia di comizi, da molti spettacoli teatrali. Era una tempesta di fango che non proveniva soltanto da Lotta Continua, ma da una cerchia molto più vasta.
Con sgomento, nelle parate firmaiole ritrovavo anche insegnanti che erano stati i miei. Intellettuali di cui mi fidavo. Scrittori che amavo. Direttori di giornali per i quali avrei poi lavorato.
In seguito, il terrorismo generato dalla sinistra rivoluzionaria non ha dovuto inventarsi nulla. Ha soltanto reso più rapido e più nefando questo metodo di linciaggio. I volantini diffusi dalle Brigate Rosse dopo ogni delitto mettevano in pratica il metodo usato contro Calabresi: cancellare la figura e la storia della vittima, per offrire al disprezzo pubblico un fantoccio sconcio.
Il commissario aveva una famiglia salda che non si lasciò travolgere. E una giovane moglie che sarà il suo scudo più forte. Ma continuava a pensare ai sottufficiali che erano con lui la notte della morte di Pinelli. E qualche settimana prima di essere ucciso mi dirà: «La loro vita, i sacrifici delle loro mogli può immaginarseli... Ringraziando Dio, ho trovato in me stesso, nei miei principi, nell'educazione che ho ricevuto, la forza di superare questa prova».
E ancora: «Da due anni sto sotto questa tempesta. Lei non può immaginare che cosa ho passato e che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere. Non posso più fare un passo. È bastato che mi vedessero uscire dall'obitorio dove era stato portato il corpo di Feltrinelli per sostenere che avevo già cominciato a trafficare attorno al cadavere dell'editore, con i candelotti di dinamite».
Stavamo parlando nell'ufficio di Antonino Allegra, il capo della sezione politica della questura milanese. Chiesi a Calabresi se avesse paura. Rispose: «Paura no perché ho la coscienza tranquilla. Però è terribile lo stesso. Potrei farmi trasferire, ma da Milano non voglio andarmene. No, non ho paura. Ogni mattina esco di casa tranquillo. Vado al lavoro sulla mia Cinquecento, senza pistola e senza protezioni. Perché dovrei proteggermi? Sono un commissario di polizia».
Quel giorno ebbi la sensazione di avere di fronte un uomo braccato da chi vuole annientarlo. Una preda che sente stringersi attorno a sé la trappola preparata per dargli la morte.
Allegra ascoltava Calabresi in silenzio. Poco prima avevamo discusso dei piccoli nuclei di terroristi rossi che, mese dopo mese, prendevano forza e diventavano più aggressivi. Allegra sospirò: «Speriamo che non comincino a sparare sui poliziotti».
Il 17 maggio 1972, all'età di trentaquattro anni, il commissario senza pistola venne assassinato. Lotta Continua aveva eseguito la sentenza emessa all'inizio del 1970. Saranno stati felici i tanti firmatari del verdetto? Non lo so e non m'interessa saperlo.
Quello che so è che non ho difeso Calabresi come avrei dovuto. E provo vergogna di me stesso.
Dal "Corriere.it" l'8 gennaio 2009. Un libro, in uscita a metà gennaio, destinato a riaprire discussioni e polemiche sugli anni Settanta in Italia e sulla lunga striscia di sangue che hanno lasciato. Un autore, Adriano Sofri, che ha vissuto da protagonista di quel periodo e che ora è tra i condannati per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. In «La notte che Pinelli», edito da Sellerio, offre ai lettori la sua ricostruzione sulla morte dell'anarchico coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana e anche le sue considerazioni sul proprio ruolo nell'omicidio di Calabresi. Continuando a proclamarsi innocente dal punto di vista materiale, Sofri ammette una responsabilità «morale»: «Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato"». Nell\'anticipazione che viene pubblicata da l'Espresso questa settimana, c\'è una parte della versione di Sofri sul caso Pinelli, basata sulle carte giudiziarie. La ricostruzione parte dal pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969, dalla strage di Piazza Fontana. Subito dopo gli attentati si procede agli arresti degli anarchici: tra loro ci sono Pinelli e Pietro Valpreda, che rimarrà a lungo in carcere.
Secondo Sofri lo stesso Calabresi era convinto che la pista anarchica fosse quella giusta e in un passaggio del libro riporta l'episodio in cui a Pinelli e ad un altro anarchico interrogato Calabresi dice: «Non venirmi a raccontare (...) che sono stati i fascisti; la matrice è anarchica, fa parte della tradizione vostra».
Nel libro dell'ex leader di Lotta Continua emergono altri due elementi: il primo è che Pinelli diffidava di Valpreda, considerandolo pericoloso; il secondo è relativo alla presunta amicizia tra Pinelli e Calabresi. Un'amicizia che, secondo l'autore, non ci sarebbe stata. Quanto alle circostanze della morte di Pinelli, Sofri si sofferma sull'orario della tragedia che viene cambiato nel corso degli anni e delle inchieste.
All'inizio si parla di mezzanotte, ma, ricostruisce Sofri, la versione verrà cambiata fino ad arrivare alle 19,30 forse per dimostrare che Calabresi non era in quella stanza. Ma secondo Sofri è stato un esercizio inutile poiché il commissario realmente non era nella stanza della questura nel momento in cui Pinelli volò dalla finestra.
Dagospia il 9 gennaio 2009. Un capitolo del libro di Sofri sull’anarchico “volato” dalla questura di Milano - “mi sento responsabile per aver detto o scritto “Calabresi sarai suicidato”” - finale: al momento del ‘volo’ Calabresi forse non era nella stanza. (Forse…)
Adriano Sofri: Così è morto Pinelli. Arriva in libreria ‘La notte che Pinelli', il nuovo libro di Adriano Sofri (editore Sellerio) nel quale l'ex leader di Lotta Continua condannato a 22 anni per l'omicidio del commissario Calabresi ricostruisce la fine dell'anarchico Pino Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano dopo la strage di piazza Fontana. Anticipiamo l'inizio del libro. Il 12 dicembre fu un giorno - una sera - così. Si sentì che la vita non sarebbe stata più la stessa, che c'era stato un prima, e che cominciava un dopo. Mi servo di questi modi di dire usati, ragazza, benché sappia che quello sbigottimento non si può davvero comunicare. Bisognava esserci, dicono sospirando certi vecchi, certe vecchie scuotendo la testa. E dicono: Tu non puoi capire. Era un altro mondo, del resto. Quarant'anni fa - quasi il doppio del tempo che separava il 12 dicembre da una guerra mondiale! Non serve a granché dirti che la televisione aveva due canali, ed era in bianco e nero: lo sarebbe stata ancora fino al 1977. Servirebbe di più raccontarti quanto, e soprattutto come si fumava, nel dicembre del 1969.
C'è una stanza al quarto piano della Questura di Milano, è di Luigi Calabresi, un giovane commissario dell'Ufficio Politico, ha solo 32 anni. C\'è un interrogato, un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli. Sono presenti altri quattro sottufficiali di polizia, e un tenente dei carabinieri. Fumano tutti. Sono lì da ore, è quasi mezzanotte.
Al processo, il giudice chiederà a uno di loro, il verbalizzante, brigadiere Caracuta: «Avete fumato tutti durante l'interrogatorio?».
Caracuta: «Sì, lei capisce eccellenza... fumavamo tutti come turchi».
Perciò, nonostante sia una notte di mezzo dicembre - il 15, proprio - la finestra è socchiusa, per cambiare l'aria. C'è anche un'ottava persona, il carabiniere Sarti, quasi sulla soglia.
Sarti: «Uscii dalla stanza per andare a prendere le sigarette che avevo lasciate dentro l'impermeabile... rientrai subito, accesi la sigaretta e poi...».
Poi vede una persona, uno dei fumatori, buttarsi nel vuoto.
Sarti: «Mi ero distratto un attimo, stavo appunto fumando la sigaretta, e ad un certo punto ho sentito come qualcosa sbattere, un colpo secco. Allora mi girai di scatto e vidi proprio una persona buttarsi nel vuoto...».
Era Pinelli, il ferroviere. Appena prima un altro dei presenti, il brigadiere di P.S. Mainardi, gli aveva dato da fumare. L'ultima sigaretta.
Mainardi: «Io sono rimasto là, accesi una sigaretta; nella circostanza Pinelli mi chiese "mi dia una sigaretta" e io gliel'ho accesa».
Pinelli fuma, dice qualcuno, e va alla finestra per scuotere la cenere.
Un cronista dell'Unità, Aldo Palumbo, sta uscendo dalla Sala stampa, si ferma un momento sui gradini che scendono in cortile ad accendersi una sigaretta, sente il rumore di qualcosa che sbatte, poi dei tonfi.
Di sotto, nel cortile della Questura, un agente semplice, la guardia Manchia, sostiene di vedere un uomo - un'ombra - che cade giù dal quarto piano, e più distintamente di lui - è mezzanotte, il cortile è buio - la brace di una sigaretta che lo accompagna per qualche metro, prima di spegnersi.
Secondo altri fermati, Pinelli aveva trascorso quei tre giorni facendo parole crociate, leggiucchiando quello che trovava - un libro giallo, un opuscolo su automobili - e soprattutto fumando. «Mi colpì il fatto che il pavimento davanti a lui fosse cosparso di cenere di sigarette».
Più tardi, quella notte, morto Pinelli, il questore Marcello Guida riceve i giornalisti. C'è anche Camilla Cederna.
«La signora Cederna? Sono contento di conoscerla, la leggo sempre, anzi le dirò che sono un suo ammiratore... Vuol fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuol che apriamo la finestra? Per carità, allora fumiamo noi».
Si fumava come matti, tutti, guardie e rivoluzionari, anarchici e monarchici. Nessuno avrebbe immaginato senza ridere un pacchetto di sigarette con su la scritta «Il fumo uccide». Gli anni di piombo erano di là da venire. Questi erano anni di fumo.
La moglie del ferroviere si chiamava Licia. Avevano due bambine. Quel giorno avevano già preparato i regali per Natale. Le bambine portarono poi al cimitero il regalo per il loro padre e lo posarono sulla tomba: un pacchetto di sigarette.
Non so che cos'altro dirti, ragazza, per darti un\'idea del trauma di quei tre giorni. Prima la strage, orrenda, inaudita. Poi l'anarchico, «suicida» confesso, dal quarto piano della Questura. Poi - subito dopo, a soppiantare e insieme completare la notizia - la cattura della belva Valpreda. Una voragine si era spalancata, e già si richiudeva.
Al momento della tragedia Calabresi forse non era nella stanza. Forse...Francesco La Licata per La Stampa il 9 gennaio 2009. È un giallo il libro che Adriano Sofri dedica alla tragica fine dell'anarchico Pino Pinelli. Un racconto che va avanti a cerchi concentrici e man mano che si espande - partendo dalla semplice descrizione, quasi asettica, della stanza dove matura la vicenda che spaccherà l'Italia - restituisce al lettore un clima: com\'erano la società, la politica nel 1969.
Il 15 dicembre di quell'anno, tre giorni dopo il criminale attentato di piazza Fontana, a Milano, Pinelli vola dalla finestra dell'ufficio del commissario Calabresi, al quarto piano della Questura. Era sotto interrogatorio, era sospettato - come l'altro anarchico Pietro Valpreda - di aver provocato quel massacro: sospetti che si sarebbero rivelati sbagliati.
E in questo racconto sotto forma di monologo in risposta alle domandE di una giovane che nulla sa di quella storia (La notte che Pinelli, Sellerio, 283 pagg. in libreria il 15 gennaio), ovviamente, c\'è anche il commissario Luigi Calabresi. Ma, fa sapere Sofri, il libro non vuole essere assolutamente una risposta, una verità alternativa a quella descritta nel «diario» scritto da Mario Calabresi (Spingendo la notte più in là, Mondadori), giornalista e figlio del commissario assassinato tre anni dopo «la notte che Pinelli», nel pieno di una campagna d'odio che lo indicava come l'assassino dell'anarchico.
E che l'intento di Sofri non sia quello di rimettere in discussione la figura di Calabresi, fedele servitore e non killer di uno Stato «nemico», sembra dimostrato dall'asetticità con cui l'autore «rilegge» una montagna di carte polverose nel tentativo di offrire una fedele ricostruzione dei giorni che Pinelli trascorse in questura come sospettato di strage.
Giuseppe Pinelli
Una ricostruzione che porta Sofri a spostare più volte gli orari dei diversi interrogatori, fino ad arrivare alla conclusione che al momento della tragedia Calabresi forse non era in ufficio.
Eppure c'è qualcosa che, al di là delle ferme intenzioni di Sofri, sembra contrastare con il ricordo di Mario Calabresi. Si tratta della presunta amicizia tra il commissario e l\'anarchico. Sofri nega in maniera convinta che vi fosse amicizia tra i due. Una convinzione suffragata dal trattamento che Pinelli subìva dalla polizia milanese: fermato e costantemente intercettato, sospettato addirittura anche di due attentati precedenti, costretto a rimanere sveglio in camera di sicurezza.
Lo stesso Calabresi tenterà il bluff consigliandogli di confessare perché «Valpreda ha parlato». Una frase che rimarrà a lungo scolpita nell'immaginario collettivo del «Movimento», attraverso la Ballata dedicata alla morte di Pinelli.
Resta l'infamia della campagna contro Calabresi. L'unica «colpa» che Sofri ammette: «Di nessun atto terroristico degli Anni ‘70 mi sento responsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e scrivesse, "Calabresi sarai suicidato"».
Dagospia il 16 dicembre 2010. SOFRI SPIEGA PERCHE' FU LANCIATO Il CITATISSIMO e famigerato appello del 1971 contro Luigi Calabresi, SOTTOSCRITTO DA 800 FIRMATARI (DA ECO A MIELI, DA CARLO ROSSELLA A OLIVIERO TOSCANI) - "Era avvenuto questo. Che il processo Calabresi-Lotta Continua, aperto nel 1970, aveva un giudice presidente, Biotti, e un avvocato per la parte civile Calabresi, Lener, e giudice e avvocato erano amici personali da una vita"...
Adriano Sofri per "Il Foglio" il 16 dicembre 2010. Il 15 dicembre di 41 anni fa è morto Pino Pinelli. Una scultura a lui dedicata sarà posta oggi nella Stazione Garibaldi di Milano. Bene. Ho provato a fare un conto: se non sbaglio, dell'intera vicissitudine che prende le mosse dalla strage di piazza Fontana, io sono l'unico condannato detenuto. Non è poco. Non è a questo titolo che ricordo anch'io Pinelli oggi, ma per molte altre ragioni, e specialmente per averne studiato a distanza di tanto tempo la passione e la morte e la giustizia derisa. Ciascuno è autorizzato a dire qualsiasi cosa su Pino Pinelli, ma chiunque ne parli senza aver letto il mio libro, "La notte che Pinelli", uscito l'anno scorso da Sellerio, non sa abbastanza di che cosa parli. Lo dico con tutta tranquillità, e voglio oggi offrirne un esempio fra i tanti. Si tratta del famoso e famigerato appello del 1971 contro Luigi Calabresi, citatissimo e misconosciutissimo. Poco fa, a proposito di un giornale sciagurato che ha incitato a una raccolta di firme contro Roberto Saviano - colpevole di lesa padanità - il direttore della Stampa, Mario Calabresi, dissentendo fermamente da quell'iniziativa, ha ribadito la propria risoluzione di non partecipare a raccolte collettive di firme, ricordando l'esperienza di quell'appello contro suo padre. Per parte sua, nel programma che conduce su La7, Antonello Piroso ha appena interpellato bruscamente Oliviero Toscani chiedendogli conto della firma in calce a quel manifesto. (Toscani ha risposto di non ricordarla, e di ritenere che la firma fosse stata apposta senza interpellarlo: ma questi sono fatti suoi). Da anni quel manifesto viene citato, se non - spesso - come un mandato morale all\'assassinio del commissario Calabresi, almeno come il documento esemplare di un delirio vanesio, feroce e gregario che si era impadronito del fior fiore dell'intelligenza italiana. Proprio perché si assegna a quel testo un significato così cruciale, moralmente e civilmente, ci si aspetterebbe, salvo che lo si intenda come il bruto manifestarsi di una follia clinica, che venisse conosciuto e ricordato il contesto di quell'iniziativa e il suo contenuto: ciò che non è avvenuto, se non, scrupolosamente, nel mio libro. Lo dico anche per me. Io non fui fra i firmatari. Ma ero partecipe di quegli eventi con tutto me stesso: eppure, quando rimisi insieme le carte su cui scrivere, mi accorsi di avere dimenticato quella circostanza e quel contenuto. E mi sono accorto poi che la stessa cosa era avvenuta ai famosi firmatari di allora, che si trattasse di dimenticanza o di rimozione, o di tutt'e due. Nel suo libro, "Spingendo la notte più in là", che è soprattutto un libro di memoria e non una ricostruzione giudiziaria o storica, Mario Calabresi scrive solo della querela del commissario contro Lotta Continua e del processo che "si ritorse contro di lui, perdendo di vista l'oggetto della querela", e conclude: "Alla fine il giudice venne ricusato e il processo venne sospeso e assegnato ad altri giudici". Quanto a Piroso, non ha detto una parola per spiegare che cosa fosse avvenuto, e non so se ne sia a conoscenza. In appendice al mio libro è ristampato il testo dell'appello e l'elenco degli 800 firmatari. Era avvenuto questo. Che il processo Calabresi-Lotta Continua, aperto nel 1970, aveva un giudice presidente, Biotti, e un avvocato per la parte civile Calabresi, Lener, e giudice e avvocato erano amici personali da una vita. Dopo otto mesi di dibattimento, la corte deliberò clamorosamente una esumazione - la seconda - della salma di Pinelli per una nuova perizia. Allora, il 21 aprile 1971, Lener ricusa il giudice Biotti. E lo motiva riferendo un loro colloquio di cinque mesi prima. Era stato Biotti, racconta, a chiedergli un incontro urgente con dei pretesti. Si vedono a casa dell'avvocato. Biotti - racconta Lener - gli dice di essere preoccupato perché la sua pratica di promozione giace in Cassazione, e lui riceve pressioni dal tribunale milanese in favore di Baldelli (l'imputato, per aver firmato come direttore responsabile di Lotta Continua) e soprattutto gli dice che lui e gli altri giudicanti sono "convinti che il colpo di Karate a Pinelli sia stato dato e abbia colpito il bulbo spinale". E gli anticipa che avrebbe ordinato la nuova perizia, e però, per compiacerlo, gli propone di suggerire lui i nomi dei tre periti da nominare. Lener sostiene di aver tenuto per sé l\'episodio per mesi, per vedere come si metteva il processo. Biotti nega, e allega qualche dettaglio tragicomico sulla propria terzietà (protesta contro l'insinuazione di aver parlato del processo addirittura allo stadio: "Allo stadio di san Siro il sottoscritto, da vecchio e inveterato tifoso, non parla che di calcio..."). La Corte d'appello toglie il processo a Biotti. L'episodio comunicava a un\'opinione pubblica esterrefatta che presidente e parte civile di un processo (così delicato e tormentato) erano amiconi, e che il suo andamento si barattava e si sputtanava in una tribuna di stadio o in un salotto di casa; che il giudice preannunciava in privato la propria convinzione della colpevolezza del commissario; che l\'avvocato si teneva in tasca questa carta per mesi per far saltare il processo, una volta che avesse preso una piega sfavorevole. Come quando la corte decise la riesumazione. Allora l'opinione pubblica italiana, ormai avvertita della montatura infame per incolpare del 12 dicembre gli anarchici, si sentì dire che il giudice naturale del processo e i suoi colleghi a latere erano convinti che Pinelli fosse stato colpito e quindi defenestrato; e che se Biotti non l\'avesse detto davvero a Lener, sarebbe stato l'avvocato di Calabresi ad arrivare a una simile invenzione pur di affossare il processo e impedire la riesumazione. Questo era il movente dell'appello famigerato. "Una ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni". Uomini come Amendola o Pajetta, Argan e Bassetti, Carniti e De Mauro, Fellini e Gorresio, Primo Levi e Monicelli, Muscetta e Nono, Paci e Pasolini, Piccardi e Sapegno, Terracini e Terzani, Trentin e Viano, e le altre centinaia di quell'impressionante elenco, non davano la propria firma alla leggera, per sbarazzarsi di una telefonata, e tanto meno la lasciavano comparire a propria insaputa. Che abbiano poi sentito un dolore o un vero pentimento per quella firma, è la più plausibile e sincera e rispettabile delle evenienze. Che questo si sia tradotto nella cancellazione delle circostanze che l'avevano motivata, forse è ancora più spiegabile: ma non è una buona cosa. Il tempo non è né un galantuomo né un gangster: tutt'al più un ospite irridente. Si può aspettare quarant'anni per rendere l\'onore a Pinelli e commuoversi alla sua sorte. E 41 per intimare agli intervistati di giustificarsi: e gli intervistati non si ricordano di che cosa, e il pubblico non lo sa.
Malcom Pagani e Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 27 marzo 2012. Quel giorno Marco Tullio Giordana aveva 19 anni ed era a bordo di un tram. Le luci natalizie, i vetri appannati, un freddo venerdì milanese, Piazza Fontana a 20 metri. L'orologio fermò la storia alle 16,37 del 12 dicembre. In una banca di Milano piena di agricoltori, mediatori e padroncini di risaie.
Esplosione: 16 morti, 84 feriti. Era il 1969. L'anno in cui Feltrinelli pubblicava volumi dal titolo profetico "La minaccia incombente di un colpo di Stato all'italiana" e nei campeggi ci si passava eccitati "L'agente segreto" di Conrad con il protagonista, Mr. Vladimir, impegnato a indottrinare Verloc, l'agente provocatore infiltrato negli anarchici: "Poiché le bombe sono la vostra lingua, v'insegno con quale filosofia si gettano".
Pinelli, Calabresi, i fascisti, gli americani, i servizi. Burattini e pupari. Complotti e "tintinnar di sciabole". Slogan, minacce e auspici: "Ankara/ Atene/ adesso Roma viene". Il clima generale. L'Italia povera come sempre. Il Romanzo di una strage già letto da Pasolini: "Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, uno che cerca di seguire tutto ciò che succede... di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace".
Il regista che raccontò il tramonto di Pier Paolo, Peppino Impastato e le barricate di un '68 troppo breve da dimenticare ha voluto ricordare ancora. Senza indulgere alle convinzioni di allora: "Se avessi fatto un film da vecchio ragazzo sulle tracce della mia adolescenza, lo avrei sbagliato. Se invece tanti giovani vedranno il film e capiranno perché l'Italia è stata l'unico paese d'Occidente che ha combattuto la Guerra fredda non solo con le spie, ma con le armi e il sangue, la scommessa sarà vinta".
Com'è iniziata la scommessa?
Quando il produttore Riccardo Tozzi mi parlò per la prima volta del progetto, lo commiserai. Pensavo fosse impossibile racchiudere in due ore 33 anni di processi, ipotesi e depistaggi. Aveva ragione lui, ma c'è voluto tempo, studio, chiarezza. Ho deciso di fare il film quando ho letto una ricerca fra studenti: "Piazza Fontana? Le Br no?". I ragazzi di oggi non sanno nulla di quella mattanza, volevo un'opera rivolta a loro.
La complicazione maggiore?
Limitare l'arco degli avvenimenti fermandosi all'omicidio del commissario Luigi Calabresi. E fare di lui e di Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico che volò da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la bomba, non due figure stancamente antitetiche, ma speculari.
A parte la strepitosa bravura di Mastandrea e Favino, come ha fatto?
Ho provato a evitare santificazioni o processi a posteriori, rappresentando le loro solitudini al di fuori delle ideologie. Piazza Fontana è l'anno zero, il vero inizio della Seconda Repubblica. Tutto ciò che è piovuto dopo, terrorismo compreso, è una conseguenza. Senza la strage, non sarebbe nata l'idea malata che l'unico conflitto possibile con lo Stato fosse quello armato.
Un'opzione rischiosa.
Sì perché fa scattare automaticamente i mantra ripetuti per decenni da entrambe le fazioni senza verifiche o approfondimenti.
Il film è più per i giovani che non sanno nulla o per i troppi che credono di sapere tutto?
A tutti. A quelli che, una volta scoperte le manine dei servizi e i tentativi di inquinare il quadro, hanno smesso di credere nella democrazia. E a tutti gli altri che, chiusa nella memoria dell'epoca un'idea preconcetta sugli avvenimenti, preferirono buttare per sempre la chiave di un'ulteriore comprensione.
Chi era per lei Calabresi?
Un idealista al pari di Pinelli. Due figure tragiche, due solitudini tradite da una trama superiore alle loro forze. Con Calabresi ho provato ad andare fino in fondo e a lui ho cominciato a pensare fin dal giorno della sua morte, nel maggio 1972.
Venne ucciso sotto casa da un commando di Lotta Continua.
Sono sempre stato contro la violenza, ma quando morì provai un profondo senso di colpa. La campagna d'odio orchestrata da Lotta Continua (ma non solo) contro il poliziotto torturatore aveva suggestionato anche me. Anche per via delle bugie della Questura sulla morte di Pinelli
Il figlio Mario sostiene che dal film quella campagna sia sparita.
Secondo me non è vero, nel film la campagna d'odio c'è e lo spettatore se ne rende perfettamente conto. Ma capisco che per la famiglia Calabresi nessun risarcimento sia sufficiente. Nessuno può restituire né il padre né il marito.
Teme reazioni dalla lobby di Lotta Continua?
Se ci fossero, sarebbero un automatismo deludente. Ma, già prima ancora che esca il film, registro bordate inutili e deprimenti.
Tra le molte bugie che "Romanzo di una strage" aiuta a cancellare, c'è quella su Calabresi presente nella stanza dell'interrogatorio quando Pinelli precipita.
Delle due l'una: o Calabresi era colpevole e dunque andava tolto dalla scena del delitto; o era innocente e davvero non era lì. La verità è la seconda, come è emerso dalle univoche testimonianze e risultanze processuali: l'ha ammesso anche Adriano Sofri. E poi è impossibile che Calabresi fosse così cinico da defenestrare Pinelli nella propria stanza e poi continuare a lavorare ogni giorno in quella stanza come se nulla fosse accaduto.
In caso contrario non avrei potuto girare il film.
"Romanzo di una strage" teorizza che alla Banca dell'Agricoltura, il 12 dicembre 1969, esplosero non una, ma due bombe.
Una delle ragioni per cui è difficile fare un'indagine sul presente è che gli anni restituiscono frammenti e prove che in tempo reale non si colgono nella loro essenza.
O spariscono.
Esattamente. A metà anni 90 lo storico Aldo Giannuli ritrovò, in un archivio abbandonato dell'Ufficio Affari Riservati del Viminale a Forte Boccea, una miccia e alcune informative del servizio militare che all'epoca erano state manipolate. Elementi che non comparvero al processo di Catanzaro e quindi, per la giustizia, non esistono.
Cosa significa la miccia?
Un tassello che, pur non incompatibile col timer subito rinvenuto, fa pensare a un doppio innesco e dunque a una doppia bomba. Teoria che fra l'altro spiega i due diversi odori di esplosivo nella banca subito dopo lo scoppio. E il cratere troppo profondo per essere provocato da un solo ordigno.
Teoria affascinante che rimanda all'incendio del Reichstag, a Portella della Ginestra e persino all'attentato dell'Addaura: dietro c'è sempre un doppio Stato.
La ricorrenza della doppia valigetta è una costante dei misteri italiani. Per sapere cosa sia avvenuto esattamente a Piazza Fontana bisognerebbe essere stati nella testa degli attentatori. Io mi sono limitato al verosimile, che spesso coincide con il vero.
Come andò secondo lei?
Io credo che i colpevoli siano i fascisti veneti di Ordine nuovo (Freda e Ventura, come ha confermato la Cassazione nell'ultimo processo di Milano) con la collaborazione dei servizi segreti, italiani e americani. La prima bomba la mise un sosia di Pietro Valpreda che bazzicava gli ambienti anarchici, per far pagare il conto a loro. La seconda fu opera di servizi italiani e "atlantici".
Ognuno pensava ai propri affari e i servizi, che infiltravano tutti, anarchici e neri, diedero via libera alla manovalanza di destra per usarla e poi magari arrestarla. Intanto lo scopo era quello di piegare la mano al governo Rumor perché proclamasse almeno momentaneamente lo Stato d'emergenza per frenare l'avanzata delle sinistre. L'Italia era l'unica democrazia del Mediterraneo, fra la Grecia dei colonnelli e la Spagna di Franco.
Il film ricalca la tesi del libro a tema di Paolo Cucchiarelli?
Neanche un po'. Ho letto il suo volume assieme a molti altri. È interessante, ma non va preso a scatola chiusa. Anche se, ora che lo attaccano tutti, mi vien voglia di difenderlo. Questo non significa che io sposi in toto le sue deduzioni.
Lui è convinto che la prima bomba potrebbe averla piazzata Valpreda a scopo dimostrativo, da far esplodere a banca chiusa; e che Pinelli sapesse di quelle bombe-petardo anarchiche che, da dimostrative, nelle mani sbagliate, divennero letali. Per dimostrarlo, dà voce a una fonte anonima dei servizi. Ma, se non puoi rivelare la fonte, io non ti credo.
Perché?
Sapete quante persone mi hanno raccontato cos'era successo la notte in cui morì Pasolini? Un'infinità. Quando chiedevo loro di ripetere il racconto davanti al magistrato, giravano le spalle. Per quanto suggestiva e verosimile sia una tesi, è inevitabile che s'infranga contro la mancata narrazione con nomi e riscontri.
Nel film c'è un tragico Moro, interpretato da Fabrizio Gifuni.
Mi piacerebbe raccontare la sua figura, magari a teatro. È un'altra solitudine straziante. Un'altra figura centrale della nostra storia, su cui non sappiamo fino in fondo quale partita si sia giocata.
Perché non un film su di lui?
Ci ha già provato e bene Bellocchio. Non me la sento di sfidarlo.
Neanche in una dimensione meno onirica?
Il sogno sulla liberazione di Moro rende la conclusione drammatica dei fatti ancor più atroce.
Nel film brilla anche un'altra figura complessa, il numero due dell'Ufficio Affari Riservati, Federico Umberto D'Amato.
Uno strano caso di vice più forte del suo capo. Il suo superiore, Catenacci, informava Freda e Ventura delle indagini sul neofascismo svolte a Padova dal commissario Juliano. E lui smistava veline, tenendo nel tempo libero rubriche gastronomiche sull'Espresso fondato da Scalfari.
Sofri rivela che D'Amato gli propose un delitto su commissione.
L'ho sentito dire, non ho mai visto il documento. Ma non mi stupirebbe. Sofri dovrebbe decidersi a raccontare tutto per intero, perché si possa voltare pagina e aprire un nuovo capitolo. Nel film D'Amato ha un dialogo illuminante sulla strage con il commissario Calabresi. Descrive il regno del caos, un sistema di gestione dell'esistente fondato sull'ambiguità. Più tardi, per manipolare gli italiani, non ci fu nemmeno più bisogno delle bombe e dei depistaggi: bastò usare la televisione.
Come da Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli.
Quasi la stessa cosa in un contesto immobile, indifferente. La normalità italiana è questa: dopo la strage i tram seguitarono a lisciare le rotaie, i giornali a uscire, i telefoni a funzionare...
Oggi nella politica italiana, fin dai palazzi più alti, c'è voglia di rimozione, dimenticare e archiviare il passato più nero con la scusa dell'emergenza e del "voltar pagina". Il film è in controtendenza.
Il divorzio di questa nostra politica mediocre e insopportabile dalla verità è ciò che la condannerà alla perdizione. Ma, se i nostri politici non sanno far altro che compromessi e scambi, gli intellettuali devono fare il mestiere opposto: non per fare gli incendiari, ma perché non c'è cosa più normale al mondo che cercare la verità. Come dice Donald Sutherland in JFK, "la gente ha un debole per la verità".
Lettera di Adriano Sofri a "il Fatto Quotidiano" il 6 aprile 2012.
Avendo io ridicolizzato la tesi di un libro su Piazza Fontana che raddoppia le bombe e ne assegna una agli anarchici e una ai fascisti, Marco Travaglio scrive che "solo Sofri può spiegare" perché Federico Umberto D'Amato, eminenza nera degli Affari Riservati, si fosse rivolto "proprio a lui (Sofri)". Si tratta di un episodio, raccontato da me cinque anni fa, che sarà ignoto alla stragrande maggioranza dei suoi lettori, ai quali vorrei indicare dove trovare il mio articolo. A qualunque cosa mirasse quella provocazione, evidentemente la mancò, a meno che gli bastasse poter aggiungere al suo curriculum un incontro con me. (Tutte le carte "segrete" riguardanti quegli anni dovrebbero essere rese pubbliche, comprese quelle di polizia, e non solo attraverso bidoni di spazzatura).
L'interpretazione che ne dà Travaglio, che quel signore venisse a parlarmi confidando nella mia qualità di capo di una banda di omicidi, è troppo lusinghiera perché io vi acceda. Non ho una sola parola da aggiungere a quel resoconto. In cambio mi lasci annotare che il Travaglio che mi ammonisce a "spiegare" è già un passo avanti rispetto al Travaglio che nel 1996 mi intimava di "implorare l'indulgenza plenaria da quello Stato borghese che... sognava di rovesciare.
Ma lo faccia alla chetichella, dietro le quinte, con un fil di voce, lasciando perdere le tv e i giornali... E quando uscirà di galera, lo faccia in punta di piedi, strisciando contro i muri magari nottetempo, senza farsi vedere né sentire... Meglio che scompaia dalla circolazione. Perché a qualcuno, sentendolo ancora parlare, potrebbe venire la tentazione di ripensarci e di andarlo a cercare". Gli diedi allora l'indirizzo dei miei itinerari diurni, al centro della strada. Non sono cambiati.
La questione è molto semplice. Io (ma non soltanto io: vedi le dichiarazioni da me citate di Erri De Luca) non credo al racconto che Sofri fa del suo incontro col capo dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, il famigerato Federico Umberto D'Amato che, presentatogli da un conoscente comune, sarebbe andato a casa sua per proporgli "un mazzetto di omicidi" e garantirgli la successiva impunità.
Non ci credo perché D'Amato non era così sprovveduto da rendere visita a domicilio all'allora capo di un'organizzazione rivoluzionaria, senza neppure sincerarsi di non essere ripreso, registrato e dunque in seguito sputtanato da chi (in teoria) aveva tutto l'interesse a screditare un così altolocato rappresentante delle istituzioni che Lotta continua si proponeva di abbattere. Sofri ritiene di non dover aggiungere una sola parola? Pazienza. Chi nutriva dubbi sulla completezza del suo racconto continuerà a nutrirli.
Che poi il vertice di Lotta continua fosse coinvolto in almeno un omicidio non lo dico io: lo dicono due sentenze definitive della Cassazione che indicano in Sofri, Pietrostefani (tuttora latitante), Bompressi e Marino i responsabili dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi. Il che, almeno sulla carta, potrebbe spiegare come mai D'Amato si rivolse qualche anno dopo proprio a Sofri per commissionargli altri omicidi.
Quanto poi alle frasi che Sofri estrae da un mio articolo uscito sul Giorno nel 1996, le riscriverei tali e quali oggi se si riproducesse la circostanza che le originò: una vergognosa puntata di "Porta a Porta" in cui il capo delle Brigate Rosse, Renato Curcio, e il capo di Lotta continua, Adriano Sofri, all'epoca entrambi detenuti, discettavano amabilmente di amnistia (anzi, di autoamnistia) in una puntata dal titolo "Si può uscire dall'emergenza degli anni di piombo?".
Pensai, e continuo a pensare, che chi è stato condannato per delitti così orribili, ma soprattutto chi scriveva cose orrende come quelle che portarono al linciaggio di Calabresi e di altri "nemici del popolo", dovrebbe evitare di impartire lezioni di morale o di politica agli altri. Non foss'altro che per rispetto per le vittime. E che queste, per anni regolarmente escluse dai dibattiti sull'amnistia e sull'uscita dall'emergenza", avessero tutto il diritto di andare a cercare questi signori per dirgliene quattro.
Adriano Sofri per "il Foglio" l'11 aprile 2012. Ehi, un giornale su cui scrive Travaglio ha accettato di pubblicare Travaglio. E' una notizia. Quando toccò all'Unità, il direttore Furio Colombo si scusò e disse che non poteva. Ieri invece il Fatto di Antonio Padellaro l'ha fatto. Ha pubblicato le righe minatorie per conto terzi che Travaglio mi indirizzò tanti anni fa, ammonendomi a uscire solo di notte e rasente i muri.
Travaglio ha accompagnato il sacrificio con altre notizie delle sue, per esempio che io avessi partecipato da detenuto nel salotto di Vespa a una puntata di "Porta a Porta", il che sarebbe stato troppo anche per un detenuto ultraprivilegiato come fui io, a quel che si dice. Non ero affatto detenuto, naturalmente. Nella sua versione attuale, quelli che avrebbero dovuto, o dovrebbero, venire a cercarmi "sentendomi ancora parlare", sono "le vittime". E' un'innovazione. L'unica cosa che resta immutata è che non ci viene lui.
Paolo Cucchiarelli per "il Fatto Quotidiano" l'11 6 aprile 2012. Autore de "Il segreto di Piazza Fontana". Caro Sofri, che "gliene cale" a lei se a Piazza Fontana sono esplose una o due bombe? Cosa cambia, visto che la mia inchiesta "Il segreto di Piazza Fontana", da lei così sarcasticamente attaccata, inchioda fascisti di Ordine Nuovo, politici, servizi segreti italiani e stranieri alle loro responsabilità? Perché le due bombe, che potrebbero permettere di capire a fondo il "modulo" usato dai servizi per tappare la bocca a tutti, le sono così indigeste?
Non c'è nell'inchiesta un punto - se non le due bombe - che diverga da quel senso comune storico che non è bastato, però, nonostante 11 giudizi, a mettere ordine nelle tessere scomposte del mosaico della strage. E allora perché questo tentativo di stroncare - non di criticare - questa mia tesi?
Non ripropongo la pista anarchica, né gli opposti estremismi, né la commistione tra rossi e neri: parlo di una trappola studiata a tavolino, pianificata con l'infiltrazione, realizzata attraverso l'intervento di un fascista che "raddoppia" una specie di petardo attaccato a un orologio, che l'avrebbe fatto scoppiare certamente a banca chiusa. Si tratta di un modulo poi usato altre volte da Ordine Nuovo. Dov'è lo scandalo? Nell'agosto 1969, dopo le bombe del 25 aprile messe dai fascisti, vanno in galera gli anarchici; dopo le bombe sui treni messe dai fascisti, vanno in galera gli anarchici; dopo Piazza Fontana vanno in galera gli anarchici, ma la bomba che uccide l'han messa i fascisti. In tutti e tre i casi, il costante tentativo di coinvolgere la sinistra con tecniche che racconto in dettaglio.
Alcuni pensano che lei non sia un interlocutore perché parte in causa o perché condannato per l'uccisione di Calabresi. Io non lo penso, ma lei non è il depositario della verità su Piazza Fontana. Semmai il custode di un segreto politico amministrato per decenni.
I più non comprendono tanta veemenza e cosa le renda insopportabile questa lettura complessiva della strage, dei suoi retroscena operativi e politici, visto che dimostra proprio quello che a suo tempo Lotta continua cercava di raccontare con la sua contro-informazione. Perché tanto nervosismo dopo tanto silenzio? Il mio libro è uscito nel maggio 2009. All'epoca lei scrisse che "faceva caldo" (il "Maestro" era troppo assorto, troppo in alto per abbassarsi a rispondere).
Ora ha scritto oltre cento pagine che attaccano, divagano, insultano, con l'unico intento di gettare un anatema sulla mia tesi. Non se ne può discutere perché lei si stranisce e smadonna? Scusi, Sofri, ma lei chi è? Un tribunale? Un'entità morale superiore? Lei è parte interessata, perché la strage e la morte di Pinelli sono legate anche all'inchiesta che Calabresi intraprese sui retroscena del 12 dicembre - dopo un percorso che il film di Giordana sintetizza, anche se non racconta che quel dossier fu fatto sparire dalla scrivania del commissario dopo la sua uccisione -.
A fine maggio del 1972 Calabresi avrebbe dovuto dar conto ai magistrati di quello che aveva scoperto. In questa confusione di ruoli e opinioni (si sono visti storici, per di più in ginocchio, dar lezioni con la penna tremolante), "Romanzo di una strage" è un'opera "corsara", nel segno di Pasolini, perché rompe - nel rispetto di tutti i protagonisti di quella tragedia - un tabù che non doveva essere violato. Ecco perché lei ha atteso l'uscita del film per far colare odio sulla mia inchiesta .
Come fa, ad esempio, con cinismo sconfinato, attribuendomi la volontà di "‘infangare" Pinelli, leggendo quel capitolo con una superficialità che non è concessa a lei, che per anni si è "nascosto" dietro quella morte per giustificare le accuse orribili a Calabresi. Anche perché lei nel 2009 chiude il suo "La notte che Pinelli" gettando la spugna. Alla giovane che le chiede cosa sia successo in quella stanza lei dice: "Non lo so". Proprio lei?
Il libro tenta di spiegare perché spariscono i reperti decisivi per capire l'operazione - i finti manifesti anarchici, la miccia nel salone della Bna, l'esplosivo che raddoppia la bombetta depositata da una mano ignara - ma lei cassa tutto, ridicolizza, sostiene che le fonti sono anonime e per di più di destra. Un'altra menzogna. Ho fondato tutto sul solo lavoro d'inchiesta. In appendice, c'è una testimonianza di un fascista che ho cercato io, forte degli elementi raccolti. Nel testo riporto due, tre volte alcune sue affermazioni, tutelo la sua identità come ha chiesto quel signore e mi impone la mia professione.
Non è anonima la testimonianza di Silvano Russomanno, da cui sono andato non come dice lei, a chiedere informazioni, ma per raccogliere anche la sua versione dei fatti; né quella di Ugo Paolillo, il primo magistrato a indagare sulla strage e a cui venne tolta l'inchiesta perché stava capendo cosa era avvenuto. Del resto, lei stesso nel suo "L'Ombra di Moro" (pag. 20) sostiene tutto su una fonte anonima, in base alla quale Licio Gelli avrebbe partecipato a riunioni di esperti durante il sequestro Moro al ministero della Marina.
Contro la mia lettura dei fatti si è scatenata un'isterica campagna, ridicola e fuori del tempo, con vette di vera comicità. Come quando il direttore di Repubblica fa il "copia e incolla" dal dossier Sofri, gridando che non ci sono sufficienti verità giudiziarie sulla strage, per poi criticarmi perché il mio libro non avrebbe riscontri giudiziari! Legge Sofri, ma non la fonte delle critiche di Sofri e sostiene, insomma, che mi sarei inventato tutto.
Non sarebbe più utile ricordare che alla magistratura fu impedito di capire? Lo ammette la sentenza di Catanzaro del 1981 quando dice che i giudici non sono riusciti a indagare il ruolo del fascista Mario Merlino nel gruppo "22 marzo", quello definito da Gerardo D'Ambrosio, ne "Il Belpaese", "un circolo pseudo -anarchico perché, a contarli tutti, di esso facevano parte fascisti, infiltrati, informatori, addirittura un agente di pubblica sicurezza in incognito". Merlino era l'anello di congiunzione tra gli imputati del gruppo veneto e del gruppo pseudo-anarchico. Il danno investigativo e di conoscenza fu irreparabile. Ma tutto questo per lei non conta.
Il film "Romanzo di una strage", al di là delle differenze, anche consistenti, con il mio lavoro, coglie narrativamente il nucleo che tiene prigioniera questa vicenda ancora oggi e che spiega la virulenza della sua reazione: le doppie bombe e le bombe in più che dovevano scoppiare a Milano. Ecco perché lei ha atteso il film per replicare a un libro di tre anni prima. L'obiettivo è la de-legittimazione dell'ipotesi della doppia bomba. Perché la tutela del segreto di Piazza Fontana è il cuore della battaglia combattuta da Lc.
"Romanzo di una strage" è il film che rivela quel segreto, lo divulga, lo fa entrare nel circuito popolare. Questo è il nocciolo dell'isteria. E ora capisco bene perché a lei, Sofri, sia cara una frase di Kafka: "Non ci fa tanto male ricordare le nostre malefatte passate, quanto vedere i cattivi effetti delle azioni che credevamo buone".
Fabrizio Rondolino per thefrontpage.it il 6 agosto 2012. Mario Calabresi è un caso fortemente emblematico: la sua rapida e immeritata carriera racconta esemplarmente le psicosi e le ipocrisie italiane, e ci aiuta a capire il nostro disgraziato Paese. Il fatto che non se ne possa parlare, se non in termini encomiastici, e che chi ne parla venga subissato di insulti, è un'ulteriore prova della sua centralità (oltreché, naturalmente, dell'ipocrisia italiana). Torno dunque a scriverne, senza i rigidi limiti (e le semplificazioni) imposte da Twitter.
Ho cominciato a chiamare pubblicamente Mario Calabresi l'Orfanello dopo aver visto la prima puntata del suo programma su Rai3 dello scorso anno. Anziché parlare dell'Italia, Mario Calabresi parlava di sé: cioè della sua tragedia personale e familiare. La tecnica è ben nota agli americani: non si vendono fatti e opinioni, ma personaggi e storie (Obama non si è lanciato verso la Casa Bianca con un saggio politico, ma con un'autobiografia).
Nulla di male né di strano, dunque: nel teatro mediatico-politico Mario Calabresi ha scelto di impersonare l'Orfanello. Lo aveva fatto con un libro di successo, con innumerevoli presentazioni pubbliche e comparsate televisive, e persino con una stucchevole cerimonia quirinalizia.
Il punto è che Mario Calabresi è un orfano del tutto particolare. Quando suo padre, il commissario Luigi Calabresi, fu assassinato sotto casa dai sicari di Lotta continua, tutta l'Italia democratica e antifascista, tutta l'Italia dei salotti e delle redazioni brindò spensierata e allegra. Perché il commissario Calabresi era il responsabile - morale, politico, simbolico - di un altro omicidio: quello di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico ingiustamente sospettato per la strage di piazza Fontana, illegalmente trattenuto da Calabresi in questura e infine misteriosamente volato giù da una finestra del quarto piano.
Calabresi aveva una vera e propria ossessione per anarchici e "cinesi", come allora venivano chiamati gli extraparlamentari; mentì più volte su Pinelli; era famoso per i metodi spicci, da "duro".
Camilla Cederna scrisse un manifesto contro di lui, pubblicato dall'Espresso e sottoscritto dalla crema del giornalismo e dell'intellettualità italiana (fra cui Natalia Ginzburg, la cui nipote Caterina è oggi la moglie di Mario). Quando Calabresi fu ammazzato, nessuno dei firmatari versò una lacrima o condannò l'omicidio. E vent'anni dopo, quando finalmente un magistrato formalizzò ciò che tutti sapevano da sempre, e cioè che era stata Lotta continua ad organizzare l'attentato, quella stessa opinione pubblica democratica e antifascista insorse sdegnata in difesa di Adriano Sofri.
Quel che è troppo, è troppo: persino nella sinistra italiana. E così, quello stesso mondo che brindò alla morte del padre pensò bene di lavarsi la coscienza risarcendo il figlio con una splendida carriera. Mario Calabresi ne approfittò volentieri, in nome di non si sa bene quale spirito di riconciliazione nazionale, scalando Repubblica e diventando infine (su proposta di Berlusconi, che voleva liberarsi di Giulio Anselmi) direttore della Stampa.
Questa è la storia, e non c'è molto da aggiungere. L'Italia fa notoriamente schifo, e la storia pubblica dell'Orfanello e dei suoi molti sponsor non fa eccezione.
Un'ultima osservazione sul ‘fatto personale'. È vero, Mario Calabresi mi ha cacciato dalla Stampa, e lo ha fatto nel peggiore dei modi: per un anno e mezzo non ha risposto né alle mail, né alle telefonate, né alle proposte di articoli; poi mi ha convocato per dirmi che scrivevo poco, e che La Stampa era in difficoltà. Questo fa di lui una persona con scarse qualità umane; quanto a me, ci sono ovviamente rimasto molto male. Ma il ‘caso Mario Calabresi' resta in tutta la sua imponenza, e accusarmi di interesse personale è un'altra forma di ipocrisia.
Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano" il 19 dicembre 2013. Mariano Rumor, Presidente del Consiglio. L'aria grave. La voce meccanica. Il bianco e nero del 12 dicembre 1969: "L'azione fermissima, immediatamente intrapresa per individuare e colpire i vili delinquenti, è la certezza che io in nome del governo dò al Paese". Quarantaquattro inverni dopo, in quel cratere di delusioni che sono le promesse, Piazza Fontana è ancora lì.
Ne "Gli anni spezzati", la trilogia sui Settanta che Rai Unomanderà in onda da metà gennaio in sei puntate, Emilio Solfrizzi la percorre riflettendo con un amico a passo lento. "Questo luogo non sarà mai più lo stesso". Parla di golpe, fascisti e finti anarchici. Si scopre a dar ragione agli editori rivoluzionari.
Interpreta un Luigi Calabresi lucido e molto solo che dal giorno della morte in Questura del "frenatore delle Ferrovie dello Stato in servizio a Porta Garibaldi" Giuseppe Pinelli: "Nel mio ufficio, con i miei uomini" sente il dovere di razionalizzare: "Non siamo stati in grado di spiegare che è successo", e conta il tempo che gli resta.
Lotta Continua gli augura la morte. All'università, sui volantini, ballano domande che sono già risposte: "Commissario che fai, spingi?". Nei cortei cupi, con i caschi in testa, il volto coperto e i bastoni in bella vista, gli urlano fascista e gli gridano assassino. La genesi La finzione restituisce il clima d'epoca. Il repertorio conferma l'impressione.
Graziano Diana, regista e sceneggiatore per Albatross e Rai fiction di 600 minuti che attraversano un decennio della storia d'Italia raccontata dalla parte delle vittime, non l'ha edulcorata. Ha chiesto l'aiuto di Luciano Garibaldi, Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato per la consulenza storica e poi nelle relative ristrettezze di bilancio (progetto elaborato fin dalla fine del 2005, 9 milioni di euro complessivi, ricostruzione impeccabile, affidata allo scenografo di Benigni, Bellocchio, Fellini e Risi, Giantito Burchiellaro, qualche interno serbo, qualche compromesso, una manciata di validi attori slavi), ha tracciato con pazienza le rette convergenti di tre destini.
Un poliziotto, Luigi Calabresi. Un giudice (il magistrato genovese Mario Sossi sequestrato dalle Brigate Rosse nel ‘74, l'ottimo Alessandro Preziosi). Un dirigente della Fiat (Giorgio Venuti, l'attore Alessio Boni) che nella Torino del '79 si trova a firmare sessantuno lettere di licenziamento a operai sospettati di avere contiguità con il terrorismo scoprendo poi di avere una figlia militante in una costola di Prima Linea (nel film Giulia Michelini).
L'unico profilo di pura invenzione narrativa (con molte aderenze nel reale, compresa l'arbi - trarietà di alcune di quelle "comunicazioni aziendali") che la filologia de "Gli anni spezzati" concede all'atmosfera. Che è quella della guerra. Nel mondo rovesciato in cui si può entrare da stragisti in un'aula di giustizia, essere condannati in contumacia e diventare miliardari, travestirsi per diluire coscienza e rimorso in accettabile equilibrio, Graziano Diana ha scelto di non farlo.
I suoi eroi hanno il fascino dimesso di chi si autoinfligge il castigo del princìpio. L'umanità dei martiri per caso che anche nella paura e nell'insonnia, marciano: "Chissà come sarai tu da grande", dice Calabresi al figlio Mario: "Forse papà non riuscirà a vederti".
Il senso del dovere di Francesco Coco, procuratore presso la Corte d'Appello di Genova, un Ennio Fantastichini, tragico e dolente. Per impugnare la sentenza della Corte d'Assise (e dire una parola decisiva sullo scambio tra Mario Sossi e gli otto detenuti della XXII ottobre proposto dai brigatisti che tengono prigioniero il giudice) ha pochi giorni e una mostruosa pressione sulle spalle. Da un lato il suo delfino, l'amico Sossi, sorvegliato da Mara Cagol, processato da Alberto Franceschini, infine liberato dopo 35 giorni di cattività trascorsi in una villetta dell'Alessandrino. Dall'altra lo Stato.
La linea della fermezza anni prima di Aldo Moro. In tribunale i colleghi gli chiedono clemenza e firmano petizioni. La moglie di Sossi, Grazia (Stefania Rocca) evade dall'embargo della Rai per chiedere la liberazione del marito e affidare il suo durissimo appello alla Televisione Svizzera. La notte prima di presentare il parere, Coco soffre e si tormenta. Lo scrive e strappa fogli, fuma e inizia di nuovo. Poi firma e va a dormire.
Gli telefona il Presidente della Repubblica. Gli chiede di non cedere. Coco spegne la luce, non cambia il testo di una virgola, infrange il suo universo di riferimento per sempre e dopo essersi espresso per il no ("Un arrogante voltafaccia" dirà Renato Curcio) va a morire ai piedi di una salita genovese intitolata a una santa, discutendo di diritto con un uomo della scorta, due anni dopo il sequestro Sossi.
La vendetta ha la memoria lunga e non offre consolazioni. Non riannoda i fili, ma li sfrangia. Sfuma le stinte ideologie di un tempo accorciando le distanze tra i nemici, minaccia il perdono globale, pretende l'amnistìa ma da sempre dimentica- unica costante di un abito nazionale a identità variabile gli anelli deboli su cui il film di Diana (patrocinato dai familiari delle vittime del terrorismo e dall'Associazione Nazionale Polizia di Stato) allarga meritoriamente lo sguardo.
Così tra il portavalori Alessandro Floris, immortalato ad occhi aperti in istantanee da amatori che per alcuni segnano l'alba della lotta armata, ucciso come un cane nel 1971 mentre si attacca a una Lambretta in fuga, "perché ostacolava l'operazione di autofinanziamento dei compagni" e il tramonto della Fiat, ne "Gli anni spezzati" ritrovi il doloroso tributo dato dalle retrovie a un decennio atroce.
L'odio. Le "risoluzioni strategiche". Gli slogan. "Guida e Calabresi/ sarete presto appesi". "Coco/Coco/è ancora troppo poco". I cori da stadio. Il branco. A Milano come a Genova. A Settimo Torinese come nel cuore della produzione automobilistica italiana, fotografata nei mesi che precedono il corteo dei quarantamila, il declino industriale e la riconversione definitiva che Nicola Tranfaglia definirà: "Una radicale trasformazione della città".
Cognomi anonimi confinati in una breve. Baristi trucidati per sbaglio. Medici coraggiosi che denunciano i sabotaggi e pagano con la vita. Guardie giurate. Studenti della scuola di amministrazione aziendale della Fiat rastrellati, riuniti nella palestre, come a Beslan e gambizzati da commandi paramilitari a sangue freddo. Corone di fiori avvizziti.
Ai margini della solitudine di chi dovette fare una scelta, al confine di un'opzione irreversibile, nel film di Diana prodotto da Alessandro Jacchia e Maurizio Momi, balla anche l'ostinazione di chi provò ad evadere altrove. In una complicata normalità che celebrava il futuro e lo sbarco sulla Luna, Italia-Germania 4-3 e Jon Voight sui manifesti di Midnight Cowboy, i beat, l'austerity, il disimpegno, l'amore libero e il referendum sul divorzio.
Per dare un quadro d'insieme che tenesse uniti spirito civile, deliri verbosi: "Vogliamo essere sabbia non olio nei meccanismi del sistema", buoni, cattivi, sommersi, salvati e stanze stanche in cui si discuteva "di terrorismo e di fotografia", Diana ha evitato derive ideologiche.
Lo attaccheranno (Garibaldi e Baldoni si sono occupati e forse sono ancora -se la definizione conserva un significato- di destra) ma anche se l'ambizione è enorme, non tutto funziona e certe sottotrame sentimentali del film hanno un impatto minore dell'affresco particolare, intimo e casalingo, alla destra politica (segnalata puntualmente e senza omissioni nei suoi tentativi di mimèsi e sovversione da Franco Freda in giù) il regista ha evitato di erigere impropri monumenti.
Nel disegnare l'Italia dei Settanta, Diana che fu sceneggiatore dell'Ambrosoli di Placido, ha messo passione. La stessa che nella brughiera dove non si vede a un passo, Luigi Calabresi scorge come unico, nitido orizzonte verso cui puntare: "Il nostro paese è uscito dalla dittatura solo da vent'anni e adesso si trova al confine di due mondi, spinto da una parte e dall'altra. Noi siamo nel mezzo, siamo il vaso di coccio, questo mestiere non puoi farlo se non hai passione".
Ne "Gli anni spezzati", si tenta di indulgere alla retorica un po' meno dello stretto necessario. La strada è un'altra. Togliere polvere all'oblìo. Addentrarsi nelle sfumature, comprendere la forza brutale del dissidio interiore. Le barriere familiari, di linguaggio, di generazione. Il livore gratuito. L'equilibrio impossibile. L'incomunicabilità che come in "Colpire al cuore" di Amelio trascina a fondo "le vittime delle circostanze" condannando colpevoli e innocenti.
Gli inganni della prospettiva: "Benvenuto nel mondo dei grandi" dice ancora Calabresi a una giovane recluta: "Il posto in cui i ladri sono spesso guardie mascherate". In questo vorticare di specchi in cui il riverbero del dolore spazza via ragioni e convinzioni e in cui finire nella rete di un gioco più grande di sè che non mette premi in palio, è la regola, Diana si è affidato a volti che al copione hanno aggiunto il talento. Ne "Gli anni spezzati" ci sono prove distantissime dalla routine.
Uno degli attori più sottovalutati d'Italia, Thomas Trabacchi (già Marco Nozza in "Romanzo di una strage" di Giordana), poliziotto di ferro e brusco comandante della celere. Non una smorfia in più. Alessio Boni, quadro dell'azienda fondata da Agnelli, vedovo e docente, sprofondato in un abisso esistenziale che ne cambia i tratti somatici restituendolo allo spettatore dimagrito, efebico, quasi irriconoscibile.
Allucinato e incredulo: "Mia figlia spara nella scuola in cui insegno io". Alessandro Preziosi che del Sossi originale conserva la ritrosìa modulando (e sorprendendo) con mano ferma rabbia, disgusto e sofferenza. Emilio Solfrizzi che ha tra tutti il ruolo più difficile si confronta suo malgrado con il commissario già messo in scena da Valerio Mastandrea.
Pur essendo un'altra cosa e non sempre servito, quando non penalizzato dalla scrittura delle scene corali, trova in quelle in cui si muove da solo (circondato da uno spazio vuoto, ostile, grigio e atono) una dignità sobria e la cifra giusta per commuovere di sottrazione, rendendo omaggio all'umanità nascosta di Luigi Calabresi, alle sue debolezze, ai suoi dubbi e non al santino.
Arrivare al risultato in dieci ore di film non era facile. E se l'ambiente risulta credibile e certi articoli di stampa, certi appelli vergati dagli intellettò e certe carezze da Linotype: "Vogliamo la morte dei nostri nemici" contrastano con la voce di Leonard Cohen che accompagna Suzanne sulle rive del fiume finendo per dare ragione più in là dei dibattimenti infiniti a quel che Giampiero Mughini disse a Jacopo Iacoboni: "Io contesto l'impudenza vergognosa degli ex di Lotta Continua che ancora oggi si mettono sul piedistallo dei presunti guru e continuano a volersi raccontare come se fossero stati una forma di innocuo francescanesimo scalzo", se accade, si deve anche alla recitazione.
Dei maschi al fronte senza divisa (molto bravo anche Enzo De Caro, terrorizzato primario ospedaliero costretto a dormire in astanteria) e delle donne che chiamate alla supplenza, salgono in cattedra dando lezioni di contegno e determinazione. Quando sono figlie disperate o smarrite (Giulia Michelini, intensa neoterrorista sulle orme del padre). Mogli furibonde (Stefania Rocca, diafana, bellissima nei panni di Grazia Sossi) o preoccupate (Luisa Ranieri, una Gemma Capra che intuisce l'importanza del trasferimento di Calabresi a Roma).
Nonne comprensive con gli sbagli dell'età acerba (Paola Pitagora), bambine solo troppo piccole per inseguire un sogno (Arianna Jacchia, all'esordio, convincente sorella di Giulia Michelini ne "L'ingegnere") o segretarie intimidite che davanti ai dubbi dei capi azienda: "Non si è mai visto un corteo di gente in cravatta", si danno coraggio, sciolgono i propri e il 14 ottobre dell'80, insieme ad Alessio Boni, fendendo Torino, decidono di scegliere finalmente da che parte stare. In cammino, senza più sacchi davanti alle finestre, paure o opportunismi miserabili.
In marcia, insieme a un fiume di persone che - dissero i testimoni con il grado di benevola approssimazione che si concede all'evento capace di rivoluzionare veramente (e per sempre) i rapporti di forza non solo nella Fiat - furono quarantamila. Da quel giorno, giurarono sollevati i sopravvissuti alla garrota aziendale e agli errori della politica e del sindacato (15.000 licenziati), non ci sarebbe più identificati con la fabbrica, ma "con il lavoro in fabbrica". Allora parve un soffio di consapevolezza. Trent'anni dopo è quasi archeologia industriale, catena che si spezza, motore collettivo che non gira e che non girerà mai più.
GIAMPIERO MUGHINI A DAGOSPIA il 16 gennaio 2014. Caro Dago, e siccome non ho uno straccio di giornale su cui poter scrivere neppure il mio codice fiscale sono qui a chiederti ospitalità. A proposito di questa recente fiction televisiva dedicata al tragico destino del commissario Luigi Calabresi. Non fosse stato per due successivi articoli apparsi sul "Fatto", prima un editoriale di Marco Travaglio e adesso un commento di Massimo Fini, le critiche più diffuse di questa fiction (assai modesta) sarebbero state quelle di chi lamentava che nelle due puntate mancavano immagini dell'"autunno caldo" o immagini che raccontassero quanto fossero numerose le bombe messe all'epoca dal "terrorismo nero". Roba che c'entrava sì ma non a tal punto con la vicenda di quel commissario di 33 anni di cui 800 intellettualoni italiani scrissero e sottoscrissero che era un assassino e un torturatore (dell'anarchico Giuseppe Pinelli) e pure non avevano in mano nulla che lo comprovasse, a parte il fatto che Pinelli s'era sfracellato cadendo dal quarto piano della questura milanese dov'era stato a lungo interrogato. La vicenda precipua di questa fiction era tutt'altra, era la solitudine profonda di questo commissario di polizia e fino alla mattina del 17 maggio 1972, quando un ragazzo alto gli si avvicinò alle spalle mentre Calabresi stava per aprire lo sportello della 500 con cui ogni mattina andava al lavoro. Senza scorta e disarmato.
L'"autunno caldo" certo che c'era e c'era stato, e pure le bombe dei fascisti (ma anche degli anarchici). Ma il cuore del racconto televisivo è un altro. Che quando Calabresi va in aula perché ha querelato "Lotta continua", il giornale portabandiera della campagna micidiale contro di lui, in quell'aula è solo come un cane, a parte l'avvocato che gli siede accanto. Solo come un cane, e muore solo come un cane. Mentre, lo ha raccontato una volta Nando Adornato, in un liceo "bene" di Torino scoppiano gli applausi alla notizia dell'attentato.
Ebbene, date le premesse del racconto televisivo è di certo singolare (come hanno scritto prima Travaglio e poi Fini) che nulla di nulla la fiction dedichi al chi, al come e al perché di quello che è stato il primo agguato mortale del terrorismo "rosso". La prima volta che dei "compagni" diventavano degli assassini.
Singolare sino a un certo punto. In Italia è pressoché invalicabile il muro fatto di omertà generazionale e di viltà intellettuale che copre l'assassinio Calabresi e dunque la vicenda giudiziaria fatta partire (nell'estate del 1988) dalle confessioni di Leonardo Marino, il militante di Lotta continua che guidava l'auto su cui risalì l'assassino di Calabresi.
Una vicenda giudiziaria infinita, suggellata da una condanna definitiva a 22 anni di Ovidio Bompressi (quello che spara), Giorgio Pietrostefani (il "duro" della Lotta continua milanese che avrebbe organizzato l'agguato), Adriano Sofri (il leader carismatico che avrebbe dato il suo suggello morale al tutto).
Una vicenda di cui meno si parla e meglio è, e difatti nella fiction se ne accenna furtivamente solo nei titoli di coda. Ne parlo per esperienza diretta. Una volta che Claudio Sabelli Fioretti mi stava interrogando e mi chiese chi fossero stati gli assassini di Calabresi, a me parve fin troppo ovvio rispondere che era stato un commando di Lotta continua e che era un bel drappello quello degli ex dirigenti di Lotta continua che sapevano com'era andata.
Successe il finimondo. Luca Sofri, il figlio di Adriano, scrisse che io e Sabelli eravamo dei killer. Uno dei pochi "ex" di Lotta continua che la pensavano come me, Claudio Rinaldi (il miglior direttore di giornali della mia generazione), venne intervistato dal "Corriere della Sera" e lo disse anche lui che non c'erano dubbi che a uccidere fosse stato un commando di Lc. Ebbene il redattore del gran quotidiano lombardo, appose all'intervista un titolo che era all'opposto del pensiero di Rinaldi.
Più tardi ho scritto un libro sull'argomento. Gelo assoluto, e a parte un bellissimo articolo del mio amico fraterno Aldo Cazzullo. Fra quelli che conoscevo ce n'erano che si dichiaravano esterrefatti che io avessi voluto scrivere un libro talmente malintenzionato. Ma chi me lo faceva fare, perché? Alcuni di quelli che si ergevano a difesa dell'innocenza di Lc, lo vedevi bene che non conoscevano una pagina che fosse una di quello sterminato materiale giudiziario.
E del resto uno scrittore e intellettuale che stimo, lo aveva scritto su una rivista da lui diretta. Che se ne vantava di non aver voluto leggere nemmeno una pagina di quelle circa 600 pagine a stampa dove sono trascritte le motivazioni della condanna di primo grado: dov'è enorme la mole di dati e di fatti che corroborano la confessione di Marino.
Perché mai avrebbe dovuto leggerle dato che il tutto si riduceva a un complotto di magistratura e polizia contro "i compagni di Lc"? Tutta robaccia, tutte invenzioni. A leggere quella sua vanteria gli mandai un sms più agro che dolce. Non mi ha mai risposto. Gelo. Silenzio. Omertà.
Massimo Fini per "Il Fatto Quotidiano" il 16 gennaio 2014. Nel serial documentaristico Gli anni spezzati (gli anni di piombo) Rai Uno si è anche occupata dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972. Quella mattina mentre il commissario usciva di casa, in via Cherubini 6, e stava per salire sulla sua 500, fu avvicinato alle spalle da un uomo che sparò due colpi di pistola, uno alla nuca, l'altro alla schiena, poi risalì su una 125 blu guidata da un complice e sparì nel traffico.
É curioso che in questo documentario, nel complesso abbastanza sgangherato non si facciano mai i nomi degli assassini (se non nei titoli di coda): Adriano Sofri, il leader carismatico di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, il suo braccio destro, condannati a 22 anni di carcere come mandanti, di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino esecutori materiali del delitto (il primo sparò, il secondo guidava la 125 blu).
Come se si volesse rimuovere dalla memoria dell'opinione pubblica non solo i responsabili di quel delitto ma anche l'ambiente in cui maturò. É strabiliante che si tenti questa obliterazione mentre, pur essendo quei fatti assai lontani, molti testimoni del tempo sono ancora vivi.
Io sono fra questi. Nel 1972 facevo il cronista all'Avanti! e abitavo in via Verga a non più di duecento metri da via Cherubini. Fui uno dei primi ad arrivare sul luogo del delitto. Il corpo di Calabresi era già stato portato via, ma sull'asfalto c'erano ancora pozze di sangue mentre qualcuno stava spazzando via, mischiandoli a della segatura e buttandoli in una di quelle palette che servono per sbarazzarsi della spazzatura, brandelli di cervello.
Lotta Continua e il suo settimanale, di cui erano o erano stati o sarebbero stati direttori-prestanome intellettuali di più o meno chiara fama, da Piergiorgio Bellocchio a Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella, Giampiero Mughini, aveva condotto una feroce campagna contro il commissario Calabresi accusandolo di essere il responsabile della morte dell'anarchico Pino Pinelli "caduto" nella notte fra il 15 e il 16 dicembre dal quarto piano della Questura di Milano dopo tre giorni di interrogatori in seguito alla strage di Piazza Fontana avvenuta pochi giorni prima (12 dicembre).
Conoscevo bene gli ambienti anarchici. Nel 1962 quando facevo la prima liceo al Berchet, un gruppo di giovanissimi anarchici aveva rapito a Milano il viceconsole spagnolo (a cui peraltro non verrà torto un capello) per cercare di impedire la condanna a morte di un antifranchista, Conill Valls.
Alcuni di quel gruppo venivano dal Berchet, ne erano usciti da pochissimo. Altri giovani anarchici, Tito Pulsinelli, Joe Fallisi, Della Savia li avevo conosciuti in seguito in uno dei bar di Brera, frequentato anche da Calabresi, poliziotto moderno, abile e accattivante, che girava in maglione, avevo incontrato anche Pino Pinelli, più anziano degli altri, sulla quarantina, che faceva il ferroviere.
Pinelli era il classico anarchico d'antan, lo era culturalmente e sentimentalmente, ma come uomo era mitissimo, uno che non avrebbe fatto del male a una mosca. Che si fosse gettato dal quarto piano gridando "É la fine dell'anarchia!" andandosi a spiaccicare nel cortile della Questura, che era la versione della polizia, pareva a tutti inverosimile.
Da qui la campagna contro Calabresi (che verrà poi assolto da ogni addebito perché al momento del volo di Pinelli non era nella stanza, c'erano altri poliziotti) condotta da Lc ma anche, sia pur con toni meno accesi, dall'Espresso e dall'Avanti!. Le indagini invece di puntare su Lotta Continua, il cui giornale nel titolo e nell'editoriale di Sofri aveva sostanzialmente plaudito all'omicidio (c'era stata anche una riunione del Direttivo di Lc in cui si era discusso se attribuirsene anche materialmente la paternità) si diressero a destra.
Perché in quegli anni postsessantottini in cui quasi tutti i giornali e i giornalisti se la davano da rivoluzionari era un delitto di lesa maestà indagare a sinistra, anche se la stella a cinque punte delle Br aveva già cominciato a brillare. Mi ricordo il tempo che si perse a seguire le piste di un giovane estremista di destra, Gianni Nardi, figlio di una facoltosa famiglia di San Benedetto del Tronto. Passarono così inutilmente gli anni e alla fine l'omicidio Calabresi fu archiviato fra i tanti casi irrisolti della recente, e torbida, storia italiana.
Sedici anni dopo, nel 1988, Leonardo Marino, un ex operaio della Fiat, ex militante di base di Lc, che vendeva frittelle in un baracchino ambulante di Bocca di Magra, mentre molti suoi compagni di origine borghese, Sofri compreso, si erano ben sistemati nei giornali, nell'editoria, nella politica e, più in generale, nell'intellighentia, si autodenunciò per l'omicidio Calabresi: lui e Ovidio Bompressi erano stati gli esecutori materiali, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti.
Marino non era un pentito, diciamo così, classico, non era in prigione, non era indagato, nessuno lo cercava, viveva tranquillo a Bocca di Magra, non aveva nessun interesse a confessare un omicidio che gli sarebbe costato undici anni di galera (anche se poi, grazie proprio alla capacità degli altri imputati a portare il processo per le lunghe, la sua pena cadrà in prescrizione, ma al momento della sua confessione Marino questo non poteva saperlo).
Al processo, iniziato nel novembre del 1989, Sofri e gli altri si difesero malissimo. Negando anche l'evidenza. Negando che esistesse un secondo livello di Lc dedito agli "espropri proletari", cioè alle rapine. Una di quelle rapine fu compiuta con la mia macchina, una Simca coupè rossa che un mio amico, Ilio Frigerio, militante di Lc, mi aveva chiesto per uscirci, disse, con una ragazza, la sera.
Me l'avrebbe riportata la mattina dopo. E in effetti la mattina la macchina, intatta, era nel mio garage. Qualche tempo dopo Ilio mi confessò che aveva dato la mia macchina ad altri militanti di Lc che avevano bisogno di un'auto "pulita" per fare una rapina. In quanto a Pietrostefani dalle sue dichiarazioni sembrava che in Lc fosse stato solo di passaggio. Mentre tutti sapevano che se Sofri era l'ideologo Pietrostefani era il capo dell'organizzazione. "Chiedilo a Pietro", dicevano i militanti di Lc quando c'era un problema di questo genere da risolvere.
Durante i vari processi che si conclusero nel 1997 con una condanna definitiva della Cassazione, e anche dopo, venne fuori tutto il ripugnante classismo dell'entourage degli ex Lotta Continua (Roberto Briglia, Gad Lerner, Luigi Manconi, Marco Boato, Paolo Zaccagnini, Enrico Deaglio, Guido Viale): la testimonianza di Leonardo Marino non valeva niente, perché era un venditore di frittelle, un ex operaio, un plebeo, niente a che vedere con la raffinatissima intelligenza di Sofri. Una degna conclusione per chi era partito per buttare giù dal trespolo i padroni.
Sofri ha avuto otto processi, due sentenze interlocutorie della Cassazione, una assolutoria (la cosiddetta "sentenza suicida" perché il dispositivo era volutamente in stridente contraddizione con la motivazione), quattro condanne. Ha goduto anche di un processo di Revisione, a Venezia, cosa rarissima in Italia che probabilmente nemmeno Silvio Berlusconi riuscirà a ottenere. E anche il processo di Revisione ha confermato la sentenza definitiva della Cassazione del 1997.
Nessun imputato in Italia ha mai avuto le garanzie di Adriano Sofri. Nonostante tutto ciò la potente lobby di Lotta Continua, divenuta trasversale e incistata in buona parte dei media, ha continuato a proclamare a gran voce la sua innocenza e a pretenderne la scarcerazione per grazia autoctona del Capo dello Stato.
Nel frattempo Sofri è diventato editorialista principe del più venduto settimanale di destra, Panorama, e del più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica. Per meriti penali, suppongo, perché in tutta la sua vita Sofri ha scritto solo due pamphlet, mentre proprio la prigionia gli avrebbe dato la possibilità di scrivere, perché il carcere è un posto atroce ma ha infiniti tempi morti (Caryl Chessman, Il bandito della luce rossa, condannato a morte per dei presunti stupri, scrisse in galera quattro libri, fra cui due capolavori : Cella 2455 braccio della morte e La legge mi vuole morto).
Quando, a volte, un'università o qualche liceo mi invitano a tenere lezioni di soi-disant giornalismo e, alla fine, i ragazzi mi si affollano attorno e mi chiedono come si fa a diventare giornalista, rispondo: "Uccidete un commissario di polizia o, se non avete proprio questo stomaco, prendete tangenti come Cirino Pomicino".
Indubbiamente Adriano Sofri, da giovane, aveva un indiscutibile carisma. Anche un uomo di forte personalità come Claudio Martelli ne subiva il fascino se ha chiamato Adriano uno dei suoi figli in omaggio all'amico. Io questo fascino non l'ho mai capito. Era piccolo, mingherlino, il mento sfuggente del prete, l'aspetto molliccio per nulla virile.
Ma, si sa, le vie del carisma sono misteriose. Il giornale di Lotta Continua pubblicava le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi, le abitudini di fascisti o presunti tali, alcuni dei quali aggrediti sotto casa, specialità della ditta, sono finiti in sedia a rotelle. Almeno questo dovrebbe far riflettere i difensori d'ufficio di Adriano Sofri.
Dagospia il 16 gennaio 2014. Polemiche sulla fiction su Calabresi, gli anarchici del Ponte della Ghisolfa: ‘Operazione orribile che ci ha ferito’ – Caccia agli errori e alle inesattezze sul web (il manifesto contro Casapound nel 1969!) – Crainz: ‘Non accennare al golpe Borghese, cancellare la pesante presenza dei neofascisti: quelle sono colpe’…
Silvia Fumarola per ‘La Repubblica' il 14 gennaio 2014.
«Si difenderanno dicendo che una fiction è un'opera di fantasia, ma allora non dovevano chiamare il commissario col nome di Calabresi e non dovevano ambientarla a Milano ma in una città di fantasia. Hanno fatto un'operazione orribile che ci ha ferito». Mauro Decortes, portavoce del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, critica Gli anni spezzati-Il commissario la contestatissima serie di Graziano Diana trasmessa su RaiUno.
Operazione ambiziosa, raccontare gli anni 70, che ha scatenato polemiche feroci. Dopo il film su Calabresi con Emilio Solfrizzi, il 14 e il 15 andrà in onda quello dedicato al rapimento del giudice Sossi; chiude la trilogia, il 27 e il 28, la storia di un immaginario dirigente Fiat che combatte il terrorismo in fabbrica mentre la figlia abbraccia la lotta armata.
«Il bar degli anarchici a Milano non è mai esistito» spiega Decortes «Ma l'operazione è sottile: lo spettatore ha l'impressione di entrare in un bar di malviventi. Se alla fine si fa capire che non hanno messo la bomba, restano lo stesso delinquenti e drogati». Twitter demolisce la fiction «revisionismo storico in diretta», scena per scena, dai dialoghi ai costumi ai "buchi" nel racconto.
Un errore clamoroso viaggia in rete, notato da quelli che sono considerati gli anarchici del terzo millennio, il collettivo Militant. Durante una perquisizione nella stanza di un anarchico appare un manifesto contro Casapound. «Nel 1969! Con 40 anni d'anticipo! C'eravamo sbagliati», si legge sul sito antagonista «questo non è RAIvisionismo storico; questo è RAIvisionismo futurista».
Guido Crainz, docente di Storia contemporanea nella Facoltà di Scienze della comunicazione dell'Università di Teramo boccia la serie: «Tralasciamo i dettagli, che pure hanno colpito il pubblico e hanno valore. Nel momento in cui scompare il clima dell'autunno caldo, quello che accade dopo resta incomprensibile» spiega il professore
«Questo per me è l'aspetto centrale. Non se ne fa cenno e risulta incomprensibile, nella seconda puntata, l'emergere della pista nera. All'inizio del racconto non si spiega mai che la stragrande parte degli atti violenti sono fascisti: penso alle bombe dell'aprile e dell'agosto ‘69. La responsabilità principale è far scomparire le offensive di quei mesi, ignorare la pista nera, che era battibile da subito».
Un'altra pecca, secondo lo storico, è che gli autori non sono riusciti a restituire l'immagine autentica dell'Italia di quegli anni. «Manca il clima sociale» dice lo storico. «Quella rappresentata è un'Italia finta, inesistente. Non faccio il processo alle intenzioni, vedo una falsificazione del periodo. Poi ho trovato che altri aspetti, invece, sono stati curati, senza omissioni: come il fermo protratto di Pinelli. Alcuni punti chiave ci sono, e sono spiegati allo spettatore. Per esempio mentre Pinelli scompare, Calabresi dice: "È la mia stanza, quelli sono i miei uomini"».
«Per capire quale fosse il clima di quegli anni» continua Crainz, «c'è un documentario straordinario di Giuseppe Fiori e Sergio Zavoli, Quelli che perdono, trasmesso da
Tv7 il 19 dicembre del 1969: partiva dalla folla ai funerali delle vittime di Piazza Fontana». E qui si apre il discorso sul ruolo del servizio pubblico «che ha una grande responsabilità quando si tratta di raccontare la storia di questo Paese. Che sia un prodotto di quart'ordine si vede, ma è insensato prendersela con gli attori» dice Crainz «fanno il loro lavoro, la colpa è nella scrittura.
Non accennare al golpe Borghese, trattare in quel modo la morte di Annarumma, quelle sono colpe. Cancellando la pesante presenza dei neofascisti - c'è solo una scritta su un muro - si deforma tutto, non si capisce come nasca la pista nera. E infatti leggo che ai giornali di destra la serie è piaciuta... La sinistra da salotto, il modo di rappresentare Pansa o la Cederna, certe fesserie non le considero. Il punto è questo: scompaiono i fascisti, le ragioni da cui nasce la strage di Piazza Fontana, e scusate se è poco. Dietro quella strage c'è tutto quello che sarebbe successo dopo».
Giampaolo Pansa per “Libero Quotidiano” il 24 giugno 2015. Sotto i chiari di luna del giugno 2015 siamo costretti a riparlare di Adriano Sofri, arruolato dal ministro della Giustizia come grande esperto di carceri. I giornali oggi in edicola saranno pieni di ritratti del vecchio capo di Lotta Continua. Ma temo che scriveranno assai di meno del vero protagonista di uno dei drammi italiani degli anni Settanta: il commissario Luigi Calabresi. Chi è morto giace, chi è vivo si dà pace. E conquista una poltroncina governativa. E allora io parlerò di quel funzionario dello Stato ucciso al culmine di una campagna d’odio scatenata contro di lui dalla truppa al comando di Sofri. Era una mattina di fine marzo del 1972, uno dei giorni del caso Feltrinelli, e noi cronisti stavamo mendicando notizie alla questura di Milano. Nella stanza di Antonino Allegra, che dirigeva la sezione politica, ci fu un incontro casuale con quel giovane commissario linciato su tutti i muri della città. Calabresi indossava il solito maglione girocollo e appariva travolto dall’amarezza. Mi disse: «Da due anni vivo sotto questa tempesta e lei non può immaginare che cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere». Continuò quasi tra sé: «Non riesco più a muovere un passo. L’altro giorno è bastato che mi vedessero uscire dall’obitorio per sostenere che avevo cominciato a trafficare con il cadavere di Feltrinelli». Si prese la testa tra le mani e mormorò: «Ma che Paese è mai diventato questo?». Allegra, il capo di Calabresi, lo ascoltava in silenzio. Poco prima si era discusso dei nuovi nuclei di terroristi che, mese dopo mese, diventavano più aggressivi. «Speriamo che non comincino a sparare sui poliziotti!», sospirò Allegra. Guardai Calabresi e gli chiesi se avesse paura. Mi rispose: «Paura no, perché ho la coscienza tranquilla. Ma è terribile lo stesso. Potrei farmi trasferire da Milano, però non voglio andarmene di qui». Poi, dopo un lungo silenzio ribadì: «No, non ho paura. Ringraziando Iddio, trovo in me stesso, nei miei princìpi, nell’educazione che ho ricevuto, la forza per superare questa prova». Il commissario tentò di sorridere. Ma in quella stanza si avvertiva un gelo quasi mortuario. Calabresi aveva gesti nervosi e si muoveva a scatti. Nella memoria ho il ricordo di un essere umano che si sentiva un animale braccato. Due mesi dopo, la mattina del 17 maggio 1972, rividi Calabresi steso sul selciato con tre proiettili in corpo. Allora non pensai: ecco una morte annunciata! Non lo pensai perché il romanzo di Gabriel Garcia Marquez sarebbe uscito con quel titolo soltanto dieci anni dopo.
Tuttavia mi dissi: gli italiani onesti dovrebbero piangere un uomo perbene che aveva cominciato a morire la sera della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Calabresi, 33 anni, sposato con Gemma Capra e padre di due bambini, si era trovato dentro uno dei buchi neri della storia italiana. La bomba alla Banca dell’Agricoltura era esplosa da qualche ora e la sensazione di molti era che si trattasse di un ordigno collocato da anarchici. La questura di via Fatebenefratelli cominciò a fermare gente di quell’area politica. Tra loro c’era Giuseppe Pinelli, un ferroviere allora sconosciuto a tutti, ma non ad Allegra e a Calabresi.
Tante volte l’avevano notato nei cortei e spesso convocato per accertamenti. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre, il commissario lo vide davanti al circolo anarchico di via Scaldasole e gli disse: «Venga in questura, è una formalità». Pinelli seguì con il motorino la Fiat 850 della polizia. Fu un tragitto lento attraverso il traffico convulso di Milano, nebbia, smog, folla nelle strade. Andava adagio verso una fine orrenda. Tre sere dopo, Pinelli volò da una finestra dell’ufficio politico e si schiantò in un giardinetto stento della questura, coperto di neve sporca. Emerse un altro mistero. Molti pensavano che il ferroviere anarchico fosse stato scaraventato nel cortile da uno degli agenti del commissario.
Ma poteva anche aver deciso di morire. Oppure la caduta era stata accidentale, durante una pausa dell’interrogatorio. Ancora oggi, quarantacinque anni dopo, l’unica certezza è che assieme a Pinelli cominciò a morire anche Calabresi. La sentenza la scrissero, giorno dopo giorno, quasi tutti i gruppi della sinistra eversiva. Loro non avevano dubbi: a uccidere Pinelli era stato il commissario. Di prove non ne esistevano, ma in quel tempo di follia sovversiva era soltanto un dettaglio senza importanza. Cominciò un linciaggio feroce che sarebbe durato più di due anni. Il giornale di Lotta Continua fu il più spietato in quella campagna odiosa.
Articoli, commenti, vignette lanciavano un solo grido: Calabresi assassino! Ricordo un disegno che gelava il sangue. Con una ghigliottina giocattolo, il commissario insegnava alla figlia bambina come tagliare la testa a una bambola con la “A” degli anarchici sulla camiciola. L’odio nei confronti di Calabresi fu un delirio che travolse anche ottocento big della cultura, della scienza, della mondanità e del giornalismo italiani. Pronti a firmare un manifesto pubblicato dall’Espresso che indicava nel commissario il torturatore e l’assassino di Pinelli. Un vergogna assoluta di cui, in seguito, soltanto pochissimi si dichiararono pentiti. Ma in quel modo il cerchio di fuoco si chiudeva. Le eccellenze firmavano.
E nei cortei si urlava: «Calabresi sarai suicidato!». Quando fu promosso commissario capo, i muri di Milano vennero tappezzati di manifesti che lo mostravano con le mani lorde di sangue. Un scritta spiegava: «Così lo Stato assassino premia i suoi sicari». Calabresi divenne il simbolo del poliziotto da annientare. Poi ci fu la trafila che molti di noi, cronisti con i capelli bianchi, ricordano. La querela per diffamazione del commissario a Lotta continua, la denuncia contro di lui della vedova Pinelli, la comunicazione giudiziaria per omicidio volontario, spedita a Calabresi da una magistratura fuori di senno.
Il commissario disse: «Ho fiducia nella giustizia», ma non ebbe mai la possibilità di difendersi in un processo. Nel frattempo, la Milano rossa era diventata una città di pazzi. Quando la signora Gemma andò all’obitorio per vedere il cadavere del marito, all’uscita fu costretta a passare tra due ali di giovani isterici e maneschi che la insultarono, cercando di coprirla di sputi. Non credevo di dover ripetere quello che avevo scritto nel 1972. Mi ha costretto a farlo il colossale errore di un giovane ministro della Giustizia che in un Paese normale si sarebbe già dimesso.
Ha mostrato più saggezza Adriano Sofri. Oggi ha 73 anni, scrive su giornali pesanti, viaggia in tante parti del mondo, pontifica. Da leader dei lottacontinua mostrava tutta intera la propria arroganza. Era gonfio di disprezzo per chi non la pensava come lui, sembrava pervaso da un odio politico assoluto. La sua rinuncia alla poltroncina è la prova che la vecchiaia un po’ di buon senso te lo regala.
Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2016. Antonino Allegra aspettava la morte. Per gli insistenti attacchi delle malattie (conseguenze d' una pesantissima bronchite nel 2003, che l' aveva costretto a rinunciare alle adorate sigarette), per la spossante stanchezza della vecchiaia (aveva 91 anni) e per svelare i propri segreti. In un libro di memorie. Rigorosamente postumo. Questo pomeriggio, nella parrocchia Regina Pacis di via Quarenghi, nel quartiere di Bonola, periferia Nordovest, non lontano dall' abitazione in un anonimo palazzo di sette piani, si terranno i funerali dell' ex poliziotto, questore a Trieste e Torino, direttore al ministero dell' Interno dell' Ufficio ispettivo, ma nell' opinione pubblica rimasto «legato» al dicembre 1969, quand' era capo dell' Ufficio politico della Questura di Milano. Piazza Fontana, Giuseppe Pinelli. Gli ultimi anni di vita, dopo essersi ritirato in pensione in anticipo per star vicino alla moglie bisognosa di cure, Allegra li ha trascorsi a scrivere. Pagine e pagine per raccontare quello che i giornalisti hanno invano continuato a chiedergli. Ovvero che cosa davvero successe, in quelle vicende come nel delitto di Luigi Calabresi, nel 1972. Allegra, spentosi mercoledì, non aveva mai risposto. Al telefono, al citofono, braccato per strada nelle passeggiate verso il bar, aveva sempre taciuto. Ora c' è il libro che il figlio Salvatore, imprenditore, pubblicherà. «Aveva chiesto di farlo soltanto alla sua scomparsa. Anche con me ha evitato certi discorsi. Diceva che non ero pronto...Ha pianificato tutto. Come il "secondo" matrimonio, da vedovo, con una donna albanese che s' era occupata di mia mamma malata e che successivamente ha seguito papà. Era scappata da Tirana perché perseguitata. L' ha sposata per garantirle un futuro sereno». Chi è stato Allegra? Quanto ha inciso, nel resto dei suoi giorni, l' anno tragico 1969? Su Pinelli ha «coperto» responsabilità? Ha difeso qualcuno? E per quale motivo non ha mai voluto pubblicamente «difendersi»? Il figlio Salvatore dice che ripeteva una frase: «Sono un funzionario dello Stato e ho il dovere di mantenere il segreto». Ma è chiaro che non può bastare. O forse sì. Nel luglio 2000, nella seduta numero 73 della Commissione parlamentare d' inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Allegra ascoltò gli interrogativi di senatori e deputati. Domanda: «Perché subito dopo piazza Fontana le indagini vennero indirizzate sugli anarchici?».
Risposta di Allegra, una persona corpulenta con voce ferma, originario di Santa Teresa di Riva, novemila abitanti sul mare, in provincia di Messina: «Non è vero... Non dicemmo che si trattasse di certi o di altri... Si decise di accompagnare in Questura il maggior numero possibile di esponenti di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra».
Domanda: «Il dottor Calabresi per anni seguì i fatti relativi all' estrema sinistra... Chi è in una certa area viene a conoscenza di notizie che non verbalizza perché rimangono confidenze... Può essere che sia arrivato a scoprire qualcosa di molto importante per cui doveva essere fermato?». Risposta di Allegra: «Se avesse scoperto qualcosa di molto importante lo avrei saputo».
L' addio a Milano cadde nella seconda metà degli anni Settanta. E altri avvenimenti, con al centro il furore sanguinario delle Brigate rosse, incrociarono la storia di Allegra.
Il quale, per ammissione del figlio che ha scelto un altro percorso («Ne faccio parte da ventisei anni»), nonostante la forte insistenza «declinò le offerte della Massoneria». Conosceva mezza Italia, Antonino Allegra. Compreso Silvio Berlusconi che, riferisce il figlio, «è stato il mio padrino alla cresima». Ma tornando alle memorie, a che punto sono?
«Non posso anticipare... C' è un unico giornalista, che papà apprezzava: Pansa... E sappia che, ad esempio su Pinelli, tanto non è stato svelato». Com' è morto l' anarchico? «Nessuno vuol credere a un ruolo del Kgb...
Papà... conosceva forse troppo... Adesso verrà alla luce. No, aspetti, nessuna strategia di marketing, nessuna volontà di approfittarmi della situazione... Ho amato mio padre, mi ha dato e insegnato la vita. Il libro è un atto doveroso, anzi obbligatorio».
Alessandro Sallusti per ''Il Giornale'' il 21 maggio 2017. Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano la Repubblica, ieri sul suo giornale ha scritto un lungo (e noioso come sempre) articolo zeppo di insulti contro Vittorio Feltri e chi, come noi, sostiene che lui e tanti altri intellettuali e giornalisti furono, nel 1971, i mandanti morali e politici dell' omicidio del commissario Calabresi di cui in questi giorni cade l' anniversario. Firmarono un appello, questi fenomeni, che sapeva di condanna a morte, che infatti poco dopo fu eseguita dai compagni di Lotta continua. Oggi, a distanza di quarantacinque anni, Scalfari scrive che noi siamo «ciarpame» e svela di avere recentemente chiesto personalmente scusa alla vedova Calabresi per quella sciagurata firma sull' appello del 1971. Questo mascalzone pensa insomma che l' omicidio Calabresi sia stato, e sia ancora oggi, un fatto privato tra lui e i familiari della vittima, come fanno i banditi comuni pentiti - spesso per convenienza processuale - dei loro «raptus». No Scalfari, quell' appello non fu un «raptus» ma la libera scelta di stare dalla parte sbagliata - come poi si è dimostrato - della storia e per di più in modo criminale. Che oggi diventa furbo, perché non vuole ammetterlo né pagare pegno. Per Scalfari il «ciarpame» siamo noi, che Calabresi lo avremmo difeso fisicamente se ne avessimo solo avuto la possibilità, non lui e i suoi amici killer. È incredibile come in questo Paese ci sia gente in galera per «concorso esterno in associazione mafiosa» e quelli che fecero «concorso esterno in associazione terroristica» l' abbiano sfangata e ancora oggi si permettano di pontificare e giudicare. Essere di sinistra è stato per troppo tempo un salvacondotto che ha fatto più danni che se lo avessimo concesso a Vallanzasca. Ma adesso basta, Scalfari. Gente così dovrebbe togliersi di mezzo, ha perso su tutti i fronti. Questo giornale, per il coraggio e la visione, è stato fin dall' inizio dalla parte che la storia ha dimostrato essere quella corretta, non la Repubblica e l' utopia socialista che tanti danni ha fatto e continua a fare. Purtroppo sotto la regia di un direttore che porta lo stesso cognome del commissario Calabresi.
Adriano Scianca per ''La Verità'' il 21 maggio 2017. Forse anche voi avete un vecchio zio che insiste, di tanto in tanto, per somministrarvi interminabili pistolotti conditi da ricordi sbiaditi e rimbrotti bacchettoni. Ci sta e ve li sorbite. I vostri zii, tuttavia, non sono autoproclamate «autorità morali» di questa nazione, non scrivono su uno dei principali giornali del Paese e soprattutto non inquinano le acque rispetto a uno degli episodi più tragici della storia italiana: l' omicidio del commissario Luigi Calabresi. A meno che non siate i nipoti di Eugenio Scalfari. A pochi giorni dal 45° anniversario di quell' assassinio, Barbapapà usa il quotidiano diretto dal figlio del commissario, Repubblica, per dichiarare che la sua firma nel famoso appello contro Calabresi fu un errore. Ma lo fa al termine di una serie di ricordi confusi, salti logici, omissioni colpevoli, narcisistiche divagazioni, inconcludenti parentesi, revisionismi interessati, scorrettissimi ammiccamenti, per cui alla fine la toppa è di gran lunga peggiore del buco. L' idea, dice, sarebbe quella di «ricordare il tema» e «aggiungere qualcosa che fino ad oggi era rimasto un fatto privato» al fine di «chiarire una vicenda che coinvolse in qualche modo l' Italia democratica (e anche quella antidemocratica)». Caspita. Detta così par di capire che il giornalista stia per tirare fuori dai suoi archivi qualche fatto cruciale di cui lui è stato testimone e che potrebbe far luce su un caso controverso. Diciamo subito che nell' articolo non c' è nulla di tutto questo, solo una ricostruzione da Wikipedia del contesto dell' epoca e un bislacco tentativo finale di sfilarsi dall' accusa di corresponsabilità morale, mossa da più parti nei confronti di tutti i 757 intellettuali, giornalisti e politici che sottoscrissero l' appello dell' Espresso sui «commissari torturatori», i «magistrati persecutori» e i «giudici indegni». Per infiocchettare il suo temino sugli anni Settanta, e soprattutto per scagionare gli anarchici dall' accusa di aver compiuto la strage di piazza Fontana, Scalfari ha pensato bene di buttare lì, per vedere l' effetto che fa, qualche dato storico a casaccio. Scrive il fondatore di Repubblica: «La parte violenta degli anarchici non aveva mai infierito contro la popolazione anonima, com' era accaduto alla Banca dell' Agricoltura. I suoi obiettivi semmai erano persone molto potenti. Così agivano certi anarchici non solo in Italia ma anche in Europa e in altri paesi: il regicidio. E così era stato ucciso Umberto I re d' Italia e qualche anno dopo a Sarajevo uno dei figli dell' imperatore d' Austria scatenando in quel caso addirittura la prima guerra mondiale 1914-'18». Ora, già spiegare i fatti degli anni Sessanta e Settanta ricorrendo a questioni antecedenti la Grande guerra è esercizio discutibile. Se poi l' esempio pesca dati a caso, la situazione non migliora. Il politologo Alessandro Campi ha avuto buon gioco, infatti, nel bacchettare Scalfari su due sviste storiche: «Francesco Ferdinando, ucciso a Sarajevo, non era il figlio dell' imperatore Francesco Giuseppe, ma il nipote; il suo assassino Gavrilo Princip non era un anarchico, come Gaetano Bresci attentatore di Umberto I, ma un nazionalista serbo», ha scritto lo studioso sul suo profilo Facebook, polemizzando con il giornalista. Errori veniali, ma quando si parla come il verbo dell' impegno civile incarnato ci si espone anche alle pernacchie. Ma c' è di peggio: in tutto l' articolo si cercheranno invano le parole «Lotta» e «Continua». Calabresi, semplicemente, a un certo punto viene ucciso. Da chi? Mistero. Eppure qui dei colpevoli, almeno per la giustizia italiana, ci sono, con tanto di sentenze definitive. Ma se non si ricorda che Calabresi fu ucciso da un commando di estrema sinistra, non si capisce bene tutto l' imbarazzato giro di parole di Scalfari sul punto che gli sta veramente a cuore: l' appello dell' Espresso. Anche qui, però, la reticenza la fa da padrona: il testo, scrive il giornalista, «fu stilato» e «fu discusso da un gruppo del quale anch' io facevo parte». Bizzarra perifrasi per non dire: «Anche io firmai». E infatti, leggendo il testo, non si capisce proprio che Scalfari firmò. Né si entra nel merito del testo, se non per dire pudicamente che vi si chiedeva «l' allontanamento del commissario Calabresi dalla sua sede di lavoro». Nessun accenno ai «commissari torturatori». Raccontata così, sembra una cosa innocua. Anzi, una cosa chic, dato che Scalfari si dà la pena di aggiungere che, tra i firmatari, c' erano anche Rossana Rossanda e Umberto Eco. Un appello che piace alla gente che piace, quindi. Poi, nel finale, Scalfari tira fuori il coniglio dal cilindro: le scuse fatte alla signora Gemma, la vedova Calabresi, nel 2007. «Parlammo brevemente dei fatti del passato, del manifesto e delle firme, le dissi che quella firma era stata un errore. Lei accettò le mie scuse e si commosse». Un modo brillante per cavarsi d' impaccio: tirare in ballo la vedova per zittire i critici. Che classe. Salvo che i chiarimenti fra le persone appartengono all' aspetto umano della vicenda, le colpe politiche restano tutte lì, in attesa di un' autocritica che probabilmente non vedremo mai. Ma, sfortunatamente, abbiamo fatto in tempo a vedere il finale di questo articolo, in cui si ha il coraggio di citare «il figlio Mario, che allora era corrispondente di Repubblica da New York e che ora, da oltre un anno, dirige questo giornale».
Ha dato anche il suo giornale al figlio di Calabresi, come vi permettete di scocciarlo ancora?
Davvero elegantissimo.
Paolo Biondani per l’Espresso il 2 novembre 2017. Pier Paolo Pasolini era spiato dall'ufficio D del Sid, il famigerato reparto dei servizi segreti militari che negli stessi anni stava inquinando e depistando le indagini sulla strage nera di Piazza Fontana. E poco prima di essere ucciso, il grande scrittore si scambiava lettere riservate con Giovanni Ventura, il terrorista di destra, legato proprio al Sid, che dopo l'arresto e mesi di carcere sembrava sul punto di pentirsi e aveva cominciato a confessare le bombe sui treni dell'estate 1969 e gli altri attentati preparatori della strategia della tensione. Un carteggio inedito, durato sette mesi, che ha portato l'intellettuale di sinistra a chiedere apertamente all'ex editore neonazista di uscire finalmente dall'omertà e raccontare tutta la verità sull'attentato che ha cambiato la storia d'Italia. Sono passati esattamente 42 anni dalla morte violenta di Pasolini, assassinato nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Per il brutale omicidio dello scrittore, regista e polemista scomodo, c'è un unico colpevole ufficiale: Pino Pelosi, 17enne all'epoca del delitto, condannato dal tribunale minorile a nove anni e sette mesi, scarcerato nel 1983, morto nel luglio scorso dopo una lunga malattia. I familiari, gli amici più stretti, gli avvocati di parte civile e molti studiosi sono sempre stati convinti, come gli stessi giudici di primo grado, che l'omicidio sia stato deciso da mandanti rimasti occulti ed eseguito da altri complici, probabilmente un gruppo di criminali legati alla destra eversiva, come lo stesso Pelosi aveva finito per confermare, tra molte reticenze (giustificate dalla paura di vendette anche sui parenti), in una celebre intervista televisiva alla Rai. Ora un nuovo libro-inchiesta, firmato da Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, e da Andrea Speranzoni, avvocato e saggista, chiede ai magistrati di Roma di riaprire le indagini sull'omicidio Pasolini. Per approfondire nuove piste investigative, portate alla luce grazie alla digitalizzazione dell'enorme archivio del processo di Catanzaro su Piazza Fontana: tonnellate di carte rimaste sepolte dagli anni Settanta negli scantinati giudiziari, trasportate a Milano e a Brescia negli anni Novanta per far ripartire le inchieste sulle stragi impunite, e poi scannerizzate da una cooperativa di detenuti di Cremona. Con il risultato di rendere accessibili e ricercabili decine di migliaia di documenti perduti, dimenticati e in qualche caso del tutto inediti. Il libro, “Pasolini. Un omicidio politico” (prefazione di Carlo Lucarelli, editore Castelvecchi) viene presentato dai due autori giovedì 2 novembre nella sala Aldo Moro della Camera dei deputati, dove è atteso l'intervento dell'avvocato Guido Calvi, che come parte civile fu il primo a denunciare, insieme al collega Nino Marazzita, i possibili complici neri che terrorizzavano Pelosi. Paolo Bolognesi, che è anche deputato, è il primo firmatario della proposta di legge per istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sull'omicidio Pasolini. Negli atti dello storico processo di Piazza Fontana, in particolare, gli autori del libro hanno trovato documenti che provano l'esistenza di un fascicolo del Sid, protocollato con il numero 2942, intestato personalmente a Pasolini. Un dossier, finora ignoto, che comprova un'inquietante attività di spionaggio della sua vita privata e professionale, che mirava a scoprire, in particolare, cosa avesse scoperto negli ottantamila metri di pellicola utilizzati per realizzare il documentario «12 dicembre»: un filmato che sosteneva la tesi della «strage di Stato» quando gli apparati di sicurezza accreditavano ancora la falsa “pista rossa” degli anarchici milanesi. L'esistenza e il numero di protocollo del dossier segreto su Pasolini è documentata, in particolare, da un'informativa del Sid, pubblicata integralmente nel libro, datata 16 marzo 1971 e indirizzata dagli agenti di Milano all'ufficio D di Roma: il reparto dei servizi destinato ad essere soprannominato “ufficio stragi”, dopo la scoperta che il suo capo, l'allora colonnello (poi generale) Gian Adelio Maletti, e il suo braccio destro, il capitano Antonio Labruna, invece di aiutare la giustizia facevano sparire le prove contro i terroristi neri. Al punto da fornire soldi e documenti falsi per far scappare all'estero e pagare la latitanza ai neofascisti ricercati dai magistrati di Milano. Maletti e Labruna, entrambi affiliati alla P2, sono stati condannati con sentenza definitiva per il reato di favoreggiamento. Freda e Ventura sono stati proclamati colpevoli in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati preparatori del 1969 e assolti in appello per la strage di piazza Fontana, per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Il libro-inchiesta rivela che Pasolini era spiato anche dall'Ufficio Affari Riservati, il servizio parallelo che completava il lavoro sporco degli apparati deviati perseguitando gli innocenti anarchici milanesi. "Un'altra scoperta sorprendente è il ritrovamento, tra gli atti ora informatizzati del maxi-processo di Catanzaro, di un carteggio tra Pasolini e Ventura. Le prime notizie di queste lettere erano emerse grazie a un altro libro-inchiesta, firmato da Simona Zecchi (“Pasolini, massacro di un poeta”, pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Ponte alle Grazie), che rivelava per la prima volta anche altri elementi di prova, come la foto di una seconda macchina sul luogo del delitto, diversa dall'auto dello scrittore (con cui Pelosi passò sul corpo della vittima prima di darsi alla fuga), le minacce subite dall'intellettuale antifascista poco prima dell'omicidio e il possibile collegamento con le sue indagini su piazza Fontana. Documentato anche dal carteggio finito agli atti dello storico processo sulla strage." Poco prima, il 14 novembre 1974, Pasolini aveva firmato il famoso articolo, sul Corriere della Sera di Piero Ottone, che si apriva con queste parole: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. (…) Io so. Ma non ho le prove (…)». Nel carteggio, controllato dalla direzione del carcere, Ventura allude a verità inconfessabili, ma resta evasivo e reticente. Poco prima del suo omicidio, in una delle ultime lettere ora pubblicate nel libro-inchiesta, Pasolini lo invita personalmente a confessare tutto: «Gentile Ventura», gli scrive, «vorrei che le sue lettere fossero meno lunghe e più chiare. Una cosa è essere ambigui, un’altra è essere equivoci. Insomma, almeno una volta mi dica sì se è sì, no se è no. La mia impressione è che lei voglia cancellare dalla sua stessa coscienza un errore che oggi non commetterebbe più. (…) Si ricordi che la verità ha un suono speciale, e non ha bisogno di essere né intelligente né sovrabbondante (come del resto non è neanche stupida né scarsa)». Il processo di primo grado per l'omicidio Pasolini si è chiuso con la condanna di Pino Pelosi «in concorso con ignoti»: i giudici del tribunale considerano assolutamente certa la presenza di altri assassini non identificati. In appello, su richiesta dell'allora procuratore generale, la sentenza cambia: Pelosi diventa l'unico colpevole. In questi anni gli avvocati di parte civile hanno cercato più volte di far riaprire il caso, ma senza risultati. Ora il libro-inchiesta pubblica molti nuovi elementi di prova, tra cui le testimonianze, finora inedite, di alcuni abitanti dell'Idroscalo, che già nel 2010 hanno verbalizzato che quella notte nel luogo dell'omicidio non c'erano soltanto Pasolini e Pelosi, ma diverse altre persone. La speranza è che il nuovo vertice della procura di Roma, che sta facendo dimenticare la nomea della capitale giudiziaria come «porto delle nebbie», possa fare ogni sforzo per cercare verità e giustizia su un delitto di portata storica come l'omicidio di Pier Paolo Pasolini.
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 6 dicembre 2019. “Polizia. Deve venire subito a palazzo di giustizia. C' è da fare un confronto. Si tratta di Valpreda». Piazza Fontana per Guido Calvi cominciò così, quattro giorni dopo la strage. Mentre diventava l' avvocato di Pietro Valpreda (e poi protagonista di tanti processi chiave della storia italiana, da Pasolini a Moro), aveva 29 anni e tutt' altro per la testa. «Insegnavo filosofia del diritto. Se non avessi risposto a quella telefonata, tornato a casa dopo una lezione su Leibniz, non avrei mai fatto l'avvocato».
Che scena si trovò di fronte nel palazzo di giustizia?
«Nella stanza, da una parte il giudice Occorsio, il teste Rolandi, il capo dell' ufficio politico della Questura di Milano, Allegra. Dall' altra cinque poliziotti sbarbati e ben vestiti accanto a Valpreda in pantaloncini e canottiera, coi capelloni, la barba incolta e la faccia stravolta da due notti insonni».
Parlò con Valpreda?
«No, tutto era pronto per il confronto. Chiesi solo al testimone se qualcuno gli avesse già mostrato una foto di Valpreda. Rolandi negò tre volte, poi ammise: il questore mi ha mostrato la foto di Valpreda, dicendomi che era l' uomo che dovevo riconoscere».
Che cosa accadde dopo?
«Prima di uscire andai da Valpreda e gli dissi: tranquillo, abbiamo vinto».
Ma il tassista Rolandi aveva riconosciuto Valpreda come l'uomo che aveva portato in piazza Fontana.
«Dopo la frase sulla foto, il riconoscimento valeva zero. Avevo capito che il processo era tutto lì. Ma non che avremmo impiegato quasi vent'anni per una verità giudiziaria e storica».
Che cosa accadde dopo?
«Nell' istruttoria l'avvocato non aveva nemmeno il diritto di assistere all' interrogatorio del suo assistito. Per fortuna un giornalista mi passava i verbali di nascosto».
Com'era Valpreda?
«Personaggio singolare. Ballerino, anarchico, esibizionista, ma mite e inoffensivo. Un marginale. Che uscito di prigione, rifuggendo la vanità, si sposerà, farà un figlio e aprirà una paninoteca».
Com' era il vostro rapporto?
«Quando andavo a trovarlo in carcere, mi contestava perché ero socialista "e non avevo capito niente"».
Mai avuto dubbi su di lui?
«Qualcuno lo insinuò. In realtà li avevo su me stesso. Era il mio primo processo. Solo contro tutti. Cercai un collega più esperto per farmi affiancare, ma in tutta Roma non ne trovai uno disponibile, a parte Lelio Basso».
Perché?
«Cautela, se non paura».
Lei no?
«Avevo l' età in cui ci si può permettere di non averla. Nonostante i proiettili, le minacce, l'isolamento».
In che senso?
«Insegnavo all'università di Camerino, ma in mensa non potevo sedermi al tavolo dei professori, perché ero l'avvocato degli anarchici».
Si fece pagare da Valpreda?
«Non ho mai preso una lira per quel processo».
Come fece quando il processo fu spostato a Catanzaro?
«Il sabato sera prendevo una cuccetta di seconda classe, da sei posti. A Lamezia aspettavo i giornalisti, che avevano il vagone letto, per un passaggio in taxi. A Catanzaro dormivo su una brandina in un corridoio della federazione del Pci. Poi l' Anpi fece una colletta, almeno per albergo e ristorante».
Di piazza Fontana sappiamo tutto?
«Sì».
Fu strage di Stato?
«No, strage neofascista agevolata dallo Stato dirottando e depistando le indagini».
In che modo?
«Prima distruggendo la prova regina, la seconda bomba inesplosa alla Banca commerciale. Poi puntando sulla pista anarchica, come scrisse il ministro dell' Interno Restivo in un appunto».
Perché scelsero Valpreda?
«Probabilmente il primo obiettivo era Pinelli, con una struttura politica superiore».
Che idea le fecero i depistatori?
«Reazionari, rozzi, cialtroni. Guida, questore di Milano, era stato direttore del carcere di Ventotene sotto il fascismo. Motivo per cui Pertini, in visita di Stato a Milano, si rifiutò di stringergli la mano. Nel processo di Catanzaro, gli chiesi come avesse avuto la foto di Valpreda. Disse di non ricordarlo perché era un accanito fumatore e il fumo annebbia la memoria».
Quale fu il ruolo del Viminale?
«Centrale. Russomanno, vicedirettore dell'Ufficio Affari Riservati che guidò le indagini andando a Milano, in gioventù era nella Repubblica di Salò e poi si era arruolato in una formazione militare tedesca».
Come gestì il peso politico del processo?
«Nella prima fase il consenso popolare contro gli anarchici era diffuso. Alzando subito il tiro, evocando i colonnelli greci o la Cia, saremmo andati contro un muro. Puntai sui dettagli. Fu una lenta costruzione».
Come fu possibile?
«L'episodio decisivo fu il funerale delle vittime nel Duomo di Milano. Dietro le bare tutte le autorità. Di fronte centomila operai in tuta blu. Era un messaggio: attenti, difenderemo la democrazia».
Fu colto?
«Si aprirono contraddizioni nella magistratura, nei giornali, nella polizia. Lo Stato contro lo Stato: da una parte forze vecchie e intrise di fascismo; dall' altra energie nuove e democratiche».
Quando capì che stavate vincendo?
«Quando cadde la P2 e fu svelato il doppio Stato, secondo la definizione di Bobbio. In quel momento la magistratura si legittima come baluardo costituzionale. Il che spiega ciò che è successo dopo».
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 dicembre 2019. Caro Dago, e dunque fanno cinquant’anni esatti che ci giriamo attorno a quella stramaledetta bomba di Piazza Fontana e alle sue ripercussioni sulla successiva storia italiana. E comunque bellissime le parole del sindaco Giuseppe Sala, il quale a nome dello Stato e di Milano ha chiesto perdono agli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Meritoria la decisione dell’amministrazione comunale di Milano di piantare in un parco di San Siro una quercia rossa in memoria della ”diciottesima vittima” di Piazza Fontana, ossia il ferroviere milanese Pinelli caduto innocente dal quarto piano della questura di via Fatebenefratelli.
Bellissima - ai miei occhi - la foto di Licia Pinelli seduta a Palazzo Marino accanto a Gemma Calabresi, una delle donne più squisite e discrete che io abbia mai incontrato. Accanto a Gemma c’era suo figlio, Mario, l’ex direttore di “Repubblica” , il quale nel suo ultimo libro racconta di avere incontrato a Parigi Giorgio Pietrostefani, il militante di Lotta continua condannato come l’organizzatore dell’agguato mortale al commissario Luigi Calabresi. Ho molto apprezzato l’eleganza di Calabresi figlio, che non ha riferito una sola virgola di quello che si sono detti. E comunque Calabresi non è la “diciannovesima” vittima di piazza Fontana, è la prima vittima di un fenomeno successivo e che in un certo modo ne discende, il terrorismo omicida nato a sinistra.
Mi spiego meglio. Sono un cittadino della Repubblica che nel guardare la foto di quelle due donne -entrambe segnate dalla tragedia - che seggono accanto, non tifa per l’una o per l’altra, non ritiene più notevole il dolore dell’una o dell’altra. Di quella cui Giampaolo Pansa e altri giornalisti bussarono a casa a dirle che suo marito il ferroviere era andato giù dalla finestra, o di quella che era incinta del suo terzo figlio quando bussò alla porta suo padre e dalla sua espressione lei capì che il marito trentatreenne era stato appena assassinato sotto casa sua.
Ai miei occhi non c’è nessun derby del dolore fra queste due pur differenti figure femminili. L’una e l’altra specchiano le tragedie recenti del nostro Novecento, e la tragedia di Piazza Fontana è di quelle che perdurano e fanno male nella nostra memoria. Nessun derby, all’una e all’altra i segni del mio più profondo rispetto.
Non credo che sia l’atteggiamento di tanti, specie fra quelli della mia generazione. Le stimmate di 50 anni fa molti di loro le conservano intatte. Una campagna contro “il torturatore” Calabresi, una campagna durata quasi due anni e mezzo, non s’è asciugata come si asciuga l’acqua dopo una pioggia notturna. Molti di loro continuano a crederci alla balla sesquipedale che il commissario Calabresi fosse in qualche modo responsabile della morte di Pinelli.
Non hanno un particolare, non hanno un elemento che giustifichi questa convinzione, solo che non demordono. E difatti nell’articolo di oggi sul “Fatto”, l’articolo che è arredato dalla foto di Licia Pinelli e di Gemma Calabresi di cui ho detto, vengono riferite le parole che la vedova Pinelli ha pronunciato ancora in questi giorni: “Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. Io non mi aspetto niente da nessuno. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà”.
Parole che Licia Pinelli ha tutto il diritto di pronunciare, non fosse che annullano in parte il significato di quella foto e della toccante cerimonia a Palazzo Marino. Perché lasciano intendere, senza beninteso addurre il minimo elemento concreto, che è vera quell’altra narrazione, la narrazione che in questi 50 anni ha fatto da sottofondo della memoria di tanti: che nella stanzuccia della questura Pinelli fosse stato aggredito, colpito, scaraventato giù. E dunque che una qualche ragion d’essere i due colpi sparati alla testa e alla schiena di Calabresi ce l’avessero. O no?
Piazza Fontana: cronaca dei 30 giorni prima della strage. Dagli scioperi continui alle battaglie nelle piazze tra opposti estremismi. I primi morti degli anni di piombo, la violenza degli extraparlamentari alla vigilia della bomba. Edoardo Frittoli il 10 dicembre 2019 su Panorama. Cinquant'anni fa, il 12 dicembre 1969, si consumava uno dei più gravi attentati della storia italiana: la bomba in Piazza Fontana nel cuore di Milano, che provocò 17 vittime e più di 80 feriti tra i clienti della Banca nazionale dell'agricoltura. L'ordigno esplose in uno dei momenti di massima tensione politica e sociale del Paese, investito dalla violenza di piazza innescata dalle schiere dei movimenti "extraparlamentari" di sinistra e destra e paralizzato dalla lunga stagione degli scioperi nelle fabbriche nota come l'"autunno caldo". Esaminiamo dalle cronache dell'epoca quell'escalation di violenze che fecero da premessa alla strage di Piazza Fontana.
Il mese di ottobre del 1969 era stato caratterizzato da un crescendo della conflittualità nel mondo operaio, alimentata anche dall'azione combinata degli studenti in lotta dall'anno precedente e dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare che si erano unite ai lavoratori nelle assemblee, nelle manifestazioni e negli scioperi per il rinnovo contrattuale delle varie categorie. In particolare i Marxisti-leninisti, i "filo-cinesi", il gruppo di "Potere operaio" avevano spinto per una radicalizzazione della lotta in fabbrica mirata alla preparazione di una auspicata "rivoluzione armata delle masse operaie" in netto contrasto con le sigle sindacali nazionali e soprattutto con il Pci, considerato dagli estremisti come alleato del "governo borghese". Le conseguenze della pressione politica sugli operai in lotta non si fece attendere: all' inizio del novembre 1969 la direzione della Fiat sospese 85 lavoratori in seguito a gravi episodi di violenza e sabotaggio negli stabilimenti di Mirafiori dove un dirigente, l'ingegner Luigi Stellacci, fu aggredito e percosso da un gruppo di scioperanti. A poche ore di distanza dal grave episodio, a Milano il corteo dei lavoratori del settore chimico degenerava in guerriglia urbana, con un funzionario di PS finito in ospedale e decine di feriti e fermati. Alla Pirelli, dove i Cub avevano inaugurato l'"autunno caldo" la produzione era paralizzata da settimane. L'episodio più grave, che può considerarsi assieme alla morte dell'agente Antonio Annarumma come prime tra le vittime degli scontri tra "opposti estremismi" si consumò a Pisa il 27 ottobre durante una manifestazione sfociata in violenza a cui avevano preso parte gruppi di Potere Operaio. Durante l'assalto alla sede del Msi della città toscana rimase ucciso lo studente Cesare Pardini, colpito in pieno petto da un lacrimogeno sparato dalla Polizia.
L'ultimo mese prima della strage di Piazza Fontana.
12 novembre. Anche Napoli fu investita dai disordini, quando si consumarono gravi scontri tra missini e manifestanti di sinistra in occasione di un comizio dei sindacati. Una bomba carta esplose ferendo uno studente e gli arresti furono una trentina. Durante le indagini furono trovate armi ed esplosivi nella sede locale del Msi. A Torino trecento operai Fiat aggredivano gli impiegati che non avevano aderito allo sciopero. Bloccati negli uffici, saranno liberati dall'intervento della Polizia che agì sotto un fitto lancio di bulloni e porfido.
14 novembre. La Fiat identifica e denuncia 50 lavoratori per i disordini dei giorni precedenti, mentre alla Lancia un gruppo di operai blocca la produzione divulgando propaganda contro il sindacato dei metalmeccanici. A Bologna viene ferito il Vice-questore dopo scontri con gli studenti tra i quali si erano infiltrati militanti di Potere Operaio. A Roma si consuma lo strappo tra il Pci e il gruppo de "Il Manifesto", che viene accusato dalla dirigenza comunista di "frazionismo" nel giorno della manifestazione per la pace in Vietnam, a cui prese parte anche Paul Getty Jr.
16 novembre. Viene proclamato lo sciopero generale per la casa, quello durante il quale sarà ucciso Antonio Annarumma. La discussione principale riguardava la "legge sui fitti", ossia il futuro "equo canone".
19 novembre. In via Larga a Milano, durante gli scontri in occasione dello sciopero generale, muore l'agente Antonio Annarumma, colpito da un tubolare di ferro scagliato dai manifestanti. E'la prima vittima degli anni di piombo. La guerriglia si estende anche molte città italiane come Torino, Genova, Alessandria, Catania. A Venezia viene occupata la sede delle Assicurazioni Generali. Duro attacco dei gruppi extraparlamentari contro i comizi dei sindacati nazionali, mentre a Bologna gli studenti in sciopero devastano l'aula magna dell'Università. L'Istat dichiara che nei primi sei mesi dell'anno sono state perse oltre 93 milioni di ore di lavoro a causa degli scioperi. Il Presidente del Consiglio Mariano Rumor arriva a Milano per omaggiare la salma di Annarumma, mentre i maoisti e gli studenti sono ancora asserragliati all'interno dell'Università Statale.
21 novembre. Nel giorno dei funerali di Annarumma gli studenti del Movimento Studentesco chiedono davanti a San Vittore il rilascio dei fermati per gli incidenti di via Larga. In San Babila i missini di Giovane Italia intonano canti del ventennio e scatenano tafferugli con gli studenti di sinistra. Al corteo funebre di Annarumma partecipano migliaia di cittadini. Giunti presso la chiesa di San Carlo, a due passi da San Babila, un militante inneggia a Mao Tse-Tung sventolando un fazzoletto rosso. Viene bloccato da un gruppo di missini che iniziano a percuoterlo. Viene separato dalla Polizia che lo porta all'interno di un cinema, poi cinto d'assedio dai giovani di destra. Si scatena la guerriglia che causerà 28 feriti. Durante la funzione funebre il ministro dell'Interno Restivo ribadisce fermamente il ruolo delle Forze dell'Ordine e la presenza necessaria della Polizia nelle manifestazioni, dichiarando che soltanto negli ultimi mesi erano state registrate più di 1.000 denunce per turbamento dell'ordine pubblico. Alle 15.30 un gruppo di missini si era dato appuntamento al Policlinico, dove era stata allestita la camera ardente dell'agente ucciso. Poco più tardi il drappello si mosse verso la vicina Università Statale riuscendo a penetrare nell'androne di ingresso dove fu asportato materiale di propaganda maoista. In Tribunale si svolge una accesa discussione tra gli avvocati riguardo lo svolgimento dei processi a carico degli anarchici arrestati nell'aprile precedente per le bombe alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale.
23 novembre. A Cosenza si tiene un comizio del deputato Msi Nino Tripodi, futuro direttore del Secolo D'Italia. Durante la manifestazione vengono a contatto giovani di estrema sinistra e giovani missini. Vengono sparati anche alcuni colpi di pistola. A Roma manifestano i baraccati dell'Esquilino, appena sgomberati da due edifici pericolanti che avevano occupato, impedendo lo svolgimento di uno spettacolo teatrale.
24 novembre. Mentre a Milano è un giorno di tregua apparente, iniziano gli interrogatori dei 19 fermati per l'omicidio di Annarumma. A Roma invece sono colpite dalle molotov due sedi del Pci e la caserma dei Carabinieri di piazza del Popolo. Lungo la linea ferroviaria Siracusa-Catania gli operai bloccano i binari in solidarietà ai colleghi che avevano occupato una cartiera. In Calabria, a Bovalino, una bomba al plastico devasta la sede del Msi.
26 novembre. I fondatori del gruppo de "Il Manifesto" (Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Lucio Magri, Valentino Parlato e altri) sono esplusi dal Pci, mentre alla Camera passa il primo voto sul divorzio (legge Fortuna-Baslini). Incomincia il processo a Francesco Tolin, direttore di "Potere Operaio". Era stato inquisito per una serie di articoli comparsi sul giornale della formazione di estrema sinistra che inneggiavano apertamente alla "violenza rivoluzionaria" nelle piazze e nelle fabbriche. Parallelamente all'interno dell'avvocatura si genera una spaccatura dove gli avvocati di "Magistratura Democratica" esprimono solidarietà a Tolin. Il processo è istruito a Roma davanti al Sostituto Procuratore Vittorio Occorsio, che ne aveva convalidato l'arresto.
27 novembre. A Milano scioperano i bancari e commercianti compresi quelli della grande distribuzione, nel giorno in cui nel quartiere popolare di Baggio viene colpita con bombe molotov la locale sede del Msi. Roma è paralizzata da 50mila operai in corteo nel giorno della stretta finale sul contratto dei metalmeccanici del settore pubblico. Il secondo numero del giornale "Lotta Continua" esce con un violento attacco contro i sindacati. Alla Fiat i dati divulgati dall'azienda parlano di 220mila auto prodotte in meno a causa delle continue agitazioni.
3 dicembre. All'indomani delle dichiarazioni sulle perdite della Fiat durante l'ennesimo sciopero si verificano gravi scontri con due operai feriti e decine di auto danneggiate nei parcheggi di dirigenti e impiegati. L'azienda annunciava sospensioni disciplinari per gli incidenti causati da elementi extra-sindacali. Sottoposto alle pressioni di una parte di Magistratura Democratica e dagli appelli di intellettuali e personaggi dello spettacolo durante il processo a Francesco Tolin di "Potere Operaio", Vittorio Occorsio si dimette. Il giudice romano sarà Sostituto Procuratore durante i primi interrogatori di Pietro Valpreda dopo la strage di Piazza Fontana.
4 dicembre. Proseguono feroci gli scioperi alla Fiat, durante i quali vengono danneggiate due tonnellate di ingranaggi. Le trattative per il contratto dei metalmeccanici del settore privato si arenano di fronte al Ministro del lavoro Donat Cattin. A Genova si fermano tutti gli operai del bacino, che bloccano in porto due navi da crociera della Costa. L'armatore minaccia la messa in disarmo delle imbarcazioni.
5 dicembre. Scioperano medici e infermieri, cortei di scioperanti impongono la chiusura dei grandi magazzini milanesi nei giorni degli acquisti pre-natalizi.
7 dicembre. E'il giorno della prima della Scala, dove era in programma l'"Ernani" di Giuseppe Verdi diretto da Claudio Abbado (fu il debutto di Placido Domingo). Come l'anno precedente, i contestatori attendevano gli ospiti sulla piazza omonima. Le personalità dell'imprenditoria, della politica e dello spettacolo si presentarono con minor sfarzo dopo l'esperienza dell'anno precedente. Ciò nonostante, intorno alle 20:30 circa 500 contestatori cinsero d'assedio gli spettatori in arrivo protetti dai Carabinieri. I manifestanti erano capeggiati da Potere Operaio, da esponenti anarchici e del Movimento Studentesco. Il commissario Luigi Calabresi intervenne personalmente per scongiurare danni all'albero di Natale di piazza della Scala, che l'anno precedente era stato distrutto dai contestatori. Durante la giornata alla Camera, l'ordine del giorno era stato il dibattito sull'ordine pubblico. Dopo una seduta accesissima, la stessa durata del monocolore Dc guidato da Rumor veniva messo in discussione con numerosi appelli al ritorno ad una nuova esperienza di centro-sinistra ( che avrebbe dovuto prevedere il dialogo con il Pci per isolare la violenza extraparlamentare).
8 dicembre. A Milano marciano i terremotati del Belice, all'addiaccio da quasi due anni, nel giorno della paralisi della scuola per lo sciopero dei docenti delle medie inferiori e superiori. L'autunno caldo giunge al giro di boa con la firma del contratto dei metalmeccanici del settore pubblico. Per quelli del settore privato invece la strada appare ancora lunga e tortuosa, con oltre un milione di lavoratori in estrema tensione per la lunga attesa. Rimanevano senza contratto anche altre categorie ad alto tasso di conflittualità, come gli autoferrotranvieri e i braccianti agricoli.
9 dicembre. il Ministro dell'Interno Franco Restivo, parlando durante il lungo dibattito sull'ordine pubblico, ribadiva fermamente il ruolo delle forze dell'ordine e del radicamento nel Paese delle istituzioni democratiche e la loro "resistenza agli urti" provocati dalla violenza politica nelle piazze. Mancano solo tre giorni alla strage di Piazza Fontana.
11 dicembre. Alla vigilia della strage di Milano, a Roma si consumano violenti scontri davanti alla sede del Provveditorato agli studi. Due agenti rimangono seriamente feriti durante la manifestazione degli insegnanti aderenti ai sindacati autonomi. Viene approvato dal Senato il testo dello Statuto dei Lavoratori, che entrerà in vigore nel 1970. A Bruxelles il Consiglio d'Europa condanna i Colonnelli greci, che in risposta all'azione dei governi europei si ritirano dal Consiglio. Ventiquattro ore dopo, l'Italia era sconvolta dalla bomba di Piazza Fontana.
1969/2019, Piazza Fontana, cronostoria di una strage. Il Dubbio il 12 dicembre 2019. Le date fondamentali per capire una vicenda che ha attraversato 50 anni della storia italiana.
12 dicembre 1969: alle 16.37 esplode una bomba al tritolo nel salone centrale della Banca dell’Agricoltura, a Milano. Muoiono 17 persone e 87 rimangono ferite.
15 dicembre 1969: muore in circostanze ancora non chiarite, precipitando dal quarto piano della questura, l’anarchico Giuseppe Pinelli, indagato come esecutore della strage.
16 dicembre 1969: vengono arrestati gli anarchici Pietro Valpreda e Mario Merlino ( neofascista infiltrato nel circolo anarchico). La provenienza delle borse per l’esplosivo, però, apre la «pista nera».
13 aprile 1971: vengono arrestati i militanti dell’estrema destra padovana di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura.
23 febbraio 1972: si apre a Roma il primo processo per la strage contro Valpreda e Merlino, trasferito poi a Milano e infine a Catanzaro per motivi di ordine pubblico.
17 maggio 1972: il commissario di polizia Luigi Calabresi viene ucciso a Milano da un commando di militanti di Lotta Continua.
20 marzo 1981: a Catanzaro si conclude il processo di appello con l’assoluzione dei neofascisti per insufficienza di prove ( confermata anche dalla Corte d’assise d’Appello di Bari nel 1985).
11 aprile 1995: inizia l’inchiesta di Milano di Guido Salvini.
30 giugno 2001: vengono condannati all’ergastolo per strage Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni.
12 marzo 2004: gli imputati vengono assolti in appello per insufficienza di prove.
10 giugno 2005: la Cassazione conferma le assoluzioni degli imputati ma nelle motivazioni scrive che la strage fu organizzata da Ordine Nuovo, capitanato da Freda e Ventura, non più processabili perchè già assolti.
Piazza Fontana, Mattarella accusa: «Stato colpevole per depistaggi». Il Dubbio il 13 dicembre 2019. 50 anni fa la strage di piazza Fontana. Il presidente della Repubblica: «Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana». «L’attentato di piazza Fontana è stato uno strappo lacerante recato alla pacifica vita di una comunità e di una Nazione, orgogliosa di essersi lasciate alle spalle le mostruosità della guerra, gli orrori del regime fascista, prolungatisi fino alla repubblica di Salò, le difficoltà della ricostruzione morale e materiale del Paese». Il capo dello Stato Sergio Mattarella celebra con queste parole il cinquantesimo anniversario della strage di piazza Fontana. Una ricorrenza che il presidente ha voluto onorare accanto alla signora Pinelli e Calabresi. «Nel momento in cui facciamo memoria delle vittime di piazza Fontana e, con loro di Giuseppe Pinelli, del Commissario Luigi Calabresi, sappiamo di dover chiamare le espressioni politiche e sociali del Paese, gli uomini di cultura, l’intera società civile, a un impegno comune: scongiurare che si possano rinnovare in Italia le fratture terribili in cui si inserirono criminalmente quei fatti», ha infatti dichiarato Sergio Mattarella durante il suo intervento. «Il destino della nostra comunità non può essere preda dell’odio e della violenza – ha aggiunto . Per nessuna ragione la vita di una sola persona può essere messa in gioco per un perverso disegno di carattere eversivo» «L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato – ha poi accusato Mattarella – è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana».
Strage di Piazza Fontana, viaggio nei sotterranei di un processo senza colpevoli. Dai depistaggi alle testimonianze dirette, un documentario rivisita la storia dolorosa della strage realizzata dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo. Gianluca Di Feo il 10 dicembre 2019 su La Repubblica. Quella della strage di Piazza Fontana è una storia dolorosa, che ha condizionato mezzo secolo di vita italiana. L’esplosione nella Banca nazionale dell’Agricoltura ha cambiato tutto: la strategia della tensione ha partorito gli anni di piombo, chiudendo nel sangue i sogni di un decennio. Dalla crescita economica del boom e dai successi sindacali conquistati con gli scioperi dell’Autunno caldo, si è passati alla crisi e alla stagione degli omicidi, rossi e neri, ma egualmente crudeli. Con una parte dello Stato che ha soffiato sul fuoco, aizzando gli scontri di piazza e negando ogni giustizia. Il risultato è che oggi esiste una verità storica su quell’eccidio, realizzato dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo e depistato da ampi settori dei servizi segreti, ma non esiste una responsabilità processuale: nessuno ha pagato per la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88. Adesso che l’anniversario porta di nuovo a parlare di Piazza Fontana, è importante che molti comprendano gli snodi di una vicenda tanto complessa e importante. Un valido aiuto arriva da un documentario che verrà trasmesso mercoledì 11 dicembre alle 21.50 da History Channel: una ricostruzione chiara dei cardini di questa trama, con le testimonianze dirette di molti protagonisti a partire dai superstiti e dai familiari delle vittime. Uno dei punti di forza del filmato è la suggestione dei sotterranei degli archivi di Perugia dove, dopo avere girato l’Italia, sono finiti milioni di documenti originali dei tanti processi che hanno segnato questo procedimento. E’ come se l’onda d’urto dell’ordigno dalla sala cilindrica - dove quel venerdì pomeriggio si ritrovavano gli imprenditori agricoli del milanese per chiudere i contratti con una stretta di mano - avesse assunto una potenza incredibile, stravolgendo tutti i livelli delle società italiana. E infliggendo un colpo irreparabile alla credibilità delle istituzioni. Ne parla Ugo Paolillo, il primo pubblico ministero dell’inchiesta e il primo a dubitare della pista anarchica immediatamente accreditata dagli apparati di sicurezza, tanto da venire sollevato dall’indagine. I ricordi dell’ingresso nei locali distrutti scorrono sulle immagini terribili di corpi straziati e si accompagnano alle memorie di figli che non hanno mai ottenuto giustizia. E tra tanti interventi di rilievo - come quello di Guido Calvi, legale di Pietro Valpreda; della storica Benedetta Tobagi; dell’avvocato Federico Sinicato che ha assistito le famiglie delle vittime; di Martino Siciliano, ordinovista che ha preso parte alle prove dell’attentato – sorprende la sobrietà delle parole di Roberto Gargamelli, all’epoca anarchico diciannovenne del circolo 22 marzo, arrestato e processato ingiustamente assieme a Valpreda. Nonostante nel suo caso persino l’unico testimone ne avesse negato il riconoscimento.
Piazza Fontana "vista" attraverso il ricordo dei parenti delle vittime. In prima serata Rai, Giovanna Mezzogiorno dà voce al dolore di chi non ha avuto giustizia. Laura Rio, Mercoledì 11/12/2019, su Il Giornale. Un'intera vita spesa alla ricerca della giustizia, mai arrivata. Almeno non nelle aule dei tribunali. È l'esistenza dei familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana, di cui proprio domani ricorre il cinquantenario. E nel giorno dell'anniversario Raiuno manda in onda la docu-fiction Io ricordo che, dopo tante inchieste, libri, programmi che hanno tentato di fare luce sulla strage, sui processi, sui servizi segreti, sui depistaggi, sulle parti deviate dello Stato, vuole invece puntare i riflettori su mogli, figli, fratelli, genitori di chi ha avuto la vita spezzata entrando in banca il 12 dicembre 1969 e non uscendone mai più. Io ricordo, presentato ieri mattina a Milano in un incontro commovente con alcuni dei parenti di quelle 17 vittime, ripercorre più di trent'anni di storia giudiziaria principalmente attraverso gli occhi di Francesca Dendena, figlia di Pietro, diventata presidente dell'Associazione dei familiari. A dare parola e volto a Francesca una intensa Giovanna Mezzogiorno (Nicole Fornaro nel ruolo di lei da ragazza) che ha preso molto a cuore la causa. Io ricordo - regia di Francesco Micciché, produzione Aurora Tv - non è una fiction e neppure un documentario, è un mix di entrambi: le parti sceneggiate sono intervallate da interviste a magistrati, avvocati, giornalisti e ai medesimi parenti. Cercando di tenersi lontano dalla retorica, riesce in due ore nel difficile compito di riassumere una complicata e intricatissima storia giudiziaria che è diventata storia del nostro Paese, la strage che ha segnato l'inizio della strategia della tensione. «Il nostro obiettivo fondamentale - spiega Eleonora Andreatta, responsabile di Rai Fiction - era raccontare ai giovani cosa è stata e cosa ha rappresentato quella strage. I ragazzi di oggi non sanno neppure cosa sia o ne hanno una idea assai vaga. La memoria è fondamento identitario del nostro Paese e questo è il ruolo che deve avere la televisione pubblica». Il racconto segue il filo della vita di Francesca, che quando il padre morì aveva 17 anni. Io ricordo è l'inizio di un telegramma che inviò al Presidente della Repubblica dopo i tanti Non ricordo detti dai politici italiani che sfilarono al processo di Catanzaro. Da quel 12 dicembre 1969, quando il padre seduto al tavolo sotto cui fu piazzata la bomba saltò in aria, ha passato tutta la vita a chiedere giustizia, con fiducia ed entusiasmo, fino alla delusione finale della sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 2005 che nonostante attribuisse la strage al gruppo eversivo neofascista di Ordine Nuovo, dichiarò non punibili Freda e Ventura in quanto già assolti in via definitiva anni prima. «È stato un onore ma non è stato facile - racconta Giovanna Mezzogiorno - interpretare Francesca e ripercorre con i suoi occhi la storia della strage, piena di date, di fatti, di punti oscuri. Io ricordo piazza Fontana perché negli anni '90 ero al Liceo e partecipavo alle manifestazioni e ai cortei studenteschi. C'è stato e c'è qualcosa sopra di noi, sopra le nostre teste che non è venuto e non viene a gala. Mi auguro che questa fiction abbia successo perché la gente non deve dimenticare». Per l'attrice anche una condivisione del dolore. «Posso ben capire cosa voglia dire perdere un padre da ragazza, io il mio (Vittorio Mezzogiorno) l'ho perso in sei mesi, Francesca in pochi secondi, è un buco nero che rimane per sempre». La disperazione per la verità giudiziaria mai arrivata, non ha fermato i familiari che si sono trasformati da vittime in testimoni. Il fratello di Francesca (scomparsa nel 2010) Paolo, i figli, gli altri parenti girano ancora le scuole per parlare agli studenti, e sono stati e saranno presenti alle cerimonie di questi giorni. «Perché il cancro di questo Paese - conclude Paolo Silva, figlio di Carlo - non è solo l'indifferenza dei giovani, ma di molti italiani che si chiedono cosa vogliono questi qui dopo tutti questi anni...». La docu-fiction resterà su Raiplay ed è disponibile per le scuole e le associazioni.
Piazza Fontana 1969, il film “Romanzo di una strage” è un fake. Vladimiro Satta l'11 Dicembre 2019 su Il Riformista. Quando un film avente ad oggetto una vicenda storica nonché giudiziaria si annuncia mediante una pubblicità che ripete spesso: «la verità esiste» ed il regista dichiara che «il vero senso del film è spiegare ai ragazzi d’oggi cos’è stato quel tempo e quell’età», allora l’opera deve essere valutata secondo criteri storiografici, oltre che cinematografici. È il caso di Romanzo di una strage, diretto da Marco Tullio Giordana. Intorno a Romanzo di una strage, al libro Il segreto di Piazza Fontana del giornalista Cucchiarelli da cui il film è stato «liberamente tratto» e ai temi ivi trattati si è aperto un ampio dibattito. Al film e al libro –tra i quali esistono differenze, ma secondarie rispetto alle analogie – i commentatori hanno mosso numerosi rilievi. La peculiare tesi di Cucchiarelli prima e di Giordana poi è che le bombe di Piazza Fontana fossero non una ma due; la prima di bassa potenza, simbolica o quasi, piazzata da qualcuno (Valpreda secondo il libro, manovalanza fascista secondo il film) il quale ignorava che altri avrebbero affiancato alla sua un secondo ordigno destinato invece a fare una strage. Il segreto cui allude il titolo del libro di Cucchiarelli e che viene rappresentato nel film di Giordana è un presunto patto tra Moro e l’allora Capo dello Stato Saragat stretto il 23 dicembre 1969, e da allora sempre rispettato da apparati pubblici e forze politiche sia di maggioranza, sia di opposizione, che avrebbe impegnato l’esponente Dc a occultare la verità in cambio della dismissione di qualsivoglia tentazione eversiva da parte del Quirinale. Come ha osservato Stajano, Giordana «ha imboccato la via del realismo nutrita di finzione», commettendo così un errore «in cui non sono caduti né Francesco Rosi né Gillo Pontecorvo». Rosi, a proposito di Romanzo di una strage, ha dichiarato che «quando si trattano avvenimenti che riguardano la nostra vita pubblica, l’unica cosa che bisogna tener presente è la verità giudiziaria, bisogna procedere senza mai perderla di vista». Viceversa, Giordana si è discostato spesso e volentieri dalle sentenze e ha eletto quale suo principale riferimento un libro che dagli esperti aveva ricevuto molte più stroncature che consensi. Il dissenso rispetto ai giudicati penali è un diritto, ma andava esplicitato ed evidenziato, altrimenti lo spettatore poco informato è indotto a credere erroneamente che la ricostruzione cinematografica sia in linea con le ricostruzioni giudiziarie. In mezzo alle tante scene sufficientemente corrispondenti a episodi documentati ce ne sono altre, formalmente indistinguibili dalle prime, inventate di sana pianta o che deformano la realtà storica introducendovi elementi spuri. Le falsità prodotte dall’intreccio tra storia e fiction talvolta sono di poco conto, talaltra no. Ad esempio, che Junio Valerio Borghese abbia telefonato irato a non si sa chi, lamentando che l’attentato non avesse provocato la proclamazione dello stato di emergenza, è un’invenzione cinematografica la quale suggerisce un’ipotesi sul movente e sugli autori della strage mentre Borghese, che fu alla testa del colpo di Stato abortito tra il 7 e l’8 dicembre 1970, è invece estraneo al massacro di Piazza Fontana. Delle Chiaie, capo di Avanguardia Nazionale, fu accusato di essere il mandante della strage ma fu assolto con formula piena, dunque non si spiega la sua ricorrente presenza nel film. Sono fantasie i colloqui tra Moro e un ufficiale dei Carabinieri il quale il 20 dicembre gli avrebbe promesso un rapporto contenente la verità sulla strage, che l’uomo politico avrebbe portato tre giorni dopo a Saragat – in un incontro altrettanto privo di riscontri – e sarebbe stato da loro insabbiato di comune accordo. Il deus ex machina che nel film informa Moro poteva avere smascherato Freda e Ventura entro il 20 (o 23) dicembre 1969? No. La pista Freda-Ventura fu originata dalla testimonianza di Lorenzon, verbalizzata il 15 gennaio 1970, e decollò soltanto dopo il fortuito ritrovamento di armi a Castelfranco Veneto di fine 1971, che diede i primi sostanziosi riscontri alle dichiarazioni del titubante teste. Moro, nel memoriale vergato durante il sequestro di cui fu vittima, disse anzi di non essere «depositario di segreti di rilievo» in materia di stragi: «quanto a responsabilità di personalità politiche per i fatti della strategia della tensione non ho seriamente alcun indizio. Posso credere più a casi di omissione per incapacità e non perspicace valutazione». Per di più, un incontro tra lui e Saragat il 23 dicembre avrebbe potuto decidere ben poco, sia perché Moro all’epoca era in minoranza nella Dc, sia perché già il 15 i partiti di centro-sinistra avevano risposto politicamente all’attentato rafforzando i legami di coalizione e impegnandosi a formare un nuovo governo. L’immagine dell’antifascista Saragat alleato con i fascisti stragisti è una tragicomica montatura. Sul piano metodologico, fonti anonime non vanno bene né nei tribunali, né nei libri di storia. Di conseguenza, è squalificato il contributo proveniente da un fascista ignoto (inesistente?) cui si richiama Cucchiarelli. Il principio vale anche per il volume Il segreto della Repubblica da cui ad ottobre 1978 partì l’idea – recepita da Giordana – che l’inchiesta su Piazza Fontana fu depistata dal patto tra Moro e Saragat di cui sopra. Infatti, Il segreto della Repubblica si basa su confidenze che sarebbero state fatte a Fulvio e Gianfranco Bellini da un fantomatico “conoscente inglese” di cui Fulvio, interrogato dal giudice Salvini, ha sostenuto di non avere mai saputo né nome né cognome. L’ipotesi della doppia bomba, la quale, per coerenza, richiede pure due attentatori, due taxi che li accompagnarono sul luogo, due cordate di mandanti, due scopi – in pratica, «doppio tutto» – fu criticata già nel 2009 da Giannuli e altri. Nel 2012 fu la volta di Boatti, che tuonò contro il «delirio di sdoppiamento» prolifico di «soggetti che si moltiplicano con geometrica espansione», e di Sofri che attaccò il «Raddoppio Universale» con una serie di contestazioni. Da ultimo, la Procura di Milano sancì «l’assoluta inverosimiglianza» della teoria della doppia bomba. Romanzo di una strage e Il segreto di Piazza Fontana sfiorano anche altre drammatiche vicende degli anni 70, prospettandole in modi assai discutibili. Qui non si può rettificare tutto quel che si dovrebbe, ma almeno un paio di cose sì. La prima riguarda Feltrinelli, che morì accidentalmente mentre manipolava esplosivo. Nel film, mediante la trovata di una telefonata, si insinua un’immotivata incertezza sull’episodio. La seconda concerne l’omicidio del commissario Calabresi, delitto per il quale furono condannati alcuni esponenti di Lotta Continua. Il film dà pochissimo spazio alla lunga campagna diffamatoria contro Calabresi svolta da Lotta Continua e molto invece a un’indagine su un traffico di armi e di esplosivi e ad un immaginario colloquio tra lui e il prefetto D’Amato, inducendo a sospettare un nesso causale con il delitto. Non ci si inganni (…) il colloquio Calabresi-D’Amato alla vigilia della morte del primo è doppiamente falso; perché non si verificò, e perché a D’Amato si attribuiscono frasi che in parte sono di Taviani, in altra parte riflettono le opinioni di Cucchiarelli e sono agli antipodi di quel che D’Amato abbia mai detto. L’Italia superò la prova del terrorismo (…) spacciarla per una Repubblica fondata sul fango è ingiusto, prima ancora che oltraggioso nei confronti della Repubblica stessa, degli uomini che furono in prima fila a difenderla e del popolo intero che, ribadendo fedeltà alle istituzioni e voltando le spalle agli eversori, creò il fondamentale presupposto affinché le minacce fossero sventate. Hanno invitato, inascoltati, «con urgenza il potere giudiziario» a «una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione». La questione è la solita: come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle? In alcuni casi sono saltate fuori le prove dei fatti contestati, presentate come tali in processi arrivati a sentenza. Ma a tenere in piedi la Lava Jato sono le delazioni premiate a tappeto di detenuti in via preventiva che, magicamente, escono dal carcere appena indicano il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto nelle aperture dei tg come fosse un reo confesso. A osservare il dettaglio delle principali inchieste, a controllare sul calendario i nomi di chi esce e di chi entra dalla cella, il timore che la prigione preventiva sia usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione, sembra fondato. Nel bel mezzo della guerra in corso, anche dentro l’avvocatura brasiliana si è scatenata più di una battaglia. Approfittando del rifiuto di alcuni studi legali di difendere gli imputati che firmano accordi di delazione premiata, spuntano come funghi avvocati che si stanno specializzando nella contrattazione con l’accusa, per conto dell’assistito, per accedere ai benefici offerti a chi collabora. Benefici che, a volte, somigliano a un regalo. Prendiamo il caso di Joesley Batista, il proprietario della principale azienda mondiale per l’esportazione di carne, la Jbs. Incastrato da intercettazioni pesanti, Batista ha confessato e descritto il giro vorticoso di tangenti che gli ha consentito, tra l’altro, di evadere tutte le tasse sull’export. Il contratto di delazione premiata da lui firmato gli ha permesso di dirsi colpevole della corruzione dell’intera classe dirigente brasiliana degli ultimi quindici anni – destra, sinistra, centro, più alcuni giudici – pagata secondo le sue accuse con milioni di dollari per un’enormità di favori illeciti, e di scampare illeso dal processo vendendo la testa dei politici da lui accusati in cambio dell’impunità. Ha confessato crimini clamorosi ed è improcessabile. La notizia non è stata presentata come scandalosa e non ha fatto scandalo. Il biglietto da pagare per lo show.
Brano tratto da “La strage di piazza Fontana tra storia e fiction” in “Nuova storia contemporanea” (numero 3/2012)
Strage piazza Fontana: 50 anni tra depistaggi, innocenti puniti e terroristi fascisti liberi. Il 12 dicembre del 1969 una bomba neofascista uccideva 17 persone a Milano. I responsabili, protetti da settori dello Stato, l'hanno fatta franca. Paolo Biondani su L'Espresso il 10 dicembre 2019. Una chiesa ottagonale, molto bella, al margine del parco di una storica villa veneta, accanto all’antica via Postumia. Il muro di cinta della proprietà, in pietre chiare contornate da strisce di mattoni, prosegue lungo una stradina laterale, per circa 200 metri. Alla fine c’è un casolare bianco, con la facciata esterna senza finestre. Il terrorismo politico in Italia è nato qui. Le bombe nere che nel 1969 hanno per la prima volta insanguinato la nostra democrazia sono state fabbricate in questo piccolo rustico alla periferia del comune di Paese, fra Treviso e Castelfranco Veneto. Dove oggi i vicini sono increduli, ignari di questo pezzo di verità ormai accertata da definitive sentenze giudiziarie. Gli stessi proprietari hanno scoperto solo con le ultime inchieste di aver ospitato, nel casolare dietro la loro villa, il covo segreto dei terroristi neri. Dalla strage di piazza Fontana sono passati 50 anni. Mezzo secolo di giustizia negata, depistaggi dei servizi, innocenti perseguitati, processi scippati, colpevoli impuniti. Il 12 dicembre 1969 una bomba in una banca di Milano uccide 17 innocenti e fa precipitare l’Italia nel terrorismo. Prima di spegnersi il giudice Gerardo D’Ambrosio spiegò così, all’Espresso, quella “strategia delle tensione”: «Alla fine degli anni ’60 alcuni settori dello Stato, e mi riferisco al servizi segreti, al Sid, ai vertici militari e ad alcune forze politiche, pianificarono l’uso di giovani terroristi di estrema destra per fermare l’avanzata elettorale della sinistra, che allora sembrava inarrestabile. Le bombe servivano a spaventare i moderati e l’effetto politico veniva amplificato infiltrando e accusando falsamente i gruppi di estrema sinistra». Prima e subito dopo la strage di piazza Fontana, gli apparati di Stato rafforzano la strategia arrestando decine di anarchici, poi tutti assolti. Il loro ipotetico arsenale, localizzato (da un infiltrato neofascista) a Roma sulla via Tiburtina, si rivela solo una buca vuota. Agli anarchici milanesi non viene trovato neanche un petardo, neanche una fionda. Solo quando i giudici di Treviso e Milano incriminano i neofascisti veneti, arrivano le prime prove vere, con i riscontri più pesanti: gli arsenali di armi ed esplosivi. Già nel primo, storico processo di Catanzaro, il neonazista mai pentito Franco Giorgio Freda e il suo complice Giovanni Ventura, morto in libertà dopo la fuga in Argentina, vengono condannati in tutti i gradi di giudizio per ben 17 attentati del fatale 1969. Bombe all’università di Padova (15 aprile), alla fiera e alla stazione di Milano (25 aprile, 10 feriti). Bombe nei tribunali di Torino, Roma e Milano (12 maggio e 24 luglio). Bombe su dieci treni delle vacanze (notte tra l’8 e 9 agosto 1969, venti feriti). Per l’eccidio di piazza Fontana, entrambi vengono assolti in appello, per insufficienza di prove. E abbondanza di depistaggi, che costano una condanna definitiva per favoreggiamento a due ufficiali (piduisti) del Sid. Anche le tante indagini successive si chiudono senza alcuna condanna, però alla fine convincono tutti i giudici, compresa la Cassazione, che Freda e Ventura erano colpevoli anche della strage di Milano, ma non sono più punibili perché ormai assolti. Nell’ultimo processo, concluso nel 2006, l’imputato più importante, il capo di Ordine nuovo nel Triveneto, Carlo Maria Maggi, segue la stessa sorte: condanna all’ergastolo in primo grado, assoluzione in appello e Cassazione, motivata dall’insufficienza dei riscontri alle accuse del pentito Carlo Digilio. «L’incoerenza più grave», per i giudici innocentisti, era proprio «il mancato ritrovamento del casolare di Paese»: la fabbrica delle bombe di Freda e Ventura. La caccia al covo nero riparte con l’ultima indagine sulla strage di Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) e sembra la trama di un giallo. L’unico indizio sono i ricordi del pentito. La chiesa sulla strada. Il muro in pietra. Il casolare senza finestre. Un rustico sullo sfondo, tra i campi. I primi inquirenti erano partiti dalla chiesa principale, nel centro di Paese, senza trovare nulla. A fare centro è un tenace ispettore capo della polizia, Michele Cacioppo: la chiesa descritta da Digilio è la cappella privata di villa Onesti-Bon. All’epoca la proprietà era gestita da Sergio Bon, morto nel 2004, che aveva affittato quel casolare retrostante proprio a Giovanni Ventura. Il terrorista, sulla sua agenda del 1969, aveva annotato “Digilio” e “Paese” accanto al nome di un avvocato di Treviso, Giuseppe Sbaiz. Sentito dal poliziotto, il legale chiude il cerchio: «Sergio Bon mi aveva incaricato di sfrattare Ventura, perché aveva visto che nascondeva armi nel casolare». Anche gli eredi di Bon confermano l’affitto all’editore trevigiano complice del padovano Freda. Oggi il luogo è irriconoscibile. Il casolare è stato ristrutturato, ampliato e diviso in tre abitazioni. Ed è circondato da villette e palazzine. Una vicina con i capelli bianchi conferma però che «qui, 50 anni fa, era tutta campagna: c’era solo quel casolare». E dietro il parco c’è ancora il vecchio rustico che vedeva Digilio, ora nascosto da un labirinto di case. Digilio, secondo le sentenze definitive, è un pentito a metà, che ha cercato di minimizzare le sue responsabilità nelle stragi. Felice Casson fu il primo magistrato a farlo condannare come terrorista e armiere di Ordine Nuovo, subordinato proprio a Maggi. Indagato a Milano, solo nel 1998 Digilio ammette di aver aiutato Freda e Ventura a fabbricare ordigni esplosivi. E confessa, in particolare, di aver preparato le bombe sui treni dell’agosto 1969 proprio nel casolare di Paese. Ventura replica di non averlo mai conosciuto: «Il nome di Carlo Digilio non mi dice assolutamente nulla». Invece lo ha anche pagato, perfino il giorno prima delle bombe sui treni, come dimostra una serie di assegni recuperati dall’ispettore Cacioppo, ne pubblichiamo uno in questa pagina. Il casolare di Paese diventa così un nuovo prezioso riscontro alle dichiarazioni di Digilio, che nel 2017 portano alla condanna definitiva di Maggi per la strage di Brescia. La sentenza riguarda anche piazza Fontana e conclude che, dal 1969 al 1974, le stragi hanno lo stesso marchio: Ordine nuovo. Ma se il terrorismo rosso era contro lo Stato, all’epoca gli stragisti neri erano dentro lo Stato. E sono stati protetti per anni da diversi apparati, scatenati sulla falsa pista anarchica di Valpreda e Pinelli, l’innocente precipitato da una finestra della questura. Mentre gli arsenali neri venivano nascosti. Il primo si scopre subito dopo la strage di piazza Fontana. Il 13 dicembre Ventura si tradisce con un amico che vorrebbe reclutare, Guido Lorenzon: gli confida che la bomba di Milano non ha provocato l’atteso golpe, per cui lui e Freda programmano altri attentati sanguinari. Spaventato, Lorenzon ne parla a un avvocato che lo porta dal giudice Giancarlo Stiz, il primo a indagare sui terroristi neri. Il 20 dicembre 1969 viene perquisita la casa di Ventura a Castelfranco Veneto, dove spuntano «un fucile, una bomba a mano e un pugnale della milizia, mai denunciati». Lui nega tutto: mai fatto attentati o violenze, il “fucile da caccia” era del padre, la “granata” sarebbe «un cimelio di guerra custodito come oggetto ornamentale». Nella stessa casa, alla periferia di Castelfranco, vive ancora la sorella, Mariangela Ventura. È identica a lui. E non sente alcun bisogno di nascondersi: il cognome è sul campanello. «Non sarà mica qui per l’anniversario di piazza Fontana?». Indovinato. «Mio fratello è morto. Piazza Fontana è stata una tragedia, durata trent’anni, anche per la mia famiglia». Si figuri per le vittime. «Ora basta. Arrivederci». Peccato. La sorella fu una testimone seria: fu lei a consegnare ai magistrati la famosa chiave del Sid, che apriva tutte le porte del carcere di Monza, per far evadere Ventura nel 1973, quando era crollato confessando a D’Ambrosio tutti gli attentati del 1969, tranne la strage. E l’arsenale di Paese? Dopo la prima perquisizione a casa, Ventura e Freda imboscano le armi e gli esplosivi. E avvertono subito i capi di Ordine Nuovo: non solo Maggi, ma anche Pino Rauti, il leader nazionale, arrestato per pochi giorni e poi prosciolto, quindi eletto parlamentare del Msi. Il casolare di Paese torna ai proprietari. E le indagini deviate dai servizi puntano sempre sulla pista anarchica. Che frana per caso, il 5 novembre 1971, quando si scopre un grosso arsenale nero in una soffitta di Castelfranco: cinque mitra, otto pistole, oltre mille cartucce, 27 caricatori, quattro silenziatori e una bandiera nera con il fascio littorio. Qui, in piazza Giorgione 48, in un palazzo d’epoca di fronte al castello, vive ancora un signore di 78 anni che ha assistito a quella svolta: «Un vicino stava ristrutturando la casa. Un muratore ha aperto un foro nella soffitta comune, per controllare la canna fumaria, e ha trovato i due borsoni con quell’arsenale». Il giorno stesso il custode delle armi confessa che appartengono a Giovanni Ventura, che le ha fatte portare lì, nel 1970, dal fratello Angelo e da un suo dipendente, Franco Comacchio. Che conferma: erano di Freda e Ventura, era un arsenale di una loro «organizzazione segreta», eversiva, che collocava anche «ordigni esplosivi sui treni». Comacchio e la sua convivente aggiungono che prima, «nella primavera 1970», l’arsenale fu portato a casa loro «in una cassa»: tra le armi, videro anche «candelotti di esplosivo». Impauriti, li nascosero alle pendici del Monte Grappa, «in una fenditura tra le rocce». Nel punto indicato, la sera del 7 novembre, i carabinieri trovano «35 cartucce di esplosivo: 20 di colore marrone, 15 blu scuro». Il perito di turno ne accerta «l’avanzata decomposizione e l’estrema pericolosità», ordinandone «la rapida distruzione, senza poter prelevare campioni». Impossibile, dunque, fare confronti con la bomba di piazza Fontana, che secondo l’intero collegio dei periti era composta proprio da due tipi di esplosivo: «dinamite-gelatina da mina», contenuta in «cartucce», e «binitro-toluolo», un’altra sostanza «di frequente uso militare». Non a caso, la chiamavano strage di Stato. Oggi, nel bar al centro della piazza, di fianco al palazzo che custodiva l’arsenale, sono seduti otto universitari, tutti di Castelfranco. Due ammettono, imbarazzati, di sapere «poco o niente» di piazza Fontana. Gli altri sei conoscono la matrice politica: «Terroristi neri, destra». Solo un ragazzo con la barba sa che fu arrestato «anche uno di Castelfranco, Ventura». Ma «neofascisti o brigatisti» gli sembrano «una storia superata»: «Il terrorismo, nero o rosso, appartiene al passato, il nostro è un mondo diverso». Speriamo.
“LA GUERRA TRA PROCURE CI HA IMPEDITO DI FARE GIUSTIZIA”. Dagospia il 12 dicembre 2019. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista rilasciata dal giudice Guido Salvini a Panorama Storia, lo speciale in edicola dedicato alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario. Quel giorno alle 16.37 una bomba, nascosta in una valigetta con sette chili di tritolo e un timer, esplose scavando una buca profonda nel pavimento della filiale della Banca nazionale dell’agricoltura, a pochi passi dal Duomo di Milano. I morti furono 17, 84 i feriti. Da quel giorno l’Italia entrò nella cupa stagione del Terrore. Il giudice Salvini, che riuscì a individuare il filo che legava tutti gli attentati del sanguinoso quinquennio 1969- 1974, torna sui depistaggi e sulle gelosie tra Procure che ostacolarono le indagini. Estratto dell’articolo di Maurizio Tortorella per “Panorama”, pubblicato da “la Verità”. Per un quarto di secolo ha condotto indagini sul terrorismo rosso e nero. Alla fine degli anni Ottanta, da giudice istruttore, è stato lui a riaprire l' inchiesta su Piazza Fontana. E nonostante l' assoluzione degli imputati indicati come autori materiali della strage, è sempre grazie a lui se la responsabilità dell' attentato del 12 dicembre 1969 è stata attribuita al gruppo neonazista Ordine nuovo. Guido Salvini, 65 anni, è il magistrato italiano che ha trovato il filo della «strategia della tensione», il sanguinoso quinquennio tra il 1969 e il 1974 che vede l' Italia colpita da cinque stragi, mentre un' altra mezza dozzina fallisce solo per caso. A lui Panorama ha chiesto di raccontare quale sia la sua visione di quegli orribili anni di sangue. Partendo proprio da quella strage su cui - nel cinquantenario - è in libreria il suo La maledizione di Piazza Fontana (Chiarelettere).
Dottor Salvini, in che atmosfera avviene la strage del 12 dicembre 1969?
«Al governo c' è un debole monocolore Dc, guidato da Mariano Rumor. Il clima sociale è incandescente. Il rinnovo dei contratti mobilita centinaia di migliaia di operai. Anche in Italia, con un anno di ritardo rispetto al 1968 francese, inizia la dura protesta studentesca. E in Parlamento si avviano riforme importanti: lo Statuto dei lavoratori, le Regioni, la legge sul divorzio...».
E a livello internazionale?
«Richard Nixon è il presidente degli Stati Uniti e il suo segretario di Stato, Henry Kissinger, lancia la famosa "dottrina" in base alla quale i governi italiani e i partiti di centro devono respingere ogni intesa con i comunisti e con la sinistra socialista. Il 27 febbraio 1969, mentre Roma s' incendia per la protesta studentesca, Nixon incontra al Quirinale il presidente Giuseppe Saragat. Si è da poco consumata la scissione del Psi e attorno al Psdi, di cui Saragat è il leader, si radunano le correnti più contrarie al proseguimento del centrosinistra».
Che cosa si dicono, i due?
«Secondo un dossier negli archivi di Washington desecretato pochi anni fa, Saragat e Nixon concordano sul "pericolo comunista". Il nostro presidente afferma che agli occhi degli italiani il Pci si fa passare per un "partito rispettabile", ma in realtà è dedito agli interessi del Cremlino».
Questa è verità storica: il Pci ha continuato a incassare i dollari dei sovietici fino alla fine degli anni Ottanta. Ma come si arriva a Piazza Fontana?
«Sì, quella era la guerra fredda, l' epoca della contrapposizione tra due blocchi: ora ci sembra tanto lontana che si stenta a ricordarla. In un simile quadro, quella del 1969 è stata una lunga campagna stragista. La bomba del 12 dicembre è preceduta da una sequenza di 17 attentati: colpiscono tribunali, università, uffici pubblici e la Fiera di Milano».
E qual è l' obiettivo di questa campagna?
«Vincenzo Vinciguerra, esponente di Ordine nuovo, ha spiegato in sede giudiziaria che tutto puntava a un' adunata indetta dai neofascisti del Msi per domenica 14 dicembre, a Roma, enfaticamente propagandata come "appuntamento con la nazione". Vinciguerra rivela soprattutto che la scelta della data era collegata a ciò che i "livelli più alti" sapevano sarebbe avvenuto due giorni prima».
Cioè la bomba alla Banca nazionale dell' agricoltura «Esattamente».E nei piani che cosa sarebbe dovuto accadere?
«Quarantott' ore dopo la strage, un tempo perfetto per far montare al massimo la tensione, Roma sarebbe stata piena di militanti di destra pronti allo scontro, che invocavano interventi contro la sovversione. Sarebbe bastata una scintilla per scatenare incidenti incontrollabili: assalti alle sedi dei partiti di sinistra, con l' inevitabile reazione da parte dei loro militanti, e quindi scontri con la polizia, magari con morti tra le forze dell' ordine».
Lo scopo?
«Rendere inevitabile la dichiarazione dello "stato di emergenza": era quello il vero obiettivo della strage».
E che cosa blocca il piano?
«Il 13 dicembre, quando Vinciguerra con gli ordinovisti arrivati da ogni parte d' Italia è già a Roma, il ministro dell' Interno, Franco Restivo, vieta la manifestazione e cade il tentativo di far precipitare la situazione. E la determinazione e la compostezza con cui la borghesia e gli operai milanesi presenziano ai funerali delle vittime fanno definitivamente fallire il piano». [...]
Come mai è stato tanto difficile indagare su queste stragi, e perché la verità giudiziaria in molti casi resta incompleta?
«Ci sono tanti motivi. Il primo è il muro che, almeno sino alla fine degli anni Ottanta, è stato opposto alle indagini dell' autorità giudiziaria dai servizi di sicurezza e da una parte dei vertici degli organi investigativi, polizia e carabinieri. Ostruzionismo e depistaggi sistematici». [...]
Ma c' è altro: ostracismi e guerre tra Procure. Lei ne sa qualcosa, no?
«Di certo, tra i magistrati che negli anni Novanta indagavano sui vari episodi di strage, ci sono state gelosie e invidie: in certi casi sono andate ben oltre la semplice mancanza di collaborazione».
Immagino lei si riferisca al pm veneziano Felice Casson. Come scoppiò il conflitto tra di voi?
«La Procura di Venezia non aveva gradito che le nuove indagini milanesi, nei primi anni Novanta, non confermassero il presunto coinvolgimento di Gladio nelle stragi: una tesi sostenuta con enfasi, anche se più in forma mediatica che giudiziaria. Il pm Casson non aveva apprezzato nemmeno che le nostre indagini avessero fatto breccia proprio sull' ambiente ordinovista di Venezia e Mestre, che la sua Procura aveva indagato negli anni precedenti, ma con risultati molto inferiori».
Il risultato è stato devastante: una delle prime guerre tra Procure.
«Nel 1995 accadde qualcosa che oggi può apparire incredibile, eppure è successo così come lo racconto. Casson coltivò i contenuti di un esposto contro gli investigatori milanesi, ispirato e pagato dal latitante Delfo Zorzi e presentato dal capo ordinovista Carlo Maria Maggi, tra gli indagati per la strage di Piazza Fontana».
Cosa capitò, a quel punto?
«Il risultato fu l' incriminazione mia e dei carabinieri che lavoravano con me sul fronte dell' eversione nera, da parte dello stesso Casson. Seguì una serie di segnalazioni disciplinari al Csm, tutte rivelatesi false e infondate. Ci fu addirittura il tentativo di farmi trasferire d' ufficio da Milano, un tentativo in cui si distinse la Procura di Francesco Saverio Borrelli e Gerardo D' Ambrosio cui, dopo non aver fatto nulla sulla strage di Piazza Fontana, per anni, non dispiaceva appropriarsi dei miei atti e dei miei interrogatori».
Accuse forti. Quale risultato ebbero, queste iniziative?
«Il risultato fu la delegittimazione dell' istruttoria milanese agli occhi di testimoni e indagati, e il rallentamento della nostra indagine sulla strage. L' esito fu una ciambella di salvataggio per gli ordinovisti imputati a Milano. Maggi per Piazza Fontana è stato assolto». [...]
Per finire, ci sono altri episodi tragici di quegli anni di cui non si sa ancora tutto: per esempio l' omicidio del commissario Calabresi, che è collegato alla morte di Pinelli e quindi alla strage di Piazza Fontana.
«Per quell' omicidio c' è una sentenza definitiva nei confronti degli esponenti di Lotta continua che nel 1972 organizzò l' agguato, e su questo non ci sono dubbi. Ma ancora, a causa del silenzio dei suoi capi, non sappiamo molte cose. Non si conosce, se non in parte, come l' omicidio fu deciso e nemmeno tutta la fase esecutiva».
Il figlio di Luigi Calabresi, Mario, si è incontrato di recente con Giorgio Pietrostefani. Che cosa ne ha pensato?
«Pietrostefani, latitante da molti anni, era il capo militare di Lotta continua. Lui certamente sa tutto: sa com' è stata presa quella decisione. È gravemente malato e certo non mi auguro il carcere per lui. Ma credo abbia il dovere morale di raccontare, anche senza far nomi, che cosa è successo: come maturò quell' omicidio commesso in nome di tanti giovani che, ottenebrati da un clima di violenza, nelle strade inneggiavano alla morte di Calabresi. Non sappiamo che cosa il figlio del commissario ucciso e l' ex dirigente di Lotta continua si siano detti quel giorno. Aspettiamo».
Quella sera in piazza Fontana. Il 12 dicembre 1969 scoppia in piazza Fontana a Milano la bomba che uccide 17 persone e dà il via alla strategia della tensione: ecco il racconto che ne fece, a distanza di 40 anni, Giorgio Bocca. La Repubblica l'11 dicembre 2019. Nel 50esimo anniversario della strage di Piazza Fontana pubblichiamo un articolo scritto da Giorgio Bocca sulle pagine di Repubblica l'11 dicembre del 2009, per ricordare le vittime della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano 40 anni dopo la bomba che ha cambiato la storia d'Italia. Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza. Ma il mio studio stava nell'interno e non avevo sentito il fragore dell'esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: "Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale". C'erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c'era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle. A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come "gli anni di piombo", gli anni del terrorismo. Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. "Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?". A bruciapelo risposi: "I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti". "Tu dici?", fece Pietra che conosceva l' arte dell' understatement, e aggiunse: "Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici". Era cominciata l'umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell'eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall'arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura. Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della Prima Repubblica, finita l'unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell'impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l'ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni. La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l'inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l'impegno a mantenere comunque la democrazia, lo stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell'impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina. Cosa c'era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l'ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l'ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell'utopia socialista, delle richieste dell'impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie. Di certo c' è solo che quella febbre c' era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili. L'unica spiegazione non spiegazione, l'unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l'ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: "Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C'è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica". Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: "Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l'uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati". Ma c'era un'utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c'era l'utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, "spostare a destra il governo della repubblica italiana". Anche nell'estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l'avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l'opposizione operaia era debole o inesistente.
Pino Nicotri su blitzquotidiano.it il 13 dicembre 2019. In occasione del 50esimo anniversario della strage milanese di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e delle bombe fatte esplodere in contemporanea anche a Roma sono stati pubblicati libri e inchieste giornalistiche riassuntive riguardanti sia la strage e le altre bombe di quel giorno sia il contorno che le aveva precedute nel corso dell’anno. Con l’occasione, ho deciso di ripubblicare il libro Il Silenzio di Stato che ho scritto nel ’72 e che condusse i magistrati a scoprire finalmente che la verità era a Padova. Per essere reperibile in tempo per il 12 dicembre il libro Silenzio di Stato l’ho pubblicato con Il Mio Libro, di Kataweb, con una nuova copertina che ricalca quella originale. La riedizione l’ho arricchita con una sostanziosa e DOCUMENTATA introduzione, che spiega meglio varie cose alla luce di quanto avvenuto dal ’72 ad oggi. Nei vari libri in uscita in occasione del 50esimo quell’episodio cruciale è citato solo dal magistrato Guido Salvini, nel suo libro recentissimo intitolato La maledizione di Piazza Fontana: l’unico che ha fatto rilevare un particolare tanto strano quanto grave, del quale parleremo tra poco. Vediamo cosa è successo a suo tempo. Intanto notiamo che le bombe erano contenute tutte in borse di similpelle della ditta tedesca Mosbach&Gruber, particolare accertato grazie al fatto che un ordigno, quello piazzato nella filiale della Banca Commerciale (Comit) in piazza della Scala a Milano, non era esploso ed era stato ritrovato pertanto intatto, alle 16:25, compresa la borsa che lo conteneva. Borsa che risulterà identica a quelle contenenti gli altri ordigni, tutte caratterizzate dalla chiusura laterale metallica di colore giallo recante impresso il disegno del profilo di un gallo: il logo della ditta tedesca Mosbach&Gruber. La borsa conteneva una cassetta metallica marca Juwel, che a sua volta conteneva l’esplosivo fortunatamente non esploso. Pochi minuti dopo tale rinvenimento in piazza della Scala un altro ordigno composto da circa sette chili di esplosivo saltava in aria, alle 16:37, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, uccidendo 17 persone e ferendone 88. La più grave strage italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dai reperti rinvenuti sul luogo della strage di Milano i periti hanno potuto stabilire che la bomba era contenuta in una cassetta metallica marca Juwel nascosta in una borsa di similpelle marca Mosbach&Gruber. Gli inquirenti e quindi i giornali e la Rai, all’epoca le radio e le tv private non esistevano ancora, sostennero immediatamente e in coro compatto che quel tipo di borse erano in vendita solo in Germania e che in Italia non se ne trovavano. Un modo per insinuare che gli anarchici subito accusati della strage non fossero un gruppo di balordi milanesi e romani, ma avessero invece ramificazioni e rapporti con altri Paesi, quanto meno con anarchici e terroristi tedeschi. Una versione pubblica durata ben 33 mesi, vale a dire poco meno di tre anni. La strage era avvenuta nel pomeriggio del venerdì 12 dicembre 1969. Ma solo dopo il 10 settembre del 1972, cioè dopo ben tre anni meno tre mesi, si scoprirà che la vulgata delle Mosbach&Gruber inesistenti in Italia era assolutamente e sfacciatamente falsa. E che erano sicuramente in vendita in almeno due negozi della città di Padova. Uno dei negozi padovani aveva venduto a un unico acquirente proprio quattro borse di quel tipo due giorni prima della strage. E la commessa che le aveva vendute, signora Loretta Galeazzo, era corsa a dirlo in questura non appena aveva appreso dalla Rai e dai giornali i particolari del ritrovamento nella filiale della Banca Commerciale. A riconoscere Freda era stata anche la collega della Galeazzo in valigeria, che aveva chiacchierato con l’acquirente mentre un commesso andava a prendere dal deposito le altre tre borse. E quando a Padova hanno arrestato per istigazione dei militari all’eversione Giorgio Franco Freda, neonazista di Ordine Nuovo, la stessa commessa è corsa di nuovo in questura per dire che dalle immagini in televisione e sui giornali locali aveva riconosciuto in Freda la persona che aveva comprato le borse. Due testimonianze che avrebbero potuto far arrestare gli autori della strage nel giro di pochi giorni. E che invece sono sparite…Questa assurda negligenza del mondo dell’informazione giornalistica è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di diventare giornalista. Ero uno studente di Fisica, fuoricorso perché per studiare e campare facevo vari lavori saltuari, ero il presidente dell’Assemblea d’Ateneo e abitavo dal ’65 o dal ’66 in un appartamento di cinque stanze più bagno e cucina, preso in affitto all’ultimo piano di via Oberdan 2, in pieno centro storico di Padova, affianco al famoso caffè Pedrocchi. La stanza più grande la utilizzavo come ufficio, non aperto al pubblico, dell’Italturist, l’agenzia turistica del PCI specializzata in viaggi soprattutto di gruppo nei Paesi comunisti dell’est europeo. Due stanze le avevo affittate a due studenti di Treviso: Giorgio Caniglia, che studiava Ingegneria, e Carla, che studiava Lettere. Il venerdì nel primo pomeriggio se ne tornavano entrambi a casa dei rispettivi genitori a Treviso, cosa che fecero anche quel venerdì 12 dicembre della strage, per tornare a Padova la domenica sera, cosa che fecero anche la domenica successiva alla strage, cioè il 14 dicembre sera. Sabato pomeriggio sono arrivati a casa mia i carabinieri con tre mandati di perquisizione, uno per me, uno per Giorgio e uno per Carla, assenti perché andati a casa loro a Treviso come sempre per il fine settimana. Il giorno dopo, sabato 13 dicembre, in serata sono poi arrivati come al solito anche Giorgio e Carla. Appena entrato in casa Giorgio mi ha mostrato la sua borsa di similpelle nera, quella che usava ogni giorno anche per andare a lezione e che avevo visto in varie occasioni dentro e fuori casa. Con una mano me la mise davanti agli occhi dal lato della chiusura di metallo e con l’altra mi indicò il disegno che ne caratterizzava la borchia: era il disegno di un gallo preso di profilo. Era cioè proprio il logo delle Mosbach&Gruber. Poi Giorgio mi disse: “Non capisco perché radio, televisione e giornali dicono tutti in coro che queste borse in Italia non si trovano. Io l’ho comprata qui a Padova”. Ho detto a Giorgio: “Beh, domattina va in questura, mostra la borsa e racconta dove l’hai comprata. Così, se non ti arrestano accusandoti della strage, capiscono che in Italia si vendono. E che si vendono anche a Padova, dove c’è quel gruppo di fanatici nazifascisti capitanato da Giorgio Franco Freda e Massimiliano Facchini con base alla libreria Ezzelino di via Patriarcato”. Lunedì sera Giorgio mi ha raccontato che era uscito di casa poco dopo le 10 con la sua borsa per andare a farla vedere in questura, distante più o meno 200 metri, ma dopo pochi passi aveva incontrato un poliziotto della squadra politica della questura, quello che era solito tenere d’occhio l’area del caffè Pedrocchi e del Bo, compreso il portone di casa nostra, e di avere mostrato subito a lui la borsa e il logo della Mosbach&Gruber. Ricevendone come tutta risposta un ben strano: “Ah, ma ormai non ci interessa, sappiamo già chi è il colpevole, uno di Milano”. Se il poliziotto fosse stato meno menefreghista e più professionale i colpevoli della strage e delle altre bombe del 12 dicembre, oltre che degli altri mesi dello stesso anno, potevano essere individuati nel giro di 48 ore. Ripeto: a quell’epoca ero studente universitario e il giornalismo non sapevo neppure cosa fosse. Inoltre non avevo ancora fatto il servizio militare a quell’epoca obbligatorio, era detto “nàia”, motivo per cui temevo che se avessi reso pubblico a gran voce, magari con una apposita assemblea d’Ateneo, lo scandaloso falso delle borse tedesche introvabili in Italia e annesso menefreghismo del commissario della squadra politica, sarebbe potuto capitarmi per vendetta di un qualche apparato statale qualcosa di grave durante la nàia. Decisi così di restare zitto, aspettare di fare il servizio militare, che all’epoca durava 18 mesi, e di scrivere solo in seguito un libro per raccontare come a Padova Freda e i suoi erano stati protetti sistematicamente da organi dello Stato, fino all’iperbole del falso sulle borse introvabili in Italia e del rifiuto del funzionario della squadra politica di prendere in considerazione quanto gli aveva detto e mostrato il mio amico e inquilino Giorgio. Il libro volevo intitolarlo significativamente Il Silenzio di Stato. E poiché ero ben lontano dal pensare di poter fare il giornalista decisi di non firmarlo col mio nome, ma come Comitato di Documentazione Antifascista di Padova, che in realtà ero pur sempre io. Col mio nome mi sarei limitato a formare la poesia che avevo composto per dedicare il libro a quattro miei amici. E in effetti, finito il servizio militare, iniziato a metà del ’70 e concluso verso la fine del ’71, mi sono messo all’opera raccogliendo anche materiali d’archivio della stampa locale riguardanti i rapporti Freda/magistratura/polizia/carabinieri, uno strano suicidio probabile omicidio, altri attentati nel corso del ’69 e molto altro ancora. Ad agosto del’72, ormai ben documentato e pronto a scrivere, mi sono ritirato nella isolatissima casa di montagna dei miei suoceri vicino a Gallio, poco più di mille metri di altezza sull’altipiano di Asiago. Tramite la moglie di un giovane docente universitario, andata per qualche giorno da amici a Roma, la notizia che stavo preparando un libro sulle bombe del 12 dicembre ’69 è arrivata alle orecchie di Mario Scialoja, giornalista del settimanale L’Espresso, già molto famoso. Stavo lavorando nel silenzio più assoluto al terzo piano della casa, un pezzo di casera di montanari in un posto isolato, quando verso le 11 ho sentito arrivare dall’ingresso e cucina al pian terreno un baccano di porte aperte e richiuse con forza e sedie spostate senza tanti complimenti. Mi sono affacciato piuttosto allarmato alla tromba delle scale e ho visto un signore trafelato, con barba biondastra e un grande naso rosso come un pomodoro, che guardando in alto mi gridava:
“Buongiorno! Sono il giornalista Mario Scialoja, del settimanale L’Espresso”.
“Buongiorno! Io sono Napoleone Bonaparte. Mi dica”.
“Ma io sono davvero Mario Scialoja!”.
“E io sono davvero Napoleone Bonaparte. Osa forse mettere in dubbio la mia parola, qui in casa mia? Guardi che la caccio via. Perché è entrato, facendo ‘sto fracasso? Cosa vuole?”.
“Cerco Pino Nicotri, che mi hanno detto sta scrivendo un libro anche con la storia delle borse delle bombe del 12 dicembre ’69, borse che a quanto pare lui sostiene si vendessero anche a Padova”.
La mia lunga amicizia fraterna con Mario e il mio inopinato ingresso nel giornalismo sono iniziati così. Sempre correndo come un pazzo e bevendosi una dozzina di tornanti in discesa come fossero tutti rettilinei, Mario mi ha portato a Treviso, dove a casa sua Giorgio mi ha venduto per 5.000 lire la borsa. E così l’ho regalata a Mario perché la portasse al magistrato Gerardo D’Ambrosio, che in veste di giudice istruttore a Milano conduceva l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana senza risultati apprezzabili. Ringraziandolo calorosamente, ha ricevuto la borsa dalle mani di Mario già il mattino successivo, 2 settembre. Mario nel numero de L’Espresso datato 10 settembre ha pubblicato il grande scoop che raccontava della consegna della borsa al magistrato e di come ne avesse avuto notizia dal sottoscritto. D’Ambrosio inviando a Padova a fare ricerche il maresciallo dei carabinieri Sandro Munari poteva finalmente scoprire dove erano state vendute le borse utilizzate per trasportare e nascondere le bombe del 12 dicembre ’69. Scoperta clamorosa, che non solo ha fatto crollare rumorosamente la pista anarchica di Valpreda&Co, ma che ha anche permesso di scoperchiare l’incredibile verminaio delle protezioni statali a favore di Freda&Co, arrivate a fare scomparire non solo le due testimonianze della commessa della valigeria Al Duomo. E io finalmente pubblicai, con Sapere Edizioni, il libro. Con il titolo che avevo in mente da tempo: Il Silenzio di Stato. Conservo ancora alcune copie del libro con la dedica di Valpreda, che venne a Padova per la presentazione del libro e che non ha mai smesso di ringraziarmi. Per risparmiare sulle tasse il libro è stato edito come numero del periodico InCo, acronimo di Informazione e Controinformazione, periodico registrato presso il tribunale di Milano, avente come editore Sapere Edizioni e come direttore responsabile un sindacalista, non ricordo se della CISL o delle ACLI. Il fatto che fosse stato pubblicato come periodico mi ha infine convinto a farmi rilasciare dal direttore responsabile la dichiarazione firmata che tutti i singoli capitoli erano miei articoli e che mi erano stati pagati. E’ stato così che quando mi sono iscritto come pubblicista all’albo dei giornalisti ho allegato anche quelli – vale a dire, tutti i capitoli de Il Silenzio di Stato – assieme ai vari articoli pubblicati su giornali veri negli ultimi 24 mesi prima della domanda di iscrizione. Ho voluto che fosse documentato in modo incontrovertibile, anche per tabulas e non solo per la firma della mia poesia di dedica ai miei amici, che quel libro era totalmente ed esclusivamente frutto del mio lavoro.
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 dicembre 2019. Caro Dago, e dunque fanno cinquant’anni esatti che ci giriamo attorno a quella stramaledetta bomba di Piazza Fontana e alle sue ripercussioni sulla successiva storia italiana. E comunque bellissime le parole del sindaco Giuseppe Sala, il quale a nome dello Stato e di Milano ha chiesto perdono agli anarchici Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Meritoria la decisione dell’amministrazione comunale di Milano di piantare in un parco di San Siro una quercia rossa in memoria della ”diciottesima vittima” di Piazza Fontana, ossia il ferroviere milanese Pinelli caduto innocente dal quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Bellissima - ai miei occhi - la foto di Licia Pinelli seduta a Palazzo Marino accanto a Gemma Calabresi, una delle donne più squisite e discrete che io abbia mai incontrato. Accanto a Gemma c’era suo figlio, Mario, l’ex direttore di “Repubblica” , il quale nel suo ultimo libro racconta di avere incontrato a Parigi Giorgio Pietrostefani, il militante di Lotta continua condannato come l’organizzatore dell’agguato mortale al commissario Luigi Calabresi. Ho molto apprezzato l’eleganza di Calabresi figlio, che non ha riferito una sola virgola di quello che si sono detti. E comunque Calabresi non è la “diciannovesima” vittima di piazza Fontana, è la prima vittima di un fenomeno successivo e che in un certo modo ne discende, il terrorismo omicida nato a sinistra. Mi spiego meglio. Sono un cittadino della Repubblica che nel guardare la foto di quelle due donne -entrambe segnate dalla tragedia - che seggono accanto, non tifa per l’una o per l’altra, non ritiene più notevole il dolore dell’una o dell’altra. Di quella cui Giampaolo Pansa e altri giornalisti bussarono a casa a dirle che suo marito il ferroviere era andato giù dalla finestra, o di quella che era incinta del suo terzo figlio quando bussò alla porta suo padre e dalla sua espressione lei capì che il marito trentatreenne era stato appena assassinato sotto casa sua. Ai miei occhi non c’è nessun derby del dolore fra queste due pur differenti figure femminili. L’una e l’altra specchiano le tragedie recenti del nostro Novecento, e la tragedia di Piazza Fontana è di quelle che perdurano e fanno male nella nostra memoria. Nessun derby, all’una e all’altra i segni del mio più profondo rispetto. Non credo che sia l’atteggiamento di tanti, specie fra quelli della mia generazione. Le stimmate di 50 anni fa molti di loro le conservano intatte. Una campagna contro “il torturatore” Calabresi, una campagna durata quasi due anni e mezzo, non s’è asciugata come si asciuga l’acqua dopo una pioggia notturna. Molti di loro continuano a crederci alla balla sesquipedale che il commissario Calabresi fosse in qualche modo responsabile della morte di Pinelli. Non hanno un particolare, non hanno un elemento che giustifichi questa convinzione, solo che non demordono. E difatti nell’articolo di oggi sul “Fatto”, l’articolo che è arredato dalla foto di Licia Pinelli e di Gemma Calabresi di cui ho detto, vengono riferite le parole che la vedova Pinelli ha pronunciato ancora in questi giorni: “Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. Io non mi aspetto niente da nessuno. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà”. Parole che Licia Pinelli ha tutto il diritto di pronunciare, non fosse che annullano in parte il significato di quella foto e della toccante cerimonia a Palazzo Marino. Perché lasciano intendere, senza beninteso addurre il minimo elemento concreto, che è vera quell’altra narrazione, la narrazione che in questi 50 anni ha fatto da sottofondo della memoria di tanti: che nella stanzuccia della questura Pinelli fosse stato aggredito, colpito, scaraventato giù. E dunque che una qualche ragion d’essere i due colpi sparati alla testa e alla schiena di Calabresi ce l’avessero. O no?
Piazza Fontana, quando l'Isola del Giglio si ribellò a Freda e Ventura. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 da Corriere.it. Ogni anno, ogni 12 dicembre. Gabriello Galli apre la busta dove tiene i ritagli di giornale dell'epoca e ne estrae un cartoncino rosa. Tanti anni fa era quello il colore delle comunicazioni giudiziarie. Gli arrivò il 27 gennaio 1977 all'Istituto dei Salesiani di Livorno, dove studiava. «Si invita la Signoria vostra a nominare un difensore di fiducia... in quanto pendente presso questo Ufficio — era la procura di Grosseto — il procedimento penale nel quale Ella è indiziato del reato blocco del porto, commesso il 28 e 29 Agosto 1976 in Isola del Giglio». Dopo la citazione dell'articolo, del comma, del decreto legge, c'era una postilla. «Commesso in concorso con +31», che significa con altri trentuno. Erano molti di più, la mattina del 28 agosto 1976 all'ingresso del porto. Il giorno prima, la corte d’Appello di Catanzaro aveva scarcerato per decorrenza dei termini di Giovanni Ventura e Franco Freda, imputati per la strage di Piazza Fontana, disponendo per loro il soggiorno obbligato nell’Isola del Giglio. Si mobilitarono, tutti, abitanti e turisti. Tesero un cavo di acciaio che rese impossibile l'attracco alle motonavi che collegano l'isola a Porto Santo Stefano per protestare contro l'arrivo dei due neofascisti. Non riuscirono a impedirlo, dopo due traghetti rispediti al mittente le forze dell'ordine riuscirono infine a far sbarcare i due imputati. Nell'impossibilità di prendere le generalità a tutti, il mare davanti al Giglio fu per due giorni una distesa di barche e barchini, i carabinieri fecero rapporto citando solo le persone che conoscevano. «Il più vecchio era un marittimo ottantenne, che al processo costrinse il giudice a gridare, perché era quasi completamente sordo. C'erano studenti come me, commercianti, pescatori, tutti gigliesi. Sapevamo di non avere speranze, ma almeno riuscimmo a far capire cosa pensavamo, noi e l'isola, di quei due».
Il «muro» di barche contro l'approdo di Freda e Ventura. I giornali dell'epoca diedero grande risalto alla notizia dell'isola che si ribella, che solo nel 2012 tornerà sulle prime pagine, per ben altra vicenda, il naufragio della Costa Concordia, avvenuto a pochi metri e una spiaggia di distanza dal porto dove andò in scena la protesta. Poi, come spesso accade e come forse è inevitabile, se ne dimenticarono. Era una nota a margine nella storia della strage di piazza Fontana. Ma per molto tempo Gabriello Galli e gli altri trentuno furono le uniche persone condannate per fatti in qualche modo collegati alla bomba che cambiò la storia d'Italia. L'8 marzo 1978, il processo «Stato italiano contro Giovanni Andolfi +30» si concluse con una condanna a trenta giorni di reclusione per tutti. Il reato era stato derubricato, passando da blocco del porto a interruzione di pubblico servizio. L'articolo del Corriere della Sera Sarebbe rientrato nell'amnistia concessa da Sandro Pertini poco dopo la sua elezione, avvenuta il 9 maggio 1978. Ma al processo d'appello, che si svolse a Firenze il 20 novembre di quell'anno, venne di nuovo applicato il reato di blocco navale. Ai venti gigliesi condannati, altri undici andarono assolti, toccò una pena di cinque mesi e dieci giorni, con la condizionale. Il ricorso in Cassazione venne respinto per vizio di forma. Galli, che di quei trentuno fu il più giovane con i suoi 18 anni, ricorda un senso di incredulità che dura ancora oggi, che è un tranquillo pensionato, ex bancario, ex consigliere comunale. «La strage, le bugie e i depistaggi, le complicità. E alla fine gli unici o quasi a pagare siamo stati noi, un gruppo di paesani che poi furono costretti a subire per mesi la vista di Freda e Ventura in giro per le strade del Giglio. Vivevano in un residence di lusso, sempre scortati da una ottantina di carabinieri. Non abbiamo mai capito perché decisero di mandarli proprio a noi». Le ragioni per cui nel processo d'appello ci furono dieci assoluzioni, per posizioni sostanzialmente simili, e nei confronti di gente che si dichiarava rea confessa, forse risiedono proprio nel momento dell'identificazione, a protesta in corso. I venti gigliesi condannati, secondo il rapporto dei carabinieri, avevano tutti «spiccate simpatie socialiste, comuniste ed anarchiche». Sugli altri, invece, nulla da segnalare.
Dagospia il 16 dicembre 2019. Mario Calabresi su Facebook: Ieri sera, appena tornato a Milano da Roma, sono andato a vedere l’albero che è stato piantato per ricordare Giuseppe Pinelli. È di fronte alla mia scuola media, a pochi metri da dove sono cresciuto. Le nostre vite continuano ad incrociarsi. Giuseppe Pinelli, detto Pino, ferroviere anarchico, marito di Licia e padre di Claudia e Silvia, morì esattamente cinquant’anni fa, cadendo dalla finestra dell’ufficio di mio padre nella Questura di Milano. Una morte tragica e insensata che cambiò la vita della sua famiglia e della mia. So con certezza che Giuseppe Pinelli morì da innocente, così come sappiamo che mio padre non ha responsabilità nella sua morte e che non era in quella stanza. Molti erano lì ma non lui. Mezzo secolo dopo credo che finalmente si possa essere liberi di ricordare questi due uomini senza più contrapporli. Mia madre e Licia Pinelli sono due donne serene, capaci di comprendersi, la vita le ha segnate ma le ha anche rese delle persone notevoli. Pochi reduci, tra loro chi porta la colpa dell’omicidio di mio padre, continuano a gettare fango e a spargere veleni, ma non vale la pena dare loro retta, meglio concentrarsi su ciò che serve a ricucire le ferite della nostra società. Quell’albero, una quercia rossa, farà radici e vivrà più a lungo di tutti noi, ricordando a chi si fermerà nella sua ombra una persona mite e perbene.
Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 13 dicembre 2019. Un ineccepibile Giuseppe Sala è riuscito a spezzare, quest' anno, i rituali di routine degli anniversari di piazza Fontana. Cinquant' anni dopo, ha piantato una quercia rossa in un parco di San Siro, in ricordo della diciottesima vittima della strage, il ferroviere Giuseppe Pinelli, morto cadendo da una finestra della questura di Milano tre giorni dopo la strage, mentre era detenuto illegalmente e accusato ingiustamente per la strage.
Sala ha chiesto "scusa e perdono a Pinelli, a nome della città, per quello che è stato".
Poi ieri, nella seduta straordinaria del consiglio comunale convocata in occasione del 12 dicembre, il sindaco ha ripetuto e raddoppiato: "Dobbiamo scusarci, per la persecuzione subita, con Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli", anarchici ingiustamente accusati della bomba nera scoppiata in piazza Fontana.
Accanto al sindaco di Milano, c' era il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha voluto partecipare alla seduta straordinaria del consiglio comunale milanese. "Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia", ha detto Mattarella.
"L' attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana, a vent' anni dall' entrata in vigore della sua Costituzione. L' identità della Repubblica è segnata dai morti e dai feriti della Banca nazionale dell' agricoltura. Un attacco forsennato contro la nostra convivenza civile prima ancora che contro l' ordinamento stesso della Repubblica".
La verità cercata per cinque decenni - e rimasta incompleta sul piano giudiziario - è ora scritta nella formella che il Comune ha voluto porre in piazza Fontana, insieme ad altre 17 che ricordano i nomi delle vittime della strage. Sulla prima formella è scritto: "12 dicembre 1969.
Ordigno collocato dal gruppo terroristico di estrema destra Ordine nuovo". Quel che ancora manca è stato aggiunto da una signora in un foglio scritto a mano con il pennarello e appoggiato accanto alla formella: "e dallo Stato (Ufficio affari riservati)".
È toccato poi al presidente della associazione delle vittime della strage, Carlo Arnoldi, ricordare che qualcosa aveva cominciato a muoversi lo scorso anno, quando il presidente della Camera Roberto Fico aveva per quattro volte chiesto scusa a nome dello Stato ai famigliari delle vittime. "Oggi lo Stato è più vicino? Sì", ha risposto Arnoldi, "con la più alta carica dello Stato che per la prima volta dopo cinquant' anni viene a Milano, ci incontra privatamente, ci invoglia ad andare avanti, e dice che effettivamente in quegli anni qualcuno dello Stato voleva portare a deviazione i processi per non arrivare alla verità".
Ad ascoltare le parole di Mattarella c' era anche Licia Rognini, vedova di Pinelli, con le figlie Claudia e Silvia. Poco distante, Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi che aveva fermato Pinelli, con il figlio Mario. "Ho deciso partecipare anch' io, oggi", ha spiegato Licia Pinelli a Radio Popolare. "Quello di quest' anno è un passaggio importante, è una svolta. Ogni parola del presidente della Repubblica sarà un incentivo ad andare avanti per la democrazia.
Parlare di mio marito Pino in un certo modo è anche un tassello per la democrazia. Non mi aspettavo che il sindaco Sala chiedesse perdono alla nostra famiglia. È stato un bel gesto, che ci restituisce qualcosa. Io non mi aspetto niente da nessuno, quello che arriva arriva, come è avvenuto in questi cinquant' anni. Su come è morto mio marito la verità noi la conosciamo, noi le cose le sappiamo, poi se qualcuno ha voglia di parlare, parlerà".
Mattarella, nella sala gialla di Palazzo Marino, ha incontrato e salutato Licia Pinelli e Gemma Calabresi. Poi un corteo, con i gonfaloni di Milano e di altre città e gli striscioni dei famigliari delle vittime, si è mosso da piazza della Scala per raggiungere piazza Fontana, dove sono stati ricordati i morti, alle 16.37, l' ora dell' esplosione, con un minuto di silenzio e la deposizione delle corone di fiori.
Nel tardo pomeriggio c' è stato il corteo degli anarchici e dei gruppi antifascisti, da piazza Cavour fino a piazza Fontana, slogan centrale: "La strage è di Stato". In serata, un concerto dedicato alle vittime della strage e, al circolo Arci Bellezza, l' incontro-concerto "I pesci ci osservano". Il 15 dicembre ci sarà la catena umana musicale in ricordo di Pinelli dalla questura di Milano a piazza Fontana.
Gianni Barbacetto per il Fatto Quotidiano il 28 dicembre 2019. Nelle ultime settimane. Abbiamo visto porre in piazza Fontana la formella su cui è inciso che la bomba del 12 dicembre 1969 fu messa dai fascisti di Ordine nuovo. Abbiamo sentito il presidente Sergio Mattarella affermare che le indagini sulla strage sono state inquinate da depistaggi di Stato. Abbiamo ricordato Giuseppe Pinelli con la più allegra, musicale, anarchica e sconclusionata manifestazione mai vista a Milano. Abbiamo ascoltato il sindaco Giuseppe Sala chiedere scusa, a nome della città, a Pietro Valpreda e a Pino Pinelli, ingiustamente accusati. Ci sono voluti 50 anni, ma qualche passo avanti è stato fatto. Ora sappiamo - e in modo ufficiale - chi ha messo la bomba: i fascisti di Ordine nuovo e quel Franco Freda che gira libero per l'Italia, indicato come responsabile della strage da una sentenza della Cassazione che lo dice non più processabile perché già definitivamente assolto. Sappiamo chi ha depistato le indagini: gli apparati dello Stato che hanno indicato la pista anarchica (l'Ufficio affari riservati) e sottratto ai giudici testimoni e prove sulla pista nera (il Sid, Servizio informazioni difesa). Sappiamo che Pinelli non solo è innocente, ma è anche la diciottesima vittima della strage. Ora ci vorrebbe uno scatto. Non sappiamo ancora tutto. Non sappiamo i nomi dei neri entrati in azione quel 12 dicembre. Non abbiamo certezze sugli uomini dello Stato responsabili dei depistaggi e della morte di Pinelli. Qualcuno dovrebbe ora prendere la parola. Gli uomini ancora vivi di Ordine nuovo, per esempio. Il giudice Guido Salvini ha indicato nel suo libro su piazza Fontana i possibili componenti del commando che entrò in azione a Milano. E negli ultimi giorni si è avviato uno strano dibattito (a distanza) su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli tra Adriano Sofri, Benedetta Tobagi, Giampiero Mughini, Guido Salvini. Sofri, sulle pagine del Foglio, il 14 dicembre 2019 ricorda la testimonianza dell'anarchico Pasquale Valitutti, fermato in questura dopo la strage di Milano, che continua a dire che non vide uscire Calabresi dalla stanza da cui Pinelli precipitò nella notte del 15 dicembre 1969, come invece stabilito dalla sentenza D' Ambrosio. Potrebbe non averlo visto: lo scrivono anche Gabriele Fuga ed Enrico Maltini (anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa) nel libro Pinelli. La finestra è ancora aperta. Sofri (condannato definitivo, insieme a Giorgio Pietrostefani, Ovidio Bompressi e Leonardo Marino per l' assassinio di Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972) chiede anche la riapertura delle indagini, sulla base - dice - di un fatto nuovo: nella questura di Milano, dal 12 dicembre 1969 al lavoro sulla pista anarchica, il questore Marcello Guida, il capo della squadra politica Antonino Allegra, il suo vice Luigi Calabresi erano "guidati" dagli uomini degli Affari riservati del ministero dell' Interno arrivati da Roma. A prendere la direzione delle operazioni è la "Squadra 54" guidata da Silvano Russomanno e Ermanno Alduzzi. È una "novità" che conosciamo, in verità, da qualche anno: la ricostruiscono proprio Fuga e Maltini nel loro libro scritto nel 2016, sulla base dei documenti sequestrati a metà degli anni Novanta in un armadio blindato del Viminale dal giudice Carlo Mastelloni, che rivelano anche l'esistenza della "Squadra 54". Il manovratore degli Affari riservati era il prefetto-gourmet Federico Umberto D' Amato, che aveva uno stuolo di informatori ("Le trombe di Gerico"), tra cui il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie e l'infiltrato tra gli anarchici Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena), poi fondatore di locali milanesi (il Rolling Stone, il City Square, l'Alcatraz) e agente di Vasco Rossi. Proprio di D' Amato scrive Sofri, in due vecchi articoli pubblicati sul Foglio il 27 e il 29 maggio 2007: rivela che un ignoto "conoscente comune" lo mise in contatto con l'anima nera degli Affari riservati, il quale gli propose di compiere "un mazzetto d' omicidi", garantendogli impunità. Lo ricorda Benedetta Tobagi nella sua replica sul Foglio del 17 dicembre 2019, richiamando anche una mezza conferma di D' Amato, contenuta in un documento rinvenuto dopo la sua morte avvenuta nel 1996: un abbozzo d' autobiografia dal titolo Memorie e contromemorie di un questore a riposo, in cui D' Amato racconta dei rapporti amichevoli con personaggi "come Adriano Sofri (con il quale ci siamo fatti paurose e notturne bottiglie di cognac)". Tobagi ricorda che fu messa "in dubbio la veridicità del ricordo, dicendo che Sofri è astemio", ma "nulla vieta di ipotizzare che mentre il gourmet D' Amato sorseggiava alcolici d' annata, Sofri bevesse, che so, chinotto". Al di là delle bevande, sarebbe bello che l'allora capo di Lotta continua raccontasse chi era il misterioso "conoscente comune" e come sia stato possibile che D' Amato - lo stesso che manovrava la "Squadra 54" - gli abbia chiesto quel "mazzetto d' omicidi". Conclude Benedetta Tobagi: "L' ennesimo scambio indiretto di messaggi allusivi, ambigui e omertosi intorno a vicende degli anni Settanta su cui permangono spesse coltri di nebbia". Aggiunge il giudice Salvini, nascosto in pagina, sul Foglio del 27 dicembre: "Credo che Pietrostefani abbia il dovere morale di raccontare cosa è accaduto. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su ciò che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si racconta chi mandò quei due sciagurati di Bompressi e Marino in via Cherubini a uccidere il commissario. Sarebbe ora, ex poliziotti o ex capi di Lotta continua, di dire qualcosa e ciascuno ha il dovere di prendersi le proprie responsabilità. La verità è tale solo se intera, non se si sceglie solo la parte che è più gradita".
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 15 dicembre 2019. Ma a un condannato per l'omicidio di un commissario di polizia, che per meriti giornalisti ha ottenuto vari benefici, compreso quello di passare una parte della pena ai domiciliari, è consentito di diffamare a mezzo stampa lo stesso commissario di polizia che ha contribuito a far ammazzare? La domanda me la sono fatta ieri, dopo aver letto l' articolo di Adriano Sofri su Il Foglio. L'ex fondatore di Lotta continua è da anni un collaboratore del quotidiano fondato da Giuliano Ferrara. Lo è dal tempo in cui il pentito Leonardo Marino confessò di aver fatto parte del commando che uccise Luigi Calabresi, indicando lui come mandante. La sinistra giornalistica, quella che per anni ha dettato legge nei giornali (come ha magnificamente spiegato Michele Brambilla in L'eskimo in redazione), mentre Sofri era dietro le sbarre pensò di risarcirlo elargendogli varie rubriche, oltre che sul Foglio, su Panorama e su Repubblica, e ciò ha consentito al leader di Lc di elevarsi al rango di maître à penser. Ovviamente tutti, anche un ex carcerato condannato per omicidio, hanno diritto di dire la loro. Ma che a distanza di cinquant'anni dai fatti, Sofri getti a mezzo stampa altre ombre su una tragedia come quella di piazza Fontana, di Pino Pinelli e di Luigi Calabresi, è francamente inaccettabile. Già in passato Sofri, che pure è stato ritenuto colpevole in vari gradi di giudizio, ha provato a riscrivere la storia. Dieci anni fa, ad esempio, compose per Sellerio un pamphlet dal titolo La notte che Pinelli, cercando di alimentare il sospetto di un brutale omicidio del povero Pinelli. Peccato che ci sia una sentenza, per di più pronunciata da un giudice come Gerardo D'Ambrosio, certo non sospettabile di partigianeria per i fascisti, i servizi segreti o la polizia, che dice il contrario. Pinelli non fu ucciso dagli agenti della Questura guidati da Luigi Calabresi: cadde dalla finestra per un malore. Lo so che all'ex fondatore di Lotta continua questa sentenza non piace e la vorrebbe confutare e riformare per dimostrare che no, l' anarchico fermato dai poliziotti dopo la strage di Piazza Fontana non morì cascando da solo dalla finestra, ma fu brutalmente picchiato dagli agenti del servizio politico i quali forse, dopo essersi accorti di averlo manganellato troppo, per liberarsi dall' accusa di omicidio lo presero e lo buttarono giù dal quarto piano. Ma la tesi alimentata dai giornalisti di sinistra, dai compagni, da Lotta continua fu ed è smentita dagli atti. Dall' autopsia, dalle perizie che furono eseguite, dalle indagini, dalle testimonianze e, infine, da una sentenza. So altrettanto bene che per Sofri, uno che si proponeva di abbattere lo Stato borghese, le sentenze sono carta straccia. Da anni infatti ripete che la sua, quella che lo ha condannato a 22 anni di carcere come mandante dell' assassinio Calabresi, è sbagliata, anche se è stata confermata in Cassazione, riaffermata dopo la revisione del processo e pure certificata dalla Corte europea dei diritti dell' uomo. Sì, per Sofri ci sono stati ben sette gradi di giudizio, ma lui si ritiene vittima, tanto che si è sempre rifiutato di chiedere la grazia, pretendendo che fosse lo Stato a risarcirlo di un' ingiusta detenzione, liberandolo. Ma in uno Stato di diritto le sentenze si rispettano, soprattutto quando sono definitive. Vi chiedete però perché l'ex leader di Lotta continua insista tanto nel gettare ombre sul caso Pinelli? La risposta è semplice. Perché se Pinelli è stato buttato giù, se in quella stanza c' era Luigi Calabresi, beh allora il commissario non era quel santo che dipingono e dunque chi lo ha assassinato è sì un assassino, ma con meno responsabilità di quelle che gli si possano addebitare. Se l'anarchico, invece di essere caduto per «un malore attivo», è finito giù dal quarto piano dopo essere stato ammazzato di botte e Calabresi era lì, perché l' anarchico Pasquale Valitutti dice che c'era, allora quella campagna criminale che Lotta continua fece contro il commissario non era così sbagliata. Dopo la morte di Pinelli il giornale di Sofri, come molti ricorderanno, scatenò una vera e propria caccia all' uomo contro il vice capo dell' ufficio politico della Questura, dipingendolo come un picchiatore e un agente della Cia. Contro di lui fu fatto anche un manifesto, pubblicato su l'Espresso e firmato da centinaia di sedicenti intellettuali, molti dei quali poi sono finiti a dirigere giornali o a occupare posti importanti nelle redazioni, e alcuni hanno ospitato gli articoli di Sofri. Il giorno in cui il commissario fu ucciso da un commando che lo attese fuori casa, Lotta continua titolò: «Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell' omicidio di Pinelli». Sulla prima pagina seguiva un commento in cui si ribadiva che il commissario era un assassino e si concludeva nel seguente modo: «L'omicidio politico non è certo l'arma decisiva per l'emancipazione delle masse dal dominio capitalista, così come l'azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che noi attraversiamo. Ma queste considerazioni non possono assolutamente indurci a deplorare l'uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Basta per capire che a distanza di mezzo secolo Sofri prova ancora a lavarsi la coscienza gettando fango su Calabresi?
Estratto dell'articolo di Adriano Sofri per “il Foglio” il 15 dicembre 2019. Calabresi, Pinelli: ancora? Ancora, e ricominciando daccapo. Intanto comincerò da una cronaca. Roma, un' aula della Sapienza, mercoledì 4 dicembre. […] Era una "Giornata di studi sulla strage di piazza Fontana", titolo: "Noi sappiamo, e abbiamo le prove", organizzata dall' Archivio Flamigni e dall' Università. […] A questo punto una voce dal pubblico […] ha chiesto compitamente di fare una domanda. L'ha fatta. Vorrei sapere, ha detto, come fate a sostenere che Calabresi era uscito dalla stanza. […] Era Pasquale "Lello" Valitutti […] è l' anarchico ventenne che aspettò il suo turno seduto accanto a Pino Pinelli nel salone comune al quarto piano della questura milanese, quando già tutti gli altri fermati erano stati mandati a casa. Ed era seduto nel salone comune ad aspettare che Pinelli uscisse dalla stanza del commissario Calabresi, la notte che Pinelli ne uscì dalla finestra. Valitutti è quel genere di persona di cui gli oratori di un convegno non possono fare a meno di dirsi: "Eccolo, questo rompicoglioni!". Dunque, ha potuto parlare. Ha detto quello che dice da sempre, e qualcos' altro. Dice che dal suo posto "vedeva perfettamente la porta dell' ufficio del dottor Allegra, capo della sezione politica della questura, e la porta dell' ufficio del dottor Calabresi". Che "circa 15-20 minuti prima della mezzanotte il silenzio venne rotto da rumori nell' ufficio di Calabresi, come di trambusto, di una rissa, di mobili smossi ed esclamazioni soffocate. Poi un incredibile silenzio". Che nei minuti precedenti "nessuno era uscito dall' ufficio e tantomeno entrato in quello di Allegra". Che a mezzanotte udì "un tonfo, che non ho più dimenticato e che spesso mi rimbomba". Che "un attimo dopo ho sentito uno smuoversi di sedie e passi precipitosi". Che "due sbirri si sono precipitati da me e mi hanno messo con la faccia al muro". Che subito dopo è arrivato Calabresi e gli ha detto: "Stavamo parlando tranquillamente, non capisco perché si è buttato". Che la mattina dopo l' hanno rilasciato. Che ha ripetuto la sua testimonianza al processo Calabresi-Lotta Continua e che il difensore di Calabresi non l' ha neppure controinterrogato. Che durante il sopraluogo del tribunale nella questura ha mostrato al giudice Biotti i segni sulla parete che dimostravano come una macchina distributrice fosse stata spostata nel frattempo per far credere che ostruisse la sua vista la notte che Pinelli. Che il giudice D' Ambrosio non lo chiamò mai a testimoniare, benché fosse l' unico testimone civile presente quella sera. Che Calabresi e gli altri presenti nella stanza, "tutti assassini di Pinelli", avevano tutti mentito, e che la beatificazione di Calabresi è inconcepibile, eccetera. Benedetta Tobagi […] Ha anche detto - lasciandomi qui interdetto - che la presenza degli uomini degli Affari Riservati nella questura milanese, che è la più rilevante acquisizione ultima dell' indagine e della ricerca, può confermare che Calabresi fosse uscito dalla sua stanza, per andare non da Allegra ma da Russomanno e dagli uomini degli Affari Riservati. "Ma Calabresi ha detto che è uscito per andare da Allegra, e ha mentito", ha ovviamente replicato Valitutti. Tobagi: ma abbiamo detto che Calabresi ha mentito, su Pinelli tutti hanno mentito. Poiché le mie citazioni non sono testuali, invito caldamente a vedere e ascoltare la registrazione sul sito di Radio Radicale, dibattiti, 4 dicembre. […] […] di tutti gli sviluppi della ricerca attorno al 12 dicembre della strage degli innocenti e al 15 dicembre della defenestrazione di Pinelli, il più importante, e sbalorditivo, è la notizia (una vera "ultima notizia", di quarant' anni dopo) dell' arrivo da Roma alla questura milanese di un manipolo di funzionari dell' Ufficio Affari Riservati - "fra i 10 e i 15" - guidati dal vice di Federico Umberto D' Amato, Silvano Russomanno. Costoro presero da subito il comando pieno dell' indagine, direttamente sopra il capo dell' Ufficio politico, Antonino Allegra, e il giovane commissario dell' ufficio politico addetto all' estrema sinistra e agli anarchici, Luigi Calabresi. Questa dirompente notizia è diventata pubblica per la prima volta nel 2013, quando l' anarchico Enrico Maltini, fondatore della Croce Nera, che dal 15 dicembre del 1969 non aveva mai smesso di dedicarsi a Pinelli (è morto nel marzo del 2016) e Gabriele Fuga, avvocato penalista, pubblicarono un libretto intitolato "E a finestra c' è la morti" (Zero in condotta), ripubblicato poi, rivisto e arricchito di nuovi documenti, nel 2016, col titolo "Pinelli. La finestra è ancora aperta" (ed. Colibrì). Così esordivano gli autori: "Nel 1996 dagli archivi di via Appia si scopre che almeno altre 14 persone facenti capo al ministero dell' interno e mai sentite dai magistrati si aggiravano in quel quarto piano della questura di Milano la notte in cui Pinelli morì". […]dunque per 44 anni, si è discusso, denunciato, giudicato e condannato di una questura di Milano spigionata di quei "10 o 15" signori dagli Affari Riservati, Russomanno, Catenacci, Alduzzi e la sua "squadra 54" Farò un esempio risentito: nel 2009 scrissi un libro cui tenevo molto, "La notte che Pinelli" (Sellerio). Studiai con tutto lo scrupolo di cui ero capace le carte dei processi che avevano riguardato Pinelli, e specialmente quelle che avevano preteso di mettere la parola fine al "caso" della sua morte, firmate da Gerardo D' Ambrosio. Argomentai, al di là della inaccettabile tesi che passò sotto il nome di "malore attivo", errori documentabili del giudice, che aveva per esempio frainteso il racconto dell' ultimo giorno che costituiva l' alibi di Pinelli. Era il 1975, a D' Ambrosio premeva liberare la memoria di Pinelli dalle accuse mostruose che l' avevano colpito, e insieme liberare quella di Calabresi: lo fece consacrando la versione secondo cui Calabresi era uscito dalla stanza per andare dal suo capo, Allegra, e che in quella sua assenza Pinelli, col quale erano rimasti altri quattro poliziotti e un ufficiale carabiniere, era precipitato. Nel mio libro, tenni certo conto della testimonianza, così precisa (e mai smentita, quanto alle circostanze e alle parole dette a lui da Calabresi), di Valitutti. Scrissi che doveva "almeno" essere considerata quanto quella di ogni altro testimone. Tuttavia io stesso mi volli persuadere che nel tempo non breve dell' interrogatorio di Pinelli l' attenzione di Valitutti avesse potuto attenuarsi e impedirgli di notare il passaggio di Calabresi da un ufficio all' altro. Nell' ultima riga risposi alla domanda su che cosa fosse successo quella notte nella questura di Milano: non lo so. Mi costò quella risposta. Il giudice, poi parlamentare, D' Ambrosio, commentando il mio libro, si lasciò sfuggire un lapsus impressionante. A confermare che Calabresi uscì dalla stanza, disse, c' è anche la testimonianza oculare del giovane anarchico Valitutti. La sua memoria aveva benevolmente rovesciato la cosa. Mi colpì allora e mi colpisce di più oggi. […] Perché tacere, come un sol uomo, la presenza di quei capi degli Affari Riservati, non è un' innocua omissione: è una menzogna. […] Perché qualcuno, prima dell' anarchico Maltini e dell' avvocato libertario Fuga, era venuto a conoscenza di quel dettaglio, l' esproprio della questura milanese e dell' indagine ac cadaver, perinde da parte degli Affari Riservati. Precisamente, due magistrati (almeno, e i loro superiori): Grazia Pradella, giovane sostituto della Procura di Milano che condusse dal 1995 fino al 1998 una nuova inchiesta su piazza Fontana, col collega Massimo Meroni. La signora Pradella ottenne dai suoi interrogati informazioni clamorose. Lo stesso Russomanno, interrogato lungamente e rigorosamente, dichiarò di essere stato a Milano "quando morì Pinelli".[…] Dal 1996-97 al 2013, quando per la prima volta il pubblico, "gli Italiani", come si dice infaustamente oggi, ricevono la notizia sugli Affari Riservati nella Milano che impacchetta Valpreda e defenestra Pinelli, sono passati almeno sedici anni. Per sedici anni, "gli Italiani", quelli che hanno interesse alla cosa, hanno rimisurato metro per metro, passo per passo di poliziotti e anarchici, il quarto piano di via Fatebenefratelli senza urtare i 10 o 15 pezzi grossi. C' è una spiegazione? Erano forse tenuti, i magistrati che avevano raccolto quella notizia sconvolgente, al segreto? E D' Ambrosio, superiore di Pradella e corresponsabile dell' inchiesta e antico firmatario di una indagine e una sentenza su Pinelli che questa notizia inficia da capo a fondo, non ne è stato informato? E quando D' Ambrosio e Pradella vengono ascoltati a Roma dalla "Commissione sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi", presieduta da Giovanni Pellegrino, il 16 gennaio 1997, e non ne parlano nemmeno lì (salvo che io mi sbagli), a che cosa è dovuto il loro silenzio? […] Esiste dunque un segreto di Stato, e poi dei segreti di cui non si riesce a immaginare l' origine e il movente. […]
I retroscena. La storia di Pino Pinelli, 18esima vittima della Strage di Piazza Fontana. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Dicembre 2019. «E a un tratto Pinelli cascò» oppure «una spinta e Pinelli cascò»? Nelle due versioni della Ballata, diffusa nel 1970 su un 45 giri “parole e musica del proletariato”, c’è la storia di un uomo, della sua vita e della sua morte. Giuseppe Pinelli, detto Pino, anarchico, ferroviere e staffetta partigiana. Brava persona, bravo padre di famiglia, bravo militante. “Suicida” secondo il questore e i suoi uomini che in quella notte del 14 dicembre di cinquant’anni fa l’avevano in custodia eppure non ne seppero proteggere l’integrità fisica. “Suicidato”, secondo le certezze di coloro che ne conoscevano personalmente le passioni che non contemplavano quel mal-di-vivere che può portare al desiderio di morire. Poi ci sono tutti quei testimoni dell’epoca, i sopravvissuti di un giornalismo curioso che con puntiglio voleva guardare dentro i fatti al di là delle versioni ufficiali. Coloro che non si sono mai arresi a una verità giudiziaria che non è una verità, che ha tormentato a lungo lo stesso magistrato, il giudice Gerardo D’Ambrosio, autore ed estensore di una sentenza che crea disagio. Prima di tutto in chi l’ha scritta. Che cosa sia esattamente un “malore attivo” non lo sa nessuno. Quel che è certo è che un corpo, in una notte di dicembre milanese degli anni in cui ancora c’era la nebbia e tanto caldo non poteva esserci, è volato da una finestra del quarto piano, ha poi rimbalzato due volte sui cornicioni ed è precipitato a terra dopo una traiettoria diritta, come fosse stato un pacco. Invece era un uomo, si chiamava Pino Pinelli, era uno degli ottanta anarchici fermati la sera del 12 dicembre dopo la bomba di piazza Fontana. Quell’uomo, nella terza sera trascorsa in questura senza l’avallo di alcun magistrato, a un certo punto nella stanza del commissario Calabresi dove lo stavano interrogando, non c’era più. Era giù, nel cortile della questura di via Fatebenefratelli. Volato via dalla finestra aperta. Oggi possiamo dire, tutti dicono, che l’anarchico del Ponte della Ghisolfa è stato la diciottesima vittima della strage alla banca dell’agricoltura. Ci voleva il cinquantesimo anniversario per arrivare a questo riconoscimento. Ma nel 1969 valevano le parole del questore, a Milano: «Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto». Aggiungendo in seguito, in una conferenza stampa, che «il suo alibi era crollato». Nulla, neanche i morti di piazza Fontana, le sedici bare in una piazza Duomo grigia uggiosa e smarrita, nulla ha diviso la città, i suoi pensieri, le sue grida rabbiose, come i fatti di quella notte in questura e quel corpo giù nel cortile. Lo spettacolo di Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”, visto e rivisto da migliaia di persone all’interno di un triste capannone, la grande tela del pittore Enrico Baj ( “I funerali dell’anarchico Pinelli”), e poi i tanti libri e il grande lavoro di quel gruppo di giornalisti che non si è mai arreso all’ipotesi del suicidio. E poi un’altra notte, ancora fredda, con il buio squarciato dalle luci di grandi fari, eravamo tutti lì, in quello stesso cortile, ad assistere alla prova del manichino: buttato e poi caduto, e ancora buttato e poi caduto. Il cuore stretto, magistrati, poliziotti, giornalisti. Una cosa fu certa, Pino Pinelli non poteva essersi suicidato, la caduta verticale lo escludeva. Il corpo che era precipitato nel cortile era un corpo morto (pur se non in senso letterale), esprimeva un certo abbandono, una certa passività. Ma non si poteva neppure dimostrare che qualcuno avesse afferrato quel corpo e lo avesse buttato giù. E per quale motivo, poi? Perché, in quella stanza, dove insieme ai poliziotti stranamente c’era anche un ufficiale dei carabinieri, era successo qualcosa di pesante, qualcuno si era sentito male e qualcun altro aveva perso la testa? Non si saprà mai, e tutti coloro che erano in quella stanza, pur con le loro testimonianze contraddittorie, furono assolti. Il commissario Calabresi, capo dell’ufficio politico della questura, non era in quell’ufficio, che pure era il suo, in quel momento. Ma nelle piazze si gridò a lungo “Calabresi assassino”, lo si scrisse sui giornali, lo si raccontò nelle vignette in cui il commissario era sempre vicino a una finestra aperta. Ci fu una denuncia per omicidio presentata da Licia Rognini, vedova Pinelli e ci fu una querela per diffamazione di Calabresi nei confronti del quotidiano Lotta continua. E poi, mentre il caso Pinelli era stato archiviato dal giudice D’Ambrosio con quell’ipotesi di “malore attivo” che in definitiva scontentava tutti, il commissario Calabresi fu assassinato con due colpi alla nuca in via Cherubini, di fronte alla casa dove abitava. È il 1972, non sono passati tre anni da quella notte del dicembre 1969 e qualcuno pensa che giustizia sia stata fatta. Nel modo peggiore possibile. Non sarà così, ovviamente. Di nuovo con le sentenze non ci sarà pace su questa vicenda. E la condanna di Sofri, Pietrostefani e Bompressi per l’omicidio Calabresi lascia l’amaro in bocca come tutte le sentenze frutto di processi indiziari. Sarebbe meglio non delegare più alle toghe il ricordo di Pinelli. Come ha già fatto con un grande gesto l’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano che nel 2009, nel giorno della memoria, ha riunito al Quirinale le due donne simbolo della sofferenza, Licia Rognini, vedova Pinelli, e Gemma Capra, vedova Calabresi. E ad altre due donne, le figlie del ferroviere anarchico Claudia e Silvia, il merito, la capacità, l’intelligenza di aver preparato per questo 14 dicembre 2019 la “catena musicale” che unirà anche fisicamente (pur nell’assenza degli anarchici) piazza Fontana con i suoi morti e la questura con la sua diciottesima vittima, Pino Pinelli.
50 anni fa la strage di Piazza Fontana: è ancora mistero. Tiziana Maiolo il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. Sarà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a onorare con la sua partecipazione oggi pomeriggio il consiglio comunale di Milano e poi a guidare il breve corteo che da piazza della Scala porterà in piazza Fontana il ricordo della strage di cinquant’anni fa alla Banca dell’agricoltura. I diciassette morti (cui ci sembra giusto aggiungere come diciottesima vittima l’anarchico Pinelli) e gli ottantotto feriti non possono, non devono essere dimenticati, fanno parte della storia di Milano e della storia d’Italia. Questo va ben oltre le cinque istruttorie, i dieci processi che hanno popolato trentasei anni della nostra vita e nessuna sentenza che abbia in modo definitivo sancito chi ha messo le bombe, le cinque bombe che furono collocate, tre a Roma e due a Milano, il 12 dicembre del 1969. Il processo più lungo nella storia della Repubblica italiana. Ma è importante chiarire un altro punto. Chi ha a che fare con esplosivi, chi mette le bombe per motivi politici, fosse anche in luoghi disabitati e come puro gesto dimostrativo, compie comunque un atto tragico che non va giudicato solo nei tribunali ma anche nella società e nella storia. Per questo, e anche perché tutti gli imputati – prima gli anarchici e poi i fascisti – sono usciti indenni dai processi, non ha più molta importanza se mandanti ed esecutori volessero o meno uccidere, come pensano e hanno pensato tante persone degne e non sospettabili di complicità con gli attentatori. Il ragionamento è elementare, e fa ormai parte della storiografia: se le bombe erano cinque e sono state messe per uccidere, come mai solo una ha avuto effetti tragici? E se le banche chiudono gli sportelli alle 16, ma quel venerdì gli agricoltori si erano attardati per le loro transazioni commerciali, è possibile che chi ha fatto esplodere la bomba alle 16,37 non sapesse dello spostamento di orario? Sì, è possibile. Ma questo non cambia niente. I morti e i feriti ci sono stati. E questa è realtà. Milano ha subìto uno squarcio ben più profondo di quello che ha sfondato il pavimento della banca dell’agricoltura. E questo è un dato storico. Ma non significa che qualcuno possa arrogarsi, in modo arbitrario e soggettivo, il diritto a conoscere e a raccontare, magari a ignari ragazzini, “la verità”, con la V maiuscola, a modo proprio e anche alterando la storia. Lo ha spiegato bene su questo giornale due giorni fa il professor Vladimiro Satta a proposito di Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordano, che andrà in onda su Rai 2 questa sera, tratto liberamente dal libro di Paolo Cucchiarelli. Ancor prima del 1974, quando sul Corriere della sera apparve lo scritto di Pierpaolo Pasolini “Io so”, ma non ho le prove e neanche gli indizi, in molti si sono (ci siamo) esercitati sui “misteri” di piazza Fontana. Ancora oggi quella non è una piazza normale, con una banca, l’arcivescovado, la fontana, la sede dei vigili urbani, il capolinea del tram numero 24. Non solo per la targa e le formelle messe pochi giorni fa a ricordo di ogni vittima, citati per nome uno a uno, come è giusto. Ma per l’impossibilità a rassegnarsi. Rassegnarsi al fatto che la realtà probabilmente è stata più semplice, ben diversa da quella immaginata dall’ideologia del complotto politico-eversivo che ha nutrito tanti di noi giovani democratici del tempo. “La strage è di Stato”? Nessuno oggi può dirlo. E se non sono state sufficienti le bugie e le reticenze al processo di Catanzaro del presidente Andreotti e degli altri politici venuti a testimoniare, ha ancor meno senso oggi accusare l’ex presidente Saragat piuttosto che Mariano Rumor di aver tentato di organizzare un colpo di Stato. Sono argomenti che non hanno solidità neppure per chiacchiere da bar. Certo, qualche piccola certezza la storia ce l’ha consegnata, anche attraverso le migliaia di pagine dei dieci processi. Che il Veneto sia stato culla dell’eversione di destra di Ordine Nuovo e di quella singolare coppia di intellettuali che si chiamavano Freda e Ventura, l’uno che si trastullava con i timer e l’altro che confidava a un amico che “qualcosa di grosso” sarebbe potuto accadere, è stato scritto e riscritto. Ma non è stato sufficiente per esser giudicato prova di colpevolezza di autori di strage. E ci sono ancora persone convinte che qualche “pasticcetto” (come l’ipotesi della bomba dei buoni, il secondo ordigno del libro di Cucchiarelli) l’abbia combinato anche Valpreda, visto che i tanti magistrati che l’hanno giudicato sono ricorsi in gran parte ad assolverlo per insufficienza di prove. Invece, se c’è stata una testimonianza granitica fin dal primo momento a favore della sua estraneità è stata sempre quella della zia Rachele: io so che Piero è innocente, perché quel giorno era a casa mia a letto ammalato e non in piazza Fontana. Non è stata creduta, e anche questo è un fatto storico. Sono dunque stati inutili i tanti libri pubblicati in questi anni e i film e poi le commemorazioni e il ricordo dei tanti 12 dicembre fino a questo cinquantesimo? Assolutamente no. Tutti saremo in piazza, oggi. Per ricordare le vittime e per gridare che ci hanno ferito, ma che saremo sempre lì per impedire, nei limiti del possibile, che un’altra bomba ferisca ancora così la città di Milano e l’Italia intera. Solo per questo, senza esser depositari di nessuna “Verità”. Ma non è poco.
Piazza Fontana, le carte segrete del presidente del Consiglio Rumor: «No a un governo sulle bombe». Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Maurizio Caprara su Corriere.it. È stato descritto come «uno dei veri padroni della politica italiana tentati dalla suggestione autoritaria», per usare a titolo di esempio una definizione impiegata da Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin nel libro del 1999 La Strage. Piazza Fontana. Verità e memoria, Feltrinelli editore. Per descrivere il suo ruolo nel 1969, i due autori aggiunsero: «Neofascisti e circoli atlantici oltranzisti contano su di lui per una svolta tanto attesa». La tesi ricorre in varie pubblicazioni. Sta di fatto che da carte sepolte dal tempo e tornate alla luce 50 anni dopo i fatti può uscire un profilo anche un po’ diverso di Mariano Rumor, presidente del Consiglio italiano quando morte e dolore il 12 dicembre 1969 irruppero con un’esplosione nella Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano (Qui tutto lo speciale interattivo del Corriere, con foto, ricostruzioni e commenti). Un ritratto quanto meno integrabile del democristiano vicentino della corrente dorotea nota per una sua familiarità con il potere. «Personalmente dico no a un Governo sulle bombe. Se c’è qualcuno che pensa a cogliere occasione per involuzioni, questi non può essere nella Democrazia Cristiana, e ancor di meno la Democrazia cristiana», si legge nella minuta di un discorso che Rumor preparò per una riunione di dirigenti della Dc. Contenuti in una cartellina color senape con l’intestazione «SEGRETERIA PARTICOLARE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI» i fogli non sono datati, ma più elementi portano a ritenere che fossero stati battuti a macchina per la riunione della Direzione del partito di maggioranza relativa del 19 dicembre, una settimana dopo la strage. In un’altra versione dello stesso testo che Rumor conservava tra i suoi appunti, con più correzioni a mano e dunque probabilmente precedente a questa, la presa di posizione è formulata così: «Il problema, dunque, non è quello di formare un Governo quasi di salute pubblica. Personalmente dico ‘no’ ad un Governo sulle bombe». Un’annotazione a penna sembra suggerire approfondimenti delle due frasi: «Sviluppare un po’».
Uno dei passaggio dei documenti riservati, in cui Rumor promuoveva la ricostituzione del centro-sinistra per creare un ampio fronte politico in grado di contrastare gli attacchi del terrorismo. Queste pagine appartengono al Fondo Rumor conservato a Palazzo Giustiniani. Sono state ottenute da chi scrive dopo che il presidente della Commissione per la Biblioteca e l’Archivio storico del Senato, Gianni Marilotti, ne ha accennato in una sua lettera a Claudia Pinelli, figlia del ferroviere morto nella questura di Milano mentre era ingiustamente accusato della strage. Dal 2016, quando il fondo è stato «versato» a Palazzo Giustiniani, come si dice in gergo, nessuno studioso risulta averle consultate. Prima non erano catalogate. Non sono i soli documenti che aggiungono dettagli alla ricostruzione del periodo storico nel quale venne compiuta la strage. Da un’altra lettera che Rumor conservava emerge che il mese prima dell’attentato il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, in via riservata, faceva presente il «possibile verificarsi di una situazione da ritenere di assoluta emergenza» nelle forze armate. Al capo del governo e al ministro della Difesa Luigi Gui, in quel messaggio, il generale Luigi Forlenza segnalava un «grave malcontento» dei militari verso un «riassetto» in programma che li avrebbe messi in condizioni di «notevole inferiorità rispetto agli altri dipendenti dello Stato». Con un tono che è improbabile sia stato abituale da parte di alti ufficiali verso chi era al governo, il comandante avvisava: «Ove tale fatto si verificasse, ciò sarà valutato dall’opinione pubblica qualificata e dai componenti delle FFAA (Forze armate, ndr) come concreta dimostrazione di scarsa considerazione da parte della classe politica dirigente verso tutti i militari». Ancora di più: «Tale malcontento, di cui ritengo superfluo sottolineare a V. S. On. le l’estrema pericolosità, sarà rivolto verso il governo e verso le alte gerarchie militari a cui si farà addebito di non aver voluto o saputo rappresentare, in forma adeguata, le necessità dei propri dipendenti. Verrà, quindi, a mancare quel rapporto di fiducia verso i capi che è elemento indispensabile per la coesione e l’unità delle FFAA, che il Paese ritiene custodi insostituibili delle libere Istituzioni democratiche della nostra Patria». Come se a Rumor venisse ipotizzato uno scenario di ammutinamenti multipli, se non peggio. Altro che un rispetto uniforme della massima «usi a obbedir tacendo». Non va tenuto conto soltanto del cosiddetto autunno caldo, stagione di imponenti proteste sindacali, per avere un’idea del clima nel quale vengono messe nero su bianco queste righe. In un mondo diviso in due tra un’area di influenza sovietica e una americana, il 1969 in Italia è anche l’anno che precede il colpo di Stato tentato, e poi abortito sul nascere, nella notte tra 7 e 8 dicembre 1970. A prepararlo fu Junio Valerio Borghese, già comandante della X Mas e fascista che i servizi segreti di Regno Unito e Stati Uniti avevano salvato da una probabile fucilazione da parte di formazioni partigiane. Borghese puntava sui militari nella speranza di raddrizzare con mano forte uno spostamento dell’Italia verso sinistra. Di certo Rumor era uno degli uomini di governo e della Dc che più era in grado di percepire quanto poteva muoversi nelle Forze armate. Una parte della pubblicistica su piazza Fontana attribuisce al presidente del Consiglio di aver cambiato idea sull’appoggio a una svolta autoritaria, rinunciando ad avallarla, dopo la mobilitazione operaia scattata a Milano in occasione dei funerali delle vittime. Le carte delle quali riferiamo non affrontano questo aspetto, ma almeno nelle tracce del suo intervento Rumor non lascia trasparire titubanze in un orientamento a promuovere un ricompattamento della maggioranza Dc, socialisti, socialdemocratici e repubblicani allora sfibrata dalle divisioni tra Partito socialista italiano e Partito socialista unitario. Nei testi per la Dc Rumor citava l’«autunno caldo», «la morte del giovane Annarumma», ossia la guardia della Celere Antonio Annarumma morto a 22 anni durante scontri di piazza, e «di uno studente» oltre a «tentativi di portare fuori dal suo ambito proprio la dialettica sindacale». Il presidente del Consiglio proseguiva così: «I fatti più recenti possono darci oggi una visione esatta delle cause e sottolineare, com’è doveroso, il senso di responsabilità e lo sforzo fatto dai sindacati per non consentire il gioco pesante ed oscuro di elementi estranei e di gruppi eversivi. Oggi è chiara a tutti quella che ieri poteva apparire una preoccupazione eccessiva; e cioè che c’è la tentazione diffusa di gravare di violenza le tensioni sociali e politiche, che pur rientrano nella varia e positiva manifestazione della vita democratica, ad opera di gruppi che sotto l’una o l’altra etichetta puntano allo scardinamento dello Stato democratico». Poi un’aggiunta a penna: «E della fiducia dei cittadini». Segue una valutazione inquietante sullo stato d’animo dell’Italia del momento: «Il rischio di uno sbandamento psicologico, dunque, c’è». Nulla di tutto questo sconvolge il quadro storico o aggiunge elementi di prova a carico o a discarico dei colpevoli di una strage compiuta da fascisti non certo colpiti con tempestività dallo Stato. Uno Stato in quei giorni ancora proiettato nel perseguire gli anarchici innocenti Pietro Valpreda e Pinelli. Quest’ultimo morì il 15 dicembre. Sarebbe il caso tuttavia di non perdere d’occhio le sfumature e i dettagli che possono venire fuori da documenti del genere e da declassificazioni ancora non avvenute. Dianese e Bettin intanto nel loro ultimo libro La strage degli innocenti hanno sfumato quanto era stato attribuito a Rumor e hanno messo in risalto che erano neofascisti a ritenerlo responsabile di una «retromarcia» su una dichiarazione di stato d’emergenza. Per quanto riguarda i timori di spinte a destra favoriti dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura, chi scrive può ricordare ciò che gli spiegò molti anni più tardi a Montecitorio Elio Quercioli, nel 1969 dirigente del Partito comunista milanese. Per contrastare tentazioni autoritarie, e favorire un clima adatto all’«unità delle forze democratiche», innanzitutto comunisti e democristiani, il Pci ricorse tra l’altro a un espediente. Predispose lungo il percorso di una troupe della Rai durante i funerali delle vittime di piazza Fontana una serie di persone pronte a dichiarare che la minaccia terroristica richiedeva impegno unitario dell’arco costituzionale, ossia delle forze antifasciste. Anche in questo consisteva la propaganda politica di allora. La sera del 15 dicembre Rumor aveva ricevuto in casa sua a Milano i segretari della coalizione di governo che si era frantumata: il democristiano Arnaldo Forlani, il socialista Giuseppe De Martino, il repubblicano Ugo La Malfa e il socialdemocratico Mauro Ferri. Il comunicato ufficiale sull’incontro riferiva che i quattro si erano «impegnati ad approfondire, sentiti gli organi dirigenti dei rispettivi partiti, la proposta del presidente del Consiglio per una ripresa organica della collaborazione di centro-sinistra». Collaborazione organica significava un’autentica, e nelle intenzioni duratura, coalizione di governo. Il governo monocolore Rumor II rimase in carica fino al 27 marzo 1970. Poi lo sostituì il Rumor III che aveva all’interno ministri dei quattro partiti. Di centro-sinistra. Perché la svolta autoritaria non ci fu. Il 17 maggio 1973 Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico che frequentava neofascisti, uccise con una bomba a mano quattro persone e ne ferì 52 davanti alla questura di Milano in via Fatebenefratelli. Lì, fino a pochissimo prima, si trovava Rumor, non più presidente del Consiglio bensì ministro dell’Interno.
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 6 dicembre 2019. “Polizia. Deve venire subito a palazzo di giustizia. C' è da fare un confronto. Si tratta di Valpreda». Piazza Fontana per Guido Calvi cominciò così, quattro giorni dopo la strage. Mentre diventava l' avvocato di Pietro Valpreda (e poi protagonista di tanti processi chiave della storia italiana, da Pasolini a Moro), aveva 29 anni e tutt' altro per la testa. «Insegnavo filosofia del diritto. Se non avessi risposto a quella telefonata, tornato a casa dopo una lezione su Leibniz, non avrei mai fatto l'avvocato».
Che scena si trovò di fronte nel palazzo di giustizia?
«Nella stanza, da una parte il giudice Occorsio, il teste Rolandi, il capo dell' ufficio politico della Questura di Milano, Allegra. Dall' altra cinque poliziotti sbarbati e ben vestiti accanto a Valpreda in pantaloncini e canottiera, coi capelloni, la barba incolta e la faccia stravolta da due notti insonni».
Parlò con Valpreda?
«No, tutto era pronto per il confronto. Chiesi solo al testimone se qualcuno gli avesse già mostrato una foto di Valpreda. Rolandi negò tre volte, poi ammise: il questore mi ha mostrato la foto di Valpreda, dicendomi che era l' uomo che dovevo riconoscere».
Che cosa accadde dopo?
«Prima di uscire andai da Valpreda e gli dissi: tranquillo, abbiamo vinto».
Ma il tassista Rolandi aveva riconosciuto Valpreda come l'uomo che aveva portato in piazza Fontana.
«Dopo la frase sulla foto, il riconoscimento valeva zero. Avevo capito che il processo era tutto lì. Ma non che avremmo impiegato quasi vent'anni per una verità giudiziaria e storica».
Che cosa accadde dopo?
«Nell' istruttoria l'avvocato non aveva nemmeno il diritto di assistere all' interrogatorio del suo assistito. Per fortuna un giornalista mi passava i verbali di nascosto».
Com'era Valpreda?
«Personaggio singolare. Ballerino, anarchico, esibizionista, ma mite e inoffensivo. Un marginale. Che uscito di prigione, rifuggendo la vanità, si sposerà, farà un figlio e aprirà una paninoteca».
Com' era il vostro rapporto?
«Quando andavo a trovarlo in carcere, mi contestava perché ero socialista "e non avevo capito niente"».
Mai avuto dubbi su di lui?
«Qualcuno lo insinuò. In realtà li avevo su me stesso. Era il mio primo processo. Solo contro tutti. Cercai un collega più esperto per farmi affiancare, ma in tutta Roma non ne trovai uno disponibile, a parte Lelio Basso».
Perché?
«Cautela, se non paura».
Lei no?
«Avevo l' età in cui ci si può permettere di non averla. Nonostante i proiettili, le minacce, l'isolamento».
In che senso?
«Insegnavo all'università di Camerino, ma in mensa non potevo sedermi al tavolo dei professori, perché ero l'avvocato degli anarchici».
Si fece pagare da Valpreda?
«Non ho mai preso una lira per quel processo».
Come fece quando il processo fu spostato a Catanzaro?
«Il sabato sera prendevo una cuccetta di seconda classe, da sei posti. A Lamezia aspettavo i giornalisti, che avevano il vagone letto, per un passaggio in taxi. A Catanzaro dormivo su una brandina in un corridoio della federazione del Pci. Poi l' Anpi fece una colletta, almeno per albergo e ristorante».
Di piazza Fontana sappiamo tutto?
«Sì».
Fu strage di Stato?
«No, strage neofascista agevolata dallo Stato dirottando e depistando le indagini».
In che modo?
«Prima distruggendo la prova regina, la seconda bomba inesplosa alla Banca commerciale. Poi puntando sulla pista anarchica, come scrisse il ministro dell' Interno Restivo in un appunto».
Perché scelsero Valpreda?
«Probabilmente il primo obiettivo era Pinelli, con una struttura politica superiore».
Che idea le fecero i depistatori?
«Reazionari, rozzi, cialtroni. Guida, questore di Milano, era stato direttore del carcere di Ventotene sotto il fascismo. Motivo per cui Pertini, in visita di Stato a Milano, si rifiutò di stringergli la mano. Nel processo di Catanzaro, gli chiesi come avesse avuto la foto di Valpreda. Disse di non ricordarlo perché era un accanito fumatore e il fumo annebbia la memoria».
Quale fu il ruolo del Viminale?
«Centrale. Russomanno, vicedirettore dell'Ufficio Affari Riservati che guidò le indagini andando a Milano, in gioventù era nella Repubblica di Salò e poi si era arruolato in una formazione militare tedesca».
Come gestì il peso politico del processo?
«Nella prima fase il consenso popolare contro gli anarchici era diffuso. Alzando subito il tiro, evocando i colonnelli greci o la Cia, saremmo andati contro un muro. Puntai sui dettagli. Fu una lenta costruzione».
Come fu possibile?
«L'episodio decisivo fu il funerale delle vittime nel Duomo di Milano. Dietro le bare tutte le autorità. Di fronte centomila operai in tuta blu. Era un messaggio: attenti, difenderemo la democrazia».
Fu colto?
«Si aprirono contraddizioni nella magistratura, nei giornali, nella polizia. Lo Stato contro lo Stato: da una parte forze vecchie e intrise di fascismo; dall' altra energie nuove e democratiche».
Quando capì che stavate vincendo?
«Quando cadde la P2 e fu svelato il doppio Stato, secondo la definizione di Bobbio. In quel momento la magistratura si legittima come baluardo costituzionale. Il che spiega ciò che è successo dopo».
Letterine per Piazza Fontana. Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 su Corriere.it da Antonio Castaldo. Angoscia e timori: trovati in un archivio i pensieri per le vittime spediti a Milano da bambini sardi nel 1969. C’era il sole quella mattina a Barega. I bambini usciti in fila da scuola entrarono a casa della bidella, la signora Gisa. L’unica nei dintorni con la tv. Era il 15 dicembre 1969, la Rai trasmetteva dalla gelida Milano i funerali di piazza Fontana. La nebbia sfumava i contorni del Duomo, una distesa di paltò scuri, signore avvolte nei foulard, e ragazzi appesi ai lampioni con lo sguardo alla sfilata di bare. Le immagini di quel dolore misurato nei toni ma oceanico nelle dimensioni colpirono l’Italia. A Barega, minuscolo borgo dell’Iglesiente, i bambini erano rapiti dallo schermo in bianco e nero. Tornati in classe, ancora scossi, scrissero un tema. Qualcuno a bordo pagina disegnò coroncine di fiori rossi. Cinquant’anni dopo, la studentessa Clara Belotti, impegnata a preparare la sua tesi in archivistica, ha trovato negli archivi del Comune di Milano un faldone con su scritto: «Piazza Fontana». E dentro cartoline, telegrammi, lettere scritte a mano o battute a macchina su carta velina. Erano i messaggi di solidarietà che il sindaco di Milano Aldo Aniasi ricevette dopo la strage del 12 dicembre. E tra questi c’erano anche i temi di Barega, che la maestra Lydia Siddi spedì a Milano, pensando, forse a ragione, di regalare un sorriso al sindaco che era stato partigiano e vedeva la sua città tornare in guerra. «La gente piangeva, una signora stava per svenire e la figlia l’ha mantenuta, se no sarebbe caduta», scriveva Antonella Cocco, classe IV, che oggi ha sessant’anni, e nella sua casa di Tortolì prepara i culurgiones. «Certo che ricordo quel giorno — racconta —. La maestra ci prese per mano e ci portò dalla signora Gisa. Le parole del vescovo ci commossero tutti». Antonella lavora al ministero della Sanità, sua sorella Paola, di un anno più grande, era con lei quel giorno. «Sono passati cinquant’anni — dice — ma molte cose sono rimaste uguali. Quasi tutti i compagni d’allora sono ancora in paese. Molti lavorano la terra che i nostri genitori ci hanno lasciato. Proprio come chi morì in quella strage». E nelle sue parole si avverte la vicinanza di ambienti e abitudini tra la bassa padana delle vittime e l’entroterra sardo degli alunni di allora. «Che vivono la stessa vita dei familiari colpiti dall’ultima disgrazia», scrisse la maestra nel biglietto accluso al pacchetto. Erano infatti allevatori, mediatori, agricoltori le vittime, riunite nella Banca dell’Agricoltura per il mercato. Il direttore della Cittadella degli archivi, Francesco Martelli, ha raccolto il materiale trovato nel fondo Aniasi dedicato alla strage, finito in una mostra curata da Marco Cuzzi ed Elia Rosati a Palazzo Marino e in un documentario realizzato dalla «3D produzioni» che sarà presentato nell’anniversario dei funerali: «Mi sono commosso per le lettere dei bambini — spiega Martelli — si ha la percezione di un’Italia diversa dalla nostra: il senso di un’empatia impressionante». Un sentimento che segna un passaggio d’epoca. «Paura, ecco cosa provai», ricorda Tore Colomba, contadino. La cerimonia lo colpì al punto che scrisse: «I feretri sono stati trasportati in ogni posto della Lombardia», come se in quella piazza fosse radunata l’intera regione. «Oggi a Milano tirava vento e pioveva, e il cielo era grigio», annotava invece Rosa Moi, ora impiegata comunale a Carbonia: «Sulle bare c’erano rose e garofani», particolare che ha poi disegnato. «Immagini che tornano spesso alla memoria», spiega ora. «Avevo 8 anni e non capivo cosa fosse successo. Ma fu la prima di una serie di stragi. La prima tragedia. Quelle venute dopo, non so perché, sono volate via. Piazza Fontana è rimasta».
Piazza Fontana, la strage nera. Il dovere della memoria. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 su Corriere.it da Antonio Carioti. Le inchieste, i testimoni, l’ombra dei servizi:50 anni dopo. resta l’intreccio tra eversori e apparati dello Stato. L’Italia repubblicana conosceva da sempre la violenza politica, ma la bomba esplosa cinquant’anni fa a Milano, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, segnò una svolta agghiacciante. Il 12 dicembre 1969 vennero assassinate e ferite, a tradimento e a caso, persone innocenti e ignare, alle prese con gli impegni del lavoro e della vita quotidiana. Si colpiva nel mucchio, senza alcun riguardo. Da quel momento nessun cittadino poteva più ritenersi al sicuro. Mezzo secolo dopo, il bilancio che se ne può trarre è duplice. Da una parte la democrazia italiana ha respinto con successo l’aggressione del terrorismo, cominciata allora. Dall’altra non vi è stata giustizia: l’eccidio resta senza colpevoli, anche se dalle inchieste giudiziarie e dalle ricerche storiche emerge con sufficiente chiarezza che la responsabilità va addebitata all’estrema destra neonazista. Molti interrogativi però rimangono aperti, specie in riferimento al ruolo equivoco svolto da alcuni apparati di sicurezza. E resta il dovere della memoria verso le vittime e i loro cari, verso coloro che furono ingiustamente accusati (come l’anarchico Giuseppe Pinelli, morto mentre era trattenuto illegalmente dalla polizia), verso la città e il Paese intero. Su questi due versanti si muove il libro La strage di piazza Fontana (in edicola da sabato 7 dicembre), aperto da una prefazione di Giangiacomo Schiavi, con il quale il Corriere della Sera ha voluto portare un proprio contributo al dibattito. Abbiamo cercato di ricostruire i fatti: un contesto storico segnato da forti tensioni; la meccanica dell’azione terroristica, con cinque attentati (due a Milano e tre a Roma) in poche ore; l’avvio delle indagini, la perdita di credibilità della pista anarchica e l’affiorare di quella nera, con la scoperta di rapporti inquietanti tra eversori e servizi segreti. Inoltre abbiamo ripercorso, con Luigi Ferrarella, il tortuoso iter giudiziario, il controverso trasferimento del processo da Milano a Catanzaro, le condanne in primo grado e le assoluzioni in appello, la riapertura dell’inchiesta negli anni Novanta, le nuove sentenze, gli ultimi filoni battuti dagli inquirenti. Abbiamo puntato i riflettori anche su alcuni aspetti particolari: Giovanni Bianconi narra la sorte di tre coraggiosi magistrati (Vittorio Occorsio, Emilio Alessandrini, Antonino Scopelliti) che si occuparono degli attentati avvenuti nel 1969 e poi vennero assassinati per altre ragioni; Gianfranco Bettin esplora l’ambiente in cui maturò la trama criminale, l’estremismo di destra del Nordest. Abbiamo dato la parola ai testimoni: il nostro collega Giacomo Ferrari, che era nella banca in cui esplose l’ordigno; un maestro del giornalismo come Corrado Stajano, che fu tra i primi ad accorrere sul posto. E poi ci siamo rivolti, con Giampiero Rossi, all’Associazione delle famiglie delle vittime di piazza Fontana (17 furono in tutto i morti), che si è battuta coraggiosamente per ottenere giustizia e da parecchi anni svolge un lavoro encomiabile per evitare che vada dispersa la memoria di quanto accadde. Sul punto più spinoso, cioè sulle ragioni dell’eccidio e su quanta responsabilità portino alcuni settori dello Stato, specie per la mancata individuazione dei responsabili, abbiamo chiamato a confrontarsi due studiosi di opinioni diverse, Aldo Giannuli e Vladimiro Satta, che hanno dato vita a una discussione a tratti polemica, ma pacata e civile nei toni. Piazza Fontana è un evento lontano, ma denso d’insegnamenti. Bene hanno fatto il Comune e il sindaco Giuseppe Sala, nel cinquantesimo anniversario, a preparare una nuova installazione nel luogo dell’eccidio e a programmare una serie d’iniziative commemorative, alla quali parteciperà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Milano ha superato quella terribile prova, ma non la dimentica. E il Corriere con lei.
Piazza Fontana, per sempre «incisi» su targhe i nomi delle diciassette vittime. Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 da Corriere.it. Diciassette nomi. Diciassette formelle. E una targa che ricorda quello che è successo il 12 dicembre di cinquanta anni fa quando intorno alle 16 una bomba devastò il salone della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana uccidendo 17 persone e ferendone 88. Ma a differenza della lapide commemorativa posata dieci anni dopo la strage che si limita a indicare un generico «attacco eversivo», quella fortissimamente voluta dall’Associazione dei familiari delle vittime di piazza Fontana punta il dito contro gli autori dell’attentato terroristico, anche se paradossalmente mai condannati: esponenti di Ordine Nuovo, la formazione neofascista che ebbe un ruolo chiave nella cosiddetta «strategia della tensione». Quel giorno Milano perse l’innocenza ma non ha perso la memoria e il 9 dicembre, a poche ore di distanza dall’anniversario della strage, il Comune, per volontà del sindaco Beppe Sala, poserà intorno alla fontana da cui la piazza prende il nome le 17 formelle. Ognuna porterà il nome di una vittima. Giovanni Arnoldi, 42 anni, Giulio China 57, Pietro Dendena 45, Eugenio Corsini 65, Carlo Gaiani 37, Calogero Galatioto 37, Carlo Garavaglia 71, Paolo Gerli 45, Luigi Meloni 57, Vittorio Mocchi 33, Gerolamo Papetti 78, Mario Pasi 48, Carlo Perego 74, Oreste Sangalli 49, Angelo Scaglia 61, Carlo Silva 71, Attilio Valè 52. Ognuno con la propria storia, con la casualità che accompagna e si incrocia con il destino. C’è chi come Mocchi si reca in banca per chiudere la trattativa su due trattori Ford. Chi, come Arnoldi, quel giorno non aveva intenzione di andare a Milano. La nebbia e un malessere gli avevano fatto rimandare tutti gli appuntamenti. Il destino si è presentato con un trillo del telefono. Un agricoltore di Lodi lo chiama e insiste, c’è da chiudere un affare per una cascina nel Milanese. «Mio padre cerca in qualche modo di rimandare ma l’agricoltore insiste e lui a malavoglia accetta, saluta mia madre prende l’auto e si dirige a Milano. Per mia madre sarà l’ultima volta che vede vivo mio padre» scrive il figlio Carlo che nel ’69 aveva 15 anni e oggi è presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime. Tante storie strazianti raccontate sul sito della Casa della Memoria. Dove prologo e conclusione accomunano figli, mogli e genitori. «Quel giorno, dopo lunghe ricerche negli ospedali senza esito — scrive Paolo, figlio di Carlo Silva — dopo aver chiesto direttamente sul luogo della strage, vedendo quello che era accaduto, mi sono recato alla questura centrale dove ho incontrato mio fratello Giorgio anche lui coinvolto nelle medesime angoscianti ricerche. In tarda serata siamo stati accompagnati all’obitorio per l’eventuale riconoscimento; abbiamo purtroppo riconosciuto, in quel cadavere dilaniato e mutilato, nostro padre Carlo». Sono parole molto simili a quelle di altri parenti delle vittime. Lo stesso copione con la telefonata che avverte dello scoppio di una caldaia nella banca, che ci sono dei feriti, delle corse inutili negli ospedali cittadini. Si parlano da un anno il sindaco Sala e l’Associazione dei familiari. E ai primi di ottobre il sindaco ha riunito la sua giunta e ha approvato la delibera per la realizzazione e la posa delle formelle e della targa. Perché come dice il sindaco Sala nella lettera inviata al Corriere, «Milano ricorda e fa memoria di ogni singolo evento che ha sporcato con la violenza e la morte la sua anima democratica e pacifica».
Piazza Fontana: storia di "altre bombe". La piazza della strage del 12 dicembre 1969 fu bombardata nel 1943. Nel 1949 alla Banca nazionale dell'agricoltura fu trovato un ordigno. Nell'aprile 1969 le molotov ferirono due giovani. Edoardo Frittoli il 30 novembre 2019 su Panorama. Cinquant'anni fa piazza Fontana fu teatro della sanguinosa strage che aprì la lunga stagione della "strategia della tensione". La lunga storia della piazza alle spalle del Duomo racconta di tre momenti in cui altre bombe furono protagoniste nel medesimo luogo, tra il 1943 e il 1969.
Una nuova piazza per i Milanesi. La prima grande metamorfosi per piazza Fontana avvenne nel 1782 con uno degli ultimi atti del governatore austriaco di Milano, Carlo Firmian. Fino ad allora lo spazio alle spalle del Duomo era stato sede del mercato ortofrutticolo della città, il famoso "verziere". La riqualificazione dell'area caotica e popolare prevedeva anche il rifacimento della facciata del palazzo dell'Arcivescovado e la costruzione della prima fontana artistica di Milano, alimentata dalle acque del fiume Seveso tramite un complesso sistema di condotte e meccanismi alloggiati nell'albergo Biscione affacciato sulla piazza. Il disegno della fontana fu affidato al prestigio dell'architetto Piermarini, che si occupò anche di riorganizzare gli spazi attorno al nuovo monumento divenuto il fulcro della piazza rinnovata. Anche il perimetro della piazza, allora molto più raccolta di oggi, fu soggetto a sostanziali modifiche attraverso l'abbattimento dell'antico edificio della Scuola delle Quattro Marie, pio istituto per fanciulle oltre ad una chiesetta sull'angolo della oggi scomparsa via Alciato. Durante il secolo XIX piazza Fontana fu luogo di eventi pubblici e spettacoli, con ascensioni di aerostati, esposizione di bestie feroci ed esotiche, corse equestri. Alla metà del secolo si sviluppò la presenza di alberghi, tra cui il maestoso Albergo Commercio che occupava buona parte del lato settentrionale della piazza. L'ultimo intervento urbanistico di rilievo avvenne alla fine degli anni '20, quando al posto di vecchi edifici commerciali (dove aveva sede il consorzio agrario cittadino) fu costruito il grande palazzo della Banca nazionale dell'agricoltura, teatro della strage del 1969. Alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale la piazza era popolata dai tanti agricoltori che si riunivano attorno alla fontana nei pressi del consorzio dove trattavano i propri affari prima di ufficializzare gli accordi presso la banca di piazza Fontana, la cui vita e il cui volto cambierà per sempre una notte di metà agosto del 1943.
Le bombe dal cielo: ore 00:31 del 16 agosto 1943. La città bruciava già da due giorni, martoriata dai bombardamenti a tappeto ad opera di centinaia di quadrimotori del Bomber Command della RAF. L'area bombing, così definita dal comandante Sir Arthur Harris (detto "the butcher" - il macellaio), aveva sfigurato Milano. Erano state colpite innumerevoli abitazioni civili, oltre ad edifici monumentali, fabbriche, scuole, ospedali. I Vigili del fuoco stavano ancora lottando contro le fiamme degli spezzoni incendiari e la pressione dell'acqua crollata per i danni alla rete idrica quando la sirena suonò di nuovo mezz'ora dopo la mezzanotte. Questa volta i "Lancaster" inglesi erano 199 ed aggiunsero distruzione a distruzione. Quella notte una bomba dirompente sfondò il tetto e devastò i palchi del Teatro alla Scala, simbolo universale di Milano. Anche il Duomo fu danneggiato con il crollo di alcune guglie. Pochi istanti dopo sarà devastata anche piazza Fontana. Una pioggia di bombe dirompenti ed incendiarie rasero al suolo i vecchi edifici che si trovavano al centro della piazza, provocando la cancellazione dalle mappe della antica via Alciato che dalla piazza portava all'ingresso dell'attuale Comando della Polizia Locale di piazza Beccaria, anch'esso semidistrutto dall'incursione di quella notte. L'ultimo bombardiere abbandonò il cielo di Milano attorno alle 2 e 20 del mattino del 16 agosto, acceso di rosso dal bagliore degli incendi visibili a decine di chilometri di distanza. Quando finalmente albeggiò, la piazza Fontana appariva irriconoscibile, spianata dagli scoppi. Si era salvata la fontana del Piermarini, mentre un'ala del grande albergo Commercio era ridotta ad un cumulo di macerie, come altri edifici adiacenti. L'area della piazza non ritornerà mai più quella originale, nè saranno ricostruite le case che la rendevano pittoresca e raccolta. Fino alla fine della guerra la fontana sarà protetta dalle stesse macerie delle case dai cui balconi era stato possibile ammirarla, ammassate attorno al suo perimetro.
"C.L.N. 25934": la bomba dell'ex partigiano. (31 maggio 1949). Nella camera blindata della Banca nazionale dell'agricoltura due funzionari si apprestavano ad aprire una delle cassette di sicurezza del caveau sotto piazza Fontana. Da oltre un anno cercavano di contattare i due titolari che l'avevano riservata durante la guerra -nel dicembre del 1943- senza però ottenere alcuna risposta. Scaduti i termini di legge, gli addetti furono autorizzati all'ispezione per prolungata morosità. All'interno dello scomparto blindato fu ritrovata una scatola di sigarette in latta, alla quale era fissato un talloncino con la scritta "C.L.N. 25934". La sigla fece scattare le misure di sicurezza, perché a soli quattro anni dalla fine della guerra tutti sapevano cosa significassero quelle tre lettere, iniziali del Comitato di Liberazione Nazionale cioè il comando delle forze partigiane. I funzionari chiamarono immediatamente le forze dell'ordine, che mandarono in piazza Fontana una squadra di artificieri. I militari ebbero conferma che in quella scatola di latta era nascosto un ordigno ed anche molto potente. Si trattava di una bomba al T-4 (trinitrotoluene o TNT) ad alto potenziale, che fu aperta con cautela dagli artificieri e fatta brillare poco più tardi in aperta campagna. Gli intestatari della cassetta di sicurezza erano Camillo Gaggini e Ugo Massa, due individui con una lunga lista di precedenti penali per furto, truffa e rapina. Il primo aveva militato nella resistenza sin dal 1943 e dopo la guerra era entrato a far parte della cosiddetta "Polizia ausiliaria", il reparto di pubblica sicurezza nato dalle file dei partigiani dopo la fine della guerra. il 22 novembre 1945 il tenente Gaggini fu scoperto dalla Polizia giudiziaria in una bisca clandestina a poca distanza da piazza Fontana, in un appartamento di via Silvio Pellico. L'ufficiale della Polizia partigiana fu colto in flagranza di reato mentre estorceva una percentuale sui proventi illeciti del gioco. Il giorno dopo il ritrovamento della bomba alla Banca nazionale dell'agricoltura fu scoperto presso il campo d'aviazione della Breda (attuale aeroporto civile di Bresso) un vero e proprio arsenale con armi in piena efficienza. Nelle vecchie trincee nelle vicinanze dei rifugi antiaerei erano stati nascoste mitragliatrici pesanti Breda 37 e 30, fucili, 26 bombe a mano e addirittura granate anticarro tedesche modello "panzerfaust". Poco dopo il ritrovamento dell'arsenale clandestino, fu rintracciato anche Camillo Gaggini che all'epoca dei fatti era detenuto nel carcere di Forlì per numerosi reati pregressi.
Le bombe molotov all'albergo Commercio: 12 aprile 1969. I bombardamenti dell'agosto 1943 cambiarono per sempre il volto della piazza progettata dal Piermarini. Il vuoto creato dal crollo delle case che affacciavano sulla scomparsa via Alciato non fu mai più colmato e nel dopoguerra piazza Fontana appariva come un'ampia spianata estesa dall'Arcivescovado sino alla sede dell'ex Tribunale - oggi Comando del Polizia Locale - anch'esso sfigurato dalle bombe. Nel 1953 il Comune di Milano avanzò una proposta di ricostruzione dell'antica via cancellata dalla guerra, che dieci anni dopo i bombardamenti era rimasta un'area desolata e polverosa accerchiata dagli edifici con le ferite di guerra ancora in mostra. Il progetto affondò, lasciando spazio ad un parcheggio dove presero posto le automobili negli anni del boom economico. Si salvò il grande edificio dell'Albergo Commercio, che rimase in esercizio fino alla fine del 1965 e di cui fu proposto l'abbattimento in seguito all'abbandono dell'attività. Tre anni più tardi, il 29 novembre 1968, lo stabile fu occupato da studenti e anarchici e ribattezzato "nuova casa dello studente e del lavoratore". Il Comune di Milano, proprietario dell'edificio, tergiversò e lasciò gli occupanti nelle camere dell'ex albergo di piazza Fontana. Poco dopo l'occupazione iniziarono a frequentare il Commercio anche alcuni anarchici vicini alla corrente degli "Iconoclasti" di Pietro Valpreda quando all'esterno il clima politico si faceva rovente con continui scontri di piazza tra opposti estremismi e con le forze dell'ordine. L'11 aprile del 1969 a Milano si scatenò la guerriglia urbana in occasione dello sciopero indetto in seguito ai gravi scontri tra lavoratori e Polizia a Battipaglia (Salerno) di due giorni prima, che avevano causato la morte di due operai. Accanto al corteo silenzioso dei sindacati scesero in piazza i maoisti e gli anarchici, che giunti in piazza del Duomo assieme agli studenti iniziarono a provocare durante il comizio dei sindacati. Le violenze andranno avanti per tutto il giorno, con lanci di molotov, pietre e bastoni. Verso sera, dopo aver lasciato 88 feriti tra le forze del ordine, un gruppo di filo-cinesi diede l'assalto alla sede della Giovane Italia, l'organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano in corso Monforte. Dalle finestre della sede i giovani di destra risposero con le molotov, fino all'intervento della Polizia. La ritorsione non si fece attendere e la notte stessa si concentrerà sulla "centrale anarchica" individuata nell'ex-albergo occupato di piazza Fontana. Erano circa le 23 quando due giovani estranei ai fatti della giornata e neppure frequentatori della "nuova casa dello studente" si fermarono di fronte all'androne di ingresso dell'ex albergo. Sergio Bergamini e Luciano Treu tornavano dopo una serata alla "Crota piemunteisa" di Piazza Beccaria dove avevano trascorso la serata e si erano soffermati per alcuni minuti a leggere i cartelli affissi dagli anarchici dopo gli scontri. All'improvviso furono assaliti da un gruppo di uomini vestiti con maglioni neri che in un istante lanciarono due bombe molotov verso i due ragazzi. La prima bottiglia incendiaria esplose ed investì in pieno Bergamini, che divenne una torcia umana. La seconda fu scagliata quando Treu stava cercando di spegnere i vestiti dell'amico e lo colpì di striscio ustionandolo ad un braccio, mentre il commando faceva perdere le proprie tracce fuggendo a bordo di un'auto parcheggiata in piazza. L'assalto all'albergo fu il preludio alla scomparsa dello storico edificio di piazza Fontana. Lo sgombero fu effettuato all'alba del 19 giugno 1969 dalla Polizia, che alle 5:45 fece irruzione. All'interno furono rinvenuti, oltre alle bottiglie molotov, anche esplosivi e armi. Tra gli anarchici fermati figurava Aniello D'Errico, detto "baby" per la sua giovane età (aveva solo 17 anni). Rilasciato pochi giorni dopo, sarà poi accusato di essere stato l'artificiere della strage di piazza Fontana, di poco successiva allo sgombero dell'ex albergo. Sarà fermato assieme ad un compagno del gruppo "iconoclasti" di Valpreda, Leonardo Claps, dopo una breve latitanza a Canosa di Puglia. La demolizione dello storico albergo di piazza Fontana fu deliberata appena dopo lo sgombero ed eseguita in fretta a partire dalla fine dell'agosto del 1969. Quando ormai non rimaneva che lo scheletro dell'edificio ottocentesco sopravvissuto alla guerra e alla ricostruzione, il 12 dicembre 1969 di fronte al suo rudere esplose la bomba nell'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura. Nella piazza che ancora una volta cambiava faccia, quel maledetto giorno era cambiata anche la storia dell'Italia repubblicana.
Piazza Fontana, il Buco che ci ha ingoiati. Sono nato a Milano mentre scoppiava la bomba. Quando cominciò il buio che avvolge l’Italia. E tutti ne siamo figli. Giuseppe Genna il 12 dicembre 2018 su L'Espresso. È il 12 dicembre 1969, ore 16.37, Milano. Succede questo: un’esplosione a pochi metri dietro il Duomo, nella nebbia una vampata di luce. È cominciata la storia d’Italia, per l’ennesima volta, una vicenda che si trascina come un ferito nelle nebbie di un dopobomba perenne. È scoppiata la bomba di piazza Fontana. Un giovane vicecommissario si trova davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove l’ordigno ha devastato uomini donne bambini e cose. È Achille Serra, destinato a evolvere nel tempo in un prefetto leggendario. Entra a pochi secondi dall’esplosione, in un luogo che costituirà la scena primaria della nazione, che è sempre una scena del crimine: corpi sciolti, a brandelli, un bambino urla, cadaveri tra le macerie. Serra si precipita al telefono in una cabina, chiede l’invio di cento ambulanze. Non gli credono, lo prendono in giro, poi mandano davvero cento lettighe sul posto. Su una barella, che fa il suo ingresso nella banca, c’è accidentalmente il corredino di un neonato, che è nato proprio alle 16.37, insieme con la madre di tutte le stragi. Quel neonato sono io. Ho, dunque, due madri: la mia e quella di tutte le bombe. Io avvengo insieme a piazza Fontana, crescerò avendo per fratelli tutti i fantasmi, i morti, gli assassinati successivi, gli accusati, gli innocenti, i commentatori, i leggendari giornalisti, le spie, i neofascisti, gli anarchici - il teatro umano che da quasi cinquant’anni si muove intorno a una strage, rimasta senza colpevoli fino al 2005, quando i responsabili sono stati identificati da una sentenza di Cassazione, nell’impossibilità di processarli, perché assolti in precedenza.
Nasco insieme a piazza Fontana. Cresco con l’ossessione della strage. Il sospetto è per me un obbligo. Appena capace di consapevolezza, scruto ossessivamente le foto in bianco e nero, scattate poco dopo l’esplosione. Al centro della scena, sotto un tavolo pesante, sbalzato dalla conflagrazione, si è creato un buco nel pavimento. Il Buco diviene l’emblema nazionale. È il buco dei proiettili nel corpo inerte di Aldo Moro, rannicchiato nel baule della Renault 4, essa stessa un ulteriore buco, orizzontale, che sfigura la memoria di tutti i bambini come me. È il buco in cui sprofonda e resterà invisibile, piangente nel pozzo artesiano, il piccolo Alfredino Rampi a Vermicino, foro su cui si china il capo dello Stato e in cui finiamo tutti, a favore delle televisioni unite. È il buco in cui scompare infinitamente Emanuela Orlandi.
È un Paese con il Buco, l’Italia. Buchi ovunque, a partire da quelli che costellano le indagini. Il giovane Bruno Vespa compare, nel permanente bianco e nero, microfono in mano, a dare in diretta la notizia della colpevolezza indiscutibile dell’anarchico Pietro Valpreda. Quando Vespa inaugura l’oscenità televisiva, svezzando la nazione, io ho quattro giorni di vita, come la strage. Il giorno precedente è stato assassinato Giuseppe Pinelli, volato dalla finestra della questura per un evento catalogato come “malore attivo”, durante un interrogatorio, mentre il commissario Luigi Calabresi si trova fuori dalla stanza - il momento enorme in cui Calabresi incomincia a morire, il 17 maggio 1972, per mano di terroristi che non avevano compreso nulla o forse avevano compreso troppo.
Aldo Moro, nell’istante in cui io nasco e la bomba deflagra, si trova a Parigi e nelle lettere dal carcere brigatista, pressato dall’angoscia, sbaglia il ricordo e colloca l’esplosione al mattino del 12 dicembre. L’allora ministro degli Esteri, autentico artefice della Repubblica, è autore di una controinchiesta, che svela da subito responsabilità, connivenze, scenario in cui la strage si è prodotta. Un ulteriore memoriale Moro. Che annoterà dal carcere Br: «Personalmente ed intuitivamente, non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (e manifestare) almeno come solida ipotesi che questi ed altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra ed avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (tale è proprio la caratteristica della reazione di destra), allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Era tutta la verità. I fantasmi si scatenarono, dagli schermi dei televisori invasero le menti degli italiani, che si allenavano a diventare un popolo di spettatori. Quella fosforescenza in bianco e nero è una forma della Repubblica.
Si rivedono in bianco e nero i funerali delle 17 vittime (i feriti furono 88, tra cui un bambino a cui verrà amputata la gamba: un altro fantasma personale e generazionale), partecipati da “una folla composta” e oceanica, nel gelo decembrino milanese e nel clima glaciale che andrà a ossessionare non soltanto me, ma tutta l’Italia, per anni. In bianco e nero avviene l’apparizione sconcertante dell’imputato Franco Giorgio Freda, ordinovista, stalagmite nazimaoista, nel 1977, quando sto alle elementari e il processo per piazza Fontana è stato trasferito da Milano nella città di Catanzaro, che io e i miei coetanei scopriamo esistere come luogo in cui compare questo anti-Moro dai capelli precocemente imbiancati, il golf chiaro a collo alto accecante come la sua cofana, il volto scolpito e il lessico antisalgariano, tutto metafore taglienti e verbi squadrati (nel confronto con l’agente segreto Guido Giannettini, secondo Freda costui «afferma una menzogna con notevole impudenza» e deve «estrinsecarsi»). Freda sarà assolto per insufficienza di prove, ma resterà stampato nell’orrendo Parnaso italiano del terrore. Mi tornerà addosso quando io e la strage compiamo vent’anni, come reggente del Fronte Nazionale, una formazione extraparlamentare di estrema destra, che ha per simbolo una svastica a metà e aggredisce l’invasione dei migranti, chiamandoli “allogeni extraeuropei”. In quel caso, a difendere Freda sarà Carlo Taormina, avvocato pop nell’arco della seconda Repubblica, in cui, rivestendo la carica di sottosegretario agli Interni, attaccherà i procedimenti su piazza Fontana, che continuano a perseguire una verità inaccertabile.
L’Italia rovinava con i suoi misteri, ombrosi a chiunque e chiarissimi a tutti. Io e la strage invecchiavamo insieme. Non mi riusciva di dire, come Pasolini nella memorabile poesia “Patmos”, «oppongo al cordoglio un certo manierismo». La strage era un’esplosione inestinta, che non smetteva di esplodere, così come la ragazza Orlandi non smetteva di scomparire, Alfredino non smetteva di inabissarsi, Moro non smetteva di parlare la sua lingua precisa e articolata. Non smettevano di morire. Le bombe erano due o erano una? E gli americani? Adriano Sofri precisava davvero la realtà dei fatti nel suo “43 anni. Piazza Fontana, un libro, un film”? Perché non cessava di rimbombare l’inchiesta di Camilla Cederna su Pinelli? Fino a questi giorni, alla catatonia dell’attuale vicepremier Luigi Di Maio davanti a Mario Calabresi che contesta l’incredibile causa che il Movimento gli ha intentato, denunciando Luigi Calabresi. Un ulteriore e sconcio buco: il Buco diventa lo spazio abissale in cui la memoria affonda, la verità e la menzogna non hanno interrotto il loro eterno lavorìo tutto italiano, mentre l’oblio è un nuovo valore collettivo. Io, noi, invece: ricordo, ricordiamo. I giudici Calogero e Stiz, D’Ambrosio che indaga i fascisti e poi diviene uno dei volti dell’affaire Tangentopoli, Ventura che in Argentina pubblica le poesie di Zanzotto, l’inchiesta di Franco Lattanzi detto Sbancor che viene trovato morto mentre sta scrivendo un testo cruciale sulla strage, l’agente neofascista internazionale Guérin Sérac, Pietrostefani e Bompressi, il questore Guida, quelli del Sid, i supposti pentiti Digilio, Delfo Zorzi, il giudice Salvini, le vedove, i parenti delle vittime, gli agenti in sonno di Gladio - la danse macabre di Piazza Fontana attraversa la storia italiana. Da quarantanove anni io sono lì, il 12 dicembre alle 16.37, in piazza Fontana. Da decenni ci vado fisicamente, misuro l’estinguersi progressivo della folla che interviene al pubblico ricordo, sono sempre meno, non si alzano più i pugni, nel giardinetto davanti al comando dei vigili c’è la lapide a Pinelli, “ucciso innocente”. La notte della Repubblica era questa: le tenebre della violenza e poi il buio della dimenticanza.
A mia madre, che mi aveva partorito in quel momento tragico, ridiedero il corredino, ritrovato come uno straccio tra i ruderi, accanto al buco al centro della Banca dell’Agricoltura. Il cognome rammendato a filo azzurrino aveva permesso di riportare in ospedale il reperto. Il ricordo, come tutti i ricordi, era santo e raccapricciante. Il cotone bianco era macchiato di sangue coagulato. Il loro sangue era ricaduto su di me: su noi tutti.
La verità, vi prego, su Pinelli. Un saggio di Paolo Brogi aggiunge un nuovo tassello per ricostruire le circostanze in cui morì l'anarchico precipitato da una finestra della Questura di Milano dopo la strage di piazza Fontana. Silvana Mazzocchi il 27 giugno 2019 su La Repubblica. Depistaggi e montature hanno segnato i tanti processi sulla strage di Piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969. A cinquant’anni dall’eccidio, zone d’ombra mai chiarite impediscono ancora la verità sulla morte di Giuseppe Pinelli, detto Pino, 41 anni, ferroviere e anarchico che a pochi giorni dalle bombe, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, precipitò dal quarto piano della Questura di Milano. Una morte allora archiviata come conseguenza di un “malore” e una verità giudiziaria che, fin da subito, non sembrò coincidere con la verità sostanziale. Mentre silenzi, omissioni, menzogne e contraddizioni hanno a lungo impedito di ricostruire con esattezza il quadro in cui, nella Questura milanese, avvennero i fatti. Oggi, un libro, Pinelli l’innocente che cadde giù, firmato da Paolo Brogi, giornalista e scrittore, aggiunge un tassello utile a illuminare almeno la cornice in cui avvenne la morte di “Pino”. Si tratta di un verbale, finora inedito, che racconta come alcuni uomini dell’Ufficio Affari Riservati , il servizio segreto del Viminale, trasferiti da Roma a Milano all’indomani del 12 dicembre, divennero subito di casa in Questura, diventando di fatto i veri “padroni delle indagini”, utili per collegare gli ambienti anarchici alla strage. Il verbale, che contiene la deposizione di un dirigente dell’Ufficio Affari Riservati, (ne parla Paolo Brogi nell’intervista che segue), è oggi pubblico grazie alla Direttiva Renzi che, nel 2014, chiese alle istituzioni di riversare nell’Archivio di Stato tutte le carte riguardanti le stragi. Il contenuto del verbale è importante, è una tessera significativa di un mosaico ben più vasto che intreccia segreti e depistaggi e che aiuta a delineare, attraverso un documento ufficiale, lo scenario che cinquant’anni fa dette inizio alla stagione delle stragi e alla lunga catena dei misteri italiani rimasti in gran parte insoluti. Il libro affronta anche la vicenda umana della famiglia Pinelli e contiene la testimonianza di Claudia e Silvia, le figlie di Giuseppe Pinelli, allora bambine. Oggi donne decise a non dimenticare.
Qual è stato il ruolo dei servizi segreti nella morte di Pino Pinelli?
“La Questura di Milano in quel dicembre del 1969, quando morì l’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato dal quarto piano mentre era in corso il suo interrogatorio, pullulava di agenti segreti. Il paradosso, a partire dalle inchieste condotte allora sulla morte di Pinelli, è che di questi uomini degli Affari Riservati – almeno una dozzina arrivati da Roma - non si trova traccia. Fantasmi, che riemergeranno a distanza di venticinque anni quando giudici di Venezia e Milano chiederanno loro conto di quelle giornate milanesi del ’69. Ma a ridosso degli avvenimenti nessuno se ne occupa. Eppure il potente organismo che sarebbe stato finalmente sciolto nel 1974 dopo la nuova strage di Brescia a Piazza della Loggia era lì per dirigere le indagini. Come? Con il teorema anarchico, che la Questura milanese adottò senza incertezze. A guidare il gruppo era Silvano Russomanno, numero due del servizio, un ex repubblichino che dopo l’8 settembre si era direttamente arruolato in un reggimento tedesco e che alla fine della guerra era stato poi portato nel campo di concentramento di Coltano. Al povero Pinelli, che a 15 anni era stato staffetta partigiana, veniva contestato un attentato compiuto il 25 aprile del 1969. Un attentato per il quale sono stati poi condannati i fascisti ordinovisti. Ecco qual era il ruolo dei servizi.”
Il libro contiene un verbale rimasto sepolto tra le carte dell’Archivio Centrale di Stato. Che cosa rivela di quanto accadde mezzo secolo fa?
““A Milano portai io la lista degli anarchici”. Si chiama Francesco D’Agostino e in una deposizione al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni l’ex alto dirigente degli Affari Riservati ha spiegato, nel 1997, cosa successe subito dopo la strage di Piazza Fontana. Il documento appartiene all’inchiesta su un altro attentato del 1973, ma il giudice s’informa anche su Milano nel ‘69. Grazie alla Direttiva Renzi che nel 2014 ha chiesto a tutte le istituzioni di riversare all’Archivio centrale dello Stato i documenti sulle stragi, anche il verbale di D’Agostino è oggi consultabile. Che quadro ci rivela? L’arrivo a Milano, a poche ore dalla strage di Piazza Fontana, di D’Agostino e di Silvano Russomanno. I due alloggiano all’hotel Aosta e sono di casa in Questura, dove spiega D’Agostino il capo dell’Ufficio Politico Antonino Allegra e il commissario Luigi Calabresi erano ancora incerti sulla pista da seguire. In sintesi da questo verbale come da quello di altri interpellati viene fuori che gli Affari Riservati erano i “padroni” dell’inchiesta, soggiornavano in Questura dalla mattina alla sera, disponevano di fonti come quella su cui è stato costruito il teorema anarchico.”
Pino Pinelli nella testimonianza di Claudia e Silvia , le figlie allora bambine.
“Claudia e Silvia Pinelli avevano allora solo otto e nove anni. La loro è la storia di un’infanzia rubata, dove Pino è il padre che spesso le andava a prendere a scuola e magari al ritorno disegnava su un muretto l’A cerchiata anarchica, un uomo vivace che come caposquadra ferroviere lavorava spesso di notte e rientrava al mattino, in una casa popolare a San Siro dove la porta era sempre aperta e arrivavano studenti e professori della Cattolica a far battere le loro tesi alla mamma Licia. Di Pino ricordano la piccola moto Benelli che accomodava da solo giù nel cortile sotto casa, la passione per la cucina e i suoi risotti, l’interesse per i libri come la famosa Antologia di Spoon River un cui pezzo è inciso oggi sulla sua tomba a Carrara. Un uomo poco più che quarantenne, impegnato tra incontri, manifestazioni, difesa dei compagni incarcerati. E piuttosto idealista, come hanno ricordato i docenti della Cattolica che frequentavano la sua casa o come lo descrive il primo obiettore di coscienza del servizio militare, il cattolico Giuseppe Gozzini. Uno a cui non piaceva la violenza, da giovane – ha ricordato sua madre Rosa - aveva lasciato la boxe perché non gli andava di picchiare qualcuno.”
L'anniversario della morte dell'anarchico. Omicidio Pinelli, parla la figlia Claudia: “Lo Stato ha ucciso mio padre e non ci ha mai detto perché”. Angela Stella su Il Riformista il 15 Dicembre 2021. Dal 9 dicembre è in libreria Pino, vita accidentale di un anarchico di Silvia Pinelli e Claudia Pinelli, Niccolò Volpati e Claudia Cipriani (Milieu Edizioni). È la storia di Giuseppe Pinelli raccontata dalle figlie, Claudia e Silvia, in un docu-romanzo grafico. Riprendendo il lavoro che aveva portato alla realizzazione dell’omonimo docufilm animato (regia di Claudia Cipriani e sceneggiatura di Niccolò Volpati), gli autori raccontano in maniera inedita, attraverso immagini e fotografie – tra le quali compaiono scatti originali di Uliano Lucas -, una storia intricata e opaca, che non è mai stata dimenticata: la stessa che Dario Fo scelse di narrare in Morte accidentale di un anarchico.
Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre ’69, il corpo di “Pino” precipitò da una finestra della Questura di Milano. Aveva 41 anni, era stato fermato in seguito alle prime indagini sulla strage di Piazza Fontana che era avvenuta tre giorni prima: la polizia aveva deciso immediatamente di seguire la pista anarchica. Difficile dire se fu un abbaglio o un depistaggio. Comunque la pista anarchica si rivelò quasi immediatamente una falsa pista anche se poi fu tenuta viva per altri tre anni. Furono fermati diversi anarchici di Milano e di Roma. I più noti erano Pino Pinelli e Pietro Valpreda. Pinelli, dopo o durante un durissimo interrogatorio, volò dalla finestra dell’ufficio della questura di Milano e morì. La sua sua morte venne fatta passare per un suicidio, e quindi per una confessione. Ma prima un gruppo di giornalisti (tra i quali Camilla Cederna e Gianpaolo Pansa) e di militanti politici di sinistra, poi uno schieramento molto più ampio contestarono questa tesi e sostennero che Pinelli era stato gettato dalla finestra. Alla fine la magistratura trovò una mediazione. Nell’ ultima e definitiva sentenza su quella morte escluse il suicidio ma non prese in considerazione l’omicidio: parlò di «malore attivo». Nessuno ha mai capito bene cosa fosse un malore attivo. La sentenza fu firmata da Gherardo D’Ambrosio, diventato poi famosissimo quando da Procuratore aggiunto guidò, quasi 25 anni più tardi, il pool “mani pulite”.
La famiglia di Pino Pinelli non ha mai creduto al malore attivo e per questo non ha mai smesso di cercare la verità. Solo a quarant’anni dalla morte, nel Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dichiarò: «Rispetto e omaggio per la figura di un innocente Giuseppe Pinelli che fu vittima due volte. Prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine». Pinelli diventava così «la diciottesima vittima della strage di Piazza Fontana». Ne parliamo con Claudia Pinelli.
Come mai questo libro ora e con questo stile della graphic novel?
Con questa opera vogliamo arrivare anche ad un pubblico più giovane ma in generale a tutte le persone che non conoscono la vicenda di nostro padre. Però attenzione: il fumetto non vuole semplificare la storia. È chiaro che non può esserci tutto quello che è avvenuto in questi 52 anni, però può suscitare una curiosità nel lettore che potrebbe essere spinto ad approfondire. Dopo oltre mezzo secolo questa può diventare una storia di tutti, che non significa condivisa da tutti, ma conosciuta da tutti per continuare a parlarne.
Nella prefazione scrivete: «La verità non ha bisogno di martiri, di santi e tantomeno di eroi. Né di commozione, della facile lacrima che lascia tutto immutato, ma dell’empatia che susciti una sana indignazione per quello che è stato, per quello che non si è voluto affrontare».
Vorremmo che le persone prendessero coscienza di quello che è accaduto al nostro Paese in quegli anni. La verità su Giuseppe Pinelli è una verità sul Paese, che deve interessare tutti. Magari qualcuno si chiederà cosa non siamo stati capaci di affrontare in tutti questi lunghi anni. Conoscere vuol dire anche assumersi la responsabilità del cambiamento, significa sviluppare una capacità critica che non dovrebbe farci voltare dall’altra parte, ma pretendere verità.
Nel libro mostrate un vecchio ritaglio di giornale in cui c’è una intervista a sua madre che dice «voglio solo scoprire la verità». E aggiungete: «nessuno della magistratura ha mai indagato il questore, il commissario, il capo della digos e i poliziotti che per tanto tempo hanno dichiarato il falso? Per loro non esiste il reato di calunnia e diffamazione? I presenti in questura quella notte hanno mentito. Tutti».
Tutte le denunce presentate dalla mia famiglia sono state archiviate. Allora come oggi devi essere molto forte per resistere, perché nel momento in cui una persona muore mentre è nelle mani dello Stato non saranno le istituzioni a cercare verità e giustizia. Lo Stato non indaga su se stesso, ma si autoassolve. Sei tu che come famiglia devi metterti in gioco, devi riuscire ad andare avanti nonostante quello che ti verrà riversato addosso, nonostante i tentativi di colpevolizzarti. Dovrai sopportare emotivamente, e anche economicamente, per periti e avvocati, un onere che non tutti sono in grado di reggere. All’inizio poche erano le persone a noi solidali, poi sono cresciute col tempo. Ci sono rimaste accanto e mia madre, Licia, è diventata sempre più forte, sempre più ‘roccia’ come dico spesso. Non è assolutamente facile, quando sei una persona come mia madre che credeva nella giustizia, e che questa fosse uguale per tutti, doversi scontrare con un muro di gomma. Ma non ti fermi, vai avanti e combatti per arrivare ad una verità storica, grazie anche all’impegno di tanti che si sono attivati con noi: giornalisti, avvocati, anche magistrati, i familiari delle vittime di Piazza Fontana che hanno perseverato nel chiedere la verità. Però gli storici si basano sulle sentenze: e allora cosa rimarrà della storia di Giuseppe Pinelli?
L’ultima e definitiva sentenza sulla morte di Pino parla di «malore attivo». Stressato dalla situazione, suo padre si sarebbe sentito male ma invece di accasciarsi a terra è precipitato dalla finestra.
Quando ho parlato per l’unica volta con il giudice Gerardo D’Ambrosio mi disse «ho fatto quello che ho potuto». Non si doveva arrivare a parlare della morte di Giuseppe Pinelli in un’aula di Tribunale, era una vicenda da dimenticare.
Facciamo un passo indietro: nel libro raccontate che ad un certo punto dei fotografi e dei giornalisti bussarono alla vostra porta e vi dissero che suo padre era caduto da una finestra. Sua madre prese il telefono e chiamò la questura. Rispose il commissario Calabresi. Licia gli chiese: «Perché non mi avete avvisato?» Si sentì rispondere: «Ma sa signora, abbiamo tanto da fare…». Un ritratto di una persona fredda.
Mia madre ha sempre narrato questo episodio e anche adesso che ha 93 anni lo ricorda benissimo. Inoltre è quanto Calabresi ha testimoniato in Tribunale. Non so che pensiero si possa avere sul commissario Calabresi. Quello che posso dire è che era un funzionario di polizia ed era all’interno di quel sistema. Se lei legge il libro Pinelli: una finestra sulla strage di Camilla Cederna, che è una delle giornaliste che arriva alla nostra porta e che assiste alla conferenza stampa della Questura quella famosa notte, vi troverà scritto che i primi dubbi le vengono proprio per il clima che c’era all’interno di quella Questura. Non interessava a nessuno che fosse morta una persona, interessava solo che la loro pista trovasse in qualche modo una conferma. Io non posso esprimere un giudizio sul commissario Calabresi perché non l’ho mai conosciuto. Quando mio padre è morto ero una bambina di 8 anni. Non mi sento di mettere aggettivi inutili su di lui, ma allo stesso tempo penso che dopo 52 anni possiamo non avere più paura della verità. Potremmo considerare che ci furono delle responsabilità in quello che avvenne quella notte in Questura.
Qual è la vostra verità su quella notte? In quella stanza c’era il commissario Calabresi secondo voi?
Io non ero in Questura quella notte e non so cosa sia avvenuto. Altri avrebbero dovuto dare delle risposte. Secondo il giudice D’Ambrosio, nel momento in cui mio padre è precipitato, il commissario Calabresi non era presente in quella stanza. Un testimone, tuttavia, ha affermato sempre il contrario, ossia che il commissario non è mai uscito da quella stanza. È ancora vivo, si chiama Pasquale Valitutti ma non è mai stato ascoltato dal giudice D’Ambrosio. Io quello che posso dirle è che mio padre è stato fermato, che ha seguito con il suo motorino la volante della polizia e che poi è stato ucciso nel momento in cui è entrato in quella Questura e si è visto privato di tutti i suoi diritti. Ha subìto un fermo illegale che è durato più dei limiti consentiti dalla legge: e nessuno è stato chiamato a rispondere neanche di questo. Tutti i funzionari presenti in quella stanza quella notte hanno mentito ma non gli è successo nulla.
Dopo tanti anni a chi può far paura la verità sulla morte di suo padre?
Sicuramente è una storia scomoda. Forse c’è qualcuno ancora da coprire. Dopo tutto questo tempo sarebbe giusto che qualcuno si liberasse la coscienza. Lo stesso ex Presidente Napolitano ha pronunciato delle parole importanti perché ha parlato di Giuseppe Pinelli, vittima due volte: «Prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine».
Dopo queste dichiarazioni si aspettava una svolta?
Ci saremmo aspettati un proseguimento nella ricerca della verità e un riconoscimento di responsabilità da parte delle Istituzioni non solo sulla morte di mio padre, ma per tutto quello che è successo in tutta quella stagione della strategia della tensione. All’interno della Questura quella notte, dai documenti che sono stati ritrovati e resi accessibili, è emerso che c’erano appartenenti ai servizi segreti. Noi siamo ancora qui, senza nessuna voglia di vendetta, a chiedere la verità per noi e per il Paese.
Secondo Lei cercavano non il colpevole ma un colpevole?
Può darsi, oppure volevano coprire i veri responsabili. Mentre la polizia a Milano metteva nel mirino gli anarchici, da Treviso arrivava la prima segnalazione sui progetti di attentati del libraio neofascista Giovanni Ventura, grazie alla testimonianza dell’insegnante di francese Guido Lorenzon. Volutamente questo filone investigativo si è ignorato e sono continuate le accuse verso gli anarchici.
Vuole rivolgere un appello a qualcuno?
No, non è nel mio stile chiedere qualcosa a qualcuno. La giustizia dovrebbe essere un atto dovuto ma nel nostro Paese non lo è. Angela Stella
Chi era Giuseppe Pinelli. Ferroviere anarchico, aveva partecipato alla Resistenza. Morì in circostanze poco chiare durante un fermo di polizia, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969. L'Espresso il 15 gennaio 2009. Giuseppe Pinelli era un ferroviere anarchico milanese, che da ragazzo aveva partecipato alla Resistenza. Negli Anni Sessanta, svolgeva attività politica con gli anarchici milanesi, in particolare con il Circolo Ponte della Ghisolfa, luogo di animazione storico dell'anarchismo in città. Dopo lo scoppio di una bomba in una sede della Banca nazionale dell'Agricoltura nel centro di Milano (Strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969), Pinelli venne fermato insieme ad altri anarchici milanesi. La Questura di Milano riteneva infatti che l'attentato potesse avere una matrice anarchica, e aveva accusato in particolare Pietro Valpreda (che poi verrà assolto).
Il 15 dicembre, tre giorni dopo la strage, Pinelli si trovava negli uffici della questura milanese, al quarto piano di via Fatebenefratelli, dove si era recato da solo - con il proprio motorino - convocato dal giovane commissario Luigi Calabresi, che Pinelli già conosceva. Nell'ufficio di Luigi Calabresi, Pinelli fu interrogato per ore dallo stesso commissario e da altri ufficiali, tra cui Antonino Allegra, responsabile dell'ufficio politico della questura. Il questore di Milano era Marcello Guida, già direttore del confino politico cui venivano condannati gli antifascisti a Ventotene. Nella serata del 15 dicembre, attorno a mezzanotte, il corpo di Pinelli precipitò dalla finestra e si schiantò nel cortile della questura.
Ma quale fu la reale dinamica di quella morte? Cadde? Fu buttato? si suicidò?
In una prima fase la polizia riferì che Pinelli si era suicidato, gettandosi dalla finestra. Più avanti cambiò versione, parlando di una caduta accidentale. Successivamente a una serie di inchieste e dopo la riesumazione del cadavere, la magistratura stabilì che Pinelli era caduto per un "malore attivo", cioè si era avvicinato alla finestra e a seguito di un malore aveva perso l'equilibrio ed era precipitato. Una violenta campagna di stampa dell'estrema sinistra, e in particolare di "Lotta Continua", indicò il commissario Luigi Calabresi come assassino di Pinelli.
Il 15 maggio 1972 Luigi Calabresi venne ucciso a Milano. Nel luglio del 1988 la Procura di Milano arrestò quattro ex membri di Lotta Continua: Adriano Sofri, Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Leonardo Marino. L’accusa si basava sulle parole di Marino, che sosteneva di aver svolto la funzione di autista in quell'omicidio, mentre Bompressi sarebbe stato l'esecutore materiale, Sofri e Pietrostefani (che di Lotta Continua erano i dirigenti) i mandanti. Dopo diversi processi, nel 2000, la Cassazione ha reso definitiva l'ultima sentenza della Corte d'Assise di Appello che aveva condannato Bompressi, Pietrostefani e Sofri a 22 anni (per Marino 11 anni, con prescrizione). Attualmente Adriano Sofri si trova in detenzione domiciliare per motivi di salute. Bompressi è stato graziato da Napolitano. Pietrostefani vive in Francia ed è ufficialmente latitante.
Piazza Fontana, quando morì Pinelli, in questura c’erano i depistatori dei servizi segreti. Le manovre per incastrare l’anarchico e proteggere i terroristi neri. L’interrogatorio fatale con almeno nove agenti segreti. Il poliziotto «graffiato». E l’appuntato in ambulanza con il moribondo. Un libro-inchiesta riapre il mistero della «diciottesima vittima» della strage di piazza Fontana. Paolo Biondani il 13 giugno 2019 su L'Espresso. Nella notte in cui morì Pinelli, in questura a Milano non c'erano solo i normali poliziotti. C'era anche uno squadrone di agenti e alti dirigenti del servizio segreto civile dell'epoca, l'Ufficio affari riservati, inviati da Roma con una missione di depistaggio: incastrare gli anarchici milanesi per la strage di piazza Fontana e per l'intera catena di attentati esplosivi del 1969, che inaugurarono gli anni del terrorismo politico in Italia. Una pista rivelatasi falsa, totalmente demolita dalle indagini e dai processi che negli anni successivi hanno comprovato le responsabilità dei veri criminali di opposta matrice ideologica: l'estrema destra eversiva. In questi tempi di leader politici e ministri che sdoganano movimenti apertamente neofascisti, giovani che si lasciano irretire da ex terroristi neri condannati per banda armata, neonazisti che tornano alla violenza e inneggiano al razzismo, anarchici delinquenti che spediscono pacchi-bomba per ferire o uccidere, la storia dell'innocente ferroviere Giuseppe Pinelli, arrestato ingiustamente per un eccidio infame e morto misteriosamente dopo un interrogatorio costellato di accuse false, andrebbe spiegata nelle scuole, ai tanti ragazzi che poco o nulla sanno di piazza Fontana e delle troppe vittime dirette e indirette degli anni di piombo. A raccontare tutto quello che si sa, oggi, sulla «diciottesima vittima» della prima strage nera è un libro di Paolo Brogi (“Pinelli, l'innocente che cadde giù”, editore Castelvecchi), giornalista e saggista che ha lavorato per anni al Corriere della Sera: un lavoro di ricostruzione che non azzarda improbabili scoop storici, ma mette in ordine fatti documentati, testimonianze inedite, carte inoppugnabili, recuperate negli archivi di polizie e tribunali. Che offrono poche, solide certezze: non tutta, ma almeno un pezzo di verità e di giustizia. Per i lettori più giovani, conviene partire dall'inizio. Giuseppe Pinelli è un ferroviere milanese che viene arrestato il 12 dicembre 1969, poche ore dopo la strage di Piazza Fontana (17 morti, 88 feriti), nella stessa retata che colpisce decine di innocenti, tutti poi scagionati. Un poliziotto onesto oggi racconta che «per fare numero, ci dissero di fermare anche i barboni». Pinelli viene trattenuto illegalmente per tre giorni in questura, senza avvocato, senza alcuna autorizzazione dei giudici. Tra il 15 e 16 dicembre, poco dopo la mezzanotte (ma anche l'ora è controversa), alla fine di un lunghissimo interrogatorio, precipita da una finestra della questura e muore. La notte stessa il questore Marcello Guida, in una conferenza stampa improvvisata, dichiara che Pinelli si sarebbe lanciato dalla finestra «con un balzo felino» perché era colpevole: «Era un anarchico individualista, il suo alibi era crollato, si è visto perduto: è stato un gesto disperato, una specie di auto-accusa». Queste parole, oggi, risultano totalmente false: Pinelli non era colpevole, non si è suicidato, non era neppure un anarchico individualista, ma un pacifista di famiglia partigiana, amico del primo obiettore di coscienza cattolico che rifiutò le armi e il servizio militare.
Quella notte in Italia nasce anche la prima squadra di giornalisti d'inchiesta capaci di mettere in dubbio e contraddire la versione ufficiale. Il libro cita maestri oggi scomparsi come Marco Nozza e trascrive per intero la storica cronaca di Camilla Cederna, grande penna dell'Espresso, che quella notte fu «tirata giù dal letto da Giampaolo Pansa e Corrado Stajano». Giornalisti straordinari, di testate diverse, che lavorano insieme e firmano un libro-inchiesta profetico, «Le bombe di Milano», il primo a parlare di stragi nere. Per anni gli apparati dello Stato continuano invece ad incolpare solo gli anarchici. Alcuni sono in carcere già da prima della strage, con l'accusa, anch'essa falsa, di aver organizzato gli attentati esplosivi del 25 aprile 1969 in stazione e alla fiera di Milano. Lo stesso Pinelli, nel fatale interrogatorio, si vede contestare di aver collocato le bombe precedenti, nascoste su otto treni nell'agosto 1969. Pietro Valpreda, arrestato come stragista la mattina del 15 dicembre, resta in carcere per più di tre anni, fino all'approvazione della legge sui termini massimi di carcerazione preventiva, che porta il suo nome. È l'unico imputato ad essere assolto già in primo grado.
La pista anarchica frana solo a partire dal 1971, quando a Castelfranco Veneto si scopre un arsenale di armi ed esplosivi del gruppo nazi-fascista guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura. La svolta fa riemergere altre prove fino ad allora ignorate, come le intercettazioni eseguite da un ottimo poliziotto di Padova (nel frattempo rimosso) e la testimonianza di un insegnante veneto, Guido Lorenzon, a cui lo stesso Ventura aveva confessato la strage del 12 dicembre 1969, pochi giorni dopo, organizzata «per favorire un golpe». A quel punto le indagini passano a Milano, dove il giudice Gerardo D’Ambrosio, con i pm Luigi Fiasconaro ed Emilio Alessandrini (poi ucciso dai terroristi rossi di Prima Linea), raccolgono prove gravissime contro quella cellula veneta di Ordine nuovo. L’inchiesta milanese accerta, tra l'altro, che Freda ha acquistato una partita di «timer a deviazione» identici a quelli della strage (e delle altre 4 bombe del 12 dicembre '69). Nel 1973, dopo l’arresto (e prima della provvidenziale fuga in Argentina), Ventura arriva a confessa tutti gli altri attentati esplosivi del 1969, tranne piazza Fontana. Quindi è il gruppo Freda che ha collocato le bombe in stazione, in fiera e sui treni delle vacanze, per cui furono invece incarcerati ingiustamente gli anarchici milanesi.
Quando i magistrati milanesi scoprono i rapporti tra i terroristi neri e il servizio segreto militare (il famigerato Sid), la Cassazione sposta il processo a Catanzaro. Dove Freda e Ventura, dopo la condanna in primo grado, vengono assolti per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi) per la strage, ma condannati con sentenza definitiva per gli altri 17 attentati del 1969. Compresi quelli attribuiti falsamente a Pinelli. Nei successivi processi di questi anni, da Milano a Brescia, le sentenze dichiarano dimostrata, grazie a nuove prove, la responsabilità storica anche per piazza Fontana degli stessi terroristi neri Freda e Ventura, non più processabili perchè ormai assolti.
Sulla morte di Pinelli, invece, non c'è ancora giustizia. Il libro di Brogi ricostruisce però importanti pezzi di verità. Partendo da un verbale dimenticato, ritrovato nell'archivio di Stato, si scopre che in questura a Milano, durante il fatale interrogatorio, c'erano almeno nove agenti segreti, guidati da Silvano Russomanno, un ex fascista repubblichino diventato il numero due dell'Ufficio affari riservati. Sono gli stessi agenti che con la «squadra 54» hanno creato la falsa pista anarchica. Ed è Russomanno in persona che ha raccolto i falsi elementi contestati a Pinelli, nel vergognoso tentativo di incastrarlo per le bombe sui treni. Il saggio rilegge criticamente tutte le indagini sulla morte dell'anarchico. La prima inchiesta che insabbiò il caso, sposando la tesi del suicidio del colpevole, senza neppure ordinare l'autopsia. La preziosa istruttoria in tribunale, in un processo per diffamazione. E l'indagine successiva del giudice D'Ambrosio, che a distanza di anni arrivò a dimostrare con certezza i primi pezzi di verità: Pinelli non era colpevole di nessun attentato; e non si è suicidato. Dopo la vedova Licia, che firmò un famoso libro con Piero Scaramucci (“Una storia quasi soltanto mia”), in questo saggio parlano per la prima volta le figlie di Pinelli, Claudia e Silvia. Che raccontano la tragedia familiare vissuta da bambine. L'emozione per l'invito al Quirinale per il “giorno della memoria”, nel 2009, quando l'allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, inserisce anche Pinelli tra le vittime del terrorismo, mentre la vedova stringe la mano ai familiari di Luigi Calabresi: il commissario di polizia che fu ucciso da un killer rosso per ordine dei capi di Lotta Continua, proprio perché sospettato (ingiustamente: non era neppure nella stanza) della morte dell'anarchico. Claudia Pinelli rivela anche una sofferta confidenza di D'Ambrosio. Sempre nel 2009, a una commemorazione per piazza Fontana, l'ex giudice le si avvicina per chiederle scusa a nome dello Stato: «Mi devo giustificare con lei. Ho fatto quello che ho potuto. Sono stato il primo magistrato a fare i rilevamenti, tre anni dopo, ma avevo tutti contro».
Il libro contesta il verdetto finale di D'Ambrosio, che in mancanza di qualsiasi elemento per parlare di omicidio, dopo aver escluso il suicidio, ipotizza una caduta involontaria di Pinelli, stremato da tre notti insonni con arresti illegali e interrogatori truccati. Una tesi poi ridicolizzata dall'ultrasinistra inventando l'espressione «malore attivo», mai usata dal giudice. Di certo, nelle diverse indagini sul caso Pinelli, i testimoni continuano a cambiare versione dei fatti. Gli unici agenti identificati come partecipanti all'interrogatorio di Pinelli sono un carabiniere e quattro poliziotti (all'epoca erano tutti militari). Nella prima indagine dichiarano in coro di aver visto Pinelli «che con un balzo improvviso si gettava dalla finestra», come sostenevano i loro capi. Nelle istruttorie successive, però, quattro su cinque ritrattano, finendo per ammettere di non aver assistito al volo dell'anarchico. Solo un poliziotto insiste di averlo visto lanciarsi dalla finestra. E giura persino di aver cercato di fermarlo, afferrandolo per una gamba, tanto da subirne «un graffio». Uno strano contatto fisico, di cui l'agente parla per la prima volta davanti a D'Ambrosio, il temuto giudice di piazza Fontana, sostenendo di essersi ricordato di quell'escoriazione solo poco prima dell'interrogatorio, anni dopo i fatti, discutendo con un altro collega a sua volta convocato come teste, che avrebbe quindi potuto parlarne per primo. I nuovi elementi sui depistaggi, emersi solo a partire dagli anni Novanta, portano Brogi a rivalutare soprattutto la testimonianza di Pasquale Valitutti, l'unico anarchico rimasto nello stanzone dei fermati durante tutto l'interrogatorio di Pinelli. Valitutti testimonia fin dall'inizio di aver «sentito chiaramente, circa un quarto d'ora prima della morte di Pinelli, un insieme di rumori che mi hanno fatto pensare: “Stanno picchiando Pino”». E aggiunge che, subito dopo il fattaccio, mentre in questura scoppiava il caos, un brigadiere di polizia «molto alterato» (lo stesso che poi parlerà del “graffio”) gli urlò senza motivo che «Pinelli era un delinquente» e «si era buttato perché coinvolto». Già allora l'anarchico testimonia che a quel poliziotto «si aggiunsero quattro o cinque persone in borghese, a me non note, che mi portarono nella stanza seguente». Col senno di poi, è un chiaro riferimento agli agenti segreti della squadra depistaggi, che dopo decenni di silenzio hanno poi confermato di essersi «installati» in questura subito dopo la strage. Con l'obiettivo dichiarato di «accusare gli anarchici», alimentando ad ogni costo la falsa pista preconfenziata «dai vertici dei servizi a Roma».
Un'altra catena di stranezze evidenziata nel libro è la reazione degli agenti della questura al preteso suicidio (oppure all'ipotetica caduta involontaria). Dagli atti risulta che solo un carabiniere si precipita nel cortile, dove Pinelli è ancora agonizzante. Tutti i poliziotti (come gli agenti segreti di cui per anni si ignora perfino la presenza) restano invece nei loro uffici in questura, senza curarsi delle condizioni della vittima. Eppure, dopo l'arrivo degli infermieri, un appuntato di fiducia dei capi s'infila nell'ambulanza con il ferito gravissimo. Ed entra addirittura nella sala operatoria dell'ospedale, dove resta fino alla morte di Pinelli. Il libro riconosce che a tuttoggi non è emerso alcun riscontro oggettivo all'ipotesi di un omicidio o di un pestaggio alla Cucchi, ma conclude che troppi fatti anomali, come l'assurdità di mandare un agente in sala operatoria a sorvegliare un moribondo, continuano a sollevare interrogativi inquietanti: «Perché tutto ciò? Cosa si temeva che dicesse Giuseppe Pinelli?»
Pinelli me l'hanno ucciso mille volte. La tragedia. Le "bugie dei processi". Le difficoltà della sua famiglia. Parla la vedova dell'anarchico Colloquio con Licia Pinelli. Chiara Valentini il 15 gennaio 2009 su L'Espresso. Non è facile avvicinare Licia Rognini. Da quella notte di quasi quarant'anni fa, quando suo marito, il ferroviere anarchico Pino Pinelli, era volato giù dal quarto piano della Questura di Milano, ha sempre scelto di parlare pochissimo. Ma il rumore che ancor prima di arrivare in libreria ha provocato il libro di Adriano Sofri anticipato da 'L'espresso' ('La notte che Pinelli', Sellerio) l'ha convinta. Di quelle vicende drammatiche che hanno cambiato per sempre la sua vita d'altra parte Licia Pinelli non ha mai smesso di occuparsi. Attiva e lucidissima a 81 anni compiuti (ma ne dimostra dieci di meno), nella sua casa dietro Porta Romana a Milano sta scannerizzando la montagna degli atti dei vari procedimenti giudiziari "perché la carta cominciava a disfarsi e invece la memoria deve restare". Ma va anche a scuola di yoga, si occupa dei quattro nipoti che ha avuto dalle figlie Claudia e Silvia, bambine di 8 e 9 anni al momento della tragedia. E con un'amica scrive inaspettatamente piccoli trattati di astrologia, quasi una parentesi nella severità della sua vita.
Signora Licia, Sofri ha ricostruito puntigliosamente la vicenda di suo marito sulle carte giudiziarie spiegando, queste sono le sue parole, "è il debito che pago alla memoria di Pinelli". Pensa che ce ne fosse bisogno?
"Molto probabilmente è un lavoro utile. Tanti, da Camilla Cederna a Marcello Del Bosco ad altri l'avevano fatto negli anni '70. Io stessa ne avevo parlato in un libro scritto nell'82 con Piero Scaramucci che è da tempo introvabile. Ma rivedere tutto quel che è successo con gli occhi di oggi, mostrando le contraddizioni dei vari processi, può servire. La morte di mio marito, a 40 anni di distanza, è una ferita aperta, un'ingiustizia che deve essere riparata".
Crede che sia possibile?
"Ancora oggi mi è difficile parlarne. Quel che ho vissuto mi ha fatto diventare dura, diffidente. Non sopporto i bugiardi, gli ipocriti, le versioni di comodo. Ma nonostante tutto spero che qualche margine ci sia ancora. Sono troppe le bugie di quei processi, le contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che archivia il fatto come morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio e D'Ambrosio che conclude per il “malore attivo”. Non posso credere che questa tragedia sia sepolta senza una verità".
Pensa che Sofri, che sta scontando una condanna come mandante dell'omicidio del commissario Calabresi, sia la persona più adatta?
"Non ho mai creduto alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche come ispiratori di quel delitto. Sofri non l'ho mai conosciuto di persona, ma anni fa ho risposto a una sua lettera arrivata dal carcere appunto dicendogli questo. Non so neanche se poi gliel'avevano recapitata".
Alla fine del suo libro è Sofri stesso, che pure si è sempre dichiarato innocente, ad assumersi nuovamente una corresponsabilità morale di quell'omicidio per la campagna di Lotta continua contro il commissario.
"È mia convinzione che i responsabili vadano cercati altrove. So che è un'opinione poco condivisa, ma credo che Calabresi sia stato ammazzato perché non potesse più parlare, come tanti altri che avevano avuto a che fare con la strage di piazza Fontana".
Qualcuno ha osservato che dopo quarant'anni potrebbe trovare una pacificazione con la famiglia Calabresi, incontrare quell'altra vedova.
"Potrebbe anche darsi".
Che cosa ha provato quando ha saputo della morte del commissario?
"Per me era stato come se mettessero una pietra sopra la ricerca della verità. Ma a caldo avevo avuto anche una reazione emotiva, smarrimento e paura per me e le mie figlie. Non ci potevo credere, non volevo affrontare un'altra tragedia, essere bersagliata di nuovo dalle telefonate, dalle lettere anonime. Pensi che proprio quel giorno, il 17 maggio 1972, a Milano si doveva presentare a Palazzo Reale un quadro di Enzo Baj con la caduta di mio marito dalla finestra della Questura. Ovviamente non se ne fece più niente".
In quegli anni era riuscita a ritrovare un po' di normalità quotidiana?
"Non è stato facile. Per sfuggire all'assedio della stampa ho dovuto cambiare casa e mettere le bambine in una nuova scuola. Eravamo una famiglia di sole donne, noi tre più mia madre e una gatta, che cercavano di far barriera contro le ostilità esterne".
Che cosa l'aveva più colpita?
"C'era stato il tentativo di infangarmi per rendermi meno credibile. Il giudice Caizzi, invece di cercare la verità mi aveva chiesto se avevo degli amanti. Mia suocera poi era stata fermata per strada da uno sconosciuto che le aveva detto: 'Lo sa che sua nuora quella sera era con un altro uomo?'".
Ma aveva anche molte persone che la sostenevano. Pinelli era diventato un simbolo.
"Sì, mi stavano vicino i vecchi amici e poi erano arrivate persone nuove, di un ambiente diverso, come gli avvocati, come Camilla Cederna. Dopo la sua morte è stata volutamente dimenticata, non le hanno perdonato di aver scritto con tanta maestria di Pinelli e di piazza Fontana".
Dario Fo ha raccontato la storia di suo marito in un testo grottesco, "Morte accidentale di un anarchico", che ha contribuito a fargli assegnare il Nobel e che è ancor oggi uno dei lavori più rappresentati al mondo. Si è mai chiesta perché?
"Perché non è una vicenda solo italiana. L'ingiustizia e gli abusi del potere ci sono dappertutto".
Nel libro Sofri ricostruisce i tre giorni di suo marito in questura. Lei che cosa ricorda?
"Fino alle ultime ore non ero molto preoccupata. Pino aveva telefonato più volte per rassicurarmi, aveva una voce calma. Erano anche venuti i poliziotti a frugare in casa e si erano accaniti su una delle tesi di laurea che battevo a macchina per gli studenti della Cattolica. Credo parlasse di una rivolta contro lo Stato Pontificio nelle Marche, ma loro l'avevano presa per un documento sovversivo".
Da chi aveva saputo del volo dalla finestra?
"Da due giornalisti, arrivati all'una di notte. Mi ero precipitata a chiamare in Questura, chiedendo di Calabresi. Me l'avevano passato subito. Chiesi cos'era successo e perché non mi avevano avvertito. 'Sa signora, abbiamo molto da fare', era stata la risposta. La verità è che intanto il questore Guida stava preparando la famosa conferenza stampa dove disse che Pinelli si era ucciso perché schiacciato dalle prove. Il 28 dicembre l'avevo querelato per diffamazione. Ma anche se intanto avevano dovuto ammettere che Pinelli non era colpevole, Guida era stato assolto".
'Le ultime parole' è il titolo di uno dei capitoli del libro di Sofri. Pensa che suo marito abbia cercato di dire qualcosa prima di morire?
"Non ne ho nessuna prova. Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera, che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici. Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta".
Sofri conclude il suo lavoro rispondendo con tre semplici parole, "non lo so", alla domanda su come è morto Pinelli. E lei cosa risponde?
"L'ho detto anche ai giudici che me l'hanno chiesto, ne sono così convinta che è come se l'avessi visto con i miei occhi. L'hanno colpito, l'hanno creduto morto e l'hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che era in quella stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di sperarlo".
La morte di Ivano Toniolo porta con sé i segreti di Piazza Fontana. Con lui se n’è andato l’ultimo grande testimone delle stragi impunite che hanno insanguinato il nostro Paese tra il 1969 e i primi anni Ottanta. L'ordinovista padovano da tempo viveva in Angola, dove è deceduto per febbre malarica senza essere mai stato interrogato nonostante gli appelli in tal senso dell'allora Presidente della Repubblica Napolitano. Andrea Sceresini l'11 dicembre 2016 su L'Espresso. Nessuno sa, con esattezza, che cosa abbia fatto negli ultimi quarant’anni. Neppure i magistrati, che pure, dopo le recenti rivelazioni sul suo conto, non lo hanno mai cercato. E ormai è troppo tardi: Ivano Toniolo è deceduto in Angola circa un anno fa – ironia della sorte - proprio a ridosso del 12 dicembre, l’anniversario della strage di piazza Fontana. La data esatta non è chiara, così come non lo sono molti particolari della vita di questo misterioso personaggio, il cui nome, probabilmente, risulterà ignoto ai più. Eppure, se avesse parlato, Toniolo avrebbe potuto forse fare chiarezza su una delle pagine più oscure e drammatiche della storia repubblicana: l’eccidio del 12 dicembre 1969 presso la Banca nazionale dell’agricoltura. Era il maggio del 2000, quando in un’aula di Assise di Milano, durante il primo grado dell’ultimo processo sulla strage, l’ex ordinovista padovano Gianni Casalini ammise clamorosamente che gli attentati ai treni dell’8 e 9 agosto 1969 – considerati dalla magistratura come la “prova generale” della strage di piazza Fontana – erano stati opera sua e dei suoi camerati. Casalini stesso aveva partecipato al collocamento di due ordigni all’interno di altrettanti convogli in sosta presso la Stazione Centrale di Milano (uno dei quali era esploso, pur non causando vittime). Casalini aggiunse spontaneamente un altro particolare importante: colui che lo aveva arruolato per l’operazione, e che fisicamente aveva recuperato l’esplosivo e innescato le bombe, era proprio Ivano Toniolo, il “duro” della cellula nera guidata da Franco Freda e Giovanni Ventura, che la Cassazione avrebbe indicato, nel 2005, come il “gruppo eversivo” responsabile dell’eccidio del 12 dicembre. Padovano, classe 1946, figlio di una dirigente locale dell’Msi, amico fraterno di Franco Freda, Ivano Toniolo era considerato un uomo d’azione. Già militante della Giovane Italia, durante gli anni dell’università si era spostato verso posizioni sempre più estreme, aderendo poi alla cellula padovana di Ordine Nuovo, che di lì a poco avrebbe abbracciato lo stragismo. La grande svolta – stando alle ricostruzioni della magistratura – sarebbe avvenuta durante una riunione riservata che si tenne a Padova il 18 aprile 1969, presenti Freda, Ventura, il bidello neofascista Marco Pozzan, Toniolo e due misteriosi personaggi arrivati da Roma, le cui identità non sono mai state accertate: in quell’occasione, gli ordinovisti patavini pianificarono i primi attentati dinamitardi che sarebbero culminati, otto mesi più tardi, nell’esplosione di piazza Fontana.
L’incontro – secondo quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche dell’epoca, i cui contenuti sono stati poi confermati da Gianni Casalini – si sarebbe svolta proprio a casa di Toniolo. “Dopo l’udienza del 2000 nessuno si è più occupato di Casalini - racconta il giudice Guido Salvini, autore dell’ultima istruttoria sulla strage -. Nel 2009 egli mi ha scritto una lettera, sono andato a trovarlo diverse volte a Padova e mi ha raccontato molte altre cose. Ivano Toniolo, a quanto riferito dal suo ex camerata, era un elemento operativo di primo piano, gestiva uno degli arsenali del gruppo e aveva partecipato alla strage, o quantomeno sapeva ciò che era successo. Sin da allora avevo scritto alla Procura di Milano, nella persona del dottor Spataro, invitandola ad attivarsi per sentire Toniolo, e lo stesso aveva fatto il difensore delle vittime l’avvocato Federico Sinicato. Non vi fu nessuna risposta. Eppure per trovarlo sarebbe bastato fare una telefonata al Consolato in Angola. Proprio nel 2009 il presidente Napolitano aveva esortato i magistrati a cercare ancora ogni “ogni elemento di verità”: un invito che purtroppo è rimasto del tutto inascoltato”. L’ipotesi del coinvolgimento di Toniolo nella strage è stata recentemente confermata dal generale Gian Adelio Maletti, ex numero due del Sid, il servizio segreto militare, condannato in via definitiva per i depistaggi alle indagini e tuttora latitante in Sudafrica. “Il commando stragista era composto da quattro persone - ha dichiarato in un’intervista del 2009 – Io conosco dei nomi, anche di gente mai indagata. Quello di Toniolo è uno di essi, e sto parlando di chi partecipò attivamente all'organizzazione dell'iniziativa”. Toniolo fu interrogato in un’unica occasione, nel 1972, dal giudice Giancarlo Stiz, che per primo - quando gli unici indagati per la strage erano ancora gli anarchici - intuì l’esistenza di una “pista nera”. Proprio all’indomani di quell’interrogatorio, Toniolo lasciò precipitosamente l’Italia. Prima si rifugiò nella Spagna franchista, poi in Angola, dove ha trascorso indisturbato il resto della sua vita. Quali sono le ragioni di una fuga così precipitosa? Quali segreti custodiva il “duro” del gruppo padovano di Ordine Nuovo?
Probabilmente non lo sapremo mai. Con Toniolo se n’è andato, forse, l’ultimo grande testimone delle stragi impunite che hanno insanguinato il nostro Paese tra il 1969 e i primi anni Ottanta (l’unico bombarolo nero reo confesso e condannato in via definitiva dalla magistratura è stato l’ordinovista Vincenzo Vinciguerra, autore, nel 1972, dell’attentato di Peteano). Durante gli anni del suo “esilio” angolano, Toniolo era riuscito a edificare intorno a sé un vero e proprio sistema di protezione. Aveva sposato una donna del posto, nipote di un importante esponente dell’Mpla, il movimento fino-cubano che da quarant’anni governa il Paese, e, a quanto sembra, aveva persino cambiato cognome. “E’ un uomo molto schivo, soprattutto con i connazionali – ci aveva rivelato qualche anno fa uno dei pochi imprenditori italiani residenti in pianta stabile a Luanda -. Sappiamo che è fuggito dall’Italia per ragioni politiche, ma la nostra convinzione era che avesse militato in qualche formazione dell’estrema sinistra, non certo in Ordine Nuovo”. Non deve essere stato facile farla franca per una vita intera. Eppure Ivano Toniolo ce l’ha fatta: il decesso – a quanto apprendiamo – è avvenuta “per febbri malariche”. Non sappiamo se abbia lasciato qualcosa di scritto, né dove si trovi la sua tomba. Quello che è certo, è che nessuno potrà più interrogarlo.
Strage di Piazza Fontana, Valpreda era innocente: 18 anni di ingiustizie e tormenti. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Dicembre 2019. 1969 Archivio Storico Pietro Valpreda (Milano, 29 agosto 1933 – Milano, 6 luglio 2002) è stato un anarchico, scrittore, poeta e ballerino italiano, noto per il suo coinvolgimento nel procedimento giudiziario per la strage di Piazza Fontana, dal quale uscì poi assolto. Come per un effetto ottico, quando ho visto le immagini dell’arresto di Massimo Bossetti, lui come un animaletto ferito, impaurito, e i suoi inseguitori che gridavano «prendilo prendilo!» mi è tornato alla mente un viso di tanti anni fa, quello di Pietro Valpreda. Storie e persone molto diverse. Se non altro perché uno, forse non colpevole, è stato condannato all’ergastolo, l’altro, sicuramente innocente, è stato assolto. Alla fine. Dopo diciotto anni di ingiustizie e tormenti. Un concetto non riesce a staccarsi dai mei pensieri: capro espiatorio. L’analogia qui comincia e qui finisce. L’Italia della fine anni sessanta, quella con la democrazia cristiana sempiterna e anche con il movimento degli studenti e l’autunno caldo, fanno da sfondo alla sorte di un ragazzo di ringhiera un po’ anarchico e un po’ baùscia, cioè fanfarone, che sognava di fare il ballerino e a causa di un morbo che gli rallentava i movimenti si era dovuto adattare a confezionare lampade in stile Liberty, mettendo insieme pezzetti di vetro colorati. Una vita niente di che, che non gli sarà più restituita, dopo quel accadde a Milano in una bella piazza dietro al Duomo, che si chiamava piazza Fontana ed era sempre bagnata da tanti zampilli. Era il 12 dicembre del 1969, ore 16,30 quando ancora molti impiegati sono negli uffici, tranne chi lavora in banca, perché gli istituti di credito chiudono prima. In genere, tranne quel giorno alla banca dell’agricoltura di piazza Fontana, quando scoppiò la bomba e nella banca c’era tanta gente. La strage di piazza Fontana cambiò la storia di tutti noi, di noi giovani e del paese intero. E soprattutto quella del giovane anarchico Pietro Valpreda. Ci eravamo conosciuti proprio lì in quella piazza, così come ci si conosceva tutti, in quegli anni. Il 28 novembre del 1968 c’era stata una grande manifestazione di studenti, che al termine era sfociata proprio lì, dove c’era un vecchio albergo, l’hotel Commercio, da tempo disabitato e la cui proprietà da un paio di anni era stata rilevata dal Comune. Il Commercio quel giorno fu occupato, nonostante il dissenso del Movimento studentesco guidato da Mario Capanna che avrebbe preferito un’invasione simbolica di palazzo Reale. Lo stabile divenne da quel momento una sorta di casa dello studente per i tanti ragazzi che venivano a Milano a frequentare l’università e a lavorare. L’occupazione ebbe una forte componente anarchica, di cui anch’io facevo parte. Quando, con una sorta di piccolo golpe estivo, il 19 agosto 1969, il Commercio fu sgomberato e immediatamente raso al suolo, ebbi persino un piccolo momento di gloria. Ma la mia mamma pianse mentre era al mare con le amiche aprendo l’Espresso con le sue lenzuolate nel vedere un’enorme foto che mi ritraeva seduta per terra con i lunghi capelli e il viso un po’ corrucciato mentre stringevo tra le ginocchia un megafono. L’immagine era stata scelta come simbolo dello sgombero di quel “covo di anarchici”. Le ruspe avevano annientato quello che era stato definito “un pugnale nel cuore della città” e che aveva dato parecchio fastidio alla giunta di sinistra del sindaco Aniasi. Piero (nessuno di noi l’ha mai chiamato Pietro) era un anarchico vero e lo è stato fino all’ultimo giorno della sua vita. Non è mai stato serioso né intransigente come spesso erano all’epoca molti militanti politici. Lo si poteva incrociare all’hotel Commercio come al circolo della Ghisolfa o in giro per librerie. Era protetto da una famiglia a forte componente femminile molto solidale, il che non gli gioverà, quando tutti i suoi parenti saranno incriminati per falsa testimonianza perché avevano osato confermare il suo alibi quando fu arrestato e accusato di aver messo la bomba. La sua prima immagine dopo l’arresto è quella di un uomo stravolto e anche stupito, quando, davanti a una selva di flash, un fotografo lo aveva apostrofato in modo crudele: “Alza la capoccia, Mostro!”. Era stato battezzato. Ormai per tutti era il Mostro. Dopo l’occupazione del Commercio era andato a vivere a Roma. Ma la sua famiglia era sempre a Milano. E saranno proprio loro, facendogli sapere tramite un avvocato di una convocazione per una testimonianza davanti a un giudice istruttore per un volantino anticlericale, a farlo decidere ad arrivare nel capoluogo lombardo proprio per il 12 dicembre. La convocazione in realtà era per il 9, inoltre la sorella di Valpreda che l’aveva ricevuta e firmata, non aveva saputo specificare di che cosa si trattasse, tanto che lui, un po’ spaventato, si era rivolto a un legale in quanto temeva di esser stato incriminato per vilipendio al papa. La sua preoccupazione era tutta lì, un normale pensiero da anarchico anticlericale. Ma il clima era già pesante, poche ore dopo lo scoppio della bomba alla banca dell’agricoltura di Milano. I 17 morti e gli 88 feriti erano stati immediatamente messi in conto al mondo anarchico, anche se gli inquirenti in realtà non avevano in mente altri se non un mandante illustre, niente di meno che l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Una pista che furono costretti ad abbandonare poi in gran velocità. Ma il vestito cucito addosso a Piero Valpreda ha avuto per un certo periodo successo proprio perché lui era un anarchico che non veniva difeso neanche dalla sinistra. Tanto che neanche il quotidiano comunista L’Unità gli riconobbe la dignità del suo essere “compagno”, visto che nella foto in cui lui appariva con il pugno chiuso il braccio veniva regolarmente moncato dalla censura di partito. Non fa parte del nostro album di famiglia, dicevano quei tagli nelle foto. Mentre qualcuno metteva la bomba, Piero era a casa di zia Rachele, una prozia in realtà, quella che di più lo ha difeso con le unghie e con i denti. Anche perché era lei il suo alibi più solido. Il nipote, mentre in piazza Fontana scoppiava quell’inferno che nessuno di noi potrà mai più dimenticare, era proprio nella sua casa, a letto e mezzo influenzato. Non era lui l’uomo con la valigetta nera di cui parlò il tassista Rolandi e che sarebbe salito sulla sua auto in piazza Beccaria per percorrere cento metri e poi compiere l’attentato. Ammesso che quella persona sia mai davvero salita su quell’auto gialla. Ma i magistrati di Roma e Milano che si palleggiarono l’inchiesta, prima fecero una ridicola ricognizione di persona e infine costrinsero il tassista a una testimonianza a futura memoria prima della morte. Per poter incastrare Pietro Valpreda. C’è da domandarsi perché una persona così poco importante agli occhi delle istituzioni sia stata presa di mira in modo così pervicace. I casi sono solo due: o lui è stato solo un capro espiatorio preso per caso, oppure, visti i numerosi depistaggi e le frequenti smemoratezze che colpirono gli uomini delle istituzioni al processo di Catanzaro, altri, i veri responsabili, furono tenuti nascosti e protetti. Ma questo non possiamo saperlo perché per la magistratura quella strage non ha avuto colpevoli. La mia amicizia con Piero Valpreda è nata qualche anno dopo, quando ero cronista giudiziaria al Manifesto ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che dal primo momento avevano creduto alla sua innocenza. Abbiamo svolto un lavoro certosino, giorno dopo giorno, sugli atti processuali, senza che nessun magistrato ci passasse le veline come si usa oggi. Abbiamo studiato e scarpinato, come si dice a Milano. Nel 1972 il Manifesto ha anche tentato la carta elettorale, candidandolo capolista a Roma e svolgendo una campagna elettorale appassionata (ho avuto di nuovo l’occasione di usare il megafono per gridare “Valpreda è innocente, la strage è di Stato!”), ma purtroppo abbiamo mancato il quorum. Piero è uscito da carcere grazie a una legge ad personam, con la quale si consideravano scaduti dopo un certo periodo i termini di custodia cautelare anche per i reati gravi come la strage. Ed è stato infine assolto al processo di Catanzaro e nei tre gradi di giudizio. In quegli anni era riuscito ad aprire un piccolo bar in corso Garibaldi, nella zona di Brera. Ed è stato lì, in quei giorni, che ho potuto conoscere meglio la persona, quello che era stato il suo pervicace ottimismo, ma anche le sue malinconie. Ero diventato un simbolo, diceva, mi hanno appiccicato addosso un’etichetta, ma dei miei sentimenti non importava niente a nessuno. Non aveva acrimonia. Raccontava la sua vita così, come se tutto fosse stato, in un modo assurdo, “normale”. I suoi sentimenti stavano in quel recinto di persona come le altre.Ma anche uno che sognava l’anarchia, la libertà, l’antiautoritarismo. Ero diventato ballerino, mi diceva, perché dopo la guerra ascoltavo la musica americana e mi ero messo a ballare il boogie-woogie. Il momento più emozionante, raccontava, era stata la nascita del figlio, che aveva voluto chiamare Tupac come un condottiero rivoluzionario peruviano. Piero Valpreda è morto a Milano nel 2002, nella sua modesta casa di corso Garibaldi. Negli ultimi tempi scriveva gialli in collaborazione con il giornalista Piero Colaprico. Un’attività imprevista e lontana da lui. Ma non dalla sua vita come gli era stata cucita addosso. Per caso o per complotto?
Paolo Virtuani per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2020. «Una cosa non l' ho mai raccontata: ho sempre stretto la mano a tutti coloro che me la porgevano, ma a tre persone mi sono rifiutato. Quando hanno avanzato la loro mano verso di me, la mia l' ho portata dietro la schiena. È stato il mio modo di dire "Non avete mai detto la verità, ma io la conosco e so il ruolo che avete avuto"». Nell' intenso incontro (a distanza per ragioni di Covid) con Aldo Cazzullo nell' ambito di BookCity Milano, Mario Calabresi ha svelato particolari inediti della sua vita e della genesi del suo ultimo libro, Quello che non ti dicono , incentrato sulla tragica vicenda di Carlo Saronio, rampollo dell' alta borghesia milanese e simpatizzante dei movimenti di sinistra più estremisti degli anni Settanta. Poi, da quelli che credeva compagni, rapito per finanziare la lotta armata e assassinato. L' appello di Calabresi ricorda il famoso «chi sa parli» di Otello Montanari, l' ex partigiano che nel 1990 invitò a raccontare i fatti più oscuri del dopoguerra, come ha sottolineato Cazzullo nel corso della video-intervista. La richiesta del figlio del commissario ucciso a Milano nel 1972 si rivolge alla «zona grigia», ai simpatizzanti - proprio com' era Carlo Saronio - che hanno consentito al terrorismo brigatista di proseguire fino agli anni Ottanta. «C' è chi dice che del terrorismo non si sanno ancora molte cose importanti. Penso invece che la verità storica sia presente, anche se mancano parti di quella giudiziaria», chiarisce Calabresi. «Ai processi è emerso un quadro preciso della parte stragista legata all' estrema destra e ad ambienti deviati dello Stato, e anche di quella legata alla sinistra extraparlamentare. È come avere di fronte un mosaico: da lontano si capisce il soggetto, quando ci si avvicina si nota che mancano delle tessere. Vorrei che queste tessere venissero ricomposte dai tanti che in quel periodo fiancheggiavano i terroristi». Secondo Calabresi a distanza di decenni permane un atteggiamento che non esita a definire omertoso. «Qualcuno a sinistra si è offeso perché pensa che l' omertà sia legata solo alla mafia. Io vorrei che i ragazzi di quella generazione, che ora sono dei nonni, uscissero dal loro silenzio. Penso che non abbiano mai voluto raccontare la verità per un motivo: hanno voluto difendere le loro carriere». L' accusa, per nulla velata, è di non essere stati in grado di assumersi le responsabilità di quanto avevano fatto in quegli anni di gioventù. «Alcuni hanno fatto carriera in aziende e nel mondo della comunicazione: come potevano spiegare che stavano dalla parte dei brigatisti a figli e nipoti? Si può anche non rivangare il passato, ma c' è un passaggio fondamentale - dice ancora Calabresi -: la violenza e il suo rapporto con la politica. La violenza ha causato distruzione e ha chiuso la possibilità di cambiamento sociale. Quella stagione ha liberato germi che vivono ancora oggi».
Resta una domanda: chi sono le tre persone alle quali si è rifiutato di stringere la mano?
«Per l' omicidio di mio padre sono stati condannati in quattro: il mandante morale, il capo del servizio d' ordine di Lotta continua - ancora latitante a Parigi -, chi ha sparato e chi ha guidato l' auto. Ma sappiamo anche chi ha acquistato le armi, chi le ha custodite, chi ha fatto i sopralluoghi, chi faceva il palo, chi ha seguito per giorni l' auto di mio padre. Questi non sono mai stati processati perché mancavano gli elementi. Ma non hanno nemmeno mai parlato. A tre di loro ho rifiutato la stretta di mano».
Giampiero Mughini per Dagospia il 16 novembre 2020. Caro Dago, davvero mica male quel che l’ex direttore di “Repubblica” Mario Calabresi ha raccontato ad Aldo Cazzullo via Skype in occasione della presentazione di un suo recente libro. E cioè che s’era trovato di fronte gente di rilievo in quello che è il suo mondo, l’editoria e la comunicazione, i quali gli porgevano la mano per salutarlo e lui che la sua mano se la teneva indietro perché lo sapeva benissimo che ciascuno di quei tre personaggi aveva avuto un suo ruolo (piccolo o grande che fosse) nell’assassinio di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano alla mattina del 17 maggio 1972 da due colpi di pistola sparatigli alla nuca e alle spalle da un militante di Lotta continua, l’allora venticinquenne Ovidio Bompressi. Voi conoscete i fatti. Che dopo un lungo e tormentatissimo processo sono stati condannati per quel delitto Adriano Sofri (reputato mandate morale di quell’azione), Giorgio Pietrostefani (il leader milanese dell’ala “dura” di Lotta continua che quell’azione la volle e la organizzò), Bompressi per avere sparato e Leonardo Marino per avere condotto l’auto da cui discese Bompressi per andare a uccidere. Giustizia è stata fatta? Non so quanti siano quelli di voi che pensano di no, nel senso che reputano che Lotta continua non c’entrasse nulla con quel delitto, immagino siano rimasti pochi e che abbiano una voce che s’è fatta afona. Per quanto mi riguarda io non sono affatto sicuro che Sofri sia stato davvero “il mandante” e non invece uno che quell’azione l’ha come seguita e approvata a distanza. Per tutto il resto è fuori di dubbio che quell’azione è stata il battesimo di sangue del terrorismo “rosso”, il punto di partenza di una storia dove tutto era possibile a cominciare dal togliere la vita all’avversario “di classe”. Sulla prima pagina del quotidiano “Lotta continua” apparve un editoriale in cui stava scritto che la classe operaia era stata messa di buonumore dall’assassinio di un commissario di polizia trentatreenne padre di tre figli. Resta che l’omertà generazionale su quella vicenda resta immane ed è esattamente su questa piaga che ha messo il dito Calabresi, il quale oltretutto ha incontrato di recente a Parigi un Pietrostefani giunto all’epilogo della sua avventura umana e che a questo punto deve avergli raccontato per filo e per segno com’era andata poco meno di cinquant’anni fa. Appunto. Com’era andata un’impresa di cui certo non erano soltanto quattro i protagonisti impegnati o corresponsabili dell’azione. A Milano era funzionantissimo il servizio d’ordine di Lotta continua, i cui dirigenti conosciamo per nome cognome e soprannome. Di certo alcuni di loro avevano studiato l’agguato, avevano studiato i tempi di uscita da casa ogni mattina del commissario Calabresi, avevano rincuorato Bompressi ad agire, avevano poi aiutato Bompressi e Marino a prendere il largo. Ho tra le mie carte la lettera anonima di un ex militante di Lotta continua che mi aveva fatto il nome e cognome di uno che s’era preso sulla sua moto Bompressi per riportarlo a Massa in modo da fargli avere un alibi. Quanti saranno stati quelli che in un modo o in un altro furono complici della messa a morte di Calabresi? Venti, forse di più. E siccome quelli di Lotta continua erano intellettualmente i più vitali della nostra furente generazione, nulla di strano che molti di loro siano ascesi alle vette del giornalismo e dell’editoria. Ebbene, è stata l’omertà generazionale la loro dea non la verità, o semmai una verità alla maniera di quella di Dario Fo, che ci ha costruito delle pièces di successo sul raccontare quanto e come Leonardo Marino (il pentito da cui partì l’indagine e i successivi processi) si fosse inventato tutto ma proprio tutto. Panzane inaudite quelle di Fo che hanno avuto larghissima cittadinanza nella mia generazione, panzane per le quali provo solo il massimo di disprezzo intellettuale di cui sono capace. Tutto questo l’ho scritto, raccontato, rievocato in un libro del 2009 che aveva per sottotitolo “l’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione”. Persone a me vicine si domandarono e mi domandarono perché mai avessi scritto un tale libro, com’è che avessi potuto mettere in dubbio l’innocenza assoluta di quelli di Lotta continua. In tutto e per tutto quel libro si guadagnò un magnifico (come sempre) pezzo di Aldo Cazzullo che l’allora direttore del “Corriere della Sera” richiamò in prima pagina. Null’altro. Non un club o un circolo che mi chiamasse a parlarne. Piuttosto alcune querele, poi tutte ritirate perché sapevano che in tribunale avrebbero avuto la peggio. Per il resto un silenzio di tomba, talmente d’acciaio era il muro dell’omertà generazionale, il muro della menzogna ideologica costruito a tutto spiano. Ha perfettamente ragione Calabresi junior. Ma possibile che a cinquant’anni di distanza non uno di quelli che c’erano e che seppero sorga a dire: “Sì, è esattamente così che è andata. Mandammo uno di noi a uccidere alle spalle un commissario di polizia contro cui non avevamo in mano nulla di nulla se non la furia ideologica della peggio gioventù”. Non uno. Come si fa a vivere per 50 anni nella menzogna la più bieca?
Con «Quello che non ti dicono», in uscita per Mondadori, torna alla luce la storia di Carlo Saronio, vittima degli anni di piombo. Morì il 15 aprile 1975 durante il suo rapimento. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 18/10/2020. Il ragazzo tradito e ucciso dagli amici che gli promettevano la rivoluzione. «Buonasera Dott. Calabresi, la leggo con piacere perché sono legato a lei dalla perdita di una persona cara a causa del terrorismo. Mi chiamo Piero Masolo, sono prete missionario in Algeria, sono nipote di Carlo Saronio, rapito e ucciso il 15 aprile 1975. Mi piacerebbe poterle inviare una mail per chiederle consiglio su come celebrare l’anniversario dello zio. La ringrazio di cuore». È la mattina del 3 ottobre 2019, quando Mario Calabresi riceve su Facebook questo messaggio dal deserto algerino. La ricerca ha inizio. Calabresi rintraccia rapidamente il nome e la storia: Carlo Saronio, erede di una delle famiglie più ricche di Milano, laureato in ingegneria, ricercatore all’Istituto Mario Negri, fu sequestrato nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1975 da un banda composta da criminali comuni e militanti dell’area di Potere Operaio, movimento per cui Saronio simpatizzava. La vittima morì nelle prime fasi del sequestro, per una dose sbagliata di narcotico. Aveva 26 anni. I rapitori finsero che fosse ancora vivo e riuscirono a ottenere una parte del riscatto. Il corpo sarà ritrovato solo tre anni e mezzo dopo.
La mail del missionario e l’incontro con Marta Saronio. Il 5 ottobre 2019 Calabresi riceve la mail del missionario: «In famiglia lo zio Carlo è sempre stato un tabù, non se ne poteva parlare... Con Marta Saronio, mia cugina e figlia naturale di Carlo, abbiamo finalmente pensato di ricordarlo». Calabresi si rimette a cercare; ma da nessuna parte, neppure nel formidabile archivio del Corriere, c’è traccia di una figlia di Carlo Saronio. Mercoledì 15 gennaio 2020, «a Lodi il mondo sembra ancora normale. Nessuno può sapere quello che sta per scoppiare, che tra quattro settimane il virus sceglierà proprio questa terra per sbarcare in Europa e cambiare le nostre vite» annota Calabresi. Che quella sera a Lodi presenta davanti a 900 persone il suo long-seller «La mattina dopo». Alla fine nella grande sala resta una lettrice, con il libro in mano. Dice soltanto: «Sono Marta». Mario non capisce. «Sono quella Marta». È la figlia di Carlo Saronio: nata otto mesi e mezzo dopo il rapimento e la morte di un padre che non ha mai conosciuto. Prima della tragedia, sua madre Silvia, allora fidanzata di Carlo, era rimasta incinta: e aveva deciso di tenere la bambina. Quando nacque si chiamava Marta Latini. Fu la nonna ad andare dall’avvocato Cesare Rimini per farla riconoscere. Quando aveva tre anni cambiò cognome e divenne Marta Saronio. Ora ha due figli e una vita felice. Ma le manca il padre; e le mancano la sua memoria, le notizie su di lui, e sui suoi assassini.
Il fascino delle idee rivoluzionarie e la vergogna di essere ricco. A questo punto Calabresi, che con «Spingendo la notte più in là» ha cambiato la nostra percezione degli anni Settanta, dando la parola alle vittime dopo che troppo a lungo avevamo letto e ascoltato soltanto i carnefici, avverte come un dovere morale ricostruire la vicenda di Saronio. Ritrova la sua foto di classe, che è diventata la copertina del libro («Quello che non ti dicono», in uscita martedì da Mondadori). Legge una lettera della sua insegnante, Alba Carbone Binda, che ricorda quando i compagni lo prendevano in giro dopo aver letto sul Corriere la classifica dei contribuenti milanesi (i Saronio venivano subito dopo i Rizzoli, i Crespi, i Pirelli, i Borletti, i Mondadori). Carlo a scuola era molto bravo, pieno di talento e di fiducia negli altri, ma tormentato da un senso di colpa. In un tema di quarta ginnasio, raccontò la domenica in cui era andato a fare una gita sulla Rolls-Royce di famiglia: quando era sceso dall’auto, tutti i bambini del luogo si erano affollati intorno a lui; e Carlo avrebbe voluto scomparire. Si vergognava di essere ricco. Anche per questo, lui che al liceo Parini si era avvicinato al movimento di don Giussani (Gioventù studentesca, poi divenuto Comunione e Liberazione) crescendo sentirà il fascino delle idee rivoluzionarie. Sceglierà di andare a insegnare alle scuole serali a Quarto Oggiaro. E per finanziare i compagni di Potere Operaio arriverà a simulare il furto della Porsche che gli avevano regalato i genitori, rimpiazzata con un’Alfasud.
Le riunioni clandestine e il Professorino. Il libro è il racconto dell’inchiesta condotta dall’autore, che passa il lockdown a lavorare sulle carte che la questura di Milano gli ha messo a disposizione, e su quelle custodite in un armadio di famiglia e ritrovate grazie al missionario. Si susseguono dettagli inattesi, coincidenze impressionanti, incastri a sorpresa. E si delinea la figura del colpevole. Del traditore. Carlo Fioroni, detto il Professorino, militante della sinistra extraparlamentare, vicino a Giangiacomo Feltrinelli. È stato lui a stipulare, a nome di una persona che non ne sa nulla, l’assicurazione del pulmino Volkswagen trovato sotto il traliccio su cui è morto l’editore rivoluzionario. La polizia lo cerca, Fioroni sparisce: è nascosto nella bella casa di Carlo Saronio, in corso Venezia. La madre di Carlo non ne sa nulla. Più tardi le viene presentato come Bruno, «un amico romano». E alla Mercurina, la cascina della famiglia Saronio nella campagna tra Lombardia e Piemonte, si tengono riunioni clandestine: per due volte si incontrano di fronte al camino Toni Negri e Renato Curcio. È l’alba dell’eversione, l’inizio degli anni di piombo. È possibile che già allora Fioroni abbia proposto di inscenare un falso rapimento, per spillare soldi alla famiglia; ma Carlo Saronio ha rifiutato. La macchina che porterà alla tragedia è già avviata. Certo, Fioroni avrebbe potuto e dovuto essere fermato. E viene quasi un brivido quando, leggendo il libro, si scopre che un investigatore lo stava cercando, prima di essere assassinato: il commissario Luigi Calabresi. Il padre di Mario.
Il ricordo della sua insegnante. Grazie a «Quello che non ti dicono», la figura di Carlo Saronio torna alla luce. Ora Marta ha conosciuto in qualche modo l’uomo che le ha dato la vita. Così lo ricordava la sua insegnante: «La luminosa promessa che era in lui fu soffocata da un ottuso tampone di cloroformio»; anzi, di toluolo, contenuto in uno smacchiatore o in un solvente comprato in colorificio, scelto perché più facile da trovare rispetto al cloroformio. «Carlo sbagliò a non sospettare la malizia di chi lo tradiva mentre gli chiedeva aiuto. Spero che non lo abbia saputo, che fino all’ultimo respiro lo abbia accompagnato la sua fiducia».
Luigi Calabresi condannato a morte dall’Italia dell’odio e della vendetta. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Walter Veltroni. Quale Italia era quella in cui fu ucciso, quarantotto anni fa, il commissario Luigi Calabresi? Talvolta, inabissati nel gorgo delle miserie di questo tempo che ci appare straniero, si è portati a rimpiangere i «bei tempi andati». Si può avere, certo, nostalgia per la passione civile di milioni di persone, per il livello del dibattito politico e culturale, per la statura dei leader dei partiti, dei sindacati, delle imprese. Ma non si può rimpiangere il clima d’odio di quegli anni vitali e bastardi. Oggi segnaliamo, dovremmo farlo di più, l’imbarbarimento del linguaggio dei social, il dilagare di violenza verbale, di antisemitismo, sessismo, intolleranza nei confronti dell’altro da sé. Allora, non dimentichiamolo mai, si sparava. Si mettevano le bombe, si aspettava sotto casa un ragazzo di destra o di sinistra per prenderlo a coltellate o a sprangate, si sequestrava, si uccideva con la facilità con cui lo si fa in guerra. In quegli anni il sangue è stato versato a litri, in una guerra in cui, diversamente da quella di Liberazione, non esistevano un torto e una ragione, definiti dalla libertà, ma solo due giganteschi, stupidi, inutili e sanguinosi torti. Neppure si può avere nostalgia per il tempo di Sindona, di Gelli, della P2, di Gladio, dei servizi deviati, dei rapporti di scambio tra governo e mafia. O per l’inflazione a due cifre e il debito pubblico alle stelle. Era un Paese bloccato, senza alternanza politica, condizionato pesantemente dalla guerra fredda. I grandi meriti di quella classe dirigente, la Costituzione e la ricostruzione modernizzatrice del Paese, vennero dissipati dalla trasformazione del potere da mezzo a fine. Era questa l’Italia che aveva condannato a morte il commissario di polizia Luigi Calabresi. L’Italia dell’odio e della vendetta, dell’estremismo intollerante, l’Italia sgusciante e velenosa degli apparati dello Stato inquinati dalla continuità col fascismo e dalle logiche della guerra fredda. Giuseppe Pinelli Ancora oggi non sappiamo chi ha materialmente messo la bomba a Piazza Fontana, non certo Valpreda, non sappiamo come è morto Pino Pinelli «un innocente che fu vittima due volte, prima di pesantissimi, infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine» come disse Giorgio Napolitano nel 2009. E così per le troppe stragi e per le tante assurde uccisioni di quel tempo. Sappiamo, ha avuto il coraggio di dirlo Sergio Mattarella davanti alle vedove Calabresi e Pinelli nel cinquantesimo anniversario di Piazza Fontana, che: «Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia. L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata, quindi, doppiamente colpevole». Calabresi fu vittima di una campagna di odio terribile. Fu definito su «Lotta Continua»: «Torturatore di alcuni compagni, assassino di Giuseppe Pinelli, complice degli autori della strage di Milano». Fino alla famosa frase, dopo l’assassinio, in cui diceva che non si poteva «deplorare l’uccisione di Calabresi, un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». Era il clima di quegli anni odiosi, in cui persone di valore, come si sono rivelati nel tempo molti dei dirigenti di Lotta Continua, potevano sottoscrivere le parole disumane del loro giornale. In cui democratici di sicura fede e di ogni orientamento potevano aderire a un appello in cui tornava la parola «torturatore». Firmarono Parri e Amendola, Fellini e Pierre Carniti, Terracini e Lombardi. Erano anni in cui tutto era in bianco e nero, in cui esistevano recinti che separavano le idee e le rendevano incomunicabili tra loro, in cui la diversità politica, ogni diversità, era una colpa da lavare col sangue. Bisogna tornare lì, per capire. Valgono le parole di Gemma Calabresi, quando al Quirinale si diede la mano con Licia Pinelli: «Ho sempre detto che mio marito e Pinelli sono vittime del terrorismo e della campagna di odio che in quegli anni lacerò l’Italia». Luigi Calabresi è stato ucciso al termine di una lunga campagna d’odio. Era un uomo che camminava con un bersaglio addosso. Eppure lo lasciarono solo, con la sua Fiat Cinquecento, ad aspettare che lo ammazzassero. Era un esito previsto, non prevedibile, in quegli anni orrendi. Esisteva allora un codice di stampo mafioso che prevedeva la punizione di chi si riteneva nemico, vendetta che veniva consumata nei confronti di avversari politici, poliziotti, magistrati, funzionari dello Stato, spesso persino propri compagni di gruppo terroristico. Fino all’orrore del sequestro e dell’uccisione di Roberto Peci, perpetrato per colpire il fratello Patrizio, o all’assassinio di tanti terroristi di destra, in carcere e fuori, accusati di aver « tradito» i loro camerati dell’eversione nera. C’era sempre un reprobo da punire e qualche improvvisato tribunale autocratico che, senza consentire difesa, comminava e faceva eseguire pene di morte. Come la mafia, proprio come la mafia. Pino Pinelli un giorno regalò al commissario Calabresi, che conosceva da tempo, l’Antologia di Spoon River. Ora anche loro due «dormono, dormono sulla collina». Come tutte le vite spezzate dal tempo dell’odio. Il più pericoloso dei sentimenti umani. Sarà bene non dimenticarlo, oggi.
La pista anarchica. La prima graphic novel dedicata a Giuseppe Pinelli, vittima della strategia della tensione. Ilaria Chiavacci su linkiesta.it il 13 Dicembre 2021. Una graphic novel curata dalle sue figlie ricorda la storia del grande innocente accusato di essere il colpevole di Piazza Fontana, a cinquant’anni dalla sua morte misteriosa. Ce la racconta Silvia Pinelli. 1969: nella Milano degli anni di piombo si consuma una delle pagine più buie e tristi della cronaca nera cittadina, la morte di Giuseppe Pinelli, per tutti Pino, ingiustamente accusato di aver preso parte alla strage di Piazza Fontana e poi morto durante l’interrogatorio, precipitato da una delle finestre della questura nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Sulla vicenda si è scritto e detto tanto: il premio Nobel Dario Fo ci ha basato una delle sue commedie più famose, “Morte accidentale di un anarchico” e, nel 2009, durante il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì Pinelli la «la diciottesima delle vittime della strage di Piazza Fontana: vittima due volte, prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine».
Il 9 dicembre, a cinquantadue anni da quel 1969, è uscito un nuovo volume per l’editore Milieu, “Pino, vita accidentale di un anarchico”, curato stavolta dalle figlie di Pinelli, Silvia e Claudia, da anni attive nel tenere viva la memoria sul periodo buio della storia italiana che è stato quello della strategia della tensione, e soprattutto del ricordo e della ricostruzione dell’immagine del padre: grande appassionato dell’antologia di Spoon River e di Topolino, che si era avvicinato al movimento anarchico dopo le prime esperienze di militanza antifascista. Pinelli era un attivista, una parola che all’epoca non si usava, ma che in ogni caso non avrebbe avuto un’accezione positiva: aveva partecipato alla fondazione del circolo anarchico Sacco e Vanzetti del Ponte della Ghisolfa ed era stato tra i sostenitori di una delle realtà editoriali della controcultura milanese, la rivista Mondo Beat.
La graphic novel “Pino, vita accidentale di un anarchico”, è stata curata dalle figlie insieme a Niccolò Volpato e Claudia Cipriani, già autori di un film dallo stesso titolo, le fotografie invece sono di Uliano Lucas. Questo libro vuole restituire un ritratto intimo e familiare di quello che fu, suo malgrado, il protagonista di uno degli avvenimenti cruciali di quegli anni, motore di una spirale di violenza che culminò poi con l’uccisione del commissario Luigi Calabresi, titolare insieme a Tonino Allegra dell’interrogatorio di Pinelli.
Un percorso doloroso per la famiglia, ma necessario, ci racconta Silvia Pinelli, che con la sorella ha la missione di ricordare la vicenda di Pino soprattutto per le nuove generazioni, continuando quella che era una vocazione del padre. «Lui faceva sempre da tramite tra le vecchie generazioni degli anarchici, quelli che avevano fatto la guerra di Spagna magari, e i giovani che si avvicinavano al circolo. Anche per questo aveva messo a disposizione la sua ciclostile per stampare il primo numero di Mondo Beat. Molte delle persone che si sono avvicinate a noi nel corso degli anni all’epoca erano giovanissimi e si ricordano di quando, avvicinandosi al movimento anarchico, avevano conosciuto Pino: la sua prima risposta di fronte alle loro idee rivoluzionarie era quella di metter loro in mano un libro da leggere».
Cosa ha portato lei e sua sorella a curare questa graphic novel?
Un giorno mia nipote è andata dalla mamma chiedendole di parlarle del Nonno Pino per un compito a scuola e lei le rispose di parlare dell’altro nonno. Mia nipote quindi è andata su internet ed è tornata piangendo e chiedendo di sapere cosa fosse successo veramente. Questo ci ha fatto capire l’importanza di raccontare la storia di mio padre per le generazioni future, della nostra famiglia, e per i giovani di oggi in generale. Ecco perché anche la scelta della graphic novel: un fumetto è un modo più accessibile per arrivare ai giovani.
Cosa volete trasmettere ai giovani con la storia di Pino?
Diciamo ci sono ancora delle criticità nell’anima società che si possono cambiare solo facendo prendere coscienza alle persone di certi meccanismi. Purtroppo mio padre è entrato nella storia uscendo da una finestra, e molte cose si sono venute a sapere dopo, è importante che i giovani si riapproprino della storia e della memoria di argomenti e avvenimenti che nei libri di scuola non vengono trattati o, se succede, si tratta di una disamina frettolosa e sommaria. Capire il contesto di quel periodo è importante per arrivare al cuore di certe rivendicazioni che, purtroppo, sono attuali ancora oggi.
A cosa si riferisce in particolare?
La fine degli anni Sessanta è stato un periodo di grandi speranze, in cui si sono innestati cambiamenti fondamentali della società, sui quali però in questi cinquant’anni non sono stati fatti molti passi avanti, anzi. Penso alla legge sull’aborto, che ancora oggi viene reso complicato alle donne, o alla tutela della salute dei lavoratori. Sono temi di cui si parlava cinquant’anni fa e sono temi di cui si parla ancora oggi, la stessa cosa succede relativamente al dibattito del disarmo della polizia. È dai fatti di Battipaglia del ‘69 che si chiede che venga messo un numero identificativo sulle divise dei poliziotti. Conoscere ciò che è stato è importante anche per affrontare le battaglie del presente e costruire quelle del futuro».
Giampiero Rossi per il “Corriere della Sera” il 22 luglio 2020. La sera del 12 dicembre 1969 anche lui fu portato in questura, insieme a Giuseppe Pinelli e agli altri anarchici militanti dei circoli Ponte della Ghisolfa e Scaldasole. Paolo Finzi era il più giovane: studente di terza liceo classico, diciottenne da un mese e febbricitante. Anche per questo fu rilasciato dagli uffici in cui Pinelli morì tre giorni dopo. Paolo Finzi è morto lunedì pomeriggio, travolto da un treno poco lontano dalla stazione di Forlì. Il macchinista ha raccontato di aver visto un uomo lanciarsi verso i binari. Aveva 68 anni, quasi tutti vissuti nel segno dell' anarchia, soffriva di crisi depressive e agli amici aveva sempre detto: deciderò io come andarmene. «Maestro di anarchia e di etica, di dialogo e confronto. Uomo brillante, intelligente, sensibile e gentile - è il ricordo dei colleghi di A-Rivista anarchica, da lui fondata nel 1971 e mai abbandonata -. Ci ha insegnato il dubbio e la riflessione, l' ascolto e il rispetto profondo e sincero. Continueremo a navigare in direzione ostinata e contraria, portando avanti un progetto che era la sua casa e la sua vita, nel solco del suo impegno e dei suoi ideali di libertà e giustizia». E un ricordo arriva anche dal direttivo del Club Tenco («Figura rara di intellettuale appassionato, di inossidabile coerenza e di rara umanità»), perché Finzi era stato a lungo amico di Fabrizio De André e vicino a quel mondo di artisti. Al cantautore genovese ha dedicato moltissime iniziative di studio e racconto, così come alla stagione terribile delle stragi di Stato, inaugurata proprio quel 12 dicembre 1969. «Autorevole nel mondo anarchico ma mai supponente, sempre aperto al dialogo e convintamente non violento - lo ricorda Claudia Pinelli - proveniva da una famiglia ebrea e aveva sempre mantenuto vivo l' interesse verso la religione». In collaborazione con l' Anpi aveva condotto ricerche storiche sul ruolo degli anarchici nella Resistenza, ma al tempo stesso, in perfetta sintonia con l' amico De Andrè, si era impegnato per anni alla condizioni di rom e sinti, andando di persona nei campi della periferia milanese. Un impegno sfociato nella produzione di un documentario: «A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli zingari». Intanto ha continuato a reggere, tra mille difficoltà, le sorti della Rivista anarchica. Fino al momento in cui ha deciso altro per sé.
LA STORIA. Ivano e Liliana, morti insieme a Milano. Anarchici e amici di Pinelli. Ivano Guarnieri, 73 anni, e Liliana Puorro, 81, sono stati rinvenuti in casa a Quarto Oggiaro una settimana dopo la morte. Lui fu l’ultimo a vedere in vita Pinelli. Redazione online su corrieredelveneto.corriere.it il 19 agosto 2021. Lui è stato trovato dai carabinieri per terra vicino alla porta, probabilmente stroncato da un malore mentre stava uscendo di casa per andare a fare delle commissioni. Lei era invece a letto, dove da tempo la costringeva una malattia, probabilmente a causa della perdita di quella sua «metà» che se ne prendeva cura a tempo pieno. Sono rimasti lì così per almeno una settimana, fino a quando i vicini si sono insospettiti, sentendo provenire un cattivo odore dal loro appartamento di un complesso di case popolari in via Lopez a Quarto Oggiaro, quartiere della periferia di Milano. È stato un dramma della solitudine quello che ha portato al decesso Liliana Puorro, 80enne di origine veneziana, e il marito Ivano Guarnieri, 73enne rodigino di Adria. I due da tempo vivevano a Milano in quella casa di proprietà del Comune e gestita da MM, la società della metropolitana che da qualche anno si occupa anche del patrimonio immobiliare pubblico.
Anarchici e amici di Pinelli
Dietro di loro una storia che riconduce al cuore del Novecento, al Sessantotto, alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, animatore del Circolo della Ghisolfa, che morì tra il 15 e il 16 dicembre 1969 precipitando dalle finestre della Questura di Milano dove era stato condotto per depistare le indagini dopo la strage di piazza Fontana. Ivano «Ivan» Guarnieri fu l’ultimo a vedere Pinelli prima della sua tragica morte e insieme alla moglie erano due frequentatori del Circolo della Ghisolfa, anarchici storici e amati di Milano. Liliana «Fabrizia» era un’artista, scultrice e pittrice molto apprezzata. La morte di Pinelli s’iscrisse nella vita di Ivan che testimoniò in tribunale, di fronte al giudice Gerardo D’Ambrosio, nei dibattiti pubblici e sulla rivista «A». Ma Ivan e Fabrizia conobbero da vicino anche Pietro Valpreda, un altro degli anarchici accusati per la strage di piazza Fontana e poi assolto, e in occasione del decennale dalla morte gli dedicarono una lirica: «A Pietro Valpreda. A Te, sognatore fantastico ed inguaribile romantico, irrequieto eterno ragazzo militante dell’Idea di Libertà, di quell’Anarchia che ha nutrito il tuo esagerato ardore di rivalsa sociale, dai più vista scioccamente come arroganza iconoclasta (...). Sembra banale dire che sarai sempre nei nostri cuori, caro Pietro, ma Tu lo sai, lo sapevi già poco prima di lasciarci. Eravamo a casa tua, io e Fabrizia: ti muovevi con difficoltà per i dolori e le pesanti terapie che subivi, i tuoi occhi, da eterno ragazzo erano umidi, offuscati, ma la tua mano si è posata lenta ma decisa sul mio braccio e con un accenno di sorriso che malamente copriva una smorfia di dolore mi dicesti: “caro Ivan, mio compagno”; non trovai parole di risposta ma misi la mia mano sulla tua, come fratello che sa. Rimanemmo così per un po’, prima che la stanchezza ti costringesse a letto. Questo è stato non il tuo addio ma un arrivederci da anarchici (...)».
Il ritrovamento
I vicini di casa si sono prima rivolti alla custode per segnalare il forte odore, accentuato anche delle giornate di grande caldo di quest’ultima settimana. La donna a quel punto si è resa conto che effettivamente era da parecchio che non vedeva il 73enne, che era l’unico attivo della coppia e usciva per fare le spese e comprare le medicine per la moglie, e ha chiamato i soccorsi. Intorno alle 17 sono dunque arrivati in gran forze i carabinieri della stazione Milano Musocco, i soccorritori del Suem 118 e i Vigili del fuoco, che quando hanno aperto la porta hanno fatto la macabra scoperta. Ovviamente sarà l’autopsia dei prossimi giorni a stabilire nel dettaglio la causa della morte di entrambi, ma la ricostruzione fatta sul posto è quella di cui si è detto. L’alloggio era in ordine e chiuso dall’interno con le chiavi inserite nella serratura, per cui è esclusa l’ipotesi di una presenza di terze persone. Ma soprattutto il personale sanitario intervenuto in un primo momento e poi anche il medico legale non hanno riscontrato alcun segno di violenza sui cadaveri, derubricando i decessi a «cause naturali».
I problemi di salute di Liliana
Da quello che è emerso anche dalle testimonianze dei vicini, infatti, lei era molto malata e non si alzava dal letto, tanto meno usciva di casa. Lui, che aveva sette anni di meno, si occupava di tutto, nonostante avesse i suoi acciacchi e le sue patologie da monitorare con grande attenzione, e dunque di fatto garantiva la sopravvivenza della moglie. Nel momento in cui un malore improvviso l’ha stroncato, lei si è trovata completamente incapace di badare a se stessa, anche solo di telefonare a qualcuno per chiedere aiuto in quella situazione tragica. E sarebbe così morta di stenti.
51 anni fa l'attentato. Piazza Fontana, chi furono gli autori della strage? Non basta dire fascisti…David Romoli su Il Riformista il 12 Dicembre 2020. Chi si macchiò della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre di 51 anni fa? “Gli ordinovisti veneti” risponderebbe chiunque non volesse accontentarsi di uno sbrigativo “i fascisti”. Interrogato sul movente della mattanza, la medesima persona risponderebbe probabilmente: “Per portare al massimo livello la tensione, nella speranza di provocare un pronunciamento militare, come era avvenuto due anni prima in Grecia”. Le cose sono più complesse. Pino Rauti, uno dei leader assoluti di Ordine nuovo, la principale e più longeva organizzazione della destra extraparlamentare, era stato effettivamente nel 1966 autore con Guido Giannettini, con lo pseudonimo ”Flavio Messalla”, del libretto Le mani rosse sulle forze armate commissionato dal capo di Stato maggiore Giuseppe Aloja. Ma On è anche il gruppo che prese apertamente posizione contro il progetto golpista: «Il colpo di Stato militare è sempre un fatto controrivoluzionario, uno dei tanti mezzi attraverso i quali l’ordine costituito trova una momentanea e forzosa soluzione alle contraddizioni che paralizzano il sistema». Lo stesso On, fu, durante il golpe Borghese dell’8 dicembre 1970, una vicenda meno boccaccesca di quanto sia stato poi fatto credere, il solo gruppo della destra radicale a tirarsi indietro. Non per passione democratica, certo, ma perché, come disse Clemente Graziani, l’altro leader storico del gruppo, a Rauti: «È certamente un progetto conservatore dietro il quale potrebbero esserci settori della Dc». On, come tutta la destra radicale italiana, è stato molte cose diverse, a volte opposte. Il volume di Sandro Forte Ordine nuovo parla. Scritti, documenti e testimonianze (Mursia, 2020, pp. 317, euro 22.00) permette di rendersene conto. Non è propriamente una storia del gruppo ma una panoramica cronologica della sua elaborazione politico-culturale, delineata con evidente simpatia, dunque certamente parziale. Supplisce però a una carenza che rende difficile mettere davvero a fuoco la storia di quel periodo. Considera cioè On per quel che voleva essere ed era: un’organizzazione politica, la cui parabola non si può cogliere se si concentra l’interesse, come fa lo studioso Aldo Giannuli nella sua storia di On, solo sui rapporti e sui contatti degli ordinovisti con le centrali della destabilizzazione neofasciste in Europa, basandosi esclusivamente sulle note e sulle informative dei servizi segreti. Come se l’elaborazione politico-culturale, per un’organizzazione politica, fosse un particolare insignificante. Abitudine del resto comune: nei decenni sono usciti centinaia di volumi sul delitto Moro senza che gli autori si siano quasi mai presi la briga di analizzare la Risoluzione strategica che del sequestro e della sua gestione era all’origine. Forte fa parlare i testi, gli articoli, a volte le testimonianze. L’impressione che ne deriva è che la parabola del più agguerrito gruppo neofascista sia stata non solo mutevole nel tempo ma anche più divisa e contraddittoria al proprio interno di quanto lo stesso autore non segnali. L’attività del Centro Studi Ordine Nuovo fuoriuscito dal Msi negli anni ‘50 non va oltre la pubblicistica e la saggistica, su posizioni molto diverse da quelle del Movimento Politico Ordine Nuovo, nato dopo il rientro di Rauti nel Msi, che verrà sciolto nel novembre 1973 dal ministro degli Interni Taviani, come quella che lui stesso definì “una scelta politica, non un atto dovuto”. La lotta contro il comunismo russo e la democrazia americana da un lato, la guerra dei bianchi contro i popoli colonizzati dall’altro erano i cavalli di battaglia della prima On, influenzata sin nelle virgole da Julius Evola. Il primo vessillo verrà abbandonato quando nei ‘60, in nome della comune crociata anticomunista, soprattutto Rauti mette da parte l’antiamericanismo e si lega anzi alla destra del Partito Repubblicano. La seconda bandiera verrà rovesciata nei primi ‘70, quando On passa dalla difesa strenua dei colonizzatori all’esaltazione della rivolta dei colonizzati. Ma ai vertici dello stesso gruppo, la “svolta atlantista” e golpista (su sua stessa ammissione) di Rauti non sembra condivisa, o lo è con palese diffidenza, dal “rivoluzionario” Graziani, che non seguirà Rauti nel Msi e darà vita al Movimento Politico On. Come si incrocia questo libro, che del 12 dicembre quasi non parla, con la visione storica della strage che cambiò la mentalità degli italiani? I colpevoli sono accertati, anche se mai puniti perché già assolti con sentenza definitiva. A differenza della strage di Bologna, quasi tutti, negli stessi ambienti della destra, sono convinti che verità storica e processuale in questo caso coincidano. Ma le definizioni con cui viene indicato di quel massacro, “strage fascista”, “strage di Stato”, sono insieme giustificate e fuorvianti. Confondo almeno quanto chiariscono, forse anche di più. La strage fu fascista, perché dagli ambienti del neofascismo veneto, che si può assimilare a Ordine nuovo solo con una enorme forzatura essendo un’area del tutto autonoma, venivano gli autori del crimine. Fu “di Stato”, perché lo Stato, almeno in alcune sue articolazioni, aveva senza dubbio creato le strutture finalizzate alla provocazione dalle quali provenne e discese Piazza Fontana e perché, dopo il 12 dicembre, lo Stato tutto scelse consapevolmente di indicare negli anarchici i colpevoli precostituiti. Ma parlare senza sfumature di strage fascista e di Stato finisce per identificare con lo stragismo un intero ambiente, in realtà molto diversificato e articolato come la ricerca di Forte dimostra, e finisce anche per attribuire allo Stato tutto e direttamente una responsabilità che è invece parziale e indiretta. È probabile che nessuno nello Stato e neppure ai vertici del neofascismo e di Ordine Nuovo volesse la strage, che fu invece frutto di una forzatura da parte di un gruppo nazista particolarmente feroce e determinato come quello di Freda. In parte, all’origine della confusione che impedisce di mettere nitidamente a fuoco cosa successe non solo il 12 dicembre ma in tutti i primi anni ‘70, c’è una conoscenza dell’estrema destra di allora che oggi è scarsa e fino a pochi anni fa inesistente e che si limita, come fa Giannuli nel suo libro su On, a considerare gli ordinovisti come manovalanza del terrore. Il libro di Forte si muove all’estremo opposto. Glissa sui particolari della assoluta internità di una parte di On al “partito del golpe”. In compenso restituisce la realtà di un’area che, per quanto minoritaria, sideralmente distante e nemica la si consideri, era a tutti gli effetti una realtà politica e culturale dell’Italia del secondo Novecento.
Quante vie partirono da piazza Fontana…Marcello Veneziani, La Verità 12 dicembre 2019. Ma cosa è stata, cosa ha rappresentato la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre ‘69 nella storia e nella vita italiana? Sta lì al centro di un’epoca come cerniera incandescente tra i briosi anni Sessanta e i furiosi anni Settanta, come l’Evento Oscuro per antonomasia, un enorme mistero insoluto che non riusciamo ancora a chiudere definitivamente. Facile liquidarla come una strage fascista, ma poi resta incomprensibile il mistero che la circonda, che la originò e che ha circondato i suoi veri e presunti protagonisti. Ne abbiamo scritto nello speciale di Panorama storia dedicato a Una strage italiana. Un mistero che si fa ancora più fitto se si considera quella strage come la prima di una lunga, insensata e feroce catena di stragi a Brescia, a Firenze, a Bologna. Se la strage di Milano, a tre settimane dall’assassinio del poliziotto Antonio Annarumma, poteva avere avuto come scopo suscitare una controrivoluzione preventiva contro il caos, l’eversione, l’anarchia, a cui si attribuì in un primo tempo l’eccidio, le stragi seguenti come quella di Brescia o dell’Italicus o della stazione di Bologna a cosa servirono se non a spaventare l’Italia e criminalizzare l’estrema destra? Non si faceva in tempo a dare la notizia e prima di ogni indizio i tg e i giornali già la bollavano come “strage di chiara marca fascista”. Che scopo potevano avere i terroristi di destra a suscitare questa ondata di odio, repressioni e carcere contro se stessi? Il terrorismo nero è una pagina oscura della nostra storia, non si comprendono i confini, le finalità, i collegamenti. A dover spiegare quelle stragi alla luce del cui prodest, sappiamo per certo che non giovarono all’estrema destra, e tantomeno alla destra politica e parlamentare che nel nome delle “trame nere” si trovò criminalizzata, ricacciata in un ghetto ed esclusa. Agli inizi degli anni Settanta il Msi aveva raccolto un grande successo politico, di piazza e di voti. E le stragi furono la principale arma usata contro il partito di Almirante e l’area di destra per isolarli e demonizzarli per un disegno eversivo di cui erano palesi vittime. Quelle stragi servirono a riaccendere in Italia la mobilitazione antifascista e a reinserire il partito comunista nel gioco politico attraverso la ripresa del Cln nell’arco costituzionale. E servirono a far nascere nel paese la paura degli estremismi e la necessità di governi consociativi. Meglio un’infame sicurezza che il fanatismo dei terroristi. In quelle stragi si trovarono invischiati, accusati e scagionati, personaggi di estrema destra, oscillanti tra nazifascismo, anarchia e servizi segreti. Ogni atto terroristico di matrice nera si convertiva in una retata negli stessi ambienti dell’estrema destra. Se c’era un disegno dietro le stragi quel disegno era semmai concepito contro di loro, o comunque passava sopra le loro teste; i neri che vi parteciparono furono piuttosto manovrati, usati e poi gettati dopo l’uso. Qui subentra il Mistero Profondo della storia italiana: che ruolo ebbero i servizi deviati, gli apparati statali in queste operazioni? Col tempo si parlò anche di matrici straniere, servizi americani, sovietici e medio-orientali; nelle ultime stragi emerse il ruolo della mafia che adottava strategie di diversione. Ma il nodo centrale resta lì e bisogna nuovamente pronunciare la domanda fatidica: furono allora stragi di Stato o comunque di settori dello Stato che rispondevano a grandi registi politici, anche collusi con la criminalità? Gira e rigira non riusciamo a trovare spiegazioni alternative. Più lineare è stato il terrorismo di matrice comunista, dalle Brigate rosse a Prima linea e agli altri gruppi terroristici di ultrasinistra. Si colpivano obbiettivi mirati, simboli e personaggi-chiave del sistema o giovani militanti di destra. Le Br cercarono pure di far saltare il compromesso storico tra Pci e potere democristiano-capitalistico-atlantico. A lungo negato nella sua matrice comunista, quel terrorismo ha goduto di complicità e omertà assai estese. Giorni fa è morto il magistrato genovese Mario Sossi che fu sequestrato dalle Brigate rosse nel ’74. Tra le sue indagini imperdonabili, Sossi si era occupato di un personaggio chiave, l’avvocato Lazagna, ex-partigiano ritenuto un ponte non solo simbolico tra la vecchia e la nuova Resistenza. A tale proposito nello stesso ’74 accadde un episodio ad un altro magistrato, Gian Carlo Caselli, che lo raccontò sulla rivista MicroMega: “In quel periodo, ai tempi delle Brigate rosse, non si poteva pensare diversamente che subito si era accusati di essere fascisti. I primi tempi delle inchieste sulle Br io ero trattato da fascista. Di fatto, sono stato espulso da Magistratura democratica – vogliamo dirle queste cose una buona volta? – perché facendo il mio dovere, ho osato portare a giudizio l’avvocato Lazagna (un partigiano doc che assisteva a tutti i convegni di Md”. Caselli aveva emesso su richiesta del pm Caccia, “un mandato di cattura contro Lazagna per collusione con le Br, in base a fatti riscontrati” e perciò, diceva il magistrato torinese “sono stato di fatto “condannato” ed espulso da Magistratura democratica”. Strana storia…Ma tornando a Piazza Fontana, fu un evento-chiave non solo perché fu l’inizio delle stragi oscure, ma anche perché da lì originò la vicenda Pinelli-Calabresi, la condanna a morte del Commissario da parte di Lotta continua, preceduta da quelle famose ottocento firme contro Calabresi che restano una vergogna della storia civile e intellettuale d’Italia. Insomma, troppo facile sbrigare Piazza Fontana con la pista fascista e la storia che ne segue come lo svolgimento di una trama nera: quella strage aprì una stagione infame, che fu rossa, nera e oscura, soprattutto oscura. MV, La Verità 12 dicembre 2019.
Piazza Fontana, il Senato rilancia la pista anarchica. Gianni Barbacetto il 13 dicembre 2021 su ilfattoquotidiano.it. Citare ancora gli anarchici come possibili esecutori della strage di piazza Fontana, 52 anni dopo. E dopo che le sentenze definitive hanno sancito che a mettere le bombe del 12 dicembre 1969 furono certamente i fascisti di Ordine nuovo. Eppure è successo: e addirittura nel sito del Senato. “Sostenere che ‘per Piazza Fontana, gli anarchici […]
Citare ancora gli anarchici come possibili esecutori della strage di piazza Fontana, 52 anni dopo. E dopo che le sentenze definitive hanno sancito che a mettere le bombe del 12 dicembre 1969 furono certamente i fascisti di Ordine nuovo. Eppure è successo: e addirittura nel sito del Senato. “Sostenere che ‘per Piazza Fontana, gli anarchici vennero completamente assolti dall’accusa di strage’, significa (…) affermare un falso storico”.
Così dice la relazione firmata da due ex senatori del Movimento sociale italiano, Alfredo Mantica e Vincenzo Fragalà, linkata ieri sul profilo Twitter ufficiale del Senato in occasione del 52° anniversario della strage. “Storia di depistaggi: così si è nascosta la verità”, hanno scritto dal Senato nel tweet collegato proprio a quella relazione che sì depista e travisa, tornando sulla pista anarchica, mentre le indagini hanno evidenziato, come ricordato anche ieri dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che quell’attentato, 17 morti, fu neofascista.
Il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, ha attaccato duramente la presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Un oltraggio alle vittime, ai loro familiari, alla città di Milano”. La presidente Casellati si è ben nascosta dietro l’ufficio stampa di Palazzo Madama che in una nota nel tardo pomeriggio, dopo aver rimosso il tweet, si è assunto la colpa: “È per un mero errore di collegamento al link delle relazioni depositate in sede di Commissione stragi che un tweet dell’ufficio stampa del Senato, e non della presidente, dava accesso anche alle relazioni di minoranza presentate a titolo individuale da alcuni componenti dell’epoca. Nessun intento di avvalorare tali opinioni così come quelle di altri”. La nota finisce per essere una pezza peggiore del buco, perché concede dignità di “opinioni” a quelli che sono invece clamorosi errori e veri depistaggi.
Anche il giornalista Primo Di Nicola, senatore del Movimento cinque stelle, ha criticato l’accaduto: “Utilizzare i siti social del Senato per rilanciare le tesi neofasciste intorno alle responsabilità degli anarchici sulla strage del 12 dicembre del 1969 è semplicemente un’operazione vergognosa di mistificazione storica. Un colpo alla memoria delle vittime e alla sofferenza dei familiari. Le responsabilità dei movimenti clandestini neofascisti dell’epoca e le collusioni degli apparati deviati dello Stato sono ormai un fatto acquisito. Mi auguro che la presidente del Senato Casellati faccia sentire presto la sua voce per tutelare l’immagine e il prestigio del Senato”.
Ma la voce, appunto, non è pervenuta. Anzi, anche nelle celebrazioni della mattinata, Casellati aveva evitato di citare i reali responsabili della strage limitandosi a queste parole senza accennare ad alcuna matrice: “Lo sdegno dell’Italia intera per la strage di piazza Fontana non si è mai spento. Il 12 dicembre 1969 ci furono sgomento, dolore, indignazione. Fu l’inizio di una lunga stagione di sangue. Ma a 52 anni di distanza, il pensiero per le 17 vittime e il ricordo di quel barbaro crimine devono essere un monito affinché le trame eversive e le sofferenze che ne derivarono, individuali e collettive, non si ripetano più nel futuro”.
Nella cerimonia in piazza Fontana, ieri, è stato contestato il sindaco Giuseppe Sala, che a proposito dello sciopero indetto per il 16 dicembre ha detto: “Lo sciopero è probabilmente sbagliato, ma è un diritto”. Fischi e grida hanno interrotto il suo intervento.
Alessandra Arachi per il "Corriere della Sera" il 13 dicembre 2021. Sono passati cinquantadue anni da quel pomeriggio a Milano. Era un venerdì, erano le 16.37: sette chili di tritolo squarciarono il salone centrale della Banca Nazionale dell'Agricoltura, in piazza Fontana. Quella bomba uccise 17 persone, ne ferì 88. E cambiò il corso della storia italiana. «La prova a cui l'Italia venne sottoposta fu drammatica. Ma vinse la democrazia, e con essa prevalsero i valori di cui la Costituzione è espressione. Anche per questo è necessario fare memoria». Il ricordo del Capo dello Stato Sergio Mattarella è nitido: quella strage fu un attacco alla democrazia. «Tutto questo è stato chiaro ben presto alla città di Milano e alla comunità nazionale. La risposta unitaria, solidale, di popolo contro il terrorismo, e contro tutti i terrorismi che insanguinarono l'Italia dopo piazza Fontana, è risultata decisiva per isolare, sradicare e quindi sconfiggere l'eversione. La democrazia è un bene prezioso che va continuamente difeso e ravvivato». La risposta fu unitaria e solidale. E il presidente Mattarella ricorda che «la verità non è stata pienamente svelata». Ma aggiunge: «Tuttavia, nonostante manipolazioni e depistaggi, emerge nettamente dal lavoro di indagine e delle sentenze definitive la matrice eversiva neofascista e l'attacco deliberato alla vita democratica del Paese». Parole decise, quelle del Capo dello Stato. Che per qualche ora sono andate in rotta di collisione con il contenuto di un tweet sull'account ufficiale del Senato. Con un link alla relazione del 2000 di due parlamentari missini, quel tweet rilanciava la pista anarchica per la strage di piazza Fontana, «il ruolo ancora non chiarito di Pietro Valpreda». «Un mero errore tecnico di collegamento al link», preciserà poi l'ufficio stampa di Palazzo Madama rimuovendo il tweet. Era stato il segretario di Sinistra Unita Nicola Fratoianni a segnalare quell'«incredibile» post: «Spero che la senatrice Casellati rettifichi al più presto, spiegando perché sia potuto accadere un episodio simile». Dal Senato è arrivata la spiegazione dell'errore, mentre Elisabetta Casellati aveva già manifestato «lo sdegno mai spento dell'Italia intera per la strage». Per la presidente del Senato «il 12 dicembre 1969 fu l'inizio di una lunga stagione di sangue, e a 52 anni di distanza il pensiero per le 17 vittime e il ricordo di quel barbaro crimine devono essere un monito affinché le trame eversive e le sofferenze che ne derivarono, individuali e collettive, non si ripetano più nel futuro». Anche il presidente della Camera Roberto Fico è convinto che la strage di piazza Fontana «seminò morte e terrore, ma la strategia della tensione non riuscì nell'intento di sovvertire l'ordine democratico. Il nostro Paese, seppure a caro prezzo, seppe resistere e opporsi all'attacco eversivo». È stato proprio in piazza Fontana che ieri pomeriggio i cittadini milanesi si sono stretti attorno a quel ricordo doloroso, una manifestazione per commemorare i caduti della strage. Una manifestazione pacifica che ad un certo punto è stata interrotta da urla e un po' di fischi contro Beppe Sala. Tutto per una frase sullo sciopero generale del 16 dicembre indetto da Cgil e Uil che il sindaco non ha fatto in tempo a terminare. «Lo sciopero è probabilmente sbagliato, ma è un diritto...», ha iniziato Sala. Spiazzato dai cori e dalle urla, ha avuto anche una serie di battibecchi con i manifestanti che gli hanno fatto perdere la pazienza. «Non dite ca...», si è lasciato sfuggire il primo cittadino di Milano prima di poter poi concludere il suo discorso.
Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. 73a SEDUTA MERCOLEDI 5 LUGLIO 2000 Presidenza del Presidente PELLEGRINO
Indice degli interventi
PRESIDENTE
ALLEGRA
BIELLI (Dem. di Sin.-L’Ulivo), deputato
DOZZO (Lega Forza Nord Padania), deputato
FRAGALA' (AN), deputato 1 - 2 - 3
MANCA (Forza Italia), senatore
MANTICA (AN), senatore 1 - 2 - 3
MIGNONE (Misto Dem.-L'Ulivo), senatore
La seduta ha inizio alle ore 20.15.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.
Invito l'onorevole Fragalà, segretario f.f., a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.
FRAGALÀ, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 4 luglio 2000.
PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
INCHIESTA SU FENOMENI DI EVERSIONE E TERRORISMO: AUDIZIONE DEL DOTTOR ANTONINO ALLEGRA.
Viene introdotto il dottor Antonino Allegra.
PRESIDENTE. Do il benvenuto all'onorevole Dozzo che, come in precedenza annunciato, ha sostituito la deputata Giovanna Bianchi Clerici.
Ringrazio il dottor Antonino Allegra di aver accettato il nostro invito e gli do la parola chiedendogli di ricostruire brevemente le date del suo impegno a Milano presso l'ufficio politico della questura, per permettere così ai commissari di rivolgere successivamente alcune domande. In particolare chiedo al dottor Allegra di fare riferimento al periodo dal 1968 in poi.
ALLEGRA. Ho assunto la direzione nel febbraio 1968, pochi giorni prima dell'occupazione dell'università di Milano e dell'inizio formale della contestazione. Sono andato via da Milano nel gennaio del 1973 perché avevo avuto la promozione a vice questore e questa non era compatibile con l'incarico che avevo prima.
PRESIDENTE. Potrebbe descriverci qual era l'atmosfera di quel periodo, con riferimento alla contestazione studentesca, all'"autunno caldo", alla morte dell'agente Annarumma, agli scontri di via Solferino?
ALLEGRA. I fenomeni contestativi a Milano non sono apparsi improvvisamente, sono stati preceduti da certi atteggiamenti quali il rifiuto di un certo modello borghese. Soprattutto c'è stato prima un fenomeno che ritengo importante: persino nelle file del Partito comunista c'era un fenomeno di antirevisionismo; i giovani non erano soddisfatti dell'atteggiamento del loro partito e si erano posti in una posizione se non di conflittualità, senza dubbio di critica. Anche nella parte cattolica c'era qualcosa del genere. Tutte queste situazioni cominciavano a far pensare che, quando si fossero saldate queste diverse istanze contestative, potesse verificarsi una contestazione generale. Era allora questore di Milano il dottor Parlato, una persona molto sensibile, con il quale ho avuto un ottimo rapporto e con il quale discutevo dell'opportunità di organizzarci per poter fronteggiare una simile evenienza. I fenomeni contestativi di una certa importanza si verificarono molto prima di quanto avevamo preventivato. Il 17 febbraio 1968 vi fu a Milano una manifestazione che ritengo importante. Credo sia stata l'ultima grande manifestazione indetta dalla Consulta per la pace sul problema del Vietnam. In quella circostanza i gruppi cosiddetti filomaoisti, che in realtà erano gli antirevisionisti, formarono una sorta di contro corteo. Il corteo principale percorse tutte le vie del centro dirette a piazzale Loreto, passando davanti al consolato americano. Da parte degli organizzatori e di chi partecipava al corteo ufficiale non c'era volontà di creare incidenti, ma quelli che erano più indietro cominciarono a lanciare oggetti e pietre e alla fine vi furono scontri di una certa importanza. La cosa finì lì, ma erano i primi sintomi che la situazione cominciava a diventare se non più allarmante, più preoccupante. Il 22 febbraio vi fu l'occupazione dell'università statale che fu possibile anche perché, tre mesi prima, nel novembre 1967, vi era stato un inizio di contestazione alla "Cattolica", anche se non molto chiara, nel senso che si parlava dell'aumento delle tasse e sembrava una delle tante manifestazioni di protesta contro le autorità scolastiche. Invece c'era qualcosa di più. In effetti, vi fu una occupazione che si risolse in poco tempo perché il rettore, professor Franceschini, richiese il nostro intervento e noi la stessa notte sgombrammo l'università. Le autorità accademiche presero un provvedimento nei confronti di tre dei loro iscritti che ritenevano fossero gli organizzatori di questa manifestazione e che erano Mario Capanna, Spada e Luciano Pero che di autorità furono trasferiti all'università statale. Vi fu allora una confluenza di forze diverse di varie estrazioni, poi quando iniziò la contestazione confluirono anche persone che con l'università non avevano niente a che vedere e si creò un primo nucleo di contestazione violenta, anche perché, mentre in passato non si pensava di reagire quando la polizia decideva un divieto, da quel momento i ragazzi si premunirono di caschi, scudi e così via e cominciò una conflittualità molto più violenta di quanto fosse accaduto in precedenza. Rispetto a questa contestazione, che poi fu definita globale, ci si accorse che la richiesta sul piano accademico e scolastico prevedevano un altro assetto, non si potevano ottenere senza modificare certi aspetti della struttura statale e quindi la contestazione dall'ambiente scolastico e accademico finì per orientarsi in altra direzione, cominciò a diventare quello che si potrebbe definire un movimento piuttosto rivoluzionario. È chiaro che ci preoccupavamo non tanto dell'impatto in sé, perché la nostra era una democrazia e aveva i mezzi per risolvere certi problemi in via pacifica piuttosto che attraverso gli scontri. Però, avevamo chiaro che da questo formarsi di forze contestative eterogenee, potessero nascere anche filiazioni più o meno pericolose. Questa era la nostra preoccupazione, tanto che, dopo i primi mesi, dopo un continuo tumultuare di assemblee, si cercò anche da parte del movimento studentesco di trovare un terreno ideologico unico per tutti i contestatori, ma si verificarono situazioni centrifughe. C'era il gruppo anarchico individualista che andava per conto suo, c'era il gruppo dell'unione italiana marxisti-leninisti che andava per conto suo, poi con il tempo, si costituirono altre formazioni come Avanguardia operaia, Lotta continua, Potere operaio che già esisteva ma non sotto questa forma. Quindi, nonostante i nostri sforzi, la situazione si andava aggravando ogni giorno di più; anche perché – questo è piuttosto un giudizio personale – se chi ne aveva il potere avesse studiato bene il fenomeno e avesse cercato delle soluzioni, forse si sarebbe potuto non dico eliminare ma senza dubbio attenuare questa sfida, che poi, con il passare del tempo, portò anche a conseguenze tragiche.
PRESIDENTE. Devo chiederle soltanto due chiarimenti. In primo luogo, la radicalizzazione di opposto segno politico quando comincia a manifestarsi a Milano?
ALLEGRA. Comincia a manifestarsi già all’inizio. Nel momento in cui viene occupata l’università, vengono interrotte le lezioni, vengono interrotti gli esami, da parte di altri vi era la volontà di opporsi in qualche maniera: "Io voglio andare a studiare!". Lì cominciano i primi scontri; ma la situazione era impari: il Movimento studentesco comprendeva una grande massa di persone, gli altri invece non erano che una piccola parte e appartenevano ad alcune organizzazioni (non è che ce ne fossero molte poi), come il FUAN, l’organizzazione universitaria di estrema destra. L’organizzazione più attiva comunque era quella dei giovani, che erano più numerosi, la Giovane Italia.
PRESIDENTE. E da parte vostra, un’attività di monitoraggio dall’interno di questi nascenti gruppi rivoluzionari di sinistra iniziò immediatamente? La faceste? Ci pensaste?
ALLEGRA E’ chiaro, ci pensavamo. Seguivamo con attenzione per vedere cosa si andava formando.
PRESIDENTE. Non mandavate qualche poliziotto con i capelli lunghi a fare pure lui delle assemblee?
ALLEGRA. Con i capelli lunghi non ce n’erano.
PRESIDENTE. Con i capelli corti lo avrebbero riconosciuto subito. Non pensaste di farli crescere a qualcuno?
ALLEGRA. Alcuni nostri poliziotti erano già studenti, quindi non c’era bisogno che si camuffassero: avevano la possibilità di essere presenti in qualche assemblea e comunque di avere dei rapporti.
PRESIDENTE. Per dirla chiara, non pensaste di infiltrare questi gruppi immediatamente?
ALLEGRA. Di infiltrazione se ne parlò tanto, ma non abbiamo avuto questa…
PRESIDENTE. Mi sembra però – come dire – una grave mancanza, visto che quei movimenti erano permeabilissimi, almeno nella fase iniziale.
ALLEGRA. Infatti, come le dicevo, avevamo dei nostri poliziotti-studenti che erano in condizione di avere rapporti con il movimento studentesco. Poi, molte cose riuscivamo a saperle perché avevamo contatti continuati, tutti i giorni, anche con i maggiori contestatori. Dai dialoghi e dai colloqui che c’erano molte cose si capivano. E’ quando non si parla che non si …
PRESIDENTE. L’impressione che stessero cominciando forme di compartimentazione, quindi di clandestinità di questi gruppi, quando iniziaste a percepirla? Quand’è che dal movimento, dalla contestazione dichiarata nasce Prima linea?
ALLEGRA. Nasce dopo. La prima enucleazione, se così si può chiamare, ma che è nell’essenza stessa dei fatti, è quella di un gruppetto che si definiva "anarchici individualisti". Anche il Movimento studentesco a volte cercava di emarginarli perché non corrispondevano alla sua logica. Era un gruppo che bazzicava la zona di via Brera, via Madonnina, quella parte lì. Iniziarono a fare dei piccoli attentati; il primo addirittura nel marzo 1968, contro la Dow Chemical. Lasciarono un volantino che in parte rimase bruciacchiato, ma dai pezzi che rimasero fu in parte ricostruito. Un altro attentato si verificò pochi mesi dopo, nel maggio, contro la Citroen, in concomitanza con il famoso "Maggio francese". Poi via via se ne verificarono altri. Erano attentati dimostrativi, anche perché non erano molto potenti. Erano realizzati con ordigni rudimentali, a base di nitrato di potassio. Tuttavia nell’agosto di quell’anno, 1968, vi è stato un grosso allarme per il rinvenimento a "La Rinascente" di Milano di un ordigno esplosivo incendiario che fortunatamente non esplose. Abbiamo creduto allora che la mancata esplosione dipese dal fatto che la forza che la pila dava alla resistenza elettrica per fare incendiare il nitrato di potassio non era stata sufficiente.
PRESIDENTE. In che data avvenne?
ALLEGRA. Nell’agosto 1968, mi sembra il 31. Un altro ordigno, sempre a "La Rinascente" venne trovato nei giorni precedenti il Natale 1968. Il sistema più o meno è lo stesso però questa volta al posto della resistenza venne messo un fiammifero "contro vento". Si erano resi conto che il primo ordigno non era esploso perché la resistenza non aveva avuto forza sufficiente per far incendiare il nitrato di potassio e quindi usarono quest’altro sistema. L’attentato non riuscì perché un guardiano notturno vide l’ordigno e staccò i fili. Questo episodio ci fece molto preoccupare. Il primo di questi attentati fu rivendicato in forma diversa. Infatti, i piccoli attentati di cui dicevo prima (contro il Banco ambrosiano, la Banca d’Italia, la Chiesa di San Babila) venivano rivendicati con un volantino scritto a stampatello ciclostilato in parecchie copie e lasciato sul posto. Quelli de "La Rinascente", invece, furono rivendicati in maniera diversa. Perché non potevano lasciare un volantino sul posto in cui si presumeva che si sarebbe verificato un incendio; e allora fu mandata una lettera, a firma "Gruppo anarchico Ravachol" che giunse in questura. Naturalmente queste cose ci preoccuparono e fu questo il motivo – l’abbiamo detto mille volte, forse non ci credono, non lo so – per cui noi avevamo la percezione che la cosa avvenisse nella zona di Brera. Fra le altre cose, da quelle parti bazzicava anche il Feltrinelli, allora, che pubblicava il famoso "Tricontinental", che invitava la gente a fare la rivoluzione anche a livello individuale: chi va in un supermercato e non paga compie un atto rivoluzionario. Nella rivista "Tricontinental" in prima pagina si diceva: "Chi vuole fare la rivoluzione non a parole si guardi l’ultima pagina di copertina". Nell’ultima pagina di copertina era descritta la confezione rudimentale di un’arma o di un ordigno esplosivo. Anche sulla base non dico di confidenze precise, ma di notizie che si riuscivano ad acquisire nell’ambiente, avevamo il sospetto che lì, nella zona di Brera, ci fosse qualcosa su cui dovevamo porre attenzione.Occorre chiarire una volta per sempre certe cose. Noi contattammo alcuni esponenti dell’anarchia, che consideravamo ideologicamente più maturi e quindi meno propensi a fare delle azioni pericolose, se vogliamo anche irrazionali. Tra questi cito appunto il Pinelli, Amedeo Bertolo e qualche altro di cui non ricordo il nome. Amedeo Bertolo lo conoscevamo dai tempi del sequestro del vice consolo spagnolo Isu Elias; li consideravamo gente che dava un certo affidamento.
PRESIDENTE In che periodo siamo?
ALLEGRA. Verso la fine del ‘68 e agli inizi del ’69, in quell’inverno lì. Non ci illudevamo che queste persone ci dicessero se sapevano, ammesso che lo sapessero, chi faceva questi attentati. Abbiamo però fatto un ragionamento, e non è stata l’unica volta (il senatore Mantica che è qui presente sa che lo facevamo anche in altre direzioni), quello cioè di chiamare delle persone responsabili, avere dei colloqui, e dire: "signori, stiamo attenti, può succedere questo e quest’altro"; è chiaro che non ci aspettavamo che ci dicessero queste cose, ammesso che lo sapessero, naturalmente. Avrebbero però potuto convenire sulle nostre considerazioni. Noi dicevamo che fino a quel momento non era accaduto niente ma se un domani ci fosse "scappato il morto" la faccenda poteva iniziare a diventare grave. Quindi anche dal punto di vista dell’interesse del movimento non era una cosa che poteva essere utile. Era un ragionamento che noi forse facevamo anche in senso utilitaristico, se si vuole, però era anche un ragionamento logico. Quindi speravamo che questi soggetti avessero la possibilità di dire: "Signori, smettetela con queste cose qui perché non serve a nessuno". Questo ci avrebbe lasciati un po’ più tranquilli anche a noi. Invece i fatti continuarono, tant’è vero che Della Savia e un certo Braschi andarono nel bergamasco e rubarono un certo quantitativo di esplosivo da mina, che utilizzarono per diversi attentati, tra gli altri, quello del palazzo di giustizia di Livorno del Natale del ‘68 e quelli di Genova e di Roma (al palazzo di giustizia, al Senato e mi sembra al Ministero della pubblica istruzione). Si è trattato anche di attentati gravi, perché, pur essendo compiuti di notte e non avendo fatto vittime, erano di una potenzialità che cominciava ad essere preoccupante. Questo esplosivo Braschi e Della Savia se lo erano diviso. Sembra anche che una parte era stata sottratta da altri e utilizzata per altri attentati. Uno di questi riuscì, quello contro l’ufficio spagnolo del turismo; un altro contro la caserma Garibaldi non riuscì perché l’ordigno non esplose; un altro ancora non fu portato a termine perché un giovane, che aveva questo involucro in mano, fu sorpreso da una guardia giurata e scappò lasciando l’involucro che conteneva questi candelotti di esplosivo. Questo avveniva a marzo del ’69. Si sa poi che il 25 aprile avvengono quei due attentati alla fiera di Milano e all’ufficio cambi della stazione di Milano. In quella circostanza noi naturalmente accentuammo le indagini. Vorrei premettere che qualche tempo prima, anche sulla base di una informazione, dopo un attentato alla biblioteca ambrosiana facemmo una perquisizione a casa di un certo Francesco Bertoli, in via Lanzoni se non ricordo male, e trovammo dell’esplosivo. Questo tizio fu arrestato, fu poi processato e così via; ma credo che ciò non abbia nulla a che vedere con questi fatti successivi. In quei giorni noi perciò intensificammo le indagini le quali ci portarono al fermo di Paolo Braschi e poi di Faccioli.
PRESIDENTE. Dopo le bombe all’ufficio cambi e alla fiera.
ALLEGRA. Infatti.
PRESIDENTE. Ma il fatto che quelle bombe esplodessero il 25 aprile non vi diceva niente? Cioè, vi sembrava una data in cui degli anarchici avrebbero potuto fare un attentato? Non era più facile pensare che fossero quelli che ritenevano il 25 aprile una data infausta?
ALLEGRA. Le dirò una cosa. Il 25 aprile 1955 io ero a Milano e c’erano delle manifestazioni contro tale ricorrenza da parte della destra; ricordo persino che furono diffusi dei volantini nei quali si considerava il 25 aprile un lutto nazionale. Noi in quella circostanza individuammo alcuni ragazzi ed un signore che diffondevano questo volantino i quali furono processati. Era molto interessante sapere come la pensava la magistratura; noi li denunciammo per vilipendio alle forze di resistenza. Ma, dopo quella volta, il 25 aprile era sempre passato più o meno senza tanti problemi. Forse una volta – ma non ricordo se era il 25 aprile, forse sì - furono messi dei simulacri di bombe nei pressi di certi obiettivi, che non ricordo quali erano, e noi scoprimmo che erano delle latte che contenevano del gesso con dei fili che uscivano fuori con scritto "pericolo di morte"; praticamente era uno scherzo: il 25 aprile del ‘69 tutto si poteva pensare, anche che fossero stati elementi di destra. Però non è che la fiera di Milano, così come "La Rinascente", fossero obiettivi ben visti anche dagli estremisti di sinistra, in particolare anche dagli anarchici. Quindi, siccome avevamo queste prime indicazioni, poi le sviluppammo ed esse portarono alla scoperta che un certo numero di attentati erano stati fatti proprio da Della Savia, Braschi e Faccioli. Noi allora procedemmo nei confronti di costoro e di chi ritenevamo che stesse sopra di loro. Occorre anche chiarire una cosa. Nel rapporto che noi facemmo alla magistratura - che sicuramente la Commissione ha - noi denunciammo per reati commessi realmente Della Savia, Faccioli e Braschi.
PRESIDENTE. Che erano sempre gli anarchici.
ALLEGRA. Sì. Li denunciammo per quei fatti in ordine ai quali si era raggiunta la prova assoluta. Per altri reati li avevamo denunciati come sospetti. Cioè, non avevamo detto che erano loro ma che sospettavamo che fossero loro per dei motivi che specificammo nel rapporto, che posso solo accennare perché non ricordo con precisione: in particolare, perché avevano usato il nitrato di potassio, perché c’era un interruttore all’esterno della borsa e questo corrispondeva ad un ordigno il cui schizzo avevamo trovato in una tasca del Faccioli, perché il Faccioli e il Della Savia in quei giorni si sono trovati a Milano e alcuni giorni prima erano stati a Livorno, dove avevano utilizzato un saldatore elettrico del Braschi in sua assenza e perché pochi giorni prima era stato acquistato un chilo di nitrato di potassio in via Lanzoni. Erano tutti elementi che potevano far supporre che, così come avevano fatto in precedenza, avevano fatto anche questa volta. Premetto anche che l’attentato alla stazione di Milano all’ufficio cambi aveva molta analogia con quello de "La Rinascente" perché, da quanto arguimmo dall’ordigno esploso, questo doveva essere formato da esplosivo al nitrato di potassio e da una bottiglia incendiaria, che poteva essere di benzina, trielina o cose del genere. Aveva molta similitudine con quello de "La Rinascente". Quando riferimmo al magistrato dicemmo che di alcuni reati eravamo sicuri che fossero stati commessi da loro, mentre per alcuni altri sospettavamo che fossero stati loro. Questa vicenda è consacrata in un rapporto che sicuramente molti dei commissari avranno avuto modo di vedere e che credo sia a disposizione della Commissione.
PRESIDENTE. Ormai sono passati trentuno anni dal 1969. Vi è stata una serie di accertamenti giudiziari e ritengo che lei oggi sappia che gli attentati dinamitardi avvenuti nella primavera di quell’anno venissero dall’opposta radicalizzazione. Nel leggere la sentenza relativa alla strage di Bologna colpisce soprattutto il fatto che la ricostruzione di tale strage è su base indiziaria; però nel ricostruire la credibilità degli indizi i giudici bolognesi fecero un lunghissimo elenco di attentati attribuiti in sede giudiziaria sicuramente a gruppi di giovani dell’estrema destra. Lei oggi, a distanza di trentuno anni, sulla vicenda dell’ufficio cambi e della fiera di Milano non opera nessun ripensamento? E’ sempre convinto che siano stati gli anarchici?
ALLEGRA. Non ne sono affatto convinto, come del resto non ne ero convinto neanche allora, anche se non posso escluderlo. Il nostro rapporto è chiaro. Non abbiamo mai affermato che questi attentati sono stati eseguiti da tali persone e per quanto riguarda i fatti di Bologna cui lei accennava io ignoro quali elenchi siano stati fatti. Mi devo riferire alla realtà che conosco, avendo vissuto a Milano. Gli attentati che ci furono a Milano in quel periodo sono quelli. Vi furono anche degli attentati di destra ma avvennero molto prima, negli anni 1964-1965.
MANTICA. In primo luogo mi permetto di ricordare al presidente Pellegrino che a Milano esiste una tradizione anarchica.
PRESIDENTE. Mi sembra che continua ad esistere.
MANTICA. Questa tradizione nasce da una vicenda precisa: l’attentato al Diana del marzo del 1921 fatto per protestare contro la detenzione del Malatesta, che non voglio dire che appartenesse agli anarchici, ma non è stupefacente che ad aprile si registrassero degli attentati anarchici.
Nel ringraziare il dottor Allegra per essere intervenuto questa sera, mi permetto di rivolgergli alcune domande partendo in primo luogo da una premessa che certamente il presidente Pellegrino considererà un mio ricordo personale. Quando ha fatto la domanda sulle infiltrazioni o sui tentativi di infiltrazioni, devo dire che negli anni 1968-1969 la DIGOS di Milano aveva questa capacità di affiancare o di introdurre negli ambienti allora ufficiali, sia di destra che di sinistra, funzionari ai quali nessuno diceva mai niente, ma che alla fine della serata dopo aver parlato con venti o trenta persone della stessa area venivano a conoscenza di molte cose. Era una tecnica consolidata e visto che ho parlato di ricordi personali il mio addetto era l’agente Berolo che mi seguiva più o meno ovunque. Fino al 12 dicembre 1969, vale a dire l’attentato alla Banca dell’agricoltura meglio conosciuto come strage di piazza Fontana, alla DIGOS di Milano risultarono mai bombe o comunque attentati con esplosivi fatti dall’estrema destra milanese?
ALLEGRA. Senatore Mantica, l’attentato al Diana del 1921 fu fatto contro il questore Gasti che si salvò perché quella sera doveva andare ad una cerimonia – mi pare fosse uno spettacolo teatrale – cui all’ultimo momento non andò per ragioni di lavoro. C’è poi un altro attentato del 1928 contro il re durante l’inaugurazione della fiera in piazza Giulio Cesare. In ogni caso i nostri elementi non si "intrufolavano"; ci limitavamo a tenere dei contatti. Voglio chiarirlo ancora una volta perché tante volte si parla di infiltrati come di agenti provocatori. Così non è.
PRESIDENTE. Le mie parole non erano intese in questo senso.
ALLEGRA. Signor Presidente, parlavo in generale, perché mi è capitato di sentire anche queste affermazioni. In effetti una delle armi migliori di un ufficio che funziona è di avere continui rapporti personali, magari non di amicizia stretta ma comunque buoni rapporti di vicinato o comunque di conoscenza, perché da una parola si vengono a sapere tante cose. Certamente non tutto, ma quanto basta talvolta per avviare in una certa direzione determinate indagini. Ritengo pertanto che tale rapporto sia una cosa normale.
MANTICA. Lei mi conferma che fino al 12 dicembre 1969 l’ufficio DIGOS di Milano…
ALLEGRA. Allora, si chiamava ufficio politico.
PRESIDENTE. La interrompo per un attimo, senatore Mantica, perché vorrei precisare quanto avevo precedentemente detto. La sentenza della Corte di assise di Bologna del 16 maggio 1994 enumera diciassette su ventidue attentati terroristici, avvenuti tra l’aprile e il dicembre 1969, di cui afferma essere pacifica l’attribuibilità a Freda e Ventura.
MANTICA. Mi scusi, signor Presidente, ma noi stiamo parlando di Milano.
PRESIDENTE. Infatti, la mia intenzione era soltanto di fare una precisazione rispetto a quanto io avevo detto precedentemente.
MANTICA. Quando il prefetto Mazza nel 1970 scrisse quel famoso rapporto, voi contribuiste? In ogni caso lei ritiene che quel rapporto fosse veritiero e descrivesse la situazione milanese come la conoscevate, o a suo modo di vedere, era carente in qualche parte?
ALLEGRA. Il rapporto Mazza del 1970 è il rapporto Mazza. E’ chiaro che il prefetto Mazza si avvalse di informazioni che furono richieste a noi. Ricordo infatti che allora facemmo un rapporto indicando movimento dopo movimento, di estrema destra e di estrema sinistra, indicando il numero approssimativo di quelli che ne facevano parte, il numero di coloro che nell’ambito di ciascun gruppo consideravamo i più pericolosi. Su diecimila persone vi sono sempre cinquecento disposti a battersi mentre gli altri sono sempre pronti a scappare. Questo era il quadro che davamo. Bisogna inoltre ricordare la situazione esistente all’epoca a Milano. Una situazione veramente invivibile, per non parlare poi delle grandi manifestazioni, dei grandi blocchi stradali e degli scontri di piazza. Il prefetto Mazza ha preso da noi le informazioni sui gruppi di cui lui parla, come del resto anche alcuni orientamenti. Era una persona di grande cultura e perciò in grado si giudicare da sé.
MANTICA. Secondo lei, perché subito dopo la strage di piazza Fontana sia l’ufficio politico della questura di Milano, sia il sostituto procuratore Vittorio Occorsio di Roma (dove vi furono attentati che non ebbero l’effetto che purtroppo ebbero a Milano), indirizzarono le indagini sugli anarchici?
ALLEGRA. Questo non è vero. Quando avvenne il fatto così grave non eravamo in grado di fare una simile supposizione, non era nel nostro costume, nella nostra educazione e nella nostra preparazione professionale. Il fatto che in altri ambienti possano essere stati fatti certi ragionamenti è qualcosa di pericolosissimo, come del resto è pericolosa la teoria del cui prodest perché si rischia di indirizzare le indagini su piste sbagliate facendo anche perdere tempo prezioso. In questi casi ogni ritardo è pregiudizievole per le indagini.
MANTICA. Mi riferivo alle ore subito dopo la strage di piazza Fontana.
ALLEGRA. Non dicemmo con certezza che si trattasse di certi o di altri, anche se ognuno di noi aveva una propria ipotesi. La cosa certa era che fosse necessario cominciare le indagini sugli elementi a disposizione: chiunque poteva aver commesso il fatto, anche un folle. La nostra prima preoccupazione quella sera concerneva le conseguenze che un attentato del genere potesse provocare sull’ordine pubblico a Milano. Questo fu il motivo per cui alla fine si decise di accompagnare, anche coattivamente, in questura il maggior numero possibile di esponenti di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra, oltre ad elementi che ritenevamo, per precedenti ragioni, maggiormente sospettabili. Non bisogna dimenticare un aspetto, secondo me, importante: nel momento in cui agiva il gruppo Della Savia, Faccioli, eccetera, che ritengo rispetto ad altri anarchici che frequentavano la stessa zona su una posizione elitaria nei confronti di Feltrinelli perché gli altri venivano poco considerati, tra questi vi era anche Valpreda, il quale costituì un gruppetto di due o tre persone con i quali stampava un giornaletto, il cui titolo era "Terra e libertà" oltre ad un manifesto intestato "L’iconoclasta" per il quale noi li denunciammo per offesa a Capo di uno Stato estero e, cioè, il Papa. L’opuscolo "Terra e libertà" conteneva frasi quali: "si sono verificati per ora questi attentati; la polizia naviga nel buio ma altri ne arriveranno; i borghesi devono avere paura; e finiva con le altre: sangue, bombe ed anarchia". Questo era il linguaggio utilizzato da questo signore. Non indagammo su di lui per il semplice motivo che eravamo a conoscenza del fatto che aveva lasciato Milano. Quindi nel caso si fosse resa necessaria una indagine su di lui ritenemmo lo avrebbe fatto qualcun altro. Se avessimo saputo in quei giorni che era a Milano avremmo anche indagato su di lui non fosse altro per questo precedente; questo però è normale. Che cosa abbiamo fatto noi? Abbiamo accompagnato in questura tante persone innanzitutto evitando in tal modo eventuali fatti che sarebbero potuti succedere in piazza l’indomani. Questo era lo scopo principale della nostra iniziativa. Nel frattempo, pur nella difficoltà dei tanti impegni di quei giorni tremendi, cominciammo a chiedere a queste persone che cosa avessero fatto ed esse, man mano, fornivano alibi: alla nostra domanda su cosa avessero fatto nel pomeriggio costoro davano risposte, a volte credibili, per cui non si rendeva necessario riscontrarne la veridicità; qualche volta, al contrario, si è proceduto ad un loro riscontro. L’unico riscontro che non risultò vero fu quello concernente Pinelli, il quale raccontò di essere uscito di casa per andare al bar dove aveva giocato a carte fino alle 17.00 circa quando se ne era andato. Recatici quindi sul luogo, il gestore del bar e suo figlio ci dissero che aveva preso il caffè con un’altra persona ed era andato via. Abbiamo dovuto procedere ad ulteriori indagini, non ritenendo sufficiente la prima dichiarazione del gestore e di suo figlio i quali il giorno dopo furono interrogati più volte per chiedere conferma ufficiale di quanto raccontato e capire, dunque, il motivo per cui lui non lo avesse detto. Avevamo proceduto alla perquisizione; non ricordo esattamente se avevamo già riscontrato che quel giorno aveva consegnato un assegno ad un certo Sottosanti; non mi ricordo se lo riscontrammo lo stesso giorno o il giorno dopo. Personalmente dirigevo l’ufficio; i colleghi mi riferivano delle indagini, gran parte delle quali svolgevano direttamente. L’interrogatorio avviene il giorno 14. La sera dello stesso giorno la questura di Roma chiede notizie di Valpreda e alla nostra risposta negativa chiede di cercarlo perché nuovamente scomparso da Roma e sospettato, sulla base di informazioni provenienti dal Circolo XXII marzo.
PRESIDENTE. Su cinque due erano poliziotti.
ALLEGRA. Uno solo di loro, un certo Ippolito se non sbaglio, era poliziotto.
PRESIDENTE. Diciamo che si trattava di un circolo infiltrato. Riemerge anche in altre vicende. Personalmente penso che debba esistere. L’infiltrazione è una delle cose da fare; non la considero affatto negativamente. Diverso è il passaggio dall’infiltrazione all’agente provocatorio; diversa ancora è la strumentalizzazione.
ALLEGRA. L’infiltrazione può essere effettivamente pericolosa.
PRESIDENTE. Oggi io darei una medaglia a coloro che si infiltrassero tra quelli che hanno ammazzato D’Antona.
ALLEGRA. Non è necessario procedere ad infiltrazioni; si può arrivare a delle conclusioni anche attraverso delle buone indagini.
MANTICA. La sera del giorno 14 dicembre 1969 fu chiamato da Roma perché non trovavano più Valpreda?
ALLEGRA. Lo cercavano in quanto erano giunte loro delle informazioni: parlavano, innanzitutto, di un deposito di esplosivi, se ricordo bene, fuori Roma; comunque sia Valpreda si era allontanato da Roma. Tra l’altro, eravamo ridotti al lumicino quando ricevemmo la telefonata alle 10 di sera; decidemmo comunque di riunire gli uomini disponibili per cercare a tutti i costi Valpreda. Si formò allora la squadra che cominciò a cercarlo la mattina dopo; non lo trovarono a casa; la nonna, presso la quale si recarono successivamente, disse che quella mattina si doveva recare al Palazzo di Giustizia. Quindi la squadra si recò là, dove lo trovarono. Venne condotto in questura ed avvertita la questura di Roma venne lì inviato, accompagnato da un funzionario.
PRESIDENTE. Nel frattempo con l’ufficio affari riservati del Viminale avevate rapporti e riferivate i vostri risultati?
ALLEGRA. Riferivamo al Ministero tutto quanto succedeva; per le cose di competenza degli affari riservati riferivamo all’ufficio competente.
PRESIDENTE. Quanto di tutto quello che ci ha raccontato faceva parte della competenza di questo ufficio?
ALLEGRA. Questo ufficio non svolgeva indagini. Era nostro compito farle. Noi riferivamo gli effetti, i risultati e per quanto riguarda altri campi non criminosi riferivamo sulle notizie importanti che potevano interessare il centro.
PRESIDENTE. Per esempio?
ALLEGRA. Si veniva a sapere che si costituiva una nuova organizzazione che poteva avere determinati obiettivi. Allora si scriveva affinché il centro fosse in condizione di controllare se analoghe informazioni fossero pervenute da altre parti dello Stato.
MANTICA. Siamo arrivati quindi a capire perché ad un certo punto Pinelli e Valpreda in una platea di "osservati speciali" diventarono…
ALLEGRA. Non si trattava di osservati speciali, o meglio, senatore Mantica, diventarono osservati speciali più tardi. Non è che noi ci aspettassimo che lui mettesse in opera l’operazione che gli avevamo richiesta, tuttavia speravamo che la manifestazione di buona volontà da parte degli elementi più responsabili potesse essere utile. Dopo un po’ di tempo, tuttavia, abbiamo cominciato ad avere qualche sospetto su Pinelli, sia per certe frequentazioni, sia per le sue dichiarazioni dal momento che prima aveva affermato che era impossibile che gli attentati fossero stati condotti da elementi anarchici e altresì che se ne fosse stato informato sarebbe stato comunque il primo a prenderli a calci nel sedere, per poi successivamente impegnarsi al massimo per aiutarli e fargli avere i mezzi necessari per l’assistenza legale. Tra l’altro ci risultava che egli avesse delle frequentazioni all’estero, aveva molti rapporti perché metteva il naso un po’ dappertutto. La mia impressione è che Pinelli fosse una persona che non intendesse in alcun modo essere enucleata o messa da parte, ma volesse essere un protagonista. In tal senso va collocata anche una letteraccia inviatagli dalla signora Vincileoni che era la moglie di Corradini, un personaggio coinvolto nella vicenda di via Madonnina. Allora non esisteva il termine sorvegliato speciale, questa espressione appartiene ad un’altra epoca, Pinelli e Valpreda erano persone che comunque noi tenevamo in considerazione.
MANTICA. A proposito dei rapporti internazionali del Pinelli vi risulta quindi che ricevesse nell’ottobre 1969 dell’esplosivo da Parigi?
ALLEGRA. Avemmo questa informazione, tuttavia purtroppo non potemmo riscontrarla, nel senso che la prova certa non l’abbiamo mai avuta. In ogni caso era notorio che fosse in qualche maniera stato contattato e coinvolto in una faccenda che riguardava la Grecia.
MANTICA. Infatti l’esplosivo che proveniva da Parigi avrebbe dovuto essere destinato alla Grecia?
ALLEGRA. Queste erano le voci che correvano allora, o meglio erano voci estremamente diffuse. In ogni caso ci risultava che avesse rapporti con una signora francese di cui non ricordo il nome e con un certo Jean Pierre De Nanter che era uno di quei personaggi che si erano messi in vista nel famoso maggio francese; mi sembra tra l’altro che si trattasse di un soprannome perché credo che in realtà si chiamasse Deteuil. Dico questo perché successivamente attraverso un identikit riuscimmo anche ad immaginare chi potesse essere, visto che si trattava di un personaggio che ci preoccupava dal momento che ci risultava che venendo in Italia avesse fatto dichiarazioni di un certo tipo, in base alle quali era necessario agire, fare attentati e altre azioni. Come ho già detto facemmo fare un identikit attraverso l’aiuto di una persona che lo aveva conosciuto personalmente e tramite il Ministero spedimmo questo identikit a Parigi; ci risposero che in base a quell’identikit poteva trattarsi di quel soggetto e ci mandarono anche una fotografia.
MANTICA. Mi sembra che lei non partecipò direttamente all’interrogatorio di Pinelli, ma che fosse effettuato dai suoi collaboratori. Le risulta che a Pinelli fosse stata mostrata una cassetta metallica identica a quelle impiegate nel fallito attentato alla Banca Commerciale e nella strage di piazza Fontana?
ALLEGRA. Non mi risulta. Ricordo semplicemente che una cassetta di questo tipo l’abbiamo invece trovata, una juwelparma quando effettuammo la perquisizione dell’abitazione di un certo Enzo Fontana che era uno di quelli che aveva organizzato i GAP di Feltrinelli, mi riferisco a quel soggetto che poi uccise il nostro brigadiere e che a sua volta fu ucciso durante un conflitto a fuoco. Costui aveva in casa una juwelparma con due revolver, due colt special, tanto è vero che il Procuratore della Repubblica manifestò il suo stupore per la somiglianza delle due cassette.
MANTICA. Nella deposizione del processo Calabresi-Lotta continua lei parlò di una repentina visita dell’onorevole Alberto Malagugini in questura pochi minuti dopo che Pinelli era precipitato dalla finestra. Dal verbale della deposizione risulta che lei abbia dichiarato: "E’ a causa di una visita dell’onorevole Malagugini e perché Calabresi era stato invitato a prendere contatto con la magistratura che si sospese quella piccola inchiesta".
ALLEGRA. Chi ha verbalizzato questa dichiarazione ha sbagliato. La magistratura sospese che cosa?
MANTICA. L’inchiesta interna che voi stavate svolgendo sulla morte di Pinelli. In ogni caso la domanda che volevo rivolgere è la seguente: ci può spiegare come mai l’onorevole Malagugini venne a farvi visita in questura in quel frangente e quali rapporti c’erano tra di lui e la questura di Milano? Torno a sottolineare che Pinelli quando arrivò Malagugini era morto da pochi minuti.
ALLEGRA. Le dirò che quella visita era un fatto quasi normale. Può sembrare strano, tuttavia bisogna considerare che l’onorevole Malagugini a quell’epoca seguiva molto da vicino i fenomeni della contestazione.
MANTICA. Per sua passione culturale?
ALLEGRA. No, non vorrei entrare in altri ambiti. L’onorevole Malagugini evidentemente quando succedeva qualcosa, non so se lo facesse a titolo personale o fosse il partito ad incaricarlo, veniva a prendere contatti con noi per avere notizie. Del resto non è stato neanche il solo ad avere contatti con noi, anche se va detto che Malagugini era quello "sempre in giro". In ogni caso anche il senatore Maris è venuto a contattarci per avere notizie.
MANTICA. Si trattava di Gianfranco Maris, appartenente al PCI?
ALLEGRA. Sì, era una persona molto corretta; più di una volta venne da noi per avere informazioni e per manifestare le sue preoccupazioni, i suoi pensieri, le sue idee. Del resto ribadisco che non era il solo. Penso che le risulti, senatore Mantica, che venivano rappresentanti di altre forze politiche. E questo non ci dispiaceva, perché ritengo che il dialogo sia sempre utile sia per chiarire, sia…
MANTICA. L’interrogatorio di Pinelli su che cosa verteva, sul suo alibi?
ALLEGRA. Credo che questo aspetto sia chiaro, ritengo comunque che sia opportuno chiarirlo anche da parte mia. Pinelli doveva essere sottoposto quella sera all’interrogatorio definitivo non più vertente soltanto sull’alibi, o meglio doveva essere interrogato da molti giorni, ma bisogna considerare che c’erano stati i funerali delle vittime ed inoltre il fermo di Valpreda e quindi una serie di iniziative per cui alla fine nessuno aveva avuto il tempo di interrogare il Pinelli. Allora, dal momento che Calabresi aveva trascorso il pomeriggio a casa ed era di turno quella sera dalle ore 20 alle 8 del giorno successivo, si decise che l’interrogatorio finale lo dovesse svolgere lui, giacché il mattino dopo avremmo dovuto trasferire il Pinelli in carcere. Infatti avevamo dichiarato il fermo il 14 mattina e nella mattinata del 16 al massimo dovevamo o rilasciarlo o associarlo al carcere. Il Pinelli doveva essere interrogato sull’alibi, sui documenti che avevamo sequestrato – mi riferisco alla vicenda Sottosanti -. Tuttavia, dal momento che la mattina dopo, cioè il 16 dicembre, dovevo partire per Roma con Cornelio Rolandi - che quel giorno si era presentato e aveva dichiarato di avere il sospetto di aver accompagnato in macchina quello che supponeva essere l’attentatore - volevo poter andare a casa per riposare un po’. Chiesi al dottor Calabresi che prima di procedere all’interrogatorio vero e proprio, svolgesse un piccolo interrogatorio sui rapporti di Pinelli con Valpreda per vedere che cosa sapesse. Io avrei poi portato il verbale con me a Roma per consegnarlo alla magistratura. Purtroppo, però, queste verbalizzazioni che avrebbero dovuto occupare mezz’ora o al massimo quarantacinque minuti di tempo andarono invece per le lunghe per il semplice motivo che il Pinelli prima faceva un’affermazione e poi si correggeva. Faccio presente che allora non utilizzavamo registratori perché si operava ancora a livello artigianale e quindi si rese necessario più volte procedere a verbalizzazioni diverse ed ecco perché le cose andarono per le lunghe ed anche perché io mi recai due volte nell’ufficio a sollecitare…
PRESIDENTE. Quindi era Calabresi ad interrogare Pinelli?
ALLEGRA. Sì.
PRESIDENTE. Le pongo questa domanda perché nella letteratura corrente questo fatto viene addirittura contestato.
ALLEGRA. No, signor Presidente, ci si riferisce al fatto che Calabresi non fosse presente nella stanza quando Pinelli precipitò.
PRESIDENTE. Però fino a quel momento era stato Calabresi ad interrogarlo?
ALLEGRA. Sì certamente.
MANTICA. Lei era andato per ben due volte a sollecitare il dottor Calabresi a chiudere questo interrogatorio?
ALLEGRA. Sì, ed a una di queste due volte si riferisce la famosa frase che pare avrei detto: "C’è altro ferroviere anarchico a Milano?" Domanda a cui mi fu risposto "No, ci sono solo io".
MANTICA. Comunque sull’episodio che riguarda l’onorevole Malagugini c’è anche una versione che viene fatta propria dal dottor D’Ambrosio su questa faccenda in base alla quale l’onorevole Malagugini pare intervenisse presso il questore allo scopo di porre termine a questa indagine o affinché quest’ultima non fosse considerata importante.
ALLEGRA. Le dico subito che, per quanto riguarda il questore, la troppa disponibilità molte volte è una forma di ingenuità: egli non aveva alcun obbligo in quel momento. Viene svegliato di notte, si alza, si veste, viene in questura e dopo cinque minuti riceve i giornalisti. Ha ricevuto non soltanto l’onorevole Malagugini ma anche i giornalisti. Lui doveva dire semplicemente di portare pazienza perché si doveva rendere conto della situazione. Dopo di che eventualmente avrebbe potuto parlare; poteva anche dire loro di aspettare fuori. Poteva quindi limitarsi a dire poche cose, invece ha parlato un po’ di più non rendendosi conto, secondo me, che qualunque cosa si dice quando si ha da fare con certi ambienti è sempre pericoloso: può essere fraintesa e anche fuorviata. Il questore ingenuamente disse quello che gli passava per la mente in quel momento, ma non mi sembra che abbia commesso un grande delitto, perché lui credeva veramente, in quel momento lì, che il Pinelli potesse essersi suicidato per non sopportare questa grossa responsabilità.
MANTICA. Nel covo di Robbiano di Mediglia delle Brigate rosse – è un reperto che abbiamo trovato – vi è una relazione redatta da un brigadiere, suo sottoposto, in base alla quale le Brigate rosse giungono da parte loro alla convinzione che Pinelli si fosse realmente suicidato. Lei è mai stato informato di tutto questo?
ALLEGRA. Questa notizia l’ho conosciuta tramite i giornali, è una faccenda che si è saputa dopo. Quando è stato scoperto il covo di Robbiano di Mediglia, io non ero più a Milano. Nelle indagini da noi svolte nel 1972 scoprimmo in aprile i covi di Feltrinelli e il 2 maggio i covi delle Brigate rosse, praticamente avevamo scoperto via Pelizza da Volpedo, via Boiardo (che era la prigione predisposta per De Carolis), e a Torino in via Ferrante Aporti; rimaneva, per ammissione dello stesso Pisetta, un solo covo nel Lodigiano. Ce lo descrisse come una cascina a forma di ferro di cavallo, con una strada di ghiaia bianca. Non era certo facile trovarla, per cui ci servimmo di un elicottero. Volammo sul Lodigiano, ma di cascine che si somigliavano, a ferro di cavallo e con la strada di ghiaia bianca non ne esisteva certo una sola, quindi non siamo riusciti ad individuare quella giusta. Poi quando quel covo è stato scoperto, abbiamo capito che era proprio quello che noi cercavamo e che non avevamo individuato.
MANTICA. Per l’ufficio politico della questura di Milano, a quei tempi, chi era Giangiacomo Feltrinelli?
ALLEGRA. Era una persona che da tanto tempo ci preoccupava. All’inizio non avevamo la percezione precisa che lui stesse organizzando quei famosi Gruppi di azione partigiani, ma cominciammo a preoccuparci molto di lui da quando venne espulso dalla Bolivia, nel 1967, con la Melega. Nella borghesia milanese, anche quella che non è di sinistra, molte volte le cose le sapevano però facevano finta di non saperle. Quando morì Feltrinelli che fosse morto, a Milano, in tanti lo sapevano la sera stessa; noi lo abbiamo saputo solo la sera del giorno dopo quando, trovato il cadavere, è stato riconosciuto per una foto che gli era stata trovata addosso. Ma la sera prima parecchia gente a Milano sapeva che Feltrinelli era saltato e, nonostante questo, hanno sempre detto che la polizia, i Servizi o non so chi l’avessero portato lì e poi fatto saltare.
FRAGALA’. Lo disse Camilla Cederna.
ALLEGRA. Non soltanto lei. C’è stato anche uno scienziato che ha spiegato che a distanza di 100 metri, con un fucile di precisione, si poteva colpire la capsula. Si tratta di uno scienziato che insegnava all’università.
MANTICA. Quindi Giangiacomo Feltrinelli era sotto osservazione dell’ufficio politico.
ALLEGRA. Devo aggiungere che era sotto osservazione perché sapevamo che aveva questi rapporti, anche all’estero. Qualcuno, non un nostro confidente, ci aveva detto che lui ambiva ad avere un esercito.
PRESIDENTE. Voleva portare Cuba in Sardegna.
ALLEGRA. Era andato anche in Sardegna da Mesina. Alcuni di coloro che abbiamo individuati, e che erano sardi, li aveva reclutati in Germania. Ci avevano chiesto notizie su un revolver che era servito per uccidere il console boliviano di Amburgo e quel revolver fu comprato in un’armeria che c’era in via della Croce Rossa a Milano, questo fu accertato. A questo punto quel personaggio ci impensieriva. Quando successe l’attentato e Rudy Dutsche uscì dall’ospedale fu accolto da Feltrinelli e tenuto sotto scorta, tutelato e protetto da un certo Umberto Rai. Lui aveva una foresteria, da quelle parti, di cui questo Umberto Rai aveva perfino le chiavi. Ci fu un primo tentativo di aggancio del movimento studentesco che non gli riuscì, ma comunque nei primi tempi riuscì ad interessare certi gruppi, quelli che poi quando marciavano facevano con le mani il segno "5 Vietnam 5". Noi chiedemmo che cosa significasse e ci venne chiarito che era un detto che proveniva dal Centro America, cioè che c’erano tanti Vietnam e l’Italia era uno di questi (insieme alla Grecia, alla Spagna, eccetera). Quando ci fu l’aggressione al "Corriere della Sera", dopo l’attentato di Rudy Dutsche, eravamo nel periodo di Pasqua nel 1968, molti dei contestatori erano andati in ferie; Capanna si era perfino tagliato la barba. Erano rimasti i soliti che bazzicavano la zona di Brera, un po’ racimolati così fino ad arrivare a cinquecento e fecero una manifestazione che era diretta, secondo me, al consolato germanico, in via Solferino. Quella sera però il consolato tedesco era protetto da una nostra compagnia, anche se in numero ridotto perché anche noi avevamo mandato il maggior numero di uomini in ferie, approfittando delle giornate festive. Passando per via Solferino arrivarono davanti al "Corriere della Sera", lo circondarono e lo riempirono di sassi e dal giornale fotografarono Feltrinelli lì davanti. La fotografia fu pubblicata anche sui giornali. Questo avvenne nell’aprile del 1968.
PRESIDENTE. Dopo piazza Fontana faceste degli accertamenti su Feltrinelli?
MANTICA. Il dottor Allegra chiese l’autorizzazione a perquisire gli uffici di Feltrinelli, ma gli venne negata dal procuratore Ugo Paolillo.
ALLEGRA. Non so che fine abbia fatto il dottor Paolillo.
MANTICA. E’ ancora vivo, credo che in questo momento sia nella magistratura a Perugia. Ma io vorrei sapere sulla base di quali notizie lei chiese l’autorizzazione a perquisire gli uffici di Feltrinelli dopo l’attentato di piazza Fontana.
ALLEGRA. Su Feltrinelli abbiamo svolto indagini per gli attentati del 25 aprile. La sera del 25 aprile tutto il gruppo mangiò a casa di Feltrinelli compreso Della Savia che si fece anche tagliare i capelli.
PRESIDENTE. Può dirci qualcosa su eventuali rapporti tra Feltrinelli e Fumagalli?
ALLEGRA. Di Fumagalli ci siamo occupati (e forse siamo stati gli unici) a seguito di informazioni che ci hanno messo in allarme. Abbiamo chiesto l'autorizzazione a perquisire, Fumagalli fuggì, ma non risultava che avesse rapporti con Feltrinelli.
PRESIDENTE. Anche il generale Delfino in un suo libro di memorie ne parla.
MANTICA. Il 2 maggio 1972 arrivaste in via Boiardo, nel primo covo delle BR, però quel giorno fuggirono i maggiori responsabili, Curcio, Cagol, Franceschini e Moretti. Si ricorda come andò questa operazione?
ALLEGRA. L'operazione fu una delle migliori che facemmo. Quando qualcuno viene a farci delle confidenze è un bene, però il più delle volte ci arrivano notizie frammentarie e l'importante è approfondirle. Eravamo preoccupati di queste BR perché avevano fatto già dei sequestri: ricordo quello di Bartolomeo Di Mino, che era uno dei suoi senatore Mantica, avvenuto a Cesano Boscone. Quando fu portato all'ospedale, ci rivolgemmo al magistrato di turno che all'inizio non voleva venire. Gli dicemmo che si trattava di una aggressione e che il segretario di quel gruppo era stato ferito. Il magistrato venne in ospedale. Il Di Mino riferì quello che era successo e alla fine il magistrato commentò con la frase: "Ha detto nu cofano e fesserie". Per quanto riguarda via Boiardo, noi conoscevamo Curcio, avevamo fatto una perquisizione nel marzo 1971 in via Cesana e in via Castelfidardo, dove c'era Castellani e dove trovammo le micce per gli incendi a Lainate. Conoscevamo la Cagol, altre due o tre della Pirelli di minore importanza, avevamo il nome di sette-otto persone tra cui Salvoni, la Tuscher, Franco Troiano, Berio, avevamo fatto anche delle perquisizioni andate a vuoto perché stavano in un covo e poi dopo uno o due mesi sparivano, non capivamo se perché non pagavano o per far perdere le tracce. Una delle ultime loro sedi era in via Muratori. Lo venimmo a sapere perché la proprietaria ad un certo punto non fu più pagata e non aveva più traccia della persona che aveva firmato il contratto e venne a dircelo. Mandammo un funzionario, non c'era niente, ma in un angolo c'era della cenere, segno che erano state bruciate delle carte e proprio da un frammento di carta emerse la stella a cinque punte e capimmo che si trattava delle BR. Il contratto era stato firmato da un certo geometra Luigi Russo. Era arrivata notizia che ad un certo elemento che faceva parte del gruppo come esecutore era stato detto di tenersi pronto per un eventuale lavoro e si parlava del sequestro di un esponente della DC. Ci preoccupava molto la possibilità di un sequestro in quel momento. Intensificammo la nostra attività, avevamo tentato di pedinare Semeria attraverso un nostro sottufficiale molto giovane che ritenevamo poco sospettabile di essere riconosciuto come poliziotto. Questo pedinamento non era riuscito. I giorni passavano e incombeva la possibilità di un sequestro. Ci venne allora in mente di utilizzare un suggerimento che avevamo letto su uno dei libri sui Tupamaros sequestrato a Feltrinelli a via Subiaco nel quale si sottolineava l'importanza di utilizzare le donne in campo rivoluzionario perché protette dai pregiudizi borghesi. Facemmo telefonare da una agente della polizia femminile, che non svolgeva attività di polizia giudiziaria, a casa di questa persona. La madre rispose che Giorgio era uscito per lavoro, e quindi capimmo che era presente. Cominciammo di nuovo il pedinamento attraverso una agente della polizia femminile accompagnata da un sottufficiale il quale si accorse che la casa aveva una uscita posteriore dove mise un lucchetto per evitare che venisse utilizzata quella via. La ragazza riconobbe subito la persona, continuò il pedinamento in via Pelizza da Volpedo dove sapevamo esserci una base. Il giorno dopo il pedinamento portò a via Boiardo e qui la ragazza dimostrò che ci sono anche poliziotti di classe. La donna, curiosa, non si accontentò di individuare il covo, guardò l'orologio e lo vide uscire dopo tre minuti vestito diversamente, con una casacca e lo vide entrare in una drogheria. Entrò anche lei nella drogheria e poi tornò in ufficio per riferire. Quei tre minuti sono stati di importanza decisiva. Individuammo l'amministratore dello stabile, l'ingegner Cicala che risultò essere una persona affidabile. Prendemmo contatti con lui, ci disse di una ragazza che abitava al terzo piano che riceveva visite un po’ strane; controllammo se aveva dei precedenti, ma continuavo a chiedermi come si poteva in tre minuti arrivare al terzo piano, cambiarsi d'abito e tornare indietro. Conclusi che probabilmente il covo doveva essere ad un piano più basso. E allora telefono, dicendo: "Aspettatemi, vengo anch’io, dobbiamo parlare un po’". E parlo io con questo Cicala e gli dico: "Senta un po’, mi tolga la curiosità, se questo ha impiegato tre minuti… mi dica lei: a piano terra cosa c’è?". "Ci sono i negozi". Dico: "Va bene: me li elenchi uno per uno". E quello comincia: "Questo, questo, … qui c’è uno studio di geometra". "Come si chiama questo geometra?". "Il geometra Russo". "E chi dava la referenze?". "Il geometra Pirotta". E allora sono quelli lì, via Ludovico Antonio Muratori, non c’è dubbio. Questo è il punto. A quel punto l’ingegnere ci lascia e dice: "State attenti: c’è anche una cantina, vi si accede attraverso una botola, che è coperta ma c’è". Era sabato sera, domenica era 30 aprile e il 1° maggio veniva di lunedì (mi pare). Eravamo con l’acqua alla gola, nel senso che dovevamo agire; però pensavamo che agire nei giorni di festa è sempre poco idoneo: gli uffici sono chiusi, mancano le persone, se si devono sviluppare delle indagini ci si trova in difficoltà. Decidemmo allora di fare le operazioni il 2 maggio, martedì. E il martedì si fecero le operazioni: via Pelizza da Volpedo, via Boiardo (c’era anche un altro posto che non ricordo, a proposito del quale però non avevamo certezze). In via Boiardo troviamo la prigione, esplosivo, armi; sotto la botola c’era la prigione, tutta insonorizzata, con l’apparecchiatura per sentire. Inoltre troviamo un pezzetto di carta dove c’era scritto: "Caro Bramini, sono tanti giorni che la cerco. Lei non ha pagato l’affitto, ma almeno si faccia sentire" (una cosa di questo genere). Allora ci chiediamo: ma chi è questo Bramini? La carta era intestata ad un ragioniere. E mandammo subito un funzionario a rintracciare questo ragioniere che, per combinazione, si trovava in casa. Egli ci dice: "Sì, ho affittato un locale a questo Bramini. Non si è fatto più vedere, non mi ha ancora pagato eccetera". Andiamo a vedere questo locale e, quando l’apriamo, troviamo un arsenale. Non solo un arsenale di armi ed esplosivo…
PRESIDENTE. Dove lo avete trovato questo arsenale?
ALLEGRA. In via Delfico.
BIELLI. Potevano almeno pagare!
MANTICA. Beh, ci hanno raccontato che le BR erano ragazzi che non avevano nemmeno i soldi per mangiare la pizza. Lo stesso giorno di via Boiardo si trova via Delfico.
ALLEGRA. Lì troviamo persino i documenti personali di Feltrinelli.
MANTICA. Perché in via Boiardo voi fermaste Pisetta, che è uno dei primi pentiti, e tre giorni dopo lo rilasciate.
ALLEGRA. Non abbiamo rilasciato solo lui, abbiamo rilasciato anche Bianchi Anna Maria e il Perotti.
MANTICA. Però Pisetta è il primo pentito delle BR.
ALLEGRA. Diciamo che fa delle ammissioni; che sia pentito non lo so, lo sa lui. Pisetta viene arrestato nel covo di via Boiardo. Era addetto ai lavori manuali. Lì noi avevamo lasciato i nostri, come qualche giorno prima avevamo fatto per una casa di Fioroni, dove avevamo fermato parecchie persone: ci lasciavamo dentro degli agenti e quando qualcuno entrava: "Alt, polizia…". La stessa cosa volevamo fare in via Boiardo. Questo ci avrebbe consentito di fermare sia Curcio…
PRESIDENTE. Quindi Pisetta non era un infiltrato, lo diventa dopo.
ALLEGRA. No, ma quale infiltrato? Pisetta era un terrorista come tutti gli altri; solo era una persona non di grande cultura: ma non era un infiltrato. Non si tratta di usarlo o non usarlo, abbiate pazienza, è questione di usarlo nel momento opportuno. Dare dell’infiltrato a uno che ne faceva parte, che aveva fatto degli attentati… perché Pisetta non era la prima volta che li faceva. E’ chiaro che tentiamo di prendere anche gli altri. Purtroppo si verificò un fatto che – adesso non so – forse dipese da un po’ di leggerezza da parte di chi ritenne di indire una conferenza stampa in quel posto, in contrasto con quelle che erano state le nostre decisioni, cioè lasciare degli uomini…
PRESIDENTE. Chi la fece la conferenza stampa?
ALLEGRA. Fu indetta dal questore Allitto. Noi fummo contrariati, però pensavamo che egli intendesse dare lustro alla questura o forse credeva di fare bella figura con la stampa (ci teneva a diventare forse vice capo della Polizia). Sta di fatto che, una volta che i giornalisti erano stati avvertiti, noi non potevamo fare più niente. Però alla fine pensammo: abbiamo raccolto tanto materiale, se lo riferiamo alla magistratura essa farà quello che deve fare; noi siamo qui, si va avanti. Senonché la cosa si bloccò, questa è la realtà.
MANTICA. La magistratura bloccò?
ALLEGRA. Non è che fu molto attiva; tanto è vero che poi Dalla Chiesa denunciò quel magistrato.
BIELLI. Rispetto a questo episodio lei è anche intervenuto successivamente e ha scritto alcune cose. Fra l’altro dice che "vi furono incomprensioni (non sempre limpide) e, tra quelli che avrebbero dovuto provvedere, qualcuno si rese colpevole di lassismo, inazione, sottovalutazione e anche colpevoli omissioni". Più avanti sempre lei dice che "a ciò contribuirono persone consapevoli, e non poche; infine, convinte di poter trarre vantaggi". Rispetto alla versione che ha dato questa sera qui è molto più preciso. Sono cose che ha detto lei in passato. Può spiegare meglio? Perché mi sembra un fatto importante.
ALLEGRA. Ma questo si riferisce a ciò che avvenne dopo il 2 maggio.
BIELLI. Ci spieghi bene.
ALLEGRA. Il materiale che avevamo messo a disposizione della magistratura era tale che avrebbe dovuto allarmare la magistratura non solo di Milano, ma di tutto il paese. Poi la stampa cominciò a dire che non era possibile che noi avessimo scoperto questi covi, perché se era un movimento clandestino la polizia non poteva arrivarci; come se nella vita non esistano casi di errori, di bravure, o momenti di fortuna e di sfortuna: fa parte delle vicende della vita. C’è un’organizzazione clandestina: per quanto forte, per quanto capace, arriva il momento in cui o fa un errore o siamo noi che facciamo qualcosa di buono, oppure un colpo di fortuna. Questi signori, che pure sono degli intellettuali, non le hanno capite queste cose, che sono alla portata di qualsiasi persona di buon senso. E allora hanno cominciato a dire che forse la prigione l’avevamo fatta noi; perché quella volta, quando ci fu la conferenza stampa, un maresciallo, rivolgendosi ai giornalisti diceva: "Non toccate niente, per favore non toccate", come se avesse paura che se qualcuno avesse toccato la prigione sarebbe caduta… Perché, ammesso che l’avessimo fatta noi, non potevamo farla altrettanto bene di come l’avevano fatta loro! Sono cose che potrebbero far ridere, ma erano tragiche.
BIELLI. Rispetto a questo episodio c’è una questione che a me interessa. Lei dice che avete fatto un’opera di monitoraggio precisa della situazione, al punto che otteneste risultati significativi. Si ha quasi l’impressione che, se aveste potuto lavorare con mano libera, andare avanti, sareste arrivati molto oltre il livello cui siete pervenuti. Nelle nostre discussioni tornano sempre alcuni personaggi delle Brigate rosse, in particolare viene fuori sempre il nome di Moretti, che è diventato in questa Commissione un personaggio pieno di significato, e si scopre che quest’ultimo, sarà la casualità o altre situazioni, alla fine doveva essere comunque conosciuto e individuato ma non si riesce mai a farlo arrestate. Con il lavoro che lei stava facendo e con quello che avevate svolto, quando lei parla in qualche modo di inerzia – sembra quasi che parla di colpevoli –, secondo lei si poteva arrivare veramente…
ALLEGRA. Moretti sfuggì il pomeriggio, pochi minuti prima che si facesse questa conferenza stampa. Arrivò in macchina in via Boiardo con la 500 di sua moglie.
BIELLI. Quindi lei dice che anche in quella occasione…
ALLEGRA. Sarebbe stato arrestato.
PRESIDENTE. Ma lo avevate già individuato come un elemento di vertice dell’organizzazione.
ALLEGRA. Sì, già si sapeva che faceva parte di questa organizzazione. Alcuni ancora non si conoscevano, però una gran parte di nomi era già conosciuta. Noi eravamo convinti che dopo aver dato tutto questo materiale alla magistratura non ci si sarebbe fermati lì, ma a "spron battuto" si sarebbe agito per cercare di arrivare fino in fondo, ma siamo stati ad un certo punto estromessi.
BIELLI. Dottor Allegra, la ringrazio per quanto ci ha detto, di cui credo che lei abbia grande conoscenza, ed anche per la chiarezza della sua esposizione. Parlando con altri auditi in ordine a Moretti ci è stato detto che quasi fino al 1978 il ruolo di questo personaggio non è conosciuto; lei oggi ci dice una cosa molto diversa rispetto al senso comune, che Moretti in qualche modo dal 1972 è considerato comunque una mente. In questi anni, sarà il caso o il destino - ma io non credo molto a quest’ultimo -, viene fuori che il Moretti ha potuto fare quanto ha fatto pur essendo stato sotto controllo da parte dei nostri servizi di sicurezza. È la questione su cui ci stiamo arrovellando.
ALLEGRA. Ammesso che non avessimo conosciuto prima il Moretti, se non altro, in quel giorno avevamo trovato la macchina. Una persona del terzo piano ci disse che era scappato qualcuno su quella macchina; abbiamo cercato un ladro di macchine per aprirla e, una volta aperta, abbiamo visto che era intestata a Cochetti Amelia, abitante in via delle Ande n. 15 (proprio di fronte a casa mia) e nel covo abbiamo trovato la fotografia di uno dei suoi figli. Io ho poi interrogato la moglie di Moretti; lei diceva che era stata costretta, sebbene non con la forza, a vivere per un po’ di tempo in una comune in via Paris Bordoni, con un certo Gaio Di Silvestro ed altri. A me questa donna fece anche pena. Però già si sapeva che Moretti era un pezzo importante in quel momento. I capi si ritenevano fossero in quel momento Curcio e Franceschini.
PRESIDENTE. Quindi ha ragione Bielli, perché, se non sbaglio, un anno dopo, con l’infiltrazione di Girotto, che è sicuramente un infiltrato, perché ce lo ha detto…
ALLEGRA. È senz’altro un infiltrato.
PRESIDENTE. …si organizza un blitz in cui cadono Curcio e Franceschini. Noi abbiamo acquisito tutte le fotografie degli incontri di Girotto con Curcio e con Levati, che era il medico che lo metteva in contatto con le Brigate rosse; gli unici incontri che non sono fotografati sono quelli in cui ha partecipato Moretti.
ALLEGRA. Quello che posso dire su questo, perché si tratta di fatti di cui ho sentito parlare e che ho ricostruito ma di cui non mi sono occupato, è che "frate Mitra" penso sia stato – poi ognuno ha le sue idee e opinioni – in Sudamerica proprio per procurarsi la patente da terrorista che poi gli servì per infiltrarsi.
PRESIDENTE. Quindi, è un’infiltrazione che viene da lontano.
ALLEGRA. Secondo me sì. C’è un racconto in un libro scritto da un giornalista, certo Chierici, il quale dice che (Girotto) era andato a comprare del pane e che quanto era tornato avevano già arrestato quell’altro, che lo ha guardato in faccia con uno sguardo molto… forse Chierici non lo aveva nemmeno capito questo qui, non lo so. Comunque, era infiltrato.
PRESIDENTE. Il punto non è se Girotto fosse un infiltrato ma perché Moretti sfugge a voi, sfugge a Girotto…
BIELLI. Sfugge anche a Caselli, il quale dà ai carabinieri delle foto perché controllino e gli dicano che non c’era Moretti.
ALLEGRA. Secondo voi, Moretti avrebbe fatto la spia per cose di questo genere?
PRESIDENTE. Noi non pensiamo questo. E’ venuto in audizione tempo fa un ufficiale di grado elevato dei carabinieri che ha collaborato con Dalla Chiesa in tutte queste operazioni e che ci ha detto che la tecnica che veniva utilizzata era sempre quella di non tagliare tutta la pianta ma di tagliare i rami secchi e di lasciare qualche ramo verde, perché continuasse a svilupparsi, seguendolo nello sviluppo. Mi piace fare sempre le ipotesi più interne all’albero della probabilità, non quelle più estreme; un’ipotesi è che Mario Moretti era un ramo verde che si lasciava crescere ma che poi ogni tanto sfuggiva di mano, finché non uccide Moro. Sono stato criticato per come conduco gli interrogatori, perché spesso dico delle cose, il che significa che arrivo a delle conclusioni: io faccio delle domande per avere le risposte.
BIELLI. Aggiungo un'altra considerazione a quella del Presidente. Dalle documentazioni che abbiamo e da quanto è stato detto mi sembra che lo stesso Curcio nel ‘78 affermi che avevano avuto dei dubbi sul fatto che Moretti potesse essere un, non vorrei usare il termine infiltrato…
ALLEGRA. Non un infiltrato, ma uno che può darsi avesse saputo che poteva essere arrestato e che si era tirato fuori. Questo l’ho letto anch’io. Su questo non posso che esprimere un parere personale: non credo che Moretti fosse così come lo si vuol descrivere. Penso che lui fosse un eversore che probabilmente su molti punti non andava d’accordo con gli altri, perché non era un tipo tanto facile. D’altra parte, dal 1972 a dopo il sequestro di Sossi, che avviene nel ‘74, le Brigate rosse non sono state disturbate per niente da nessuno, diciamo la verità. Quando viene fuori il famoso memoriale di Pisetta.
MANTICA. Perché in quel caso non verbalizzaste?
ALLEGRA. Perché i colloqui con coloro che ci davano delle notizie non li verbalizzavamo; non bisogna verbalizzarli: si scrivono le loro dichiarazioni e si approfondiscono, ma non si verbalizzano le confidenze. Chi lo fece compì un errore. Quelle stesse notizie Pisetta le aveva date all’ufficio politico della questura di Milano; se andate a vedere – non so se ce lo avete – ci devono essere ancora dei fogli di carta scritti a mano dal povero dottor Calabresi ove egli aveva trascritto quanto gli diceva Pisetta. Cosa facciamo con queste dichiarazioni? Accertiamo frase per frase se corrispondono alla verità. Se troviamo riscontri procediamo, in caso contrario possiamo "sbattere" in galera una persona anche se non c’entra niente solo perché lo ha detto Pisetta? Questo è il concetto. Secondo me il confidente non va mai verbalizzato, perché altrimenti abbiamo il pentito.
PRESIDENTE. Pisetta non era un infiltrato, però subito dopo essere stato fermato nel covo di via Boiardo diventa un vostro confidente e vi dà una serie di informazioni.
ALLEGRA. Dopo di che scompare, anche se aveva promesso che avrebbe continuato a farci sapere. Non so se sia stato per paura od altro. Poi viene ripreso a Trento.
BIELLI. Presidente, vorrei fare un’ultima domanda e poi chiedo scusa ma mi dovrò assentare. È la prima volta che andrò via prima del termine della seduta e non lo considero un fatto positivo. Lei, a proposito di questi collaboratori, ha in qualche modo gestito o avuto dei rapporti con Francesco Marra di Quarto Oggiaro.
ALLEGRA. Marra non mi dice niente in questo momento.
PRESIDENTE. Il nome Rocco le dice niente?
ALLEGRA. E’ un nome o un cognome?
PRESIDENTE. No, è un soprannome. Le dice niente come fonte?
ALLEGRA. No, almeno per quanto mi risulta, anche se può avere avuto dei contatti con qualcuno dei nostri.
PRESIDENTE. Quindi, non è a conoscenza del fatto che fosse uno degli informatori del commissario Musocco.
ALLEGRA. Potrebbe anche darsi, ma certamente il commissario Musocco non veniva a dirlo a noi.
MANTICA. Credo che il dottor Allegra abbia sufficientemente illustrato una situazione nell’ambito della quale si svolgevano i rapporti a Milano e di come si comportava l’ufficio politico. Questo lo dico perché le ultime domande le vorrei fare in merito al commissario Luigi Calabresi, una vicenda che ha segnato la storia di Milano. Da quanto ho capito, almeno dalle poche cose che lei ha detto, Luigi Calabresi seguiva in modo particolare le indagini relative all’area della sinistra, su Feltrinelli, lavorando negli anni 1971-1972 allo smantellamento dei gruppi di azione partigiana e alla scoperta delle prime basi brigatiste a Milano. Le chiedo un giudizio personale. Questa sua conoscenza di tale comparto dell’estremismo milanese può essere stata una della ragioni per le quali fu ucciso?
ALLEGRA. E’ necessario chiarire questo punto. Il Calabresi lo hanno fatto diventare dirigente dell’ufficio politico, poi il braccio destro di Allegra, poi il vice dirigente, insomma gli sono state attribuite un po’ tutte le possibili qualifiche. Era uno dei dieci funzionari ai miei ordini presso l’ufficio politico, che in quel momento aveva una dimensione abbastanza grande. Sia per età che per anzianità non era ai primi posti. Era più giovane di Giancristofori, di Zagari e di Pagnozzi. Ognuno di questi funzionari aveva un suo settore. Il Pagnozzi si occupava di contestazioni, il Calabresi dell’estrema sinistra, il Valentini dell’estrema destra, un altro funzionario del settore sindacale e un altro ancora si occupava esclusivamente di questioni pratiche inerenti alla polizia giudiziaria. L’indagine veniva fatta in collaborazione con chi poteva fornire informazioni anche se sul piano materiale compiti specifici, come la stesura dei verbali, erano in capo ad un altro funzionario. Il Calabresi era quindi uno dei tanti e quindi non si può dire che abbia avuto una parte determinante nella scoperta del covo.
MANTICA. Il dottor Calabresi nell’ambito dei suoi collaboratori si interessava particolarmente dell’area della sinistra. In quegli anni, per una serie di eventi, dai Gap di Feltrinelli alla scoperta delle basi brigatiste, l’area della sinistra forniva molto materiale di lavoro e il Calabresi era una persona conosciuta.
ALLEGRA. I nostri funzionari, ognuno nel suo ambito, erano molto conosciuti anche perché il nostro ufficio non era segreto.
PRESIDENTE. Le ragioni dell’omicidio Calabresi…
ALLEGRA. Non hanno niente a che vedere con questi fatti, perché il Calabresi non ha avuto una parte determinante.
PRESIDENTE. Il Calabresi poteva avere acquisito nella sua attività indagativa informazioni o conoscenze sul mondo della sinistra estrema - di cui si doveva interessare - che possono essere state alla base del suo omicidio?
ALLEGRA. Il Calabresi dava il suo contributo all’ufficio. Il suo settore di indagine non era un suo compito esclusivo, anche se si trattava certamente di un settore che lui curava in modo particolare rispetto ad altri. La vicenda di via Subiaco nasce da una confidenza che un privato fa ad un brigadiere del commissariato di via Cinisio. Questa persona viene a sapere dai giornali che noi cercavamo un furgone di cui esisteva una foto. Una sera al bar questa persona incontra il suddetto brigadiere e gli rivela di aver probabilmente visto quel furgone vicino alla propria abitazione. Andarono in questura verso le 11 di sera e quando io tornai verso mezzanotte trovai un verbale. Mi adirai notevolmente perché questo tipo di verbale non si doveva fare. Si trattava di una semplice notizia - che tale doveva rimanere - che poi è risultata veritiera perché il posto indicato corrispondeva effettivamente a via Subiaco.
MANTICA. La mia domanda aveva una valenza più complessiva. Il dottor Calabresi per anni segue i fatti relativi all’estrema sinistra insieme ad altri suoi collaboratori. Da quanto lei mi sta dicendo - ed è logico - usavate giustamente molto le confidenze. Chi è in una certa area viene a conoscenza di notizie che non verbalizza perché rimangono appunto confidenze. Siccome il dottor Calabresi lavorava in quest’area e poteva aver avuto delle sensibilità o aver cominciato ad intuire qualcosa, può essere che questa sua attività in tale settore fosse una delle ragioni per cui fu poi ucciso? Può essere che il dottor Calabresi sia arrivato a scoprire qualcosa di molto importante per cui doveva essere fermato?
ALLEGRA. Se avesse scoperto qualcosa di importante lo avrei saputo, me lo avrebbe detto.
MANTICA. Le ricordo – ed è scritto in un libro – che il Calabresi pochi giorni prima di morire avrebbe confidato alla moglie di essere stato in Friuli o nel Veneto e di aver perlustrato un enorme deposito di armi e di esplosivi.
ALLEGRA. Questa notizia non corrisponde a verità. Non so se abbia sbagliato la moglie o chi ha scritto il libro, ma l’unica cosa che si può dire su di lui è che una volta fu mandato ad interrogare in carcere un tizio che sosteneva di avere delle rivelazioni da fare. Questa persona sosteneva di essere a conoscenza di attentati in Alto Adige e di altre vicende relative a carabinieri o a poliziotti. Siccome si trattava di vicende che territorialmente non erano nostre…
PRESIDENTE. Non ho ben capito il suo riferimento ai carabinieri e ai poliziotti.
ALLEGRA. Si trattava di vicende relative all’Alto Adige.
MANTICA. Lei in questo momento sostiene che le notizie di un certo significato che potevano essere a disposizione del Calabresi venivano riferite a lei. Lei sostanzialmente oggi dice che ciò che sapeva il Calabresi lo sapeva anche lei.
ALLEGRA. Ero certamente a conoscenza delle cose importanti anche se è possibile che quelle più piccole le tenesse per sé.
PRESIDENTE. Oggi ci conferma come la ragione dell’omicidio Calabresi più probabile sia nel valore simbolico che aveva assunto perché veniva considerato uno dei responsabili della morte di Pinelli.
ALLEGRA. In parte era così; sono, però, contrario a fare teoremi. Ecco perché intendo attenermi ad elementi reali. Se devo esprimere un giudizio posso farlo ma deve rimanere tale. Perché avviene il 17 maggio l’omicidio Calabresi? Cosa avviene nel periodo che intercorre dal mese di marzo al 17 maggio? Ritrovamento del covo di Feltrinelli, dei GAP; di tutte le armi nelle cascine e così via; seguono le Brigate rosse; il 2 maggio scopriamo il covo di via Boiardo; qualche giorno dopo andiamo a via Ferrante Aporti a Torino, dove scopriamo il covo di Levate e compagni; il 17 maggio segue l’omicidio Calabresi. Qualcuno dei nostri si è anche impaurito: abbiamo dovuto trasferire qualcuno; altri hanno ritenuto che fosse, comunque, loro dovere restare; indubbiamente, però, un freno alle indagini lo ha dato perché ci si doveva occupare di un’altra cosa in quel momento più pressante.
PRESIDENTE. Ha una sua logica il suo ragionamento; quello che non torna è che non viene rivendicato come tutti gli omicidi simbolici delle BR.
ALLEGRA. Ha spiegato Curcio nell’intervista rilasciata a Scialoja il motivo per cui non è stato rivendicato.
FRAGALA’. Vorrei sapere l’argomentazione che ha usato Curcio.
ALLEGRA. Curcio ha detto che in occasione dell’omicidio Calabresi alla domanda posta, determinati ambienti di sinistra hanno risposto adducendo come motivazione che si trattava di un atto di giustizia proletaria e non si capiva il motivo per rivendicare una cosa di questo genere.
PRESIDENTE. Ciò esclude che lo abbiano fatto le BR.
FRAGALA’. Le BR fecero la controinchiesta. Infatti, in tutto l’ambiente della sinistra tutti sanno che è stata Lotta continua. E’ vero?
ALLEGRA. Sì.
MANTICA. Aldilà della sua considerazione in base alla quale la morte di Calabresi sposta le attività dell’ufficio investigativo su questo omicidio è anche vero che, poco dopo la morte di Calabresi, in realtà l’ufficio politico della questura di Milano, che aveva ottenuto una serie di successi, viene sostanzialmente smantellato.
ALLEGRA. Non viene smantellato: un componente va via timoroso, avendolo comunque deciso tanto tempo prima. Più o meno tutti avevamo timori. In un momento successivo mi fu imposta la scorta che ho rifiutato ritenendo che un qualsiasi appostamento avrebbe fatto fuori me e la scorta. Ho preso certamente qualche precauzione. Prima di uscire di casa la mattina guardavo alla finestra per vedere se c’era qualcuno. Inoltre, un buon appuntato sostava nei pressi della mia casa per notare se c’era qualcosa di strano. Tutti avevamo timore che potesse succedere qualcosa; però, decidemmo che, avendo scelto questo mestiere, avremmo dovuto correre questi rischi e restare. Qualcuno è stato effettivamente sostituito perché andato via; d’altro canto, se aveva paura era inutile e dannoso tenerlo lì. Successivamente a questi fatti, nel mese di settembre sono accusato di reato per la faccenda del cordino. Noi non fummo più interessati alle indagini dopo il rapporto fatto al magistrato cui mandammo tutto il materiale che si preoccupò solamente di farmi una telefonata nella quale mi disse – ed immagino chi glielo ha detto, visto il comitato…–…
MANTICA. Un comitato che aveva sede presso il tribunale di Milano.
ALLEGRA. …che quella fotografia nella quale si vede il lupo, Cattaneo, che tiene fermo il Macchiarini, sequestrato dalle Brigate rosse, è un fotomontaggio. Gli risposi che non sapevo chi potesse avergli detto una tale sciocchezza; gli consigliai però di guardare gli atti dove avrebbe potuto trovare il negativo, di cui non sapeva niente. L’unica cosa che ha avuto il bisogno di dirmi il magistrato è stata questa. Non voglio fare processi a nessuno. Certamente di errori ne facciamo tutti. Alcune cose però producono alcuni risultati.
DOZZO. Chi è il magistrato cui ha inviato tutta la documentazione che ha riferito il collega Bielli?
ALLEGRA. De Vincenzo.
PRESIDENTE. E’ acquisito agli atti della Commissione. Fu oggetto di un’inchiesta e poi prosciolto.
MANCA. Sarò breve considerato che sta parlando da tanto tempo e con tanta dovizia di particolari. Sul carattere nazionale o meno delle Brigate rosse abbiamo idee abbastanza chiare. Ci può dire se agli inizi degli anni ‘70 le Brigate rosse avessero avuto contatti con gruppi terroristici internazionali, per esempio la banda Baader-Meinhof, la RAF e se le Brigate rosse avessero rapporti con i servizi stranieri dell’epoca?
ALLEGRA. A proposito di eventuali rapporti dei servizi segreti non posso darle una risposta certa, nel senso che al riguardo non ho elementi. Posso dire semplicemente che ci risulta che Franceschini si sia recato a Praga. Tuttavia, queste informazioni le abbiamo avute solo dopo; o meglio le ho sapute non perché me ne sia occupato direttamente -giacché avevo altre cose da fare- ma in quanto credo di averle lette da qualche parte. A proposito di Fontana posso dire che abbiamo trovato un documento, o meglio una specie di certificato sanitario, uno di quelli necessari per ottenere un visto; in base a tale documento risulta che Fontana si dovesse recare in Turchia, tanto è vero che c’è stato un momento in cui abbiamo ritenuto che potesse essere coinvolto in una sparatoria, mi pare in una Commissione internazionale, non ricordo l’episodio. Ci risulta, invece che Viel, quel personaggio che faceva parte del gruppo Ventidue ottobre e che arrestammo in via Subiaco si sia recato in Cecoslovacchia. Tuttavia che questi soggetti avessero rapporti con i servizi segreti non sono in grado di dirlo. Ritengo invece che ci sia stato qualche contatto con la Baader Meinhof, in particolare con Andreas Baader e Ulriche Meinhof di cui risulta traccia di un passaggio a Milano, o meglio a Sesto San Giovanni. Ripeto, tracce di questa banda in Italia risultano intorno alla fine del 1969, in ogni caso bisognerebbe controllare gli atti perché in questo momento non ricordo molto bene.
PRESIDENTE. Su questi aspetti forse sappiamo molto più noi, perché abbiamo a riguardo delle documentazioni e un lungo capitolo della relazione della Commissione di inchiesta sulla strage di via Fani.
MANCA. Signor Presidente, mi permetta di rivolgere queste domande al nostro ospite visto che è una persona così informata dei fatti, peraltro sul periodo iniziale e più interessante del fenomeno terroristico…
ALLEGRA. Non so se all’inizio si sia trattato di appoggi o di input, questo non lo posso dire con certezza, del resto, non posso neanche smentirlo. Ritengo tuttavia che ci siano stati dei contatti più che con la banda Baader-Meinhof con la successiva RAF, ma ritengo si sia trattato solo di scambi di informazioni. Invece c’è un episodio che credo non rientri negli interessi della Commissione e forse non so se sia il caso che ne faccia cenno. In ogni caso anni dopo, quando a Padova o a Verona - non ricordo – ci fu l’incontro del Capo del Governo tedesco che allora mi sembra fosse Schmid e l’allora Presidente del Consiglio italiano che mi pare fosse Andreotti o forse Rumor, si verificò una circostanza. Un nostro sottufficiale al valico di Brogeda fermò due macchine, due Alfa Romeo con targa austriaca, ognuna di queste macchine aveva una persona a bordo. Questo sottufficiale si insospettì e chiese che venisse effettuata la perquisizione, il finanziare presente era d’accordo, ma l’ufficiale di dogana ritenne che non fosse il caso. Tuttavia dal momento che questo nostro sottufficiale, che fu veramente in gamba, non era convinto di questa decisione, approfittando della normativa che prevede la possibilità di respingere i mezzi che non corrispondono alle regole vigenti in Italia, dal momento che una di queste macchine aveva la marmitta che non rientrava in tali regole non fece entrare queste due macchine. I due personaggi tentarono di fare ingresso in Italia attraverso altri valichi; però bisogna considerare che quando un soggetto viene respinto ad un valico ne viene data comunicazione agli altri valichi e quindi alla fine la polizia svizzera si insospettì di questi strani movimenti e fermò i due personaggi e al momento della perquisizione questi soggetti tirarono fuori la pistola. Questi due austriaci furono trovati in possesso dei soldi derivanti dal sequestro Palmers, un industriale del legname austriaco; costoro non viaggiavano da soli, guidavano le macchine perché evidentemente si dovevano recare ad un appuntamento. In ogni caso in una delle due auto furono trovate le impronte di un’appartenente della RAF di cui non ricordo il nome, allora molto nota alla polizia. Il che fece sospettare che questi soggetti si fossero dati appuntamento – naturalmente si tratta solo di un’ipotesi - per recarsi poi a Verona o a Padova per effettuare qualche attentato contro il Primo ministro tedesco o quello italiano.
MANCA. La Commissione ad un certo punto dei suoi lavori si è trovata dinanzi ad una serie di fatti che l’hanno portata a concludere o a ritenere che soprattutto al tempo del rapimento Moro, gli organi preposti a condurre le indagini su questi aspetti specifici non fossero molto preparati. Tra l’altro in tal senso sono state rilasciate dichiarazioni agghiaccianti da parte degli auditi ed è stata fatta anche una specie di graduatoria dell’impreparazione. E’ vero che stasera ci stiamo riferendo ad un periodo diverso, tuttavia è altrettanto vero che questo periodo dovrebbe essere caratterizzato da una maggiore impreparazione visto che si era agli inizi del fenomeno. Questa sera ho invece avuto l’impressione che soprattutto da parte delle forze di polizia non ci fosse quel dilettantismo e quella superficialità che sono emerse successivamente. Detto questo a suo avviso, nonostante gli insuccessi in cui sono incorse, come mai le Brigate rosse non sono state fermate fin dall’inizio, mi riferisco soprattutto all’area milanese dove mi sembra che ci fossero degli apparati a livello di polizia abbastanza attivi? Allargando il campo della mia domanda, vorrei anche sapere se a questa preparazione, vitalità, effervescenza degli apparati di polizia, a suo avviso corrispondesse analogo atteggiamento da parte della magistratura? Infatti, gli organi interessati alle vicende terroristiche sono le forze di polizia investigativa e la magistratura e noi abbiamo sentito dire da alcuni magistrati che si erano sentiti impreparati dal momento che si era ancora all’inizio della lotta contro il terrorismo. Qualcuno addirittura ha spostato l’accusa di impreparazione sulle forze di polizia; da parte nostra, invece, attraverso la verifica di atti e mediante successive audizioni abbiamo potuto verificare che alle forze di polizia per quanto gli competeva non erano attribuibili responsabilità di questo genere. Ebbene, qual è il suo giudizio riguardo a questi aspetti?
ALLEGRA. Debbo dire che il fatto che si sia accennato alla questione dell’impreparazione mi sorprende.
MANCA. A chi si riferisce?
ALLEGRA. Intendo riferirmi al fatto che si sia accennato a questa impreparazione.
MANCA. A quale di questi due soggetti si riferisce? Alla polizia o alla magistratura?
ALLEGRA. Parlo della magistratura. Si riferisce a quella di Milano?
MANCA. Il magistrato che ci ha parlato di tale questione non è della procura di Milano .
ALLEGRA. E’ indubbio che non sia stato fatto tutto quello che in realtà si sarebbe dovuto fare. In ogni caso, ad un certo punto è come se fossimo stati tagliati fuori dal momento che nessuno ci chiese più niente. Ciro De Vincenzo si è avvalso della collaborazione di un ufficiale dei carabinieri giovane, per carità validissimo, ma che ha dovuto imparare tutto. In ogni caso dovrei verificare gli atti che ha prodotto. Siamo arrivati nel 1974, al sequestro di Sossi e sono passati due anni, hanno potuto ricostituirsi. Poi, non vogliamo fare una causa alla magistratura come tale, ma bisogna dire che c’è stato anche questo: una disinformazione colpevole, stupida e talvolta non so se anche per mala fede o per ignoranza. Tutto ciò ha avuto la sua influenza su certi settori anche della stessa magistratura. Non so se lei ricorderà questa notizia, ma si diceva che noi avevamo preso Feltrinelli, l’avevamo trasportato fino a sotto il traliccio per farlo saltare in aria, cose di questo genere, quando tutti sapevano, la sera stessa, e la signora Schöntal era stata rintracciata, in un salotto milanese e l’avevano chiamata d’urgenza, quindi sapevano tutti cosa era accaduto. Non è possibile che certa stampa, anche di sinistra, non sapesse certe cose, dovevano saperle anche più di noi che facevamo fatica ad avere certe informazioni, dovevamo raccattarle. Pertanto anche la stasi che si è verificata, secondo me, è stata gravissima dal punto di vista degli effetti che ha prodotto. Ci si è arrivati quando questi sono diventati più aggressivi e più forti e non si era nelle condizioni per fronteggiarli.
MANCA. Secondo lei quali sono le ragioni per cui, in sostanza, si è verificata questa stasi?
ALLEGRA. Lo sto dicendo. Basta leggere tutto ciò che si scriveva in quei giorni nei nostri confronti e nei confronti delle Brigate rosse: "i messaggi che fanno sono farneticanti", ma quelli non farneticavano affatto. Quello che scrivevano lo pensavano veramente.
PRESIDENTE. Su questo sono pienamente d’accordo.
ALLEGRA. Questa è stata l’atmosfera che si è creata. Ad un certo punto si aveva quasi paura. Per fortuna io sono andato via nel gennaio del 1973, ma mi metto nei panni dei miei colleghi perché fare indagini in certi campi significava essere accusati di tutto. E allora, chi glielo faceva fare?
FRAGALA’. Dottor Allegra, la ringrazio per la sua disponibilità e mi aggancio all’ultima risposta da lei fornita alla domanda del senatore Manca. In pratica, lei sostiene che in quel periodo in Italia vi era una vera e propria contro-informazione che ostacolava le indagini. Faccio un esempio. Il quotidiano "Il Giorno" di Milano, di proprietà pubblica, il 23 febbraio del 1975 sentii il dovere di dare ai suoi lettori la chiave di lettura di un fenomeno che stava diventando sempre più inquietante, cioè le Brigate rosse; per farlo impegnò una delle sue firme più prestigiose, quella di Giorgio Bocca. L’articolo, a pagina 5, aveva un titolo che non lasciava spazio ad equivoci "L’eterna favola delle Brigate rosse". "A me queste Brigate rosse" – scriveva Giorgio Bocca - "fanno un curioso effetto di favola per bambini scemi o insonnoliti e quando i magistrati, gli ufficiali dei carabinieri e i prefetti ricominciano a narrarla mi viene come un ondata di tenerezza perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla". Purtroppo, come lei sa e come hanno saputo tante vittime, quella delle Brigate rosse non era una favola come voleva sostenere Bocca. La mia prima domanda è la seguente: secondo lei, vi era una vera e propria contro-informazione, in quel periodo, che utilizzava firme "prestigiose" come quella di Giorgio Bocca per garantire l’impunità alle Brigate rosse e per impedire che si indagasse a sinistra?
ALLEGRA. Che ci sia stato un fenomeno di grandi proporzioni di disinformazione su questo non ci piove. Gli storici cercheranno le cause e vedranno i relativi motivi, se si tratta di iniziativa di singole persone che si danno l’aria di essere grandi uomini e poi sono di modesta entità. Un giornalista di cui non faccio il nome una volta mi intervistò e mi definì – eravamo all’inizio della contestazione – "un funzionario che viene dal profondo sud", detto con un senso di razzismo. Tra le altre cose mi veniva da ridere perché il profondo sud da dove io provengo ha cinquemila anni di storia, mentre la parte da dove proveniva questo signore era ancora all’età delle palafitte. Comunque non c’è dubbio su questo. Ricordo un giornalista importante, che ha diretto anche un giornale cattolico, che si avvicina a Cossiga, allora ministro dell’interno, parlandogli di "fascisti" dopo un fatto a firma delle Brigate rosse. Il Ministro replicò che non si trattava di fascisti, ma di Brigate rosse. Si doveva influenzare il Ministro a dare una certa risposta. Pertanto, non so se si sia trattato di un fatto di snobismo, o se sia stato fatto perché qualcuno aveva interesse che si facesse questo tipo d’informazione. Vorrei che anche i giovani poliziotti d’oggi lo sapessero e non si facessero illusioni: per certi ambienti noi siamo una razza inferiore perché siamo meridionali, si tratta di un fenomeno inconscio ma che esiste. Certo, questo ha giustificato l’inerzia o provocato in molti il disincanto: in fin dei conti chi ce lo fa fare?
PRESIDENTE. Il problema non è che noi stiamo facendo un’indagine ma riguarda il fatto che queste cose non sono avvenute soltanto nel 1975, sono avvenute anche successivamente, dopo che il Capo dello Stato, onorevole Scalfaro, pose il problema se oltre alle responsabilità accertate, nel caso Moro ci fossero altre intelligenze. Questa Commissione da allora, bene o male, nei suoi limiti, sta cercando di dare risposta a questo interrogativo: ci possono essere state altre intelligenze? Personalmente nell’estate del 1999 avevo distribuito un documento istruttorio per dire quello che potevamo fare in quest’ultimo anno; allora Giorgio Bocca ha scritto un articolo di fuoco nei confronti della Commissione affermando che era inutile cercare altre intelligenze, perché tutto il mondo sapeva che nella direzione strategica delle Brigate rosse c’erano degli intellettuali, che però non contavano niente perché alla fine le decisioni le prendevano i capi militari, Moretti, Azzolini e Bonisoli e che noi facevamo un inutile lavoro per cercare di sapere chi fossero questi intellettuali che facevano parte della direzione strategica delle Brigate rosse. Il problema però è che non si muove solo Giorgio Bocca ma contemporaneamente, in una settimana, i giornali italiani furono pieni di articoli di questo genere: si muove Ernesto Galli della Loggia, si muove Lino Jannuzzi, si muove Teodori, parte una grancassa. Noi avevamo e abbiamo tuttora il problema di sapere (per lo meno gli ambiti dove possono esserci state queste altre intelligenze pensiamo di averli capiti), ma si è fatto un fuoco di sbarramento per dire di lasciare stare, di chiudere, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Poi è venuta una persona come Piperno e ci ha detto che aveva capito quanto fossero infiltrate nella società italiana le Brigate rosse quando ha potuto riflettere sul proprietario della casa alto borghese in cui nell’agosto del 1978 incontrò l’uccisore di Moro, cioè Moretti. E’ venuto Maccari e ci ha detto che noi saremmo stupiti nel sapere quante persone che oggi possono avere un posto importante nell’informazione, nell’università e nel sindacato in quegli anni facevano a gara per avere a cena i capi guerriglieri. Era l’Italia di quel periodo. Scusi onorevole Fragalà, ma volevo attualizzare questa sua polemica poiché quanto avvenuto con l’articolo che lei ha citato è avvenuto tale e quale nell’estate del 1999 e, devo dire, da postazioni di fuoco contrapposte; si è sparato su questa Commissione perché ci ponevamo quel problema.
ALLEGRA. Voglio citare anche un giornalista, che conosceva l'ambiente e che in un certo senso all'inizio si mise su quella strada, ma che ad un certo punto ha avuto il coraggio di fare autocritica ricevendo l'attacco di tutti. Quando ancora ero a Milano, quando le BR si erano trasformate da collettivo politico metropolitano in Nuova sinistra, pubblicavano un giornale che così si chiamava dove non facevano mistero delle loro intenzioni e dove dicevano che era necessario armarsi. Eravamo preoccupati di questo giornale, lo dissi al capo della polizia Vicari, facendo scandalo perché mi ero permesso di dire che stavamo andando incontro alla guerriglia. Vi fu allora una manifestazione sindacale che partiva dai Bastioni fino a piazza Duomo. Ero di servizio in testa al corteo e con me c'era quel giornalista assieme ad altri. Mi chiese se avevo letto quel giornale. Risposi di sì e che ero convinto che prima o poi qualcosa sarebbe accaduto. Dopo lui per un po’ si orientò come gli altri e successivamente fece autocritica e io lo chiamai per ricordargli quell'incontro durante il corteo. Voglio dare atto a quel giornalista di aver avuto il coraggio di fare autocritica. Anzi ad un certo punto mi ha dato ragione perché scrisse proprio: "Allegra aveva ragione". Così non hanno fatto altri che continuano a dire certe cose dimostrando di non aver capito niente. Certe persone a volte si sopravvalutano, in realtà scrivono di certe cose senza aver capito nulla. Ci sono fenomeni che non si possono riconoscere in pochi giorni...
PRESIDENTE. Anche l'articolo di Bocca che è stato citato è del 1975. Poi Bocca è diventato uno dei più realistici rispetto alla ricostruzione dell'organizzazione delle BR. Lo ha fatto attraverso le interviste a Moretti e a Franceschini, è stato uno dei primi a ricostruire con chiarezza la storia delle BR in anni successivi al 1975, quando alcuni furono catturati e poteva cominciare a intervistarli.
FRAGALA'. Però il tema che stasera ha posto il dottor Allegra è un altro. Non ci troviamo di fronte a persone come a Bocca o altri che avevano gli occhi foderati di prosciutto e che poi hanno fatto autocritica. Il tema che ha posto il dottore Allegra è che quando saltò in aria Feltrinelli tutta la Milano bene lo sapeva e c'era una campagna dolosa di controinformazione per impedire le indagini a sinistra o per ostacolarle. È un fatto diverso. Quando Bocca, Pansa o Camilla Cederna scrivevano in quel modo….
ALLEGRA. Anche Ghirelli.
FRAGALA'. …sapevano bene quello che era successo a Calabresi, a Feltrinelli, ad altri, solo che scrivevano in quel modo perché la loro militanza politica li portava a fare questa opera di controinformazione per impedire o ostacolare le indagini a sinistra. Il dottore Allegra ha posto questo tema e mi pare molto rilevante. Quello che sostiene lei è cosa diversa, di cui prendiamo atto.
PRESIDENTE. Non è diversa, è l'inerzia di quel fenomeno, perchè il problema è capire chi l'ha fatta franca ancora oggi.
FRAGALA'. Vorrei chiedere alcune cose specifiche. Può confermare che dopo l'attentato di piazza Fontana le pervenne la notizia da una fonte del SID che indicava Feltrinelli come il personaggio che stava dietro gli attentati?
ALLEGRA. No, il SID non aveva rapporti diretti con noi.
FRAGALA'. Non il SID, una fonte del SID. Non ebbe alcuna indicazione che Feltrinelli era dietro gli attentati dopo piazza Fontana?
ALLEGRA. Era un sospetto anche nostro all'inizio, ma poi non è emerso niente, anzi risultò che si trovava all'estero perché era uscito dall'Italia poco prima.
FRAGALA'. Perché secondo lei Feltrinelli lasciò Milano il 5 dicembre 1969, dopo essere stato interrogato dal giudice su precedenti attentati?
ALLEGRA. Perché non lo so, forse aveva attività all'estero non solo di tipo editoriale.
FRAGALA'. Attività guerrigliere.
ALLEGRA. In Germania e in Francia. So che rientrò in Italia e si presentò a Moscatelli dicendo che era pronto, pensando che ci sarebbe stato un colpo di Stato e che sarebbe stato necessario combattere, ma quello non lo prese sul serio. Lo dico solo perché l'ho letto e l'ho sentito da qualche parte, ma non è una faccenda di cui sono in grado di dare una certa informazione.
FRAGALA'. Su Pinellli, il capitano dei carabinieri Lo Grano, nel processo Calabresi-Lotta continua ha dichiarato che poco prima che Pinelli precipitasse dalla finestra sul tavolo della stanza fu posta una cassetta jewelparma identica a quelle usate negli attentati. Lei ne è al corrente?
ALLEGRA. Non lo ricordo affatto, non vorrei smentirla, però mi giunge nuova.
FRAGALA'. Ci può parlare dei rapporti intrattenuti con la fonte "Anna Bolena", ovvero Enrico Rovelli?
ALLEGRA. Per quanto riguarda i rapporti confidenziali, Enrico Rovelli era da noi sospettato, insieme con Tito Pulsinelli, di aver fatto, o appoggiato o agevolato l'attentato contro l'ufficio spagnolo del turismo, quello contro la caserma Garibaldi e quello non riuscito contro la chiesa Delle Grazie di Milano. Questo ci venne detto da Ivo Della Savia il 1° maggio 1969. Della Savia, dalle indagini svolte a Milano, risultò essere l'autore, insieme al fratello, dell'attentato al palazzo di giustizia a Roma. Noi chiedemmo alla questura di Roma di procedere e di portarlo a Milano. Della Savia è uno che parla; ha parlato persino degli attentati avvenuti il 25 aprile 1963 contro il comune di Milano. Quando, il 25 dell’anno scorso (o di due anni addietro), ci fu un attentato di "Azione diretta" contro il Comune di Milano, andai in Questura per ricordare che anche il 25 aprile 1963 era stato commesso un attentato contro lo stesso Comune e, precisamente, da Ivo Della Savia. Mi risulta che, dato il lungo tempo trascorso, le ricerche dei precedenti non hanno avuto un esito favorevole. Io ricordo bene l’avvenimento perché ero in ospedale per un incidente stradale patito mentre facevo la scorta all’onorevole Fanfani. Per quanto riguarda il Pulsinelli, in base a una perizia calligrafica risultava che potesse essere l’autore dell’attentato all’ufficio spagnolo del turismo, perché vi era una rivendicazione scritta a penna con una "t" finale. E Ivo Della Savia in questo senso ci aveva indicato. Decidemmo allora di chiedere un’autorizzazione alla perquisizione di questo Rovelli, perché sapevamo che il Pulsinelli viveva con lui. Era il 1° maggio e purtroppo abbiamo dovuto aspettare le 6 per trovare un magistrato disponibile addetto a questa autorizzazione. Quindi andammo a casa di Rovelli, fuori Milano, e trovammo che se l’era squagliata con il Pulsinelli. Furono rintracciati dopo qualche mese a Riccione, dove mi pare che avessero messo una specie di edicola. Per Pulsinelli vi era un ordine di cattura, per il Rovelli avevamo chiesto il fermo, perché volevamo interrogarlo su quanto ci aveva detto Della Savia. Pertanto, la sera stessa partiamo per Riccione. Per portare Rovelli a Milano bisognava farlo interrogare dal procuratore della Repubblica del posto, che ci doveva autorizzare; altrimenti non potevamo portarlo a Milano. Quindi dovemmo rimandare al giorno dopo. Il Pulsinelli non disse niente; per lui vi era un ordine di cattura, venne ammanettato e i Carabinieri lo spedirono direttamente da Riccione a San Vittore; compiendo un atto doveroso, in un certo senso, ma forse avrebbero potuto aspettare noi, avremmo potuto portarlo noi. Niente di male, ma questo ha determinato un danno. Rovelli aveva una attività commerciale, aveva una famiglia e dei figli a cui era molto legato. Cominciò a dire: "Mah, io… se voi mi aiutate… non ho fatto niente di male. Vi posso aiutare, eccetera". "Va bene. Cosa puoi fare per noi?". "Se mi mettete a contatto con Pulsinelli… può darsi che egli sappia qualcosa che io non so: perché quando il giornale ha pubblicato la notizia che vi erano stati degli attentati sui treni, lui ha detto: ‘Ma allora quelli facevano sul serio’».
PRESIDENTE. Pulsinelli era l’altro anarchico.
ALLEGRA. Sì. "Allora facevano sul serio", aveva detto Pulsinelli, per cui Rovelli pensava che sapesse qualcosa. Lui bazzicava l’ex Hotel Commercio di Milano. Ho detto: "Va bene, adesso vediamo". Intanto, siccome Pulsinelli lo avevano portato a San Vittore, questo contatto non si poteva fare. Comunque Rovelli disse che avrebbe collaborato. Qualcosa ci disse: ci parlò di qualche personaggio che lui riteneva importante; ci fece anche l’identikit di Jean Pierre da Nanterre, che lui conosceva. Non è che fu…, però aveva dei rapporti internazionali. C’è un particolare, che risale al periodo in cui ero ancora a Milano: un giorno, al circolo Ponte La Ghisolfa, gli diedero l’incarico di fare un passaporto falso (credo che sia anche grafico o qualcosa del genere); gli diedero una fotografia. Lui ci avvertì e ci disse: "Mi hanno chiesto questo".
PRESIDENTE. Era la fotografia di Bertoli?
ALLEGRA. Sì. Ci chiedemmo chi fosse questo tizio del passaporto falso. Allora non vi erano gli strumenti di oggi: facemmo una riproduzione fotografica e la inviammo alle questure del Nord. Comunque facemmo delle indagini.
PRESIDENTE. Un appunto su questo è stato ritrovato nell’archivio-deposito di via Appia. E’ stato casualmente scoperto anni fa.
ALLEGRA. Ci fu risposto (credo dalla questura di Venezia): "Questo si chiama Bertoli, è un anarchico eccetera". Poi "Anna Bolena" ci disse: "No, non si sono fatti più vivi, mi è rimasta la fotografia". Ci disse che il Bertoli si sarebbe servito di un documento fornitogli da altra persona. Quindi la vicenda finì. Poi, uno o due anni dopo (adesso non ricordo)…
PRESIDENTE. Nel maggio 1973.
ALLEGRA. Io purtroppo mi trovavo sul posto: scoppiò questa bomba.
PRESIDENTE. Si doveva scoprire un busto dedicato al commissario Calabresi.
ALLEGRA. Sì, era l’anniversario della sua uccisione. Quando è scoppiata la bomba, pochi istanti prima, mi stavo incontrando con gli ufficiali dei carabinieri, il comandante dei vigili urbani e così via: ci stringevamo la mano per accomiatarci. Arrivò il collega Zagari, mi prese per un braccio e mi disse: "Andiamo su a salutare Palumbo". In quel momento scoppiò la bomba: praticamente portandomi via mi ha salvato la vita.
FRAGALA’. "Anna Bolena" quali informazioni vi diede su piazza Fontana?
ALLEGRA. Su piazza Fontana non diede informazioni. Su piazza Fontana espose anche i suoi dubbi, ma non fu in grado di dare informazioni. Solo – ma lo aveva detto prima – ha citato un personaggio che secondo lui poteva essere importante. Ma siccome non è stato coinvolto in niente, è inutile che faccia il suo nome. Anche se personalmente ritengo che poteva essere una persona importante.
PRESIDENTE. Chi era?
ALLEGRA. No, non si è potuto indagare a fondo su di lui perché… forse D’Ambrosio ha fatto quancosa, non so.
PRESIDENTE. Prima lei ha parlato di una diversa fonte informativa che vi aveva segnalato la possibilità che l’autore della strage di piazza Fontana potesse essere un ferroviere anarchico.
ALLEGRA. Non di piazza Fontana, dell’attentato sui treni.
PRESIDENTE. Quindi vi domandavate se Pinelli fosse l’unico ferroviere anarchico?
ALLEGRA. Glielo chiesi io stesso a lui, ma non è che ci tenessimo tanto. Però, si fa la domanda e si vede come risponde.
FRAGALA’. Nella informativa che viene da Enrico Rovelli, cioè "Anna Bolena", c’è scritto che: "Avviandosi alla conclusione delle sue confidenze, l’Augusta ha detto"…
ALLEGRA. Sì, me lo ricordo, sebbene in modo vago. L’Augusta era un’edicolante di fede anarchica.
FRAGALA’. Si chiamava Augusta Farvo.
ALLEGRA. Aveva un’edicola in via Passaggio degli Osii; aveva contatti un po’ con tutti e gli fece queste confidenze. Mi sembra che c’entrasse il Sottosanti…
FRAGALA. C’entrava "il Nino" e il Pinelli.
ALLEGRA. Il Sottosanti era quello che il pomeriggio del 12 dicembre andò a trovare Pinelli e riscosse l’assegno di 15.000 lire; Pinelli non ha mai voluto dire che era insieme con lui. Questo è il motivo per cui il fermo di quest’ultimo si protrasse: aveva dato un alibi che era stato smontato.
MANTICA. Nino Sottosanti era di destra?
ALLEGRA. Lui frequentava gli ambienti anarchici e diceva che suo padre era un martire fascista. Quindi lo chiamavano "Nino il fascista". A me sembrava una persona che "se ne fregava" della destra e della sinistra e pensava ai fatti suoi. Era stato anche nella Legione straniera…
MANTICA. Allora era di moda.
ALLEGRA. Ci andavano i delinquenti.
FRAGALA’. Dottor Allegra, le leggo la nota così lei può avere un ricordo preciso: "Avviandosi alla conclusione delle sue confidenze, l’Augusta Farvo ha detto che il Nino è giunto a Milano il 2 dicembre e che ripartì il 13, il giorno dopo l’attentato alla Banca dell’Agricoltura. Assicura di essere a conoscenza che il Nino, dopo il pranzo a casa di Pinelli, tentò in tutti i modi di convincere quest’ultimo ad accompagnarlo in centro ma che Pinelli rifiutò. L’Augusta avrebbe saputo questo dalla moglie di Pinelli. Questo categorico rifiuto del Pinelli a portarsi in centro è interpretato dalla stessa come una conferma che il Pinelli stesso era a conoscenza di quello che doveva accadere e che preferiva rimanere al bar per l’alibi. L’Augusta ha detto anche di aver saputo dalla madre di Pulsinelli che durante la notte dall’11 al 12 dicembre il Nino non ha toccato letto; ha passeggiato per la stanza tutta la notte, fumando molte sigarette. Il Nino dal giorno 2 alla partenza da Milano era stato ospite a casa del Pulsinelli". Lei ricorda questa informativa?
ALLEGRA. Adesso la ricordo.
MANTICA. Nino il fascista sembra il sosia di Valpreda.
ALLEGRA. Che poi sosia non è; hanno cercato di tirarlo in ballo come sosia a suo tempo questi signori dell’informazione di cui si parlava prima.
MIGNONE. Dottor Allegra, vorrei tornare un po’ al ‘74, quando il dottor D’Amato diviene dirigente dei servizi di polizia stradale, ferroviaria, postale e di frontiera e lei era a Ponte Chiasso. Proprio lì, al confine con la Svizzera, fu arrestato Valerio Morucci e Libero Maisano. Ci sa dire se quell’arresto fu fatto dalla polizia svizzera?
ALLEGRA. Sì, la stazione di Chiasso è in territorio Svizzero.
MIGNONE. Ma in quell’occasione furono anche sequestrate alcune agende?
ALLEGRA. Un fucile, o forse due, che era stato rubato…
MIGNONE. Quelle agende furono sviluppate? Cioè in esse c’erano i nomi un po’ di tutti.
ALLEGRA. La polizia svizzera non è che sia stata molto disponibile in quella circostanza, non so perché. Esisteva una convenzione, che mi sembra si chiamasse "convenzione sui controlli abbinati". Noi facevamo controlli per quelli che venivano in Italia o andavano dall’Italia. Anche se era compito nostro arrestarli, la convenzione del Gottardo prevede che quando questi soggetti hanno commesso un reato in territorio svizzero in tal caso interviene l’autorità svizzera. Cioè loro hanno detto che se questi avevano delle armi rubate in Svizzera avevano commesso un reato contro di loro e che quindi veniva meno la competenza della polizia di frontiera. Non ci hanno nemmeno detto niente. Poi abbiamo saputo confidenzialmente, perché ero diventato amico del capo della polizia cantonale, il dottor Lepri, che li espulsero attraverso l’Austria.
MIGNONE. Sarebbe molto importante sapere se erano indicati alcuni nomi che poi sono diventati un po’ le componenti fondamentali.
ALLEGRA. Io mi ricordo Libero Maesano e Valerio Morucci.
MIGNONE. Le risulta però se nelle loro agende c’erano nomi di personaggi importanti; le risulta se nell’agenda di Maesano c’era anche il nome di Germano Maccari?
ALLEGRA. Noi queste agende non le abbiamo viste, deve chiederle agli svizzeri. Furono loro ad arrestarli.
MIGNONE. E ci sa dire qualcosa sul traffico di armi tra la Svizzera e l’Italia attraverso Ponte Chiasso?
ALLEGRA. Quello è un romanzo, di realtà non c’è niente. C’era gente che andava in Svizzera e si comprava un fucile dell’esercito svizzero, che veniva modificato e diveniva un fucile da caccia grossa; una volta portato in Italia poteva ritornare…
PRESIDENTE. Un fucile da caccia in zona Alpi?
ALLEGRA. No, da caccia grossa. Una volta, dalle parti di Domodossola fu preso un personaggio con un fucile di questo genere, il quale diceva trattarsi di un fucile normale e che in Svizzera gli era stato venduto come fucile da caccia; quindi poteva essere temporaneamente importato. In quell’occasione un mio collega funzionario sostenne che secondo lui era un fucile da guerra. Però, che andassero in Svizzera o in Liechtenstein a comprare delle armi corte, pistole o cose del genere, senza grandi formalità è certamente una cosa che è avvenuta e di cui si hanno elementi di riscontro.
PRESIDENTE. Morucci ci ha raccontato di altri acquisti di armi che lui ha fatto in Svizzera.
ALLEGRA. Avevano degli appoggi formidabili, ad esempio, un certo professor Galli e tale Jairo Daghino; però che ci fosse un traffico d’armi in grande stile fra il Ticino e l’Italia non mi sembra.
MIGNONE. Lei, dottor Allegra, tra i primi brigatisti ha citato la Tuscher, cioè la nipote della Abbé Pierre, che più tardi è diventata un’esponente dell’Hyperion, la scuola di lingue di Parigi. Ci sa dire qualche cosa in più sui primi brigatisti che poi sono emigrati a Parigi?
ALLEGRA. Quando sorsero le Brigate rosse, lei sa che la prima riunione la fecero a Chiavari alla "Stella Maris", un albergo del luogo, poi, una volta organizzati, si chiamarono "collettivo politico metropolitano". Da quelle notizie che siamo riusciti a percepire di questo gruppo inizialmente faceva parte Franco Troiano, Corrado Simioni, Salvoni Innocente, la Tuscher Françoise, Schiavi Elvira ed un certo Ravizza Garibaldi. All’inizio erano così, però tra di loro sorse qualcosa. Fecero una rapina sotto Natale in un supermercato che fruttò anche parecchi soldi. Questo gruppo di primi fondatori a quanto pare – è una notizia da verificare – si appropriarono di questi soldi e se ne andarono in Liguria e furono in qualche maniera anche sospettati di aver sfruttato questa situazione. Quelli, invece, pare che non intendessero andare d’accordo con questi perché non erano in linea sul problema della clandestinità. A quell’epoca le Brigate rosse non erano infatti eccessivamente clandestine.
PRESIDENTE. Il gruppo si chiamava "superclan".
ALLEGRA. Questo gruppo, che poi perdemmo di vista perché molti si recarono all’estero e vennero fuori sotto l’Hyperion, però operò ancora in Italia, anche se non abbiamo mai potuto accertarlo. Sta di fatto che la Françoise Tuscher, la Schiavi Elvira e il Salvoni Innocente e quindi anche gli altri, furono protagonisti di questo episodio. La Schiavi Elvira sedusse una nostra guardia di pubblica sicurezza che faceva servizio fisso presso la sede del partito comunista. In poche parole lo convinse a seguirlo a casa sua. Questo ragazzo le credette seguendola all’idroscalo. Ad un certo punto la ragazza, dopo avergli chiesto di aspettarla, sostenendo che doveva controllare che i suoi parenti fossero partiti per le ferie e quindi che l’abitazione fosse libera, si allontanò assicurandogli che sarebbe presto tornata. Il ragazzo rimase lì, fu aggredito da quattro persone che lo spogliarono nudo, lo legarono con le sue stesse manette e gli sottrassero la pistola. All’epoca del fatto mi trovavo in ferie e appresi la notizia dai giornali. Telefonai a Milano e dissi che bisognava stare attenti perché si trattava di un delitto politico. Il dirigente della Squadra Mobile di allora mi disse che ero fissato e che vedevo in ogni cosa la politica. Risposi che la delinquenza comune non avrebbe mai legato un agente di polizia con le mani dietro la schiena. Al massimo gli avrebbe sottratto la pistola dopo averlo pestato. Sta di fatto che il comandante della celere di cui faceva parte questa guardia gli concesse tre mesi di tempo per girare liberamente a Milano insieme ad un collega e per cercare di rintracciare questa ragazza. Alla fine dopo tanti giri finirono per incontrarla insieme a questa Françoise Tuscher, la bloccarono e le sequestrarono la borsetta. Nella borsetta fu trovato un materiale interessantissimo: ipotesi di rapine, le rapine fatte, come si costruisce una base clandestina, la stufa sempre accesa, il documento che quando si esce deve essere sempre portato nella borsetta, se non si fa in tempo lo si deve mangiare e altre questioni del genere. Queste donne furono arrestate fino a quando il fatto non fu chiarito. Quando la Schiavi Elvira fu rilasciata andò via da Milano per poi credo finire a Firenze in una scuola.
MIGNONE. Perché non avete effettuato accertamenti su Hyperion?
ALLEGRA. A parte il fatto che sarebbe stato necessario andare a Parigi – non era un nostro compito –, il vero problema è che ne siamo venuti a conoscenza soltanto successivamente.
PRESIDENTE. Il giudice Calogero però andò a Parigi.
ALLEGRA. In che anno?
PRESIDENTE. Parliamo del 7 aprile 1979.
ALLEGRA. Quindi, lei si riferisce ad un fatto accaduto sette anni dopo.
PRESIDENTE. La soffiata ai giornali però partì dal Viminale. Lei quindi era sempre alle dipendenze di D’Amato quando lui passò alla polizia di frontiera.
ALLEGRA. In realtà, io dipendevo dal Ministero dell’interno anche se certamente come settore di servizio ero alle sue dipendenze.
PRESIDENTE. Agli atti della Commissione abbiamo una lettera di D’Amato al ministro Rognoni in cui lui afferma di aver sempre diretto l’ufficio affari riservati finché nel 1974, per una polemica nata con il servizio segreto militare, fu ritenuto opportuno il suo spostamento a dirigere la polizia di frontiera. Vorrei che fosse chiaro – scrisse al Ministro – che, su richiesta del Ministro dell’interno dell’epoca e del Capo della polizia (un fatto confermato da tutti i ministri e da tutti i capi della polizia succedutisi nel tempo), non ho mai smesso di svolgere compiti di polizia politica.
ALLEGRA. Il fatto che non abbia mai smesso non significa che abbia lavorato per noi. Probabilmente svolgeva un incarico per il Ministero.
PRESIDENTE. E poi aggiunge che se la sua attività si dovesse inquadrare in una luce fosca poteva forse di volta in volta sembrare agente di una parte o dell’altra, essere stato vicino ai terroristi palestinesi o all’eversione di destra? Poteva svolgere questa attività da solo? Doveva certamente avere delle persone fidate.
ALLEGRA. Signor Presidente, conosco bene i colleghi che lavoravano allora presso il servizio affari riservati. Mi riferisco a Milioni, Carlino, Russomanno, Pierantoni e Bonagura che credo sia ancora in servizio. Si trattava di persone di buona cultura e a mio giudizio correttissime. Sono a conoscenza del fatto che il Carlino ha scritto anche una lettera ad un giornale di Roma. Considerati i rapporti che avevo con loro e il fatto che metterei la mano sul fuoco sulla correttezza di questi funzionari, se avessero avuto sentore di qualcosa, qualche notizia mi sarebbe pure arrivata.
PRESIDENTE. Il vero problema è se determinate funzioni anziché essere imputate al luogo istituzionale deputato a ciò, non venissero svolti da luoghi diversi.
ALLEGRA. Le specialità non avevano niente a che fare con questa faccenda. Anche l’attività di frontiera poteva essere connessa con un’attività politica. Ricordo che una sera, durante il sequestro Moro, fermammo alla frontiera di Brogeda cinque persone, quattro donne tedesche e un italiano.
PRESIDENTE. Secondo lei è una millanteria quella che D’Amato scrive al Ministro dell’interno?
ALLEGRA. Non credo che sia una millanteria. Ritengo anzi che lui potesse essere spesso sentito per la sua esperienza e per i suggerimenti che era in grado di dare. Poi, non sono in grado di dire se ciò avvenisse e in quale maniera, ma non sono neanche in grado di escluderlo. Indubbiamente era considerato una persona di grande intelligenza.
PRESIDENTE. Lei ha detto che metterebbe la mano sul fuoco per tutti i funzionari che ha nominato. Sul fatto che il dottor Russomanno passa al giornalista Isman l’interrogatorio di Peci, che idea si è fatto?
ALLEGRA. Lui stesso mi ha raccontato la vicenda e quindi ho il dovere di credergli.
PRESIDENTE. Ovviamente il nostro dovere non è il credere, ma di indagare.
ALLEGRA. All’epoca dell’interrogatorio di Peci lui si trovava al SISDE. Siccome in quell’interrogatorio vi erano una o più pagine in cui spiegava le ragioni morali che lo avevano spinto a collaborare con lo Stato, lui ritenne che se quell’argomento di una o due pagine avesse avuto una diffusione, avrebbe potuto trattenere – dal momento che in quel momento a Roma c’erano più di trenta ragazzi pronti a passare al terrorismo…
PRESIDENTE. E’ una giustificazione da lui data anche nel corso del processo. Comunque le Brigate rosse furono avvertite della possibilità del pentitismo. Ricordo infatti che il fratello di Peci ci rimise anche la pelle.
ALLEGRA. Comunque, sta di fatto che – me lo ha raccontato personalmente – assente quando Isman ha avuto il verbale, aveva raccomandato ad un suo collaboratore di darne solo due pagine nel caso si fosse presentato un giornalista; venne dato invece tutto il verbale. Mi è stato detto anche che si è meravigliato di non aver ricevuto un aiuto da chi era al corrente di questa decisione.
MIGNONE. Ha il ricordo di un colloquio con Grassini, D’Amato ed altri funzionari all’Hotel Metropole di Roma nell’aprile del 1980? In tal caso, di che cosa si parlò e chi ebbe a convocare quell’incontro?
ALLEGRA. Ricordo vagamente l’incontro; secondo me, convocato dal Capo della polizia. Lo scopo era quello di avere il parere di chi si era occupato di questi problemi in merito alla situazione. Se non erro, era un periodo nel quale erano stati uccisi anche dei magistrati del Ministero di grazia e giustizia.
MIGNONE. Non sa dirci quindi se furono prese delle decisioni operative?
ALLEGRA. E’ stata più che altro una riunione informativa.
MIGNONE. Non si ricorda se si parlò di terrorismo, dei rapporti internazionali, visto che qualcuno parlava della pista cecoslovacca?
ALLEGRA. Si parlò senz’altro di terrorismo ma non di questa pista.
MIGNONE. Le ricordo che nel 1998 scrisse un articolo in cui parlava della pista cecoslovacca.
ALLEGRA. La ripresi da "Panorama", pubblicata giorni prima, come del resto citato.
FRAGALA’. Perché non avete interrogato Augusta Farbo che sapeva parecchie cose sulla strage di piazza Fontana?
ALLEGRA. Se l’avessimo interrogata non ci avrebbe detto niente. Era una donna molto particolare.
FRAGALA’. Era disposta a fare da confidente?
ALLEGRA. No; parlava solamente con uno della sua fede politica. Non faceva confidenze alla polizia ma ad un suo collega, ad un suo compagno di stesso orientamento politico.
FRAGALA’. Quando fu scoperto il cadavere dell’editore Giangiacomo Feltrinelli fu poi ufficialmente riconosciuto il 16 marzo 1972 dal confronto delle impronte digitali custodite al carcere di S. Vittore. Vuole dire alla Commissione per quali fatti Feltrinelli era stato detenuto a S. Vittore nel ‘48?
ALLEGRA. Quando faceva parte della Federazione giovanile comunista fu sorpreso una sera insieme con altri ad affiggere manifesti in luoghi non consentiti. In base all’articolo 24 del Testo unico della legge sulla Pubblica Sicurezza, era possibile l’arresto per contravvenzione.
FRAGALA’. Questo di cui lei parla fu il primo arresto. Venne poi arrestato una seconda volta nel ’48 perché aveva nascosto delle armi.
ALLEGRA. Ricordo solamente che quella sera Calabresi, attraverso una fotografia, aveva sospettato che potesse trattarsi di Feltrinelli. Andò con l’ufficiale dei carabinieri all’obitorio per una conferma e tornarono con questa convinzione. Quindi, si decise di cercare dei precedenti perché sembrava che Feltrinelli in passato ne avesse uno. Se non l’avessimo avuto noi il carcere avrebbe certamente posseduto le sue impronte digitali. La prima cosa che si fece la mattina successiva fu proprio questa. Riuscimmo però a fare il riconoscimento ufficiale alle ore 24.00 della sera; convocammo la signora Schöntal ed un cugino di Feltrinelli; un certo Carpe De Resmini il quale in primo luogo negò, sperando di fare controinformazione, che fosse lui. Allora Schöntal, molto decisa, disse senza alcun dubbio che si trattava proprio di lui. Si arrivò quindi al riconoscimento.
FRAGALA’. Ebbe modo di vedere il passaporto originale di Feltrinelli, rinvenuto il 2 maggio 1972 nel covo di via Delfico dove le Brigate rosse avevano immagazzinato armi e materiali proveniente dai GAP di Feltrinelli?
ALLEGRA. Sì.
FRAGALA’. Ci sa dire quali visti erano stampigliati su quel passaporto?
ALLEGRA. E’ agli atti. Tra l’altro, non aveva un solo passaporto ma cinque, con vari nomi (vedi Scotti e così via) caratterizzati da un particolare: tutti i documenti falsi che loro stessi fabbricavano, anche per gli adepti, riportavano l’esatta data di nascita della persona in possesso del documento. E’ importante poiché, in caso di controllo di polizia, non ci si sbagliava sulla data di nascita.
FRAGALA’. Conosce i motivi per cui dopo l’omicidio Calabresi il brigadiere dell’ufficio politico Vito Panessa rassegnò le dimissioni dalla polizia?
ALLEGRA. Panessa è stato un altro di quelli considerati addirittura l’alter ego di Calabresi per il male che si poteva dire di entrambi. Ad un certo punto "i colpevolisti" di Calabresi si chiedevano perché lo avessero fatto. I più danneggiati eravamo noi: Calabresi è un agente della CIA che ha fatto un corso in America, la scorta al generale Walker, che ha presentato questo generale non so a quale Capo di Stato; costui era cioè diventato un personaggio importante. Panessa era considerato quasi come lui tanto è vero che un giornalista ha scritto che quando mi sono recato a piazza Armerina non potevo più interrogarlo, in base alla nuova legge, entrata in vigore, che vietava l’interrogatorio formale da parte della polizia. Però fui seguito dal maresciallo Panessa con il compito di controllarmi.
FRAGALA’. Come ha spiegato il depistaggio attraverso il quale fu attribuito l’omicidio Calabresi al neofascista Nardi fermato alla fine del settembre ’72 al Valico di Ponte Chiasso? Chi organizzò questo depistaggio?
ALLEGRA. Non so dire chi l’abbia organizzato. Questa indagine era caduta sin dall’inizio. Fui io che telefonai a Riccardelli per invitarlo a venire a Como, e alla fine addivenimmo alla convinzione che non c’entrasse con questa vicenda. Tuttavia dal momento che era rimasto il dubbio si decise di continuare l’indagine. Poi di questo non si parlò più, successivamente andai via, e dopo qualche anno sentii dire la notizia in base alla quale Calabresi stava conducendo delle indagini sul traffico di armi e che aveva effettuato continui viaggi a Lugano. Mi risulta, invece, che a Lugano non sia mai stato e francamente non so come sia nata questa notizia. Non bisogna tuttavia dimenticare che c’era un Comitato che "bazzicava" gli ambienti del Palazzo di Giustizia e che veniva definito il "Comitato dei giornalisti democratici" all’interno del quale ci saranno state anche brave persone, ma ce ne erano delle altre che possibilmente hanno "ciurlato". Vorrei anche chiarire un’altra faccenda; c’è stato infatti un momento in cui il procuratore della Repubblica, mi riferisco al dottor Micale, propose due magistrati, il Riccardelli e un certo Sinagra, al Consiglio superiore della magistratura - si tratta comunque di notizie che ho appreso attraverso i giornali – mossa contro la quale mi risulta ci sia stata una grossa reazione contraria, tanto è vero che è stato detto che il Riccardelli era stato molto impegnato dalle indagini sulla morte del dottor Calabresi.
FRAGALA’. La relazione di servizio ritrovata a Robbiano di Mediglia, nel covo delle Brigate rosse, era stata redatta dal brigadiere Panessa?
ALLEGRA. Non credo. Non so come quella relazione sia andata a finire in quel luogo, infatti, non mi risulta che le relazioni interne normalmente vadano in giro. Al riguardo ho letto qualche notizia, ma suppongo che non si trattasse di una relazione, ma delle dichiarazioni rilasciate da questo brigadiere, ma ripeto, non credo che si trattasse di una vera e propria relazione.
FRAGALA’. Nel verbale di sequestro dei carabinieri si parla di "relazione di servizio".
ALLEGRA. Mi scusi, onorevole Fragalà, vorrei capire meglio. Con questa relazione mi si sarebbe dovuto riferire che cosa, che il Pinelli era coinvolto?
FRAGALA’. Sì, perché secondo le Brigate rosse Pinelli era coinvolto nella strage di piazza Fontana.
ALLEGRA. Mi sembra di aver capito che praticamente questi soggetti avrebbero redatto questa relazione in cui si sosteneva che le Brigate rosse avessero accertato questi fatti; tuttavia, questa relazione non era rivolta a me, ma all’ufficio dal momento che probabilmente avevo già lasciato il mio incarico. Ebbene, questo potrebbe essere possibile.
PRESIDENTE. La domanda, onorevole Fragalà quale è? Vuole sapere se c’era una relazione di servizio del brigadiere, o se si trattava di una relazione delle Brigate rosse?
FRAGALA’. Si trattava di una relazione di servizio del brigadiere Panessa…
ALLEGRA. …Il quale dice di aver saputo che le Brigate rosse sostenevano che Pinelli… Ebbene, questo è possibile.
PRESIDENTE. Dove si trovava questa relazione?
FRAGALA’. Nel covo delle Brigate rosse di Robbiano di Mediglia.
PRESIDENTE. Come facevano le Brigate rosse ad avere queste notizie?
ALLEGRA. Mi chiedo anch’io come fosse possibile e poi credo che Panessa non c’entrasse niente. Personalmente ho sentito parlare di Fainelli, visto che costui frequentava l’ambiente di via Brera; tra l’altro si trattava di un ottimo sottufficiale, probabilmente credo che si sia svolta una discussione su questi argomenti e che ne sia stato riferito il contenuto alle Brigate rosse con cui non credo che Fainelli fosse in contatto diretto.
FRAGALA’. Ha saputo i motivi per cui la Procura di Milano nel 1997 ha provveduto ad effettuare delle intercettazioni del suo telefono ed anche intercettazioni ambientali nei suoi confronti?
ALLEGRA. Non mi risulta, né conosco i motivi.
FRAGALA’. Lei è stato sentito nel processo attualmente in corso a Milano sulla strage di piazza Fontana?
ALLEGRA. No.
PRESIDENTE. Prima di concludere questa audizione volevo avere una considerazione conclusiva da parte del dottor Allegra. Se ho ben capito il senso complessivo della sua audizione, mi sembra che lei sia tuttora convinto che le piste che furono originariamente imboccate per quanto riguarda la strage di piazza Fontana, Valpreda ed in genere sull’ambiente anarchico, fossero comunque valide. A distanza di tempo ha rivisitato questa convinzione?
ALLEGRA. In assoluto tutto è relativo. In ogni caso non intendo sostenere di avere la totale certezza che le piste imboccate fossero quelle giuste, tuttavia posso dire che dalle inchieste svolte allora risultarono degli elementi che comunque rimangono validi e che fanno pensare.
PRESIDENTE. Che valutazione ha fatto di tutti gli elementi che emersero successivamente, dopo le indagini di Juliano e del giudice Stiz?
ALLEGRA. Abbiamo sempre ritenuto - ne è una dimostrazione l’indagine condotta a Roma nei confronti di Merlino- che non fosse opportuno chiudere la porta su certi ambienti di destra, anzi la porta è stata aperta. E’ possibile che questi personaggi avessero già l’intenzione di effettuare degli attentati ed è possibile anche che fossero stati guidati in un certo senso; infatti, perché creare una nuova organizzazione quando ci sono dei soggetti disposti ad effettuare determinati atti di terrorismo? Pertanto che ci potessero essere alle spalle di questi soggetti anche degli ispiratori non l’abbiamo mai messo in dubbio, né del resto possiamo affermarlo con certezza. Bisognerà vedere come si concluderà questo nuovo processo, mi auguro bene; tuttavia fino a questo momento materialmente non si sa ancora chi abbia fatto questi attentati; si sa da chi sono stati organizzati, ma non chi materialmente li abbia portati termine.
PRESIDENTE. Mi fa piacere che lei abbia detto queste cose perché abbiamo avuto modo di sentire il senatore a vita Taviani che è stato a lungo Ministro dell’interno e della difesa. Il senatore Taviani ha dichiarato che non è possibile capire niente della strage di piazza Fontana se non si parte dal presupposto che la bomba sarebbe dovuta scoppiare quando la banca era chiusa. In tal senso il senatore Taviani ha inoltre aggiunto che la strage di piazza Fontana fu organizzata da persone e che non avrebbe mai potuto pensare che delle persone serie potessero aver voluto uccidere deliberatamente sedici italiani, né che un ipotetico colonnello dei carabinieri avesse potuto organizzare questa strage. Ha quindi sostenuto che quella bomba non dovesse fare vittime come del resto non fecero vittime le bombe che contemporaneamente scoppiarono a Roma. Il punto è questo: questi anarchici erano soltanto tali? Ci spiega inoltre qualcosa in riferimento a Bertoli?
FRAGALA’. …o erano sedicenti anarchici ed in realtà fascisti come sostengono Bocca e Camilla Cederna?
PRESIDENTE. Ho semplicemente ripetuto quanto dichiarato dal senatore Taviani.
ALLEGRA. Quando ci siamo occupati del Bertoli ci è stato descritto dalle questure competenti come un anarchico, che poi fosse qualcos’altro non lo so dire.
FRAGALA’. Ha tentato il suicidio per affermare di essere anarchico.
ALLEGRA. Ribadisco che non so se abbia avuto altri contatti o abbia subito influenze diverse, posso dire solo quello che mi consta. In secondo luogo, bisogna considerare che vi era una seconda bomba che noi non facemmo esplodere per nostro piacere, ma in seguito a degli ordini che provenivano dal Ministero della difesa. Si erano verificati, infatti, dei precedenti gravissimi, a Verona erano morti due agenti di sicurezza per aver spostato una valigia che conteneva un ordigno. In tal senso le disposizioni vigenti prevedevano che quando si trovava un ordigno di cui era impossibile trovare il meccanismo dell’innesco fosse necessario farlo esplodere con una piccola carica. Successivamente fu rinvenuta a Sesto San Giovanni una bottiglia con una matita dentro…
PRESIDENTE. Secondo lei neanche questo fu un errore?
ALLEGRA. Signor Presidente, a quelli che sostengono il contrario vorrei domandare come in realtà si sarebbe potuto fare. Il maresciallo Bizzarri, che non era un artificiere, sostenne che fosse necessario mettere una miccia detonante: …ma se quella bomba è saltata con venti grammi di tritolo! Inoltre, se anche fosse stato possibile aprire quella bomba - tra l’altro rischiando la pelle di tanta gente -, che cosa si sarebbe ottenuto di più di quello che si è trovato successivamente?
PRESIDENTE. E il cordino?
ALLEGRA. Il cordino è un’altra faccenda. Poi, dove e perché si è perso, non lo so.
PRESIDENTE. Non è a lei che devo spiegare che cosa si è pensato, quale danno alle indagini si è ritenuto sia stato causato per il fatto che la bomba sia stata fatta esplodere.
ALLEGRA. Chi lo dice questo?
PRESIDENTE. Mi sentirei in imbarazzo, è una vicenda giudiziaria.
ALLEGRA. Dico questo: anche il magistrato che afferma che si poteva non farla esplodere ignora in primo luogo che le disposizioni vigenti in quel momento erano tassative; poi, le cognizioni e le concezioni degli esperti; infine, i fatti avvenuti precedentemente per cui non potevamo rischiare di far morire venti-trenta persone perché poi, una volta fatta esplodere, si trovano tutti i frammenti che sono necessari.
FRAGALA’. Aggiungo che voi allora, nel giro di ventiquattro ore, siete riusciti a ricostruire chi aveva venduto le cassette, chi era il fabbricante, e addirittura che una cassetta era stata venduta vicino alla casa di Pinelli. Quindi, avete ricostruito tutto, l’indagine non ebbe nessun ostacolo.
PRESIDENTE. Lei conosceva il commissario Juliano?
ALLEGRA. No.
PRESIDENTE. Peccato che è morto altrimenti un confronto con lei sarebbe stato interessante, avremmo percepito una dinamica interna all’amministrazione della polizia italiana.
ALLEGRA. Non so quanto sarebbe stato interessante…
FRAGALA’. Dottor Allegra, lei non lo sa, ma nel 1997, quando Russomanno la venne a trovare, le fu collocata una microspia con telecamera nel forno del suo appartamento.
PRESIDENTE. Questo da che cosa risulta?
FRAGALA’. Dagli atti pubblici depositati nel processo in corso a Milano, non sono atti della Commissione, sono del processo attualmente in corso. Tale microspia era stata messa per registrare tutto il vostro colloquio. Però, nel momento in cui avete parlato di Calabresi e della sua morte, la registrazione, incredibilmente, non è venuta bene, non si capisce niente.
PRESIDENTE. Per soddisfare la mia curiosità, che cosa dice la parte registrata?
FRAGALA’. Banalità.
PRESIDENTE. E’ stata utilizzata dall’accusa?
FRAGALA’. L’hanno dovuta depositare.
PRESIDENTE. Non dovevano fare niente, lei lo sa meglio di me. Se l’hanno depositata, evidentemente nella logica dell’accusa ha un qualche significato. Quindi, il pubblico ministero non le ha valutate banalità.
FRAGALA’. Obiettivamente sono banalità, poi il pubblico ministero può considerare quello che vuole.
PRESIDENTE. Sarà la Corte d’assise a stabilirlo.
FRAGALA’. Nella parte in cui lei e Russomanno parlate della morte di Calabresi la registrazione è venuta male e non si capisce niente, solo quella parte.
ALLEGRA. Sarei curioso di sapere di quale forno lei parla.
PRESIDENTE. Questo che senso avrebbe avuto visto che, contemporaneamente, la Corte d’assise di Milano, sempre per iniziativa della procura di Milano, aveva condannato Sofri una volta, due volte, tre volte, eccetera?
FRAGALA’. Questa è un’altra faccenda, signor Presidente. Nel 1997 Russomanno va a trovare il dottor Allegra.
PRESIDENTE. Quello che si potevano dire il dottor Allegra e Russomanno sulla morte di Calabresi in che modo avrebbe messo in imbarazzo la procura di Milano visto che nel frattempo aveva celebrato il processo a Sofri?
FRAGALA’. Questo lo dovremmo chiedere a chi ha ordinato l’intercettazione ambientale e il dottor Allegra è stato intercettato nei suoi telefoni per un lunghissimo periodo.
PRESIDENTE. Non riesco a vedere uno schieramento, un indirizzo politico in quel tipo di indagine, visto che stiamo parlando di uffici giudiziari che hanno condannato Sofri per l’omicidio Calabresi e, non molto tempo fa, Bertoli, Maggi e compagnia bella per via Fatebenefratelli. Dovremmo leggere le sentenze, così potremmo farci un’idea più precisa. Lei sa che c’è stata una Corte d’assise che ha ritenuto che Bertoli non era un puro anarchico?
ALLEGRA. L’ho letto sui giornali.
PRESIDENTE. Può darsi che quella sentenza sia sbagliata, ma quando ne leggeremo le motivazioni, forse potremo avere un’idea più precisa.
ALLEGRA. Però io mi meraviglio, adesso, a sentire che sono stato sottoposto ad una intercettazione ambientale, quando penso alle difficoltà che noi avevamo in passato.
PRESIDENTE. Si assume la responsabilità della domanda l’onorevole Fragalà, io non lo sapevo.
ALLEGRA. Non è che non me lo sarei aspettato, perché ormai succede di tutto. Voglio dire che noi all’epoca abbiamo chiesto e abbiamo avuto respinta la richiesta di mettere sotto ascolto telefonico il telefono di Feltrinelli.
PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Allegra per questa lunga audizione e gli facciamo ancora i complimenti per la sua memoria di fatti sia pure lontani nel passato. Evidentemente lei ha molto esercitato la sua memoria su questi. La ringrazio ancora e dichiaro conclusa l’audizione.
La seduta termina alle ore 23,45.
· Il Mistero dell’attentato di Fiumicino del 1973.
I documenti segreti. Attentato di Fiumicino del 1973, 32 morti annunciati: i servizi sapevano ma non fecero nulla. David Romoli su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. Tra le stragi che hanno insanguinato l’Italia tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘90 è la seconda per gravità dopo quella alla stazione di Bologna anche se per quasi quarant’anni, fino al 2012, nessuno la ha ricordata e le 32 vittime erano state persino depennate dall’elenco delle vittime del terrorismo. Il 17 dicembre 1973, primo giorno d’udienza contro 3 dei 5 terroristi palestinesi arrestati il 5 settembre a Ostia con 2 lanciamissili Sam 7 Strela sovietici, un commando palestinese attaccò l’aeroporto di Fiumicino.
Dopo aver raggiunto la pista sparando all’impazzata i terroristi gettarono una bomba al fosforo e due granate all’interno di un aereo della Panam, uccidendo 30 persone tra cui 4 passeggeri italiani. Poi si rivolsero verso un aereo Lufthansa e nella fuga uccisero il finanziere Antonio Zara, che cercava di fermarli. L’aereo della Lufthansa fu fatto decollare coi terroristi a bordo e atterrò ad Atene, dove fu ucciso l’addetto ai bagagli Domenico Ippoliti. Di lì i dirottatori tentarono di sbarcare prima a Beirut e poi a Cipro, che non autorizzarono l’atterraggio. Dopo uno scalo a Damasco l’aereo ripartì per Kuwait City dove la corsa ebbe termine e i terroristi si arresero. Come nel caso dell’attacco alla sinagoga del 1982, era un attentato annunciato ma nessun servizio di sicurezza era stato disposto a protezione dell’aeroporto. Il 14 dicembre, tre giorni prima dell’attacco, un’informativa sull’imminente attacco era stata inviata al direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato dal Reparto D del Sid (sigla dei servizi segreti italiano di allora): “Viene segnalato che elementi di al Fatah sono partiti per l’Europa alcuno giorno orsono allo scopo di attaccare una rappresentanza israeliana o un aereo della El Al. L’attacco verrebbe condotto principalmente contro un aereo”. L’allarme arrivava dopo numerosissime segnalazioni precedenti, molte delle quali pubblicate da Gabriele Paradisi in un’inchiesta pubblicata sul sito ReggioReport.
Le somiglianze tra le informative del 1973 e quelle del 1982 -della quale abbiamo parlato nei giorni scorsi – in cui si metteva in guardia da attacchi contro sinagoghe del gruppo di Abu Nidal, “prima durante o dopo lo Yom Kippur” sono evidenti. In entrambi i casi gli avvertimenti erano stati molteplici: 23 prima di Fiumicino, 16 prima della sinagoga. Le differenze sono però rilevanti. Nel 1982 l’accordo tra Stato italiano e Olp, il cosiddetto lodo Moro, era ormai rodato e in funzione da anni. Nel 1973 lo si stava ancora mettendo a punto ed è probabile che proprio il sanguinoso attentato di Fiumicino abbia svolto un ruolo decisivo nella definizione dei particolari, a tutt’oggi ignoti. Se infatti l’esistenza del lodo è confermata da una quantità di elementi tale da non lasciare alcun dubbio, la reticenza dello Stato non permette di delinearne i contorni. Decisiva in questo senso è in particolare la scelta di non desecretare l’archivio Stefano Giovannone, colonnello del Sid, capocentro dell’Intelligence italiana in Medio Oriente, uomo di fiducia di Moro nei servizi, massimo artefice dell’accordo con i palestinesi. Questa reticenza e la conseguente vaghezza sul lodo che permettono alla Corte di Bologna, nei processi sulla strage, di affermare che “l’esistenza del lodo non ha trovato alcuna conferma precisa” e di non chiedere quindi, come avrebbe potuto, la desecretazione dell’archivio Giovannone, oppure allo storico Miguel Gotor di affermare contro ogni evidenza che si trattava solo di un “lodo di intelligence” che non coinvolgeva la politica.
La genesi del lodo aiuta pertanto a mettere meglio a fuoco contenuti e finalità di quell’accordo. In Italia, gli attentati e gli arresti di palestinesi armati, a partire dall’unico dirottamento nella storia di un areo della El Al, il 22 luglio 1968, furono numerosi. Il volume di fuoco si alza nel 1972-73. Il 4 agosto ‘72 viene fatto saltare l’oleodotto di Trieste. Poco dopo, il 16 agosto, due palestinesi regalano un mangianastri imbottito di esplosivo a due ragazze inglesi in procinto di imbarcarsi su un areo della El. Vengono rintracciati e arrestati e iniziano subito trattative con i palestinesi per risolvere l’incidente. Ad avviare l’iniziativa diplomatica segreta è il ministro degli Esteri. “Aldo Moro – racconterà anni dopo l’ex capo del controspionaggio Viviani – aveva detto al capo del Sid, Miceli: “Veda di mettersi d’accordo con Arafat. Trovi una soluzione“. La “soluzione” passò per l’invio a Beirut del colonnello Giovannone, come raccontò lui stesso al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni: “Alla fine del 1972 fui mandato in missione dal ministero degli Esteri e dal Sid… acché prendessi contatto con qualche dirigente dell’Olp perché si evitassero azioni terroriste contro l’Italia”. Un appunto del Sid del 17 dicembre 1972 rende conto della missione appena avviata: “In relazione all’attività terroristica sul piano internazionale sono in corso colloqui riservati e non ufficiali con i vertici di varie, note organizzazioni in aderenza ai nostri interessi”.
Sul piano concreto, l’esito dei “colloqui riservati” fu la scarcerazione dei due palestinesi, il 4 febbraio 1973, decisa dalla procura di Roma. Non fu una scelta indolore. E’ rimasta leggendaria la risposta del procuratore capo di Roma Achille Gallucci alle proteste di due magistrati secondo i quali il codice penale non avrebbe consentito la scarcerazione: “Il codice, a saperlo leggere, ti dice pure come si fanno le fettuccine”. Gallucci avocò a sé l’inchiesta. Il giudice istruttore contrario alla scarcerazione si mise in licenza per un solo giorno, quello in cui fu concessa ai due palestinesi la libertà provvisoria. Furono trasportati a Chieti, dove avrebbero dovuto presentarsi una volta alla settimana in questura. Scomparvero dopo appena due giorni. Nel complesso tra il 1972 e i primi 8 mesi del 1973 una decina di terroristi palestinesi arrestati in Italia furono scarcerati senza troppo clamore, con l’obiettivo, condiviso peraltro da molti altri Paesi europei, di evitare ritorsioni e rappresaglie. A favore del patto segreto c’erano però anche motivazioni diverse dalla sicurezza, destinate a crescere d’importanza dopo la crisi petrolifera del 1973, quando i paesi arabi produttori di petrolio, in seguito alla Guerra del Kippur in ottobre, aumentarono il prezzo del greggio e misero l’embargo verso i Paesi più filoisraeliani.
Un memorandum dell’ambasciatore in Libano Vincenzo De Benedictis riassumeva così il quadro: “Questa è l’importanza assunta dai palestinesi nella regione del Golfo: in Kuwait sono circa 14mila e controllano il settore informativo e del lavoro; negli Emirati Arabi Uniti controllano i posti direzionali chiave; nel Bahrein e nel Qatar controllano gli ingranaggi dell’industria petrolifera; nella stessa Arabia Saudita numerosi funzionari sono palestinesi”. Questo quadro spiega nel dettaglio l’Appunto inviato dal Sid al governo nel quale si evidenzia “la possibilità che l’Italia giungerà ultima. Le posizioni di maggior interesse e di maggior prestigio verranno accaparrate da quelle nazioni che, per prime, offriranno la loro collaborazione”. L’intesa conosciuta oggi come lodo Moro nasce così, all’incrocio tra l’interesse immediato consistente nell’evitare attentati e quello strategico derivante dalla postazione strategica occupata dalla questione palestinese e dai funzionari palestinesi nella sfida mondiale in corso sulle fonti energetiche. La spinta finale fu però probabilmente proprio il sanguinoso attentato che alla fine del 1973 mise a rischio di naufragio l’accordo tra lo Stato italiano e i palestinesi e finì invece per cementarlo.
· Il Mistero dell'ereditiera Ghislaine Marchal.
Ereditiera uccisa, dopo 30 anni si riapre il caso. Il giardiniere ottiene la revisione del processo. Redazione su Il Giornale il 19 dicembre 2021. Lui è libero da ventitré anni, ma da trent'anni convive con quella che considera una terribile ingiustizia: quello di essere considerato dalla legge un assassino. Ora per Omar Raddad c'è uno spiraglio: un tribunale francese ha deciso l'apertura di nuove indagini sulla morte dell'ereditiera Ghislaine Marchal, di cui l'uomo, un giardiniere di origine marocchina, si è sempre proclamato innocente. Si tratta di una decisione storica, rarissima in Francia e che costituisce un nuovo, forse corposo capitolo di una delle vicende di cronaca che più hanno appassionato l'opinione pubblica francese nel dopoguerra. Tutto ha inizio il 24 giugno del 1991, quando la Marchal, 65enne vedova di un ricco imprenditore, viene trovata cadavere nella cantina della sua villa detta La Chamade a Mougins nei pressi di Grasse, tra la Provenza e le Alpi. La morte risale al giorno prima e da subito si capisce che si tratta di un omicidio. La donna è stata colpita con violenza in molte parti del corpo e reca tagli orribili un po' ovunque. Nessuna effrazione, l'impressione che Ghislaine sia stata sorpresa da qualcuno che conosceva. Per questo, e per la scritta tracciata con il sangue trovata a pochi metri dal corpo Omar m'a tuer («Omar mi ha ucciso» scritto in maniera sgrammaticata, la versione corretta sarebbe stata Omar m'a tuée) verrà accusato dell'omicidio il giardiniere della villa, Omar Raddad, all'epoca trentenne. Che finirà condannato nel 1994 a 18 anni di carcere, pena poi ridotta a quattro anni e otto mesi in seguito alla grazia parziale concessa dall'allora presidente della Repubblica Jacques Chirac su richiesta del re del Marocco Hassan II. Raddad esce di galera nel 1998, sollevato ma non soddisfatto. Lui infatti continua a pretendere di essere scagionato, la grazia non lo placa, non ne fa un innocente quale lui garantisce di essere. Lui chiede più volte la revisione del processo ma invano, malgrado in Francia in molti lo supportino credendo che le indagini siano state pasticciate e inquinate dal pregiudizio. Poi la svolta, grazie a una legge del 2014 che rende più flessibili i criteri per ottenere la revisione di un processo e grazie ai progressi della scienza. Decisiva la perizia di un esperto di genetica che ha rilevato la presenza sulla scritta di 35 tracce di un dna maschile non appartenenti al giardiniere, che risalirebbero all'epoca dei fatti. Secondo la difesa dell'uomo è plausibile che le tracce genetiche siano state lasciate dall'autore dell'iscrizione, forse un tentativo di depistaggio, riuscito per trent'anni. «Una vera speranza», dice il giardiniere. Mestiere in cui la pazienza fa fiorire ogni cosa, perfino la verità.
· Il Mistero di Luis e Monserrat Flores Chevez.
Giallo sulla morte di Antonella e Lorena: stavano fuggendo? Valentina Dardari il 21 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il padre delle due ragazze non crede al semplice incidente: "Antonella (la ragazza alla guida, ndr) non era una sprovveduta. Qualcuno l’ha messa in agitazione”.
Il papà di Antonella e Lorena, le due ragazze di 23 e 19 anni morte in un incidente stradale la notte dello scorso sabato, verso le 5.30, a Roma, teme che le sue figlie stessero fuggendo da qualcuno. Luis Flores, giornalista boliviano, ha raccontato a Repubblica: “Mia figlia Antonella non era una sprovveduta. Qualcosa o qualcuno l'ha messa in agitazione. Sono certo che non ha potuto fare tutto da sola. Ha accelerato invece di premere il freno, ha perso il controllo della macchina. Qualcuno inseguiva l'auto o ha evitato un animale?”.
Antonella guidava bene
Il padre ha poi lanciato un appello a chiunque possa essere stato testimone di quanto avvenuto quella tragica notte: “Chiedo a chiunque abbia visto qualcosa quella notte in via Cilicia di contattare la polizia locale. Vogliamo sapere cosa è successo. È escluso, per me, che Antonella abbia avuto un colpo di sonno. Era una ragazza svelta e brava alla guida”. Le due sorelle stavano facendo ritorno a casa dopo aver partecipato a una festa di laurea al Monkey bar di San Paolo. La loro macchina si è accartocciata contro un platano di via Cilicia uccidendo le due giovani. Alla guida dell’auto, una Peugeot 307, c’era Antonella, la sorella maggiore, che ha preso con una ruota il marciapiede e questo avrebbe fatto volare la macchina a più di due metri d’altezza, sull'albero.
I corpi delle ragazze sono quindi rimasti incastrati tra le lamiere della vettura. Nel luogo dove si è verificato il tragico incidente più volte i cittadini avevano fatto segnalazioni perché la strada porta i guidatori a spingere sull’acceleratore. In passato era anche stata richiesta l’installazione di alcuni dossi per cercare di limitare la velocità delle auto che transitano in quel tratto stradale. Tra l’altro, nonostante la pericolosità del pezzo di strada, non vi sono telecamere di sicurezza né autovelox.
L'ultimo brindisi all'alba delle due sorelle. Poi lo schianto mortale
Il giornalista padre delle due vittime ha spiegato che “all'indomani di quanto successo il dolore è ancora più grande. Perché fino a ieri pensavo fosse un incubo, adesso invece è tutto reale. Sto facendo una mia piccola indagine su quel sabato sera”. L’uomo ha anche scoperto un particolare riguardante quella notte: prima di prendere la via Cilicia le figlie hanno accompagnato a casa un amico. Il ragazzo in questione è sceso in via Ostiense. Dopo la fermata, le ragazze hanno deciso quale percorso fare per tornare a casa, a Centocelle. Alle 4.44 Antonella ha messaggiato alla mamma: “Stiamo tornando a casa”.
Il Papà: "C'era del sangue sull'asfalto"
Il papà ha raccontato di aver “parlato con gli amici delle mie figlie che sabato erano alla festa. Antonella e Lorena hanno fatto un brindisi, forse con prosecco o brandy. Non lo so. Ma non avevano esagerato nel bere, mi hanno raccontato gli amici. Ma aspetto l'autopsia per sapere anche questo. Sull'asfalto abbiamo notato del sangue a 200 metri prima dell'impatto. Forse un animale sulla carreggiata colpito dall'auto? O qualcuno che inseguiva le mie figlie e è rimasto ferito in un tamponamento?”. Sono tante le domande che l’uomo continua a porsi per cercare di trovare un motivo per quelle due morti assurde. Per il momento il Gruppo VI di polizia locale ha consegnato i primi atti alla procura. L’unica telecamera che c’è è però rivolta verso il cancello di una villa e non può quindi essere utile agli investigatori. Forse nei prossimi giorni verrà disposta una perizia sul telefonino di Antonella. Ogni dettaglio, anche quello apparentemente più insignificante, può essere utile.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Sorelle morte, oggi i funerali a Centocelle. Acquisiti i tabulati degli smartphone. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2021. Un intero quartiere oggi si stringe a Luis e Monserrat Flores Chevez per l’ultimo saluto alle loro figlie. Sono infatti in programma alle 10.30 i funerali di Antonella e Lorena, 23 e 19 anni, vittime di un incidente stradale all’alba di domenica scorsa in via Cilicia, a San Giovanni, sul quale sta indagando la polizia municipale. Le esequie saranno celebrate nella parrocchia del quartiere, quella della Sacra Famiglia di Nazareth in piazzale delle Gardenie: attese centinaia di persone, con una larga rappresentanza delle comunità boliviana ed ecuadoriana, ma più in generale di quella sudamericana intera, insieme con tanti residenti di Centocelle, che si sono sempre dimostrati molto vicini alla famiglia del giornalista colpita da una immane tragedia. Per l’occasione la piazza sarà transennata dai vigili urbani anche per mantenere il rispetto delle norme di sicurezza anti-Covid, sia all’interno sia all’esterno della chiesa. La celebrazione potrebbe essere trasmessa anche in diretta streaming sui social network, come del resto è già successo in passato, in modo che possa essere seguita anche da parenti e amici delle due sorelle dall’altra parte del mondo. Intanto proseguono le indagini da parte dei vigili del VI Gruppo Torri della Municipale. Oltre ai rilievi tecnici e all’esame dei video acquisiti nei giorni scorsi, non si esclude che possano essere sentiti alcuni testimoni. Fra questi anche gli amici che poche ore prima dell’incidente hanno preso parte alla festa di laurea di un’amica delle sorelle in un locale in viale Giustiniano Imperatore, all’Ostiense. In particolare infatti sarebbe stato anche acquisito il video postato su molti siti internet delle due giovani che bevono un cocktail - non è chiaro di che genere, potrebbe anche essere analcolico - al «Monkey Bar», il locale dove era stato organizzato il dopo cena per la neo laureata, al quale avrebbero partecipato alcuni amici di Antonella e Lorena. Qualcuno ha anche commentato quelle immagini con post sui social, su Instagram e Facebook in particolare. Sentire questi ragazzi potrebbe aiutare gli investigatori a ricostruire cosa sia accaduto nel corso della serata, o quantomeno in quel determinato frangente, in attesa dei risultati delle autopsie, che si sono svolte ieri e l’altro ieri, ma anche dell’esame dei tabulati telefonici delle utenze delle giovani. Gli smartphone sono stati sequestrati per essere analizzati da chi indaga, così come il contenuto delle memorie, delle chat e delle piattaforme di messaggistica, per capire con chi e quando potrebbe aver contattato Antonella e Lorena quella tragica notte.
Rinaldo Frignani per Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. La verità nei video. In quelli che gli agenti della polizia municipale hanno già acquisito e anche in quelli che verranno presi dagli investigatori che devono dare risposte sulla dinamica dell’incidente costato la vita ad Antonella e Lorena Flores Chevez, 23 e 19 anni, le sorelle di Centocelle morte all’alba di domenica a bordo della loro auto in via Cilicia, a San Giovanni. All’analisi tecnica delle tracce di pneumatico trovate sul marciapiede spartitraffico, per accertare con quanta violenza la Peugeot 307 delle giovani ci sia salito sopra, forse cambiando improvvisamente direzione, si aggiungono adesso le immagini al vaglio di chi indaga. Sono tante e serviranno per ricostruire il percorso fatto dall’auto di Antonella e Lorena quantomeno in via Cilicia e forse anche poco prima, per valutarne la traiettoria. Non si esclude tuttavia che possano essere svolti accertamenti anche dal punto in cui, in viale Giustiniano Imperatore, all’Ostiense, le sorelle sono salite a bordo dopo aver trascorso la serata in un locale per festeggiare la laurea di un’amica. Insomma indagini a tutto campo per chiarire ogni lato ancora oscuro dell’incidente, nel quale - hanno ribadito ieri gli investigatori della Municipale - non risultano al momento coinvolti altri veicoli. L’auto è accartocciata, secondo una prima ipotesi l’impatto con uno degli alberi che costeggiano via Cilicia sarebbe stato frontale, mentre nelle parti posteriore e laterale della vettura non ci sarebbero segni di collisioni con altre auto, né a terra sarebbero stati trovati pezzi di una seconda vettura. Ma ogni ipotesi rimane aperta per spiegare quello che è successo e che ha gettato nella disperazione i genitori delle due ragazze, Luis e Monserrat, attorno ai quali si è stretta tutta Centocelle. Per avere altre risposte fondamentali per il prosieguo delle indagini, la polizia municipale, con gli agenti del VI Gruppo Torri, attende anche l’esito delle autopsie previste per oggi. Non si esclude infatti che l’incidente possa essere stato causato da un colpo di sonno della 23enne che si trovava al volante, come anche un malore improvviso. Le perizie tecniche dovranno poi valutare la velocità tenuta dalla Peugeot e se ci siano stati segni di frenata prima dell’impatto contro l’albero, giudicato comunque - anche a guardare le condizioni in cui è stata ridotta l’utilitaria - molto violento. Proprio in quel punto ieri amici e parenti di Antonella e Lorena hanno continuato a lasciare fiori sull’albero contro il quale le giovani hanno perso la vita. Fra le foto anche quella della laurea della ragazza più grande. Intanto il quartiere con i residenti in via dei Platani - dove abita la famiglia del giornalista boliviano - si prepara a dare l’ultimo saluto alle sorelle, non appena la magistratura darà il nulla osta per la riconsegna delle salme ai familiari.
Alessia Marani per "Il Messaggero" il 20 dicembre 2021. Sorelle inseparabili, anche un po' «secchione» come le ricordano papà Luis e mamma Maria, «studiavano sempre, la domenica, anche di notte», perché avevano un sogno: «Applicare lo spirito di impresa all'innovazione ambientale per migliorare il pianeta che ci ospita, per questo si stavano preparando per iniziare l'Erasmus a Nizza o a Dublino». Sono annientati dal dolore il padre e la madre di Antonella Flores Chevez, 23 anni e di Lorena, 19. Luis è di origine boliviana, giornalista, direttore di una trasmissione latino americana sui canali digitali, la moglie ecuadoregna, ma le loro piccole donne sono nate e cresciute in Italia. Generazione Greta ma con l'intraprendenza per gli affari. Aprono le porte della loro casa a Centocelle, dove invano per tutta la mattina hanno aspettato il rientro delle ragazze uscite la sera prima per andare a una festa di laurea. «Antonella mi ha mandato un messaggino alle 4.44: stiamo entrando in macchina, torniamo». Poi il silenzio. Maria è una mamma apprensiva, come un po' tutte le mamme. «Non dormo finché non rientrano, avevo fatto su e giù per le stanze, mi sono messa a pulire casa e a fare la lavatrice. Dopo quel messaggino ho tentato inutilmente di chiamare Antonella: telefono irraggiungibile. Quello di Lorena squillava a vuoto, le ho scritto perché Anto non risponde?. Ma niente, sono uscita in terrazzo in pigiama al freddo ad aspettarle». Invece, arrivano gli agenti della Polizia locale di Roma capitale a bussare alla porta per dare ai Flores Chevez la notizia che nessun genitore vorrebbe sentirsi mai dire: Antonella e Lorena sono morte all'alba, sul colpo, in un incidente stradale dopo il curvone di via Cilicia, una strada urbana ma che di fatto è una sorta di prosecuzione della tangenziale tra il quartiere Ostiense e San Giovanni. La loro auto, la Peugeot 307 cross del papà, carambola prima su uno spartitraffico che fa da trampolino di lancio al veicolo volato in alto per oltre due metri e finito per schiantarsi contro un albero. Un impatto micidiale che ha svegliato di soprassalto i condomini di una palazzina: «Ci risiamo - ha pensato Giuseppe - è l'ennesimo incidente del week-end, questa strada è maledetta, ci hanno perso la vita troppe persone». Gianluca spiega che «quello spartitraffico creato per una fermata del bus che non hanno mai fatto non si vede ed è pericoloso».
I DUBBI
Non se ne fa una ragione Luis che con grande compostezza spiega: «Le mie figlie non bevono, non fumano. Antonella aveva preso la patente due anni fa, era prudente e la macchina andava bene. Conoscendo mia figlia non riesco a credere che abbia fatto tutto da sola». Eppure Antonella nella notte aveva creato una storia su Instagram: lei e la sorella sono al Monkey bar di San Paolo a festeggiare con gli amici, lei beve un cocktail. Risate. La Municipale sembra escludere un coinvolgimento di altri veicoli o pedoni, sta acquisendo le immagini di alcune telecamere. Sott'accusa ci sono soprattutto la velocità, una distrazione (una perizia verrà fatta anche sul telefonino della conducente) o il ghiaccio che forse si era formato sull'asfalto. L'autopsia chiarirà se la 23enne avesse effettivamente bevuto al punto di perdere il controllo dell'auto. Antonella si era laureata a luglio in economia gestionale e stava facendo la magistrale in strategie ambientali; adorava la danza boliviana ed era la reginetta della comunità a Roma. Lorena la seguiva in tutto e aveva anche lei iniziato a studiare alla Sapienza economia con indirizzo aziendale. In casa mostrano orgogliosi le loro foto, con ora i lumini accesi. «Io parlo perché ancora credo che tutto questo sia un sogno, che adesso mi risveglierò e le abbraccerò come sempre», dice il papà.
Modella morta, il pm indaga per omicidio colposo: sequestrata la sedia usata per arrampicarsi. Fulvio Fiano e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2021. Finora il fotografo che aveva organizzato il set sulla terrazza condominiale non è sotto inchiesta. Si attende l’esame delle memorie della sua fotocamera digitale e di altri supporti. La giovane era stata accompagnata dalla madre. Sulla morte di Francesca Romana D’Elia si indaga per omicidio colposo, anche se per il momento non ci sono indagati. È quello che ha deciso il pm Alessia Miele che sta coordinando le indagini della polizia per ricostruire cosa sia accaduto la mattina del 2 dicembre scorso nel palazzo in viale dei Quattro Venti 166 dove la 19enne modella di Campagnano di Roma è precipitata per una decina di metri nella tromba dell’ascensore, dopo aver sfondato la vetrata di un lucernario nella terrazza condominiale.
La ragazza, come è stato confermato dagli stessi investigatori del commissariato Monteverde sulla base delle dichiarazioni di Matteo G., 28 anni, il fotografo con il quale stava completando un book di immagini, avrebbe cercato riparo da un nubifragio che si era abbattuto sulla Capitale, scendendo da un muretto dalla parte opposta rispetto a quella scelta dal professionista, che utilizzava spesso quella terrazza come set. Per chi indaga non ci sarebbero tuttavia elementi per poter pensare ad altro che a un tragico incidente, anche se adesso si attendono gli esiti di alcuni accertamenti per capire se il lucernario e la terrazza stessa fossero tenuti in sicurezza.
Nessun dubbio nemmeno sul fatto che la 19enne, ultima di tre sorelle, figlie di un altro fotografo, Marco D’Elia, conosciuto negli ambienti cinematografici, e di una ex modella russa, Irina, si fosse recata a Monteverde per farsi riprendere dal 28enne, visto che con lui aveva fissato due appuntamenti a distanza di poche settimane e che a quello del 2 dicembre era stata accompagnata proprio dalla madre. Secondo le dichiarazioni rese dal fotografo, interrogato quella mattina stessa dopo che aveva lanciato l’alalrme al 112 per far soccorrere la ragazza finita nel vano dell’ascensore, i due erano saliti in terrazza e poi avevano utilizzato una sedia bianca, ritrovata effettivamente sul posto, per salire sul muretto.
Insomma la versione del 28enne, sconvolto per quello che è successo, viene ritenuta comunque credibile, anche se nel frattempo la polizia gli ha sequestrato la fotocamera digitale usata per scattare le fotografie alla ragazza, insieme con due hard disk pieni di immagini e video, allo smartphone e al tablet. sarà nominato un perito per aprire ed esaminare le memorie e capire se ci sia altro da chiarire oltre a quello che è stato dichiarato dall’unico testimone fino a oggi della tragica fine di Francesca Romana. Il ragazzo, che già in passato secondo i vicini di casa aveva trasformato quella terrazza in un luogo per riprendere modelle, potrebbe essere tuttavia interrogato di nuovo nelle prossime settimane nel caso dalle immagini dovessero emergere incongruenze con il suo racconto di quella drammatica mattinata.
· Il Mistero di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu.
Camilla Mozzetti per "il Messaggero" il 20 dicembre 2021. Quasi certamente è stato picchiato, barbaramente. Aggredito a tal punto che la causa della morte potrebbe essere un'emorragia interna. Poi il suo volto è stato coperto da uno straccio, legate le sue mani e i piedi e il corpo è stato estratto da sotto una grata di un'intercapedine. E il motivo che si celerebbe dietro al ritrovamento del cadavere di un 48enne egiziano, Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu, potrebbe essere riconducibile ad una lite tra connazionali, amici che con lui condividevano quell'appartamento occupato abusivamente in via Morandi 150 oppure tra egiziani e stranieri che vivono anch' essi nel palazzo. Non c'è droga, non ci sono motivi di usura od estorsione dietro il macabro rinvenimento del 48enne avvenuto nel pomeriggio di sabato.
LA DISCUSSIONE
I carabinieri della compagnia di Montesacro che indagano per omicidio sono propensi a ritenere che la morte dell'uomo sia seguente ad una lite, forse l'ennesima e che i suoi aggressori spaventati per quello che poi era accaduto abbiano deciso, colti dal panico, di occultare il corpo dell'uomo. Nel dubbio che l'egiziano non fosse morto e che potesse riprendersi, fuggire, chiamare aiuto e denunciare tutto, gli potrebbero aver legato le mani e i piedi nascondendo il suo corpo in quell'intercapedine. Oggi sarà conferito l'incarico per l'autopsia che dunque sarà condotta al più tardi mercoledì. Il medico legale da una prima visione non ha ravvisato sul corpo del 48enne ferite compatibili con pistole o con armi da taglio, ma la vittima aveva un evidente trauma facciale e solo l'esame dirà se la morte è sopraggiunta per un'emorragia interna, dopo un pestaggio brutale. Ma perché qualcuno o più di uno l'avrebbe dovuto picchiare a sangue? L'egiziano risulta incensurato: non ha precedenti, da anni però aveva occupato abusivamente un appartamento popolare che condivideva con il fratello e con altri connazionali.
IL MOVENTE
Non è escluso che il movente di un'aggressione sfociata poi in omicidio sia da rintracciare in questo. I militari già dal pomeriggio del ritrovamento hanno iniziato ad ascoltare amici e familiari in mancanza di telecamere utili a ridosso dell'area dov' è stato ritrovato il corpo. Per tutta la giornata di ieri in caserma è proseguito l'andirivieni di persone, compresi anche i colleghi di lavoro. Il 48enne, infatti, lavorava come operaio in uno sfasciacarrozze della Togliatti, non lontano dall'angolo con viale dei Romanisti. Anche su quest' ambiente si sta focalizzando l'attività investigativa.
LA SCOMPARSA
L'egiziano era scomparso dal 9 dicembre. Il fratello e altri familiari l'avevano visto uscire al mattino per recarsi a lavoro ma dalla Togliatti non era più tornato. Nelle successive ore, preoccupandosi, perché non riuscivano a mettersi neanche in contatto telefonico con lui sempre il fratello decide di andare a sporgere denuncia di scomparsa dai carabinieri di Tor Tre Teste. Ma questo avviene soltanto tre giorni dopo, ovvero il 12 dicembre. Poi il cadavere viene segnalato sempre dal fratello in quella palazzina ma passa una settimana. Sul posto arrivano i carabinieri ma anche i vigili del fuoco che intervengono per liberare il corpo incastrato sotto una griglia di un'intercapedine. Ci vorranno un paio di ore per consegnare agli inquirenti la salma e per permettere al medico legale di compiere una prima analisi che tuttavia non basterà a dire per cosa è morto il 48enne.
Il cadavere era nascosto sotto la grata di un'intercapedine. Operaio ucciso con mani e piedi legati: “Hanno coperto la sua morte”. Redazione su Il Riformista il 20 Dicembre 2021. È stato trovato con le mani e i piedi legati, nascosto sotto una grata di un’intercapedine del palazzo in cui abitava abusivamente nel quartiere Tor Sapienza.
Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu, 48enne di origini egiziane, sarebbe stato picchiato brutalmente, fino alla morte. Sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso. Secondo un testimone, qualcuno ha cercato di coprire la sua morte.
Il ritrovamento
Il corpo, incaprettato, è stato rinvenuto lo scorso venerdì dal fratello della vittima in uno scolo della fognatura su un terrazzino, coperto da stracci e incastrato tra due pareti di cemento, forse in attesa di essere spostato altrove.
Il medico legale, in un primo esame, non ha riscontrato ferite compatibili con armi da taglio o pistole, ma la vittima aveva un evidente trauma facciale. L’uomo potrebbe essere morto a seguito di un violento pestaggio per un’emorragia interna, ma solo l’esame previsto al più tardi per mercoledì dirà cos’è accaduto.
La scomparsa di Gala Emad Mohammed Abou Elmaatu era stata denunciata il 12 dicembre dal fratello, ma in realtà l’uomo risultava sparito nel nulla da tre giorni. Secondo quanto ricostruito da chi lo conosceva, non era tornato a casa dopo esser uscito per andare al lavoro e nessuno riusciva a mettersi in contatto con lui telefonicamente. Il 17 dicembre la macabra scoperta.
Le indagini
La vittima non aveva precedenti e lavorava come operaio in uno sfasciacarrozze di via Togliatti. Viveva in un appartamento popolare, occupato in maniera abusiva, con altri due connazionali. Repubblica riporta anche la testimonianza di una persona, rimasta anonima, che descrive il luogo in cui è stato trovato il cadavere: “Dal giorno 12 ho visto che nel terrazzino di Gala che qualcuno ha iniziato a ammassare diversi mobili e sacchetti che emanavano anche un forte puzzo. Come se qualcuno volesse coprire qualcosa. E uno dei suoi coinquilini è sparito tre giorni fa.”
I carabinieri della compagnia di Montesacro stanno indagando per omicidio volontario. L’ipotesi è che il delitto sia scaturito al termine di una lite e che gli aggressori, spaventati per quello che era successo e in preda al panico, abbiano deciso di nascondere il corpo nell’intercapedine. Ma cosa può aver scatenato un simile orrore? Il movente non è ancora chiaro.
Le indagini stanno coinvolgendo gli amici e i conoscenti della vittima ma anche i colleghi di lavoro. Il coinquilino è stato poi rintracciato e ascoltato per diverse ore, così come l’altro amico e il fratello di Gala. Anche il cellulare della vittima è sotto esame per capire con chi abbia parlato prima di essere ucciso.
· Il Mistero di Francesca Romana D'Elia.
Flaminia Savelli per "il Messaggero" il 21 dicembre 2021. Un volo dal tetto della palazzina mentre cercava riparo dalla pioggia. Un destino imprevisto che non ha lasciato scampo a Francesca Romana D'Elia, giovanissima e bellissima con il sogno della moda che coltivava da tempo. Per seguire le orme di mamma Irina, modella pure lei, e di papà Marco, fotografo professionista. La giovane, 19 anni appena compiuti, dal comune di Campagnano di Roma si era trasferita nella Capitale per studiare all'Accademia delle Belle Arti. In attesa di veder decollare la carriera. Fino al 2 dicembre: l'agenzia per cui lavorava le aveva fissato un appuntamento nel primo pomeriggio con un fotografo professionista, Matteo G., 30enne romano. Il set era nell'appartamento - studio di via dei Quattro Venti, a Monteverde, dove poi si è consumata la tragedia.
LA DINAMICA
«Ci siamo sentite fino a quando non è arrivata davanti al palazzo» racconta Alice Capparoni, compagna di scuola e amica stretta di Francesca Romana che racconta così quegli istanti prima del buio: «Era molto serena, amava fare gli shooting. Ed era tutto organizzato come sempre. Quel giorno - racconta Alice - eravamo rimaste d'accordo che al termine del servizio, mi avrebbe chiamata. Non mi sono preoccupata quando non l'ho sentita, pensavo solo che avesse finito troppo tardi. E invece Francesca non c'era già più. È un dramma che stiamo vivendo tutti perché era una ragazza davvero speciale, piena di vita». Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, il fotografo e la modella nella prima serata del 2 dicembre sarebbero saliti sul tetto della palazzina al civico 166. Una volta arrivati però si sarebbe scatenato un violento acquazzone. Il fotografo sarebbe riuscito a scavalcare un muretto mentre la giovane, avrebbe perso l'equilibrio finendo sul lucernario e quindi lungo la tromba dell'ascensore. Un volo di oltre 20 metri: «Quella sera - ricorda Maria Liberati, condomina della palazzina - a un certo punto ho sentito delle urla fortissime. Sono corsa fuori per vedere cosa stava accadendo. La ragazza era a terra in una pozza di sangue, è stato terribile». Lo stesso racconto che riportano anche gli altri condomini ancora sconvolti per il dramma che si è consumato.
LE INDAGINI
Sul posto, insieme ai sanitari del 118, sono intervenuti gli uomini del distretto Monteverde e i poliziotti della scientifica. Gli investigatori hanno quindi ascoltato a lungo il giovane fotografo. Al momento non risultano indagati per la morte della giovane ma il caso è ancora aperto. L'inchiesta dunque procedere per escludere eventuali responsabilità. Intanto il comune di Campagnano si è stretto intorno alla famiglia della studentessa. «Siamo stati travolti dalla notizia - dice Alessio Nisi, il sindaco del comune alle porte della Capitale - per tutti noi, è una morte assurda. Non possiamo far altro che stare accanto a Irina e Marco». L'amministrazione ha sospeso tutte gli appuntamenti che erano in programma per l'8 dicembre e indetto una giornata di lutto cittadino. La famiglia D'Elia è ben nota nella cittadina: «Sono molto impegnati nel volontariato - spiega il sindaco Nisi - la stessa Francesca Romana era molto attiva nella comunità e nel volontariato. La ricordiamo tutti così: bellissima, sorridente e sempre rivolta al prossimo».
Rinaldo Frignani per corriere.it il 20 dicembre 2021. Si erano sentiti in chat dopo che qualche mese prima lui le aveva scattato qualche fotografia. E si erano risentiti all’inizio di dicembre per vedersi ancora per un set. Questa volta sulla terrazza condominiale del palazzo in viale dei Quattro Venti, a Monteverde, dove Matteo G., 30 anni, abita in un appartamento al pianterreno. Appuntamento il 2 dicembre scorso. Pioveva, ma lui e lei - Francesca Romana D’Elia, 19 anni, studentessa delle Belle Arti - sono saliti lo stesso in cima al palazzo di sei piani. Solo che all’improvviso un nubifragio si è abbattuto sulla zona: «Io sono saltato da un muretto per cercare un riparo, lei ha fatto lo stesso ma è finita sul lucernario. Il vetro ha ceduto ed è caduta di sotto, nella tromba dell’ascensore», ha raccontato il fotografo, interrogato a lungo dalla polizia, che tuttora indaga sulla tragica fine della giovane. La notizia non è mai stata resa nota, ma l’inchiesta è in corso. Fino a questo momento però il fotografo non è indagato, anche perché gli agenti del commissariato Monteverde prediligono la pista dell’incidente. La polizia scientifica ha svolto un accurato sopralluogo nel palazzo nel corso del quale sono stati acquisiti elementi per ricostruire quanto accaduto. A distanza di 18 giorni nell’elegante stabile nel cuore del quartiere si piange ancora per la 19enne, che viveva con la famiglia a Campagnano Romano, a nord di Roma: «La polizia è rimasta qui da noi per ore, ci saremmo aspettati che la notizia fosse riportata dai telegiornali, invece niente - racconta un’inquilina -. Allora abbiamo deciso di ricordare quella povera ragazza con una veglia di preghiera che abbiamo organizzato nella piccola cappella all’interno del condominio». Altri nell’edificio rammentano come quel giorno il fotografo, che abita al pianterreno ed è parente di un’esponente politico, sarebbe salito sul terrazzo condominiale insieme con la giovane «avendo la disponibilità delle chiavi di entrambe le porte di accesso, della scala A e della B: sono andati nella seconda». Erano da poco passate le 11 di mattina. L’allarme è scattato subito ma per la ragazza non c’è stato purtroppo niente da fare: il corpo è stato recuperato più tardi dai vigili del fuoco. Ma nel frattempo aveva conosciuto il fotografo e si erano messi d’accordo per completare il book iniziato mesi prima, forse d’estate. Dopo una serie di contatti sui social, avevano fissato un appuntamento nello studio-abitazione del professionista che come set aveva pensato però alla terrazza del palazzo. In segno di lutto, il sindaco di Campagnano, Alessio Nisi, ha sospeso i festeggiamenti per l’Immacolata lo scorso 8 dicembre. «La giovane Francesca Romana - aveva scritto anche su Facebook -, ragazza splendida, appartenente a una famiglia esemplare, sempre molto attiva nel campo del sociale, lascerà un vuoto straziante nella nostra comunità».
Il papà di Francesca Romana D’Elia, la modella morta a Roma: «Era straordinaria, ci ha dato la forza per andare avanti». Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. Anche lui fotografo, con la compagna russa. I funerali su Facebook per consentire ai parenti in Russia di seguirli. Indagini ancora in corso: accertamenti sul perché il 30enne che si trovava con la giovane avesse le chiavi del terrazzo condominiale.
Francesca Romana D’Elia aveva 19 anni e abitava a Campagnano di Roma
Da 19 giorni tutta la comunità di Campagnano di Roma si interroga sul perché una sua figlia, Francesca Romana D’Elia, 19 anni, non c’è più. Morta in circostanze da chiarire in un palazzo di Monteverde dove si era recata per un set fotografico con un professionista 30enne conosciuto da poco. Il padre e la madre della giovane, Marco - anche lui fotografo, noto negli ambienti cinematografici - e Irina, già modella di origine russa, sono chiusi nel loro dolore immenso insieme con le due sorelle più grandi di Francesca, in attesa di qualche sviluppo delle indagini. Ai funerali, celebrati dal vescovo ausiliario e parroco di Campagnano, monsignor Renzo Tanturli, nella chiesa di San Giovanni, proprio il papà della giovane ha ricordato fra le lacrime la sua figlia più piccola, ma senza fare riferimento alla tragica vicenda.
«Era una ragazza e quindi poi una donna con un carattere molto forte, con una sensibilità straordinaria. Più volte io e la madre siamo rimasti impressionati, ci ha dato forza nei momenti più delicati, ci ha messo in riga possiamo dire, e anche aiutato ad andare avanti». Quindi Marco D’Elia ha dedicato alla figlia «Here today», brano scritto nel 1982 da Paul McCartney all’amico scomparso John Lennon. «Qualche anno fa eravamo in macchina insieme e l’ho inserita nella nostra playlist che aggiornavamo insieme da quando era piccola - ha detto commosso ancora il papà -: l’ho vista piangere di nascosto, voleva che non me ne accorgessi. E lì ho capito che figlia avevo».
«Il papà di Francesca è un grande amico della comunità, impegnato da sempre nel sociale e nell’ambiente della parrocchia. Qui siamo tutti sconvolti anche dalla mancanza di notizie su quello che è successo alla ragazza a Roma. Per me lui è un eroe straordinario per tutto quello che ha dovuto affrontare finora. Oltre al lutto cittadino, allora abbiamo anche sospeso la cerimonia in consiglio comunale per la consegna delle chiavi della città a monsignor Tanturli per i suoi 40 anni di sacerdozio», racconta oggi il sindaco di Campagnano, Alessio Nisi.
Intanto proseguono le indagini del commissariato Monteverde per ricostruire cosa è successo a Francesca. Un’imprudenza. Una decisione avventata, soprattutto per via delle precarie condizioni meteorologiche che stavano peggiorando in maniera evidente nella mattinata del 2 dicembre scorso. L’attenzione della polizia si concentra in particolare su questo aspetto per spiegare perché la 19enne sia stata accompagnata sul terrazzo condominiale del palazzo in viale dei Quattro Venti 166 per un set fotografico concordato con un professionista conosciuto qualche settimana prima.
Matteo G., 30 anni, al momento non è indagato, ma potrebbe essere sentito di nuovo nei prossimi giorni dagli investigatori che in accordo con il pm attendono altri elementi per proseguire con gli accertamenti sulla tragica fine della ragazza, precipitata per alcuni metri nella tromba dell’ascensore dopo essere caduta dal terrazzo in seguito allo sfondamento del lucernario sul quale era finita - a detta del fotografo - «mentre cercava un riparo dal nubifragio» che si era abbattuto su quella parte di Roma alle 11 di mattina. Il 30enne invece, secondo la ricostruzione fornita mentre era ancora sconvolto per l’accaduto proprio quel giorno agli investigatori del commissariato Monteverde, aveva fatto lo stesso ma passando per il muretto sul quale poco prima si erano arrampicati per raggiungere il luogo ideale, secondo lui, per scattare le foto alla 19enne.
Un punto che peraltro era stato utilizzato in passato dallo stesso fotografo per completare book fotografici ad altre ragazze, fra loro alcune modelle, come proprio la polizia ha accertato. Quindi quella di salire in terrazzo nel palazzo dove abita, in un appartamento al pianterreno, era una consuetudine tanto che il 30enne aveva la disponibilità delle chiavi, come confermato dagli altri inquilini, che sconvolti per la morte della giovane, le hanno dedicato una veglia di preghiera nella piccola cappella interna all’edificio. Le indagini dovranno chiarire a questo punto se il fotografo fosse autorizzato a salire in terrazzo, oltre al fatto se il lucernario fosse stato segnalato, come stabilisce la normativa sulla sicurezza degli immobili, e se l’aver organizzato il set proprio lì, con il nubifragio che incombeva sulla città, tanto che era stata diramata il giorno precedente dalla Protezione civile l’allerta meteo. Tutti elementi per i quali le indagini sulla morte della 19enne sono tuttora in corso.
· Il caso Enrico Zenatti: dalla morte di Luciana e Jolanda al delitto Turina.
Mantova, Enrico Zenatti è un serial killer? Il ruolo centrale della moglie (che in passato lo difese). Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2021. Dall’arresto per il delitto della suocera ai misteri sulla morte di due prostitute: la testimonianza della donna sarà fondamentale. Nel 2005, quando era sfuggito alla cattura, gli aveva fornito degli alibi.
Fu allora assolto in Corte d’Assise, dopo tre anni di carcere, e adesso si giura innocente. «Le sentenze si rispettano, e in base a quella sentenza non è colpevole» dice il questore di Pordenone Marco Odorisio, il poliziotto che gli aveva dato la caccia ma anche il poliziotto che, il giorno della scarcerazione nel 2008, aveva profetizzato: «Di Enrico Zenatti si tornerà a parlare». Se ne parla e di nuovo s’indaga su quest’uomo, perché lateralmente all’inchiesta ufficiale sull’omicidio della 73enne Anna Turina nella villa bifamiliare di Malavicina, frazione di Roverbella, nel Mantovano, carabinieri e pm hanno avviato un secondo percorso, a ritroso. Per rintracciare fra database, circuiti diplomatici e informatori le eventuali scomparse di donne che si vendevano in Lombardia e Veneto, e che potrebbero essere altre vittime di un assassino. Forse un serial killer di prostitute.
Escort come la brasiliana Luciana Lino De Jesus e la colombiana Jolanda Holgun Garcia, la prima strangolata nel 2004 nel bilocale a Verona, la seconda mai trovata, sparita l’anno prima in conseguenza di omicidio, forse sotterrata nelle campagne. Incolparono lui, Zenatti, genero della signora Anna e secondo l’impianto accusatorio suo aguzzino, giovedì scorso, armato di un attrezzo da cucina, sembra delle forbici, riposte in un cassetto ma non senza errori.
I rilievi del Ris hanno richiesto breve tempo a conferma dello scenario del Comando provinciale del colonnello Antonino Minutoli; uno scenario del quale si dimostra convinto il magistrato Fabrizio Celenza. Sì, proprio lui, il pm che all’epoca lavorò sulle prostitute incanalando l’accusa contro Zenatti, 53enne dipendente del negozio di frutta della moglie, sui seguenti elementi. Luciana fu uccisa tra le 14 e le 15. Fino a poche ore prima aveva ricevuto, giorno e notte, telefonate di Zenatti che, quel giorno, si trovò a camminare a cinquecento metri dall’abitazione della escort e che, dalle 15, smise di chiamarla interrompendo una sequenza definitiva «ossessiva» dagli inquirenti. Quando settimane più tardi un funzionario del consolato colombiano, allertato dalla famiglia, compose il numero della seconda prostituta, Jolanda, rispose Zenatti, garantendo che stava bene. La polizia scovò, sotto la ruota di scorta della macchina dell’uomo, pagine e pagine di giornali: quelli che raccontavano il delitto di Luciana. Zenatti scappò all’imminente cattura munito di migliaia di euro, senza telefonino e carte di credito, muovendosi sui taxi, coperto dalla moglie che in precedenza l’aveva lasciato, tornando dalla mamma insieme ai bimbi piccoli, e che in quell’occasione di latitanza gli fornì degli alibi.
In primo grado Zenatti, infine braccato in una cabina telefonica, ricevette una condanna di 18 anni. Gli investigatori seguirono la pista dei resti inumati, senza risultato anche considerando, ci dice un poliziotto in pensione, che i terreni riconducibili all’indagato, di proprietà della famiglia della consorte, raggiungevano i cento ettari. Di Zenatti era notoria l’assidua frequentazione delle escort: sua mamma, in quella Custoza che salutò la scarcerazione con le campane a festa, ammise il fatto specificando che non costituiva reato.
In Procura ripetono che centrale, per svelare sia il presente sia un ipotetico oscuro passato, sarà la moglie, ammesso che davvero sappia e si confidi. E ammesso, certo, che Zenatti abbia ucciso la suocera, con la quale i rapporti erano pessimi, a meno che non abbia voluto «silenziarne» pericolose rivelazioni. Le telecamere di sorveglianza delle case dei vicini cristallizzano un’uscita di Zenatti compatibile con la fascia temporale della morte, causata da un taglio alla gola. Scartata la pista di estranei per una rapina: nulla mancava nella vasta abitazione dell’anziana. La sua porta dista cinque metri da quella di Zenatti, alle cui udienze sempre parteciparono amici preti. Enrico Bastianello, legale dei parenti di Luciana, valuta se presentare istanze volte a riaprire le vecchie indagini.
Un omicidio, come quello di Jolanda, divenuto un cold case. Datato ma ora sostenuto da una tecnologia prima assente, pur ricordando che l’assassino di Luciana tolse impronte, capelli e peli dal bilocale, lasciando un ambiente asettico intorno al cadavere avvolto in un lenzuolo, con il fine di trasportarlo lontano e nasconderlo nei campi. (ha collaborato Giovanni Bernardi)
Mantova, chi è Enrico Zenatti: dai cold case di Luciana e Jolanda al delitto Turina, una vita di misteri. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 15 dicembre 2021. Telefonate, contatti, pagine di giornali, prove indiziarie: ma alla fine Enrico Zenatti fu assolto per l’omicidio delle due prostitute sudamericane. Al vaglio l’ipotesi di altre escort scomparse dal 2008 e mai rinvenute. La suocera Anna Turina uccisa con coltelli da cucina e una forbice. Per squadra Mobile, pm, gip e Tribunale di Verona, furono forti indizi — inequivocabili indizi — e non delle semplici coincidenze. Coincidenze a oggi rimaste tali considerando la libertà decretata nel 2008 dalla Corte d’Assise dopo la condanna in primo grado e dopo tre anni di prigione. Ma coincidenze che da venerdì, quando Enrico Zenatti è tornato in prigione con l’accusa d’aver ucciso la suocera Anna Turina nella villa bifamiliare di Malavicina, frazione di Roverbella, nel Mantovano, non impediscono ragionamenti, riletture, e possibili nuove mosse investigative e giudiziarie. Conviene dunque ripercorrere, con gli atti analizzati dal Corriere, la storia pregressa di Zenatti il quale allora, incriminato per l’omicidio di due escort, si avvalse della facoltà di non rispondere, mentre in queste ore ripete d’essere «innocente».
Luciana Lino De Jesus
Luciana Lino De Jesus, brasiliana, 30 anni, era una prostituta, dapprima in Svizzera, poi a Verona. Si vendeva all’interno di un appartamento di cinquanta metri quadrati (ingresso, camera da letto sulla destra, bagno, e in fondo salotto e cucina). In Brasile aveva un figlio di 3 anni che nel marzo del 2004 avrebbe dovuto raggiungere: Luciana aveva comprato il biglietto aereo (sola andata), con partenza il 16 marzo. Come stabilito dal medico legale, morì tra le 14 e le 15 del 5 marzo. Giaceva sul letto matrimoniale, nuda, avvolta nel lenzuolo, strangolata con una sciarpa di seta priva di impronte avendo il killer usato i guanti e pulito con metodo il bilocale, eliminando capelli e peli. Killer che aveva come obiettivo il trasferimento altrove del cadavere, forse nelle vaste campagne al confine tra Lombardia e Veneto, per sotterrarlo.
Jolanda Holgun Garcia
Sottoterra, ma non si è mai scoperto dove, sarebbe stata posizionata, dopo l’uccisione, una seconda prostituta, Jolanda Holgun Garcia, 39 anni. Nata in Colombia, da mesi non rispondeva ai parenti. In una nota del consolato colombiano che sollecitato dai parenti chiese notizie alla questura di Verona, città dove anche Jolanda viveva, compariva — coincidenza — il nome di Zenatti, poiché lui stesso rispose al telefono, appartenente alla stessa Jolanda, e qualificandosi con nome e cognome conversò con un funzionario del consolato spiegando che la donna stava bene. Non il nome ma il numero di cellulare di Zenatti, 53enne dipendente della moglie Mara Savoia (titolare di un negozio di frutta), compariva nell’elenco di chi chiamava l’altra escort, Luciana. Telefonate giorno e notte; telefonate anche la mattina del 5 marzo. Coincidenze. E telefonate che cessarono dopo le 15 di quel giorno, con il cellulare della donna che continuava a suonare per la brama di uomini che avevano letto gli annunci sui giornali sportivi e volevano un appuntamento. Di nuovo quel mattino furono due gli uomini che pagarono Luciana per un rapporto, ma in un orario anticipato rispetto al decesso. Arrivarono e se ne andarono quando era viva. Anche Zenatti, come «confermato» da una cella telefonica agganciata dal telefonino, transitò nelle vicinanze: a cinquecento metri. In una successiva perquisizione sulla macchina di Zenatti, sotto la ruota di scorta gli agenti scovarono — coincidenza — pagine di giornali. Tutti i giornali sui quali si leggeva delle indagini su Luciana.
La suocera Anna Turina
Il pm era quello odierno, Fabrizio Celenza: l’altro giorno ha governato la scena del crimine al piano terra della villa, intorno al cadavere della signora Anna, assassinata sembra con attrezzi da cucina quali coltelli e una forbice, sì lavata e riposta ma non senza errori. Zenatti ha insistito sul legame sereno con la suocera, ma la moglie avrebbe rilasciato dichiarazioni diverse. Moglie che potrebbe divenire decisiva, aprendo scenari inediti fondati sulla figura di un serial killer: in passato Mara aveva lasciato il marito, stanca dell’ossessione per le escort (in prevalenza sudamericane). Una fonte in Procura dice che però alla lunga prevalsero «il buon nome, il pensiero per i figli, la cultura cattolica»: insomma, Zenatti rientrò a casa. Ma ora? Potrebbero esserci state prostitute scomparse, dal 2008 — l’anno della scarcerazione —, e mai rinvenute. I carabinieri del Comando provinciale del colonnello Antonino Minutoli hanno ampliato le ricerche fra database, circuiti diplomatici, informatori. Marco Odorisio, questore di Pordenone, guidava la Mobile di Verona. Era a capo della caccia: «Sono il primo a rispettare le sentenze: e in base a quella sentenza, Zenatti è innocente». Ai tempi, Odorisio disse che di Zenatti si sarebbe parlato ancora. I suoi investigatori esplorarono i terreni riconducibili all’indagato, alla ricerca di resti umani interrati, e di proprietà della famiglia della moglie. I campi raggiungevano i cento ettari. Impossibile, in assenza di dritte, conoscere il punto esatto dove scavare.
· Il Mistero di Roberto Straccia.
Da tgcom24.mediaset.it il 21 novembre 2021. Roberto Straccia, il 24enne marchigiano scomparso misteriosamente da Pescara il 14 dicembre 2011 e ritrovato cadavere sul litorale di Bari il 7 gennaio del 2012, "poteva essere salvato". Lo dimostrerebbe un'intercettazione telefonica tra due donne legate a un collaboratore di giustizia, arrivata solo ora in possesso della famiglia Straccia. Il contenuto riapre il caso e conferma la tesi sostenuta da anni dal papà di Roberto, cioè che il figlio, scambiato per un'altra persona, sia stato vittima di un omicidio di mafia. L'intercettazione era stata archiviata insieme all'inchiesta e la famiglia, che ne è venuta a conoscenza solo lo scorso luglio è riuscita a ottenerla, dopo aver sporto querela. "La verità viene fuori a puntate, come fosse un film. Un film che deve finire, - ha dichiarato Mario Straccia, il papà del giovane - A gennaio è prevista una nuova udienza a Campobasso, nella speranza di dare una risposta al dolore di una famiglia". La vicenda - Il ragazzo scomparve mentre faceva jogging sul lungomare di Pescara; il suo corpo fu trovato un mese dopo nei pressi di Massaro a Palese, nel Barese. Inizialmente si pensò a un suicidio o a un possibile incidente, ma la famiglia non si è mai data per vinta. Mancavano però gli elementi fondamentali. Qualche anno fa, durante un colloquio in carcere, esponenti di un clan mafioso confidarono che il giovane sarebbe stato vittima di uno scambio di persona. Assomigliava a un parente di un boss che viveva a Pescara. L'intercettazione - Eugenio Ferrazzo, membro di un clan calabrese, diventa collaboratore di giustizia dopo essere finito nella rete dell'Antimafia nell’ambito dell’operazione Isola Felice. Il 30 dicembre del 2011 la sua compagna lo incontra nel carcere di Lanciano (Chieti) e subito dopo viene intercettata mentre riferisce telefonicamente alla sorella di Ferrazzo dei timori che quest’ultimo nutre in merito all’incolumità del cognato e del resto della famiglia. Chi ascolta percepisce che c'è stato uno scambio di persona con Roberto Straccia, che potrebbe essere stato sequestrato prima di venire ucciso.
· Il Mistero di Carlotta Benusiglio.
Da corriere.it il 19 Novembre 2021. Dopo oltre cinque anni di indagini che si sono trascinate tra le tesi dell’omicidio e del suicidio, il pm di Milano Francesca Crupi ha chiesto una condanna a 30 anni per Marco Venturi, 45 anni, accusato di omicidio volontario per aver ucciso la fidanzata Carlotta Benusiglio, stilista di 37 anni che fu trovata impiccata con una sciarpa ad un albero nei giardini di piazza Napoli, a Milano, la notte del 31 maggio 2016. Venturi è imputato in abbreviato davanti al gup Raffaella Mascarino anche per stalking e lesioni ai danni della compagna, fatti avvenuti tra il 2014 e il 2016. In questa vicenda Marco Venturi è passato da «persona informata sui fatti», col fascicolo in via di archiviazione, a indagato per istigazione al suicidio, fino ad essere accusato di omicidio volontario: avrebbe ucciso simulando un suicidio. Una perizia in fase di indagini stabilì che si sarebbe trattato di suicidio. Per tre volte, da gip, Riesame e Cassazione, era stata bocciata la richiesta d’arresto, avanzata dal pm Gianfranco Gallo, per l’uomo. Il Riesame aveva evidenziato «qual era lo stato d’animo della Benusiglio» attraverso «i messaggi dalla stessa redatti» nei quali la donna manifestava una chiara «volontà suicidaria». Per il sostituto procuratore generale della Cassazione Elisabetta Ceniccola il ricorso presentato dalla Procura era affetto da «genericità». A marzo il pm Francesca Crupi, dopo aver ereditato il fascicolo dall’ex collega Gianfranco Gallo, aveva trasmesso l’istanza all’ufficio gip ritenendo necessario il vaglio di un giudice: si è arrivati così al processo in abbreviato. Nell’udienza preliminare davanti allo stesso giudice, a luglio, era stata dichiarata inammissibile la richiesta della Procura milanese di una nuova perizia medico legale, da svolgere con la formula dell’incidente probatorio. Crupi ha formulato la richiesta di penaal termine della requisitoria nel giudizio abbreviato davanti al gup Raffaella Mascarino. In aula madre e sorella della stilista, con i legali Gian Luigi Tizzoni e Pier Paolo Pieragostini. Il pm ha chiesto 30 anni per omicidio, lesioni e stalking senza attenuanti. Agli atti una consulenza sulle immagini di due telecamere di sorveglianza, prodotta dai legali della famiglia Benusiglio. L’orario della morte, poco prima delle 4 del mattino, è stato fissato nella consulenza grazie ad un frame di una telecamera in cui si vede la luce di un lampione oscurata dal corpo della giovane appeso all’albero. Nella prossima udienza, il 24 gennaio, parlerà la difesa di Marco Venturi. In caso di condanna, il processo con rito abbreviato prevede lo sconto di un terzo della pena.
Giuseppe Guastella per su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2021. Non cercano vendetta Giorgia e Giovanna Palazzi, sorella e madre di Carlotta Benusiglio, la stilista trovata impiccata nel 2016 nei giardini di piazza Napoli a Milano, per la cui morte la Procura vuole che l'ex fidanzato sia condannato a 30 anni per omicidio.
Cosa chiedete alla giustizia?
«Di ridare dignità a mia sorella. Non possiamo restituirle la vita, ma con una condanna potrebbe riavere la dignità che le è stata strappata da Marco Venturi, simulando il suicidio con cui hai voluto instillare negli altri il dubbio che lei non amasse la vita».
Venturi è innocente finché non ci sarà, se ci sarà, una condanna definitiva. Potrebbe volerci altro tempo.
«È la legge italiana. Siamo solo all'inizio. La cosa più triste è sentire mia madre che a 73 anni piange dicendo che probabilmente non potrà mai vedere la fine. Questo fa rabbia. Dallo Stato mi aspetterei una maggiore attenzione per le famiglie delle vittime».
Non vi sentite tutelate?
«Non è questo. La Procura ha fatto un lavoro meraviglioso del quale non smetterò mai di ringraziare, ma come ci si può sentire quando passano più di cinque anni prima che un processo cominci? Il problema è il meccanismo che è troppo lento».
Almeno il pm si è pronunciato e tra non molto il giudice emetterà la sentenza di primo grado.
«Questo è il primo punto reale che è stato messo. È stato qualcosa di estremamente positivo perché se il pm chiede 30 anni, significa che sa bene che l'imputato è colpevole, non ha nessun dubbio».
In questi anni, c'è stato un alternarsi tra la tesi dell'omicidio e del suicidio.
«I giudici si sono pronunciati, fino ad ora, solo sulla misura cautelare chiesta per Marco Venturi ben quattro anni dopo la morte di mia sorella. Hanno detto di non poter escludere l'omicidio, ma che non c'erano sufficienti elementi per arrestarlo».
Che persona era Carlotta?
«Una ragazza normale come tante. Aveva tanti sogni, era sensibile, determinata e con una sua fragilità».
Quale?
«Quando è morto nostro padre, noi tutte abbiamo perso un punto di rifermento fondamentale e siamo diventate più fragili. Quando qualche mese dopo ha incontrato Marco, Carlotta si è attaccata a lui con tutte le sue forze pensando di aver trovato la persona giusta. Quando si sta male, ci si sente insicura, è difficile lasciare una persona, a volte anche se è un uomo violento. Se riceveva uno schiaffo, cosa che prima non avrebbe mai tollerato, gli credeva se diceva che non l'avrebbe fatto più».
È accaduto spesso?
«È finita più volte in ospedale. Le dissi di farsi delle foto e nasconderle nella memoria del pc. Ne abbiamo ritrovate tantissime, assieme a screenshot di messaggi minatori che lui le aveva mandato e alle lettere in cui lei gli descrive esattamente quello che aveva subito. È addirittura arrivato a dire che Carlotta era autolesionista e tirava le testate contro i muri. Lo ha denunciato quattro volte prima di essere uccisa».
Ha detto che Carlotta aveva dei sogni. Quali?
«Era una stilista, collaborava con un grande marchio della moda, aveva fatto sfilate a Parigi e New York. Era determinata a raggiungere l'obiettivo di far conoscere la sua arte. E ci stava riuscendo».
Da ciò che sta dicendo, mai si sarebbe suicidata.
«Non solo secondo me. Penso che la cosa più importante sia ciò che ha dichiarato lo psicoterapeuta dal quale ci siamo fatte aiutare dopo la morte di nostro padre. Ha escluso categoricamente la possibilità di un suicidio perché Carlotta non lo avrebbe fatto mai. Era lucida, conosceva le difficoltà del rapporto con Marco Venturi. Aveva paura, ma amava la vita».
Cosa prova nei confronti dell'imputato Venturi?
«È riduttivo dire rabbia. A me fa tanta pena perché penso che sia un'anima persa».
· Il Mistero dell’Omicidio di Carlo Mazza.
"La mia latitanza dorata". Così la ballerina è sparita dopo l’omicidio. Angela Leucci il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. Katharina Miroslawa ha raccontato la sua "latitanza dorata": condannata per l'omicidio di Carlo Mazza, si invaghì di Antonio Di Pietro in carcere. “Le dico francamente, Katharina: io spero proprio che lei sia colpevole. Non solo per non perdere fiducia nella giustizia, ma perché si rabbrividisce al solo pensiero di come si possa sopportare una pena senza colpa”. Queste sono alcune delle parole con cui Franca Leosini ha accolto nello studio di “Che fine ha fatto Baby Jane?” Katharina Miroslawa, ex ballerina esotica oggi imprenditrice nel settore vinicolo, che fu accusata e condannata per essere la mandante dell’omicidio dell’imprenditore Carlo Mazza. Lei si è sempre professata innocente, ha sempre affermato di non aver voluto la morte di Mazza, l’uomo che amava e che aveva stipulato un’assicurazione di un miliardo che vedeva lei come beneficiaria: dice che, se fossero stati i soldi la sua mira, l’imprenditore le avrebbe potuto dare quello e anche molto di più. Ad autoincolparsi dell’omicidio, senza però che questo portasse a una revisione del suo processo, è stato l’ex marito Witold Kielbasinski. E uno dei grandi rimpianti della donna è non aver compreso cosa stava accadendo. “Mi osservava di nascosto, ma lo faceva anche in precedenza. Era geloso”, ha spiegato a “Che fine ha fatto Baby Jane?”. Il giorno in cui Mazza fu ucciso, Katharina si trovava ad Amburgo per stare con il figlio. Incontrò Witold e gli disse che stava per partire in vacanza con l’amante. Lui la spinse a chiamare Mazza, ma rispose la cugina, che le disse che l’uomo era morto per cause naturali - come in effetti fu stabilito all’inizio, prima che l’autopsia trovasse i colpi di pistola che l’avevano freddato. Ne fu sconvolta, e Witold rincarò: “Vorrei vedere, se fosse accaduto qualcosa a me, se avresti pianto così tanto”.
La latitanza
Katharina Miroslawa dovette affrontare diversi processi: inizialmente fu assolta per insufficienza di prove e alla fine condannata in qualità di mandante dell’omicidio. Ma lei non andò in carcere: dopo la sentenza si rifugiò prima a Vienna e poi a Praga. “Mi è stato ridato il passaporto e nessuno mi ha mai fermato - ha spiegato - Io non volevo andare in carcere, volevo fare la mia battaglia anche da fuori. Ho mantenuto sempre il contatto con il mio avvocato, abbiamo lavorato sulla revisione del processo. Ero una che doveva scappare dall’ingiustizia. Non tornavo in Italia, ero prudente. Certo, non c’era grande impegno, non ero la latitante più pericolosa d’Italia”.
Durante la sua latitanza, ha vissuto 8 anni senza lavorare, guardando 3 tv collegate a satelliti, aveva un’identità segreta, quella di “Margherita”, un’austriaca, per viaggiare, andava al ristorante e usciva con le amiche. È stata perfino al tavolo con alcuni membri dell’ambasciata italiana in Cecoslovacchia, e Giovanni Minoli l’ha intervistata con una troupe di 6 persone. È stata dai genitori a Vienna, ha viaggiato in Repubblica Ceca, Polonia, Tunisia, Grecia, Repubblica Dominicana. “Era una latitanza dorata sì, ma a costo di sperare di vivere un giorno tranquillamente e andare in giro a viso scoperto”, ha commentato.
A un certo punto cambia nuovamente identità e al confine con l’ex Jugoslavia, durante la guerra in Kosovo, viene fermata e fatta scendere dal treno, credendo che fosse una profuga. Ma non fu quest’episodio, in cui fu salutata dai veri profughi kossovari con “arriva la mannequin”, a tradirla.
Il carcere
Katharina Miroslawa fu infatti tradita da un divano, pagato con la carta e consegnato a domicilio. È stata in carcere fino al 2013 e ora è libera. Ha svolto in carcere molte attività, tra cui spettacoli, sartoria e studi teologici. E della sua esperienza ricorda anche una cottarella con il giudice Antonio Di Pietro. “Il giudice delle Mani Pulite, che metteva in carcere mezza Italia, voleva aiutarmi”, ha detto. Di Pietro subì per questo dal suo ordine un provvedimento di censura per comportamento deontologicamente scorretto. Non ha dubbi però quando le viene chiesto chi avrebbe voluto incontrare una volta fuori di prigione. Nella sua mente c’è solo un nome: “Carlo”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
· Il Mistero dell’uomo morto in una grotta dell’Etna.
Etna, in una grotta resti di un uomo morto da decenni: indossava una cravatta e una mantellina di nylon. Trovato dai militari del Soccorso alpino della guardia di finanza di Nicolosi. L’uomo, di circa 50 anni, sarebbe deceduto per cause naturali: forse si è spinto nell’anfratto e non è più riuscito ad uscirne. Chiara Marasca su Il Corriere della Sera il 10 novembre 2021. Sarebbe morto almeno 30 anni fa l’uomo i cui resti sono stati ritrovati da militari del Soccorso alpino della guardia di finanza di Nicolosi in una grotta alle pendici dell’Etna. A fiutare la presenza di un corpo è stato il cane da ricerca e soccorso Halma, un pastore tedesco della guardia di Finanza, che, nelle vicinanze della grotta, ha iniziato ad abbaiare e dare evidenti segni di interessamento. Il cadavere, in avanzato stato di decomposizione, si trovava in un anfratto lavico di difficile accesso, molto stretto e accidentato, nel territorio di Zafferana Etnea. Ora sono in corso delle indagini per la sua identificazione. È stato ricostruito che al momento del decesso l’uomo doveva avere intorno ai 50 anni, era alto circa un metro e settanta e aveva delle malformazioni congenite a naso e bocca. Secondo i rilievi eseguiti dalla Sezione investigazioni scientifiche del comando provinciale dei carabinieri di Catania la morte risalirebbe a un periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta. Forse l’uomo era entrato volontariamente nella grotta e non ne è più riuscito ad uscirne. Gli investigatori hanno diffuso il dettaglio degli abiti che indossava: lunghi pantaloni scuri, una camicia chiara a righe, un leggero maglione di lana, una cravatta nera, una mantellina di nylon verde scuro, un cappello di lana con pon-pon e degli scarponcini Pivetta n. 41. Rinvenuti anche delle monete di vecchie lire e un orologio Omega con cinturino e un piccolo pettine con custodia.
Numero per la segnalazione. Eventuali segnalazioni di persone scomparse che corrispondano alla descrizione possono farsi al numero di telefono 0955192125 del comando provinciale della Guardia di Finanza di Catania.
Il giallo dell'uomo morto sull'Etna, in una grotta con impermeabile e cravatta
di Natale Bruno
La scoperta è stata fatta dal soccorso alpino della guardia di finanza. Il decesso risale almeno agli anni Novanta. La Repubblica il 10 novembre 2021. In una grotta lavica sull'Etna sono stati trovati resti umani risalenti a una quarantina di anni fa. La scoperta è stata fatta dai militari del soccorso alpino della guardia di finanza di Catania. Le prime indagini scientifiche fanno ipotizzare che si tratti del cadavere di un uomo di almeno 50 anni di età, alto circa un metro e settanta, con delle malformazioni congenite al naso e alla bocca, il cui decesso potrebbe essere avvenuto tra gli anni Settanta e Novanta probabilmente tra l'autunno e l'inverno. Dall'immagine cristallizzata che si è presentata ai finanzieri, sembra che l'uomo si sia introdotto volontariamente nell'anfratto, altrimenti difficilmente accessibile, e che sia morto per cause non violente: indossava dei lunghi pantaloni scuri, una camicia chiara a righe, un leggero maglione di lana, una cravatta nera, un impermeabile a mantellina di nylon verde scuro, un cappello di lana con pon pon e degli scarponcini Pivetta numero 41. Rinvenute anche delle monete del vecchio conio. La scoperta è avvenuta in territorio di Zaffarana Etnea durante un'esercitazione. E' stato Halma, un cane pastore tedesco da ricerca e soccorso, ad abbaiare mostrando evidenti segni di interessamento in una grotta presente nella zona delle operazioni. I militari si sono così introdotti nell'anfratto segnalato che si presentava particolarmente stretto e accidentato, poi la scoperta del cadavere. Informata la procura, sono stati i carabinieri della sezione Investigazioni scientifiche del comando provinciale di Catania a compiere i rilievi curando il trasporto dei resti umani all'obitorio dell'ospedale Cannizzaro. Le fiamme gialle sono ora all'opera per dare un nome e un volto all'uomo che ha trovato la morte in fondo a quella grotta. L'uomo aveva al polso un orologio Omega con cinturino in tela e aveva nella tasca della giacca un pettine all'interno di una custodia. Eventuali segnalazioni di persone scomparse fra gli anni Settanta e Novanta che corrispondano alla descrizione possono essere inoltrate al numero 095 519 2125 del comando provinciale della guardia di finanza di Catania.
Cadavere sull'Etna, la figlia di De Mauro chiede verifica: scatta l'esame del Dna. Lo ha disposto la procura di Catania, il giornalista scomparve il 16 settembre 1970. La Repubblica l'11 Novembre 2021. La procura di Catania disporrà un esame comparativo del Dna sui resti umani trovati in una grotta dell'Etna per verificare se siano quelli di Mauro De Mauro, il giornalista de L'Ora scomparso, sotto casa a Palermo, 16 settembre 1970. Il provvedimento è stato disposto dopo che Franca De Mauro, una delle figlie del giornalista, ha contattato ieri la guardia di finanza di Catania che indaga per risalire all'identità dei resti dell'uomo trovato in una grotta alle pendici dell'Etna. La donna, leggendo sui media che i resti scoperti risalirebbero a un periodo compatibile con la scomparsa del padre e che il cadavere presenterebbe malformazioni a naso e bocca, ha voluto segnalare il suo caso agli inquirenti per dare loro un input investigativo. Franca De Mauro però non ha riconosciuto alcun oggetto trovato accanto al corpo, vestito in giacca e cravatta. Inoltre, nelle tasche dell'abito c'era un pettine e la donna ha escluso che il padre lo portasse con sé. La scomparsa del giornalista è un giallo mai risolto: tra le piste seguite negli anni dagli inquirenti c'è stata anche quella mafiosa. Il boss Totò Riina è stato processato e assolto dall'accusa di omicidio. Gli investigatori hanno a lungo scandagliato l'ipotesi che De Mauro, che collaborava alla realizzazione del film di Francesco Rosi sulla morte di Enrico Mattei, ne avesse scoperto movente e autori e che per questo fosse stato ucciso da Cosa nostra, esecutrice materiale di un delitto voluto da altri.
Mauro De Mauro, è suo il corpo ritrovato nella grotta sull’Etna? La procura apre un’inchiesta. Riccardo Lo Verso su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2021. Disposto l’esame del Dna per capire se il cadavere ritrovato durante un’esercitazione, sia quello del giornalista scomparso nel 1970. È stata la figlia Franca a chiedere le analisi. «Anche lui aveva quelle malformazioni al naso». Ma ci sono anche elementi non coincidenti. È stata la figlia di Mauro De Mauro, Franca, a chiedere alla Guardia di finanza di Catania di valutare se il corpo ritrovato all’interno di una grotta, lungo la strada che conduce sull’Etna, sia quello del padre. La Procura di Catania ha disposto l’esame del Dna, l’unico accertamento che può dare risposte definitive. Il giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo scomparve la sera del 16 settembre 1970. La figlia fu l’ultima persona a vederlo vivo. Era affacciata alla finestra della loro casa, in via delle Magnolie. Tre uomini si avvicinarono al giornalista. Lo fecero risalire sulla sua Bmw e si allontanarono in fretta. L’auto sarebbe stata ritrovata all’indomani in una strada del centro città.
Il ritrovamento
Ieri era stata resa nota la notizia del ritrovamento del corpo di un uomo all’interno di una grotta lavica, in territorio di Zafferana Etnea, nel corso di un’attività di addestramento dei finanzieri del Soccorso alpino di Nicolosi. Il decesso risalirebbe tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘90. A richiamare l’attenzione della figlia di De Mauro è stato il particolare che l’uomo presenta, come il padre, segni di una malformazione al naso e alla bocca. La donna non ha memoria che il padre possedesse uno degli indumenti trovati addosso all’uomo e neppure l’orologio di marca Omega che aveva al polso. Tenderebbe, invece, ad escludere che il giornalista avesse l’abitudine di portare con sé un pettine come quello rinvenuto nella grotta.
Dettagli non coincidenti
Ci sono, però, dei dettagli che allontanerebbero l’ipotesi che si tratti di De Mauro. Accanto al corpo è stata trovata una pagina del quotidiano La Sicilia del 1978 e alcune monete del 1977, date che non coincidono temporalmente con la scomparsa del giornalista avvenuta nel 1970. Una scomparsa che resta avvolta nel mistero. L’unico imputato per l’omicidio è stato Totò Riina, assolto con sentenza definitiva. Alcuni pentiti si erano contraddetti, ad altri la memoria su particolari importanti era tornata fuori tempo massimo. I giudici, nella sentenza che scagionò il capo dei capi corleonese, ipotizzarono che dietro la scomparsa di De Mauro ci fosse la morte di Enrico Mattei . «Si era spinto troppo oltre nella sua ricerca sulle ultime ore del presidente dell’Eni in Sicilia», scrisse la Corte d’assise.
Le indagini di De Mauro su Mattei
Il cronista, che stava partecipando alla stesura della sceneggiatura del film del regista Francesco Rosi, Il caso Mattei, sarebbe giunto a scoprire la verità non soltanto sul sabotaggio dell’aereo, ma anche sull’identità dei possibili mandanti e cioè Stefano Bontade, Giuseppe Di Gristina e don Tano Badalamenti, il boss di Cinisi che fece uccidere Peppino Impastato. Ancora una volta saltò fuori un collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo, oggi deceduto, che raccontò di avere origliato una discussione fra Bontade e Riina in cui dicevano che l’ordine di eliminare De Mauro fosse giunto da Roma. Di Carlo non ne aveva mai parlato prima nei tanti processi dove avrebbe potuto farlo. Perché? Perché non gli era mai stata posta la domanda, disse. Secondo i giudici, dietro quei ricordi improvvisi potevano esserci interessi personali che ne picconavano la credibilità. E così quello di De Mauro è ancora oggi un delitto senza colpevoli. I parenti, una volta appreso del giallo della grotta, si aggrappano alla speranza di potere piangere e pregare su una tomba. E non sono gli unici. In tanti hanno iniziato a telefonare ai finanzieri di Catania per avere informazioni. Di persone scomparse o vittime della lupara bianca sono purtroppo piene le cronache.
Sull'Etna un cadavere di 40 anni fa. La figlia di De Mauro: test del Dna. Redazione il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. Potrebbe essere il giornalista dell'"Ora" rapito nel '70. I resti umani di un uomo, risalenti a una quarantina di anni fa, sono stati scoperti sull'Etna dai militari del soccorso alpino della guardia di finanza, impegnati in una esercitazione di routine. Erano all'interno di una grotta lavica in territorio di Zafferana. Il ritrovamento ha messo in agitazione una decina di famiglie e tra le segnalazioni giunte alle fiamme gialle c'è anche da quella di Mauro De Mauro, il giornalista del quotidiano «L'Ora», rapito il 16 settembre 1970 mentre tornava a casa a Palermo, il cui corpo non venne mai ritrovato. Ora i familiari hanno chiesto e ottenuto dalla procura di Catania, un esame comparativo del Dna, per verificare se si tratti dei suoi resti. Le indagini fanno ipotizzare che fosse un uomo di almeno 50 anni di età, alto circa un metro e settanta, con delle malformazioni congenite al naso e alla bocca, il cui decesso potrebbe essere avvenuto tra gli anni 70 e 90, probabilmente tra l'autunno e l'inverno. Secondo una prima ricostruzione sembra verosimile che si sia introdotto volontariamente nell'anfratto, altrimenti difficilmente accessibile, e che sia morto per cause non violente. Indossava dei lunghi pantaloni scuri, una camicia chiara a righe, un leggero maglione di lana, una cravatta nera, una mantellina di nylon verde scuro, un cappello di lana con pon-pon e degli scarponcini Pivetta numero 41. Rinvenute anche delle monete metalliche, in particolare una da 100 lire che riporta l'anno 1977, mentre Mauro De Mauro è stato sequestrato nel 1970. È stato il pastore tedesco Halma, un cane da ricerca e soccorso, a mettere sulla giusta strada i militari che si sono subito concentrati nell'anfratto segnalato, stretto e accidentato. Lo stato di quel che rimane del corpo ha fatto capire subito che il decesso risale a molto tempo fa. Informata la procura, sono stati i carabinieri della sezione investigazioni scientifiche del comando provinciale di Catania a compiere i rilievi curando il trasporto delle spoglie presso l'obitorio dell'ospedale Cannizzaro. Le Fiamme gialle sono ora all'opera per dare un nome e un volto all'uomo, che aveva al polso un orologio Omega con cinturino in tela e nella tasca della giacca un pettine dentro una custodia. Eventuali segnalazioni di persone scomparse nel periodo indicato, possono essere inoltrate allo 0955192125.
Il giallo del cadavere di Zafferana. Chi era Mauro De Mauro, il giornalista che indagava sul caso Mattei sparito nel nulla: “Suoi i resti trovati nella grotta sull’Etna?” Vito Califano su Il Riformista l'11 Novembre 2021. È di Mauro De Mauro il corpo ritrovato in una grotta sull’Etna? Potrebbe essere la fine di un giallo che dura da oltre mezzo secolo e che fa parte del giallo più oscuro e clamoroso della storia d’Italia, ovvero il caso di Enrico Mattei? È tutto in divenire, tutto in evoluzione, non c’è niente di certo o provato: fatto sta che i resti rinvenuti in Sicilia, secondo un’ipotesi formulata durante la trasmissione Chi l’ha visto?, di Federica Sciarelli, su Rai3, riaprono in un certo senso il caso: potrebbero essere del giornalista scomparso 51 anni fa a Palermo. Un’“ipotesi che sarà approfondita”, ha dichiarato in diretta su Rai3 il tenente colonnello Massimiliano Pacetto. Le condizioni in cui sono stati ritrovati i resti in Sicilia: indossava pantaloni lunghi e scuri, una camicia chiara e a righe, un leggero maglione di lana, cravatta nera, una mantellina di nylon verde scuro, un cappello di lana con pon-pon e degli scarponcini Pivetta numero 41, un orologio marca Omega con cinturino in tela, un pettine con custodia e una manciata di monete metalliche in un borsellino: lire.
Il giallo di Mauro De Mauro
De Mauro era nato a Foggia, nel 1921, fratello maggiore del celebre linguista e ministro della Pubblica Istruzione tra il 2000 e il 2001, durante il secondo governo Amato, Tullio De Mauro. Da giovane era stato fascista, anche convintamente fascista: arruolato nel corpo militare repubblichino comandato da Junio Valerio Borghese, la X MAS, e aveva lavorato al giornale dell’Ufficio Stampa e Propaganda della Formazione Militare La Cambusa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu assolto dalle accuse di collaborazionismo e si trasferì con la famiglia a Palermo. De Mauro scrisse per Il Tempo di Sicilia e Il Mattino di Sicilia prima di arrivare al L’Ora, quotidiano della sera vicino al Partito Comunista oltre che molto orientato verso la produzione di inchieste. Scrisse anche parecchio di mafia. Si interessò in particolare alla morte tragica di Enrico Mattei, presidente dell’ENI, senza ombra di dubbi l’italiano più potente e importante al mondo all’epoca. Mattei aveva rilanciato l’Agip (Azienda Generale Italiana Petroli) invece di liquidarla; quindi aveva fondato dell’ENI, della quale era stato presidente dal 1953 al 1962; convinto perseguitore di un’autonomia energetica italiana; interlocutore noncurante della “cortina di ferro” e diretto di Libia, Marocco, Iran, Egitto e quindi oltre le “sette sorelle” del petrolio americane; contributore principale del quotidiano Il Giorno; sostenitore dell’indipendenza dell’Algeria dalla Francia; sottoscrittore di una trattativa perfino con l’Unione Sovietica nel 1960: petrolio in cambio di merci italiane. Mattei morì nell’esplosione in volo del 27 ottobre 1962 a Bascapè, in provincia di Pavia, dell’aereo che lo stava riportando da Catania a Milano. Le perizie del 2003 hanno dimostrato che sull’aereo esplose una bomba. Il regista Francesco Rosi incaricò proprio De Mauro di svolgere ulteriori indagini per il suo film Il caso Mattei che sarebbe uscito nel 1972. Il giornalista da qualche tempo era stato trasferito dalla redazione cronaca a quella sportiva. Strano. A un collega, Vincenzo Galluzzo, raccontò quindi di essere arrivato a importanti risultati con l’inchiesta senza però anticipare o approfondire nulla. “Ho in mano uno scoop che mi darà il premio Pulitzer”, aveva confidato anche alla figlia Franca. De Mauro scomparì nel nulla la sera del 16 settembre 1970: la stessa figlia Franca, che stava tornando a casa con il fidanzato Salvo, in viale delle Magnolie a Palermo, vide dall’altra parte della strada la BMW del padre; mentre lei entrava nel palazzo e chiamava l’ascensore arrivarono tre uomini che cominciarono a parlare e che si allontanarono con De Mauro proprio a bordo della BMW che sarebbe stata ritrovata nel centro di Palermo. Da quel momento più nulla. Un sequestro senza alcun ritorno. Nessun risultato dalle prime ricerche, tre processi senza esito. Le piste cui lavorarono i carabinieri: De Mauro aveva in mano uno scoop enorme sul caso Mattei; De Mauro aveva scoperto qualcosa del golpe Borghese che si sarebbe verificato nel dicembre del 1970; De Mauro era stato eliminato dalla Mafia siciliana per via delle sue inchieste come suggerì anche il pentito Tommaso Buscetta. Totò Riina è stato assolto dall’accusa di essere mandante del rapimento di De Mauro nel giugno del 2011, quando il capo della Mafia corleonese era già stato condannato a numerosi ergastoli. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il capo della Mobile Boris Giuliano ipotizzavano diverse piste: il primo un traffico di droga scoperto dal cronista, il secondo un intrigo tra mafia e politica sullo sfondo del caso Mattei. I pentiti si sono spesso contraddetti negli interrogatori: hanno raccontato di torture, interrogatori, strangolamenti e hanno indicato punti diversi dove il cadavere sarebbe stato sepolto. Niente, mai nessuna scoperta. Quando si è scavato non è mai stato trovato nulla. Cinquant’anni dopo il caso resta un giallo.
I resti ritrovati a Zafferana
I resti umani sono stati ritrovati precisamente nel comune di Zafferana Etnea, nella città metropolitana di Catania. In una grotta alle falde dell’Etna. Si trova al momento nell’obitorio dell’Ospedale Garibaldi per gli accertamenti. Le indagini delle Fiamme Gialle. Il corpo, secondo le prime indiscrezioni, sarebbe alto circa 170 centimetri, sesso maschile, intorno ai 50 anni, morto tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’90, con malformazioni congenite al naso e alla bocca. Il tenente colonnello Pacetto ha osservato a Catania Today come si stiano “accogliendo e vagliando diverse segnalazioni, compresa quella proveniente dal programma Rai. Ci sono dei riscontri che vanno ovviamente verificati” e che “la famiglia De Mauro ci ha contattati tramite il legale e si è messa a disposizione”.
Da precisare tuttavia che tra le monete ritrovate nella grotta, in un borsellino, anche una coniata nel 1977. Quindi diversi anni dopo la scomparsa del giornalista. Un particolare che potrebbe escludere la pista De Mauro. “Le monete sembrerebbero escludere che il corpo sia quello del giornalista. In ogni caso nulla può essere lasciato intentato e saranno effettuati gli esami del Dna per avere delle conferme”, ha osservato Pacetto. La Procura di Catania disporrà comunque un esame comparativo del Dna dei resti umani trovati nella grotta dell’Etna per verificare se siano quelli del cronista.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Lara Sirignano per "il Messaggero" il 12 novembre 2021. Fu rapito davanti casa sotto gli occhi della figlia. Era il 16 settembre 1970. Un sequestro che Cosa nostra avrebbe commesso per conto di altri: tante ipotesi, ancora nessuna risposta. Cinquantuno anni dopo, un cadavere vestito con giacca e cravatta, scoperto in una grotta sulle pendici dell'Etna, riporta alla luce il giallo sulla tragica sorte del giornalista de L'Ora, Mauro De Mauro, scomparso e mai più ritrovato. I resti, con accanto un giornale e delle monete, sono stati scoperti a settembre, ma la Procura di Catania ha evitato di diffondere la notizia sperando di riuscire a risalire all'identità dell'uomo. Poi la decisione di rendere pubblica la cosa e di lanciare un appello per riuscire a scoprire a chi appartenga il corpo. Letto della scoperta, la figlia di De Mauro, Franca, ha contattato la Finanza per sollecitare accertamenti. Ieri la Procura etnea ha disposto l'esame del Dna, anche se i primi elementi raccolti farebbero escludere che i resti della grotta appartengano al giornalista. Il quotidiano trovato, La Sicilia, è del 78, 8 anni dopo la scomparsa, le monete sarebbero state coniate nel 1977. A insospettire la donna è stata una malformazione del naso del cadavere: anche De Mauro l'aveva, ma la figlia non avrebbe riconosciuto i vestiti trovati addosso all'uomo e avrebbe smentito che il padre portasse, come il morto, un pettine in tasca.
LA SENTENZA Pare destinato a restare senza verità dunque il caso De Mauro, un mistero lungo 51 anni che finora ha portato a una sola verità giudiziaria. A decidere l'omicidio del giornalista, dicono i magistrati di Palermo, non fu Totò Riina, boss di Cosa nostra assolto definitivamente dalle accuse di sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Nella ponderosa sentenza scritta dalla corte d'assise che scagionò il padrino corleonese si ipotizzò che il giornalista fosse stato ucciso perché, lavorando col regista Francesco Rosi a un film sulla morte di Enrico Mattei, avesse scoperto inconfessabili segreti. «Si era spinto troppo oltre nella sua ricerca sulle ultime ore del presidente dell'Eni in Sicilia», scrive il collegio. Per la corte il cronista, dunque, sarebbe giunto a un passo dalla verità «non soltanto sul sabotaggio dell'aereo, ipotesi che, se provata, avrebbe avuto effetti devastanti per i precari equilibri politici generali in un Paese attanagliato da fermenti eversivi e un quadro politico asfittico, ma anche sull'identità dei mandanti.
IL COMPLOTTO Mattei che aveva da tempo rapporti strettissimi con l'Fln algerino e che di fatto aveva rotto il monopolio francese in Algeria nella ricerca e nello sfruttamento degli idrocarburi avrebbe dato fastidio alle Sette Sorelle, le grandi compagnie petrolifere inglesi, francesi e americane. Questo il movente di un complotto internazionale che avrebbe utilizzato la mafia per eliminare l'ex presidente. Un terribile segreto che De Mauro avrebbe scoperto. A fare il lavoro sarebbe stata Cosa nostra: ma non quella di Totò Riina, bensì quella di Stefano Bontade e don Tano Badalamenti che all'epoca avevano un potere e un controllo del territorio tali da poter organizzare un delitto eccellente senza la complicità dei corleonesi.
· Il Mistero dei ragazzi di Casteldaccia.
"Ecco la villa del mistero": svolta nelle indagini sulla scomparsa dei ragazzi di Casteldaccia. Salvo Palazzolo La Repubblica il 10 novembre 2021. Salvatore Colletta e Mariano Farina sparirono il 31 marzo 1992, la procura chiede di archiviare il caso, la famiglia Colletta chiede nuovi approfondimenti su una casa in contrada Gelso. Ventinove anni dopo, c'è una pista importante nelle indagini sulla scomparsa di Mariano Farina e Salvatore Colletta, i ragazzini di 12 e 15 anni spariti nel nulla il 31 marzo 1992, a Casteldaccia. Una pista che porta alla villa di un imprenditore vicino all'ex sindaco Vito Ciancimino, si trova sul lungomare, in contrada Gelso. Qualche mese fa, in gran segreto, i carabinieri ci sono arrivati con uno dei testimoni chiave di questa storia, è il fratello di Salvatore: Ciro, che oggi ha 42 anni, nel 1992 aveva subito parlato di una villa dove era stato il giorno prima della scomparsa, con Mariano e un altro amico. "Lì, abbiamo rubato qualcosa", raccontò. Dalla sua descrizione, gli investigatori erano arrivati a un'abitazione. Ma non era quella giusta. Ventinove anni dopo, ecco il colpo di scena nell'ambito delle ultime indagini condotte dai sostituti procuratori Francesca Mazzocco e Gaspare Spedale. Ciro Colletta è stato ascoltato nuovamente, ha offerto dettagli molto precisi sul giorno precedente alla scomparsa. E gli investigatori hanno deciso un sopralluogo sul lungomare di Casteldaccia. Lì dove Mariano e Salvatore sarebbero andati il giorno dopo, e questa volta avrebbero incontrato qualcuno. Un incontro fatale. "Le indagini devono proseguire - di ce l'avvocato Bonaventura Zizzo, che assiste i familiari di Salvatore Colletta - la pista deve essere approfondita". Ma, purtroppo, al momento, il tempo è scaduto: sono finiti i sei mesi che la gip Antonella Consiglio aveva assegnato per i nuovi approfondimenti, la procura è tornata a chiedere l'archiviazione del caso. I familiari di Colletta si oppongono, sollecitano ulteriori approfondimenti. Dice ancora l'avvocato Zizzo: "Altre persone potrebbero conoscere particolari importanti sulle ultime risultanze emerse". La mattina prima della scomparsa, i ragazzi avevano marinato la scuola per andare a mare. "Farina fece il bagno e poi entrò in una villa, per farsi la doccia - ha raccontato Ciro Colletta - non voleva che sua madre sentisse l'odore della salsedine". Ma in quella villa non c'era l'acqua. Mariano si spostò nell'abitazione accanto. "Lo sentimmo esclamare - prosegue il testimone - "Guarda che c'è qua, il ben di Dio"". C'era una grande gabbia, con un merlo indiano. C'era anche un coniglio. E poi ancora una gabbia vuota, una canna da pesca. I ragazzi si divisero la refurtiva. Il giorno dopo, Farina e Colletta sarebbero tornati in quella casa sulla strada statale 113. Cosa è accaduto? Da lì potrebbero ripartire le indagini. Oggi, quella villa è confiscata. Nell'inchiesta ha fatto capolino anche un custode-giardiniere della casa, ma non è ancora chiaro chi sia. Ecco perché la famiglia Colletta chiede nuove indagini. Questa storia resta ancora piena di misteri. Fino a qualche tempo fa, nessun pentito di mafia aveva mai saputo offrire spunti per le indagini. Di recente, un'indicazione seppur generica è arrivata da un ex boss della famiglia di Bagheria, è Giuseppe Carbone. Ha messo a verbale: "Una volta ne parlai con gli Scaduto (mafiosi autorevoli della zona - ndr), mi dissero: "Chissà che cosa hanno visto entrando in qualche villa. E magari li hanno sciolti nell'acido". Parole inquietanti. Cosa è accaduto per davvero? La sorella di Salvatore Colletta, Maria Grazia, è da anni impegnata nella ricerca della verità. I Farina, invece, sono andati via dalla Sicilia nel 1999, vivono ormai negli Stati Uniti, seguono a distanza il caso attraverso le avvocate Roberta Gentileschi e Laura Genovesi. "Non spegniamo i riflettori su questa vicenda", ribadiscono le famiglie.
I due ragazzi avevano 12 e 15 anni quando sono scomparsi. Salvatore e Mariano scomparsi nel nulla, una villa e un incontro misterioso riaccendono il caso di Casteldaccia. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Le famiglie non hanno mai smesso di cercare e di sperare da quando Mariano Farina e Salvatore Colletta, che all’epoca avevano 12 e 15 anni, scomparvero nel nulla a Casteldaccia. Era il 31 marzo 1992. Da quel terribile giorno sono passati 29 anni e di loro non si era trovata più nessuna traccia. Ma una nuova pista sembra sbucare: i due ragazzi entrarono in una villa sul lungomare in contrada Gelso. Ed è lì che potrebbero aver preso qualcosa e il giorno successivo aver fatto un incontro che per loro potrebbe essere stato fatale. Secondo quanto riportato da Repubblica, qualche mese fa i carabinieri sono entrati in quella villa insieme al testimone chiave della vicenda, Ciro Colletta, fratello di Salvatore. Ciro oggi ha 42 anni ma nel 1992 aveva parlato di una villa dove era stato il giorno prima della scomparsa con il fratello. Disse che lì avevano rubato qualcosa ma all’epoca gli investigatori sbagliarono villa. A 29 anni da quella scomparsa Ciro è stato ascoltato nuovamente e ha fornito dettagli molto più precisi sul giorno precedente alla scomparsa. L’ipotesi è che Mariano e Salvatore possano essere tornati lì il giorno dopo e che possano avere incontrato qualcuno. “Le indagini devono proseguire – di ce l’avvocato Bonaventura Zizzo, che assiste i familiari di Salvatore Colletta – la pista deve essere approfondita”. M al momento sono finiti i sei mesi che la gip Antonella Consiglio aveva assegnato per i nuovi approfondimenti, la procura è tornata a chiedere l’archiviazione del caso. I familiari di Colletta si oppongono, sollecitano ulteriori approfondimenti. Dice ancora l’avvocato Zizzo: “Altre persone potrebbero conoscere particolari importanti sulle ultime risultanze emerse”. Ciro non può dimenticare quegli ultimi momenti vissuti con il fratello e l’amico Mariano. Quel giorno avevano marinato la scuola d erano andati al mare. Poi erano entrati in una villa del lungomare. “Farina fece il bagno e poi entrò in una villa, per farsi la doccia – ha raccontato Ciro Colletta – non voleva che sua madre sentisse l’odore della salsedine”. Ma in quella villa non c’era l’acqua. Mariano si spostò nell’abitazione accanto. “Lo sentimmo esclamare – prosegue il testimone – Guarda che c’è qua, il ben di Dio”. C’era una grande gabbia, con un merlo indiano. C’era anche un coniglio. E poi ancora una gabbia vuota, una canna da pesca. I ragazzi si divisero la refurtiva. L’ipotesi è che il giorno dopo i due ragazzi possano essere tornati in quella villa. Dalle indagini sarebbe sbucato anche un giardiniere-custode ma non è ancora chiaro chi sia. E tutto resta ancora avvolto dal mistero. Negli anni gli investigatori hanno più volte chiesto ai pentiti di mafia se sapessero qualcosa dei due ragazzi. Nessuno aveva mai risposto affermativamente. Di recente un ex boss della famiglia di Bagheria, Giuseppe Carbone ha dato qualche vaga dichiarazione: “Una volta ne parlai con gli Scaduto, mi dissero: “Chissà che cosa hanno visto entrando in qualche villa. E magari li hanno sciolti nell’acido”.
Ed è probabilmente quello che temono le famiglie di Mariano e Salvatore. E non hanno mai smesso di cercare: “Non spegniamo i riflettori su questa vicenda”, ribadiscono le famiglie e chiedono che il caso non sia archiviato.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
· Il Giallo di Sebastiano Bianchi.
Sebastiano Bianchi, "non sopportavo più che gli altri...": parla il cestista, la drammatica ragione dietro alla sua scomparsa. Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. Sebastiano Bianchi, il cestista di 29 anni del Legnano Basket Knights scomparso e ritrovato, in un post pubblicato sul suo profilo Instagram si scusa con tutte le persone che hanno sofferto per lui e spiega il dramma che sta vivendo: "Da mesi ormai sono tornato a essere schiavo di pensieri negativi che credevo di aver lasciato alle spalle definitivamente". Ma purtroppo non è stato così. "In un momento di profonda crisi non ho trovato via d'uscita se non quella di sparire, in silenzio, senza disturbare", aggiunge. Parole drammatiche quelle della stories, un racconto con il cuore in mano per far capire quali erano le ragioni della sua fuga. "Non sopportavo più che altri intravedessero questo enorme disagio in me e ne fossero appesantiti o che subissero la mia sofferenza", confessa. "Ma non si può scappare da se stessi", conclude. Quindi ringrazia tutte le persone che sono state vicine a lui e alla sua famiglia con il loro affetto: "Ringrazio chiunque abbia dedicato un pensiero o un messaggio a me e soprattutto alla mia famiglia ho realizzato che ci sono tante persone disponibili ad aiutarmi e sostenermi, nonostante il modo eccessivo di essere e di vivere, ho lasciato qualcosa di buono in voi come voi in me. Vi assicuro che ho sentito questo bene e ne sono sinceramente grato".
Sebastiano Bianchi, il giallo del giocatore di basket scomparso: mistero sul telefono ‘resettato’. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Novembre 2021. È rientrato nel suo domicilio di Verbania domenica dopo la gara giocata con la Sangiorgese, è uscito senza dare comunicazione alla famiglia “e al momento non si hanno ancora notizie”. È con questa nota che il Legnano Basket Knights ha confermato la scomparsa di Sebastiano Bianchi, l’ala piccola del club lombardo che milita nel campionato di Serie B svanito nel nulla ormai due giorni fa. Un vero e proprio mistero quello di Bianchi: la sua auto è stata trovata regolarmente parcheggiata e aperta vicino a Villa Taranto, parcheggiata sul lungolago di Pallanza, poco distante dalla caserma dei carabinieri di Verbania, scrive il Corriere. Dentro l’auto c’erano i suoi effetti personali ma non il telefono, trovato a casa ma “resettato”, ovvero nessun alcun numero di telefono in rubrica o chat in memoria. Proprio la vicinanza della vettura al lago Maggiore ha fatto immediatamente scattare le ricerche dei sommozzatori, sospese per la notte ma andate avanti per tutta la giornata odierna senza portare a risultati. Nativo di Omegna ma residente a Verbania, il 29enne stava giocando una grande stagione col team del presidente Marco Tajana, con cui aveva già giocato in A2 prima di passare anche sul parquet di Tortona, Cento, Omegna, Sangiorgese e Urania Milano. Proprio Tajana al Corriere della Sera descrive il giovane cestita scomparso: “Sebastiano è single. Ha un carattere introverso, a tratti chiuso, anche se con i compagni è ben integrato e spesso esce in loro compagnia. Sul parquet era in gran forma e stava giocando benissimo”. Domenica sera con 14 punti Bianchi era stato il miglior realizzatore della squadra nonostante la sconfitta 72-67 nel derby con la sua ex squadra. A lanciare l’allarme sulla sua scomparsa era stato il padre. Smentita anche la notizia del ritrovamento di un cadavere nel lago Maggiore: le ricerche dei sommozzatori riprenderanno domani.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Sebastiano Bianchi, Chi l'ha visto decisivo: "Tornato a casa, disorientato e spaventato". Un giallo sconcertante. Libero Quotidiano l'11 novembre 2021. Sconcertante soluzione nel giallo di Sebastiano Bianchi, 29enne giocatore di pallacanestro della Legnano Basket Knights scomparso domenica sera a Verbania dopo aver trascorso una serata a casa dei genitori. Il giovane, secondo quanto riportato sul suo sito dalla stessa squadra di pallacanestro che per primo aveva dato sui social la notizia della sua sparizione, "è tornato a casa". Ancora ignota la causa della scomparsa: al momento si sa solo che Sebastiano "è rientrato nella notte, confuso da quello che è successo". "Nella nottata è arrivata la notizia più bella che speravamo di dare da ore - è l'annuncio del club lombardo su Facebook - Sebastiano Bianchi è tornato a casa. Psicologicamente disorientato e spaventato, è tornato a casa spontaneamente dopo aver sentito anche l'appello della squadra a Chi l'ha visto? di ieri sera. Siamo molto felici che si sia risolta al meglio, questa circostanza che ha scosso tutto il nostro ambiente e quello del basket in generale". "Ringraziamo tutti i tifosi e le persone che hanno manifestato solidarietà ed affetto per Sebastiano (a cui riporteremo tutti i messaggi) e per noi come società e squadra; oggi abbiamo ottenuto una delle vittorie più importanti di sempre". Sebastiano era stato descritto come "introverso" ma "ben integrato nella squadra", per cui era tesserato da pochi mesi. Domenica era stato il migliore in campo dei suoi nella sconfitta contro la Sangiorgese, segnando 14 punti. "Era anche più sorridente del solito", aveva rivelato il presidente del club, Marco Tajana.
Ma restano i misteri sulla scomparsa. Sebastiano Bianchi, svolta nel caso: il cestita trovato vivo, è tornato a casa nella notte. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Sebastiano Bianchi sta bene ed è tornato a casa. Si è risolta con un “happy ending” la scomparsa del 29enne di Verbania, giocatore di basket nel Legnano in serie B, rientrato ieri sera nell’abitazione dei suoi genitori. Bianchi era scomparso nel nulla nella notte tra lunedì e martedì, dopo la partita di campionato disputata dai suoi Legnano Basket Knights contro la Sangiorgese. La sua auto, una BMW, era stata trovata regolarmente parcheggiata e aperta vicino a Villa Taranto, parcheggiata sul lungolago di Pallanza, poco distante dalla caserma dei carabinieri di Verbania sul lago Maggiore. Dentro c’erano i suoi effetti personali e il telefono, quest’ultimo “resettato”, ovvero senza alcun numero di telefono in rubrica o chat in memoria. La vicinanza della vettura al lago avevano immediatamente spinto i carabinieri a disporre le ricerche nel lago da parte dei sommozzatori: l’ipotesi era che il 29enne si fosse suicidato. Dopo l’appello dei compagni di squadra a “Chi l’ha visto?”, Sebastiano si è presentato spontaneamente a casa dei genitori, sotto choc come i suoi familiari. I carabinieri in realtà già da alcune ore avevano iniziato a dubitare dell’ipotesi suicidio: ‘colpa’ di un’auto, ripresa da una telecamera di videosorveglianza in zona lago, che nella notte tra lunedì e martedì aveva affiancato per alcuni minuti quella di Sebastiano parcheggiata vicino a Villa Taranto. Il problema era la qualità dell’immagine della videocamera, che non ha consentito ai militari di identificare targa o persone. Anche per questo l’indagine resta aperta per tentare di ricostruire l’accaduto e capire perché la persona che probabilmente ha aiutato Bianchi a svanire nel nulla, o quantomeno l’ha visto per l’ultima volta prima della scomparsa, non si è presentata dalle forze dell’ordine una volta partita la macchina delle ricerche. Il fratello Mattia aveva scritto sui social della presenza della seconda auto, in un messaggio in cui traspariva tutto il pessimismo sulle possibilità di ritrovare ‘Seba’ vivo. “La cosa più probabile è che abbia deciso di togliersi la vita, magari buttandosi nel Lago Maggiore, senza pero’ lasciare alcuna traccia”, scriveva su Facebook Mattia, parlando anche della seconda vettura “di una persona che è arrivata con la sua macchina proprio dove Seba ha abbandonato la sua“. Questa mattina lo stesso fratello del cestista dei Legnano Basket Knights ha comunicato a sua volta il ritorno a casa di Sebastiano. “Adesso inizia una strada tutta in salita ma sappiamo che Seba è vivo e che ha e avrà tantissime persone attorno a lui che lo amano e tifano affinché possa, in qualche modo, andare avanti”, scrive su Facebook Mattia Bianchi. “Io, invece, non posso che ringraziarvi tutti di cuore per il vostro sincero affetto e, nonostante l’entusiasmo e il legittimo desiderio di sapere cosa sia accaduto, chiedervi di rispettare l’intimità della mia famiglia in un momento, comunque, assai complicato”, conclude il fratello del cestista.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Tiziana Paolocci per "il Giornale" il 12 novembre 2021. I sommozzatori dei vigili del fuoco di Verbania lo cercavano da giorni scandagliando i fondali del lago Maggiore. Ma Sebastiano Bianchi, ala dei Legnano Knights, è vivo. Il giocatore 29enne, che da lunedì ha tenuto con il fiato sospeso familiari e tifosi, è tornato a casa. «Ho sentito il bisogno di prendermi una pausa», ha detto. Non si sa perché si sia allontanato, ma è una storia a lieto fine, che si è conclusa mercoledì notte, quando in molti temevano che si fosse suicidato. Proprio poche ore prima fratello aveva scritto su Facebook: «La cosa più probabile è che abbia deciso di togliersi la vita». «Appena prima di compiere quel gesto, o comunque di dileguarsi nel nulla - aveva aggiunto - è stato con una persona che è arrivata con la macchina proprio dove Seba ha abbandonato la sua. Io non so se questa persona abbia materialmente aiutato mio fratello, non mi importa. Vorrei solo dirle di mettersi in contatto con me». Poi c'era stato l'appello dei compagni di squadra attraverso «Chi l'ha visto». «Siamo la tua famiglia - dicevano dal PalaKnights il tuo posto nello spogliatoio è lì e noi vogliamo solo che torni». Bianchi, una lunga carriera iniziata tra i professionisti nel 2013 con la Fulgor Omegna, aveva giocato in altre squadre del Verbano-Cusio-Ossola e poi era arrivato ai Legnano Knights. Domenica scorsa era stato il miglior marcatore con 14 punti nel derby contro la Sangiorgese. «Nella nottata è arrivata la notizia più bella che speravamo di dare da ore: Sebastiano Bianchi è tornato a casa - si legge nel sito della società -. Psicologicamente disorientato e spaventato, è tornato spontaneamente dopo aver sentito anche l'appello della squadra. Oggi abbiamo ottenuto una delle vittorie più importanti di sempre». La Bmw scura del giocatore era rimasta parcheggiata da lunedì con dentro chiavi e telefonino, tra Villa Taranto e il teatro Maggiore, e dal cellulare mancava parte di Whatsapp. Ha passato due giorni con una amica straniera e insieme avevano trasferito da un'auto all'altra anche i pesi e le corde prelevati dalla palestra domestica, per rendere più credibile l'ipotesi del suicidio. Ma il suo ritorno ha tranquillizzato tutti. «È vivo - ha aggiunto il fratello Mattia -. Ovviamente la gioia è immensa e offusca qualsiasi altro sentimento e preoccupazione per il futuro».
· Il Mistero dell’omicidio di Massimo Melis.
L’omicidio di Massimo Melis a Torino: il rivale, gli affitti e lo scambio di persona. Tutti i misteri. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2021. Una sola pallottola, alla tempia, sparata a bruciapelo. Come in un regolamento di conti, come se Melis fosse uno sgherro, un boss. Era invece un autista della Croce Verde, incensurato, salvava vite umane di giorno e talvolta anche di notte. «Nemici? Uno come lui non poteva averne», dice il collega delle ambulanze. «Persona degna, altruista, lo ammiravo», sospira Doriana del bar Doc dove di mattina andava per il caffè. «Aveva un cuore immenso», lo piange l’amica storica, Patrizia, che ora vuole trovare l’assassino. Parole buone un po’ da tutti e sembra non sia la solita retorica che circonda ogni morte soprattutto se violenta. Cosa c’è, dunque, dietro il delitto di quest’uomo di 52 anni in apparenza senza ombre? Riavvolgiamo il nastro a quel giorno: domenica 31 ottobre, la sera di Halloween. Siamo fra i palazzoni di Barriera, antico quartiere della Torino proletaria. Patrizia Cataldo, quarantenne torinese che qui gestisce con il padre il bar Gottardo, chiede a Melis se può accompagnarla a fare la spesa. I due in passato avevano avuto una relazione. «C’era stato un riavvicinamento e pare anche un ritorno di fiamma ma solo per lui», spiega l’investigatore. «Era un grande amico», si limita a dire Patrizia. Lui l’aiuta con le borse fino alla porta di casa, al secondo piano di un grande condominio che tocca il cielo giusto dietro al bar. È l’appartamentino dove lei abita da sola. «Ma in questo periodo si era trasferita a casa dei genitori perché la madre ha un problema di salute, mi ha chiesto una preghiera per lei», racconta padre Nicolas che la conosce bene perché frequenta la vicina parrocchia della Speranza. Massimo saluta dunque Patrizia e se ne va. Si avvia a riprendere la sua Punto blu per tornare a casa, qualche isolato più in là, dove convive con la madre. Sono circa le 20.30. La macchina si trova in un angolo buio del piazzale alberato sul quale affacciano le finestre di Patrizia. Melis apre la portiera, sale, si accende una sigaretta. E lì, prima ancora di mettere la cintura di sicurezza e infilare la chiave nel quadro, tutto precipita. Qualcuno apre la portiera, gli punta una calibro 38 alla testa e preme il grilletto da una decina di centimetri. Una sola volta e si dilegua nell’oscurità. È un’esecuzione. Melis si piega su un fianco e muore così, nella sua utilitaria parcheggiata fra questi platani che ricoprono il selciato di foglie cadute, accanto a un sottopasso dove talvolta qualcuno spaccia.
Il medico legale fissa un orario: «La morte è da far risalire più o meno alle ore 21 di domenica». Nessuno ha visto o sentito nulla. «E non ci sono telecamere che possano aver ripreso la scena», spiegano alla Mobile che sta indagando sul caso. Sul campo c’è il dirigente Luigi Mitola che passa per essere uno tosto, a palazzo di Giustizia la puntigliosa pm Chiara Canepa. Ma di fronte a una vittima che sembra suscitare solo buoni sentimenti l’indagine si complica anche per loro. Gli interrogativi sono naturalmente quelli: chi aveva interesse a uccidere Melis? Chi poteva covare un simile odio? Davvero non ci sono ruggini nel suo passato? O si è forse trattato di un terribile scambio di persona?
In assenza di elementi importanti, i sospetti cadono su un uomo di 62 anni che da qualche tempo corteggia Patrizia. Si tratta di un pregiudicato per reati commessi parecchi anni fa. Cose minori, non di sangue. Patrizia ne aveva parlato con Massimo. «Di certo non era ricambiato», ha spiegato agli investigatori. «Nessuno mi dava fastidio», ha aggiunto in un’intervista a La Stampa nella quale sembra smentire in sostanza l’ipotesi dello stalker. «C’è differenza fra stalking e corteggiamento», fa notare chi indaga, che comunque sottolinea come non emergano contatti fra il sessantaduenne e la vittima.
In ogni caso nel registro degli indagati al momento non c’è alcun nome. Il fascicolo è contro ignoti per omicidio volontario. «E vedremo più avanti se ci sarà l’aggravante della premeditazione», spiegano in procura. La modalità del delitto portano infatti in quella direzione. Qualcuno deve aver seguito Melis e atteso. «Ma attenzione perché è casuale che Patrizia sia tornata a casa sua quella sera, visto che in questo periodo vive dai genitori», puntualizzano gli inquirenti. Una tentata rapina finita in tragedia? «È da escludere: l’assassino non ha infatti preso nulla, né il portafoglio né il telefonino. E poi non ci sono segni di contatto, di colluttazione». Droga? Spacciatori? «No, nel modo più categorico».
La polizia scientifica sta analizzando i telefonini, tabulati, celle, e le telecamere della zona, anche se nessuna era puntata su quel punto nascosto. Si scava anche in altre direzioni, la vita privata di Melis, il lavoro, eventuali crediti. Aveva per esempio una casa data in affitto e pare che ci fossero problemi di riscossione. «Insignificante», aggiunge chi sta indagando.
Il giallo, dunque, c’è tutto. Chi ha sparato la sera di Halloween all’uomo senza ombre?
Massimiliano Peggio per "La Stampa" il 4 novembre 2021. Parla di falsità, di ricostruzioni fantasiose. «Nessuno mi dava fastidio» dice, riferendosi all’ipotesi di uno stalker assassino. A parlare è Patrizia Cataldo l’amica di Massimo Melis, il soccorritore professionale della Croce Verde di Torino trovato cadavere lunedì scorso nella zona Nord della città, sotto casa della donna. Ieri, l’autopsia ha stabilito che l’ambulanziere di 52 anni è stato ucciso con un proiettile calibro 38, sparato da un revolver. L’omicidio è avvenuto nella serata di domenica, ad Halloween. La vittima, dopo aver accompagnato a casa l’amica, è risalito in macchina, una Punto blu. Il killer, sbucato dall’oscurità, ha aperto la portiera e ha sparato un solo colpo quasi a bruciapelo, alla tempia sinistra. Sul caso sta indagando la Squadra Mobile, diretta da Luigi Mitola. «Adesso lui non c’è più e il mio unico obiettivo nella vita è trovare il colpevole» afferma arrabbiata Patrizia, sotto choc. Concede poche parole, dopo aver trascorso molte ore a spiegare agli investigatori che cosa è successo.
Massimo è stato ucciso in modo efferato, come in un regolamento di conti. Che idea si è fatta?
«No, non credo sia stato niente del genere. Lo conoscevo da tempo, aveva un cuore immenso, non aveva problemi con nessuno».
Che cosa rappresentava per lei Massimo?
«Un grande amico. Ho letto tante sciocchezze sui giornali in questi giorni. Sono state scritte molte cose non vere, sono tutte invenzioni».
Ad esempio?
«Sì, gli volevo bene, ma non eravamo fidanzati. Lo ripeto non eravamo fidanzati. Non c’era tra noi un legame sentimentale. Era un amico fidato. Lui c’era sempre per me. Quando avevo bisogno pensava a tutto, mi aiutava sempre, in ogni occasione».
Anche domenica scorsa l’ha aiutata, accompagnandola a fare spesa al supermercato.
«Di che cosa è successo domenica non me la sento di parlare, sono ancora troppo sconvolta. Non riesco a dormire, e non ce la faccio nemmeno a mangiare. Rivedo in continuazione davanti a me il suo viso senza vita. Non potrò mai dimenticare».
Tra le ipotesi investigative sarebbe emersa quella di un uomo, pregiudicato sulla sessantina, che l’avrebbe importunata. Corrisponde al vero?
«Non dico nulla, ma non è così. Nessuno mi dava fastidio, come è stato detto. E poi ho quarant’anni non avrei mai dato retta a un sessantenne. Di certo io e Massimo non convivevamo e al momento non ho nessuna relazione. Anche perché sto trascorrendo il mio tempo con la mamma che non sta bene. In questo periodo glielo posso assicurare ho altri pensieri».
Un ricordo di Massimo?
«Era tutto per me. Un amico insostituibile. E adesso non c’è più. Di lui mi sono rimasti solo i messaggi sul telefonino».
La polizia sta indagando in varie direzioni, scandagliando le vostre vite, amicizie e conoscenze. Che cosa immagina?
«Niente. Che voglio Giustizia e il colpevole deve pagare. Il mio desiderio ormai è di poter vedere davanti a me quell’assassino .Voglio Giustizia. Siamo tutti brave persone, senza problemi, e Massimo era un uomo buono. Non meritava una morte così».
L'amica di Melis indica la nuova pista: "Il killer di Massimo non è lo stalker". Il Giornale il 5 Novembre 2021. La donna smentisce i sospetti su un suo presunto "molestatore". Patrizia Cataldo, 40 anni, è una donna distrutta. Pochi minuti dopo che domenica scorsa il suo amico Massimo l'aveva accompagnata a casa dopo aver fatto la spesa insieme, la tragedia si è consumata a pochi metri dal portone d'ingresso del palazzo nella zona nord di Torino. Esattamente nel parcheggio dove l'uomo aveva parcheggiato l'auto. Uno sparo nel buio e Massimo Melis, 52 anni, una persona per bene e una vita apparentemente irreprensibile viene freddato con un colpo di pistola. Sembra l'esecuzione di un boss. Ma Massimo è un autista di ambulanza ben voluto da tutti e di cui amici e colleghi parlano solo in termini lusinghieri. E allora chi si cela dietro un'esecuzione così cruenta? Finora la pista privilegiata dagli inquirenti sembrava quella passionale legata a un presunto «stalker 62enne pregiudicato» che «non si rassegnava alla fine della relazione con Patrizia». Da qui la decisione di vendicarsi. Insomma, un delitto a sfondo passionale. Ma ieri Patrizia, in una sofferta intervista rilasciata a «La Stampa», ha ribaltato il tavolo dei sospetti: «Non esiste alcun stalker. Non ho mai avuto una relazione con un 60enne. Con Massimo c'era solo un rapporto di grande amicizia». Eccoli i tre punti-chiave che costringono ora gli investigatori a ricominciare tutto da capo. Di certo che la terribile fine di Massimo Melis, operatore della Croce Verde, è un omicidio che gli inquirenti definiscono «molto anomalo». Ucciso a sangue freddo con un solo colpo nella sua auto in via Gottardo nella notte tra domenica e lunedì. Melis è stato trovato senza vita nell'abitacolo della sua Fiat Punto blu verso le 14 di lunedì. La madre Rosaria, con la quale abitava, preoccupata dal fatto che non fosse rientrato a casa la notte precedente, aveva chiamato Patrizia, la donna con cui Melis era uscito la sera precedente. Quest'ultima è scesa in strada con la madre e ha trovato il corpo dell'amico riverso nell'abitacolo della sua auto. La dinamica dell'omicidio, ricostruita dalla Squadra Mobile della polizia, è chiara nella dinamica ma resta totalmente oscura nel movente. Se il fantomatico «stalker 60enne» che «molestava» la sua amica Patrizia non esiste, chi è il killer? Sta di fatto che Melis è stato ucciso da un colpo di pistola sparato alla tempia sinistra mentre era seduto al posto del guidatore. Il proiettile si è conficcato nella portiera destra dell'auto. Le chiavi erano inserite nel nottolino dell'avviamento ma l'operatore della Croce Verde non aveva ancora allacciato la cintura di sicurezza. La pista che - almeno fino a ieri - risultava la più accreditata dai poliziotti, era incentrata sull'ipotesi che Melis, la sera del delitto, stesse proteggendo l'amica da un uomo che, negli ultimi tempi, la infastidiva. Per questo i due avevano passato la domenica insieme: prima facendo la spesa al supermercato, poi cenando, quindi sotto casa di Patrizia, dove Melis avrebbe riaccompagnato l'amica intorno alle 21. Poi, una volta congedatosi dall'amica, per Massimo è arrivato quel proiettile mortale. Sparato da chi? E perché? Patrizia giura: «Non avrò pace finché non troverò l'assassino». Lo stesso obiettivo della polizia, che continua a visionare le immagini delle telecamere di sicurezza. La soluzione del giallo potrebbe essere lì: in un'ombra che si muove nel parcheggio.
Torino, omicidio di Massimo Melis: fermato il presunto assassino. L’uomo sarebbe stato incastrato dall’esame dei tabulati telefonici e dei filmati delle telecamere di videosorveglianza. È accusato di aver ucciso il 52enne nella sua auto nella notte di Halloween. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. È stato fermato nella tarda serata di venerdì 5 dicembre il presunto assassino di Massimo Melis, il 52enne operatore della Croce Verde ucciso in via Gottardo. Cinque giorni dopo l’omicidio, la Procura ha emesso un decreto di fermo nei confronti di un soggetto che era stato già individuato e monitorato dagli investigatori della squadra Mobile. L’uomo, sarebbe stato incastrato dall’esame dei tabulati telefonici e dei filmati delle telecamere di videosorveglianza. I sospetti degli inquirenti si erano subito indirizzati verso un uomo che si era invaghito di Patrizia e l’aveva infastidito, ma per il momento sull’identità del fermato c’è il massimo riserbo Massimo Melis era stato ucciso sotto casa della sua amica, Patrizia, pochi minuti dopo averla scortata sul pianerottolo. L’autopsia eseguita dal medico legale Roberto Testi ha collocato l’ora del delitto alle 21, un orario più che compatibile con le dichiarazioni rese dall’ex fidanzata con la quale la vittima era rimasta in ottimi rapporti. L’omicidio è avvenuto domenica sera in via Gottardo, alla periferia di Torino, dove abita Patrizia. Massimo era andato a prenderla sotto casa, l’aveva accompagnata a fare la spesa e, poco dopo le 20.30, aveva parcheggiato la sua Fiat Punto blu sull’altro lato della strada, vicino al sottopasso buio che porta al parco Sempione. Un posto ideale per nascondersi e aspettare l’arrivo di qualcuno. Melis ha attraversato il giardino, buio anche quello, ha scortato l’amica fino al pianerottolo e poi è ritornato nella sua aut. è stato sorpreso spalle con un revolver calibro 38, da qualcuno che ha spalancato la portiera e ha fatto fuoco. Il proiettile ha trapassato la tempia sinistra della vittima e ha seguito una traiettoria dall’alto verso il basso andandosi a conficcare sul montante opposto. Il cadavere di Massimo Melis è stato scoperto 17 ore dopo, riverso sui sedili. A ritrovarlo è stata proprio Patrizia, che lo aveva chiamato domenica sera e lunedì mattina senza mai avere risposte ed era scesa in strada a cercare la sua auto.
Il delitto nel quartiere Barriera a Torino. Massimo Melis, svolta nel giallo del soccorritore freddato in strada: un fermo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Novembre 2021. C’è un fermo per l’omicidio, a sangue freddo e in strada, nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre scorsa a Torino, di Massimo Melis. Ad anticipare la notizia è il quotidiano La Stampa. Una possibile svolta quindi nel caso del 52enne, operatore della Croce Verde ucciso come in un’esecuzione mafiosa mentre si trovava nella sua auto parcheggiata nel quartiere Barriera di Milano nel capoluogo piemontese. Il fermato è stato interrogato a lungo ma sono ancora pochi i dettagli che trapelano per il fermo. L’indiziato è stato “ammanettato nel tardo pomeriggio dagli investigatori della squadra Mobile di Torino – si legge sul sito del quotidiano torinese – Alle 23 negli uffici al primo piano di via Grattoni, davanti al pm che conduce le indagini – Chiara Canepa – il fermato ha raccontato la sua versione”. Il delitto in via Gottardo. Melis si era appena acceso una sigaretta: la cicca ritrovata nell’abitacolo. Aveva appena accompagnato un’amica a casa: Patrizia, con la quale aveva avuto una relazione. Nei giorni scorsi si era parlato di un possibile stalker, un uomo che aveva avuto una relazione anni fa con la donna e che recentemente l’aveva seguita. Patrizia stessa però ha smentito la pista dello stalking. Non è stata esclusa dagli inquirenti alcuna altra ipotesi nel caso, che comunque è parso come un giallo, un rompicapo essendo il 52enne lontano da ambienti complicati, incensurato, estraneo a dinamiche criminali. Chi è stato interrogato da giornali e altri media ha sempre parlato bene dell’uomo. Nessun lato oscuro. Eppure Melis è stato ucciso come un boss: freddato con un proiettile alla tempia. Era stata ventilata anche l’ipotesi dello scambio di persona. Dalle testimonianze raccolte dagli investigatori risulta che l’autista avesse avuto dei problemi con gli inquilini di un appartamento di sua proprietà.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Omicidio Massimo Melis Torino: «Luigi Oste voleva fuggire, ha cambiato utenze telefoniche». L’accusa e gli elementi che incastrerebbero il presunto assassino dopo il delitto. La replica della difesa: «Solo chiacchiere». Simona Lorenzetti e Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. Dopo l’omicidio di Massimo Melis i cellulari di Luigi Oste, il barista di 62 anni sospettato di essere il killer dell’operatore della Croce Verde, sono rimasti spenti a lungo. Lo conferma un’intercettazione nella quale due familiari si dicono preoccupati per non essersi riusciti a mettersi in contatto con lui. Inoltre Gino, come lo chiamano gli amici, avrebbe successivamente cambiato le sue utenze telefoniche. Sarebbe questo uno degli elementi alla base del «pericolo di fuga» che ha portato al fermo di Oste, eseguito venerdì dalla polizia. Durante l’udienza di convalida il pm Chiara Canepa ha chiesto la custodia cautelare, mentre l’avvocato Salvo Lo Greco, difensore dell’indagato, invoca la scarcerazione del suo assistito. «Contesto il pericolo di fuga per un soggetto che, nei 5 giorni successivi al delitto, ha svolto la sua abituale attività lavorativa e ha continuato ad abitare nella sua casa». Gli elementi che hanno portato gli agenti della Mobile, diretti dal dirigente Luigi Mitola, all’individuazione di Oste come il killer di via Gottardo sono molti, racchiusi in pochi isolati fra via Desana, via Gottardo e corso Vercelli, a Barriera di Milano. Tutto parte dall’infatuazione di Gino per Patrizia Cataldo, 40 anni, che lavora nel bar accanto al suo. I due abitano a un centinaio di metri di distanza e da qualche tempo Oste, vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, aveva manifestato il suo interesse per lei. La donna, forse per timore della reazione di un soggetto «conosciuto» nel quartiere, aveva cercato di non dare troppo peso alle sue attenzioni, ma il suo atteggiamento sarebbe stato frainteso. Gino ha cominciato a essere sempre più «assillante», fino ad assumere comportamenti che hanno messo a «disagio» la barista e l’avrebbero portata a esprimere un rifiuto più netto. Contemporaneamente Patrizia si è ravvicinata a Massimo Melis, l’ex fidanzato diventato amico, al quale avrebbe confidato i suoi timori. E la sua presenza, sempre più costante nella vita della donna avrebbe fatto scattare la gelosia di Oste. Lo confermano, secondo le accuse, anche i messaggi con i quali Gino la invita a «lasciar perdere quello lì». E anche un’altra conversazione, intercettata dopo l’omicidio, nella quale alcuni amici avrebbero avanzato espliciti sospetti su Gino. Che un filmato di una telecamera colloca nei pressi di via Gottardo in un orario compatibile con quello del delitto. Per l’avvocato Lo Greco il quadro accusatorio è comunque debole, fondato su «chiacchiere di quartiere», mentre la presenza del suo assistito vicino alla Punto dove Massimo è stato ucciso sarebbe facilmente spiegabile con il fatto che Oste vive e lavora in quella zona. Oste, inoltre, non avrebbe comprato biglietti di viaggio e il revolver calibro 38 non si trova. La decisione del giudice su richiesta di convalida e custodia cautelare arriverà oggi.
FEDERICA CRAVERO per la Repubblica il 7 novembre 2021. C'è un uomo in carcere per l'esecuzione di Massimo Melis, l'ambulanziere della Croce verde ucciso domenica sera con un colpo di pistola alla tempia e trovato cadavere nella sua auto solo lunedì pomeriggio dall'amica che aveva accompagnato a casa, nel popolare quartiere di Barriera di Milano. Sembrava un giallo inspiegabile. Dalla vita della vittima, descritta da tutti come specchiata, pareva difficile cavare un movente per un delitto. La svolta è arrivata l'altra sera quando, dopo cinque giorni di indagini senza sosta, gli investigatori della Squadra mobile di Torino hanno raccolto una quantità di elementi sufficienti per arrestare il primo sospettato e per confermare il movente passionale del delitto. «Lasciala stare, lei non ti vuole». Potrebbe essere stata questa la frase pronunciata da Massimo che ha fatto infuriare Luigi Oste, 62 anni e una serie di precedenti penali, da furti a spaccio di droga, lesioni e resistenza, fino a segnare la condanna a morte di Melis. Il fermo del sospettato è arrivato poche ore prima dei funerali di Melis, a cui hanno partecipato centinaia di colleghi nella divisa arancione. Difeso dall'avvocato Salvo Lo Greco, Oste non ha risposto alle domande degli investigatori e stamattina si presenterà davanti al gip per l'udienza di convalida. «Contro di lui non ci sono prove, solo indizi», mette in chiaro il legale del fermato. Pur senza una confessione, gli investigatori coordinati dalla pm Chiara Canepa, sono convinti che sia lui il killer. Titolare di una partita iva come impresario edile, ma di fatto barista, a pochi passi da dove vive e lavora Patrizia, la ragazza di cui si era invaghito, barista anche lei. E amica di lunga data della vittima, con cui era stata fidanzata anni fa. Oste, da tutti conosciuto come Gino, dopo un divorzio e la morte della nuova compagna un anno fa, si era forse illuso di poter avere una storia d'amore con la donna, di vent' anni più giovane. Nonostante i rifiuti, si era fatto più insistente. Più volte al giorno usciva dal suo bar e andava davanti alle vetrine di quello vicino per controllare se Patrizia fosse dietro al bancone o si spingeva pochi passi più in là fin sotto casa. «Negli ultimi mesi era cambiato - dicono nel quartiere - Prima lo vedevamo andare ogni giorno al cimitero a trovare la moglie, ora era agitato, strano. Ma non immaginavamo che potesse essersi invaghito di Patrizia e tanto meno che potesse essere lui l'assassino». Mai aggressivo, ma inquietante. Lei non aveva voluto denunciarlo per stalking, ma aveva chiesto a Massimo di starle vicino. «Mi sono fidanzata», si sarebbe inventata a un certo punto, pensando di allontanare Oste. Invece il barista deve aver pensato che quel fidanzato esistesse e che fosse Massimo Melis. Deve averli visti rientrare a casa di lei, lui con le borse della spesa. E ha voluto eliminare quell'uomo che riteneva un ostacolo alla realizzazione del suo progetto. Nei primi giorni di indagine sono stati sentiti numerosi testimoni e hanno dato una serie di informazioni che, messe in fila, hanno scritto la sceneggiatura degli ultimi giorni di vita di Massimo, di Gino e di Patrizia, la donna che è la chiave di tutto. Il resto lo hanno fornito i tabulati telefonici, le chat e le immagini delle telecamere di videosorveglianza, che non riprendono direttamente la scena del crimine ma i dintorni. I punti da chiarire, in ogni caso, sono ancora molti. A partire dall'arma del delitto, un revolver calibro 38, che non si trova. Per questo le indagini continuano per trasformare gli indizi in prove.
Irene Famà per “La Stampa” l'8 novembre 2021. «Non è che "Gino" c'entra qualcosa?». È il senso delle chiacchiere al telefono intercettate dalla polizia ascoltando le conversazioni tra amici e conoscenti di Luigi Oste, il barista sessantaduenne in cella con l'accusa di aver ucciso Massimo Melis. Frasi di questo genere hanno rafforzato i sospetti degli investigatori della Squadra Mobile, diretti da Luigi Mitola, che sin dal primo momento avevano imboccato la pista passionale ritenendola più solida di altre, ugualmente scandagliate. Ieri, l'udienza di convalida del fermo davanti alla gip Valentina Soria, che si è riservata la decisione. La pubblico ministero Chiara Canepa ha chiesto la misura cautelare in carcere presentando ulteriori indizi di colpevolezza. Oste si è avvalso della facoltà di non rispondere. E il suo difensore, l'avvocato Salvo Lo Greco, commenta: «Mancano gli elementi per convalidare il fermo». Di che elementi si parla? Dell'omicidio non c'è un'immagine dell'agguato, avvenuto domenica 31 ottobre nel parcheggio condominiale al fondo di via Gottardo, quasi a ridosso del sottopasso di via Toscanini. Ma c'è una sequenza che collocherebbe il presunto assassino nelle vicinanze del luogo del delitto. Secondo la difesa, quel frame non è indicativo: Oste abita in corso Vercelli, vicino al bar che gestisce, "L'angelo azzurro", aperto sino alle 24. Per gli inquirenti, invece, sarebbe un indizio che dimostrerebbe la sua presenza, in movimento, a pochi metri dal parcheggio dov' è stato ucciso Melis. C'è poi la questione orario: l'ambulanziere della Croce Verde, 52 anni, è stato ammazzato intorno alle 21, con un solo colpo di pistola alla tempia. Ed è proprio intorno alle 21 che Oste viene ripreso dalle telecamere. Il presunto assassino, proprio perché abita lì, non avrebbe avuto bisogno di fuggire con un'auto, ma sarebbe dovuto semplicemente tornare a casa a piedi. Come se fosse la solita passeggiata serale di cui raccontano diversi testimoni. Sempre secondo la difesa, il fermo sarebbe «immotivato»: Oste non avrebbe mai manifestato la volontà di allontanarsi dalla città. La Squadra Mobile invece ha accertato che negli ultimi giorni, il barista ha cambiato due utenze telefoniche. Perché? Temeva di essere intercettato? Non voleva lasciare tracce di sé? Il movente del delitto è la gelosia. Oste si sarebbe invaghito di Patrizia Cataldo, che lavora nel bar "Caffè Gottardo", a trenta metri dal suo, e che vive nel condominio davanti al luogo dell'omicidio. Melis, amico del cuore della donna, avrebbe suscitato l'odio del sessantaduenne. Sarebbe stato considerato un rivale, un ostacolo da eliminare. A sostegno di questa ricostruzione ci sono dei messaggi inviati da Oste a Patrizia. Messaggi che gli investigatori ritengono eloquenti del rancore, «ostili nei confronti sia di lei sia della vittima». Ancora ieri la Squadra Mobile ha cercato di recuperare l'arma del delitto, un Revolver calibro 38. Gli agenti hanno perquisito varie abitazioni e luoghi che Oste era solito frequentare. Ha chiesto aiuto a qualcuno? Ha lasciato la pistola in custodia a qualcuno? Questo è uno degli elementi al vaglio degli inquirenti.
Massimiliano Peggio per "La Stampa" il 10 novembre 2021. Più di 200 messaggi in due mesi. Scriveva al mattino, nelle pause del lavoro, in piena notte. Non accettava il rifiuto di Patrizia Cataldo, la barista di via Gottardo, di cui si era invaghito nel corso dell'estate. Il rancore di Luigi Oste, 62 anni, in cella con l'accusa di aver ucciso Massimo Melis la notte di Halloween, è cresciuto fino a sfociare in vendetta. «Io non faccio altro che pensare a te in ogni istante della mia giornata. Quando vedo che vai via con lui mi viene un dolore allo stomaco». Questo l'ultimo messaggio inviato dal presunto assassino alla donna, mandato alle 16,44 di domenica 31 ottobre. Da quel momento in poi si troncano i contatti. Sono i dettagli che emergono dall'indagine della Squadra Mobile racchiusi nell'ordinanza che ha portato in carcere Luigi Oste, gestore del bar «L'angelo Azzurro», in corso Vercelli 165, a pochi metri dal locale gestito dalla famiglia Cataldo, e residente nello stesso isolato. Il delitto è maturato in quel fazzoletto di marciapiede, ed è avvenuto nel giardino alle spalle del complesso condominiale al fondo di via Gottardo. Luigi Oste avrebbe deciso di uccidere spinto da «uno spirito punitivo nei confronti della donna». Così scrive il Gip Valentina Soria nel provvedimento di custodia, contro il quale ha presentato ricorso al tribunale del Riesame l'avvocato Salvo Lo Greco, legale dell'indagato. Sono più di una cinquantina gli ultimi messaggi telefonici esaminati dagli investigatori della Mobile, guidata dal dirigente Luigi Mitola, e dal vice questore Marco Poggi, responsabile della sezione omicidi. «Non mi do pace». «Tu mi rispondi sempre male». «Sono senza cuore», scriveva. Patrizia Cataldo, 40 anni, residente nel palazzo alle spalle del bar del padre, non li leggeva come una minaccia. Né considerava lui uno stalker. Non l'ha mai denunciato. Né temuto, anche se cercava di evitarlo, malgrado la vicinanza dei locali e le loro rispettive abitazioni. «Visto che non vuoi parlare con me, te lo scrivo. Non devi avere paura quando mi vedi». Il messaggio è poche di settimane fa. La presenza di Massimo Melis, 52 anni, l'amico del cuore, era per lei rassicurante. Non una protezione, ma una sorta di «deterrente», per scoraggiare quell'uomo a lasciarla stare. Secondo gli inquirenti, coordinati dal pm Chiara Canepa, è stata questa vicinanza a condannare a morte Melis, il soccorritore della Croce Verde. «Un uomo dalla bontà infinita» dicono gli amici. Agli occhi del barista è diventato un rivale da eliminare. E in modo feroce, in un'esecuzione: un colpo di pistola in faccia. «Nella reazione di Oste al rifiuto di Cataldo nel rapporto sentimentale tra i due - scrive il Gip - è evidente la sproporzione tra lo stimolo che ha cagionato il delitto e la massima gravità dello stesso, sin da potersi considerare che sia stato un mero pretesto per uno sfogo dell'impulso violento». Oste colpisce Massimo per colpire Patrizia. E lo fa domenica 31 dicembre, quando probabilmente li vede tornare a casa. I due trascorrono la giornata insieme, fanno spesa in un supermercato. Arrivano in via Gottardo in serata e salgono in casa. Alle 20,15 Oste, dai filmati delle telecamere raccolti dalla polizia, si vede passeggiare su e giù, fino alle 20,25. Sembra impaziente. Forse preleva l'arma all'interno del bar e raggiunge i vicini giardini pubblici al fondo di via Gottardo. Massimo e Patrizia lasciano la spesa in cucina e riscendono a portare il cane della donna a fare una passeggiata. Ma piove, e il cane non gradisce. Così tornano a casa. Massimo saluta l'amica e va verso la macchina, parcheggiata a lato dei giardini. Oste, osserva, aspetta e poi spara. Poi se ne va come nulla fosse. Il giorno dopo si scopre il cadavere.
Giacomo Nicola per "il Messaggero" l'11 novembre 2021. «Non faccio altro che pensare a te, ogni istante della mia giornata. Quando vedo che vai con lui mi viene un dolore allo stomaco». Sono le 16.44 di domenica 31 ottobre e Luigi Oste, 62 anni, manda l'ultimo messaggio a Patrizia, la donna che ossessiona da agosto e che non voleva avere una relazione con lui. Sarà l'ultima comunicazione che l'uomo, arrestato la notte di venerdì scorso, manda alla barista. Quattro ore dopo quel messaggio, Massimo Melis, 52 anni, viene ucciso in via Gottardo, a Torino. Il dipendente della Croce Verde era appena salito in auto, dopo avere riaccompagnato a casa Patrizia. Secondo la squadra mobile, Oste era lì, nascosto nel buio, ad osservare la scena di quell'ultimo saluto. E sarebbe stato lui a premere il grilletto di un revolver calibro 38 contro Melis, colpendolo alla tempia. Ci sarebbe anche un testimone chiave che lo inchioda. La vittima non ha fatto in tempo ad allacciarsi la cintura. L'arma non è stata trovata. E Oste continua a non parlare. Ora dopo ora, il quadro dell'accusa si arricchisce di nuovi elementi e l'indagine, condotta dalla pm Chiara Canepa, prosegue. Come descritto dalla gip Valentina Soria nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa per omicidio volontario premeditato e aggravato dai futili motivi, il movente del delitto sarebbe la vendetta. Oste, titolare di fatto del bar L'angelo azzurro di corso Vercelli, si sarebbe invaghito di Patrizia, barista di un locale distante 20 metri dal suo. Dopo «alcuni incontri, chiamarla relazione è eccessivo», ha spiegato la procuratrice Anna Maria Loreto, Oste non accetta il rifiuto della donna e diventa uno stalker. Sono oltre 200 i messaggi mandati a Patrizia, di giorno e di notte, dallo scorso agosto. «Tu non ti rendi conto del male che mi stai facendo e del dolore che mi dai, sto impazzendo», scriveva il presunto killer quattro giorni prima di sparare (secondo la tesi della pm) a Melis. Frasi che aveva già scritto decine di volte alla donna, che negli ultimi tempi si faceva accompagnare spesso da Melis a fare la spesa, e dal bar a casa. «Mi stai facendo impazzire. Sono senza cuore», «Non mi do pace», «Tu mi rispondi sempre male», alcuni degli sms con cui Oste la tempestava. C'è un messaggio significativo: «Visto che non vuoi parlare con me te lo scrivo: non devi avere paura quando mi vedi». Patrizia non aveva mai denunciato Oste. Ma forse, in qualche modo, lo temeva. «È normale se si vive nello stesso quartiere, vedersi sempre», aveva chiarito nei giorni scorsi l'avvocato Lo Greco, che ieri ha annunciato: «Ho presentato ricorso al tribunale del Riesame, è assolutamente necessario controllare tutti gli atti usati dal giudice per capire la misura». Nell'atto che ordina il carcere per Oste, la giudice avalla la tesi della vendetta trasversale: siccome Patrizia non voleva stare con il 62enne, lui avrebbe colpito Melis, che vedeva come rivale. L'omicidio è aggravato dai «motivi futili e abietti», scrive la gip, perché «è evidente la sproporzione tra lo stimolo e l'azione delittuosa verso un soggetto terzo». La gelosia è l'impulso che muove l'omicidio, «espressione dello spirito punitivo verso la vittima».
· Il Caso del duplice delitto dei fidanzati di Giarre.
Il duplice delitto dei fidanzati di Giarre, indagine sull'omofobia. Lucio Luca su La Repubblica il 4 novembre 2021. Il libro di Francesco Lepore sul mistero della morte di Giorgio e Tony, giovani gay uccisi in Sicilia, presentato a Palermo dal sindaco Orlando e dall'ex deputata Pci Angela Bottari. Mano nella mano, un colpo di pistola alla testa. Uno per ciascuno. Un’esecuzione, non ci voleva molto a capirlo, ma sono passati più di quarant’anni e su quel duplice delitto di Giarre, paesone dell’hinterland catanese, restano ancora molti dubbi. Troppi. Frutto di indagini fatte male, forse non per caso, perché all’epoca sembrava meglio così. L’oblio avrebbe cancellato tutto, la vergogna e l’imbarazzo di un paese che si sentiva “infangato” da quei due ziti, quei due fidanzati, maschi entrambi e, per di più, con uno minorenne. Il 31 ottobre del 1980 Giorgio Agatino Giammona, che aveva 25 anni, e il quindicenne Antonio Galatola, detto Toni, furono ritrovati abbracciati sotto un enorme pino marittimo nella Vigna del Principe a Giarre. Erano scomparsi due settimane giorni prima. Giorgio e Toni morirono di pregiudizio, quello che un’intera comunità nutriva contro di loro. Immediatamente dopo il ritrovamento dei corpi, nella cittadina del catanese si cominciò a vociferare di doppio suicidio, o di omicidio-suicidio. Giorgio, ‘u puppu cu bullu, il “frocio patentato”, aveva traviato quel giovane innocente e poi lo aveva ucciso. Soltanto dopo si sarebbe tolto la vita. Indagine perfetta, nei bar di Giarre non c’era bisogno di altro. Così era andata, e come sarebbe potuta andare diversamente una storia di puppi come quella di Giorgio e Tony? Ma su quel macabro fatto di sangue adesso il giornalista Francesco Lepore, beneventano di 45 anni, ha scritto un libro-ricostruzione svelando particolari inediti forse in grado di fare definitivamente luce su quello che successe realmente. Il suo Il delitto di Giarre 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia (Rizzoli, 192 pagine, 17 euro) sarà presentato oggi pomeriggio a Palermo nella Sala delle Lapidi del municipio dal sindaco Leoluca Orlando e da Ivan Scalfarotto (sottosegretario al Ministero dell’Interno), Barbara Masini (senatrice di Forza Italia) Angela Bottari (ex deputata del Pci), Paolo Patanè (ex presidente nazionale di Arcigay) e Giuseppe Di Salvo (fondatore "Fuori!" di Palermo). Le conclusioni saranno affidate a Jacob Urbanik (professore di Diritto Romano all'Università di Varsavia e attivista legale Lgbt). Il dibattito sarà moderato da Tiziana Martorana, giornalista della Rai Tgr Sicilia. La vicenda di Giorgio e Tony scosse fortemente l’opinione pubblica che fu portata per la prima volta a riconoscere l’esistenza dell’effettiva discriminazione verso le persone omosessuali. Come diretta conseguenza nacque proprio il "Fuori!" di Catania. E, il 9 dicembre 1980, a poco più di un mese dal ritrovamento dei corpi dei due ragazzi, fu costituito a Palermo su organizzazione di don Marco Bisceglia il primo nucleo di Arcigay, la più importante associazione LGBT+ italiana. Attraverso l'attenta ricostruzione del delitto Francesco Lepore racconta dunque quattro decenni di battaglie e rivendicazioni del movimento LGBT+ italiano. Già latinista papale presso la Segreteria di Stato e poi officiale della Biblioteca Apostolica Vaticana, Lepore ha lasciato il sacerdozio una quindicina di anni fa dopo aver reso nota la sua omosessualità. Attivista dei diritti Lgbt+ in Italia, su Linkiesta tiene una rubrica quotidiana in lingua latina che ha fatto parlare di sé anche sul New York Times. "A quattordici anni sono entrato in seminario e già sapevo di essere omosessuale – ha recentemente raccontato in un’intervista al Venerdì, lo vivevo come un qualcosa di peccaminoso, uno sbaglio della natura. Quando ho lasciato molte porte mi si sono chiuse, nella Chiesa e in parte anche in famiglia. All'inizio i miei non accettarono il doppio smacco, "spretato" e pure gay. Ma li comprendo e anche loro, poi, hanno capito". La storia di Giorgio e Tony ha segnato per sempre la sua vita, anche se all’epoca aveva solo cinque anni. “Dopo aver letto di loro ho cominciato a sentirli come fratelli. Mi chiedo: ma com'è possibile che i cadaveri siano stati rinvenuti in una zona battuta, a poche centinaia di metri dalla caserma dei carabinieri? E ancora: come conciliare la posizione dei corpi e la traiettoria dei proiettili con l'ipotesi del suicidio-omicidio? E come valutare la confessione del tredicenne Francesco Messina, nipote di Toni: disse che i due l'avevano supplicato di ucciderli, sarebbero arrivati persino a minacciarlo di morte se non li avesse aiutati. Già era incredibile una versione del genere, poi il ragazzino aveva ritrattato dicendo di aver subito pressioni dai carabinieri. Un altro mistero nel mistero”. Nella ricostruzione di Lepore, fondamentale è anche la testimonianza di Paolo Patanè, ex presidente nazionale di Arcigay e attuale coordinatore dei Comuni Unesco della Sicilia, i cui ricordi di adolescente gay nella Giarre di Giorgio e Toni restituiscono al meglio quel contesto di radicata omertà e omofobia.
· Il Mistero della Strage di Erba.
Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” l'11 dicembre 2021. A quindici anni dalla strage di Erba, uno dei peggiori fatti di cronaca dell'Italia nel nuovo millennio, la vicenda non si è conclusa. I parenti non possono ancora provare a metabolizzare il lutto, increduli che a distanza di oltre dieci anni dalla sentenza definitiva di Cassazione con l'ergastolo a Rosa Bazzi e Olindo Romano si rimanga sospesi in un limbo. Un anno fa i giudici con l'ermellino avevano respinto l'ennesima richiesta di riconsiderare una serie di reperti che per i difensori della coppia avrebbe fatto riaprire il caso. E questo pareva l'ultima risposta, pronunciata dalla più qualificata corte, a chi vede due innocenti in carcere. In realtà, da mesi i penalisti continuano a lavorare su un'istanza di revisione del processo che potrebbe essere presentata nella prossima primavera. Prima di sciogliere la riserva attendono le relazioni finali dei consulenti che hanno ingaggiato - un medico legale e uno psichiatra - e capire se da queste emergeranno elementi utili a riportare la strage di Erba in aula. L'altra mossa che i difensori starebbero valutando è quella di aggredire un altro gruppo di reperti, conservati in laboratorio a Pavia e al Ris dei carabinieri, chiedendo istanza di accesso per valutarli ed esaminarli. Il confronto si sposta quindi sulla consistenza degli elementi innovativi che gli avvocati riusciranno a sottoporre con buona pace di chi non riesce a cicatrizzare le ferite patite dall'atrocità di quella sera dell'11 dicembre 2006 quando in una delle palazzine di via Armando Diaz 25 a Erba vengono uccise quattro persone: Raffaella Castagna (30 anni), il figlio Youssef Marzouk di soli due anni, la nonna del bimbo, Paola Galli di 60 anni, e una loro vicina, Valeria Cherubini di 55 anni che vive in mansarda con il marito Mario Frigerio. Sopravvive solo quest' ultimo grazie a una malformazione congenita alla carotide che gli impedisce di dissanguarsi, e diverrà così il testimone principale dell'accusa. In fiamme finirà la casa del piccolo che si trova al primo piano del condominio, sopra Rosa e Olindo che a gennaio del 2007 ammetteranno di essere gli autori della strage. Rosa: «Il bambino perché lo ha ucciso?» E Rosa che risponde: «Perché urlava () perché piangeva e mi dava fastidiomi aumentava il mal di testa quando lo sentivo». Ma alla fine del primo processo in alcune dichiarazioni cambiano versione per sostenere la loro innocenza con Olindo: «Non ho fatto altro che dirgli le notizie tramite i giornali». Ammissioni per l'accusa dense di «particolari significativi riferibili solo da soggetti che abbiano effettivamente vissuto la scena del crimine». Quali? «Indicano l'auto che le vittime hanno usato quel giorno -di Carlo Castagna, non la panda solitamente usata da Paola Galli, la posizione finale delle vittime, i cuscini vicino al corpo di Raffaella e della madre, localizzano con esattezza i focolai d'incendio». Il cerchio dei sospettati si era subito stretto sugli inquilini dello stabile. Il portoncino della palazzina poteva essere aperto solo da chi aveva le chiavi, perché gli inquirenti scartarono ogni altra via di fuga visto che sul terrazzo di casa Castagna non erano state rilevate impronte. E poi la testimonianza di Frigerio («non me la dimenticherò mai quella faccia»), la traccia di sangue sul battitacco dell'auto dei coniugi con caratteristiche genetiche sovrapponibili perfettamente a quelle della Cherubini. Una traccia priva di degradazione del dna tanto da ritenere che sia stata impressa prima dell'arrivo dei vigili del fuoco che con l'acqua utilizzata per spegnere l'incendio avevano poi compromesso la scena del crimine. Le perizie medico-legali affermano che gli assassini hanno usato due coltelli e una spranga per infliggere complessivamente 76 colpi. La difesa invece ha sempre protestato ritenendo la confessione indotta con Rosa e Olindo che avrebbero visto le foto della strage e conosciuto i dettagli. Contaminata la traccia del battitacco, mentre il riconoscimento di Romano era inficiato da misteriosi «buchi» nelle intercettazioni di Frigerio, e l'assenza assoluta di tracce di Rosa e Olindo. Durante la sua requisitoria il pm Astori sceglie la più cruda delle ricostruzioni. Riferendosi a Olindo ricorda come in un video terrificante abbia detto: «No, è stato come ammazzare un coniglio, se l'è meritata» e poi riferendosi a Rosa: «E così il bambino espone il collo e la stessa mano che ha infilato il coltello nella mamma, nella nonna, arriva lì e lo infila senza pietà. E lo dissangua. Il bambino non avrà più nemmeno una goccia di sangue sul tavolo dell'obitorio per i prelievi. Ma sul palmo della mano due ferite, inequivocabilmente da difesa, eccole. Aveva anche lui tentato come la mamma in un ultimo gesto istintivo di afferrare la lama e ci era quasi riuscito.() Non scorderemo mai, noi che l'abbiamo vista alzarsi dalla sedia durante quell'interrogatorio, mimare il gesto del bambino, dell'accoltellamento. Mostrare come l'aveva raggiunto, dove l'aveva infilato. Quella sera uscendo dall'interrogatorio avevamo un unico rammarico, ce lo portiamo anche oggi: non averlo filmato. Non averlo ripreso. Quello sarebbe stato un documento eccezionale. Avete sentito come lo diceva, contemporaneamente mimava il gesto. Si è alzata dalla sedia e ce lo ha fatto vedere». Il 3 maggio 2011 arriva la condanna definitiva all'ergastolo.
Strage di Erba, è online il podcast di Felice Manti e Edoardo Montolli. Si parte con audio inediti di Rosa e Olindo. Le Iene News il 10 dicembre 2021. Con il giornalista investigativo Edoardo Montolli vi abbiamo parlato più volte della strage di Erba nei servizi di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Da oggi è in linea il primo episodio del podcast “Il grande abbaglio” che il giornalista investigativo ha realizzato con il collega Felice Manti. Insieme, nel 2008 hanno pubblicato un libro con lo stesso titolo. Sempre per raccontarci perché, secondo loro, Rosa Bazzi e Olindo Romano sono innocenti. Nel primo episodio: alcuni audio inediti della coppia, condannata all’ergastolo. “Guarda che prima di accusare qualcuno devi essere sicuro”. Sono passati pochi giorni dalla strage di Erba. Olindo Romano parla con la moglie Rosa Bazzi e difende Azouz Marzouk, indicato come colpevole da alcuni vicini. Olindo e Rosa verranno condannati poi all'ergastolo per quei quattro omicidi della moglie di Azouz, Raffaella Castagna, del figlio Youssef, della madre di lei Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini, l'11 dicembre 2006 a Erba. Potete sentire anche questo tra gli audio inediti che propone la prima puntata del podcast “Il grande abbaglio” di Felice Manti e Edoardo Montolli, in linea da oggi e che potete ascoltare qui. I due giornalisti investigativi hanno anche pubblicato nel 2008 con lo stesso titolo un libro appena uscito in edizione aggiornata. Sempre per raccontarci perché, secondo loro, Rosa Bazzi e Olindo Romano sono innocenti. Con Edoardo Montolli vi abbiamo parlato più volte della strage di Erba in molti servizi e in uno speciale con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: qui trovate l’ultimo nostro servizio del 29 ottobre scorso dopo l’assoluzione di Azouz, finito a processo per aver dichiarato a sua volta che la coppia è innocente. In questa prima puntata del podcast potete ascoltare, tra gli altri, anche audio esclusivi contro una della grandi tesi accusatorie: i coniugi, si sosteneva, non parlavano mai nelle intercettazioni della strage dei vicini perché sospettavano di essere ascoltati. Nel podcast “Il grande abbaglio” potete sentire come Rosa Bazzi e Olindo Romano parlavano eccome della terribile mattanza, si interrogavano su chi potesse essere l’assassino (difendendo per esempio Azouz) e speravano che il testimone Mario Frigerio si riprendesse per aiutare le indagini.
Da iene.mediaset.it il 2 novembre 2021. Azouz Marzouk, che nella strage di Erba ha perso moglie e figlio, è stato appena assolto nel processo partito dopo che aveva dichiarato che per lui gli ex vicini Rosa Bazzi e Olindo Romani (condannati in via definitiva per i 4 efferati delitti del 2006) sono innocenti. Ve ne parliamo con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornando su tutti i dubbi sulle tre prove principali emersi con la nostra inchiesta e con le nostre interviste in carcere ai coniugi.
Da "Oggi" il 13 ottobre 2021. A quasi 15 anni dalla strage di Erba, diventa più concreta la speranza di revisione del processo per Olindo Romano e Rosa Bazzi. L’ottimismo nasce dall’assoluzione di Azouz Marzouk, marito e padre di due delle quattro vittime, dall’accusa di aver calunniato Olindo Romano e Rosa Bazzi, dicendo che la loro confessione era falsa. La notizia è stata accolta con soddisfazione dall’avvocato Fabio Schembri, legale storico di Olindo e Rosa, che dice a OGGI, in edicola da domani: «Per anni le sentenze sulla strage hanno costituito una sorta di dogma, al quale risultava addirittura impossibile presentare critiche. Credo che le accuse ad Azouz siano nate da un pregiudizio. Adesso andiamo più sereni verso la richiesta di revisione del processo».
“Adesso cambia tutto”. Rosa e Olindo, succede a 15 anni dalla strage di Erba: “Lo ha detto Azouz Marzouk”. Caffeinamagazine.it il 14/10/2021. Sono passati quasi 15 anni dalla strage di Erba. Ricorderete quella vicenda tragica dell’11 dicembre 2006. Secondo i processi, il delitto fu compiuto dai coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, che uccisero a colpi di coltello e spranga Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, colpito con un fendente alla gola e creduto morto dagli assalitori, riuscì a salvarsi grazie ad una malformazione congenita alla carotide che gli impedì di morire dissanguato. La strage avvenne nell’abitazione di Raffaella Castagna, in una corte ristrutturata nel centro della cittadina. L’appartamento fu dato alle fiamme subito dopo l’esecuzione del delitto. Ora però, per i coniugi, diventa più concreta la speranza di revisione del processo. L’ottimismo nasce dall’assoluzione di Azouz Marzouk, marito e padre di due delle quattro vittime, dall’accusa di aver calunniato Olindo Romano e Rosa Bazzi, dicendo che la loro confessione era falsa. La notizia è stata accolta con soddisfazione dall’avvocato Fabio Schembri, legale storico di Olindo Romano e Rosa Bazzi, che dice a OGGI: “Per anni le sentenze sulla strage hanno costituito una sorta di dogma, al quale risultava addirittura impossibile presentare critiche. Credo che le accuse ad Azouz siano nate da un pregiudizio. Adesso andiamo più sereni verso la richiesta di revisione del processo”. Marzouk, ritenendo Olindo Romano e Rosa Bazzi innocenti, aveva avanzato una richiesta di raccogliere nuove prove per la revisione del processo sui quattro omicidi. L’uomo era arrivato ad affermare che i due coniugi si erano incolpati ingiustamente e per questo era stato accusato di averli calunniati incolpandoli del reato di autocalunnia per le loro confessioni, a suo dire false, sugli omicidi. “So chi ha ucciso mio figlio, Olindo Romano e Rosa Bazzi non c’entrano” aveva spiegato chiedendo alla Procura generale di Milano di raccogliere elementi ai fini della revisione della sentenza. Per Azouz Marzouk sarebbero troppe le incongruenze contenute nelle confessioni rispetto a quanto emerso in seguito.
"Passo per la verità". Strage di Erba, assolto Azouz Marzouk: non ci fu calunnia contro Rosa e Olindo. Redazione su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. Azouz Marzouk può legittimamente considerare Rosa Bazzi e Olindo Romano non colpevoli della strage di Erba. L’uomo, ex marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, due delle quattro vittime della strage, avvenuta l’11 dicembre 2006 nella città in provincia di Como, è stato assolto oggi dall’accusa di calunnia “perché il fatto non sussiste”. A sentenziarlo il giudice della settima penale del Tribunale di Milano: Marzouk, da tempo convinto che i coniugi ed ex vicini di casa non siano i responsabili dei quattro omicidi (Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini), era accusato di averli calunniati incolpandoli del reato di autocalunnia per le loro confessioni, a suo dire false, sulla strage. Marzouk era finito imputato proprio in relazione alla richiesta di raccogliere nuove prove per la revisione del processo presentata nel 2019 alla Procura generale di Milano, col caso chiuso invece in Cassazione con l’ergastolo nei confronti di Rosa e Olindo. Il pm Giancarla Serafini, scrive l’Ansa, aveva chiesto per Azouz Marzouk chiesto una condanna a 3 anni e mezzo di reclusione: secondo il magistrato infatti l’intera operazione era un modo “per attirare attenzione su di sé” e per proporsi “a trasmissione tv con interviste esclusive e anche per avere corrispettivi economici in cambio”. Dopo l’assoluzione Marzouk ha sottolineato di essere “contento” per la sentenza, definita “un passo ella lotta che stiamo facendo in questi anni per ottenere la verità”. Redazione
La strage di Erba e i tanti dubbi sulla colpevolezza di Olindo e Rosa. Tre gli elementi controversi: la testimonianza di Mario Frigerio, la traccia di sangue trovata nella loro auto e la confessione di Olindo e Rosa. Valentina Stella su Il Dubbio il 28 agosto 2021. Ogni estate è buona per dedicarsi ad un nuovo giallo o ripescarne uno dal passato. Tra questi ultimi c’è sicuramente la strage di Erba. Non è questo lo spazio per rifare un processo ma sicuramente quello per porsi delle domande, per sollevare dei dubbi. Una fredda sera dell’11 dicembre 2006, verso le 20:30, a Erba (provincia di Como) nella corte di via Diaz 25, vengono uccisi a colpi di coltello e di spranga Raffaella Castagna, il figlio Youssef, la nonna del bambino Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini, mentre scampa alla morte il marito di quest’ultima, il superteste Mario Frigerio, che rimane gravemente ferito. Alla strage seguì un fuoco appiccato nell’abitazione.
Il compagno di Raffaella Castagna, Azouz Marzouk, fu il primo sospettato. Il primo sospettato fu il compagno di Raffaella, Azouz Marzouk, ma aveva un solidissimo alibi: si trovava in Tunisia e così venne scagionato. L’attenzione si spostò poi sui coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, due vicini di casa di Raffaella Castagna che in passato avevano avuto contenziosi legali con la defunta. I due furono condannati in primo grado dalla Corte d’assise di Como e in secondo grado dalla Corte d’assise d’appello di Milano a due ergastoli, con conseguente isolamento diurno per tre anni, per i reati di pluriomicidio aggravato, incendio (art. 423 c.p.), violazione di domicilio e reato di porto d’arma fuori dall’abitazione, nonché per omicidio e tentato omicidio per i fatti che poi diverranno noti alla cronaca, appunto, come “strage di Erba”. La Corte di Cassazione il 3 maggio 2011 confermerà la doppia conforme di condanna per Olindo e Rosa. E il tentativo di nuove analisi sui reperti è stato respinto lo scorso dicembre. Persino Azouz Marzouk li ritiene estranei ai fatti, benché in un primo momento i due confessarono, per poi fare un passo indietro. Sulla loro colpevolezza ci sono molti dubbi, soprattutto relativamente a tre elementi, centrali per giungere alla loro colpevolezza: la testimonianza dell’unico testimone della tragedia, Mario Frigerio – colpito con un fendente alla gola e creduto morto dagli assalitori, ma che riuscì a salvarsi grazie ad una malformazione congenita alla carotide che gli impedì di morire dissanguato – e la traccia di sangue trovata nella loro auto, la confessione appunto.
La testimonianza di Mario Frigerio, l’unico superstite. Sul primo punto vi riproponiamo un estratto della consulenza effettuata nel 2010, su richiesta degli avvocati Nico D’Ascola, Luisa Bordeaux e Fabio Schembri, difensori dei coniugi Romano al professor Piergiorgio Strata, neuroscienziato di fama internazionale e accademico italiano. A lui, in qualità di studioso nel campo della memoria, fu chiesto un parere sulla testimonianza fornita da Frigerio: è affidabile il ricordo di una persona che ha fornito una prima versione dei fatti, versione che si è andata poi progressivamente modificando nel tempo durante gli ulteriori interrogatori avvenuti sia nei giorni immediatamente successivi sia a distanza durante il dibattimento? Per la Corte di Assise «a sostegno della presunta “assoluta attendibilità del teste” si dice che “le sue dichiarazioni hanno progredito nel tempo a più riprese senza mai mostrare incongruenze logiche interne e senza mai mostrare contraddizioni tra una versione e l’altra». Per il professor Strata non è così. Come leggiamo nella sua relazione «nel primo interrogatorio del 15 dicembre da parte del Pm Dott. Pizzotti, secondo la relazione del perito sull’esame tecnico ricavato dalle registrazioni originali dell’interrogatorio, il teste Frigerio risponde con precisione e lucidità alle varie domande e poi descrive il suo aggressore di carnagione scura (poi precisa olivastra) capelli corti, tanti capelli corti, grosso di stazza, capelli neri. Inoltre, su precisa domanda risponde di non aver mai visto prima quella persona. Fra l’altro tra il 15 ed il 20 dicembre 2006 il Sig. Frigerio dirà al figlio Andrea di poter riconoscere lo sconosciuto aggressore tramite identikit o fotografia segnaletica. Trattandosi di fatti raccontati a pochi giorni dagli eventi questa memoria va considerata la più genuina e affidabile». Il teste «non aveva il minimo dubbio che l’aggressore fosse persona a lui sconosciuta. Partendo dal presupposto che il teste non abbia mentito il contenuto di questa testimonianza va considerata come altamente affidabile».
Tra un interrogatorio e l’altro la testimonianza di Frigerio è contraddittoria. Tutto cambia con un altro interrogatorio reso al Luogotenete Gallorini. «All’inizio dell’interrogatorio l’interrogante chiede: “Lei conosce Olindo il suo vicino di casa? Che abita nella palazzina li vicino?”. Frigerio “Sì lo conosco di vista”. Interrogante “Cioè non… l’ha… cioè… lo sa come è fatto? Cioè … lo saprebbe riconoscere insomma?”. Interrogante “Voglio dire se avesse visto Olindo lo avrebbe riconosciuto”. Frigerio “Non posso essere”. Interrogante “… sto dicendo”. Frigerio “No…” Interrogante “Diciamo per assurdo però lo dobbiamo fare (inc.) Se Lei avesse avuto di fronte l’Olindo… avrebbe saputo che era Olindo…”. Frigerio “Penso di sì”. Interrogante “Pensa di sì, ma non è sicuro … Di questa figura nera di fronte, di cui lei ha parlato nelle precedenti occasioni”. Frigerio (inc.) Interrogante “non è in grado di escludere che sia alcuno che potrebbe essere uno conosciuto da lei e che non abbia riconosciuto?”. Frigerio (questo sì). Interrogante “Quindi Lei la persona l’ha guardata?”. Frigerio “Sì”. Interrogante “… però potrebbe non averla riconosciuta”. Frigerio “… caratteristiche”. Interrogante “Le caratteristiche ma non in modo preciso”». Per il professor Strata «questo pressante esercizio di immaginazione avvenuto nell’interrogatorio da parte del Luogotenente Gallorini sulla figura di Olindo ed il ripetuto tentativo di insinuare un dubbio costituisce la più potente arma per falsificare il ricordo. Il valore della testimonianza del Sig. Frigerio, il quale ha sicuramente sempre agito in buona fede, richiede di essere valutata con molta cautela. Dall’esame del materiale in mio possesso non risulta che il teste Frigerio abbia fatto dichiarazioni “senza mai mostrare contraddizioni fra una versione e l’altra”. La seconda versione deve ritenersi sicuramente influenzata dall’invito a meditare sulla possibilità che l’aggressore fosse il Sig. Olindo Romano. La seconda versione, quindi, non può avere un peso determinante agli effetti di un’eventuale condanna, mentre la prima versione va considerata altamente affidabile».
Dubbi sulla traccia di sangue nell’auto di Olindo. Venendo, invece, alla traccia di sangue presente nell’auto di Olindo e attribuita a Valeria Cherubini, una delle vittime, essa ha rappresentato uno dei pilastri della Pubblica accusa. Infatti, la Procura ha sostenuto (con successo) che quella traccia ematica è stata trasportata nell’auto dei Romano da Olindo, dopo aver calpestato il sangue delle vittime per le aggressioni mortali da lui stesso provocate. Per il biologo forense Eugenio D’Orio, incaricato di condurre le indagini biologiche e genetiche per conto di Azouz Marzouk, ovvero della parte offesa, «la “traccia di sangue” non esiste! Quella traccia biologica, che appartiene alla vittima Cherubini, è certamente non di provenienza ematica. Una cosa è dire che c’è sangue della vicina di casa barbaramente uccisa nell’auto di Olindo, altra cosa, diametralmente opposta, è dire che c’è Dna della tua vicina di casa nell’auto, ma che questa traccia è, con certezza, non-sangue. Il che esclude, a priori, che questa sia una “prova del delitto”».
Molti casi giudiziari confermano che anche gli innocenti confessano. In ultimo sulla confessione: anche gli innocenti confessano. Un esempio su tutti: Giuseppe Gulotta nel febbraio del 2012, all’esito di una sentenza di assoluzione, dopo trentasei anni di calvario giudiziario e ventidue anni di carcere, viene assolto per non aver commesso il fatto. Era accusato dell’omicidio di due carabinieri ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Fu picchiato e costretto a confessare. E ancora, come riportato nel libro “I grandi delitti dalla ’A’ alla ’Z”’ di Gennaro Francione ed Eugenio D’Orio, negli Usa «nel 25% dei casi in cui una persona è stata scagionata grazie all’esame del Dna, l’imputazione era avvenuta tramite una falsa confessione». Per quanto riguarda Olindo e Rosa, come disse uno dei legali, Nico D’ Ascola, «è vero che i Romano confessano la loro responsabilità, ma lo fanno sulla base di una ricostruzione dei fatti nella quale l’avvocato Schembri è stato capace di individuare ben 384 contraddizioni rispetto alla realtà dei fatti che risulta da prove oggettive e accertate». Per chi fosse interessato, segnaliamo una approfondita inchiesta de Le Iene, a cura di Antonino Monteleone.
· Il Mistero di Simona Floridia.
Dopo 30 anni rischia l’ergastolo per la scomparsa di Simona Floridia. Ma le prove? Simona Floridia scompare nel ’92. Il corpo mai ritrovato. Dopo 20 anni spunta una intercettazione e viene imputato Andrea Bellia. L’avvocata Castiglia: «Non ci potrà essere una sentenza oltre ogni ragionevole dubbio». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 ottobre 2021. Per un tragico evento tuttora pieno di punti oscuri avvenuto nel lontano 1992, Andrea Bellia, un uomo oggi 45enne, rischia di essere condannato all’ergastolo senza alcuna prova tangibile, ma solo tramite un unico indizio da ritrovarsi in una intercettazione tra due adolescenti appena 18enni, ripescata dopo più di 20 anni. A ciò si aggiunge la modalità dello svolgimento del processo presso la Corte d’Assise catanese. Leggendo le trascrizioni delle audizioni, si notano le dure schermaglie tra la difesa rappresentata dall’avvocata Pilar Castiglia e il Giudice. Si ha la percezione, molto probabilmente errata se il “giusto processo” ha ancora un senso, che quest’ultimo abbia già le idee chiare.
La vicenda risale al settembre 1992 nei pressi di Caltagirone
La vicenda, che ancora desta tanto dolore ai famigliari della vittima, risale al settembre del 1992 presso Caltagirone, un comune della provincia di Catania. Parliamo di Simona Floridia, classe 1975, scomparsa per sempre all’età di 17 anni. Il suo corpo non verrà mai più ritrovato. Sono state avviate delle indagini, vagliate alcune piste, ma il procedimento penale contro ignoti, rubricato come omicidio, è stato archiviato nel 2001. Le numerose persone assunte a sommarie informazioni all’epoca della scomparsa, descrivono Simona Floridia come una ragazza matura, solare e molto legata alla figura paterna.
Sarebbero tre le ipotesi emerse alla riapertura delle indagini
Dalla relazione criminologica redatta nel 2012, nel momento della riapertura delle indagini, emergono tre ipotesi nelle quali potrebbe aver assunto il ruolo di vittima. La prima ipotesi riguarda quegli ambiti nei quali per le relazioni “disfunzionali”, Simona può aver assunto il ruolo di persona “scomoda” e quindi da punire o addirittura eliminare. La relazione fa tre nomi di ex fidanzati. L’altra ipotesi riguarda il rapporto tra Simona Floridia e l’allora cartomante transessuale Adelaide, dedito a tarocchi e porzioni magiche.
Altro aspetto preso in considerazione dalla relazione è l’eventuale presenza sul territorio di Caltagirone di individui gravati da pregiudizi penali per delitti come violenza sessuale, molestie, maltrattamenti. Interessante che, in questo caso, la relazione fa il nome di Andrea Bellia, il quale fin dal 1992 subito ha volontariamente testimoniato che la sera stessa della scomparsa, ha dato un passaggio con il motorino alla ragazza. La relazione invita a risentire lui e le altre amiche di Simona per avere una ricostruzione più approfondita.
Ci potrebbe essere anche una setta dietro la scomparsa di Simona Floridia
Da precisare che la denuncia della sua scomparsa è stata fatta tre giorni dopo il mancato rientro a casa. C’è anche l’invito ad approfondire l’interesse che Simona Floridia avrebbe avuto nei confronti di una setta dedita all’occulto guidata dalla “maestra Giusy Vassallo”. Una setta che ebbe un collegamento con i “Fm Corim”, un altro gruppo religioso composto da presunti frati proveniente dal Sudamerica. Da una vecchia indagine mai approfondita, emerse una ipotesi terribile: all’epoca dei fatti vi sarebbero stati diversi suicidi da parte di persone, anche giovani, collegate a questo gruppo.
Diverse ipotesi che però hanno condotto in un vicolo cieco, oppure che non sono state approfondite con incisività. Non solo. Nell’istanza di riapertura delle indagini da parte dei famigliari di Simona si evidenza anche un altro particolare. Ufficialmente la scomparsa di Simona è avvenuta il 16 settembre del 1992, ma la stessa venne avvistata il giorno dopo da due ragazze nei pressi del Viale Mario Milazzo di Caltagirone e anche nella stazione ferroviaria da un funzionario della Polfer. Non è di poco conto.
Andrea Bellia da subito ha riferito di aver incontrato la ragazza
Secondo l’accusa, Bellia dopo un giro in Vespa avrebbe, al culmine di un litigio, gettato da un dirupo Simona. Invece lui stesso, come già testimoniò all’epoca della scomparsa, avrebbe, dopo un giro, riaccompagnato la ragazza in centro, vicino ad un bar e poi non l’avrebbe più rivista. Ribadiamolo. Andrea Bellia ha riferito fin da subito questa circostanza. Non lo ha mai tenuta nascosta.
Interessante notare che nell’istanza per chiedere la riapertura dell’indagine, non si fa menzione di Andrea Bellia, l’attuale ed unico imputato. In sostanza, in tutti questi anni, comprese le relazioni recenti e l’istanza di riapertura indagini, il nome di Bellia non esce mai fuori come persona sospetta.
Si riparte da una intercettazione del 1993
Il colpo di scena avviene con la riesumazione di una intercettazione che all’epoca fu già scartata. Si tratta di una telefonata tra un amico di Bellia, tale Mario Licciardi (è stato anche l’ex ragazzo di Simona) e la sua ragazza. Tutti 18enni.Risale al 1993, il passaggio incriminato è questo: «Poi mi fa (si riferisce a Bellia, ndr), mi stava uscendo il fatto che l’aveva ammazzata, vah, mi ha fatto capire che l’aveva ammazzata lui ed allora si è messo un sorrisino così: è inutile che cercano, fanno. L’ho guardato in faccia e gli ho detto: “Oh, bello mio! – gli ho detto – Ma che vuoi?”. E me ne andavo, nel senso che non parlavo con lui, mi giravo e me ne stavo andando a lavorare. Ascolta, ma cinque minuti non te li posso rubare? L’ho guardato in faccia e gli ho detto: “Dai, parla, veloce! Che mi devi dire? Tutto questo era?”. L’ho guardato in faccia e gli ho detto: “Sì, ma a me non mi devi raccontare una minchia! Non mi interessa niente! Non mi venire a cercare! Ciao!”, e me ne sono andato». Punto. Poi la telefonata prosegue parlando d’altro.
Mai una denuncia da parte di Licciardi su questa vicenda. Solo quando sarà ascoltato, 26 anni dopo, gli riaffioreranno dei ricordi che però Bellia stesso stigmatizza. Nessuna prova, solo questa telefonata e la testimonianza dell’amico. In compenso, le testimonianze delle amiche di Simona che avevano raccontato altre circostanze oscure, aggiungono altri particolari in corso d’opera. Sembra che tutto, all’improvviso, si adegui dopo che è stato sbattuto il mostro in prima pagina.
Andrea Bellia oggi è sposato e ha due figli piccoli
Bellia oggi è un uomo sposato che ha due figli piccoli. A causa dell’accusa di omicidio, a distanza di tantissimi anni, sta subendo anche ripercussioni lavorative. «È un processo nato da una intercettazione attenzionata dalla Procura dopo ben 20 anni dalla scomparsa di Simona Floridia. Già questo la dice lunga.
La verità è che celebrare un processo dopo 30 anni non potrà mai (e poi mai) portare ad una sentenza pronunciata oltre ogni ragionevole dubbio», spiega a Il Dubbio l’avvocata Pilar Castiglia, legale dell’imputato Andrea Bellia. «Ciò – prosegue -, a maggior ragione perché, a mio avviso, le prove ad oggi assunte nel corso del dibattimento sono ben lungi dal dimostrare la responsabilità del mio assistito, il quale, all’esito dell’esame dell’imputato, ha persino chiesto di essere sottoposto a confronto con il soggetto coinvolto nella intercettazione “ritrovata”». Infine l’avvocata Castiglia conclude: «Tuttavia, malgrado ciò, il mio assistito continua a confidare nel fatto che un giusto processo, celebrato nei giusti tempi e ispirato a serenità ed equilibrio, nell’ottica di pervenire all’accertamento della verità, non potrà che condurre alla sua assoluzione».
· Il Mistero della "Signora in rosso".
Il Dna, i rom e il mistero del killer: chi ha ucciso "la signora in rosso"? Rosa Scognamiglio il 26 Ottobre 2021 su Il Giornale. A trent'anni dal delitto, si cerca ancora il killer della "signora in rosso". La Procura di Torino riapre il caso e punta tutto sul Dna: c'è un nuovo indagato per l'omicidio. Un vestito di chiffon rosso e un copricapo in tinta appuntato con una spilla di pietre preziose. Fu così che nella tarda mattinata del 15 settembre del 1991 fu rinvenuta senza vita, sotto il viadotto della tangenziale in località Barauda a Moncalieri, Franca Demichela. Il killer non fu mai rintracciato nonostante il delitto della "signora in rosso" tenne banco sulle pagine della cronaca locale per mesi. Quattro persone furono attenzionate dagli inquirenti tra le quali tre rom di nazionalità slava e il marito della vittima Giorgio Capra. A distanza di 30 anni dall'accaduto il caso è stato riaperto: il procuratore aggiunto di Torino Enrica Gabetta e il sostituto Francesco Pelosi intendono dare un volto all'assassino della 48enne. Per farlo si affideranno al Dna confrontando il profilo genetico dei sospettati con le tracce biologiche lasciate dal killer sul vestito della donna. Ma non è l'unica novità. C'è un quinto indagato nel faldone della Procura di Torino. Si tratta di Stanko Stoianovic, 55 anni, uno slavo che al tempo era accampato nella baraccopoli di via Don Milani, nel capoluogo piemontese. "Il mio assistito non c'entra nulla col delitto", dichiara alla nostra redazione il legale del 55enne, Giorgio Bissacco.
Quel cadavere col "vestito rosso"
Tutto inizia una domenica di metà settembre. Un clochard scorge il cadavere di una donna sotto il viadotto della strada Barauda a Moncalieri. Incredulo per il macabro rinvenimento, l'uomo allerta la polizia di tutta fretta. Quando gli agenti raggiungono il luogo della segnalazione notano subito un dettaglio: la vittima indossa un abito rosso di chiffon con anche un foulard in tinta avvolto a mo' di turbante attorno al capo. Tra le dita delle mani sfavillano anelli di rubino e zaffiro, ai polsi e alle caviglie bracciali in oro massiccio. Poco distante dal corpo c'è anche una scarpa col tacco a spillo. Una soltanto. La vittima ha i capelli intrisi di fango e due solchi profondi sul collo semi coperti da un filo di perle: nessun elemento utile per il riconoscimento. Il mistero sull'identità della sconosciuta sembra senza soluzione quando, all'indomani della pubblicazione sui quotidiani locali della foto ritraente il vestito rosso, giunge la svolta. La commessa di una boutique riconosce l'abito di chiffon, ricorda di averlo visto indosso a una donna che era passata dall'atelier il giorno antecedente al delitto. Gli investigatori incrociano le poche informazioni di cui dispongono: si tratta di Franca Demichela. Dalla stampa dell'epoca sarà ribattezzata con l'appellativo de "la signora in rosso".
Chi è Franca Demichela
Una personalità vivace, di indole ribelle ed estroversa. È così che gli amici e i conoscenti di Franca Demichela la descrivono. Originaria del Cuneese, appartiene all'alta borghesia di Torino: il padre era un noto dirigente Fiat, morto due mesi prima del drammatico accaduto. Da circa 14 anni è sposata con Giorgio Capra, un contabile modesto e molto riservato. Invece Franca ama la vita notturna, i bar e le sale da the: "Sono la reincarnazione di Nefertiti", racconta di sé. Si accompagna spesso con gli stranieri: slavi, magrebini e tunisini che conosce occasionalmente per le vie del capoluogo piemontese. Frequenta i campi rom e ai nomadi dispensa vestiti, cibo e viveri di ogni genere in cambio di una seduta di chiromanzia. Donna eccentrica ed estrosa, ha una passione smodata per i gioielli. Al punto che - si mormorò all'epoca - tratta sottobanco per la compravendita di monili con gli slavi. Ed è forse in questo contesto che matura l'omicidio. Forse. Perché né il movente né la dinamica del delitto saranno mai chiariti. Così come l'identità del killer resta ancora oggi un enigma.
L'autopsia
L'unica notizia certa sul caso de "la signora in rosso" riguarda le modalità del decesso. Gli esami autoptici attestano che è morta per asfissia, tra l'una e le due di notte: l'assassino l'ha strangolata e poi gettata tra i rifiuti al di sotto del cavalcavia. Gli inquirenti sono certi però che il luogo in cui si è consumato il delitto non sia lo stesso in cui è stato rinvenuto il cadavere. Tra gli oggetti mancanti, oltre ai documenti personali e i portafogli, vi è anche una scarpa. Verosimilmente - ipotizzano gli investigatori - è stata uccisa altrove, poi il corpo senza vita è stato caricato in auto e trasportato fino alla Barauda. Al netto di tutte le ipotesi e congetture possibili resta però il mistero di un assassino che non ha lasciato tracce. Chi ha ucciso Franca?
Le indagini sul marito
Nel mirino degli inquirenti finisce Giorgio Capra, il marito della vittima. A gettare ombre sul 51enne è la testimonianza di una vicina di casa della coppia che vive in un appartamento al civico 6 di corso Bramante, a Torino. La donna racconta di aver assistito a un battibecco in strada tra i due coniugi la sera del 14 settembre. I toni della discussione sarebbero diventati accessi al rientro in casa fino a quando la voce di Franca si sarebbe affievolita lentamente a seguito di un rumore sordo, forse "uno sbatter di porta". Una versione che però contrasta con quanto afferma Capra. L'uomo sostiene di aver trascorso la notte a casa della madre, a Val della Torre, dalla quale si era trasferito già da qualche tempo. Ha un alibi di ferro, confermato all'anziana donna. Dopo essere stato trattenuto in carcere per 18 giorni, il 51enne viene prosciolto. "Non l'ho uccisa io", ribadirà con tono fermo a trent'anni dai fatti.
I sospetti sui tre rom
C'è anche una pista slava nell'omicidio della signora in rosso e coinvolge tre nomadi dell'accampamento di via Don Milani. Un testimone racconta alla polizia di aver incrociato Franca, alle ore 17 del 14 settembre, in una pellicceria del centro con "un ragazzo alto, snello, carnagione olivastra, capelli lunghi, ondulati pettinati all'indietro con degli stivaletti, di età sui 20-25 anni". Un altro di averla vista in compagnia di alcuni giovani – verosimilmente di etnia rom – al caffè Caval 'd Brons di Piazza San Carlo attorno alle ore 22. "Era con alcuni ragazzi – racconta il teste – erano zingari anche se vestiti bene". Il gruppetto con anche la 48enne si sarebbe poi allontanato dal centro cittadino a bordo di una Golf verso le ore 22.30. Le indagini conducono gli inquirenti sulle tracce di tre ragazzi di nazionalità slava, tra i 16 e i 25 anni: Nikola Stoianovic, Radenko Nicolic e Nenand Jovanovic. "Si è vero - ammetterà un anno dopo il più giovane del gruppo – siamo stati con lei fino alle 22.30 ma poi Franca se ne è andata e non sappiamo dove". Dopo una serie di accertamenti investigativi gli inquirenti ritengono che non ci siano i presupposti per proseguire le indagini. Il quadro indiziario è debole e i tre vengono tutti prosciolti dalle accuse. L'assassino di Franca sembra destinato a non avere né un volto né un nome.
Il quinto indagato a 30 anni dal delitto
A trent'anni dal delitto, lo scorso 22 ottobre la Procura di Torino annuncia la riapertura del caso. Ma c'è di più, una svolta a dir poco clamorosa: c'è il nome di un'altra persona nel registro degli indagati oltre ai tre rom e al marito della vittima. Si tratta di Stanko Stoianovic, un 55enne slavo, che secondo gli inquirenti potrebbe essere coinvolto nella vicenda. Intervistato da Massimiliano Peggio, cronista de La Stampa, l'uomo rimbalza ogni accusa nei suoi confronti. "Ho visto Franca una volta in centro a Torino e un'altra a un matrimonio. - dice - Ho rubato, sì. Ho fatto tanti furti in vita mia ed ho pagato il conto con la giustizia. Da anni non rubo più. Ora sai cosa faccio? Bidoni, sono un truffatore. Ma non ammazzo, non sono un assassino e non uccido le donne".
Noi de ilGiornale.it abbiamo contatto il suo legale, l'avvocato Giorgio Bissacco, per chiedere delucidazioni sulla convocazione. "Il mio assistito non c'entra nulla con questa vicenda", chiarisce Bissacco alla nostra redazione. Ma allora perché è stato iscritto nel registro degli indagati? "Questo non è chiaro. Evidentemente qualcuno dei nomadi ha fatto il suo nome. Ma lui, la signora Franca Demichela l'avrà vista un paio di volte. E non ammazzerebbe mai nessuno". L'ultima parola spetta al Dna. Nei prossimi giorni saranno confrontati i profili dei 5 indagati con le tracce biologiche rinvenute sull'abito della 48enne. A trent'anni dal delitto, si tenta il match genetico per dare un nome e un volto al killer della "signora col vestito rosso". Forse.
Rosa Scognamiglio
Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera. Rosa Scognamiglio
· Il Mistero di Polina Kochelenko.
Rosa Scognamiglio per ilgiornale.it il 2 ottobre 2021. Un paio di auricolari lasciati sul ciglio di una roggia, un cellulare e un mazzo di chiavi. Sono le uniche tracce lasciate da Polina Kochelenko, trentacinquenne di origini russe, prima che fosse rinvenuta cadavere in un canale nella campagna della Lomellina. Secondo la procura di Pavia la ragazza sarebbe morta per annegamento dopo essersi tuffata in acqua nel tentativo di salvare i suoi cani dalla corrente. Ma c'è qualcosa che non torna nella presunta accidentalità degli eventi. Due dei quattrozampe con cui Polina era andata a spasso quel tragico pomeriggio di aprile non sono mai stati ritrovati. "Dove sono finiti?", domanda Alla Vladimirovna Kochelenko, che non riesce da darsi pace per la morte della figlia.
La morte di Polina. Una laurea in legge, un master in criminologia e una passione smodata per i cani, al punto da lasciare Torino per Valeggio affinché le sue adorate bestiole - due Border Collie - fossero libere di scorrazzare per le campagne incontaminate delle Lomellina. Una vita semplice quella di Polina, fatta di lunghe passeggiate all'aria aperta e un lavoro da addestratore cinofilo. La mattina del 15 aprile scorso, la 35enne ha portato a spasso i suoi cani e alcuni cuccioli di Pastore Tedesco che le aveva affidato il centro cinofilo di San Genesio. Ha percorso un circuito di circa 5 chilometri tra le risaie della zona fermandosi in prossimità di una roggia: da lì non è più tornata indietro. Polina è stata rinvenuta cadavere in un canale di irrigazione due giorni dopo la denuncia di scomparsa da parte dei familiari.
La misteriosa scomparsa dei cani. Gli accertamenti hanno evidenziato "ferite da urto" compatibili con l'impatto del corpo (già privo di vita) contro le pareti della roggia. La Procura di Pavia ha archiviato il caso ventilando l'ipotesi di "morte per annegamento": probabilmente i cuccioli sono finiti nel canale e Polina, nel tentativo di salvarli, si è tuffata ed è annegata. Tuttavia, qualcosa non torna nella ricostruzione della tragedia. I due cuccioli di pastore tedesco con cui la 35enne era a spasso quella mattina non sono mai stati ritrovati. Dove sono finiti? "Intanto vorrei ricordare che Gaga e Grey in realtà pesano dai 25 ai 30 chili e che mia figlia li addestrava anche a nuotare e, soprattutto, lei sapeva nuotare bene. Non può essere annegata", spiega la mamma di Polina, Alla Vladimirovna Kochelenko, alle pagine del Corriere della Sera. Ma c'è dell'altro.
Il giallo degli auricolari. A 700 metri di distanza dalla roggia, gli investigatori hanno trovato un paio di auricolari, un mazzo di chiavi e il cellulare di Polina. "Perché prima di buttarsi posa gli oggetti in modo ordinato, quasi geometrico? - continua la mamma della 35enne - Perché non si è tolta la giacca? Perché non c'era nulla nelle tasche?". I familiari Polina, assistiti dall'avvocato Tiziana Barella, hanno già fatto opposizione alla richiesta di archiviazione del caso. "Ricordo che i cani valgono 4-5 mila euro l'uno", precisa il legale ventilando un possibile movente economico. A caccia di verità e giustizia, i Kochelenko si sono rivolti all'investigatore privato Claudio Ghini. A lui spetterà l'aurdo compito di fare luce sulla vicenda: un giallo con ancora troppe ombre.
· Il Mistero si Sollicciano e dei cadaveri in valigia.
Valentina Marotta per corriere.it il 31 agosto 2021. Elona Kalesha aveva un movente per uccidere i genitori dell’allora fidanzato Teuta e Sphetim Pasho, i cui resti nascosti nelle valigie furono trovati in un campo tra la Fipili e il carcere di Sollicciano nel dicembre 2020. Temeva che la coppia potesse svelare al figlio Taulant che la donna aspettava un bambino da un altro uomo. E che Taulant potesse ucciderla. Elona interruppe la gravidanza il 27 ottobre 2015, cinque giorni prima della scomparsa della coppia. C’è un colpo di scena nel giallo delle valigie: la Procura ha presentato nuovi atti d’indagine all’udienza al Tribunale del Riesame, che dovrà decidere il prossimo 20 settembre se rimettere in libertà Elona Kalesha rinchiusa a Sollicciano dal dicembre 2020 con l’accusa di duplice omicidio volontario e occultamento di cadavere. Taulant, ha ricostruito la pm Ornella Galeotti, non sapeva della gravidanza della fidanzata: nell’autunno 2015 stava scontando una pena per spaccio e non avrebbe potuto avere rapporti con la fidanzata. Ma c’è di più: la Procura, Elona conosceva bene il luogo dove furono trovate le valigie. Nell’inverno 2015, espose sulla barriera antirumore che scorre lungo la FiPiLi, proprio di fronte al carcere di Sollicciano, un lenzuolo con una scritta d’amore: «Taulant mi manki troppo». A darne conferma stamattina in udienza (presente da remoto) anche l’indagata: «Ho scritto quel messaggio non su un lenzuolo ma su un muro». Era stato Taulant durante l’interrogatorio del giugno scorso davanti al pm Ornella Galeotti a riferire di quella dichiarazione d’amore: «Elona mi inviò anche la foto di quello striscione, ma la strappai». Ma c’è di più. La Procura ha depositato anche la perizia del botanico forense, professore Marco Stefano Caccianiga dell’università di Milano: quelle valigie erano sotto la FiPiLi dal 2015- 2016.
· Il Mistero di Giulia Maccaroni.
Dario Sautto per “Il Messaggero” il 4 settembre 2021. È morta nella cabina mentre la barca andava a fuoco. Ci sono tre indagati per il decesso di Giulia Maccaroni, la ventinovenne originaria di San Vito Romano morta durante un incendio nel porto di Marina di Stabia. Dall'inchiesta emerge anche l'ipotesi che il motore dell'imbarcazione fosse in surriscaldamento a causa di un guasto. I nomi di armatore, comandante e titolare della società di charter che gestiva il noleggio del veliero «Morgane» sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Torre Annunziata, che ipotizza i reati di incendio, sommersione (una declinazione del reato di naufragio) e omicidio colposi.
L'AUTOPSIA Un atto dovuto, che servirà agli inquirenti di poter procedere con l'inchiesta e permetterà agli stessi indagati di poter nominare consulenti di parte. Il procuratore Nunzio Fragliasso e il sostituto Andreana Ambrosino hanno già individuando gli esperti che questa mattina eseguiranno l'autopsia sulla salma della giovane, mentre un altro professionista ha già effettuato un primo sopralluogo a bordo del relitto, che è sotto sequestro nel cantiere nautico accanto al porto turistico di Castellammare di Stabia. Saranno necessari altri accessi a bordo della barca a vela per individuare con precisione luogo e causa dell'incendio, scoppiato a metà scafo, verso la prua, mentre Giulia dormiva a poppa. Questa mattina, l'esame autoptico darà le prime certezze sulla causa del decesso della giovane hostess di San Vito Romano che, secondo le prime ipotesi, sarebbe stata asfissiata dai fumi provocati dalle fiamme, passando dal sonno alla morte senza accorgersi di nulla. L'attenzione degli inquirenti è concentrata principalmente sulle cause dell'incendio. Ad innescare il rogo potrebbe essere stato un malfunzionamento della strumentazione di bordo che potrebbe aver causato un corto circuito. Inoltre, dai primi riscontri, pare che la barca abbia continuato a eliminare acqua dai bocchettoni, come se il motore fosse acceso e necessitasse di raffreddamento. Il tutto è avvenuto nel cuore della notte tra domenica e lunedì, quando la barca a vela era ormai ormeggiata nel porto turistico di Castellammare di Stabia da quasi dodici ore. E, soprattutto, mentre Giulia dormiva da tempo. La ragazza aveva chiesto di poter passare la notte a bordo, prima di mettersi in viaggio per alcuni giorni di ferie: era stanca dopo due mesi in mare e non se la sentiva di viaggiare quella sera.
I FILMATI Nei primi giorni delle indagini, i militari della Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia, guidati dal comandante Achille Selleri, hanno acquisito dodici ore di filmati registrati dalla telecamera del sistema di videosorveglianza interno a Marina di Stabia che puntava proprio sulla barca poi andata in fiamme. Dai video emergono diverse certezze per gli inquirenti. Una su tutte: nessuno è salito a bordo dell'imbarcazione insieme a Giulia, che ha cenato fuori ed è rientrata in serata, accompagnata fino alla barca da un amico. I due si sono salutati sulla banchina e lei, una volta a bordo, ha ritirato anche il ponte sul veliero. Poi, dopo aver acceso l'aria condizionata, Giulia ha scelto di dormire a poppa in una delle cabine per gli ospiti, perché quella per l'equipaggio non era climatizzata. Una scelta che potrebbe aver accelerato la morte, visto che nel ricambio dell'aria il monossido di carbonio potrebbe aver velocemente sostituito l'ossigeno mentre lei dormiva. Tra gli elementi al vaglio degli inquirenti ci sono le dotazioni di sicurezza a bordo dell'imbarcazione da diporto da 22 metri: se fosse stata due metri più lunga, le normative sarebbero state completamente differenti. Il veliero era rientrato a Castellammare dopo sei ore ininterrotte di navigazione intorno alle 16 di domenica. Gli otto ospiti che avevano prenotato la vacanza in Sicilia erano sbarcati, avevano salutato l'equipaggio ed erano andati via. Durante il viaggio era stato necessario il supporto di un altro comandante poiché il mare era leggermente mosso. L'incendio è scoppiato intorno alle 3,30, quindi quasi dodici ore dopo l'approdo, e nessuno a Marina di Stabia sapeva che Giulia fosse a bordo.
Napoli, tre sotto inchiesta per l'hostess morta nel rogo della barca. Mariella Parmendola su La Repubblica il 3 settembre 2021. La 29enne Giulia Maccaroni soffocata da un incendio nel porto Marina di Stabia a Castellammare di Stabia. Indaga la Procura di Torre Annunziata per omicidio colposo. Oggi l'autopsia. Era nella cabina. Il mix di veleni le è entrato nei polmoni mentre dormiva. Per i magistrati non è stata una tragedia. Della morte di Giulia Maccaroni dovranno rispondere tre persone. Per una trentina di minuti ha respirato il fumo prodotto dal bruciare di resina, plastica e legno che l’ha condotta verso uno stato di incoscienza, fino alla morte per asfissia.
Nico Falco per "fanpage.it" l'1 settembre 2021. Incendio colposo, sommersione colposa e omicidio colposo: sono le ipotesi di reato del fascicolo aperto dalla Procura di Torre Annunziata sulla morte di Giulia Maccaroni, la hostess 29enne della provincia di Roma deceduta nel rogo divampato tra domenica e lunedì su una imbarcazione ormeggiata a Marina di Stabia, il porto turistico di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli. Al momento non risultano iscritti nel registro degli indagati. La giovane si trovava sulla barca per lavoro, la sera precedente aveva salutato gli amici e il resto dell'equipaggio dicendo che sarebbe rimasta a dormire lì; il giorno successivo sarebbe tornata a San Vito Romano per qualche giorno di ferie. L'allarme era stato lanciato da alcuni addetti alla sicurezza dell'area portuale, che intorno alle 3 del mattino si erano accorti delle fiamme. Quando i Vigili del Fuoco sono riusciti a farsi largo, però, per la 29enne non c'era già più nulla da fare. Il fumo avrebbe velocemente saturato l'abitacolo della barca, la ragazza sarebbe morta soffocata nel sonno: sul suo corpo, ha riferito la Capitaneria di Porto, non sono state trovate ferite né segni di ustioni. Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire le cause dell'incendio, ma gli accertamenti si potranno effettuare soltanto una volta recuperata l'imbarcazione, ancora semi affondata nelle acque del porto; da verificare anche i sistemi antincendio presenti sull'imbarcazione, che potrebbero non aver funzionato a dovere. La salma di Giulia Maccaroni è stata sequestrata in vista dell'autopsia, che verrà svolta nei prossimi giorni e servirà a stabilire con certezza le cause del decesso; il corpo è stato riconosciuto dal padre e da uno zio: la madre dopo la notizia ha accusato un malore e non è riuscita a raggiungere Napoli.
Dario Sautto per “Il Messaggero” il 31 agosto 2021. La barca prende fuoco nel cuore della notte e lei muore asfissiata dalle esalazioni mentre dorme, ma ad alimentare il giallo restano ancora troppi dubbi sulle cause del rogo. Giulia Maccaroni, 29enne di San Vito Romano (Roma), aveva lavorato fino a domenica come hostess a bordo di una barca a vela di 22 metri battente bandiera inglese. Per tutto il mese di agosto, era stata in viaggio sulla Morgane insieme ai turisti che di settimana in settimana si erano alternati a bordo. Gli ultimi otto erano sbarcati proprio domenica, quando la barca aveva fatto ritorno nel porto turistico di Castellammare di Stabia, dopo una trasferta alle Eolie. Stanca dopo la navigazione raccontano alcuni testimoni Giulia «aveva bisogno di riposare» e aveva chiesto di poter dormire ancora una notte ormeggiata a Marina di Stabia, per mettersi in viaggio l'indomani mattina e far ritorno a casa dalla mamma. Nel cuore della notte, però, la barca ha improvvisamente preso fuoco dall'interno. Le fiamme hanno impiegato forse un'ora per sprigionarsi ed essere notate dal personale del porto turistico. A quel punto sono iniziate le operazioni di spegnimento, mentre la vigilanza ha richiamato tutto il personale di banchina in parte a casa a dormire per mettere in sicurezza le altre barche ormeggiate. Al loro arrivo, i vigili del fuoco hanno spento le fiamme residue ed effettuato un sopralluogo interno alla barca: purtroppo hanno ritrovato il corpo senza vita di Giulia nella sua cabina.
LE INDAGINI La ragazza ormai non respirava più, era morta probabilmente a causa per le esalazioni dell'incendio. Nessun bocchettone era aperto, per questo il fumo aveva invaso completamente gli spazi sottocoperta, trasformandosi in una camera a gas. Inutile l'arrivo dei soccorsi: i medici hanno potuto solo constatare il decesso. Per avviare le indagini sull'accaduto sono giunti i militari della Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia che, agli ordini del comandante Achille Selleri, hanno effettuato i primi rilievi, ascoltato i testimoni e recuperato tutta la documentazione della barca. La pista principale porta ad una tragica fatalità, ma restano molti dubbi al vaglio degli inquirenti.
I PUNTI DA CHIARIRE Innanzitutto c'è da stabilire se il rogo sia scoppiato per un corto circuito di qualche strumento all'interno, per una sigaretta rimasta accesa, o per altri motivi. Al momento non è escluso che possa trattarsi di un incendio doloso, anche se dai filmati della videosorveglianza interna non sembra avvicinarsi nessuno alla barca, mentre le fiamme si sprigionano intorno alle 4 della notte direttamente dall'interno. L'inchiesta aperta dalla Procura guidata dal procuratore Nunzio Fragliasso mira innanzitutto ad escludere le piste più inquietanti, che saranno scartate solo grazie all'esame autoptico, che sarà svolto nelle prossime ore. Bisogna capire se Giulia fosse già morta quando è scoppiato l'incendio o se il decesso sia avvenuto lentamente, mentre dormiva. Sono stati già ascoltati come testi il capitano e l'armatore, che non sanno darsi spiegazioni. Hanno confermato che Giulia aveva chiesto di dormire un'altra notte in barca prima di ripartire. In attesa del recupero, è stata sequestrata anche l'imbarcazione che è semiaffondata: servirà una complessa operazione con subacquei e galleggianti per metterla in sicurezza ed effettuare ulteriori verifiche.
IL NODO SICUREZZA Tanti i dubbi anche sui dispositivi di sicurezza: non è ancora chiaro se l'imbarcazione ne fosse dotata e se ci fosse un impianto antincendio interno, che in tal caso non avrebbe funzionato. Una serie di interrogativi che saranno chiariti solo dopo il recupero dello scafo e una perizia sugli interni e sulla documentazione. Da stabilire, infine, se l'incendio fosse visibile prima dell'allarme lanciato intorno alle 4 dal personale del porto. Insieme al capitano e ad uno chef, entrambi di Napoli, Giulia era tra i dipendenti di un armatore napoletano che aveva affidato il noleggio dell'imbarcazione ad una società di charter con sede a Gragnano e ormeggiata a Castellammare. «Siamo tutti dispiaciuti per quanto accaduto afferma Giovanni Battista La Mura, patron di Marina di Stabia abbiamo fatto tutto il possibile, il nostro sistema antincendio ha funzionato e ha evitato che le fiamme si propagassero ad altre barche». Dario Sautto
Gimmo Cuomo e Chiara Marasca per "corriere.it" il 30 agosto 2021. Amava il mare, Giulia Maccaroni, come raccontano le tante immagini postate sul suo profilo Facebook. Ed è a bordo della barca a vela sulla quale lavorava come hostess che la 29enne di San Vito Romano (Roma) ha perso la vita la scorsa notte, nel corso di un incendio cha ha bruciato il natante a due alberi, fino a farlo affondare, nel porto turistico di Marina di Stabia, a Castellammare di Stabia. Il corpo della donna, recuperato dai Vigili del fuoco, non presenta però segni di ustioni: potrebbe essere deceduta per asfissia, senza accorgersi, dunque, di quello che stava succedendo. La barca a vela, di manifattura inglese ma gestita dalla società Vela Charter di Gragnano, del 1990, era appena rientrata da una crociera di cinque settimane nelle isole Eolie. La hostess, stanca, aveva detto agli amici di volersi trattenere a bordo per la notte prima di fare rientro a casa. Poi il rogo, sul quale la Procura di Torre Annunziata ha aperto un’inchiesta. Secondo quanto accertato dalla Capitaneria di Porto di Castellammare di Stabia, guidata dal comandante Achille Selleri, la giovane donna potrebbe non essersi accorta di nulla. Dormiva sotto coperta e sul suo corpo non sono state trovate ferite né ustioni. L’ incendio si è sviluppato solo all’esterno dell’imbarcazione, che è poi affondata. Gli inquirenti stanno visionando le immagini delle numerose telecamere di cui è dotato il porticciolo turistico che è ampiamente sorvegliato e chiuso ad estranei, per verificare se qualcuno si sia avvicinato durante la notte all’imbarcazione, ma al momento sembrerebbe escludersi l’ipotesi del rogo doloso.
· Il Mistero di Tatiana Tulissi.
Valentina Errante per “Il Messaggero” il 26 settembre 2021. Assolto per non aver commesso il fatto. Per la Corte d'Appello di Trieste non è stato Paolo Calligaris ad uccidere Tatiana Tulissi. I giudici hanno ribaltato il verdetto di primo grado che condannava l'imprenditore e compagno della vittima a 16 anni di reclusione. Le prove non hanno retto. E così il caso si riapre. Tatiana, 37 anni, quell'11 novembre del 2008, era uscita dal lavoro intorno alle 17.20 ed era tornata a casa. Come tutti i pomeriggi, era sola, nella villa di Manzano (Udine) in cui viveva con Calligaris. Era uscita in giardino e scesa in garage per prendere la legna. Ed è lì che l'assassino l'aveva sorpresa. C'era stata una colluttazione. Poi, chi l'ha uccisa aveva sparato cinque colpi, con un revolver Astra calibro 38 special mai trovato. Due proiettili l'avevano raggiunta alla schiena, mentre tentava di fuggire, il terzo in testa.
LE INDAGINI Alle 18.32 è Calligaris a dare l'allarme. Chiama il 118, ma Tatiana è già morta. Nel registro degli indagati vengono iscritti i nomi di Calligaris e di Giacomo, all'epoca minorenne, figlio di primo letto dell'imprenditore, che quel giorno era passato dalla villa con il suo Quad, per fare una riparazione. Ma non ci sono prove che quella sera l'indagato fosse nella villa armato. Ed i pm chiedono l'archiviazione. Le indagini proseguono a carico di ignoti, fino al 2016, quando la procura iscrive di nuovo il nome di Calligaris. Secondo i consulenti del pm il cadavere è stato spostato. E per l'accusa può essere stato soltanto il compagno della vittima. Sono due le telefonate al 118: la prima alle 18.32 e 57 secondi, la seconda alle 18.42 e 27 secondi. L'ambulanza arriva tra le 18.50 e le 18.52. Un lasso di tempo che sarebbe stato sufficiente all'imprenditore per spostare il cadavere e nascondere la pistola. Non solo, sulla base della testimonianza di una vicina, che ha sentito gli spari, l'orario della morte viene spostato più avanti. Alle 18.30. E Calligaris è partito dall'azienda dove lavora tra le 17.45 e le 17.50. Nel novembre 2018, a dieci anni dal delitto, la procura chiede per il manager il rinvio a giudizio. Calligaris sceglie il rito abbreviato. Nelle motivazioni, il gup di Udine ricostruisce il movente, sostenendo che la coppia fosse in crisi. Anche per il desiderio di maternità della donna.
L'APPELLO Un processo fortemente indiziario: la difesa di Calligaris aveva, sin dal primo momento, contestato le conclusioni della procura: la mancanza di una prova regina, l'arma mai ritrovata e l'orario della morte spostato in avanti, sulla base della testimonianza di una vicina. Ma, secondo le indagini difensive, la donna non aveva sentito gli spari, alle 18.30, ma lo scoppio della marmitta del Buggy del figlio dello stesso Calligaris. In aula, è stato ascoltato l'audio dei rumori che potrebbero essere stati confusi dalla donna con l'esplosione dei proiettili. Secondo la ricostruzione della difesa, quando Calligaris torna a casa, quella sera, Tatiana è riversa a terra. Prova a rianimarla, poi chiama il 118 e, quando poco dopo arriva il figlio l'imprenditore lo manda in fondo al parco, per indicare la strada all'ambulanza. Che tarda ad arrivare. I legali hanno ricordato come i sanitari del mezzo di soccorso, ad un primo esame del corpo, abbiano fatto risalire le ferite a circa tre quarti d'ora prima, un momento in cui l'imputato non era ancora a casa.
LA REAZIONE «È una sentenza coraggiosa. Nel clima che si era formato su questo processo non era facile prendere una posizione di questo tipo», commenta ora l'avvocato Rino Battocletti che, insieme ai colleghi Alessandro Gamberini e Cristina Salon, compone il collegio difensivo. «Questo processo è stato viziato da un circuito perverso con i mass media. È orrendo anticipare i processi alla televisione. Lo abbiamo detto e scritto nei nostri atti difensivi». E il legale conclude: «Abbiamo sempre sostenuto che questo processo non avrebbe mai dovuto iniziare e l'azione penale non avrebbe dovuto essere esercitata. La sentenza di primo grado ci aveva lasciato sgomenti per come si fondasse su numerosi travisamenti dei fatti».
· Il Mistero delle sorelle Viceconte.
Simona Viceconte si suicidò come la sorella maratoneta, Maura. La pm: «Processate il marito, la vessava». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2021. Le accuse a un anno dalla morte di Simona, 45enne commessa di Torino. La pm Medori ha chiesto il rinvio a giudizio di Luca Amprino. «Simona temeva di perdere casa e figlie». Quel matrimonio aveva scavato dentro di lei una sensazione di grande solitudine. La perdita del lavoro, abbandonato per far spazio a nuove mansioni domestiche, le aveva sottratto autostima. Simona Viceconte, 45enne commessa di Torino, era già provata, delusa e sfiduciata quando il suo avvocato, Antonella Galizia, le aveva consegnato l’ordine di comparizione del tribunale, fissato per il 16 febbraio 2020: battendola sul tempo, il marito Luca Amprino aveva chiesto la separazione ufficiale. La salute psicologica di Simona, resa più fragile dalla perdita dell’unica vera amica, sua sorella Maura, maratoneta di passione, morta suicida l’anno prima dopo la battaglia con una lunga malattia, era divenuta ancora più fragile. Il 13 febbraio, tre giorni prima di comparire di fronte al giudice, Simona aveva scelto un foulard resistente, pescandolo dal suo guardaroba, e s’era impiccata alla ringhiera della tromba delle scale nella palazzina di Teramo dov’era andata a vivere per seguire il marito.
Sottoposta a violenze psicologiche. Oggi una pm di Teramo, Enrica Medori, dice che c’è una spiegazione all’insicurezza profonda, dolorosa e insormontabile di Simona. Vale a dire le violenze psicologiche alle quali era stata sottoposta dal marito. Come anticipato dal Messaggero, la pm ha chiesto il rinvio a giudizio di Amprino. Il Tribunale ha già fissato l’udienza preliminare e il 21 ottobre alle 15.30 la posizione di Amprino sarà esaminata davanti al gup Lorenzo Prudenzano. La contestazione di violenza psicologica nei confronti del marito troverebbe conferma nelle carte della separazione. Tra le persone ascoltate dalla pm anche l’avvocatessa che assisteva Simona nella causa di separazione. Gli atti dell’inchiesta ricostruiscono un caso estremo di vessazioni economiche. Il marito lesinava a Simona anche il denaro quotidiano per andare al bar a bere un caffè, per comprare il gelato alle figlie (due), per offrire la colazione a un’amica. Simona doveva ricorrere alle proprie (magre) risorse non solo per pagarsi un parrucchiere ma perfino per la benzina necessaria all’auto di famiglia. La donna subiva quotidianamente. Problemi di insolvenza in famiglia? Nessuno all’apparenza.
La lettera da far recapitare al marito. La coppia che viveva con lo stipendio da bancario del marito, non aveva difficoltà. Piuttosto la parsimonia di lui parrebbe dovuta a ragioni caratteriali. In seguito alla morte della sorella, Simona aveva deciso di rivolgersi all’avvocato Galizia affinché recapitasse una lettera al marito. Un modo per fargli sapere che non era più possibile andare avanti in quella maniera. Purtroppo l’idea si era rivelata ingenua. Anche di fronte a contestazioni formali Amprino non aveva mollato. Niente soldi né autonomia per Simona. Una condizione esistenziale che s’era fatta umiliante per la donna. Quando poi era stato lui a formalizzare la richiesta di separazione lei era stata presa da una crisi di sfiducia e disistima nei confronti di sé stessa, e dalla convinzione di non farcela da sola a superare questo passaggio. La mamma era a Torino, la sorella non c’era più. Simona s’è scoperta sola. E ha preso la decisione più cupa. Dice oggi la Galizia che con lei aveva sviluppato un rapporto speciale: «Spero che con questo processo trovi la pace che merita».
Teodora Poeta per “il Messaggero” il 3 settembre 2021. L'esasperazione crescente in quel clima di convivenza familiare insostenibile e la paura di restare senza niente, comprese le sue due figlie, avrebbero spinto al suicidio Simona Viceconte, la mamma 45enne originaria di Chiusa San Michele in Val Di Susa, sorella di Maura ex campionessa di maratona pure lei morta suicida. Era il 13 febbraio di un anno fa. Quel giorno Simona decise di togliersi la vita impiccandosi con un foulard alla ringhiera della tromba delle scale della palazzina dove viveva con la famiglia a Teramo, la città dove si erano trasferiti per il lavoro del marito, Luca Amprino, 53 anni, dipendente di banca. È lui, secondo la procura abruzzese che ha chiuso le indagini e firmato la richiesta di rinvio a giudizio con l'udienza preliminare fissata per ottobre, che con maltrattamenti psicologici continui avrebbe portato la moglie fino alla decisione di togliersi la vita. L'accusa che adesso gli viene contestata non è l'istigazione al suicidio, ma una circostanza aggravante del reato di maltrattamenti, si ipotizzano solo psicologici, messi in atto quando ormai l'amore tra i due si era sgretolato e il matrimonio era arrivato al capolinea. Simona si era già rivolta ad un legale, l'avvocato Antonella Galizia, per la separazione giudiziale. E con lei si era confidata. Le aveva raccontato i suoi timori di restare senza soldi e senza le figlie. Timori che erano stati messi nero su bianco negli atti depositati per la separazione quando in tempi non sospetti già si scriveva di Simona che doveva «ricorrere a risparmi di fortuna» per le proprie esigenze personalissime, parrucchiera, estetista, palestra, ma anche per il carburante dell'auto di famiglia, «prevalentemente utilizzata dalla Viceconte per la gestione delle figlie», e che «dovevano essere mendicate al marito». È la vita descritta nelle carte: un marito bancario che le avrebbe fatto mancare tutto, dall'affetto alle esigenze primarie. Un uomo che aveva venduto l'auto che utilizzava Simona per spostarsi dal quartiere in periferia, dove vivevano a Teramo, per risparmiare con l'abbonamento dell'autobus a moglie e figlie. Pure questo, a suo tempo, tutto scritto dall'avvocato che la seguiva. Per non parlare dei soldi. Sarebbe stata costretta a mendicare anche solo 5 euro per comprare qualche dolcetto alle figlie e a fare a meno di comprarlo per sé perché i soldi che aveva non erano sufficienti per tre gelati. E le amiche sapevano. Sono state loro a raccontare di quando «Simona rimaneva a casa perché non aveva soldi per un caffè insieme». Lei che aveva scelto di lasciare il lavoro per la famiglia e dedicarsi alle figlie ad un certo punto si è sentita schiacciata, economicamente dipendente dal marito e con il timore di rimanere sola senza le sue bambine. Una prospettiva che l'avrebbe messa all'angolo. Dopo che un anno prima - il 10 febbraio del 2019 - anche sua sorella Maura, alla quale era legatissima, l'aveva lasciata suicidandosi a 51 anni, dopo aver sconfitto un brutto male. Molte sono state le persone informate sui fatti sentite in fase di indagini preliminari dagli inquirenti. Il pm Enrica Medori, titolare dell'inchiesta, ha chiesto e ottenuto l'incidente probatorio alla presenza di una psicologa per cristallizzare le testimonianze delle due figlie minori, che vivono con il padre. La convinzione dell'accusa è che l'ultima parte della sua vita Simona l'abbia vissuta nel terrore prospettato dal marito, il quale sarebbe arrivato a minacciarla di toglierle tutto, «la casa e le figlie» e a dirle, testualmente, che la loro separazione sarebbe stata «un bagno di sangue». Maltrattamenti psicologici andati avanti nonostante Amprino si fosse accorto della grande vulnerabilità di sua moglie, così come sostiene oggi l'accusa nella richiesta di rinvio a giudizio, e che avrebbe portato Simona al suicidio. Quattro sono le parti offese identificate dalla Procura: le due figlie, il fratello e la madre di Simona, che potranno decidere di costituirsi parte civile nel caso di rinvio a giudizio di Amprino, con lui che ha sempre respinto le accuse, sostenendo che la moglie godeva di una propria autonomia economica e che quando si è accorto che c'era un problema in casa, ha chiamato i parenti di lei per farla aiutare. Con un precedente episodio di tentativo di suicidio di cui lui era a conoscenza avvenuto in casa dopo che proprio Simona lo chiamò al lavoro per avvisarlo di quello che lei aveva provato a fare.
"Marco fu ucciso da due rom. Ma il caso è stato archiviato". Rosa Scognamiglio il 10 Settembre 2021 su Il Giornale. Marco Perini, agricoltore 34enne, sarebbe stato ucciso da due rom che non sono mai stati intercettati. A giugno, il giudice incaricato delle indagini preliminari ha archiviato il caso. Ma i familiari della vittima continuano a reclamare giustizia. Il 19 maggio del 2000, Marco Perini, un agricoltore 34enne di Abbiategrasso, fu rinvenuto cadavere - col cranio fracassato - in un'ansa del Ticino, a Besate, in provincia di Milano. Secondo i familiari della vittima, sulla base di alcune risultanze, furono due rom a uccidere il giovane. Una nomade, a distanza di anni dall'accaduto, ha rivelato di aver raccolto la confessione di uno dei killer. Tuttavia, lo scorso giugno, il giudice incaricato delle indagini preliminari ha deciso di archiviare il caso per insufficienza di elementi indiziari nei confronti dei due sospettati. Ebe Pagliari, la mamma di Marco, non si arrende continuando a reclamare giustizia per il proprio figlio. Lo fa anche il suo avvocato, Francesco Campagna, che da anni si batte al fianco della famiglia Perini per stabilire la verità sulla vicenda. "Il caso è stato archiviato ma un omicidio non è un reato che va in prescrizione. Per il momento siamo fermi ma nulla vieta di riaprire le indagini qualora vi fossero risvolti significativi", afferma il legale alla redazione de IlGiornale.it
Avvocato Campagna, a che punto sono le indagini per l'omicidio del signor Perini?
"Siamo in una fase di stallo. Il giudice per le indagini preliminari ha accolto la richiesta del pm decidendo per l'archiviazione del caso".
Per quale motivo il caso è stato archiviato?
"Perché il giudice ha ritenuto che non ci fossero elementi sufficienti per procedere con le indagini".
Una donna ha indicato due rom come presunti autori dell'omicidio del delitto. È attendibile?
"L'attendibilità di un testimone, in casi come questo, è un concetto molto complicato. Non credo però che una persona possa denunciare ai carabinieri una notizia di cui non è realmente a conoscenza. Quindi ritengo non sia da escludere che queste dichiarazioni siano attendibili".
Cosa ha riferito ai carabinieri la donna rom?
"Ha raccontato che una sua cugina avrebbe raccolto la confessione di uno dei due presunti assassini, con cui conviveva, sull'omicidio del signor Perini. Si tratterebbe di due fratelli che, al tempo, erano accampati in una tendopoli su uno dei terreni appartenenti alla vittima".
Sono stati mai individuate queste due persone?
"Purtroppo, non sono mai state intercettate. Ed è questo il motivo per cui il giudice ha ritenuto di dover archiviare il caso nonostante io avessi fatto opposizione alla richiesta del pm. Bisognerebbe intercettare queste due persone, chiarire la loro posizione e verificarne l'eventuale coinvolgimento nella vicenda".
Quale sarebbe stato il movente dell'omicidio?
"Pare che ci fossero dei gatti che giravano in questo accampamento nomade e che il signor Perini ne avesse ucciso uno".
Ritiene che sia una versione credibile?
"A mio avviso, è un movente molto debole".
Il signor Perini aveva mai avuto screzi con queste due persone?
"Pare che ci fossero stati già dei contrasti e che, una volta, il signor Perini fosse stato minacciato con un'ascia. Probabilmente c'erano stati altri screzi in precedenza".
Che tipo di screzi?
"I rom occupavano uno dei terreni di proprietà del Signor Perini. Probabilmente c'erano già stati dei diverbi per questa circostanza".
L'arma del delitto è stata mai ritrovata?
"No. L'ipotesi e che la vittima sia stata colpita al cranio con il manico di un'ascia. Ovviamente, non possiamo averne certezza".
La mamma del signor Perini chiede giustizia per suo figlio. Quale sarà la prossima mossa?
"Al momento, siamo fermi. Ma se ci saranno dei risvolti nelle indagini, ci faremo trovare pronti. Un omicidio non è un delitto che va in prescrizione".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
· Il Mistero di Emanuele Scieri.
Morte di Scieri: procura di Pisa chiede 18 anni per ex caporale. Firenze Post il 25 settembre 2021. Emanuele Scieri, trovato morto nella caserma di Pisa nell’agosto del 1999. Per la morte di Emanuele Scieri, avvenuta nell’agosto del 1999, la procura di Pisa ha chiesto la condanna a 18 anni di reclusione carcere per l’ex caporale Andrea Antico (ancora in servizio presso l’Esercito), accusato di omicidio volontario e il rinvio a giudizio di altri due allora caporali, Alessandro Panella e Luigi Zabara (che hanno scelto il rito ordinario). Tra gli imputati figurano anche l’ex comandante della Folgore, Enrico Celentano, e l’allora aiutante maggiore, Salvatore Romondia: accusati di favoreggiamento, hanno entrambi scelto il rito abbreviato. L’accusa per loro ha chiesto 4 anni, sostenendo anche che il reato sarebbe da riqualificare in depistaggio. Scieri, secondo quanto ricostruito dalla procura, morì la sera del 13 agosto 1999 in conseguenza di un atto di nonnismo da parte dei tre ex caporali che poi lo lasciarono a terra agonizzante. Il suo corpo fu scoperto solo tre giorni dopo. Una prima indagine della procura pisana finì nel nulla. «Sono tutti, a vario titolo, colpevoli della morte di Emanuele Scieri avvenuta il 13 agosto 1999, anche se il suo corpo fu trovato solo tre giorni dopo ai piedi di una torre di prosciugamento dei paracadute nella caserma Gamerra di Pisa, e per questo devono essere condannati o processati». E’ la conclusione della requisitoria del pm, Sisto Restuccia, e del procuratore Alessandro Crini, svolta oggi davanti al gup di Pisa per il procedimento per la morte di Scieri, 26 anni, di Siracusa, deceduto 22 anni fa nella città toscana dove era arrivato per il servizio di leva come parà. E’ stato poi il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Sofia Amoddio a raccogliere elementi utili, consegnati nel 2017 ai pm di Pisa che hanno avviato nuove indagini sfociate nel procedimento in corso: le decisioni del gup, Pietro Murano, sia per il rito abbreviato sia per le richieset di rinvio a giudizio è attesa per l’11 ottobre. «Abbiamo individuato le responsabilità di ciascun imputato attraverso una rilettura di tutte le testimonianze e degli atti processuali – ha detto Crini durante la requisitoria – e a collocare il terzetto di ex caporali sulla scena del crimine sono le ‘voci’ di caserma. Le testimonianze di allora e di oggi hanno evidenziato una linearità del racconto». Il procuratore ha anche definito «stravagante» l’ispezione condotta alla Gamerra dal generale Celentano la notte di Ferragosto: era lì proprio perché informato della morte di Scieri e la sua presenza è accertata dalla cella telefonica che segnala il suo telefono cellulare con il quale chiama casa sua a Livorno per annunciare un rientro ritardato, ma il corpo senza vita di Emanuele viene scoperto solo nel primo pomeriggio del 16 agosto, quindi oltre 24 ore dopo il passaggio dalla caserma dello stesso Celentano. Crini ha definito inaccettabili i non ricordo del generale. Lunedì spazio alle parti civili e alla difesa di Antico, il 4 ottobre parleranno le difese di Celentano e Romondia e l’11 ottobre i difensori di Panella e Zabara. L’avvocatura dello Stato (il ministero della Difesa è stato ammesso sia come responsabile civile e che come parte civile) ha depositato conclusioni scritte.
Scieri: tre assoluzioni e due rinvii a giudizio per la morte del parà trovato 22 anni fa ai piedi di una torre in caserma. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2021. Emanuele Scieri venne trovato ai piedi di una torre all’interno della struttura. Un caso di presunto nonnismo che ha fatto discutere per anni. Tre assoluzioni e due rinvii a giudizio. Sono queste le decisioni del gup di Pisa nella prima udienza preliminare sulla morte di Emanuele Scieri, il parà di leva siciliano di 26 anni, laureato in Giurisprudenza, trovato morto nell’agosto del 1999 nella Caserma di Pisa dove era appena arrivato per iniziare il servizio militare. Un caso di presunto nonnismo che ha fatto discutere per 22 anni. Stamani il gup del tribunale di Pisa ha assolto i tre imputati che avevano scelto il rito abbreviato. Sono il sottufficiale dell’esercito Andrea Antico, l’unico militare ancora in servizio, che era accusato di omicidio volontario; il generale e allora comandante della Folgore, Enrico Celentano e l’ex aiutante maggiore Salvatore Romondia, accusati di favoreggiamento. Il gup ha invece disposto il rinvio a giudizio per gli ex caporali Alessandro Panella e Luigi Zabara, accusati di omicidio. Nella requisitoria il pm Sisto Restuccia, aveva chiesto la condanna a 27 anni (che comunque sarebbero diminuiti di un terzo per il rito abbreviato) per il sottufficiale dell’esercito Andrea Antico. Per gli altri due imputati che avevano scelto il rito abbreviato, il general, Enrico Celentano e l’ex aiutante maggiore Salvatore Romondia, l’accusa aveva chiesto 4 anni di carcere per favoreggiamento. La Procura aveva però chiesto di modificare il reato di Romondia da favoreggiamento e depistaggio. Gli altri due imputati, gli ex caporali Alessandro Panella e Luigi Zabara, saranno dunque giudicati con rito ordinario in Corte d’assise. Secondo le indagini, coordinate dal procuratore di Pisa Alessandro Crini, l’azione di nonnismo fu un massacro. I tre caporali dopo aver contestato a Scieri l’uso del cellulare lo obbligarono «a effettuare numerose flessioni sulle braccia, lo colpirono con pugni sulla schiena, gli schiacciarono le dita delle mani con gli anfibi, «per poi costringerlo ad arrampicarsi sulla scala di sicurezza della vicina torre di prosciugamento dei paracadute, dalla parte esterna, con le scarpe slacciate e con la sola forza delle braccia». Fu allora che, sempre secondo l’accusa, il caporale «Panella lo raggiunse per fargli perdere la presa e lo percosse dall’interno della scala» e mentre Scieri cercava disperatamente di «poggiare il piede su uno degli anelli di salita, (Panella) gli sferrò violentemente un colpo al dorso del piede sinistro» facendolo precipitare da un’altezza di dieci metri. Una caduta che causò al giovane siciliano lesioni gravissime. Il corpo di Scieri fu poi abbandonato agonizzante sul posto. Particolarmente difficili le indagini, con presunti depistaggi e soprattutto omertà. Che denunciarono gli inquirenti e anche il fratello di Emanuele, Francesco Scieri, oggi medico in un ospedale lombardo. «Abbiamo combattuto più di vent’anni contro l’omertà ma, come nostro padre (scomparso pochi anni fa), abbiamo sempre creduto nella giustizia e nelle istituzioni», aveva sempre dichiarato Francesco.
“Se c'è speranza di individuare i responsabili lo si deve alla politica". Emanuele Scieri, due parà a processo dopo 22 anni per la morte ‘misteriosa’ dell’allievo della Folgore. Riccardo Annibali su Il Riformista il 29 Novembre 2021. Prima un suicidio, poi un incidente e ora, a oltre vent’anni di distanza, è di nuovo tutto in discussione. Tre assoluzioni e due rinvii a giudizio sono stati decisi in udienza preliminare a Pisa per la morte di Emanuele Scieri, il parà della Folgore morto in circostanze ancora non chiarite alla caserma Gamerra di Pisa il 13 agosto 1999. Non ci fu favoreggiamento da parte dei vertici della Folgore nel coprire quello che l’accusa ritiene ancora essere un omicidio. La procura pisana aveva chiesto 18 anni per omicidio volontario aggravato per Andrea Antico, quattro per favoreggiamento per l’ex comandante della Folgore Enrico Celentano e il maggiore Salvatore Romondia, tutti assolti oggi. “Erano suggestioni – ha commentato Barbara Druda che ha assistito Romondia – si è parlato tanto della famosa telefonata fatta dal mio cliente ma il contenuto di quella telefonata non è mai stato rivelato”. Gli imputati entrano in aula ed escono meno di un’ora dopo. Veloce la lettura della sentenza che ribalta l’impianto accusatorio e il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta che ha riaperto il caso. Un caso che ora, a meno di appello da parte della procura, resta aperto solo sul fronte del rito ordinario per gli altri due imputati, Luigi Zabara e Alessandro Panella, accusati di aver provocato la morte di Scieri in un atto di nonnismo. La sentenza ferisce le speranze della famiglia Scieri: “Non ci fermeremo – annuncia il fratello di Emanuele, Francesco – resto convinto che loro, in questa vicenda, un ruolo lo abbiano avuto e, anzi, inimmaginabile che non ce lo abbiano avuto. Ciò che fa più male è che i tre imputati per un fatto così grave possano farla franca”. Militare di 26 anni, siciliano, laureato in Giurisprudenza, appena arrivato al centro di addestramento della Folgore di Pisa per il servizio militare, alla caserma Gamerra. Il 16 agosto del 1999 fu trovato morto ai piedi di una scala della caserma, ma il decesso era avvenuto tre giorni prima. Secondo le indagini, Scieri, la sera del 13 agosto avrebbe subìto violenti atti di nonnismo che ne causarono la caduta dalla scala dove forse aveva cercato riparo. Era stato trasferito insieme a settanta commilitoni il 13 agosto e dopo aver sistemato i bagagli in camerata, Scieri si sarebbe unito ai colleghi per una passeggiata nel centro di Pisa. Una volta rientrato in caserma intorno alle 22.15, non risponde al contrappello delle 23.45. Nonostante diversi colleghi riferiscano che è tornato in caserma, viene dato per non rientrato: a quell’ora è già morto. Il cadavere resta ai piedi della scala per tre giorni. Dopo la prima archiviazione come incidente, la Procura di Pisa nel 2017 riaprì l’inchiesta, anche dopo il grande lavoro effettuato dalla commissione parlamentare d’inchiesta, istituita nel 2016 e presieduta dalla parlamentare Sofia Amoddio. “Se oggi c’è la speranza di individuare i responsabili dell’omicidio Scieri, con l’apertura del processo dopo 22 anni dalla morte, lo si deve alla politica: commissione d’inchiesta 2015-2017, relatrice la deputata Pd Amoddio, Governi Renzi-Gentiloni, ministra della Difesa Pinotti” scrive su Facebook il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi, “Grazie alle audizioni della commissione si sono riaperte le indagini, contro anni di omertà, disinteresse, pressappochismo e forse insabbiamenti. Ora i magistrati hanno il dovere di assicurare i colpevoli alla giustizia. Intanto, spazzata via la tesi infondata del suicidio, lo Stato avrebbe il dovere omaggiare la memoria del giovane parà Scieri, magari anche con la dedica di una strada o di un luogo simbolico”. Le persone vicine ad Emanuele non hanno mai voluto credere all’ipotesi di suicidio o di tragico incidente. Negli anni sono infatti emersi molti elementi a supporto “del clima di nonnismo e di un sistema di disciplina fuori controllo” presente in quella caserma. Scieri, secondo questa ipotesi, sarebbe stato indotto a salire su una scala alta dieci metri, usata per asciugare i paracadute, da dove è precipitato “in conseguenza degli atti di violenza e minaccia in atto”. La ‘Gamerra’, a quel tempo, aveva un’area di 144 mila metri con 35 palazzine e decine di aree per l’addestramento, il parcheggio e il rimessaggio di vecchi materiali. Un anno prima, nel 1998, un alto ufficiale, già comandante del 9 battaglione incursori del Col Moschin, era stato rimosso dall’incarico perché sospettato di episodi di nonnismo. Riccardo Annibali
· Il Mistero di Massimo Manni.
Trovate tracce di sangue. Trovato morto in casa il regista tv Massimo Manni: si indaga per omicidio. Andrea Lagatta su Il Riformista il 24 Settembre 2021. E’ giallo sulla morte di Massimo Manni, il regista televisivo trovato morto nella serata di ieri nel suo appartamento in zona Clodio, nel quartiere Prati, a Roma. In casa del regista dell’emittente LA7, che aveva 61 anni, sono state trovate tracce di sangue. Per questo motivo il sostituto procuratore Francesco Saverio Musolino ha aperto un fascicolo ipotizzando un reato ben preciso: omicidio. E’ stata disposta l’autopsia sul corpo della vittima per verificare le cause della morte. Ma non si escludono altre piste. La sorella del regista, Valeria Manni, crede che il decesso sia causato da un infarto avuto dall’uomo. A dare notizia del suo decesso, un familiare con cui Manni aveva un appuntamento, al quale non si è presentato. I parenti hanno deciso così di recarsi all’abitazione del regista, dove hanno trovato il corpo di Manni senza vita. Immediato l’intervento della polizia. All’interno dell’appartamento di Manni non è stato trovato alcun bigliettino. La porta di ingresso dell’abitazione del regista è stata aperta dai vigili del fuoco ed era senza mandate. Gli esperti della scientifica, accorsi sul posto, hanno trovato l’appartamento era in disordine e rinvenuto diverse tracce di sangue. Andrea Lagatta
Stefano Vladovich per “Il Giornale” il 25 settembre 2021. Il corpo a terra, supino, in camera da letto. Una ferita profonda alla testa e a una mano, l'appartamento a soqquadro. Sangue vicino al corpo e su un ventilatore. Chi ha ucciso Massimo Manni, 61 anni, regista de LA7, trovato cadavere giovedì sera nella sua abitazione al 131 della Circonvallazione Clodia? Omicidio o tragico malore? La Procura di Roma non crede a una morte naturale per il regista di programmi tv come «Il Processo» di Aldo Biscardi, «Otto e Mezzo» di Lilly Gruber o «In Onda». Tanto che il pm Francesco Saverio Musolino apre un fascicolo per omicidio. Sul caso indagano gli agenti del commissariato Prati e gli esperti della scientifica. Manni la mattina non si era presentato a un appuntamento con la sorella Valeria, tanto da farla insospettire. Sono le 19 quando i fratelli chiamano i vigili del fuoco per sfondare la porta. Al citofono e al campanello, difatti, Manni non risponde nonostante i due cercano disperatamente di entrare. Idem al telefono cellulare. Mezz'ora dopo la drammatica scoperta. Inutile l'intervento del 118, l'uomo è morto da ore. La serratura della porta d'ingresso è chiusa con una sola mandata o solo accostata come sembra sulle prime? Nessun segno di scasso sia al portone che alle finestre. Non solo. Gli inquirenti hanno trovato confezioni di medicinali, soprattutto ansiolitici. Prima ipotesi. L'uomo si sarebbe sentito male per l'assunzione di psicofarmaci. Cadendo avrebbe battuto la testa, morendo. Ricostruzione che non convince il medico legale secondo il quale le ferite non sarebbero compatibili con un malore. Le tracce ematiche sul ventilatore porterebbero a tutt' altro scenario. Ma la sorella esclude categoricamente che il regista sia stato ucciso. «È probabilmente caduto e si è rotto la testa dopo un infarto - spiega la donna -. Faranno l'autopsia e ne sapremo di più, ma assolutamente non è un omicidio. L'esame autoptico si fa come prassi. L'avevo visto il giorno prima, siamo senza parole». Seconda ipotesi. Manni non era solo. Potrebbe aver avuto una discussione violenta e il suo assassino lo avrebbe colpito alla testa con il ventilatore, prima di andarsene chiudendo la porta dietro di sé. Ricostruzione avvalorata dalla serratura senza mandate. Certo è che chi lavorava con lui lo ricorda come una persona con gravi problemi di salute. Il regista si sarebbe trovato in una situazione drammatica negli ultimi tempi. Una forte depressione tenuta a freno con dosi massicce di psicofarmaci? Qualcuno ricorda che Manni da mesi non era più lo stesso. «A volte si addormentava davanti ai monitor» dicono. Che la morte non sia stata premeditata sarebbe confermato dal fatto che non è stato trovato alcun biglietto. Insomma, Manni non si sarebbe suicidato. Sarà l'esame tossicologico, a questo punto, a stabilire se abbia assunto sostanze da provocare l'arresto cardiocircolatorio o se sia stato ucciso con un violento colpo alla nuca.
· Il Caso del maresciallo Antonio Lombardo.
Il figlio del maresciallo Lombardo: "Mio padre non si è suicidato, quella lettera d'addio non l'ha scritta lui". Alessia Candito La Repubblica il 20 ottobre 2021. Il carabiniere dei Ros venne trovato cadavere nel marzo del 1995. Una morte avvolta da tanti misteri. Il figlio Fabio: "Riaprite l'inchiesta". Quello del maresciallo dei Ros Antonio Lombardo non è stato un suicidio e a dimostrarlo c’è una perizia calligrafica che prova come non sia stato lui a scrivere la lettera d’addio consegnata ai familiari. Così sostengono i figli del maresciallo, Fabio e Rossella, nell’istanza di riapertura dell’inchiesta sulla morte del padre, ufficialmente suicidatosi nella caserma dei carabinieri di Palermo nel marzo del 1995. Una tesi a cui i familiari non hanno mai creduto. Due inchieste, una del 1997 e una del 2015, sono state aperte e archiviate. Ma nel corso di nessuna delle due – sottolinea oggi Fabio Lombardo - è stata disposta una perizia calligrafica su quella che per anni è stata ritenuta la sua lettera d’addio. Ma di recente lo hanno fatto i familiari e le conclusioni della criminologa e grafologa forense Valentina Pierro potrebbero rappresentare una nuova svolta nelle indagini. “Sono emersi alcuni punti di comunanza, per quanto riguarda le caratteristiche generali delle scritture, ma non per quanto riguarda ai segni più particolari, indicativi della personalità dello scrivente" si legge nelle nove pagine di istanza di riapertura indagini firmate dall’avvocato Alessandra Maria Delrio del foro di Sassari, che assiste i fratelli Lombardo. "Vogliamo sapere – dice Fabio - cosa è successo quel giorno, e cosa ha portato alla morte di mio padre Ci sono troppe stranezze in tutta la vicenda. Dal primo istante, da quando è stato ritrovato il suo corpo senza vita". Sono strane e contraddittorie – riassume l’avvocato Alessandra Maria Delrio del foro di Sassari – le dichiarazioni dei presunti testimoni oculari, incomprensibili le circostanze in cui quel delitto è maturato e in più, mai è stata accertata la compatibilità della posizione del corpo con quella dell’ogiva del proiettile rinvenuto in auto. E poi, aggiunge il figlio del maresciallo, ci sono quelle sibilline promesse che il padre avrebbe fatto alla vedova di Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, annunciandole che da lì a poco le avrebbe portato "su un vassoio di argento la verità sulla morte di suo marito". Così, come anni prima le disse che avrebbe catturato il boss Riina per vendicare la morte del giudice. "E lo fece", dice il figlio. Del tutto oscuro poi rimane il significato di quelle poche righe di presunta lettera d’addio. "Mi uccido per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e i miei figli” si leggeva su quel foglio bianco, rimasto immacolato nonostante sia stato, almeno ufficialmente, trovato accanto al corpo del maresciallo. “Non ho nulla da rimproverarmi poiché sono stato fedele all'Arma per trentuno anni e, malgrado io sia arrivato a questo punto, rifarei tutto quello che ho fatto. La chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani" era l’amara, quanto oscura chiusa di quella breve nota. “Io ho sempre dubitato che quella lettera fosse davvero di mio padre sia per la calligrafia, sia per i contenuti – dice la figlia del maresciallo, Rossella Lombardo - La persona che conoscevo, che amava follemente la sua famiglia non si sarebbe limitato a liquidare un saluto in due righe”. Amareggiata “lo devo confessare – dice - per come l’Arma ha trattato mio padre”. Passato alla storia come l’uomo che accompagnava Totò Riina in manette verso l’elicottero, il maresciallo Lombardo dice la figlia Rossella” non è stato solo questo, altri si sono presi il merito di quello che lui ha fatto. Da mesi aveva individuato lui la traccia”. Ecco perché, racconta, il padre ha finito considerare l’arresto del boss dei corleonesi come uno dei momenti più importanti della sua carriera, “ma anche per odiare quel momento. L’encomio semplice che gli avevano dato lo teneva nel cassetto”. Alla fine di quella stagione, è emerso dalle inchieste sulla sua morte, il maresciallo si sentiva solo, abbandonato se non scaricato dai suoi superiori. Per anni, quando ancora non esistevano i pentiti, era stato incaricato di raccogliere le confidenze degli uomini di Cosa Nostra. E Lombardo ne aveva agganciati tanti, inclusi boss di vertice come Tano Badalamenti che tanto sapeva anche dei rapporti istituzionali e imprenditoriali dei corleonesi. Il maresciallo ascoltava e per tutelarsi appuntava. Note su note, che finivano tutte in una carpetta conservata gelosamente nel suo ufficio di Terrasini. Poi, quando la stagione del pentitismo è iniziata, alcuni dei primi collaboratori lo hanno accusato di infedeltà e nessuno dei suoi superiori ha aperto la bocca per difenderlo. Anzi, proprio in quel periodo gli viene revocato l’incarico di portare il boss Badalamenti in Italia. Perché? Ancora nessuna inchiesta lo ha chiarito. Quel che è certo è che pochi mesi dopo, muore con un colpo alla tempia e la cosa viene subito inquadrata come suicidio. “Non è stata fatta neanche l’autopsia” ci tiene a sottolineare la figlia. I suoi appunti non sono mai stati trovati. Anche di questo dovranno riferire Rossella e Fabio Lombardo alla commissione parlamentare antimafia che li ha convocati in audizione. “È nostro compito – spiega il presidente Nicola Morra – indagare su una vicenda che appariva oscura e come tale si conferma anche grazie ad una perizia calligrafica eseguita con irragionevole ritardo. A molti magari non farà piacere, ma abbiamo il dovere di approfondire su una fase storica in cui si faceva fatica a capire cosa fosse bianco e cosa fosse nero”.
· Il Mistero di Bruna Bovino.
Omicidio di Bruna Bovino del 2013, sentenza ribaltata: 26 anni per l’ex. Le Iene News il 22 settembre 2021. Per i giudici è stato Antonio Colamonico a uccidere la fidanzata Bruna Bovino. Il corpo della ragazza di 29 anni, uccisa con venti colpi di forbici e strangolata, venne ritrovato bruciato nel suo centro estetico a Mola di Bari il 12 dicembre 2013. L’uomo era stato assolto nel primo processo di Appello, dopo la condanna in primo grado. La Cassazione ha annullato poi l’assoluzione: ora, dopo 8 anni, arriva la sentenza dell’Appello bis per questo brutale femminicidio che vi abbiamo raccontato con Nina Palmieri. Per i giudici è stato Antonio Colamonico a uccidere la fidanzata Bruna Bovino. Il corpo della ragazza di 29 anni, uccisa con venti colpi di forbici e strangolata, venne ritrovato bruciato nel suo centro estetico a Mola di Bari il 12 dicembre 2013. L’uomo era stato assolto nel primo processo di Appello, dopo la condanna in primo grado. La Cassazione ha annullato poi l’assoluzione: ora, dopo 8 anni, arriva la sentenza dell’Appello bis per questo brutale femminicidio che vi abbiamo raccontato con Nina Palmieri. Dopo 8 anni e un’assoluzione, arriva la nuova sentenza. Per i giudici dell'Appello bis, che lo condannano a 26 anni e 6 mesi, è stato Antonio Colamonico a uccidere la fidanzata di 29 anni Bruna Bovino nel suo centro estetico a Mola di Bari il 12 dicembre 2013. Il corpo di Bruna, uccisa con venti colpi di forbici e strangolata, venne ritrovato bruciato. Le fiamme sarebbero state appiccate per cancellare le prove. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato questo brutale femminicidio con Nina Palmieri nel 2019 quando Colamonico, oggi 41 anni, era stato assolto in Appello con una sentenza che aveva ribaltato quella di primo grado che nel 2015 l’aveva condannato a 25 anni. La Cassazione ha poi annullato a sua volta questa assoluzione. È partito quindi un nuovo processo che ha appena portato alla sentenza della Corte di Assise di Appello di Bari. "Mia figlia non c'è più, non tornerà più e nessuna sentenza potrà restituirmela, ma oggi dopo 8 anni finalmente è stata fatta giustizia”, dice in lacrime dopo la sentenza la madre Lilian Baldo. “Lui era l'unico, non c’erano altri indiziati, non poteva essere stato un altro e adesso lo hanno confermato i giudici. Mi batterò fino a quando sarò viva perché mia figlia abbia giustizia, per lei e per i suoi figli”. “Era un giorno freddissimo”, ricorda Lilian nella nostra inchiesta che vedete qui sopra e che ricostruisce l’omicidio. “Ci hanno chiamato dicendo che prendeva fuoco il centro estetico”. Inizia a chiamare Bruna ma il telefono è spento, si precipita sul posto: “Quando siamo arrivati dicevano che c’era un corpo bruciato”. Poco prima sembra fosse arrivato Colamonico. “Gli raccontano che il corpo che era stato trovato senza vita era quello di Bruna”, ci dice Antonio Procacci, giornalista che si è occupato del caso. “Lui si dispera, inizia a sbattere pugni per terra, contro il muro. In quel momento viene notato dagli inquirenti che lo ascoltano per diverse ore”. “Sono sposato da tre anni”, dice Colamonico agli inquirenti, a cui riferisce anche di avere una relazione extraconiugale con Bruna, italo-brasiliana, donna forte e indipendente che aveva aperto il suo centro estetico a Mola di Bari. Chi indaga analizza la scena, l’ipotesi che la morte sia stata provocata dall’incendio viene presto superata. Il movente viene inizialmente individuato in un altro centro estetico dove aveva lavorato Bruna. “Era stato chiuso per un sospetto di un giro di prostituzione”, ci spiega Procacci. Insomma, Bruna poteva essere vittima di una ritorsione. La pista però non porta a nulla e prende piede l’ipotesi di un delitto passionale. Gli esiti dell’autopsia sul corpo di Bruna sembrano andare in questa direzione. “Sotto le unghie della vittima c’era il dna di Colamonico”, prosegue il giornalista. Nella stessa direzione vanno i risultati della perizia sulle mani dell’uomo, che erano piene di graffi: “Nel bagno del centro viene trovata una traccia biologica mista di Colamonico e di Bruna”. Atre impronte vengono trovate sempre sulle mani di Colamonico. “Sono delle bruciature”, sostiene il giornalista Procacci. Secondo gli inquirenti si tratterebbe di un omicidio passionale non premeditato. Tutto sarebbe avvenuto intorno alle ore 17 e secondo le prime ricostruzioni sembra che in quell’orario nel centro ci fosse Colamonico, che invece dichiara di essere uscito alle 16.45. “Vidi una discussione un po’ animata”, ci racconta un testimone: la discussione animata tra due sagome sarebbe avvenuta proprio attorno alle 16.45. Un vicino racconta inoltre di aver sentito odore di bruciato e di essere andato al centro di Bruna. Così chiama i vigili del fuoco: sono le 18.25. Quando alle 18.46 arrivano i vigili, l’incendio è già alla fase finale. Colamonico viene arrestato e inizia il processo. Resta in carcere per 4 anni fino alla sentenza di primo grado che lo condanna a 25 anni di carcere. La Corte d’Appello ribalta la sentenza e lo assolve per non aver commesso il fatto: Colamonico è di nuovo un uomo libero. Questo capovolgimento sembra basarsi su una testimonianza giudicata inattendibile in primo grado per un errore tecnico. È quella di Luca Caragiulo, un tatuatore che ha lo studio nella strada di fronte a quello di Bruna. “L’ho incontrata ieri sera alle 18.20 e ci siamo salutati”, racconta in un’intervista Caragiulo.Ma se Bruna era viva alle 18.20, è possibile che non si sia accorta che il centro bruciava, cosa di cui i vicini dicono di essersi accorti attorno alle 18? Nina Palmieri ha cercato di parlare proprio con il tatuatore. “La prossima volta: omertà, mi faccio i cazzi miei”, dice. Questa testimonianza ribalta anche altri elementi. Secondo una consulenza di parte presa in considerazione in secondo grado, infatti, le ferite sulle mani di Colamonico vengono considerate banali ulcere e eritemi. Abbiamo sottoposto le foto delle ferite a ben sette medici legali, che ci hanno risposto all’unanimità che si tratta di ulcere da azione da calore, cioè di ustioni. I segni sull’avambraccio invece in secondo grado vengono valutati come escoriazioni. Le abbiamo fatte vedere sempre a sette medici legali, che le hanno considerate escoriazioni provocate da unghiate. “Io sono innocente, lo sono sempre stato. Di conseguenza non ho paura di nulla”, aveva detto Colamonico a Nina Palmieri dopo l’assoluzione in secondo grado. Dopo l’annullamento di quell’assoluzione da parte della Cassazione, 8 anni dopo l’omicidio, si è arrivati oggi alla sua condanna.
· Il Mistero di Serena Fasan.
Serena Fasan, farmacista trovata morta: l’autopsia esclude l’aggressione. Chiara Nava l'1/09/2021 su Notizie.it. L'autopsia sul corpo di Serena Fasan, farmacista trovata morta, esclude l'aggressione. La donna sarebbe deceduta per cause naturali. L’autopsia sul corpo di Serena Fasan, farmacista trovata morta, esclude l’aggressione. La donna sarebbe deceduta per cause naturali. Era stata trovata senza vita in casa, la sera di mercoledì 25 agosto, a Castelfranco Veneto. Serena Fasan sarebbe morta per cause naturali e non per un’aggressione come avevano inizialmente pensato. La farmacista di 37 anni è stata trovata senza vita lo scorso mercoledì 25 agosto, nella sua abitazione di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso. Secondo i primi risultati dell’autopsia, eseguita nella giornata di ieri, 31 agosto, dal medico legale Alberto Furlanetto, le cause del decesso sarebbero naturali. Il giallo sembra essere risolto, ma per risalire alla vera ragione dell’evento servirà aspettare ancora qualche giorno. L’indagine dell’anatomopatologo, in ogni caso, porta ad escludere l’intervento di terze persone. La morte sarebbe dovuta a cause naturali. Sul collo di Serena Fasan erano presenti dei segni, che all’inizio avevano fatto nascere qualche sospetto. In realtà, quei segni sembrano essere delle tracce di una manovra resuscitativa, effettuata sicuramente da una persona che non è abituata a queste pratiche mediche. Era un’ipotesi già fatta sin dall’inizio, anche se era necessario escludere un’eventuale aggressione. Esaminate dall’interno queste tracce, si sono resi conto che la pressione non ha lasciato ecchimosi, per cui è evidente che non ci sia stata nessuna aggressione nei confronti della farmacista di 37 anni, trovata morta in casa dal compagno. La Procura della Repubblica di Treviso aveva aperto un fascicolo d’indagine per omicidio volontario, senza indicare eventuali persone sospettate. I dubbi erano stati alimentati anche dal suicidio dello zio della farmacista, avvenuto nelle ore successive al ritrovamento del corpo della donna. Il gesto del parente alla fine era stato attribuito alle patologie psichiche di cui soffriva da diversi anni ed è stata esclusa la presenza dell’uomo nel luogo in cui è stata ritrovato il corpo della donna. La morte di Serena Fasan sembra essere dovuta a cause del tutto naturali.
Nicola Rotari per "corriere.it" il 26 agosto 2021. Il corpo senza vita di una farmacista di 37 anni, Serena Fasan, è stato ritrovato all’interno della sua abitazione di via Ponchini, a Castelfranco Veneto (Treviso), nel tardo pomeriggio di mercoledì 25 agosto. Il cadavere è stato rinvenuto dal compagno, Matteo Piva, proprietario di un pub della zona, quando è tornato a casa, attorno alle 18.30. L’uomo ha lanciato l’allarme chiamando il 118 ma quando medico e infermieri sono giunti sul posto non hanno potuto far nulla per salvare la vita alla 37enne. Qualche ora dopo, lo zio della donna, Simone Fasan, 55 anni, si è tolto la vita. I carabinieri stanno verificando se, oltre al dolore per la morte della nipote, altri motivi lo avessero spinto a compiere questo gesto.
Esclusa la rapina. Le cause del decesso sono per ora avvolte nel giallo. Sul corpo della donna non ci sarebbero segni di violenza e su porte e finestre dell’abitazione non ci sono tracce di effrazione, gli inquirenti escludono così l’eventuale pista della rapina. Sul posto sono intervenuti i carabinieri del nucleo investigativo di Castelfranco Veneto e il nucleo di polizia scientifica. In via Ponchini è intervenuto anche il medico legale che dovrà fugare eventuali dubbi. Il decesso potrebbe essere riconducibile, si ipotizza, a un malore ma al momento è impossibile escludere qualsiasi pista. Con ogni probabilità la procura di Treviso disporrà l’autopsia sul corpo della donna, madre di un bimbo di due anni, che dormiva nella cameretta. A pochi passi dalla salma è stato rinvenuto, sempre a terra, lo smartphone della trentasettenne, altro elemento chiave per chiarire la verità sull’episodio. Con lei anche il suo amato cane, un piccolo bulldog francese.
Il suicidio dello zio. Il giorno dopo la famiglia ha saputo che lo zio della 37enne, Simone Fasan, si era tolto la vita, gettandosi nel vuoto dal ponte del torrente Astego, al confine tra Borso e Crespano, nel territorio comunale di Pieve del Grappa. A lanciare l’allarme ai carabinieri erano stati i famigliari dell’uomo, preoccupati non riuscendo più a mettersi in contatto con lui. L’auto dell’uomo è stata rinvenuta poco distante dal ponte da una pattuglia dei militari. Per il recupero della salma, avvenuto alle 3 di notte circa, sono intervenuti i vigili del fuoco di Castelfranco Veneto e il Suem 118. A spingere l’uomo al gesto estremo potrebbe essere stato il forte choc causato dalla notizia della morte della nipote.
Castelfranco Veneto, farmacista morta in casa: poche ore dopo si suicida lo zio, la Procura indaga per omicidio. Libero Quotidiano il 27 agosto 2021. Grande mistero sulla morte della farmacista Serena Fasan, trovata morta nella sua casa a Castelfranco Veneto, mentre il figlio di due anni dormiva nella stanza accanto. A dare l'allarme è stato il suocero della 37enne, a cui la donna avrebbe dovuto portare il bimbo. Quando il compagno di Serena, Matteo Piva, è entrato in casa alle 18 e 30 non c'era giù più nulla da fare. Ha provato anche a rianimarla senza però riuscirci. Tuttavia, non è ancora chiaro come sia morta, forse ha avuto un malore. A infittire il mistero è il fatto che, poche ore dopo il ritrovamento del corpo della farmacista, lo zio della vittima, Simone Fasan, 55 anni, si sia suicidato gettandosi dal ponte del torrente Astego, a Pieve del Grappa. L'uomo aveva provato anche a impiccarsi in casa, ma il fratello Mirko era riuscito a fermarlo. Poco dopo il suicidio dal ponte. Per ora, comunque, pare non ci sia alcun collegamento tra i due eventi. In ogni caso, adesso la procura di Treviso ha aperto un fascicolo sulla morte della 37enne con l’ipotesi di reato di omicidio volontario. Al momento, però, si tratta di un fascicolo aperto come atto dovuto e senza riferimenti a possibili indiziati. Le circostanze della morte della Fasan, infatti, non sono ancora chiare: sul corpo della vittima non sono stati trovati segni di violenza, ma solo segni leggeri sul collo, lasciati probabilmente da chi ha tentato di rianimarla. I carabinieri hanno ritrovato anche il suo smartphone, che potrà essere utile per le indagini.
Valeria Lipparini per “il Messaggero” il 28 agosto 2021. Omicidio volontario. È il fascicolo, al momento senza indagati, aperto per la morte della farmacista Serena Fasan, 37 anni, trovata esanime mercoledì sera dal compagno nell'appartamento di Castelfranco Veneto, dove vivevano con il figlio di due anni. Il medico legale ha riscontrato segni sul collo della donna, che potrebbero essere compatibili con manovre di rianimazione eseguite dal compagno e dai vicini di casa. Ma potrebbero anche essere riconducibili a un tentativo di soffocamento e una risposta arriverà dall'autopsia. Elemento inquietante è il suicidio dello zio Simone Fasan, 55 anni, che si è ucciso poche ore dopo la morte di Serena. Una duplice tragedia sulle cui eventuali correlazioni stanno indagando i carabinieri, che hanno appurato gli alibi sia dello zio morto suicida, sia del compagno della donna, Matteo Piva, 37 anni, titolare del pub Ai do gatti. Lo zio, che era un artigiano decoratore, si trovava a casa con la madre, mentre il compagno era impegnato nel lavoro al pub. Per entrambi i carabinieri ne hanno già verificato l'attendibilità. Il medico legale non esclude la pista del malore che potrebbe anche essere collegato a un attacco epilettico. Una malattia di cui aveva sofferto anche la madre di Serena.
Andrea Priante per corriere.it il 28 agosto 2021. «Non credo si sia trattato d’altro che di una tragica fatalità...». Laura Racerro allarga le mani quasi a volere spingere via le ombre più cupe intorno alla morte di sua figlia e del suicidio di suo cognato. La mamma di Serena Fasan - la farmacista di 37 anni trovata morta nel suo appartamento mercoledì sera - ci viene incontro nel giardino di casa, a poca distanza dalle antiche mura di Castelfranco Veneto. Suo marito Francesco è sul divano, in salotto. «È sconvolto, stiamo aspettando che il medico venga a visitarlo...». È una famiglia che, all’improvviso, è piombata in un incubo: prima il ritrovamento del corpo della donna riverso sul pavimento; subito dopo la decisione di Simone Fasan, lo zio di Serena, di lanciarsi da un ponte sul torrente Astego, al confine tra Borso e Crespano. E ora la procura che indaga - come atto dovuto - per omicidio. Ipotesi che però la madre non prende neppure in considerazione.
Lei e suo marito che idea vi siete fatti?
«Non ho letto i giornali ma alcuni amici mi parlano di sospetti che non hanno alcun senso. Finché non faranno l’autopsia non potremo avere la certezza, però... Serena è morta per una disgrazia».
Un malore?
«Una crisi epilettica. Mio marito ne è certo e lui è un biologo che ha lavorato per quarant’anni in radiologia all’ospedale di Castelfranco, di queste cose ne capisce. È andato sul posto, mi ha detto che nostra figlia aveva i denti serrati e la schiuma che le usciva dalla bocca. Tutto fa pensare che abbia avuto un attacco di quel tipo».
Ma in passato aveva già sofferto di epilessia?
«No, era una ragazza in buona salute. Però può capitare di avere una crisi epilettica senza alcuna avvisaglia. Anch’io, alcuni anni fa, ho avuto un attacco: ero qui in giardino e fu mio marito a salvarmi riuscendo in qualche modo ad aprirmi la bocca e ad estrarmi la lingua».
Il corpo di sua figlia presentava dei lividi al collo...
«Se li è fatti da sola. Io e mio marito pensiamo che, quando è entrata in crisi, si sia portata le mani alla gola per fermare la schiuma che le usciva... E intanto si è diretta verso il telefono per chiedere aiuto: il corpo era a pochi passi dal cellulare. Se solo fosse riuscita a chiamare, magari i soccorsi avrebbero avuto il tempo di salvarla. Bastava un metro...».
Matteo, il compagno di Serena, la ricorda come una donna e una mamma straordinaria.
«Lo era. Mia figlia era altruista, gentile con tutti. E poi era estremamente intelligente: all’università era così brava che, prima ancora di finire gli studi, le offrirono un contratto di lavoro in una farmacia qui vicino. Ci ha dato tanto, per noi genitori era motivo di orgoglio. Ma in fondo lei non è morta, me lo ripeto di continuo: Serena vivrà per sempre nel nostro cuore, anche grazie al nipotino che ci ha lasciato».
Come sta il piccolo?
«Ha due anni e mezzo, quando la mamma è morta lui stava dormendo. È un bambino fantastico. Faremo in modo di aiutare Matteo: vorremmo crescerlo assieme a lui».
Alla tragedia di sua figlia si è sommata quella di suo cognato Simone. Crede non abbia retto alla notizia?
«Tenderei a escluderlo, anche se Serena voleva molto bene a suo zio. Ma il fratello di mio marito purtroppo soffriva di depressione già da alcuni anni, e recentemente aveva dovuto cambiare le medicine. La nuova cura non aveva ancora avuto il tempo di agire e quindi da qualche giorno era come assente, non era lucido e dubito potesse aver compreso ciò che era accaduto poche ore prima a sua nipote».
Le due morti così ravvicinate secondo lei sono una coincidenza?
«È ciò che penso: una tragica coincidenza. Ma a questo punto, comunque sia andata, non cambia il nostro dolore».
· Il Mistero della morte di Vito Michele Milani.
Gianluigi Nuzzi per “Specchio - la Stampa” il 19 agosto 2021. Il corpo di Vito Michele Milani, 39 anni, era sezionato in più parti, semicarbonizzato, nascosto nelle cantine dell'orrore nel palazzo di via Maria Ausiliatrice 50 a Torino. Per accedervi bisognava aprire una porta, trovata chiusa a chiave da quell'inquilina che il 25 gennaio 1998 nemmeno riconobbe lo scempio, anzi ritenne di aver intravisto delle insolite «pelli di animali» ammucchiate. Perché questo pugliese di Bitonto era arrivato nella città della Mole? Chi conosceva qui, chi lo aveva ospitato? E, soprattutto, come si interrogavano i carabinieri del Ros nelle loro prime informative, quale «nesso logico lo lega allo stabile di via Maria Ausiliatrice o ai condomini»? Chi lo aveva trascinato nella cantina degli orrori per strangolarlo e poi depezzare il corpo? Il macabro omicidio era un enigma avvolto dal mistero assoluto. La mutilazione del corpo di Vito Michele spegne una vita da fragile fantasma, da girovago invisibile tra Italia e Francia. Un'ombra difficile da tracciare, consumata nel sottoscala della prostituzione maschile, alla periferia del campo visivo dei più. Fin dai 14 anni Vito Michele aveva iniziato a scappare da casa, a risalire fino al nord, «traendo, verosimilmente, il sostentamento - sottolineavano gli inquirenti - con l'offerta di prestazioni sessuali, sia ad uomini che a donne». I familiari più volte erano andati a riprenderlo a Milano, ma il ragazzo poi puntualmente fuggiva di nuovo. Così durante il servizio militare, a Orvieto e poi a Viterbo: Milani lasciava la caserma e si eclissava. A fine 1993 era però tornato in Puglia, andando a vivere a casa dei genitori. Trascorreva le giornate senza quasi mai uscire, quelle poche volte ciondolava per le vie del paese, ammazzando i pomeriggi al circolo ricreativo di quartiere o a casa dei parroci delle chiese di zona. Con loro si confidava, svelando episodi della sua vita segreta, tra prostituzione e ambienti omosessuali che frequentava. Lì rimase fino al 5 dicembre 1997 quando senza alcun preavviso, si allontanò di nuovo, promettendo che avrebbe fatto rientro entro pochi giorni. L'ennesima menzogna di una vita celata. Nel borsone, Vito Michele infilò qualche indumento e 150mila vecchie lire, l'ultimo sussidio mensile ricevuto come soggetto affetto da disturbi psichici, prima di sparire per l'ultima volta e venir ritrovato mesi dopo nello scantinato dello scuoiamento. Una scoperta che lasciò la città non solo scossa dalla brutalità delle sevizie ma incredula che la malvagità umana possa arrivare a tanto. I giornali strillavano titoli choc sul «delitto del depezzato» ma gli inquirenti faticavano a raccogliere un primo indizio. Il corpo ritrovato prono con la lingua tra i denti, scuoiato, un braccio disarticolato, il tronco mutilato delle gambe, lo stomaco svuotato e riempito di stracci. C'era da partire da due soli punti: gli inquilini del palazzo e la prostituzione esercitata dalla vittima. Un particolare, quest' ultimo che proiettava gli investigatori in un ambiente particolarmente chiuso, diffidente, impermeabile alle indagini, con l'omosessualità ancora vissuta nel pericoloso segreto del tabù. Sul primo fronte non si raccoglieva niente: nessuno degli abitanti di quel palazzo pareva conoscere la vittima. L'unico ad averla vista accompagnarsi con un altro inquilino risultò inattendibile. Sull'altro punto, la particolarità di aver trovato i genitali e il pene del Milani sezionati e riposti in un sacchetto di plastica, a differenza di tutti gli altri resti del corpo disseminati per metri in modo casuale, induceva a ritenere che l'assassino, il torturatore avesse agito spinto da un movente di matrice sessuale. E la conferma pareva arrivare dai polsi trovati legati dietro la schiena e da un tubicino per l'aerosolterapia, presente nel sacchetto e che poteva esser servito per un gioco erotico magari finito male, segnato da supplizi inferti alla vittima. A Torino Vito Michele pareva aver vissuto da fantasma. Nessuno sembrava essersi accorto della sua esistenza e chi l'aveva fatto, evidentemente, oggi scongiurava di non essere accostato alla vittima per non solleticare quei mormorii, quel sordido chiacchiericcio che alimenta la gogna. Non lo conoscevano i negozianti di quartiere, i sacerdoti del vicino santuario, non aveva mai ricevuto assistenza medica dal 118 o negli ospedali. La foto di Milani veniva mostrata a transessuali, travestiti e omosessuali della città: dai cinema a luci rosse alle saune, dai club alle palestre. Niente, Vito Michele si confermava un'ombra, anche nel giro della prostituzione da strada. In due mesi vennero contattati di notte 59 soggetti ma nessuno di loro fu utile. L'unico sterile segno di vita era costituito da tre multe ricevute perché sprovvisto di biglietto su treni a lunga percorrenza. Carta straccia: risalivano al lontano 1992. Allora, come in un dannato gioco dell'oca, si ripartiva sempre dalla scena del crimine. Si sapeva che il corpo era stato portato e abbandonato lì tra le 21.45 del 24 gennaio e le 3.30 del 25 gennaio del1998. Il medico legale Roberto Testi, incaricato dal tribunale, sottolineò che la rimozione degli organi era avvenuta in modo grossolano, «con le tecniche che usano i macellai, manovre che dimostravano una certa manualità ma non conoscenze anatomiche». Il rituale dell'assassino si era sviluppato in tempi diversi: aveva ucciso poi aveva sezionato il corpo, soffermandosi prima sui genitali e solo in un secondo momento, sugli altri organi; quindi, aveva tentato di bruciare i resti. E qui arrivò la prima indicazione importante: con ogni probabilità l'omicidio si era consumato proprio in quelle cantine. Un dettaglio chiave, che imponeva di controllare tutti gli inquilini. Nel palazzo abitavano diverse persone dedite al più vecchio mestiere del mondo, tra prostitute albanesi e travestiti. Ed emergono particolari. Tra gli inquilini non era sfuggito il passaggio di giovani ragazzi a casa di un sarto ormai in pensione, tale Giuseppe Gillone, indicato dai vicini come omosessuale. «Mentre era nelle scale - racconta uno di loro - aveva notato Gillone parlare con un uomo dai capelli brizzolati, il quale gli disse: "Non ti preoccupare, te lo porto io un ragazzo. Vedrai che questo ci sta"». «In più occasioni, quantomeno una volta a settimana - chiosava un altro - Gillone riceveva la visita di due uomini, che si trattenevano abitualmente in casa circa un'ora. Il giovane dell'apparente età di 25 anni e di corporatura esile aveva un evidente aspetto e comportamento da omosessuale». Questi dettagli fanno crescere l'attenzione sull'ex sarto: «Il giorno del rinvenimento del cadavere, Gillone ai militari che lo hanno escusso è apparso gravemente malato e bisognevole di continue cure, come dimostravano i numerosi medicinali, le diverse apparecchiature mediche presenti nell'alloggio e le dichiarazioni dei medici curanti». Gillone offre un alibi granitico: «Da qualche giorno non esco di casa e ieri sera è venuta a trovarmi la dottoressa che mi segue nelle cure prescritte dall'ospedale. Nella circostanza lei mi ha applicato un'apparecchiatura che serve a controllare e registrare il funzionamento del cuore. Quest' ultima è stata da lei disinserita intorno alle tre di questa mattina». Ma chi è questo ex sarto? Da una parte nega con forza la propria omosessualità, dall'altra frequenta cinema porno, pubblica annunci erotici. Niente di indiziario se non fosse la particolare matrice del delitto e l'iperattività dell'anziano signore, dopo il ritrovamento. Due giorni dopo l'omicidio chiede espressamente all'amministratore dello stabile la disinfezione della cantina. In realtà, si era già provveduto a far ripulire il corridoio comune del piano interrato ma a Gillone non basta, vuole l'intervento di una ditta specializzata. E quando l'ottiene, si capisce perché tanta insistenza. Quando l'operaio scende la scala degli orrori si ritrova ad aspettarlo proprio Gillone. A un certo punto, a sorpresa, l'ex sarto lo prega di igienizzare anche la sua, la numero 10. Come se non bastasse, dopo un paio di giorni, il pensionato riesce a far venire persino il parroco per una benedizione dei locali. I sospetti si rafforzano quando viene sentita la dottoressa che Gillone aveva indicato come il medico che lo ha visitato proprio quella sera. Ma lei lo smentisce: non era andata dall'anziano paziente in visita domiciliare la sera dell'omicidio né gli aveva spento l'apparecchio medico la mattina successiva. Non solo. Dal telefono intercettato del pensionato arriva la conferma che conosceva la vittima, visto che in una conversazione si fa riferimento a un ricovero di Vito Michele in un ospedale in Francia, particolare vero ma che conoscevano solo i familiari più stretti. A questo punto i carabinieri perquisiscono casa di Gillone e trovano un apparecchio per l'aerosol e l'atlante di anatomia umana con infilato un segnalibro sulla pagina dei genitali maschili con le indicazioni su come procedere per evirarli. Poi, la cantina 10. Qui il luminol evidenzia tracce del dna della vittima vicino a un tombino. Il pensionato verrà condannato a vent' anni in primo grado, ridotti a 14 in appello: solo così chi ha vissuto da fantasma avrà forse pace.
· Il Mistero della morte di Vittorio Carità.
Anna Paola Merone per il “Corriere della Sera” il 31 luglio 2021. Sulla morte di Vittorio Carità, a soli 59 anni, restano in sospeso molte domande. Niente è davvero come sembra in questa sua improvvisa fine e di certo c'è solo che quando i Vigili del fuoco hanno sfondato la porta della sua casa lo hanno trovato senza vita con molto sangue intorno. La morte sarebbe stata determinata da un arresto cardiaco, ma accanto al corpo del dandy napoletano sono state trovate anche tracce di sostanze stupefacenti. Le ipotesi investigative restano tante - anche se l'idea di una aggressione sembrerebbe accantonata - e nei prossimi giorni saranno eseguiti rilievi nella casa e sul suo cellulare, posti sotto sequestro. La Procura ha disposto intanto per oggi l'autopsia e l'esame tossicologico. Una scomparsa ammantata dunque di mistero, come i pensieri più profondi di un personaggio complesso che ha trascorso parte della sua giovinezza a San Patrignano. Era al centralino, per la sua capacità comunicativa, e con Vincenzo Muccioli aveva un rapporto aspro. Troppo sensibile lui, troppo duro il patron della comunità dove Vittorio era arrivato da un nobile appartamento della collina di Posillipo con il suo guardaroba di abiti impeccabili, le sue sciarpe di seta, i gioielli e una fragilità palpabile. Era un uomo bellissimo, cui piaceva cedere a vezzi femminili: lo smalto nero Chanel sulle unghie, a enfatizzare le mani lunghe e nervose, e i tacchi alti sotto lo smoking di sartoria. Vittorio si muoveva fra i quartieri più chic di Napoli con nonchalance. Ma era a suo agio anche a Scampia e alla Sanità. E ai Quartieri Spagnoli, dove più di recente si era trasferito, richiamando simpatie e sguardi curiosi. L'eleganza insolente e decisa, lo sguardo ironico dietro gli occhiali: aveva una immagine da dandy sfacciato e capriccioso, era l'anima delle feste più belle. Ma dentro aveva demoni che lo divoravano: un passato di dipendenze affrontate in comunità per quasi cinque anni, sopraffazioni, violenze, battaglie per affermarsi. A Napoli, quando era ragazzino, era difficilissimo rivendicare e vivere una sessualità personale e non omologata. E le cose nel tempo non erano cambiate. Era diventato una bandiera dei movimenti gay pride ma era rimasto se stesso, avvolto in un grumo di solida infelicità. Che cercava di stemperare fra albe, tramonti, un lungo percorso di analisi e la pratica del buddismo. Vittorio amava Stromboli. Sulla spiaggia nera Paolo Sorrentino lo aveva notato e avrebbe voluto coinvolgerlo nel cast de La grande bellezza. Ma lui, paralizzato dalla sua fragilità, a Roma aveva preferito non presentarsi. Abbigliato come una diva d'altri tempi o un impeccabile gentiluomo, si concedeva giornate in spiaggia e serate fra party e locali. Era presentissimo anche sui social e in ogni luogo, reale o virtuale, lasciava una impronta forte. Nei suoi commenti al vetriolo, o entusiastici, mescolava italiano, dialetto e un turpiloquio, declinato dalla sua voce roca, che era uno schiaffo e una carezza insieme. Su Facebook raccontava in post irriverenti e graffianti il male di vivere, le sue avventure, i brividi di un erotismo mediterraneo e trasversale. Era una bandiera che sventolava anche per chi non aveva il suo coraggio. Un riferimento oltre le generazioni e gli stereotipi. «Io son restato un Uomo buono - scriveva su Facebook - e non ho vergogna di dire che piango perché ancora credo nell'Amore... anche se da giovane mi han fatto male, mi han stuprato, brutalizzato e venduto... Io resto un Uomo, aggrappato a quel che voglio Essere, a prescindere da quello che fanno gli altri».
Anna Paola Merone per corriere.it il 30 luglio 2021. Sulla morte di Vittorio Carità, a soli 59 anni, restano in sospeso molte domande. Si indaga sulla sua improvvisa fine, che potrebbe essere stata determinata da un arresto cardiaco. Oppure da una aggressione. Le ipotesi investigative sono molteplici. Di certo c’è solo che quando i vigili del fuoco hanno sfondato la porta della sua casa — allertati dai suoi amici ai quali non rispondeva al telefono — lo hanno trovato riverso in un lago di sangue. Il suo corpo è stato posto sotto sequestro — la Procura ha disposto l’autopsia, non escludendo alcuna pista — e la sua scomparsa per ora resta un mistero, come i pensieri più profondi di un personaggio a tutto tondo.
Il personaggio. Vittorio Carità, conosciuto anche da chi non lo conosceva davvero, si muoveva fra Chiaia e Posillipo con indolente nonchalance. Ma era a suo agio era anche a Scampia e alla Sanità. E ai Quartieri Spagnoli, dove più di recente si era trasferito a vivere. Richiamando attenzioni, simpatie e sguardi curiosi. L’eleganza insolente e decisa. Lo sguardo ironico dietro gli occhiali. Talvolta lo smalto nero Chanel sulle unghie, ad enfatizzare le mani lunghe e nervose. O i tacchi alti sotto lo smoking di sartoria. Raccontare Vittorio significa fare un viaggio fra forma e sostanza. Fra la sua immagine di dandy sfacciato e capriccioso, anima delle feste più belle. E scendere in fondo al suo universo interiore popolato da demoni che aveva affrontato uno per uno. A partire da un passato fatto di lunghe dipendenze, sopraffazioni e di battaglie per affermarsi su se stesso. A Napoli, quando era ragazzino, era difficilissimo rivendicare e vivere una sessualità personale e non omologata. E, dopotutto, anche nel 2021 la sfida richiede grandi energie.
I suoi demoni. Era rimasto sempre se stesso, oltre tutti, avvolto in un grumo di solida infelicità. Che cercava di stemperare fra albe, tramonti, un lungo percorso di analisi e la pratica del buddismo. Vittorio amava Stromboli — dove Paolo Sorrentino lo aveva notato e avrebbe voluto coinvolgerlo nel cast de «La grande bellezza» — e il mare. Quando poteva, abbigliato come una diva d’altri tempi, si concedeva mezza giornata in spiaggia con qualcuna delle sue molte amiche, che lo piangono insieme con gli amici e i moltissimi conoscenti che lo hanno incrociato fra feste, locali o sui social. In ogni luogo, reale o virtuale, lasciava la sua impronta forte. I suoi commenti al vetriolo, o entusiastici, passavano attraverso un linguaggio diretto. Mescolava italiano, dialetto e un turpiloquio, declinato dalla sua voce roca, che era uno schiaffo e una carezza insieme.
I social. Vittorio negli ultimi anni aveva scelto i social per raccontarsi attraverso post irriverenti, graffianti. Narrava il suo male di vivere, le sue avventure, i brividi di un erotismo mediterraneo e trasversale. Era una bandiera che garriva anche per quelli che non avevano il suo coraggio. Un riferimento oltre le generazioni e gli stereotipi. Il suo male di vivere e le sue battaglie erano a disposizione di chi voleva imparare dalle sue esperienze. «Io son restato un Uomo buono e non ho vergogna di dire che piango, commosso a bestia, perché ancora credo nell’Amore... anche se a me, da giovane mi han fatto male, mi han stuprato, brutalizzato e venduto, anche se ho avuto una famiglia di m..., che ancora tenta di ferirmi... Io resto un Uomo, aggrappato a quel che voglio Essere, a prescindere da quello che fanno gli altri». Così scriveva Vittorio su Facebook. E qualcuno propone di riunire tutti i suoi scritti, i suoi versi, in un volume. E di pubblicare un suo manoscritto inedito.
· Il Mistero della morte di Massimo Melluso.
Lettera della mamma a Mattarella. Morte Massimo Melluso, i familiari: “Fate l’autopsia, non si è ucciso: troppi i punti oscuri”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 31 Luglio 2021. “Vogliamo sapere come è morto nostro figlio, solo questo”. E’ l’appello dei familiari di Massimo Melluso (che dagli amici si faceva chiamare Alessio “perché gli piaceva di più questo secondo nome”), il 32enne napoletano trovato morto nella mattinata di sabato 26 giugno in un capanno di Ventimiglia di Sicilia, in provincia di Palermo. E’ stato trovato impiccato a una trave dal suo compagno, con il quale stava da sette anni, buona parte dei quali vissuti a Roma ad eccezione degli ultimi 13 mesi trascorsi in Sicilia. Maria Vincenzino, la mamma del 32enne, e i suoi figli (Annamaria, Roberta e Andrea) hanno chiesto alla Procura di Termini Imerese che venga riesumato il corpo e fatta l‘autopsia per far luce sulle cause del decesso. “Amava la vita, era felice: una persona così può arrivare ad ammazzarsi?” chiedono i suoi cari che quando sono arrivati nel comune palermitano, lo scorso 27 giugno, hanno trovato il figlio direttamente in una bara dopo essere stati avvertiti del decesso soltanto nel pomeriggio (“dopo le 16”) dai carabinieri e non dal compagno o dalla sua famiglia. “E’ stato straziante, non ho potuto nemmeno vestirlo” racconta mamma Maria. Nella giornata di ieri, venerdì 30 luglio, a oltre un mese di distanza dall’esposto presentato in Procura, familiari e amici di Massimo si sono ritrovati in piazza Carlo III a Napoli per un flash mob. Troppi i punti oscuri: dal cellulare di Massimo utilizzato da ignoti dopo il decesso (forse per cancellare messaggio, foto o altro materiale utile alle indagini) agli accertamenti iniziali considerati superficiali da parte della famiglia, alle ultime ore di vita del 32enne che era andato con le fiale di insulina nel capannone dove accudiva animali per assistere alcuni coniglietti diabetici. “Possibile che non abbia riportato alcuna ferita, escoriazione, pur cadendo per diversi metri dopo che il compagno ha tagliato la fune con il quale si sarebbe impiccato Massimo?” chiedono i suoi cari. In una lettera rivolta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la mamma del 32enne ha raccontato tutta la sua disperazione unendola a varie perplessità. “La procura di Ventimiglia – si legge – lo ha dichiarato un suicidio senza fare un’autopsia. La sfuggente analisi al corpo esanime di Massimo è stata la sola arma concessa alla memoria di mio figlio. Mi rivolgo a lei presidente perché è la voce di tutti noi e grazie a lei il mio grido di dolore potrà arrivare anche alla Procura di Termini Imerese. Chiedo un’istruttoria adeguata, chiedo un’indagine che sappia rispettare i dettami di giustizia e verità. Chiedo la riapertura che sappia lenire la sofferenza di chi non riesce e non vuole darsi pace, chiedo l’intervento di un anatomopatologo, perché ritengo che per dichiarare un suicidio prima si debba fare un’accurata autopsia. Signor presidente mio figlio non si è suicidato! Non si sarebbe mai spinto ad un gesto cosi estremo, non di sua volontà. Amava la vita, il suo continuo sguardo verso il futuro, il sorriso che ad ogni istante sapeva riservare a sé e a chi gli fosse accanto, l’amore che nutriva verso i suoi animali e per il suo compagno con il quale conviveva da 7 anni sono il fondamento e il sostegno di ogni mia certezza. Presidente, mio figlio non si è ucciso! Massimo conduceva una vita serena anche in ambito lavorativo, aveva un allevamento di conigli ariete nano: “Gli amici di Matilde“, che andava a gonfie vele, e collezionava e restaurava Barbie che vendeva tramite il suo sito online Barbie new life. Ecco, Presidente, come ha potuto capire da ciò che le ho scritto, mio figlio era un ragazzo sereno, e non avrebbe avuto motivi per togliersi la vita. Spero di avere presto una risposta. E spero nel suo aiuto… saluti…”.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
· Il Mistero di Francesco Pantaleo.
S. G. per "Il Messaggero" il 4 agosto 2021. Il primo esame non risolve il giallo. Non ci sono altre ferite sul corpo di Francesco Pantaleo, lo studente universitario di ingegneria informatica di 23 anni, originario di Marsala (Trapani), trovato carbonizzato nelle campagne alle porte di Pisa, ma per sapere se a ucciderlo siano state le fiamme, bisognerà attendere ancora. Intanto, sarà un team di quattro esperti, incaricati dalla Procura di Pisa a rispondere ad altre domande sulla morte del ragazzo. Gli investigatori dell'Arma, diretti dal procuratore capo Alessandro Crini, che ha ipotizzato il reato di istigazione al suicidio per compiere tutte le verifiche, stanno battendo tutte le piste, compresa quella dell'omicidio. L'esame autoptico, sul cadavere «gravemente alterato» dalla combustione, è iniziato ieri, ma non sarà un'operazione semplice e richiederà forse un paio di giorni prima di essere conclusa. Per i risultati complessivi ci vorrà poi più di un mese, dato che la Procura ha posto diversi quesiti ai periti e ha chiesto di compiere «accertamenti a 360 gradi». Saranno prelevati tessuti per eseguire anche esami di laboratorio di natura chimica e tossicologica. La procura ha incaricato quattro periti di eseguire indagini specialistiche sul web e sui dispositivi elettronici in possesso di Pantaleo. Un consulente tecnico ha ricevuto l'incarico di eseguire la copia forense dei dati contenuti nel personal computer portatile (dal quale il 23enne ha cancellato tutti i file) e nello smartphone. Si tratta dei dispositivi mobili che lo studente ha lasciato sopra la scrivania nella stanza che occupava nell'appartamento in affitto, sequestrata fin dal momento della denuncia della scomparsa da parte dei genitori. Il perito dovrà cercare di recuperare anche le chat di un videogioco di combattimento con il quale Francesco giocava online molto spesso e che è stato rimosso dal computer. I carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale stanno, inoltre, esaminando anche le immagini registrate da decine di telecamere di videosorveglianza, pubbliche e private, per ricostruire le ultime ore di vita del ragazzo. Gli investigatori sono al lavoro per chiarire altri aspetti della scomparsa di Pantaleo: Francesco era uscito da casa lasciando i suoi occhiali in camera, nonostante fosse miope. Inoltre non sono stati ritrovati vicino al corpo il suo zaino e la copia delle chiavi dell'appartamento. A suffragare l'ipotesi del suicidio c'è la bugia raccontata ai genitori sul giorno della laurea, annunciata per il 27 luglio. Un traguardo che invece era ancora lontano, visto che lo studente, per raggiungerlo, avrebbe dovuto sostenere ancora alcuni esami fondamentali. Contro l'ipotesi che si sia dato fuoco sembra contraddetta dal fatto che accanto al corpo non sia stata trovata la tanica, né un contenitore che potesse contenere liquido infiammabile. E neppure un accendino.
Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 4 agosto 2021. L'autopsia è iniziata ieri. Non è un esame semplice su quel corpo carbonizzato perché le fiamme hanno cancellato indizi e prove. Ma non ci sono alternative: solo da quella sala dell'istituto di medicina legale dell'ospedale Santa Chiara di Pisa potrà arrivare la verità sulla morte di Francesco Pantaleo, 23 anni, siciliano di Marsala, studente di Ingegneria informatica. «Ci vorranno giorni prima di avere risposte certe», ha spiegato ieri a magistrati e investigatori l'anatomopatologo. Anche se dai primi e superficiali accertamenti non sembra che il corpo presenti ferite. La risonanza magnetica non ha evidenziato violenze, così come sul terreno dove è stato trovato il corpo non ci sono segni di colluttazione o trascinamento e neppure impronte, ma la procura di Pisa, diretta da Alessandro Crini, non vuole tralasciare alcun particolare e, con l'ipotesi di istigazione al suicidio, ha dato incarico a un team di sei periti di accertare il più piccolo degli indizi. Ne fanno parte un medico legale, una genetista, un chimico, un tossicologo e due informatici specializzati a trovare le tracce che Pantaleo potrebbe avere disseminato sul web attraverso smartphone e computer. Soprattutto nelle chat, anche quelle ludiche (per lo più giochi di guerra) che durante il lockdown aveva iniziato a frequentare con assiduità. Era rimasto solo durante la pandemia, a differenza di molti studenti pendolari che avevano deciso di tornare in famiglia e seguire le lezioni in videoconferenza, così come gli esami. Lui, invece, aveva scelto la sua camera in affitto dell'appartamento condiviso con altri studenti. Agli investigatori i ragazzi hanno raccontato di non aver notato niente di strano nel comportamento del loro compagno di studi. «Era riservato, come sempre, molto gentile ma non sembrava turbato», hanno spiegato. La madre ultimamente lo aveva sentito stanco e stressato. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire, anche da un punto di vista psicologico, i quattro anni vissuti da Pantaleo a Pisa. In Toscana era arrivato da primo della classe, un diploma con il massimo dei voti al liceo di Marsala. E a Ingegneria, come accade alla stragrande maggioranza degli studenti, avrebbe iniziato ad avere le prime difficoltà. Gli esami li aveva dati ma non con i voti che sperava e poi mancavano all'appello alcune prove obbligatorie, indispensabili per laurearsi. Gli inquirenti sono tornati sul terreno dove è stato trovato il corpo carbonizzato dello studente per compiere alcuni prelievi chimici. Si cercano frammenti del contenitore di liquido infiammabile che avrebbe originato il rogo, ma anche oggetti di proprietà della vittima come lo zaino e le scarpe che probabilmente sono andati distrutti nell'incendio. I carabinieri stanno inoltre esaminando le immagini registrate da una ventina di telecamere di videosorveglianza.
Marco Gasperetti per il "Corriere della Sera" il 2 agosto 2021. Perché è morto Francesco Pantaleo, 23 anni, siciliano, studente di Ingegneria informatica all'università di Pisa? Dopo otto giorni di indagini la domanda resta ancora senza una risposta. Ci sono gli indizi, tanti, ma nessuno di essi riesce a dare una spiegazione su quella fine orribile. Il corpo del giovane è stato trovato carbonizzato in un campo alla periferia di San Giuliano Terme, comune dell'hinterland pisano. E nessuna traccia è stata trovata che possa fornire le prove di un delitto. Sui resti di Pantaleo c'è un taglio all'altezza del collo ma anch'esso non è una prova perché, come spiegano gli investigatori, potrebbe essere stato causato dal cedimento dei tessuti del corpo durante la combustione. In attesa dell'autopsia di domani (decisiva per stabilire le cause della morte) una risonanza magnetica ha poi escluso ferite o segni di colluttazione. Sul luogo dove è stato trovato il cadavere, infine, non ci sono tracce di auto o altri mezzi. E soprattutto non ci sono inneschi, ma solo i segni lasciati dalle fiamme spinte dal vento e dalla pioggia. Nelle ultime ore i carabinieri stanno analizzando un altro particolare: i cani molecolari hanno fiutato la presenza dello studente al binario 3 della minuscola stazione di San Rossore dove transitano pochi treni. Perché Francesco era in quel luogo? Quando lo ha visitato? Doveva incontrarsi con qualcuno? La pista più accreditata, secondo gli inquirenti, per ora resta però quella del suicidio, ma anche in questo caso i dubbi sono molti. S'ipotizzano difficoltà che Francesco avrebbe incontrato nel suo percorso accademico che avrebbe nascosto alla famiglia, anche se i carabinieri escludono che la vittima fosse «drammaticamente fuori corso». Di esami ne aveva sostenuti e anche con buon profitto. Ma una cosa è certa: all'università di Pisa ci sono professori che quello studente non hanno mai visto ai loro esami. E non erano prove qualsiasi, di quelle che si inseriscono nel programma di studio in modo facoltativo. Erano esami fondamentali, indispensabili per conseguire la laurea di primo livello, la così detta triennale, in Ingegneria Informatica, uno dei corsi più prestigiosi d'Italia ma anche tra i più difficili, con docenti esigenti e spesso frequentati da diplomati con buoni voti di tutta Italia. Ad almeno due o tre di queste prove Francesco Pantaleo non si è presentato. Nulla di grave ma forse un motivo di turbamento per questo bravo ragazzo, intelligente e volenteroso, che alla famiglia aveva detto di aver fissato la data della discussione della tesi. Francesco sabato 24 luglio è uscito dall'appartamento che condivideva con altri studenti alle 10.30. Le telecamere di sicurezza lo hanno ripreso da solo mentre camminava per 5 chilometri e 400 metri verso le campagne di San Giuliano. A casa ha lasciato soldi, documenti, telefonino, e, nonostante la miopia, anche gli occhiali da vista. Prima di uscire ha cancellato la cronologia di navigazione del computer e alcuni file. Non si trovano lo zaino e un mazzo di chiavi. Il rogo ha distrutto ogni cosa nel raggio di tre metri e ha completamente carbonizzato il corpo dello studente. C'è un particolare al quale gli inquirenti cercano di dare una spiegazione: Francesco, durante il lockdown, aveva deciso di rimanere a Pisa e non era tornato nella sua città come la stragrande maggioranza degli studenti pendolari dell'università toscana. Nascondeva qualcosa?
Riccardo Lo Verso per il "Corriere della Sera" il 2 agosto 2021. «Ci vediamo presto», aveva detto Francesco Pantaleo agli amici di Marsala. La mamma, invece, aveva percepito dal tono della voce che il figlio fosse «stanco e nervoso». Si erano sentiti il pomeriggio prima che il giovane uscisse dalla casa dove viveva a Pisa per non farvi più ritorno. Franca Barresi, così si chiama la madre del giovane siciliano trovato morto, risponde al telefono con un filo di voce. Non ha la forza di aggiungere altro alla frase che assieme al marito, Tonino Pantaleo, ha condiviso sui social: «Sei stato, sei e sarai sempre il nostro angelo». Francesco era iscritto alla facoltà di Ingegneria informatica. Si era trasferito a Pisa quattro anni fa, subito dopo avere conseguito il diploma al liceo scientifico Pietro Ruggieri di Marsala. Ad amici e parenti aveva detto che attendeva l'esito dell'ultimo esame. Poi sarebbe rientrato in Sicilia per le vacanze, in attesa della discussione finale della tesi. È stata la stessa madre, nei giorni scorsi, a fare riferimento ad una realtà diversa con esami ancora non superati e intoppi nel percorso universitario tenuti nascosti. Mamma Franca nulla sapeva, lo avrebbe appreso dagli investigatori toscani: «Mi hanno accennato che il problema è legato all'Università». Nei giorni scorsi aveva aggiunto di avere provato a capire, in quell'ultima telefonata, se c'era qualcosa che turbasse il figlio. Non era emerso alcun problema in particolare, ma solo l'ansia per il risultato dell'ultimo esame. Lo studente ventitreenne non si sarebbe confidato neppure con gli amici più cari, ai quali aveva soltanto manifestato la voglia di rivedersi presto. Ecco perché sono tutti increduli e sgomenti per la sorte toccata a «un bravissimo ragazzo, sempre allegro e disponibile». «Chissà cosa è accaduto, si chiedono», perché nessuno crede all'ipotesi del suicidio. Francesco era un ragazzo riservato. Non era fidanzato e non amava i social, tanto che le uniche fotografie che girano in rete le avevano postate i genitori. Come quella, scattata un anno e mezzo fa e pubblicata su Instagram, che lo ritraeva accanto alla sorella: «Ci voleva il suo 110 e lode per farmi postare una foto dopo sei mesi», si leggeva nel post. Di sacrifici il papà, dipendente di un albergo, e la madre, infermiera, ne hanno fatto parecchi per fare studiare i figli. Ed erano arrivate sempre soddisfazioni. «Ci sentiamo più soli - dice Fiorella Florio, la dirigente del Liceo dove Francesco si è diplomato -, chi lo ha visto crescere sa che era così pulito nell'animo. Un ragazzo in piena salute, nel fiore degli anni, il suo è un progetto di vita stroncato. Aveva dei valori sani, un ragazzo bellissimo da ogni punto di vista». Di Francesco la preside ricorda che «a scuola era uno dei più bravi, eravamo certi che avrebbe fatto una carriera brillante. Era un ragazzo molto integrato, si sentiva sempre con i suoi vecchi compagni di studi. Aveva detto loro che sarebbe tornato presto in Sicilia, fra pochi giorni. Siamo vicini alla famiglia e a tutti coloro che lo hanno amato e che hanno sperato, come noi, in un epilogo diverso». «Non fate troppi pettegolezzi - aggiunge in un post il professore Vincenzo Figlioli, uno dei docenti del liceo, ricordando le parole scritte da Cesare Pavese prima di togliersi la vita - a prescindere da come sono andati i fatti, è un invito che tutti noi dovremmo accogliere attendendo con fiducia che le indagini restituiscano un quadro veritiero sui fatti, comunque siano andati». A Marsala si attende il ritorno della salma per l'ultimo saluto. Il sindaco Massimo Grillo proclamerà il lutto cittadino. «Chiederemo all'intera comunità di fermarsi il giorno del funerale - dice il primo cittadino - per questo dolore che colpisce i familiari e noi tutti».
Il giallo della finta data della seduta di laurea. La storia di Francesco Pantaleo, lo studente trovato carbonizzato: gli mancavano gli esami fondamentali. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Agosto 2021. Prima la sua scomparsa nel nulla, poi il drammatico ritrovamento del suo corpo carbonizzato in un campo nella periferia di San Giuliano Terme vicino Pisa. E ancora otto giorni dopo quel ritrovamento le domande sono tante ma le risposte poche- Cosa è successo a Francesco Pantaleo, siciliano, studente 23enne di ingegneria a Pisa? Chi ha voluto quella orribile fine? Lui stesso o qualcun altro? Per martedì sono attesi i risultati dell’autopsia che potrà forse chiarire qualche altro dubbio. Per il momento non c’è nessuna traccia che possa spingere gli investigatori a propendere per l’omicidio. La pista più accreditata resta quella del suicidio. Sul corpo del giovane è stato trovato un taglio all’altezza del collo ma per gli investigatori non è una prova di violenza subita: potrebbe essere stato causato dal cedimento dei tessuti del corpo durante la combustione. Una risonanza ha inoltre già escluso ferite o segni di colluttazione. Sul luogo del ritrovamento del cadavere non ci sono tracce di auto o altri mezzi. Ma soprattutto non sono stati trovati inneschi come in un primo tempo si era detto. Restano solo i segni lasciati dalle fiamme spinte dal vento e dalla pioggia. Poi dalle indagini è emerso un altro particolare: i cani molecolari hanno fiutato la presenza di Francesco al binario 3 della stazione di San Rossore dove transitavano pochissimi treni. Perché era lì? Doveva incontrare qualcuno? A catturare l’attenzione degli investigatori sono quegli esami mai fatti da Francesco che invece alla famiglia aveva detto di doversi laureare a luglio. Ma Francesco non aveva mai finito gli esami. Non era “drammaticamente fuori corso” ma gli mancavano gli esami fondamentali. Quelli più difficili, che in una Facoltà come quella di ingegneria a Pisa potevano fare la differenza. Ma così tanto da portare il giovane a una simile e cruenta decisione estrema? Francesco sabato 24 luglio è uscito dall’appartamento che condivideva con altri studenti alle 10.30. Le telecamere di sicurezza lo hanno ripreso da solo mentre camminava per 5 chilometri e 400 metri verso le campagne di San Giuliano. A casa ha lasciato soldi, documenti, telefonino, e, nonostante la miopia, anche gli occhiali da vista. Prima di uscire ha cancellato la cronologia di navigazione del computer e alcuni file. Non si trovano lo zaino e un mazzo di chiavi. Il rogo ha distrutto ogni cosa nel raggio di tre metri e ha completamente carbonizzato il corpo dello studente. C’è un ultimo dettaglio a cui gli investigatori stanno cercando di dare una risposta: durante il lockdown Francesco aveva deciso di rimanere a Pisa e di non tornare a casa dai suoi come hanno fatto tanti altri studenti. Aveva forse qualcosa da nascondere?
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Le indagini sullo studente universitario. Francesco Pantaleo, i misteri sulla morte dello studente: il giallo del taglio alla gola e del doppio innesco. Fabio Calcagni su Il Riformista l'1 Agosto 2021. Tutto farebbe pensare ad un gesto volontario, ma col passare delle ore aumentano i dubbi sulla tragica morte di Francesco Pantaleo, studente universitario di Marsala (Trapani) di 23 anni scomparso lo scorso 24 luglio e trovato morto carbonizzato domenica 25 luglio in un campo a San Giuliano Terme, alle porte di Pisa, a pochi chilometri dall’abitazione dove viveva con due coinquilini. Al momento infatti gli inquirenti e i carabinieri del Nucleo investigativo delegati all’indagine non scartano alcuna ipotesi, dal suicidio alla morte violenta, anche se di fatto due tesi opposte. Studente di ingegneria informatica da 4 anni, ai genitori aveva raccontato che il 27 luglio si sarebbe laureato. Un appello di laurea in cui però non compariva il suo nome: probabilmente il giovane aveva mentito, non raccontando ai familiari degli ‘inciampi’ nel suo percorso di studi. Francesco a casa prima di scomparire nel nulla aveva lasciato anche il computer nuovo, sul quale lavorava da tre mesi, era ripulito, senza nemmeno un file. E avrebbe anche tentato di cancellare il sistema di geolocalizzazione del cellulare regalatogli dal padre, come risulta da una mail. L’ultimo contatto con la famiglia, per telefono, risale a venerdì 23 luglio. Sembrava sereno, ha assicurato che andava tutto bene e che sarebbe uscito per andare a correre. Ma altri punti della vicenda spingono in altre direzioni, a partire da una lacerazione sospetta alla gola, su cui dovrà fare luce l’autopsia prevista tra lunedì e martedì. Una lacerazione che però potrebbe anche essere stata prodotta dalle fiamme. Resta invece un mistero il mancato ritrovamento di taniche o bottiglie per provocare l’incendio, così come le due tracce di innesco dell’incendio trovate sul luogo dove Francesco è morto, che sembrerebbero suggerire un primo tentativo di appiccare il fuoco andato a vuoto. “Indaghiamo sia sull’ipotesi dell’omicidio che sul suicidio — aveva riferito Giovanni Mennella, comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Pisa al Corriere della Sera—. L’unica cosa certa sino ad oggi è che non abbiamo elementi per individuare eventuali responsabili. Non sono state trovate impronte, non ci sono indizi o testimonianze. Non ci sono auto o scooter abbandonati ma neppure contenitori di benzina. Solo l’esame autoptico ci potrà dare qualche verità”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Valeria Arnaldi per “Il Messaggero” l'1 agosto 2021. «Siamo sotto choc, disperati per quello che è successo, non vogliamo parlare con nessuno. Lo abbiamo fatto quando erano in corso le ricerche e c'erano speranze, ma adesso non ce la sentiamo proprio». È dolore misto a incredulità a spezzare le voci dei coinquilini di Francesco Pantaleo, il ventitreenne originario di Marsala, studente all'università di Pisa, il cui corpo è stato ritrovato carbonizzato, il 25 luglio, in un campo a San Giuliano Terme e identificato grazie alla prova del Dna, il 30, dopo giorni di ricerche per la scomparsa, denunciata dai genitori. «Mio figlio Francesco non è più con noi, adesso è tra gli angeli. Grazie a tutti quelli che mi sono stati vicino», ha scritto su Facebook il padre Tonino, che aveva lanciato appelli per cercare informazioni e pure per convincere il figlio a tornare a casa. Poi, la drammatica scoperta. «Sei stato, sei e sarai sempre il nostro angelo» è la didascalia scelta dal padre per un ritratto di Francesco bambino, sorridente tra immagini disneyane. La stessa ripubblicata dalla madre Franca. Ora è il tempo del silenzio, delle lacrime, dei messaggi di cordoglio, che a centinaia scritti da amici e sconosciuti che hanno seguito la vicenda sui giornali affollano le bacheche dei familiari. Ed è il tempo delle indagini. La pista prevalente seguita dagli investigatori sarebbe quella del suicidio, ma non si esclude l'omicidio. Sarà l'autopsia, disposta dalla Procura di Pisa, a chiarire le cause del decesso. Molti ancora i punti oscuri. Il corpo carbonizzato era stato ritrovato sabato 24, da una 17enne che stava portando a spasso il cane, inizialmente gli inquirenti avevano pensato fosse di un africano. La Procura di Pisa, con una nota del procuratore Alessandro Crini, ha però specificato che l'ipotesi che fosse del ventitreenne era stata avanzata già lunedì scorso, perché coincidevano «l'altezza, un metro e 80 circa, e la carnagione chiara prima dell'effetto delle fiamme». E per questo, poche ore dopo la denuncia di scomparsa, ai genitori, intanto giunti in Toscana, sarebbero stati prelevati campioni biologici per «comparazioni genetiche, in particolare con il Dna materno». Se l'identità non è più un mistero, lo sono ancora le circostanze della morte. Alla sparizione di Francesco, i suoi familiari hanno pensato che la fuga potesse essere nata dal mancato superamento di alcuni esami e dal timore del figlio di dover dire che non si sarebbe potuto laureare nella sessione prevista. Stando alle sue affermazioni, avrebbe dovuto farlo il 27 luglio scorso ma il suo nome non era tra quelli di quanti avrebbero dovuto discutere la tesi. Si indaga, quindi, per scoprire se in quei mancati esami possa celarsi il movente per un suicidio. Quando è uscito l'ultima volta da casa a Pisa, il giovane ha lasciato dietro di sé i suoi effetti personali, a partire dal cellulare, disattivato il dispositivo di geolocalizzazione. Anche portafoglio, bancomat, occhiali da vista. E il computer, acquistato da poco, dopo aver cancellato i file. Azioni che farebbero pensare alla volontà di non farsi trovare. Sul luogo in cui è stato rinvenuto il corpo, però, non sono state riscontrate tracce evidenti di liquido infiammabile, contenitori di benzina o inneschi. La vittima era vestita - maglietta e pantaloni - ma senza scarpe. E nella zona, la domenica della tragedia, nessuno ha notato o sentito nulla di particolare. Alle 19, poi la macabra scoperta. La Tac eseguita sul cadavere non ha evidenziato ferite esterne precedenti agli effetti del rogo. Ora si deve capire se siano state le fiamme a uccidere il giovane o altri fattori. E per questo occorrerà attendere i risultati dell’autopsia. Intanto, la famiglia piange Francesco. Grande sorriso, espressione divertita, lo sguardo rivolto altrove, un bicchiere di vino in mano: è una foto scattata in un locale sul lungomare di Marsala, lo scorso agosto, l'immagine che i genitori hanno scelto per ricordarlo sui social, la stessa che lui aveva come foto del profilo su Instagram. Era felice ed era a casa.
Claudia Guasco per “il Messaggero” il 31 luglio 2021. Una settimana fa Francesco Pantaleo, 27 anni, studente fuori sede di Marsala all'Università di Pisa, si è chiuso alle spalle la porta dell'appartamento che condivideva con altri due compagni e dal quel momento è calato il buio. Nella sua stanza ha lasciato portafoglio, bancomat, telefono, computer e gli occhiali da vista. Dopo due giorni il padre, Tonino Pantaleo, lanciava un appello disperato sui social: «Se qualcuno l'ha visto, mi contatti». Lo hanno trovato prima i carabinieri: carbonizzato, in un campo a San Giuliano Terme, con più punti d'innesco delle fiamme vicino al suo corpo. Francesco ha raccontato ai genitori che stava aspettando l'esito dell'ultimo esame prima della tesi in Ingegneria informatica, «ha detto che l'appello di laurea sarebbe iniziato il 27 luglio, ma quella data non risulta», ha scoperto sconfortato il papà. «Qualsiasi cosa sia successa, tutto si sistema, torna a casa», è il messaggio che il figlio non ha mai ascoltato perché il giorno dopo la scomparsa, il 24 luglio, era già morto bruciato nel prato. A lanciare l'allarme sono stati i genitori dalla Sicilia, che non riuscivano a mettersi in contatto con il ragazzo. Il cadavere è stato identificato con la comparazione del dna dei campioni biologici consegnati ai carabinieri dai familiari, mentre la tac eseguita nei giorni scorsi non avrebbe rivelato ferite precedenti agli effetti delle fiamme. Prima di andarsene, Francesco ha lasciato il vuoto dietro di sé: il computer nuovo, sul quale lavorava da tre mesi, era ripulito, senza nemmeno un file. Incredibile e anche inquietante per uno studente a un passo dalla laurea. E avrebbe anche tentato di cancellare il sistema di geolocalizzazione del cellulare ragalatogli dal padre, come risulta da una mail. L'ultimo contatto con la famiglia, per telefono, risale a venerdì 23 luglio. Sembrava sereno, ha assicurato che andava tutto bene e che sarebbe uscito per andare a correre. «Non riusciamo a capire - non si dava pace Antonino quando il figlio era ancora una persona svanita nel nulla - Sembra si stia parlando di qualcun altro. Mai avrei pensato che mio figlio potesse fare una cosa del genere, non è da lui, ragazzo serio e senza grilli per la testa». Mamma e papà sono partiti subito dalla Sicilia, destinazione Pisa. «Le tracce fiutate dai cani molecolari portavano fino alla stazione di San Rossore, non lontano da casa sua. Fino al binario 3», precisa Tonino. «Poi più nulla. Con mia moglie, dopo aver perlustrato tutta Pisa, ci siamo spostati in comuni vicini per cercarlo». La mobilitazione di carabinieri, polizia, vigili del fuoco, protezione civile e cani molecolari ha avuto l'esito peggiore, il ritrovamento del corpo di Francesco. Qualche ora prima sulla pagina Facebook spotted Unipi, molto frequentata dagli universitari pisani, una ragazza rimasta anonima aveva scritto una lettera appello a Francesco Pantaleo: «Non ti conosco ma ho avuto il sospetto che sulla tua scomparsa c'entrasse l'università e sai perché? Perché ci sono passata anche io e tantissime volte avrei voluto lasciare tutto, perché mi sentivo così in difetto e una continua delusione per i miei genitori. Anche io studiavo ingegneria informatica e più che un corso di laurea per me era una sofferenza».
Val. Err. per "Il Messaggero" il 3 agosto 2021. La procura di Pisa adesso ipotizza l'istigazione al suicidio. Non ci sono indagati per la morte di Francesco Pantaleo, lo studente universitario di Marsala (Trapani) trovato carbonizzato in campagna il 25 luglio, in località San Martino Ulmiano, nel comune di San Giuliano Terme, alle porte di Pisa. Ma l'ipotesi di un reato consentirà di eseguire tutte le verifiche per capire cosa sia successo. Gli inquirenti vogliono capire se il ragazzo sia morto per le ustioni, oppure se la causa del decesso sia un'altra. E soltanto l'autopsia, in programma oggi, potrà dare una risposta. Ma saranno disposte anche indagini specialistiche sul web e sui dispositivi elettronici in possesso dello studente, che aveva appena 23 anni. Oggi i pm affideranno a un consulente tecnico anche l'incarico di eseguire la copia forense dei dati contenuti nel pc portatile (dal quale Francesco aveva cancellato tutti i file) e nello smartphone. I dispositivi mobili sono stati trovati nella stanza che lo studente occupava in un appartamento condiviso in affitto a Pisa insieme a due coinquilini. Con le investigazioni informatiche la procura intende scandagliare soprattutto la navigazione sul web e anche le chat di un videogioco di combattimento con il quale il 23enne giocava online molto spesso. Il gioco è stato rimosso dal computer, così come sono state cancellati anche decine di altri file, programmi e applicazioni. Al vaglio degli inquirenti anche le telecamere di videosorveglianza, pubbliche e private, comprese in un raggio di alcuni chilometri nella zona che comprende l'abitazione dello studente, la stazione ferroviaria di Pisa San Rossore, dove i cani molecolari fino al binario 3 avrebbero fiutato le sue tracce durante le ricerche, la sede universitaria che frequentava - era iscritto nel corso di laurea di ingegneria informatica -, e le aree in prossimità del campo incolto dove è stato ritrovato il cadavere. Gli investigatori cercano conferme. Il ragazzo aveva avuto alcune difficoltà all'Università, tanto da ritardare la laurea. Ma i suoi genitori erano ignari di queste difficoltà, tanto da essere pronti alla laurea, che era annunciata per il 27 luglio. E invece non soltanto lo studente non era iscritto all'appello, ma prima di raggiungere questo traguardo avrebbe dovuto ancora superare alcuni esami. Una circostanza che neppure gli amici conoscevano. E sono proprio questi elementi che inducono gli investigatori a ipotizzare il suicidio. Insieme al fatto che il ragazzo avesse lasciato a casa tutti i suoi effetti personali, inclusi i documenti di identità. D'altra parte, però, la vicenda presenta molti aspetti oscuri. A cominciare nel luogo del ritrovamento del cadavere, dove non sono state trovate tracce evidenti di liquido infiammabile, né di contenitori o inneschi. La vittima indossava una maglietta e un paio di pantaloni ma non indossava le scarpe e gli inquilini delle poche case vicine non avrebbero notato, né udito, nulla di anomalo quella domenica, che è stata grigia e afosa e attraversata anche da un temporale estivo, finché poco prima delle 19 non è stato avvistato il corpo dato alle fiamme. La Tac eseguita nei giorni successivi sul cadavere non ha evidenziato ferite esterne precedenti agli effetti del fuoco. Francesco era uscito da quella casa la mattina del 24 luglio per poi scomparire, aveva lasciato tutto nella sua stanza, oltre al computer e al cellulare dal quale aveva disattivato la geolocalizzazione, anche il portafoglio e persino gli occhiali. A trovare il carbonizzato a 5 chilometri di distanza, il 25 luglio era stata una ragazzina una ragazzina che era a passeggio col cane. Ma l'identificazione non è stata immediata. All'inizio quel corpo bruciato era stato attribuito erroneamente a una persona di probabili origini africane anche se non identificata. All'identificazione certa si poi è arrivati venerdì scorso con le comparazione genetiche e la prova del Dna grazie ai campioni biologici forniti dalla madre del 23enne.
La Procura di Pisa indaga per istigazione al suicidio. Il gioco di lotta online e i file cancellati dal pc: i misteri di Francesco Pantaleo trovato morto carbonizzato. Rossella Grasso su Il Riformista il 3 Agosto 2021. La morte di Francesco Pantaleo, studente universitario di 23 anni originario di Marsala, continua ad essere avvolta nel mistero. Il suo corpo è stato trovato carbonizzato lo scorso 25 luglio nelle campagne di San Giuliano Terme nell’hinterland di Pisa. Era scomparso nel nulla otto giorni prima. Ora la Procura di Pisa ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio e ha disposto l’esame autoptico che già in giornata dovrebbe iniziare.
Solo così si potrà avere qualche informazione in più su quella drammatica fine. Indagini saranno fatte anche sul web e sui dispositivi elettronici del ragazzo e saranno disposte anche perizie sul terreno dove è stato trovato il cadavere carbonizzato.
Il mistero dei files cancellati. Francesco, che aveva mentito alla sua famiglia sulla data di laurea prevista lo scorso luglio, aveva rimosso dal suo Pc tutti i files. Stessa cosa anche dal suo smartphone, che aveva lasciato a casa prima di uscire di casa insieme a portafogli e occhiali nonostante la sua grave miopia. Occhi puntati su un particolare: Francesco giocava spesso a un videogioco di combattimento online, uno di quelli in diretta con la possibilità di interagire via chat con gli avversari. Anche questo è stato rimosso dal computer da Francesco.
Al setaccio anche le telecamere di videosorveglianza. Gli investigatori stanno mettendo insieme anche le immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona sia pubbliche sia private per cercare ogni piccolo dettaglio che possa aiutarli a ricostruire le ultime ore del ragazzo. Le prime immagini lo ritraggono mentre cammina solo per qui cinque chilometri che da casa lo hanno condotto in quella zona isolata della campagne di San Giuliano terme. Ma non chiariscono come e perché lui si sia recato lì. Sotto sequestro anche la camera del ragazzo dove la Scientifica sta cercando tracce di violenza o colluttazione. Intanto la famiglia di Francesco si è trincerata nel silenzio così come i suoi coinquilini ancora sotto choc per quella triste vicenda su cui ancora c’è molto buio.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
· Il Mistero di Laura Ziliani.
"Sesso, soldi e sangue", così il "trio hot" ha ucciso la vigilessa. Rosa Scognamiglio il 9 Ottobre 2021 su Il giornale. L'analisi del video e della dinamica. Ecco come Paola, Silvia e Mirto hanno provato a farla franca dopo l'omicidio. "Pessime bugiarde", spiegano gli esperti a IlGiornale.it. Un "trio criminale". È così che il gip di Brescia, Alessandra Sabatucci, ha definito i presunti assassini di Laura Ziliani, la vigilessa di 55 anni scomparsa da Temù lo scorso 8 maggio e rivenuta cadavere 3 mesi dopo, l'8 agosto, sulle sponde del fiume Oglio. Secondo gli inquirenti, a uccidere la 55enne sarebbero state le due figlie, Silvia e Paola Zani, in correità con Mirto Milani, il fidanzato della maggiore. Stando a quanto emerge dagli atti dell'inchiesta per omicidio volontario e occultamento di cadavere, il movente delittuoso sarebbe di tipo economico. Laura Ziliani possedeva un patrimonio immobiliare del valore di circa 3,5 milioni di euro. Un'eredità cospicua destinata, almeno in parte, alla figlia mezzana dell'ex vigilessa, Lucia Zani, affetta da "un lieve ritardo mentale". Al netto di tutte le ipotesi ventilate dalla procura, le attività investigative non hanno ancora chiarito la complessa e articolata dinamica omicida. Chi sono davvero Silvia, Paola e Mirto? Cosa prevedeva realmente il loro progetto criminale? E ancora, dov'è finito il corpo di Laura per tre mesi?
L'ansiolitico, il cadavere conservato e i cellulari resettati: così hanno fermato le figlie di Laura. Mirto Milani, 27 anni, è un lecchese trapiantato a Roncola San Bernardo (Bergamo), una laurea in Scienze Psicologiche e un diploma in musica al conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano. Un giovane apparentemente inoffensivo, appassionato di lirica e assiduo frequentatore delle parrocchie nella Valle San Martino, tra le province di Lecco e Bergamo. Fidanzato di Silvia, la figlia maggiore di Laura Ziliani, e presunto amante della minore, Paola. Il gip Alessandra Sabatucci, a capo dell'inchiesta, ritiene che il 27enne abbia giocato un ruolo fondamentale nella organizzazione e gestione del piano criminale. Agli atti del fascicolo per omicidio volontario, viene definito "un manipolatore" in grado di condizionare la condotta delle sorelle Zani. "Mirto Milani è un soggetto dominatore, fortemente narcisista e con una personalità tendente alla psicopatia - spiega alla redazione de IlGiornale.it il criminologo e profiler Carmelo Lavorino - Lui è al vertice di questo 'triangolo diabolico', il 'Deus ex machina' del progetto criminale. Alle due estremità inferiori ci sono invece le sorelle Zani, Silva e Paola. E poi c'è la vittima che rappresenta il baricentro di questa geometria, il punto di equilibrio tra i tre componenti di questo sodalizio infernale". Silvia e Paola Zani sono due delle tre figlie di Laura Ziliani. La maggiore, Silvia, ha 29 anni e lavora come impiegata in un'agenzia di assicurazioni. L'altra, Paola, di anni ne ha 19 ed è iscritta al primo anno del corso di laurea di Economia e Commercio. Ribattezzate dalla cronaca come "le sorelle assassine", si sono avvalse della facoltà di non rispondere nel corso dell'interrogatorio di garanzia. Pare che fossero "due ragazze casa e chiesa", racconta chi le ha conosciute. Eppure, dai trascorsi di entrambe, emergerebbero torbidi segreti sessuali: dalla presunta frequentazione online di siti per scambisti all'ipotesi che Mirto si intrattenesse separatamente con entrambe le sorelle. Ma chi sono davvero Silvia e Paola? "Le sorelle Zani sono due bugiarde patologiche - spiega il professor Lavorino - profondamente egoiste e prive di empatia nei confronti della madre. Insieme con Mirto Milani hanno messo in scena un matricidio strumentale ed espressivo. 'Strumentale' per il movente economico; 'espressivo' in quanto hanno sublimato attraverso l'omicidio il distacco emotivo e affettivo nei confronti della madre". Secondo il gip di Brescia Paola, Silvia e Mirto "potrebbero uccidere ancora". Per questo motivo e a fronte di un pesantissimo carico probatorio, resteranno in carcere fino a giudizio. Secondo gli inquirenti, il movente dell'omicidio sarebbe di tipo economico: Laura avrebbe posseduto un patrimonio immobiliare, con anche alcuni terreni agricoli, da circa 3 milioni di euro. Una quota consistente dell'eredità sarebbe stata destinata a Lucia, la figlia mezzana della vittima, affetta da un lieve ritardo mentale e, pertanto, bisognosa di assistenza. "Questo è un delitto 'a tre esse': soldi, sesso e sangue - precisa il criminologo - Tutti i protagonisti della vicenda hanno individuato in Laura un ostacolo al soddisfacimento dei propri bisogni. Necessità impellenti che si traducono in soldi (la cospicua eredità della vittima), sesso (per la presunta relazione promiscua) e il sangue (il desiderio di 'eliminare' la causa delle rispettive insoddisfazioni)". Un delitto perfetto o quasi. Laura è stata dapprima stordita con le benzodiazepine, poi soffocata con un cuscino e infine abbandonata sulle sponde del fiume Oglio a tre mesi dalla denuncia di scomparsa. "C'è stata sicuramente della premeditazione nell'organizzazione del piano criminale da parte del trio - conclude Lavorino - Si tratta di un delitto del tipo 'organizzato', cioè studiato al dettaglio. Lo si capisce sia dal modus operandi, comprendendo con questa definizione le modalità e i mezzi per uccidere la vittima, sia dalle successive attività di depistaggio che dall'atto finale di gratificazione: quello di scaricare il cadavere in un bosco, quasi fosse 'immondizia'. Ma come tutti i criminali inesperti hanno commesso degli errori, hanno provato a farla franca ma non ci sono riusciti. Certo è che siamo di fronte a un trio diabolico". Nei giorni successivi alla presunta scomparsa dell'ex vigilessa, Silvia e Paola hanno lanciato e rilanciato appelli strappalacrime in tv. "Vi prego - dice Paola ai microfoni del programma televisivo 'Chi l'ha visto?' - chiunque abbia visto o sentito qualcosa venga su, al rifugio, per dircelo. Qualsiasi cosa, vi prego aiutateci a ritrovare nostra madre". Noi de IlGiornale.it abbiamo chiesto all'esperto di comunicazione non verbale e analista della menzogna Francesco di Fant di visionare quel breve filmato al fine di comprendere la reale condizione emotiva di Silvia e Paola. "Hanno lasciato molti indizi nonostante avessero il volto quasi interamente coperto dagli occhiali da sole e dalla mascherina - spiega l'esperto - Anzitutto mancano le lacrime. Quando si arriva a quella intensità di emozione, rompendo la voce addirittura, si ha uno 'strozzamento fisiologico' per cui s'innesca un processo di lacrimazione. Nell'appello di Paola, che biascica parole incomprensibili nel finale, c'era la tensione dell'emozione ma mancavano le lacrime". Nell'espressione del volto di Silvia invece, i segni del dolore sono completamente assenti. "È una pessima bugiarda - chiarisce il dottor di Fant - Il vero dolore si riconosce in mezzo gli occhi, da un corrugamento al di sopra del naso: sul viso di Silvia è del tutto assente". Ma come si spiega lo stato di particolare apprensione e tensione emotiva delle due sorelle? "In psicologia si parla di 'effetto Otello'. Talvolta, chi sa di essere sotto osservazione può scoppiare a livello emotivo per la paura di essere scoperto".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due
Le figlie di Laura Ziliani oggi compariranno davanti al gip. Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2021. Una persona scrisse alla polizia locale a 8 giorni dalla scomparsa. Accertamenti senza esito. Martedì l’interrogatorio delle figlie della vittima e del fidanzato della maggiore. Nel puzzle ancora tutto da comporre sull’omicidio di Laura Ziliani rientra anche un tassello «senza nome». Erano passati solo otto giorni dalla scomparsa della ex vigilessa e impiegata comunale a Roncadelle, denunciata dalle figlie alle 11.58 dell’8 maggio scorso, a Temù. Il 16, all’indirizzo di posta elettronica della polizia locale della Valle Camonica, arrivò una email nella quale un anonimo segnalava di aver visto, proprio la mattina dell’8 maggio 2021, «il nostro vicino di casa che ha preso sulle spalle una signora priva di sensi dalla loro macchina». Il giorno seguente — si legge negli atti dell’inchiesta — l’anonimo aveva appreso si trattasse «della signora Laura». Ziliani. Ma non è tutto. In questa missiva virtuale senza nome, l’autore aggiungeva: «Sono stato pagato per serbare il silenzio, ma sono pronto a negoziare un nuovo accordo» non meglio precisato. Gli accertamenti condotti a stretto giro dalle forze dell’ordine per identificare a chi facesse capo l’indirizzo di posta elettronica in questione — attivato da un Ip localizzato a Varese — non hanno tuttavia dato alcun esito. E quelle parole sono rimaste senza mittente. Che fossero attendibili o meno, resta un mistero che il gip ha ricordato nell’ordinanza che ha portato all’arresto di Paola e Silvia Zani, oltre che del fidanzato della maggiore, Mirto Milani, per la morte di mamma Laura. Sette giorni dopo, il 23 maggio, nei boschi di Temù sarà ritrovata la scarpa destra che le ragazze riconosceranno come quella della madre, in un tratto compatibile con il presunto percorso che avrebbe affrontato quella mattina. Ancora due giorni e il 25 maggio sarà recuperata anche la sinistra, tra le ortiche di un boschetto isolato, grazie alla curiosità di un residente che notò i movimenti «sospetti» di Paola e Mirto. Gps e utenze confermano che sarebbero partiti da Brescia per «nasconderla» salvo poi rientrarci in serata. Arrestati all’alba di venerdì scorso per omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere, oggi i tre indagati compariranno davanti al gip, Alessandra Sabatucci, per l’interrogatorio di garanzia: Paola e Silvia dal carcere di Verziano (dove si trovano in isolamento nella stessa cella) e Mirto da quello di Canton Mombello, sempre a Brescia. Chiusi sostanzialmente nel silenzio, potrebbero decidere di mantenere la stessa linea anche davanti al giudice, alle prese con un’inchiesta (pesantemente) indiziaria nella quale restano da delineare, per esempio, i ruoli dei protagonisti, oltre che la dinamica dell’omicidio — Laura sarebbe stata narcotizzata e verosimilmente soffocata — e il luogo in cui, stando al medico legale, il corpo sarebbe stato occultato per tre mesi.
Da "leggo.it" il 6 ottobre 2021. A Storie Italiane ulteriori dettagli sulla vicenda di Laura Ziliani, mentre è in corso il processo al killer e all'ex marito di Ilenia Fabbri. Le due donne sono state uccise in circostanze diverse e in entrambi i casi si cerca di appurare tutta la verità. Per quanto riguarda il delitto di Temù spuntano sempre più dettagli sul rapporto tra le figlie e il fidanzato di una delle due, Mirto. Molto importante sarebbe anche il ruolo ricoperto dalla madre del musicista nella vicenda. Le figlie di Laura Ziliani e Mirto avrebbero ucciso Laura Ziliani soffocandola nel sonno per accapparrarsi l'eredità e il patrimonio immobiliare. Anche la mamma di Mirto era interessata alle case e da quanto sarebbe emerso dalle indagini avrebbe spinto il figlio a provvedere personalmente alla gestione. Un dettaglio in particolare suggerisce la sua intromissione: il giallo dei materassi. Una settimana dopo la scomparsa di Laura è arrivata a un'amica della vittima una e-mail di disdetta di un ordine di materassi. Una lettera anomala perché era stata Laura a volerli e l'ordine veniva cancellato solo pochi giorni dopo. I vecchi materassi erano stati buttati in discarica il giorno della scomparsa e si dava per scontato che sarebbe subentrata una nuova amministrazione delle case di proprietà di Laura. Nel contrordine della mamma di Mirto si legge che i materassi per il nuovo bed and breakfast non servono più. «All'epoca mi era sembrata una cortesia, ora mi sembra tutto strano», il commento dell'amica di Laura.
L'anonimo "pronto a negoziare nuovo accordo". Laura Ziliani, il mistero dell’e-mail anonima: “Ho visto tutto, sono stato pagato per non parlare”. Vito Califano su Il Riformista il 28 Settembre 2021. Un anonimo aveva segnalato solo otto giorni dopo la scomparsa di Laura Ziliani di aver visto “il nostro vicino di casa che ha preso sulle spalle una signora priva di sensi dalla loro macchina” e che avrebbe appreso il giorno dopo si trattasse “della signora Laura” e aggiungeva che “sono stato pagato per serbare il silenzio, ma sono pronto a negoziare un nuovo accordo”. È la e-mail misteriosa arrivata il 16 maggio – otto giorni dopo la scomparsa dell’ex vigilessa e impiegata comunala a Roncadelle, denunciata dalle figlie a Temù – all’indirizzo di posta elettronica della polizia locale della Valle Camonica. Mittente: anonimo. Il corpo di Laura Ziliani è stato ritrovato in un torrente nel bresciano, riconosciuta per una cisti sotto il piede e quindi dall’autopsia, lo scorso 12 agosto. Per la morte della madre sono state arrestate Paola e Silvia Zani, le figlie della donna, con il fidanzato della figlia maggiore, Mirto Milani. Gli arresti venerdì scorso. Le accuse sono di omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere. I tre indagati compariranno oggi davanti al gip, Alessandra Sabatucci, per l’interrogatorio di garanzia. Paola e Silvia sono al carcere di Verziano, in isolamento nella stessa cella, il ragazzo in quello di Canton Mombello a Brescia. Ziliani sarebbe stata verosimilmente narcotizzata e soffocata. O almeno questa è l’ipotesi più accreditata al momento. Un delitto forse consumato per il patrimonio della donna secondo il gip di Brescia. Ancora tutto da provare naturalmente. “Vi prego, qualunque segnalazione abbiate su nostra madre, anche se l’avete vista di striscio, per favore ditecelo, perché potrebbe servire davvero pochissimo per indirizzare le ricerche nella direzione giusta”, l’appello lanciato dalle due figlie in televisione a pochi giorni dalla scomparsa della madre. Il giallo della mail anonima, come riportato da Il Corriere della Sera, è stato affrontato dalle forze dell’ordine che non sono riuscite a risalire a chi facesse capo quell’indirizzo di posta elettronica attivato da un Ip localizzato a Varese. Che quelle parole siano attendibili o meno è ancora da accertare, come ha ricordato il gip in ordinanza. Gli accertamenti sono tuttavia ancora in corso.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Tradimenti, sesso a tre, scambisti: il triangolo hot delle figlie di Laura Ziliani. Samuele Finetti il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. Mirto Milani, accusato dell'omicidio della vigilessa e fidanzato della figlia maggiore, era l'amante dell'altra sorella arrestata. La donna sarebbe stata soffocata con un cuscino dopo che i tre l'avrebbero avvelenata con un ansiolitico. Prima avrebbero ucciso la madre, occultandone il cadavere e denunciandone la scomparsa. Poi ne avrebbero simulato il ritrovamento. Ora si scopre che Silvia e Paola, due delle figlie di Laura Ziliani, l'ex vigilessa di Temù (Brescia) scomparsa a inizio maggio, e il fidanzato erano uniti in un triangolo amoroso: Mirto Milani, legato alla figlia maggiore, sarebbe stato l'amante della sorella Paola. E la stessa Silvia sarebbe stata iscritta a un sito per scambisti. La volontà di cancellare le prove di queste relazioni, hanno sostenuto gli accusati, li avrebbe spinti prima a nascondere i propri cellulari ai Carabinieri, consegnandone tre nuovi ai militari. Solo più tardi, dopo averli resettati alle impostazioni di fabbrica, sono saltati fuori gli altri telefonini, con i quali il ragazzo e le due sorelle potrebbero aver progettato l'omicidio della vigilessa. Quello dei cellulari è solo uno dei dettagli che non tornano in questa storia nera. Per quasi cinque mesi, le due sorelle e Milani hanno simulato la scomparsa per coprire un omicidio. Fino a venerdì 24 settembre, quando sono stati arrestati con l'accusa di aver pianificato l'assassinio della madre. Laura sarebbe stata soffocata nel sonno con un cuscino. Gli esiti delle indagini tossicologiche, depositati pochi giorni fa, hanno dimostrato che nel corpo della vigilessa erano presenti tracce di Bromazepam, un ansiolitico con cui le figlie l'avrebbero stordita. A procurarsi il farmaco sarebbe stata Silvia, che lavora come assistente in una Rsa e non avrebbe dunque avuto difficoltà a sottrarre il flacone, poi ritrovato quasi vuoto dagli inquirenti nell'appartamento di Brescia condiviso dalle due sorelle. Già in passato, Silvia avrebbe sottratto - si legge nell'ordinanza - un altro farmaco, la Queatipina 50 (utilizzato per curare la schizofrenia), e lo avrebbe ingerito assieme a degli alcolici per provarne gli effetti. Quello dei tre accusati era un piano ben definito, con cui volevano appropriarsi dei beni della vittima. A fine aprile avevano già provato ad avvelenare la vigilessa con una "tisana", che le aveva provocato malessere per due giorni. Più volte Milani, che nella vita studia da soprano al Conservatorio di Milano, aveva cercato sul web "come uccidere la gente", "piante velenose", "crimini perfetti" e "serial Killer". Quando hanno agito per la seconda volta, non si sono limitati ad avvelenare la madre: durante il sonno, l'avrebbero soffocata con un cuscino, e l'autopsia ha rivelato che i farmaci ingeriti da Laura l'avrebbero resa incapace di difendersi, tanto che per ucciderla sarebbe stato sufficiente chiuderle le narici con le dita. La messinscena è proseguita mentre le figlie piangevano in diretta tv e Milani sosteneva che la donna fosse scappata "per farsi la bella vita". Perché nel frattempo il cadavere di Laura è stato nascosto in un luogo asciutto per tre mesi, per poi essere gettato poco lontano da un sentiero lungo il quale, il 23 maggio, era stata rinvenuta una scarpa della donna. Già in quel momento gli inquirenti stavano indagando sulle figlie: il 16 maggio, la polizia locale della Valle Camonica aveva ricevuto una mail - da un mittente a cui non si è riusciti a risalire - in cui si leggeva che "il nostro vicino ha preso sulle spalle una signora priva di sensi dalla loro macchina" e che, il giorno dopo, l'autore della soffiata aveva scoperto che si trattava del cadavere di Laura. La pista si è rivelata fondata: domani le due sorelle e il soprano saranno sottoposti all'interrogatorio di garanzia in carcere.
Samuele Finetti. Nato in Brianza nel 1995. Due grandi passioni: la Storia, specie quella dell’Italia contemporanea, che ho coltivato all’Università Statale di Milano, dove mi sono laureato con una tesi sulla strage dipiazza Fontana. E poi il giornalismo, con una frase sempre in mente: «Voglio poter fare, soltanto, una cronaca di fatti e di parole veri». Ostinatamente prezzoliniano
Svolta nelle indagini sul caso della vigilessa scomparsa a Temù. Laura Ziliani, arrestate le due figlie e il fidanzato della maggiore: l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere. Elena Del Mastro de Il Riformista il 24 Settembre 2021. Fino a poche settimane fa sul caso della scomparsa di Laura Ziliani, l’ex vigilessa scomparsa nel nulla a Temù, si brancolava nel buio. Poi i sospetti, le incongruenze nel racconto e infine la misura cautelare in carcere. Questa mattinata a Brescia e nella provincia di Bergamo i carabinieri del Comando Provinciale di Brescia, coordinati dalla Procura della Repubblica di Brescia, hanno dato esecuzione all’ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, emessa dal Gip del Tribunale di Brescia, nei confronti di due sorelle di 26 e 19 anni, figlie di Ziliani, scomparsa da Temù nella mattinata dell’8 maggio 2021, nonché del fidanzato della sorella maggiore.
Le incongruenze nel racconto delle figlie e del fidanzato della maggiore
Le indagini avviate dai militari della Compagnia di Breno parallelamente alle ricerche hanno evidenziato numerose anomalie nel racconto fornito dai tre arrestati, inducendo i carabinieri e la Procura a ritenere poco credibile la versione dell’infortunio o del malore in montagna. Per queste ragioni, a fine giugno, le due figlie e il fidanzato della più grande, sulla base delle preliminari risultanze investigative, erano stati iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario, aggravato dalla relazione di parentela con la vittima, e di occultamento di cadavere.
Le figlie di Laura Ziliani, rispettivamente impiegata e studentessa, sono state arrestate assieme al fidanzato della maggiore, uno studente universitario 27enne residente in provincia di Bergamo. I tre sono ritenuti responsabili, in concorso tra loro, dell’omicidio volontario e dell’occultamento di cadavere della 55enne madre delle ragazze, scomparsa da Temù l’8 maggio.
Le prime ore dopo la scomparsa di Laura Ziliani
Erano state le due figlie a dare l’allarme quella mattina, verso le 12, contattando il 112 e segnalando il mancato rientro della loro mamma, uscita di casa intorno alle 7 per andare a fare una passeggiata nella frazione di Villa Dalegno. La donna sarebbe dovuta rientrare verso le 10, per poi andare con le figlie presso la locale discarica a disfarsi di vecchi materassi. Poco dopo la segnalazione della scomparsa, un vasto dispositivo di soccorritori composto da personale dei carabinieri, del soccorso alpino e dei vigili del fuoco, oltre che numerosi volontari, aveva battuto palmo a palmo il luogo della presunta scomparsa, senza rinvenire il corpo dell’impiegata, esperta conoscitrice di quei luoghi.
Fin dai primi giorni, i carabinieri hanno maturato perplessità sulla tenuta logica della ricostruzione dei fatti offerta dagli odierni arrestati. Le indagini sono consistite in attività tecniche di intercettazione, in complesse analisi di tabulati, nell’analisi forense di smartphone e computer in possesso degli indagati, coniugate con perquisizioni domiciliari, sopralluoghi e repertamenti di carattere scientifico a cura della Sis del Comando Provinciale.
I sospetti nel racconto dei tre indagati
Le risultanze investigative hanno evidenziato numerose anomalie nel racconto fornito dai tre arrestati, inducendo i carabinieri e la Procura a ritenere poco credibile la versione dell’infortunio o del malore in montagna. Per queste ragioni, a fine giugno le due figlie e il fidanzato della più grande, sulla base delle preliminari risultanze investigative, erano stati iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla relazione di parentela con la vittima e occultamento di cadavere.
Sin da subito, sono risultati sospetti sia l’allarme dato troppo in fretta dalle due figlie, sia il rinvenimento del telefono cellulare, da cui la donna non era solita separarsi, trovato sotto una panca in cantina. Ad aggravare il quadro e a convincere ancora meno gli inquirenti circa l’ipotesi della scomparsa è stato, nella tarda mattinata del 23 maggio, il ritrovamento della scarpa che la donna – a dire delle due figlie – indossava la mattina verso le 7, quando sarebbe uscita di casa per fare la passeggiata. La scarpa, infatti, è stata rinvenuta nel torrente Fumeclo, in un punto che sarebbe incompatibile con la direzione verso monte che avrebbe intrapreso la signora Ziliani.
Sempre nel fiume Fumeclo, poco distante dall’abitazione della donna, agli inizi di giugno scorso, era stato rinvenuto un jeans femminile rovesciato, compatibile con quello che – secondo il racconto delle figlie – la Ziliani avrebbe indossato la mattina della scomparsa. Infine è stata rinvenuta anche la seconda scarpa della signora Ziliani che, per come emerso dalle indagini, è stata collocata nel luogo del rinvenimento proprio dagli odierni arrestati al fine di depistare le attività investigative avvalorando l’ipotesi dell’infortunio o del malore.
Il rinvenimento del cadavere lungo la pista ciclabile di Temù, avvenuto nella tarda mattinata dell’8 agosto, ha ulteriormente alimentato il solido quadro indiziario. Passeggiando lungo le rive del fiume Oglio, un bambino aveva notato il corpo di una donna in stato di decomposizione, non riconoscibile in volto, parzialmente nascosto tra i rami e le foglie, verosimilmente accumulatesi a seguito dell’esondazione del fiume. La donna indossava solo una canottiera e degli slip, abbigliamento assoluta incompatibile con la ricostruzione fornita dagli arrestati.
Gli orecchini in oro giallo e una cisti presente sul piede destro avevano portato a ritenere che il corpo fosse proprio quello di Laura Ziliani. La definitiva conferma è giunta dalla comparazione del Dna, eseguita presso l’Istituto di Medicina Legale di Brescia. In sede di esame autoptico, il medico legale non ha rilevato segni di lesioni esterne. Inoltre il corpo non presentava tracce compatibili con una lunga permanenza in acqua: l’ipotesi investigativa è che possa essere stato occultato in un ambiente le cui caratteristiche hanno rallentato il processo di trasformazione e decomposizione.
Sono in corso indagini scientifiche di particolare complessità al fine di valutare l’effetto degli agenti esterni sul processo di decomposizione corporea. I preliminari accertamenti tossicologici eseguiti dall’istituto di medicina legale di Brescia hanno riscontrato la presenza di benzodiazepine nel corpo dell’ex vigilessa. I tre arrestati saranno associati in carcere a Brescia. (Fonte:LaPresse)
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2021. Non resta che sperare in un errore, perché se le sorelle arrestate con l'accusa di avere ammazzato la madre (in combutta col fidanzato di una delle due) fossero colpevoli, saremmo in presenza dell'orrore. Quello assoluto, che ti toglie qualunque fede residua nell'essere umano. L'aspetto inedito del delitto di Laura Ziliani non è il matricidio, né il movente: l'eredità. E non è nemmeno la fretta sospetta che avrebbe tradito le figlie Silvia e Paola. Fretta nel denunciare la scomparsa della madre appena cinque ore dopo che era uscita di casa, e fretta nel felicitarsi l'un l'altra al telefono per l'imminente passaggio del patrimonio immobiliare della defunta nelle loro mani. Da Pietro Maso in poi, queste cose si erano già sentite. Quello che mancava era l'appello delle assassine in tv a «Chi l'ha visto?», le loro voci increspate dal dolore che scongiurano tra le lacrime chiunque abbia notizie di fornire informazioni. Mi illudo che, se non avessero avuto le mascherine, qualcosa nell'espressione dei volti le avrebbe tradite. Perché altrimenti la loro sarebbe stata una recita degna dell'attrice di «Gone Girl, l'amore bugiardo». Solo che quello era un film su una moglie psicopatica. Mentre qui c'è la realtà di due figlie che, secondo l'accusa, prima di andare in tv a disperarsi avevano sedato e ucciso con premeditazione la persona che le aveva messe al mondo. Questa non è più la banalità del male. Questa è la teatralità del male. La maschera dell'abisso. Anzi, la mascherina.
Antonio Pasqualetto per “corriere.it” il 25 settembre 2021. Troppo presto hanno dato l’allarme della scomparsa, troppo accorato quell’appello televisivo: «Vi prego, qualunque segnalazione abbiate su nostra madre, anche se l’avete vista di striscio, per favore ditecelo, perché potrebbe servire davvero pochissimo per indirizzare le ricerche nella direzione giusta». Per gli inquirenti in quelle lacrime c’era già un indizio, una sceneggiata che mal si conciliava con tutto quello che è successo poi fra le due sorelle, Silvia e Paola, e il fidanzato della maggiore, Mirto. A venti giorni dalla scomparsa parlano già di case da sistemare, affitti da incassare, di una macchina da comprare, di vacanze da fare: «Tanti soldi e poco sbatti… quella settimana lì poi scappiamo…. Possiamo andare praticamente in vacanza». Dietro il delitto della madre, commesso in questo paesino dell’Alta Valle Camonica che vive di turismo, emerge l’ennesima, terribile storia di figli che uccidono i genitori per il patrimonio. Vengono alla mente i casi di Pietro Maso, che nel 1991 li massacrò con tre amici pensando all’eredità, e di Erika e Omar, che nel 2001 per lo stesso motivo sferrarono un centinaio di coltellate sulla madre e sul fratellino risparmiando il padre solo per stanchezza. «Qui risulta un chiaro interesse di tutti e tre gli indagati a sostituirsi alla vittima nell’amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare al fine di risolvere i rispettivi problemi economici e rientrare dell’esborso di 40 mila euro che Laura Ziliani aveva sostanzialmente imposto alle figlie per mettere a reddito alcuni appartamenti», conclude il gip di Brescia. Un «trio criminale» un po’ sgangherato per come si è mosso, disseminando indizi a destra e a manca. Silvia l’impiegata, Paola la studentessa modello, uscita con il massimo dei voti al liceo e ora all’università, Mirto il musicista. «Ma io ho sempre avuto l’impressione che tutti e tre fossero troppo attaccati al denaro — ha detto la madre della vittima, Marisa Cinelli, nonna delle ragazze — Mirto gestisce gli averi della famiglia Zani-Ziliani come fossero i suoi... Lui e sua madre si occupano degli appartamenti di mia figlia, al punto che lei dopo la scomparsa avrebbe contattato qualche affittuaria intimandole di saldare i debiti e di consegnarle la somma di denaro». La nonna ricorda una lite fra sua figlia e Mirto: «Lei mi disse che lui l’aveva accusata di spendere troppi soldi per la ristrutturazione degli appartamenti di via Balardini. Laura rimase basita per il fatto che si era intromesso in questioni familiari non sue... Le mie nipoti avevano ricevuto 40 mila euro di eredità dal padre. Laura aveva chiesto di investirli nella ristrutturazione degli appartamenti da locare». Non erano d’accordo con le scelte della madre e gli scontri erano all’ordine del giorno. «Un’amica di Laura mi ha detto che a Pasqua le aveva confidato di avere paura delle figlie», rivela il sindaco di Temù, Giuseppe Pasina, che ricorda la stranezza di quella famiglia: «Le ragazze uscivano poco, non avevano molte amicizie, direi caratterialmente un po’ chiuse. Solo la mezzana (che soffre di una disabilità, ndr) è simpatica e aperta». Stessa idea ha il parroco del paese, don Martino: «Le salutavi e non ti rispondevano nemmeno. Comunque anche il ragazzo è molto particolare, non vorrei che le avesse plagiate». Frequentavano la chiesa e l’oratorio, dove c’erano anche le figlie di Nicoleta Chirica, la vicina di casa: «Siamo dirimpettaie, Silvia e Paola sono cresciute con le mie bimbe e io ero amica di Laura». Dopo la scomparsa, Nicoleta era andata a casa loro: «Dicevo “andiamo a cercarla”. E loro: “Non possiamo, i carabinieri non vogliono”. Non era vero. In primavera Laura mi aveva detto di aver dormito 36 ore di fila. Aveva bevuto una tisana preparata da Silvia...». Nicoleta sospira e scuote la testa sulla soglia di casa: «Per me sono dei mostri».
Da “corriere.it” il 25 settembre 2021. C’è Silvia, la grande, 27 anni, un po’ fisioterapista, un po’ impiegata, molto attiva nella gestione del patrimonio di famiglia; c’è Paola, la piccola, 19 anni, studentessa universitaria di Economia e brillante liceale uscita con il massimo dei voti; e c’è la terza sorella, Lucia, la mezzana, 24 anni, la sola a non venire nemmeno sfiorata dall’inchiesta sulla tragica morte della loro madre, Laura Ziliani, scomparsa l’8 agosto senza vita in un torrente di Temù. Silvia e Paola sono state invece arrestate con Mirto Milani , il musicista ventisettenne fidanzato della prima e amante della seconda.
«Trattano male la mamma». Affetta da un lieve ritardo cognitivo, Lucia viveva a Brescia con la madre. Al pubblico ministero, che l’ha sentita lo scorso 6 luglio, aveva detto di non fidarsi delle sorelle. «Hanno trattato molto male la mamma, soprattutto Silvia, si arrabbiavano spesso con lei, perché dicevano che non le manteneva, non dava loro abbastanza soldi, soprattutto Paola... Le mantiene la mamma, anche perché Silvia è stata licenziata ben tre volte e da quanto ne so non ricevono gli affitti degli appartamenti perché è tutto bloccato».
«Hanno il carattere brutto di mio papà». Anche con Lucia i rapporti pare non fossero un idillio: «Si arrabbiavano spesso: hanno preso il carattere del papà che era violento e cattivo e diceva molte parolacce alla mamma». La fiducia nelle due sorelle sarebbe venuta meno nel momento in cui entrambe iniziarono a parlare male della nonna materna. «Dicevano che è perfida come un serpente e altre brutte cose degli zii».
Il rapporto Mirto. Lucia conosce bene anche Mirto che chiama «il coniglio» e sua madre Mirna. Parla di un difficile rapporto fra sua madre e Mirto e Mirna. «Con Mirto all’inizio non andava d’accordo, di recente però le cose andavano meglio, tanto che il giovane veniva ospitato a Brescia e a Temù». Infine, le conseguenze su Silvia e Paola della tragedia del padre, morto travolto da una valanga nel 2012. Secondo Lucia entrambe le sorelle erano cadute in depressione.
In paese. Cosa pensano delle tre sorelle a Temù? «L’unica solare è Lucia, le altre due si vedono poco e sono molto strane», dice il sindaco del paesino, Giuseppe Pasina. «Quando le salutavi, Silvia e Paola stentavano a rispondere. Lucia no, era diversa», conferma il parroco, don Martino.
Mirto Milani e l’arresto per l’omicidio di Laura Ziliani dopo la nuova vita alla Roncola. Finito sotto indagine si era trasferito con la famiglia nella casa delle vacanze e ogni domenica suonava la chitarra e cantava a messa. «Non c’entro con il delitto». Fabio Paravisi e Desirée Spreafico su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2021. Le tre pattuglie dei carabinieri di Breno si sono infilate nella stretta strada per Ca’ Moschè, a Roncola San Bernardo, alle 7 del mattino, e si sono fermate davanti alla prima casa sulla sinistra. È quella nella quale da qualche mese si era trasferito Mirto Milani, 27 anni, con il padre Ruggero, la madre Mirna Donadoni e i fratelli Aron, Giael e Asar. Il 27enne, iscritto nel registro degli indagati da fine giugno, è accusato dell’omicidio volontario di Laura Ziliani, la 55enne ex vigilessa di Temù, in Val Camonica, scomparsa nella mattinata dell’8 maggio scorso, e dell’occultamento del cadavere, ritrovato tre mesi più tardi lungo le rive dell’Oglio. Le stesse accuse, come la custodia cautelare in carcere disposta dal gip di Brescia, pendono su due delle tre figlie della donna, la 27enne Silvia Zani, fidanzata di Milani, e la 19enne Paola Zani. Nelle indagini dei carabinieri, le numerose contraddizioni in cui sarebbero caduti i tre ragazzi si sommano agli esiti degli accertamenti tossicologici svolti dall’istituto di medicina legale di Brescia sul corpo della donna. Le tracce di benzodiazepine, psicofarmaci dalle proprietà sedativo-ipnotiche, hanno avvalorato la tesi dell’omicidio, ed escluso quella del tragico incidente durante una passeggiata in montagna. Ziliani sarebbe stata drogata e uccisa la sera del 7 maggio, il giorno precedente la denuncia di scomparsa e gli appelli in lacrime delle figlie. Il movente sarebbe da ricercare nei soldi e nelle proprietà della ex vigilessa, vedova, che le due figlie avrebbero voluto amministrare. Per tanti anni la famiglia lecchese, che dal 2009 si era trasferita in frazione Sala a Calolziocorte da Olginate, dove vive la nonna, e che ancora prima aveva abitato a Garlate, ha usato la casa a Roncola per le vacanze. I Milani si sono spostati, cambiando la residenza, quando sono cominciate le indagini, probabilmente in cerca di tranquillità. E il borgo di tranquillità ne ha anche troppa, tanto che nemmeno i cellulari hanno campo. Ha cinque case in tutto, vecchie cascine ristrutturate e dotate di parabole, una è stata trasformata in B&B. Erba rasata, sentieri curati, un grande gazebo con tricolore e un campo da bocce con lo striscione che annuncia un torneo. La casa dei Milani è la più grande: affacciata sulla valle nella quale rintoccano i campanacci delle mucche, scende per tre piani e ha un ampio piazzale, terrazza, giardino, orto e recinto con galline e oche. Il trasferimento non è bastato a tenere la famiglia al riparo dai media: qualche settimana fa era arrivato il giornalista di una tv locale, e Ruggero Milani aveva chiamato i carabinieri per mandarlo via. Poi ha coperto veranda, corridoio e porta con pesanti tende e ha chiuso i sentieri che circondano la casa con corde e cartelli di «proprietà privata». Ieri in casa c’era solo la sorella minore di Mirto, che negava di essere lei. Un vicino, di Garlate come i Milani, dice di limitarsi a salutare la famiglia ma di non essere in confidenza. Li conosce meglio il parroco di Roncola don Andrea Pedretti: «Non li vedo molto a messa, ma ne parlano come di gente molto generosa. In famiglia sono tutti musicisti, i genitori suonano il flauto traverso, e insieme ai figli hanno animato la messa di Natale. Anche Mirto negli ultimi tre anni ha fatto diversi concerti di chitarra, e a messa spesso suona e canta: ha una voce sottile, da soprano. L’ultima volta è stato due domeniche fa, con la sorella al violino. Forse lo faceva per distrarsi dall’indagine». Il parroco aveva seguito la vicenda bresciana ma non sapeva che Mirto Milani fosse coinvolto: «È stato lui a venire da me un giorno e a dirmi: ha saputo di quella storia? Così ne abbiamo parlato. Mi ha detto che non aveva niente a che fare con l’omicidio. Ma anche che lui e la famiglia erano sconvolti da come erano stati trattati dagli inquirenti: ci hanno umiliati, mi ha detto. In seguito, si sono occupati di loro anche alcune trasmissioni televisive, hanno parlato anche della forma dei suoi denti, lo hanno descritto come un mostro. Non entro nel merito della vicenda ma non credo sia giusto comportarsi così». Il mondo del 27enne è fatto di musica: suona la chitarra alle scuole medie, con il sax tenore entra nel corpo musicale Giuseppe Verdi di Calolzio, frequentato anche dai genitori, studia pianoforte all’istituto musicale Zelioli di Lecco, poi passa al canto operistico come autodidatta e si unisce al coro gospel di Valmadrera. Si diploma geometra e si laurea in psicologia a Bergamo, prima di intraprendere il percorso accademico al conservatorio Verdi di Milano. Milani negli anni ha accumulato diverse esibizioni e concerti, anche da solista, soprattutto nelle chiese della Valle San Martino e nella parrocchia Santa Agnese a Olginate, dove è particolarmente conosciuto. Ieri, però, nessuno voleva parlare di lui.
Soffocata col cuscino. Così hanno ucciso Laura. Antonio Borrelli il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. La donna, prima di essere ammazzata, è stata stordita dalle due figlie e dal genero. Brescia. I farmaci non sono stati letali ma sono serviti a stordire Laura Ziliani, che è poi stata probabilmente soffocata con un cuscino sul volto. Questa almeno è la convinzione degli inquirenti che stanno indagando sulla morte dell'ex vigilessa di Temù, in alta Valcamonica. Dopo l'arresto delle due figlie della 55enne e di Mirto Milani (fidanzato della maggiore e amante della minore) tutti accusati di omicidio e di occultamento di cadavere - non solo il Bresciano ma tutta Italia si è ritrovata turbata dalla svolta nel caso. In particolare dopo che tutti hanno letto delle intercettazioni telefoniche tra le due sorelle. Silvia e Paola Zani hanno trascorso la prima notte di reclusione nella stessa cella del carcere femminile bresciano di Verziano. Sono entrate tenendosi per mano, poi separate per alcune ore e infine si sono ritrovate di nuovo insieme. Si trova invece in isolamento nell'altro carcere bresciano, a Canton Mombello, Mirto Milani. Tutti e tre si sono chiusi nel silenzio, ma l'ipotesi è che quella notte tra il 7 e l'8 maggio la donna sia stata uccisa a letto, mentre era in canottiera e intimo (come è stata poi ritrovata l'8 agosto) e poi portata fuori dalla casa di via Ballardini ritenuta la scena del crimine. Ma nella ricostruzione della vicenda spunta anche un'altra figura: Lucia, la figlia mezzana di 24 anni, l'unica mai nemmeno sfiorata dall'inchiesta. Affetta da un lieve ritardo cognitivo, Lucia viveva a Brescia con la madre. Al pubblico ministero, che l'ha sentita lo scorso 6 luglio, aveva detto di non fidarsi delle sorelle: «Hanno trattato molto male la mamma, soprattutto Silvia, si arrabbiavano spesso con lei, perché dicevano che non le manteneva, non dava loro abbastanza soldi, soprattutto Paola...Le mantiene la mamma, anche perché Silvia è stata licenziata ben tre volte e da quanto ne so non ricevono gli affitti degli appartamenti perché è tutto bloccato». Fiducia e rapporti si sarebbero poi deteriorati quando entrambe iniziarono a parlare male della nonna materna: «Dicevano che è perfida come un serpente e altre brutte cose degli zii». Quella stessa anziana madre di Laura Ziliani che lo scorso 17 giugno disse ai carabinieri: «Ho sempre avuto l'impressione che tutti, sia Mirto che le mie nipoti, siano troppo attaccati al denaro. Continuo ad avere il dubbio che nemmeno sia uscita dalla sua abitazione». Nelle 38 pagine degli atti Milani viene indicato come il manipolatore delle sorelle, «che non riuscendo per motivi caratteriali a contrastare la volontà materna, hanno preferito sopprimere la genitrice - scrive il Gip piuttosto che dissentire apertamente con lei circa la gestione del cospicuo patrimonio familiare». Tutti i pezzi del puzzle vengono ricomposti nell'ordinanza che racconta anche il ruolo cruciale della piccola comunità di Temù ha nel sorvegliare il paese: il 25 maggio un residente nota un ragazzo e una ragazza addentrarsi nel boschetto vicino a casa. I movimenti dei due lo insospettiscono, li segue da lontano col binocolo e quando si allontanano va a controllare: tra le sterpaglie trova una scarpa di colore violetto con delle strisce arancioni. Ai carabinieri dirà di aver visto addentrarsi nel bosco una delle sorelle Ziliani insieme a Mirto Milani. La scarpa, verificano gli inquirenti, era dell'ex vigilessa, compatibile con quella rinvenuta due giorni prima. Il 10 giugno, invece, nel letto del torrente Fiumeclo, vengono trovati dei jeans. Anche in questo caso la segnalazione arriva da persone che frequentano il paese. Tre minuti prima, Silvia, Paola e Mirto si trovavano a poca distanza dal torrente. L'ipotesi è che siano tutti tentativi di depistaggio del trio, dopo l'assassinio di Laura.
Antonio Borrelli. Giornalista professionista dal 2017, lavoro per l’emittente tv Teletutto e collaboro con il Giornale, il Mattino e Giornale di Brescia. Nel 2017 mi laureo in Scienze linguistiche, letterarie e della traduzione all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sul Linguaggio della comunicazione pubblica nell’Early Modern England. Sempre con sguardo attento ai fenomeni sociali e mediatici e agl
Il ruolo di Mirto Milani e tutte le falle dell'omicidio perfetto. Omicidio Laura Ziliani studiato su Youtube, le figlie tra vacanze e aumento dei fitti: “La vigilessa voleva svignarsela”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Avevano studiato su un canale crime come “uccidere la gente” provando ingenuamente a seguire le regole per un delitto perfetto e già progettavano il loro futuro tra vacanze, l’acquisto di un’auto e l’aumento degli affitti del patrimonio immobiliare, circa una decina di immobili, lasciato dal papà commercialista (Paolo Zani) morto in passato. Sono dettagli raccapriccianti quelli che emergono nell’ordinanza che ha portato ieri, giovedì 24 settembre, all’arresto delle sorelle Silvia e Paola Zani, 26 e 19 anni, e di Mirto Milani, 27 anni (fidanzato di Silvia), con l’accusa di aver ucciso l’ex vigilessa di Temù (Brescia) Laura Ziliani, madre delle sorelle Zani, e di averne occultato il cadavere. La 55enne, scomparsa lo scorso 8 maggio 2021 a Temù (ma uccisa probabilmente la sera prima o nella notte), è stata ritrovata cadavere tre mesi dopo, l’8 agosto, parzialmente sepolta lungo il greto del fiume Oglio, in territorio di Vione a circa 500 metri dalla casa di Temù, e con indosso solo la biancheria intima, “abbigliamento assoluta incompatibile con la ricostruzione fornita dagli arrestati” sottolinea la Procura. Per le due figlie e Mirto Milani era uscita di casa per una escursione in montagna. Ma anche l’allarme lanciato dal trio è apparso sin da subito sospetto perché arrivato solo dopo poche ore dalla messinscena della scomparsa della donna.
Un omicidio maturato da tempo (già ad aprile avevano tentato di uccidere la madre avvelenandola con una tisana) e dal movente di natura prettamente economica quello che ha spinto il trio (estranea la terza figlia, disabile e parte offesa in questa storia, affidata a un amministratore di sostegno), con le due ragazze apparse impassibili dopo l’arresto ma che nei giorni successivi alla finta scomparsa della madre si mostravano in lacrime davanti alle telecamere mentre chiedevano aiuto nelle ricerche. Laura Ziliani, secondo la Procura di Brescia che ha coordinato le indagini condotte dai carabinieri della Compagnia di Breno, sarebbe stata stordita con un farmaco ansiolitico a base di Bromazepam (trovato nell’abitazione dove vivevano i tre) e poi uccisa con modalità che sono ancora ignote. Sul suo corpo, rinvenuto da un bambino ad agosto lungo la pista ciclabile, non sono stati trovati segni di violenza. I preliminari accertamenti tossicologici eseguiti dall’istituto di medicina legale di Brescia hanno riscontrato la presenza di benzodiazepine nel corpo dell’ex vigilessa. In sede di esame autoptico, il corpo non presentava tracce compatibili con una lunga permanenza in acqua: l’ipotesi investigativa è che possa essere stato occultato in un ambiente le cui caratteristiche hanno rallentato il processo di trasformazione e decomposizione. Sono in corso indagini scientifiche di particolare complessità al fine di valutare l’effetto degli agenti esterni sul processo di decomposizione corporea. Nelle 38 pagine dell’ordinanza firmata dal Gip del Tribunale di Brescia Alessandra Sabatucci, viene riportata la testimonianza decisiva di un vicino di casa che lo scorso 25 maggio vede Mirto e Silvia lasciare una scarpa della 55enne poco distante dall’abitazione. In precedenza, due giorni prima, era stata ritrovata la prima scarpa di marca Salomon vicino al fiume Oglio, non molto distante dal luogo dove è stato ritrovato il cadavere, in un punto che sarebbe incompatibile con la direzione verso monte che avrebbe intrapreso la Ziliani. A confermare la presenza nella zona della coppia di fidanzati le celle a cui erano agganciati i cellulari oltre ai lettori di targhe che hanno identificato l’Opel Meriva di Silvia. Non contento, il trio nei giorni successivi aveva gettato un paio di jeans nel torrente Fiumeclo, raccontando dopo il rinvenimento che erano i pantaloni che indossava la madre la mattina della scomparsa. Particolare questo smentito dal compagno della vittima che ha spiegato che Laura andava a fare escursioni in montagna utilizzando solo abiti tecnici. Le indagini, immediatamente avviate parallelamente alle ricerche, sono consistite in attività tecniche di intercettazione, in complesse analisi di tabulati, nell’analisi forense di smartphone e computer in possesso degli indagati, oltre a perquisizioni domiciliari, sopralluoghi e repertamenti di carattere scientifico a cura della SIS del Comando Provinciale. Le risultanze investigative hanno evidenziato numerose anomalie nel racconto fornito dai tre arrestati, inducendo i carabinieri e la Procura a ritenere poco credibile la versione dell’infortunio o del malore in montagna. Per queste ragioni, a fine giugno le due figlie e il fidanzato della più grande, sulla base delle preliminari risultanze investigative, sono stati iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla relazione di parentela con la vittima e occultamento di cadavere. Nelle intercettazioni è emerso come Paola Zani, preoccupata, aveva raccontato a un’amica al telefono come Mirto aveva “fatto delle ricerche su un canale Youtube Crime per il delitto perfetto”. Canale al quale erano iscritte anche le due sorelle. Inoltre sempre Paola temeva che, dopo il sequestro dei pc da parte dei carabinieri, potessero uscire fuori questi aspetti. Il 31 maggio scorso, Milani diceva poi ad un amico che Laura Ziliani “si era preparata una macchina per svignarsela” aggiungendo che “sto pensando che magari ha dirottato i soldi su un altro conto e sta facendo la bella vita da qualche parte”. Un ruolo decisivo in questa terribile storia l’ha avuto Mirto Milani, poco gradito alla madre delle due giovani perché “voleva gestire il patrimonio familiare”. Significativo in questa direzione anche il racconto della nonna, Marisa Cirella, madre della vittima: “Mirto e le mie nipoti sono sempre stati troppo attaccati al denaro”. Lo diceva ribadiva anche Lucia, la terza sorella autistica: “Le mie sorelle la trattavano male e si arrabbiavano con lei perché dicevano che non le manteneva, volevano più soldi”. Soldi che Silvia, la sorella maggiore, guadagnava lavorando in una casa di riposa ma alla scadenza del contratto (guarda caso il 7 maggio scorso) aveva deciso di non proseguire il rapporto lavorativo.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Caso Ziliani, la chiamata della figlia ai carabinieri: "Avevamo un appuntamento, non si è fatta sentire". Redazione Tgcom24 il 24 settembre 2021. "Vi sto chiamando da Temù perché mia madre è uscita di casa circa quattro ore fa per andare a fare una passeggiata nei boschi. Ho provato a chiamarla più di una volta, avevamo un appuntamento alle 10 di mattina, ma non si è fatta sentire". "Quarto Grado" manda in onda la chiamata inedita che Silvia Zani ha fatto ai carabinieri per denunciare la scomparsa della madre Laura Ziliani, il cui cadavere è stato trovato poi tra la vegetazione in Alta Vallecamonica. " Il cellulare mi dà subito la segreteria, come se fosse spento, staccato o senza la linea. Sto cominciando seriamente a preoccuparmi", continua nella telefonata la ragazza, che, assieme alla sorella Paola e al fidanzato Mirto Milani, è stata arrestata dai carabinieri di Brescia. I tre erano indagati con l'accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere.
Chiara Baldi per “La Stampa” il 25 settembre 2021. «Il problema sai qual è? Che lei andava in giro con la macchina da 50 mila euro, che si faceva gli aperitivi a pranzo e a cena, andava al cinema. Faceva un sacco di cose, si comprava una tonnellata di scarpe, vestiti E alla Lucia (la figlia mezzana, affetta da una disabilità psichica, ndr) dava 20, 30 euro a settimana per comprare tutte le cavolate che voleva. Più i soldi della prepagata». Mirto Milani, 27 anni, parlava così al telefono, lo scorso 31 maggio, con un amico a proposito della suocera, la vigilessa 55enne Laura Ziliani, scomparsa dalla sua casa di Temù, nel Bresciano, l'8 maggio e il cui corpo è stato ritrovato l'8 agosto, sempre nel paese bresciano, tra la vegetazione vicino al fiume Oglio. All'amico, il 27enne originario della provincia di Lecco voleva far credere che la donna - vedova dal 2012 - avesse da parte una discreta quantità di soldi ma anche diversi debiti e che, «per levarseli di dosso» avesse inscenato una fuga. Milani, insieme alla fidanzata Silvia Zani e alla sorella più piccola di lei, Paola, entrambe figlie di Ziliani, è stato arrestato ieri mattina dopo che per mesi la procura di Brescia, diretta da Francesco Prete, ha indagato sul caso della donna scomparsa. Per la gip Alessandra Sabatucci, «i tre indagati avevano un chiaro interesse a sostituirsi a Laura Ziliani nell'amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare al fine di risolvere i rispettivi problemi economici»: Ziliani era proprietaria, dopo la morte del marito Enrico, di circa una decina di immobili, percepiva uno stipendio di 1100 euro al mese, più altri mille di pensione di reversibilità dal marito e altri 250 euro mensili per l'invalidità della figlia Lucia. A questo «bottino» puntava il «trio criminale», impegnato anche in questi mesi a ristrutturare tre appartamenti di Ziliani (e per la cui sistemazione la donna aveva convinto le figlie a investire i rispettivi 40 mila euro di eredità del padre) che sarebbero poi stati messi in affitto. Ed è forse proprio per avere il completo controllo della situazione che la figlia maggiore Silvia (27 anni) e la minore Paola Zani (19 anni), insieme al fidanzato Mirto Milani - che in queste settimane con la madre, Mirna Donadoni, ha gestito il patrimonio della famiglia Ziliani - avrebbero ucciso la ex vigilessa avvelenandola prima con una tisana e il bromazepan, uno psicofarmaco trovato, da esami tossicologici, nel corpo della donna. E la tisana era già stata usata in un'altra occasione, precedente, che però aveva avuto come effetto l'aver lasciato la madre solo con sonnolenza e qualche dolore protratto per giorni. A maggio, invece, il piano è stato portato a termine. Tanto che il giorno dopo averla uccisa le due figlie hanno fatto una denuncia di scomparsa. Ma la messa in scena non ha retto. La sparizione della donna non ha mai convinto gli inquirenti: troppe incongruenze. Un ruolo fondamentale lo hanno giocato anche alcune testimonianze di persone al di fuori del nucleo familiare, come quella del vicino di casa di Temù che ha raccontato di aver visto le due sorelle e Milani armeggiare sulla scena dove il corpo di Ziliani è stato trovato. Proprio lì gli inquirenti hanno trovato, a distanza di mesi dalla prima - rinvenuta nel torrente Fumeclu - anche la seconda scarpa. Che per il testimone è stata posizionata lì proprio dai tre, in un maldestro tentativo di avvalorare l'ipotesi di un infortunio o un malore.
Chiara Baldi per “La Stampa” il 25 settembre 2021. Il condominio rosa a tre piani al civico 24 di via Ragazzi del '99 a Brescia sembra disabitato. Gli unici movimenti che si notano sono le tende che si spostano, gli inquilini controllano che non ci siano cronisti sotto casa. Solo dopo le quattro del pomeriggio si fa vivo qualcuno. È una ragazza alta, con i capelli scuri corti, gli occhiali, ha una camiciola nera con dei ricami sul bianco, pantaloni neri e sandali. Si avvicina alla cancellata che separa il giardino del palazzo dall'altro condominio. Dice con voce ferma: «Le mie sorelle sono in carcere, adesso». Lucia Zani, così si chiama l'unica sopravvissuta di questa famiglia sacrificata in nome dei soldi, cerca conforto nelle parole di una vicina che le chiede «come va?». Lei pronuncia solo poche parole di risposta. Poi si gira e entra nel portone, dice «non mi serve nulla». Per la prima volta in quattro mesi, da quando l'8 maggio scorso sua madre è scomparsa, forse Lucia Zani, che ha 25 anni e una disabilità psichica di cui si prendeva cura la sua mamma, ha la consapevolezza di essere davvero sola. Ieri mattina le sue sorelle Silvia, 27 anni, e Paola, 19, sono state arrestate insieme al fidanzato della maggiore, Mirto Milani, perché sospettate di aver ucciso la loro madre. Il motivo? Per gli inquirenti volevano i soldi. E ora Lucia ha solo sua nonna, Marisa Cinelli, anche lei residente a Brescia. Ma da mesi questa signora si è isolata, sprofondata in un dolore che nessuna madre vorrebbe mai provare: non parla con nessuno, neanche coi parenti più stretti. In queste lunghe settimane ha cercato risposte perché «il mio cuore di mamma mi dice che Laura da casa sua non è neanche mai uscita e io voglio sapere che cosa le è successo». Agli inquirenti ha raccontato che, nei giorni seguenti alla sparizione della figlia, «non sono praticamente mai riuscita a discutere della vicenda con le mie nipoti. Anzi, ho avuto l'impressione che fossero fuggenti». D'altronde, Silvia e Paola Zani dicevano che «la nonna è perfida come un serpente» e forse per questo hanno ignorato i messaggi e le chiamate. Di questa famiglia di tutte donne - il papà, Enrico Zani, è morto nel 2012 travolto da una valanga - qui nessuno sa nulla. Un vicino dice che «l'unica cosa che sappiamo è che non ci aspettavamo un epilogo così». Già. Perché anche se il sindaco di Temù, il paese della Valcamonica da cui Ziliani è scomparsa, Giuseppe Pasina, oggi dice che «aveva previsto tutto, perché era tutto molto chiaro», in realtà nessuno ricorda di screzi tra mamma e figlie. Di Ziliani, d'altronde, è impossibile trovare qualcuno che ne parli male. Sempre Pasina ricorda che «in paese la conoscevano tutti» anche perché per sei anni - dal 1994 al 2000 - ha lavorato come vigilessa «e poi ha preferito passare agli uffici». Ma spendeva davvero tutti questi soldi per vestirsi e fare la bella vita? «Macché», dice il sindaco. «La Laura era una che non comprava mai niente. Anche perché quando era ancora in vita il marito, lui le faceva un sacco di conti in tasca. Pensi che le controllava anche quanta benzina usava». Sì perché i soldi, nella famiglia Ziliani-Zani, sono sempre stati centellinati: «Credo che finché è stato in vita lui, le figlie non abbiano mai fatto colazione con cornetto e cappuccino. Era un taccagno». Aveva lasciato a moglie e figlie undici immobili e una discreta somma di eredità: 40 mila per ogni figlia. Che Silvia e Paola, su suggerimento della madre, avevano voluto investire nella ristrutturazione di appartamenti, a Temù, da affittare. Un progetto familiare in cui, a un certo punto, si è inserito il fidanzato di Silvia, Mirto Milani. «Laura», ricorda Cinelli, «aveva avuto un litigio di recente con Mirto, che la accusava di spendere troppi soldi per la ristrutturazione. Laura rimase basita che potesse intromettersi in modo così invasivo in questioni economico-finanziarie che non lo riguardavano».
II piano per uccidere Laura Ziliani: "Ha un'auto da 50mila euro..." Giuseppe Spatola il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. Scattano le manette per l'omicidio di Laura Ziliani. Le figlie e il fidanzato della più grande accusati di omicidio volontario e di occultamento di cadavere. All’alba di oggi a Brescia e nella provincia di Bergamo, i Carabinieri della Compagnia di Breno (Brescia), coordinati dalla Procura della Repubblica di Brescia, hanno arrestato su ordine del Gip del Tribunale di Brescia le due sorelle di 26 e 19 anni rispettivamente impiegata e studentessa, figlie di Laura Ziliani, 55enne, scomparsa da Temù (Brescia) nella mattinata dell’8 maggio. Anche il fidanzato della sorella maggiore, uno studente universitario 27enne residente in provincia di Bergamo, è finito in manette con l’accusa, in concorso con le due ragazze, dell’omicidio volontario e dell’occultamento di cadavere della 55 enne madre delle ragazze.
Le intercettazioni. A far scattare le manette sono una serie di intercettazioni che dimostrerebbero come l'obiettivo degli assassini fosse in realtà il patrimonio della donna. "Il problema sai qual’è?", dice in una di queste Mirto Milani, "È che lei andava in giro con la macchina quella da 50 mila euro eh? Si faceva gli aperitivi a pranzo e a cena, andava al cinema... faceva un sacco di cose... si comprava una tonnellata di scarpe, di vestiti...".
Le indagini. Le indagini svolte hanno delineato un ampio quadro indiziario a carico dei destinatari della misura. Erano state le due figlie a dare l’allarme quella mattina, verso le 12, contattando il 112 e segnalando il mancato rientro della loro mamma, uscita di casa intorno alle sette per andare a fare una passeggiata nella frazione di Villa Dalegno. La donna sarebbe dovuta rientrare verso le 10 per poi andare con le figlie presso la locale discarica a disfarsi di vecchi materassi. Poco dopo la segnalazione della scomparsa, un vasto dispositivo di soccorritori composto da personale dei carabinieri, del soccorso alpino e dei vigili del fuoco, oltre che numerosi volontari, aveva battuto palmo a palmo il luogo della presunta scomparsa, senza rinvenire il corpo dell’impiegata, esperta conoscitrice di quei luoghi.
I dubbi degli investigatori. Fin dai primi giorni, i carabinieri hanno maturato perplessità sulla tenuta logica della ricostruzione dei fatti offerta dagli odierni arrestati. Le indagini, immediatamente avviate parallelamente alle ricerche, sono consistite in attività tecniche di intercettazione, in complesse analisi di tabulati, nell’analisi forense di smartphone e computer in possesso degli indagati, coniugate con perquisizioni domiciliari, sopralluoghi della SIS che hanno evidenziato numerose anomalie nel racconto fornito dai tre arrestati, inducendo i carabinieri e la Procura a ritenere poco credibile la versione dell’infortunio o del malore in montagna. Per queste ragioni, a fine giugno le due figlie e il fidanzato della più grande, sulla base delle preliminari risultanze investigative, erano stati iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla relazione di parentela con la vittima e occultamento di cadavere. Sin da subito, sono risultati sospetti sia l’allarme dato troppo in fretta dalle due figlie, sia il rinvenimento del telefono cellulare, da cui la donna non era solita separarsi, trovato sotto una panca in cantina.
La scarpa ritrovata e la svolta. Ad aggravare il quadro e a convincere ancora meno gli inquirenti circa l’ipotesi della scomparsa è stato, nella tarda mattinata del 23 maggio, il ritrovamento della scarpa che la donna - a dire delle due figlie - indossava la mattina quando sarebbe uscita di casa per fare la passeggiata. La scarpa, infatti, è stata rinvenuta nel torrente Fumeclo, in un punto che sarebbe incompatibile con la direzione verso monte che avrebbe intrapreso la signora Ziliani. Sempre nel fiume Fumeclo, poco distante dall’abitazione della donna, agli inizi di giugno scorso, era stato rinvenuto un jeans femminile rovesciato, compatibile con quello che – secondo il racconto delle figlie - la Ziliani avrebbe indossato la mattina della scomparsa. Infine è stata rinvenuta anche la seconda scarpa della signora Ziliani che, per come emerso dalle indagini, è stata collocata nel luogo del rinvenimento proprio dagli odierni arrestati al fine di depistare le attività investigative avvalorando l’ipotesi dell’infortunio o del malore.
Il cadavere sepolto. Il rinvenimento del cadavere lungo la pista ciclabile di Temù, avvenuto nella tarda mattinata dell’08 agosto, ha ulteriormente alimentato il solido quadro indiziario. Passeggiando lungo le rive del fiume Oglio, un bambino aveva notato il corpo di una donna in stato di decomposizione, non riconoscibile in volto, parzialmente nascosto tra i rami e le foglie, verosimilmente accumulatesi a seguito dell’esondazione del fiume. La donna indossava solo una canottiera e degli slip, abbigliamento assoluta incompatibile con la ricostruzione fornita dagli arrestati. Gli orecchini in oro giallo e una cisti presente sul piede destro avevano portato a ritenere che il corpo fosse proprio quello di Laura Ziliani. La definitiva conferma è giunta dalla comparazione del Dna, eseguita presso l’Istituto di Medicina Legale di Brescia. In sede di esame autoptico, il medico legale non ha rilevato segni di lesioni esterne ma la donna sarebbe stata tramortita con farmaci. Inoltre il corpo non presentava tracce compatibili con una lunga permanenza in acqua: l’ipotesi investigativa è che possa essere stato occultato in un ambiente le cui caratteristiche hanno rallentato il processo di trasformazione e decomposizione. Sono in corso indagini scientifiche di particolare complessità al fine di valutare l’effetto degli agenti esterni sul processo di decomposizione corporea. I preliminari accertamenti tossicologici eseguiti dall’istituto di medicina legale di Brescia hanno riscontrato la presenza di benzodiazepine nel corpo dell’ex vigilessa. I tre arrestati sono in carcere a Brescia in attesa di essere sentiti dai magistrati. L'ordinanza, 38 pagine, parla di una chiara intenzione di uccidere. Secondo i magistrati, infatti, i tre giovani arrestati avrebbero pensato al delitto nel dettaglio, cercando di confondere le indagini, probabilmente anche cancellando i dati dai propri telefoni cellulari. "Il proposito omicidiario è il frutto di una lunga premeditazione e di un piano criminoso che ha consentito loro di celare per lungo tempo la morte e di depistare le indagini", scrive il gip Alessandra Sabatucci nell'ordinanza di custodia cautelare. Secondo gli inquirenti il movente sarebbe di natura economica. "I tre indagati - ha scritto il magistrato - avevano un chiaro interesse a sostituirsi a Laura Ziliani nell'amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare al fine di risolvere i rispettivi problemi economici".
Il testimone. Intanto spunta anche un super testimone residente di Temù che avrebbe visto Silvia Zani, 27 anni, e il fidanzato Mirto Milani addentrarsi nei boschi dove dopo la segnalazione i carabinieri hanno poi trovato la scarpa mancante di Laura Ziliani. L'avvistamento risale al 25 maggio, due giorni dopo che la prima scarpa era stata fatta trovare sull’alveo del torrente Fiumeclo.
Le prove del delitto. Una vicina di casa della vittima ha confermato come due settimane prima della scomparsa l’ex vigilessa le ha raccontato di aver dormito per un giorno intero dopo aver bevuto una tisana preparata dalle figlie. Un particolare che, alla luce del delitto e della presenza di sonniferi nei referti della autopsia, fa pensare a “una prova generale” del delitto. Anche questa testimonianza, che confedererebbe la premeditazione, è al vaglio degli inquirenti.
Giuseppe Spatola. Sono nato a Modica (Ragusa) il 28 ottobre 1975 e subito adottato dalla Lombardia dove ho vissuto tra Vallecamonica, Milano, Pavia e lago di Garda bresciano. Giornalista professionista, sono sposato con una collega, Carla Bruni, e ho due figlie, Ginevra e Beatrice, con cui vivo a
Mara Rodella per "corriere.it" il 26 settembre 2021. In attesa che il direttore dell’istituto di medicina legale dell’ospedale Civile di Brescia, Andrea Verzeletti, depositi la sua relazione finale, è l’ipotesi più accreditata dagli inquirenti sin dal momento in cui sono arrivati i risultati preliminari degli esami tossicologici: la notte tra il 7 e l’8 maggio scorso, Laura Ziliani sarebbe stata narcotizzata con le benzodiazepine e poi uccisa nel sonno, verosimilmente per soffocamento non violento (nessun segno sul corpo), incapace di difendersi dopo essere stata narcotizzata. E a somministrargliela sarebbero stati le figlie Silvia e Paola Zani, 27 e 19 anni, e il fidanzato coetaneo della maggiore, Mirto Milani, arrestati all’alba di venerdì per omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere. A rendere sostanzialmente inerme la ex vigilessa di 55 anni, il cui cadavere è stato ritrovato la mattina dell’8 agosto lungo l’argine del fiume Oglio a Temu, un mix di ansiolitici che i consulenti del pm definiscono «potenzialmente idoneo a comprometterne la capacità di difesa rispetto a insulti lesivi esterni», ma «i rilievi quantitativi del composto consentono anche di escludere possa avere avuto un ruolo diretto nel determinare l’arresto delle funzioni vitali di Laura Ziliani». Quando l’hanno trovata indossava solo slip e canotta, tipico abbigliamento per dormire (come confermato anche dal compagno). Per questo si ipotizza sia stata uccisa nel sonno. Una volta ridotta in stato semi-comatoso, tale da ridurre drasticamente il numero di respiri al minuto, sarebbe bastato tapparle le narici, o appoggiarle un cuscino sopra il volto, per impedirle senza troppa fatica di respirare ulteriormente. Resta comunque da accertare quali elementi sul cadavere possano definitivamente confermare questa tesi. La quantità di ipnotico – in questo caso bromazepam – somministrato per via orale, ci spiegano specialisti rianimatori, è comunque in grado di indurre uno stato di ipnosi, appunto, molto profondo. Così profondo da diminuire gli atti respiratori al minuto della vittima: respirando in maniera meno frequente, è verosimile che anche la saturazione dell’ossigeno nel sangue cali, sotto un livello di soglia critico che può anche far diminuire il numero di battiti cardiaci. Fino a causare un arresto cardiaco (bradicardia al punto che poi il cuore si arresta). Se quindi di per sé il bromazepam non è un agente mortifero, potrebbe comunque indirettamente aver scatenato una serie di reazioni fisiologiche che poi diventano determinanti nel decesso. O che quantomeno hanno agevolato l’intervento attivo, per chi indaga, dei tre ragazzi.
«Laura Ziliani stordita e soffocata nel sonno». Il cadavere nascosto per settimane. Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2021. Nel corpo di Laura Ziliani sono state trovate tracce di bromazepam: «Composto idoneo a comprometterne la capacità di difesa». Per ucciderla forse fu sufficiente tapparle le narici. I punti da chiarire sono ancora molti. Tasselli di un quadro che per gli inquirenti (e un giudice) portano alla responsabilità di tre ragazzi con un’accusa pesantissima: omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere. Quello di Laura Ziliani, 55 anni, ex vigilessa e impiegata comunale a Roncadelle, nel bresciano, vedova, esperta di trekking. Al punto che la sua presunta morte a seguito di un infortunio durante una passeggiata nei boschi di Temù, in Valcamonica, la mattina dell’8 maggio, poco ha convinto chi indaga sin dalle prime battute di un’inchiesta arrivata alla svolta quattro giorni fa. Venerdì in carcere su ordinanza cautelare del gip Alessandra Sabatucci sono finite due delle tre figlie di Laura, Paola e Silvia Zani, 19 e 27 anni, rispettivamente studentessa di Economia e impiegata in una Rsa, e il fidanzato coetaneo della maggiore, Mirto Milani, laurea in psicologia, sopranista iscritto al Conservatorio di Milano. Un delitto «frutto di un piano a lungo premeditato»: le ragazze, con Mirto, avrebbero ucciso la madre «al fine di appropriarsi del patrimonio familiare» per gestirlo in via esclusiva. Laura sarebbe morta nel sonno la notte tra il 7 e l’8 maggio, nella sua casa di Temù: quando è stata ritrovata, tre mesi dopo, lungo l’argine del fiume Oglio, indossava un paio di slip e una canotta. Decisivi i risultati preliminari degli esami tossicologici condotti dall’istituto di medicina legale dell’ospedale Civile di Brescia e depositati solo nei giorni scorsi: nel corpo della ex vigilessa sono state trovate tracce di bromazepam. Per i consulenti del pm «è possibile ritenere che al momento del decesso la donna si trovasse sotto l’influenza di tale composto, anche potenzialmente idoneo a comprometterne la capacità di difesa rispetto a insulti lesivi esterni». Nessun segno sul corpo, da subito gli inquirenti hanno ritenuto l’ipotesi più accreditata sia quella di un soffocamento non violento: in stato semi-comatoso sarebbe bastato tappare le narici di Laura, incapace di reagire, per interromperle definitivamente un respiro già indebolito, piuttosto che appoggiarle un cuscino sul volto. Ma sarà la relazione finale del medico legale a mettere un punto fermo su questo aspetto. Ce n’è un altro, dirimente. Si ritiene che «il cadavere di Laura sia stato occultato in un luogo che ne ha permesso una discreta conservazione per tre mesi». Dall’autopsia «appare poco probabile sia rimasto per un lungo periodo nelle condizioni ambientali che caratterizzavano il luogo del ritrovamento», all’aperto. Ma se e dove Laura sia stata nascosta, non è ancora dato saperlo. Dopo l’ appello lanciato in una tv locale , a maggio, in cui Paola e Silvia imploravano singhiozzando chiunque avesse informazioni sulla madre, le sorelle si sono chiuse nel silenzio. Stesso copione per Mirto, che solo a fine giugno, sapendo di essere indagato, si sfogò con don Andrea Pedretti, parroco di Roncola San Bernardo: «Io non c’entro niente, gli inquirenti mi stanno rovinando la vita». Lui che, intercettato al telefono con un amico, il 31 maggio, arrivò a insinuare che Laura avesse inscenato la sua morte per scappare dai creditori e che stesse «facendo la bella vita» altrove. Non è l’unico depistaggio: Paola, Silvia e Mirto avrebbero piazzato la scarpa destra di Laura lungo il suo presunto percorso (trovata il 23 maggio) e nascosto la sinistra (recuperata due giorni dopo) tra i rovi per sbarazzarsene, oltre a un paio di jeans, nel torrente Fiumeclo. Avrebbero resettato i telefoni e mentito su quello di Laura: «Stava smanettando con lo smartphone prima di uscire», verso le sette. Ma la consulenza informatica ha dimostrato che non aveva generato traffico a quell’ora. Piuttosto, l’app contapassi si era attivata dopo le otto, ma il cellulare è stato trovato in cantina, tra la scala e una panca. Lì non c’è campo. Domani in carcere, i tre ragazzi saranno davanti al gip per l’interrogatorio di garanzia. «Ci troviamo di fronte a un’indagine indiziaria — conferma il procuratore di Brescia, Francesco Prete —, ma mesi di investigazioni hanno portato a ribaltare l’ipotesi della scomparsa e della morte naturale, la nostra è un’ipotesi che riteniamo fondata».
Mara Rodella per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 201. Brescia In silenzio. Come lo sono state venerdì all'alba davanti ai carabinieri al momento dell'arresto per l'omicidio della madre Laura Ziliani e l'occultamento del suo corpo, così sono rimaste nel carcere femminile di Verziano dove le sorelle Paola e Silvia Zani - rispettivamente studentessa universitaria di 19 anni e impiegata in una Rsa di 27 - hanno trascorso la prima notte, insieme, nella stessa cella. Ci sono entrate mano nella mano, senza dire nulla. Nel silenzio si è chiuso anche il fidanzato della maggiore (e amante della minore) Mirto Milani, musicista di 27 anni, in isolamento nel carcere di Canton Mombello con le stesse accuse. Considerato dal gip il «manipolatore» delle due sorelle, che «incapaci di contrastare la volontà della madre hanno preferito sopprimerla piuttosto che dissentire apertamente con lei circa la gestione del proficuo patrimonio famigliare», nei mesi scorsi, però, qualcosa l'ha detto. «Gli inquirenti hanno rovinato la mia vita», si sfoga una volta saputo di essere indagato e professandosi «innocente» con don Andrea Pedretti, parroco di Roncola San Bernardo, a Bergamo, dove si era trasferito negli ultimi mesi con i genitori. Di natura economica il presunto movente del delitto: «I tre indagati avevano un chiaro interesse a sostituirsi a Laura nell'amministrazione di un vasto patrimonio immobiliare al fine di risolvere i rispettivi problemi economici», scrive il giudice, Alessandra Sabatucci. Tanto da arrivare, nel caso specifico proprio Mirto - che da subito inizia a gestire gli appartamenti in locazione, contattando gli inquilini per rivendicare arretrati e alzare i canoni - a insinuare che Laura Ziliani potesse aver inscenato la sua morte per svignarsela dai creditori. L'ex vigilessa, però, di debiti non ne aveva. Il 31 maggio, intercettato, parla al telefono con un amico: «Alla fine le volevo bene, ma la situazione è disastrosa: spendeva più di quanto prendeva». E si spinge oltre: «Magari nel tempo ha dirottato i soldi su un altro conto e adesso si sta facendo la bella vita da qualche parte», dice, fino a ipotizzare che magari, la sua scarpa destra da trekking l'avesse messa proprio lei, a cinquecento metri dal punto in cui sarà ritrovato il suo corpo in agosto. «Sai, non essendo stata trovata l'altra...», «fai perdere le tue tracce e se tutto il mondo ti crede morta e non ti cerca». E invece gli inquirenti la scarpa sinistra l'avevano già recuperata, il 25 maggio, in un boschetto isolato di Temù, dove proprio Mirto e Paola l'avrebbero nascosta per sbarazzarsene. Ma lui non lo sapeva. A venti giorni dalla scomparsa della madre anche Silvia e Paola pensano ai soldi, congratulandosi a vicenda per il denaro che di lì a breve avrebbero incassato, «così da riuscire a dare l'anticipo per un'auto nuova e una vacanza». Nessun turbamento, evidenzia il gip, per le sorti della mamma.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 201. Al bar dell'Adamello l'aria è cupa. «Ma come hanno potuto fare una cosa del genere, il veleno, le scarpe, i jeans...». «Una fine del genere, povera Laura...». «E povera Lucia, povera stella, senza mamma, senza papà, le sorelle in galera...». Siamo con le amiche di mamma Laura, nel centro di Temù, per il solito caffè del sabato mattina. Ma questo è un sabato particolare, ci sono stati gli arresti e c'è stata la scoperta dei dettagli dell'efferato crimine. «Se penso che siamo andati a cercarla per settimane su in montagna e loro sapevano tutto... ma la nonna me l'aveva detto che potevano essere stati loro». «Lucia invece non se lo aspettava, l'ho sentita anche stamattina», continua a girare il cucchiaino nella tazzina la più pensierosa del gruppetto. Quando si pronuncia quel nome, Lucia, i sospiri si mescolano ai sorrisi. Lucia ha 25 anni ed è la figlia mezzana di Laura Ziliani rimasta estranea all'inchiesta, rispetto alla quale è piuttosto l'altra vittima. Soffre di un «lieve ritardo cognitivo» scrive il magistrato, per cui mamma Laura è sempre stata la sua roccia. «Lei è solare, pura, simpatica, socievole, senza malizie», sorride benevolmente una delle signore. La incontrano alle feste, per strada, qui al bar, a messa, dove fa le chierichetta (la madre era catechista). «Ti saluta sempre, si ferma a parlarti... Le vogliamo tutti un gran bene... Le hanno tolto la madre che era la sua vita». La chiamiamo al telefono, a Brescia, tenendo conto del suo disagio e del fatto che è già stata sentita dagli inquirenti. Lucia risponde gentilmente dalla casa dove abitava con la madre, e racconta così il suo dolore: «Sto male perché l'hanno ammazzata loro, le mie sorelle e quel cretino di Mirto, per i soldi... Io e la mamma vivevamo insieme ed eravamo praticamente inseparabili. Sono felice che li abbiano arrestati, non avranno mai il mio perdono». Ha letto, ha sentito, ha pianto. «Non me l'aspettavo proprio, io pensavo che fosse morta per cause naturali o per un'incidente... mi hanno nascosto così tante cose che non so... perderla così è un cosa che non riesco a pensare...». La voce si rompe, attende qualche secondo. «Io non mi fidavo più di loro, ma non pensavo che arrivassero a fare una cosa così brutta. Sono state cattive, più di mio padre. Lui aveva un carattere complicato ma gli volevo bene... è morto sotto una valanga». Racconta del rapporto con Mirto: «Mia mamma non ci andava d'accordo e mia nonna lo odiava». Mirto, laureato in psicologia e musicista, sopranista che suonava l'organo nella chiesa parrocchiale, è fidanzato da una decina d'anni con la sorella maggiore, Silvia. Per gli inquirenti, che l'hanno arrestato, potrebbe essere la mente del trio. Avrebbero ucciso la donna per ragioni di natura economica legate alla gestione del patrimonio immobiliare, una decina di case sparse fra la Valcamonica e Brescia, delle quali è comproprietaria anche Lucia. Una delle amiche azzarda un'ipotesi: «Forse volevano sbarazzarsi anche di lei, che poteva essere d'intralcio ai loro affari». «Lo escludo nel modo più categorico - smentisce l'investigatore che si è occupato del delitto -. Le sorelle volevano molto bene a Lucia e mai avrebbero potuto pensare di uccidere anche lei». Lo scorso 6 luglio, sentita dal pm di Brescia, aveva descritto così il rapporto fra la madre e le sue sorelle: «Loro l'avevano trattata molto male, si arrabbiavano spesso con lei perché dicevano che non le manteneva, non dava loro abbastanza soldi, questo soprattutto Paola...». Alle voci si aggiunge quella di Nicoleta, la vicina di casa di Laura che venerdì parlava del terzetto come di «mostri». Vuole dire una cosa, contro chi racconta Silvia e Paola come strane e ombrose: «Sono cresciute a casa mia, con le mie figlie, e devo dire che non ho mai avuto problemi con loro, anzi. Dopo la scomparsa di Laura, Paola, che è bravissima negli studi, ha aiutato la mia a diplomarsi. Certo, adesso hanno fatto qualcosa di mostruoso... Lucia? Lei mi chiama tutti i giorni, dice che io sono ora la sua mamma, dice che la tranquillizzo». Poi tutti salutano e nel paese di montagna scosso dal delitto cala un brutto silenzio.
Claudia Guasco per "il Messaggero" il 27 settembre 2021. Laura Ziliani era sana e sportiva, «solare, vivace e amante della compagnia», raccontano agli investigatori il compagno Riccardo e l'amica Emanuela. Il medico conferma di non averle mai prescritto «psicofarmaci o ipnotici», gli esami tossicologici rivelano però che al momento della morte, avvenuta l'8 maggio, l'ex vigilessa di Temù «fosse sotto l'influenza di bromazepan». In un quantitativo non mortale ma «potenzialmente idoneo a comprometterne le capacità di difesa». Nel caso specifico, da un soffocamento. Le figlie Silvia e Paola Zani, con il fidanzato della prima e amante della seconda Mirto Milani, l'avrebbero eliminata con un cuscino premuto sulla faccia mentre dormiva profondamente, stordita dagli ansiolitici.
LA MAIL MISTERIOSA È la pista seguita dagli investigatori sulla base dei primi risultati dell'autopsia. «Gli esperti di medicina legale stanno ancora lavorando», premette chi indaga. Tuttavia l'assenza di fratture, ferite o segni di strangolamento sul collo della vittima sono rivelatori del piano attuato dal «trio criminale»: prima hanno somministrato psicofarmaci a Laura Ziliani, poi l'hanno soffocata. Nell'appartamento a Brescia che le due sorelle condividevano con Mirto i carabinieri hanno trovato «un flacone contenente Bromazepan pieno fino a un terzo». Per Silvia Zani, 27 anni, professione fisioterapista, non era un problema procurarselo e ne conosceva bene gli effetti: fino a due giorni dopo la scomparsa della madre ha lavorato in una casa di riposo a Ponte di Legno. «In passato ha sottratto della Queatipina 50 per provarne gli effetti insieme all'alcol», si legge nell'ordinanza, e al telefono con la sorella dice di essere stata malissimo e di non voler ripetere l'esperienza. La pianificazione dell'omicidio da parte del terzetto prosegue poi con la cancellazione delle tracce: hanno spostato il corpo senza essere notati da nessuno, lo hanno nascosto dapprima «in un luogo più asciutto, sempre all'aperto ma più riparato», hanno occultato il telefono in cantina (tradendosi, poiché ha registrato otto passi quando a loro dire Laura era già uscita), quindi hanno messo in scena uno straziante appello, con le due sorelle in lacrime davanti alle telecamere della tv. Le voci di paese però sono un venticello fastidioso, così il 16 maggio all'indirizzo di posta elettronica della polizia locale della Valle Camonica arriva una mail nella quale un anonimo segnala di aver assistito alla seguente scena: «Il nostro vicino ha preso sulle spalle una signora priva di sensi dalla loro macchina». Il giorno seguente «ha appreso trattarsi della signora Laura». Chi scrive afferma di essere stato pagato per mantenere il silenzio, ma di essere pronto a negoziare un nuovo accordo. Gli accertamenti per risalire al misterioso «noknok10330atmail.com», con un Ip localizzato a Varese, non hanno dato risultati.
IL RUOLO DI MIRNA Il movente che ha spinto i tre a liberarsi di Laura Ziliani sono i soldi: Silvia e Paola si lamentavano del fatto che la madre non le mantenesse, Mirto sognava di trasformare in bed and breakfast la casa di famiglia a Temù. Senza Laura sarebbe stato tutto loro. Case, terreni, contanti. L'ex vigilessa percepiva 1.100 euro al mese di stipendio come dipendente del Comune di Roncadelle, 1.000 di pensione di reversibilità del marito morto cui si aggiungevano «le entrate, dichiarate o meno, dalle locazioni degli appartamenti di proprietà». Tutto amministrato dai tre indagati da quando Laura è svanita nel nulla. Con la collaborazione di una quarta persona sulla quale gli investigatori stanno svolgendo approfondimenti: Mirna, la madre di Mirto, trasferitasi nell'appartamento di Temù poche ore dopo la scomparsa dell'ex vigilessa. Puliva gli appartamenti, amministrava le locazioni, dormiva addirittura nel letto di Laura. Mette a verbale Marisa Cinelli, mamma della Ziliani: «Ho saputo dalla vicina che Mirna avrebbe contattato personalmente un'affittuaria che aveva qualche debito con Laura, intimandole di saldare i debiti e di consegnarle la somma di denaro, riferendole che al momento era lei che gestiva le finanza della famiglia Zani-Ziliani». Domani l'interrogatorio di garanzia dei tre indagati davanti al gip.
"La sorella disabile un problema". Il retroscena choc sull'omicidio della vigilessa. Federico Garau il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. Dai racconti della sorella delle due giovani emerge una situazione familiare decisamente conflittuale. Non hanno più proferito parola dopo il loro arresto, trascorrendo la prima notte in carcere all'interno della medesima cella le due sorelle incriminate con l'accusa di omicidio e di occultamento del cadavere della madre, l'ex vigile Laura Ziliani. Silvia e Paola Zani, rispettivamente di 27 e 19 anni, hanno mantenuto pertanto lo stesso atteggiamento dell'altro presunto responsabile, vale a dire Mirto Milano, fidanzato della prima ma amante segreto della seconda: quest'ultimo, detenuto in regime di isolamento a Canton Mombello, si è trincerato nel silenzio. Nell'ordinanza il gip, oltre che accusare i tre del terribile delitto, imputa loro anche il fatto di aver "privato Lucia Zani, disabile e in tutto dipendente dalla madre, dell'unico genitore superstite". Anche il destino di Lucia, seconda figlia dell'ex vigile con difficoltà fin dalla nascita, sarebbe potuto divenire un problema per i tre. Il fatto che qualche parente decidesse di farsi avanti, a seguito dell'omicidio della madre, per divenirne tutore legale, era una preoccupazione da non sottovalutare, dato l'elevato rischio di non poter godere appieno di tutto il consistente patrimonio immobiliare. Mirto Milani, al telefono, metteva in allarme le complici, spiegando che il ruolo di tutore della sorella disabile sarebbe presumibilmente stato ricoperto dalla nonna Marisa o dagli zii Michele e Massimo. Dato che l'ipotesi avanzata dal gip è quella di un omicidio perpetrato nei confronti della vittima con lo scopo di mettere le mani sul suo patrimonio, l'idea di veder erodere il tesoretto con la nomina di un tutore per Lucia Zani diveniva un vero e proprio incubo per i responsabili. "Oltre all'usufrutto completo dell'appartamento della madre a Brescia, Lucia Zani possiede con le sorelle le altre proprietà della mamma", scrive il gip, come riportato da "Il Messaggero". "L'eventuale nomina di un parente estraneo alla stretta cerchia familiare come tutore avrebbe impedito agli indagati di amministrare a loro piacimento il patrimonio immobiliare".
I racconti della sorella disabile. Sentita dai pm, Lucia ha parlato di una situazione familiare molto conflittuale. Era la madre a mantenere entrambe le sorelle: "Silvia è stata licenziata per ben tre volte. A quanto ne so non ricevono gli affitti degli appartamenti perché è tutto bloccato". Ma anche il fatto di essere campate da Laura Ziliani non bastava alle due figlie, che chiedevano ancora più soldi alla madre. Oltre a ciò, la sorella dipinge un atteggiamento particolarmente aggressivo da parte di Silvia e Paola. Oltre che accusare la nonna di essere "perfida come un serpente", ne avevano anche per gli zii, trattavano "molto male la mamma, soprattutto Silvia si arrabbiava spesso con lei, perché dicevano che lei non le manteneva, non dava loro abbastanza soldi, questo soprattutto Paola. Si arrabbiavano spesso con me: hanno lo stesso carattere del papà che era violento e cattivo".
Nessun presentimento. Laura Ziliani parte da Brescia per raggiungere Temù il 7 maggio: "Era tranquilla e serena", dichiara il compagno. L'ex vigile aveva in programma due uscite sui monti, una da fare proprio con le figlie le quali, peraltro, avevano cucinato una torta per la festa della mamma. Tutto preparato ad hoc, secondo gli inquirenti, coi tre che avevano pronte delle benzodiazepine da sciogliere in una tisana per stordire la donna. Dopo la morte, l'occultamento del cadavere, di cui i responsabili si sarebbero liberati sui monti. Nella ricostruzione, tuttavia, mancano degli elementi fondamentali: rimane da comprendere chi abbia ucciso Laura ed in che modo lo abbia fatto, oltre che ottenere degli elementi in grado di chiarire come il corpo della vittima sia stato spostato dall'appartamento alle sponde dell'Oglio in Val Camonica, luogo in cui è stato rinvenuto lo scorso 8 agosto.
Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.
Da "liberoquotidiano.it" il 26 settembre 2021. Secondo quanto filtra dalle indagini, sarebbero stati fatti sparire i telefonini di Silvia e Paola. Ai carabinieri le sorelle avrebbero consegnato degli smartphone nuovi. Secondo Mirto quelli vecchi erano stati venduti per 250 euro "a un marocchino in stazione. Perché avevamo bisogno di soldi". Secondo quanto riporta la Stampa, però, la versione fornita è una delle tante menzogne di questa storia: i cellulari vecchi infatti sarebbero "ricomparsi" ma con reset alle impostazioni iniziali di fabbrica. Cosa dovevano nascondere i tre sospettati? Silvia ha motivato il gesto con "la vergogna" causata "dall’idea che si sapesse che ero iscritta a un sito di scambisti". Paola invece non voleva "che si sapesse che ho una relazione col fidanzato di mia sorella". Altri tasselli sconvolgenti, come il tentativo di "costruire" una fittizia scena del crimine sparpagliando per Palù le scarpe e i jeans della vittima, per avvalorare la tesi della sparizione retta anche in tv, davanti alle telecamere di Chi l'ha visto.
La ricostruzione degli investigatori. Martedì gli interrogatori. Laura Ziliani “stordita e soffocata con un cuscino”, i depistaggi: “Era piena di debiti”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Settembre 2021. Stordita ma non uccisa dai farmaci a base di benzodiazepine e poi soffocata con un cuscino mentre dormiva sotto effetto di ansiolitici così da non potersi difendere. E’ questa l’ipotesi principalmente battuta dagli investigatori sull’omicidio di Laura Ziliani, la 55enne vigilessa scomparsa l’8 maggio a Temù (Brescia) e ritrovata cadavere tre mesi dopo, l’8 agosto. Per l’omicidio della donna sono state arrestate nei giorni scorsi le due figlie Silvia e Paola Zani, 26 e 19 anni, e Mirto Milani, 27 anni (fidanzato di Silvia), che ora dovranno difendersi dall’accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Adesso bisogna vedere quali elementi sul cadavere, a distanza di 140 giorni dal decesso, possono ancora essere trovati a sostegno della tesi del soffocamento non violento. Dall’autopsia non sono emersi segni di violenza sul copro di Laura Ziliani mentre i preliminari accertamenti tossicologici eseguiti dall’istituto di medicina legale di Brescia hanno riscontrato la presenza di benzodiazepine nel corpo dell’ex vigilessa. Farmaco ansiolitico trovato nell’abitazione dove vivevano le due figli e Milani. Intanto è in programma per martedì 28 settembre l’interrogatorio di garanzia di Mirto Milani, Silvia e Paola Zani. Le due sorelle sono recluse nella stessa cella nel carcere bresciano di Verziano, mentre Mirto si trova nell’altro carcere di Brescia, Canton Mombello.
La pianificazione e i depistaggi. Un omicidio maturato da tempo (già ad aprile avevano tentato di uccidere la madre avvelenandola con una tisana) e dal movente di natura prettamente economica quello che ha spinto il trio (estranea la terza figlia, disabile e parte offesa in questa storia, affidata a un amministratore di sostegno), con le due ragazze apparse impassibili dopo l’arresto ma che nei giorni successivi alla finta scomparsa della madre si mostravano in lacrime davanti alle telecamere mentre chiedevano aiuto nelle ricerche. I tre avevano studiato su un canale crime come “uccidere la gente” provando ingenuamente a seguire le regole per un delitto perfetto e già progettavano il loro futuro tra vacanze, l’acquisto di un’auto e l’aumento degli affitti del patrimonio immobiliare, circa una decina di immobili, lasciato dal papà commercialista (Paolo Zani) morto in passato. Nelle intercettazioni è emerso come Paola Zani, preoccupata, aveva raccontato a un’amica al telefono come Mirto aveva “fatto delle ricerche su un canale Youtube Crime per il delitto perfetto”. Canale al quale erano iscritte anche le due sorelle. Inoltre sempre Paola temeva che, dopo il sequestro dei pc da parte dei carabinieri, potessero uscire fuori questi aspetti. Il 31 maggio scorso, Milani diceva poi ad un amico che Laura Ziliani “si era preparata una macchina per svignarsela” aggiungendo che “sto pensando che magari ha dirottato i soldi su un altro conto e sta facendo la bella vita da qualche parte”. “Lei andava in giro con la macchina da 50.000 euro, si faceva gli aperitivi a pranzo e cena…andava al cinema, faceva un sacco di cose…si comprava una tonnellata di scarpe, di vestiti. La situazione è disastrosa, lei spendeva più di quello che prendeva…”. Il ragazzo ipotizza una situazione disastrosa, smentita dalle indagini che non evidenziano alcuna posizione debitoria della vittima. Un ruolo decisivo in questa terribile storia quello avuto Mirto Milani, poco gradito alla madre delle due giovani perché “voleva gestire il patrimonio familiare”. Significativo in questa direzione anche il racconto della nonna, Marisa Cirella, madre della vittima: “Mirto e le mie nipoti sono sempre stati troppo attaccati al denaro”. Lo diceva ribadiva anche Lucia, la terza sorella autistica: “Le mie sorelle la trattavano male e si arrabbiavano con lei perché dicevano che non le manteneva, volevano più soldi”. Soldi che Silvia, la sorella maggiore, guadagnava lavorando in una casa di riposa ma alla scadenza del contratto (guarda caso il 7 maggio scorso) aveva deciso di non proseguire il rapporto lavorativo. Nelle 38 pagine dell’ordinanza firmata dal Gip del Tribunale di Brescia Alessandra Sabatucci, viene riportata la testimonianza decisiva di un vicino di casa che lo scorso 25 maggio vede Mirto e Silvia lasciare una scarpa della 55enne poco distante dall’abitazione. In precedenza, due giorni prima, era stata ritrovata la prima scarpa di marca Salomon vicino al fiume Oglio, non molto distante dal luogo dove è stato ritrovato il cadavere, in un punto che sarebbe incompatibile con la direzione verso monte che avrebbe intrapreso la Ziliani. A confermare la presenza nella zona della coppia di fidanzati le celle a cui erano agganciati i cellulari oltre ai lettori di targhe che hanno identificato l’Opel Meriva di Silvia. Non contento, il trio nei giorni successivi aveva gettato un paio di jeans nel torrente Fiumeclo, raccontando dopo il rinvenimento che erano i pantaloni che indossava la madre la mattina della scomparsa. Particolare questo smentito dal compagno della vittima che ha spiegato che Laura andava a fare escursioni in montagna utilizzando solo abiti tecnici.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
Mara Rodella per il “Corriere della Sera” il 18 agosto 2021. Per capire davvero come sia morta ci vorranno ancora giorni. Lo dirà l'esito degli esami tossicologici e delle analisi approfondite disposte sugli organi interni. Ma in Procura, a Brescia, dall'Istituto di medicina legale è arrivata la conferma ufficiale (perché ufficiosa già c'era, dirimente una ciste sotto il piede destro): il corpo senza vita trovato domenica 8 agosto a Temù, in Valcamonica, nel boschetto lungo l'argine del fiume Oglio, è quello di Laura Ziliani, 55 anni, scomparsa dal paese la mattina dell'8 maggio scorso. E a stabilirlo senza margine di dubbio alcuno è il risultato della comparazione del Dna tra il campione prelevato dalla salma e quello fornito da Lucia, 24 anni, l'unica figlia della ex vigile non indagata per la sua morte. Ipotizzando l'omicidio volontario e l'occultamento del cadavere, alla fine di giugno, il pm Caty Bressanelli ha iscritto la figlia più grande, Silvia di 27 anni - che denunciò la scomparsa della mamma - e la più piccola, Paola, che ne ha 19, oltre al fidanzato della maggiore. Il movente potrebbe essere di natura economica. Ma sono ancora molte le domande che, ad oggi, non trovano risposta. A partire proprio dalla causa del decesso: sul corpo di Laura nessun segno di violenza o lesioni evidenti, esterne o interne. Negativa anche la Tac che non ha riscontrato alcuna frattura, escludendo quindi con tutta probabilità l'ipotesi di un incidente in montagna. Lei, così esperta di escursioni e vette, tanto da tornarci quasi tutti i weekend, non aveva il gps con sé. Stranissimo. Ed è stata trovata con addosso solo brandelli di una canotta o un paio di slip, vale a dire indumenti che di certo non riconducono a una donna che si era preparata per una passeggiata in quota. Piuttosto, a un momento di riposo in un posto sicuro. Nei polmoni non c'era acqua. E il suo corpo, di certo, non è stato in acqua a lungo, nonostante l'acqua, secondo gli inquirenti, abbia giocato un ruolo cruciale nel suo ritrovamento: trascinando il cadavere da un punto a un altro dopo le esondazioni dovute alle abbondanti precipitazioni recenti o dilavandolo prima di rientrare nell'alveo, svelando dunque una sepoltura «artigianale». Anche questo è un punto fondamentale dell'inchiesta. Perché il cadavere di Laura Ziliani si presenta sì in avanzato stato di decomposizione, ma tutto sommato «ben conservato» e per nulla gonfio. Come se non fosse stato esposto per tutti questi tre lunghi mesi alle intemperie, agli agenti atmosferici, all'azione impietosa degli animali selvatici. Non si può escludere, quindi, allo stato, che il corpo senza vita di Laura sia stato spostato, deliberatamente, da un punto all'altro. Che in prima battuta sia stato cioè custodito in un luogo più asciutto e riparato rispetto alla terra e alla sabbia (non sono stati peraltro trovati residui di sacchi o teli) e poi portato là dove è stato notato da un bimbo di passaggio lungo la ciclabile, in vacanza con la famiglia. Un luogo meno umido e protetto. Se così fosse, però, bisognerebbe anche chiedersi il perché di una simile «strategia». Questa resta, comunque, solo un'ipotesi per chi indaga, tenuto conto di quanto la zona, in quel periodo, fosse presidiata. Anche gli organi interni si presentano in buono stato, come evidenziato dall'autopsia condotta dal professor Andrea Verzeletti alla presenza dei consulenti di parte: il fegato potrebbe svelare se Laura Ziliani sia stata narcotizzata o addirittura avvelenata, tanto che anche le farmacie della zona sarebbero state passate al setaccio dagli investigatori. Se la ex vigile, da anni impiegata negli uffici comunali di Roncadelle, in provincia di Brescia, abbia ingerito sostanze tossiche, il suo corpo le dovrebbe restituire. Chiaro che sarebbe soltanto il primo passo al fine di stabilire chi e come, se non proprio lei stessa, eventualmente gliele abbia fatte ingerire. Meno accreditata l'ipotesi del soffocamento, che in genere sembra lasci segni esterni più evidenti, per esempio a livello oculare.
Claudia Guasco per “il Messaggero” il 17 agosto 2021. Un corpo, due tombe. La prima in un luogo coperto, asciutto, che ha risparmiato il cadavere dai segni delle intemperie. La seconda in una buca scavata frettolosamente in montagna, che non ha resistito alle acque impetuose del fiume Oglio ingrossato dalle piogge. «Questo spiegherebbe come mai il corpo di Laura Ziliani, trovato tre mesi esatti dopo la sua scomparsa, non fosse decomposto tanto quanto il tempo trascorso lascerebbe prevedere», riflettono gli investigatori. Che per arrivare alla verità sulla morte dell'ex vigilessa di Temù, 55 anni, tre figlie di cui due indagate con il fidanzato della maggiore per omicidio volontario e occultamento di cadavere, seguono il filo della doppia sepoltura: una nell'immediatezza della morte, l'altra per disfarsi definitivamente del corpo.
SABBIA E TERRICCIO Se questi era il piano, è fallito l'8 agosto quando un bambino in bicicletta con i genitori sulla strada che corre lungo il fiume ha scorto un cadavere dietro i cespugli. L'autopsia (che ha evidenziato la malformazione al piede) e gli orecchini ancora ai lobi (che indossava sempre) hanno portato in poche ore all'identificazione della vittima e soprattutto hanno fornito elementi importanti per le indagini. Il corpo è relativamente ben conservato, considerata l'umidità del luogo in cui si trovava, integro da insetti e animali selvatici, con «organi interni in ottimo stato», rileva l'esame eseguito da Andrea Verzelletti, direttore di Medicina legale degli Spedali riuniti di Brescia. A coprirlo soltanto uno strato leggero di sabbia e terriccio, elemento che lascia pensare a un raffazzonato tentativo di sepoltura in un luogo poco profondo. Entro la fine della settimana i magistrati bresciani avranno sulla scrivania l'esito del test del Dna e, elemento decisivo, il risultato delle analisi tossicologiche da cui si evincerà se Laura Ziliani sia stata narcotizzata o avvelenata. Al momento ciò che si sa è che non è morta affogata, per una caduta (nessuna frattura) o a causa di ferite. Gli abitanti di Temù, paese di 1.200 persone che confina con Ponte di Legno, nutrono forti perplessità sul fatto che la mattina dell'8 maggio l'ex vigilessa sia davvero uscita di casa per una camminata in quota come raccontato dalla figlia maggiore nella denuncia di scomparsa. «Laura conosce bene queste montagne così come i pericoli. Non sarebbe mai andata via di casa senza telefono e senza accendere il gps», assicura chi la frequentava. Nel 2012 ha perso il marito travolto da una slavina e dal quel momento è diventata ancora più prudente nelle sue escursioni. «È stata uccisa e sepolta», ripete il sindaco Giuseppe Pasina che fin dal primo giorno non ha mai creduto all'ipotesi dell'incidente. Dopo il suo ritrovamento a Temù si sono rincorse le voci più disparate, compresa quella di un sacrificio a sfondo satanico poiché il cadavere era senza capelli (conseguenza post mortem, ha chiuso la questione l'autopsia). È poi c'è il mistero dei vestiti: Laura Ziliani indossava sono la biancheria intima e in questi tre mesi è spuntata solo una scarpa. Eppure è uscita di casa ben attrezzata. «È verosimile ritenere che la donna alle 7.05 dell'8 maggio possa essere scesa in cantina per prendere una giacca per uscire e per verificare la presenza di attrezzature utili alla gita già programmata per il giorno successivo con le figlie», scrivono i carabinieri in una relazione agli atti.
DISSIDI ECONOMICI La svolta arriverà dagli esami tossicologici, a cui è appeso il destino dei tre indagati: Paola, la figlia maggiore, Silvia, la minore, e il fidanzato della più grande Mirto. Chi punta il dito contro di loro riferisce di litigate frequenti per motivi economici, i tre avevano grandi progetti per la casa di famiglia di via Ballardini che volevano trasformare in un bed and breakfast. Un progetto al quale Laura Ziliani opponeva resistenza, quell'abitazione era il suo rifugio sui monti da quando si è trasferita a Roncadelle. E c'è anche il suo cospicui patrimonio immobiliare, con decine di appartamenti tra Temù, Malonno, Edolo e Brescia. In questi giorni i concittadini hanno risalito il sentiero dell'Oglio portando ceri e fiori per ricordare l'amica perduta, ma molti sono anche i turisti che scattano foto. Chi a piedi e chi in bici, in un triste e macabro tour che si spinge fin sotto la casa dove Laura Ziliani è entrata per la prima volta il 7 maggio e dalla quale nessuno l'ha vista uscire.
Per l’omicidio indagate le due figlie e il fidanzato della maggiore. Laura Ziliani, dopo il ritrovamento del corpo l’ipotesi: “Uccisa a casa e portata in montagna”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Agosto 2021. Laura Ziliani, ex vigilessa di Temù in provincia di Bergamo, quella passeggiata in montagna come era solita fare, forse non l’ha mai fatta. Ma c’è un dettaglio che non convince gli investigatori: le telecamere di videosorveglianza non hanno mai catturato la donna per quelle viuzze la mattina dell’8maggio quando di Laura si sono perse le tracce. Al vaglio un’ipotesi agghiacciante: che Laura non sarebbe mai uscita di casa e che il suo corpo sia stato spostato in montagna dopo la morte. Gli investigatori lavorano dunque all’ipotesi di omicidio con il movente economico. Come riportato dal Mattino, gli inquirenti stanno facendo accertamenti sul patrimonio immobiliare della vittima, una decina tra appartamenti e case. Le figlie avevano infatti il progetto di realizzare dei bed and breakfast ma Laura avrebbe avuto qualche remora. Attualmente le figlie di Laura Ziliani e il fidanzato della maggiore sono indagati per concorso in omicidio volontario e occultamento di cadavere. “È stata uccisa e sepolta”, continua a ripetere il sindaco di Temù, Giuseppe Pasina, che non ha mai creduto all’ipotesi dell’incidente. Poi il torrente avrebbe restituito il corpo di Laura l’8 agosto dopo le forti piogge che lo avevano ingrossato. L’autopsia e la tac sul cadavere hanno escluso la presenza di fratture compatibili con la caduta in un burrone, come si era ipotizzato all’inizio. Per capire la causa del decesso occorreranno altre analisi, tra cui quelle tossicologiche e anche quelle degli organi interni per valutare la possibilità di un avvelenamento. A insospettire ancora di più gli investigatori è il ritrovamento dello smartphone di Laura a casa. Secondo chi la conosceva bene, la donna non sarebbe mai uscita da sola di casa per andare in montagna senza portare con se il cellulare. Aveva perso il merito proprio in montagna, morto sotto il peso di una slavina e così aveva deciso di trasferirsi in città. Ma con Temù restava un legame forte, tanto da volerci tornare tutti i fine settimana. Non convince gli investigatori la versione delle figli di laura che hanno denunciato la scomparsa della madre che era uscita di casa per andare in montagna. “Laura conosce bene queste montagne, così come i pericoli. Non sarebbe mai andata via di casa senza telefono e senza accendere il gps”, spiega un’amica dell’ex vigilessa, poi impiegata negli uffici comunali di Roncadelle. “La sua grande preoccupazione – aggiunge – era la figlia mezzana che ha un po’ di problemi e che seguiva sempre”. Madre e figlia si erano viste l’ultima volta il 7 maggio, Laura era partita dalla sua abitazione nel quartiere Pendolina in città. Si sarebbero riviste il giorno dopo o al massimo in occasione della festa della mamma: la vittima aveva organizzato una gita in montagna con le figlie. Un’escursione che non è per mai avvenuta.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Da lastampa.it il 12 agosto 2021. Una ciste sotto il piede destro. È bastato questo elemento a stabilire che il corpo ritrovato domenica a Tenù, in provincia di Brescia, è di Laura Ziliani, l'ex vigilessa 55enne scomparsa lo scorso 8 maggio. È quanto emerge dall'autopsia. Sul corpo non ci sono segni di violenza. Serve un'analisi degli organi interni per valutare l'ipotesi avvelenamento. Il cadavere aveva anche gli orecchini riconosciuti dai parenti. Il corpo è stato recuperato nel fiume Oglio a circa 500 metri più a sud rispetto a dove, nei pressi del torrente Fumeclo, era stata trovata a metà maggio scorso una scarpa da montagna appartenuta a Laura Ziliani, la 55enne svanita nel nulla l'8 maggio scorso. «Al momento non abbiamo nulla da dichiarare». Così l'avvocato Elena Invernizzi, legale del fidanzato di una delle figlie di Laura Ziliani, commenta l'esito dell'autopsia da cui emerge che il cadavere trovato in Val Camonica nei giorni scorsi è dell'ex vigilessa sparita ai primi di maggio.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 13 agosto 2021. Degli orecchini e una ciste sotto il piede destro. Ormai non ci sono più dubbi, il corpo ritrovato semisepolto domenica a Temù, nell'Alta Valle Camonica (Brescia), è di Laura Ziliani, l'ex vigilessa 55enne scomparsa, forse uccisa e seppellita, lo scorso 8 maggio. L'autopsia restituisce le prime certezze in una vicenda in cui sono ancora molti gli interrogativi e i sospetti: due delle tre figlie della donna, la più piccola di 19 anni e la più grande di 27, assieme al fidanzato, sono indagate per omicidio e occultamento di cadavere. Sul corpo non ci sarebbero segni evidenti di ferite, come emerge dalla relazione preliminare del medico legale. Perciò servirà l'esame tossicologico per verificare l'ipotesi di avvelenamento. C'è poi il risultato del Dna, atteso per la settimana prossima, il cui esito pare scontato. Intanto proseguono le indagini degli inquirenti. Si cerca di capire se effettivamente le ragazze sono responsabili dell'assassinio della madre. Gli investigatori frugano nella vita privata della famiglia. Cosa può aver creato tensione in casa. La trasformazione della villetta familiare in un B&B a Temù, sostengono fonti investigative, era stata motivo d'attrito. Inoltre fa sempre più strada l'ipotesi che la vittima sia stata sepolta, e poi il corpo sia stato parzialmente scoperto dall'esondazione del torrente Oglio. Il tratto in cui il cadavere è stato trovato domenica è stato più volte battuto dai volontari della Protezione civile fin dall'8 maggio. Troppe incongruenze, troppe contraddizioni per i carabinieri del Nucleo investigativo di Brescia, guidati dal maggiore Alberto Degli Effetti e il pm Caty Bressanelli. Certo questo non significa per forza che le responsabilità siano delle due figlie e del compagno della più grande. Di sicuro, però, il loro comportamento e le loro dichiarazioni non hanno convinto gli inquirenti che di fatto oggi indagano su di loro. Le ragazze dissero ai militari di aver ricevuto la madre nella villetta di famiglia la sera del 7 maggio, in arrivo da Brescia dove si era trasferita dopo la morte del marito Enrico Zani. Di averla vista sveglia alle 7 dell'8 maggio, pronta per fare trekking tra i boschi che conosceva fin da piccola. Nessuno ha saputo spiegare che fine abbia fatto l'orologio con gps che l'ex vigilessa portava al polso a ogni gita e nemmeno il motivo per cui il cellulare della donna si trovasse tra i cuscini del divano della casa di Villa Dalegno, frazione di Temù. Dai tabulati il telefonino risultava essere spento dalla sera prima. Utilizzato la mattina della scomparsa, sosterranno le figlie. C'è poi la questione della scarpa da montagna, con un piccolo foro, ritrovata il 23 maggio su un ponticello che scavalca il torrente Fiumeclo, emissario dell'Oglio. Le figlie la attribuirono alla madre, confermando così l'ipotesi dell'incidente o di un gesto estremo. Ma ecco che proprio quella scarpa, trovata in quel punto, suscita nuovi dubbi, soprattutto in chi, quelle valli, le conosce bene. «È impossibile che una donna scomparsa lì sostiene il sindaco di Temù Giuseppe Pasina finisca nel punto dov' è stata ritrovata. Al 99% è stata ammazzata». Ma perché una fine del genere? La realizzazione del bed and breakfast è stato motivo di scontri in casa. È davvero possibile ipotizzare che il decesso sia dovuto a un simile movente. Una lite che è degenerata, per esempio. Ad oggi però non ci sono riscontri. La certezza è che quel corpo saponificato, riaffiorato dai bordi dell'Oglio, è il suo. Adesso quel corpo grazie ai medici legali dovrà parlare. È necessario capire come Laura Ziliani sia morta.
Giu.Sca. per "il Messaggero" l'11 agosto 2021. Solo l'esame del Dna potrà fornire la definitiva conferma. Ma quel corpo trovato in un torrente a Temù pare essere proprio quello di Laura Ziliani, l'ex vigilessa sparita nel nulla l'8 maggio da un paesino in montagna, di 1.200 abitanti, in provincia di Brescia. La donna, 55 anni, sarebbe uscita per una passeggiata salvo poi scomparire. Tuttavia quel corpo senza vita trovato domenica non fa altro che alimentare il mistero di questa storia. La stessa Procura non ha mai creduto ad un allontanamento e ha (da subito) indagato due delle tre figlie della Ziliani, compreso il fidanzato della primogenita, per il reato di omicidio. Ed ecco che il ritrovamento del cadavere, con il capo rasato e l'assenza di indumenti, ha confermato i dubbi degli investigatori. Di fatto la testa rasata e il corpo semi nudo sono elementi che allontanano l'ipotesi di una morte collegata ad un incidente in montagna. Inoltre un altro particolare, che potrebbe far pensare che si tratti di Ziliani, è il fatto che una scarpa da trekking della 55enne era stata trovata il 23 maggio non lontano da dove è stato trovato il corpo.
L'AUTOPSIA Ovviamente, è opportuno sottolinearlo, l'autopsia e l'esame del Dna (fissati per domani) dovranno fornire la definitiva conferma. Gli investigatori sono comunque al lavoro. E come riportano alcuni giornali locali, si percorrono varie piste, collegate al ritrovamento del cadavere: chi indaga si chiede se quel corpo possa essere stato sepolto salvo poi riemergere in questi giorni dopo l'esondazione del fiume a causa del maltempo. Certo è che tutta la zona, come aveva confermato anche il sindaco di Temù, era stata già battuta dal soccorso alpino tanto che le ricerche si erano interrotte e spostate verso altre zone. «È un bel mistero come sia potuto finire qui il corpo perché dalla zona indicata, dove Laura sarebbe andata a passeggiare, è impossibile arrivare nel fiume Oglio» ha commentato il primo cittadino Giuseppe Pasina. A trovare il cadavere domenica scorsa era stato un bambino mentre stava passeggiando sulla pista ciclabile, vicino alla sponda del fiume Oglio a 500 metri più a sud rispetto a dove, nei pressi del torrente Fumeclo, era invece stata recuperata la scarpa. Nel corso delle ricerche a maggio gli uomini della Protezione civile, del Soccorso Alpino e i Vigili del fuoco avevano complessivamente percorso 2.500 chilometri senza trovare tracce di Laura Ziliani. E anche dopo il ritrovamento della scarpa da trekking, l'area era stata ripetutamente battuta senza fortuna.
CONTRADDIZIONI La svolta nelle indagini sulla scomparsa della Ziliani era arrivata qualche settimana fa quando la procura di Brescia avevano definitivamente abbandonato la pista dell'incidente in montagna per seguire quella di un omicidio. Un'inchiesta per omicidio per cui, ad oggi, sono indagate due delle sue tre figlie le cui dichiarazioni rilasciate ai carabinieri rivelerebbero tutta una serie di contraddizioni. In seconda battuta gli inquirenti hanno puntato il faro sul fidanzato della primogenita, ritenuto presunto responsabile di concorso in omicidio ed occultamento di cadavere. Dopodiché l'abitazione della 55enne è stata posta sotto sequestro. A insospettire i militari dell'Arma è stato il cellulare di Laura trovato nascosto nel divano. Adesso, ammesso che il corpo sia della Ziliani, sarà il cadavere a fornire ulteriori dettagli.
La piena dell'Oglio porta a galla un cadavere. "Può essere la vigilessa sparita tre mesi fa". Antonio Borrelli il 9 Agosto 2021 su Il Giornale. Il corpo ritrovato in un torrente. Il Dna dirà se si tratta di Laura Ziliani. Cinquecento metri. È la distanza che separa il cadavere dal luogo in cui il 24 maggio venne ritrovata una scarpa da trekking di Laura Ziliani. Troppo poco per non notare un corpo durante le ricerche dei mesi scorsi. A risolvere gli interrogativi sulla scomparsa dell'ex vigilessa bresciana potrebbe essere il ritrovamento della sua salma, irriconoscibile, ieri mattina sull'argine del fiume Oglio a Temù, in Valcamonica. Secondo una prima ricostruzione, il cadavere di una donna sarebbe stato trascinato dalla piena dell'Oglio, ingrossato dopo le piogge degli ultimi giorni. Dopo il passaggio della piena, le acque potrebbero quindi aver abbandonato il cadavere sulla sponda, in un piccolo bosco all'altezza del bacino Edison. Ciò spiegherebbe perché 250 uomini tra Soccorso alpino, Protezione civile, Guardia di finanza e vigili del fuoco non avevano trovato altro che una scarpa; l'area era stata battuta in lungo e in largo e venne persino svuotata la stessa centrale idroelettrica. In una domenica mattina finalmente calda in Valcamonica, a notare la salma a due passi dalla pista ciclabile è un escursionista di passaggio sulla ciclovia. Dopo l'allarme, i pensieri vanno subito alla 55enne scomparsa tre mesi fa. Laura Ziliani era svanita nel nulla esattamente 90 giorni fa, in quel tragico 8 maggio ancora intriso di giallo: lei, amante della valle e delle escursioni, esce di casa alle 7 del mattino per una passeggiata sui monti di Villa Dalegno, in alta Valcamonica. Non vedendola rientrare le figlie prima la chiamano, senza successo, poi lanciano l'allarme. La zona più battuta è quella nei pressi della località Gario, indicata da una testimone come luogo dell'ultimo avvistamento di Laura Ziliani. Viene trovato soltanto il suo cellulare, ma nel garage di casa. Tre settimane fa spunta invece la famosa scarpa. Ieri l'intera comunità di Temù, di cui la 55enne era originaria, ha vissuto una domenica drammatica - così come drammatici sono stati gli ultimi tre mesi di mistero. Si attende solo la conferma che si tratti dell'ex vigilessa, ma in molti si dicono già sicuri. Nel piccolo paese tutti la ricordano come una persona gentile e educata, ma soprattutto come una madre amorevole e attenta. Dopo la morte del marito aveva vissuto molto male il lutto ed era caduta in una profonda crisi. Perciò aveva deciso di lasciare le sue adorate montagne per trasferirsi a Brescia, lavorando in un comune dell'hinterland. Ma il suo amore più grande restava quello per le tre figlie di 27, 25 e 19 anni, di cui una sofferente di autismo. E proprio a fine giugno a sorpresa la figlia più grande e la più piccola erano state iscritte nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio volontario. Gli inquirenti avrebbero infatti rilevato alcune incongruenze nei racconti delle due - sempre presenti al quartier generale allestito durante le operazioni di ricerca. Nel corso delle ultime settimane le due giovani sono state ascoltate a più riprese dagli inquirenti, ma su questo fronte non si registrano novità nelle indagini: così le due restano libere ma a disposizione dell'autorità giudiziaria. Intanto tutto il paese di Temù - mille abitanti e altrettanti di altitudine - resta col fiato sospeso: ora più che mai gli abitanti chiedono verità, anche nel nome dell'amore che Laura nutriva per il borgo dove aveva vissuto anni felici con tutta la famiglia.
"Il cadavere è quello della vigilessa". Gli investigatori hanno pochi dubbi. Antonio Borrelli il 10 Agosto 2021 su Il Giornale. Corpo seminudo e volto tumefatto. I segni di una violenza? Il volto tumefatto, un corpo irriconoscibile, in avanzato stato di decomposizione. Senza vestiti, senza scarpe. Soltanto con gli indumenti intimi. Erano queste le condizioni del cadavere di donna trovato domenica mattina lungo l'argine del fiume Oglio, in Valcamonica. Serviranno le analisi scientifiche per avere maggiori certezze sull'identità di quel corpo, eppure gli inquirenti non hanno dubbi: si tratta di Laura Ziliani, la bresciana 55enne svanita nel nulla l'8 maggio scorso. Ad occuparsi dell'esame del Dna e dell'autopsia sarà l'Istituto di medicina legale degli Spedali Civili di Brescia - del cui esito la famiglia di Laura resta in ansiosa attesa. E se per i parenti più stretti la speranza di ritrovare viva l'ex vigilessa di Temù era già svanita da tempo, non era ancora così per Marisa, la madre 82enne di Laura, che dopo 90 giorni si trova ora costretta a fare i conti con l'ennesima tragedia familiare in una vita turbolenta. La famiglia della donna si è intanto stretta in un profondo riserbo: la figlia maggiore e la minore, entrambe indagate per omicidio volontario e occultamento di cadavere, si limitano a un «no comment» dopo l'ondata di voci che proveniva dalla Valcamonica, mentre la terza figlia 24enne ha trascorso la domenica del ritrovamento con la nonna Marisa. A fine giugno la 27enne e la 19enne erano state iscritte nel registro degli indagati insieme al fidanzato di una loro dopo alcune incongruenze rilevate dagli inquirenti nei racconti delle due - sempre presenti al quartier generale allestito durante le operazioni di ricerca nei mesi scorsi. Ma nella piccola comunità camuna sono queste le ore più colme di angoscia, di interrogativi, di ricerca di verità negli ultimi tre mesi. I dubbi sono ancora tanti: se sarà effettivamente confermato che quel cadavere è di Laura Ziliani, com'è morta la donna? E' rimasta vittima di un incidente o dietro la scomparsa c'è una mano omicida? E ancora: dov'era il cadavere, se la zona del ritrovamento era stata battuta a lungo invano dai soccorritori? Secondo una prima ricostruzione degli inquirenti, il cadavere di una donna sarebbe stato trascinato dalla piena dell'Oglio, ingrossato dopo le piogge degli ultimi giorni. Dopo il passaggio della piena, le acque potrebbero quindi aver abbandonato il cadavere sulla sponda, in un piccolo bosco all'altezza del bacino Edison. Il sindaco di Temù Giuseppe Pasina è arrivato anche a ipotizzare che la donna «non è stata trascinata dall'acqua, ma è stata portata lì e seppellita. Il fiume è straripato e ha riportato alla luce il cadavere». Supposizioni inquietanti, che non hanno ancora trovato un riscontro nelle indagini. Sulle circostanze del ritrovamento sta intanto lavorando la Procura di Brescia con il pm Caty Bressanelli, che ha assegnato gli incarichi medici all'equipe del professor Andrea Verzeletti. E saranno le prossime ore quelle decisive per scoprire ulteriori dettagli sul ritrovamento del cadavere in Valcamonica.
Antonio Borrelli. Giornalista professionista dal 2017, lavoro per l’emittente tv Teletutto e collaboro con il Giornale, il Mattino e Giornale di Brescia. Nel 2017 mi laureo in Scienze linguistiche, letterarie e della traduzione all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sul Linguaggio della comunicazione pubblica nell’Early Modern England. Sempre con sguardo attento ai fenomeni sociali e mediatici e agli scenari internazionali, dal 2013 curo i seminari didattici del laboratorio di giornalismo internazionale della prof.ssa Marina Brancato all’Università di Napoli l’Orientale. Tra le principali inchieste curate ricordo la scoperta del pomodoro San Marzano venduto come Dop ma importato dalla Cina e lo scandalo degli inquilini abusivi alla Reggia di Caserta. Ho realizzato reportage negli Usa, in Turchia, in Marocco e in Europa. Per InsideOver sono invece stato inviato a Sarajevo e come giornalista embedded in Kosovo. Tra gli studi sui media ho scritto La rappresentazione mediatica della strage di Castel Volturno, mentre per la collana Fuori dal Coro del Giornale ho pubblicato Il fantasma di Putin e Benvenuti in Neoborbonia.
(ANSA l'1 luglio 2021) - Si allarga l'inchiesta sulla scomparsa di Laura Ziliani, la donna di 55 anni svanita nel nulla l'8 maggio scorso a Temù, nel Bresciano. Oltre alle due figlie della donna, di 19 e 27 anni, la Procura di Brescia ha iscritto nel registro degli indagati anche il fidanzato della figlia maggiore. Stando a quanto riporta il Giornale di Brescia, i tre sono indagati in concorso per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Nella casa a Temù, posta sotto sequestro, è stato fatto un primo sopralluogo con i consulenti informatici della Procura che hanno sequestrato tutti gli apparati informatici presenti. Entro 90 giorni i consulenti devono depositare una relazione.
Federica Zaniboni per "Libero quotidiano" l'1 luglio 2021. Cinquantatré giorni fa, Laura Ziliani usciva di casa per andare a fare una passeggiata nei boschi, dalla quale non sarebbe mai tornata. Ma 54 giorni fa, Laura chiacchierava con la vicina e con entusiasmo raccontava che le servivano dieci materassi per il bed and breakfast che stava per avviare. Aveva dei progetti, e tra questi non c' era certo quello di sparire. Lo racconta il sindaco di Temù, in provincia di Brescia, che con la 55enne era in ottimi rapporti da più di dieci anni. Se nelle prime settimane di maggio una delle ipotesi prevalenti era quella di un gesto estremo, con l'avanzare delle indagini questa idea appare più remota. Una famiglia come tante, composta dalla mamma e le tre figlie. Vivevano a Brescia, ma trascorrevano quasi ogni fine settimana a Temù, nella casa dove avevano abitato fino al 2012, quando il marito aveva perso la vita in un tragico incidente sui monti. Laura - «una persona tranquillissima, disponibilissima e ottima impiegata» dice il sindaco di Temù - aveva cambiato lavoro, abbandonando la divisa da agente della polizia locale per un po sto nel Comune di Ronca delle, si era trasferita e aveva ricominciato da capo. «Non aveva problemi economici, aveva un posto regolare e si dedicava alle sue passioni, soprattutto alle passeggiate in montagna», racconta il primo cittadino e amico di Laura, Giuseppe Pasina. Le tre figlie - di 27, 25 e 19 anni erano, come per tutte le mamme, il primo pensiero. E il progetto del bed and breakfast che stava portando avanti negli ultimi mesi era pensato peril loro futuro. Ma la scomparsa della 55enne ha stravolto tutto anche per le ragazze, due delle quali - la 27enne e la 19enne -, martedì scorso sono state iscritte nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio. La ragione sarebbe da riscontrarsi in alcune incongruenze che sono emerse dai loro racconti. Hanno par lato degli orari in cui la madre è uscita di casa - intorno 7 di mattina di quell' 8 maggio -, dell'appuntamento che avrebbero avuto con lei tre ore più tardi, e sembrerebbe che non tutto combaci tra le versioni dell' una e dell' altra. Un altro dettaglio che potrebbe risultare sospetto è la chiamata al 112 pochissimo tempo dopo - circa due ore - il mancato appuntamento con le figlie. Certo, avevano provato a chiamarla al cellulare senza ricevere risposta, ma non avevano insistito troppo prima di avvertire le forze dell'ordine. Già, Laura non poteva rispondere, perché il telefono era rimasto nel garage della casa di Temù, incastrato tra una panca e le scale della cantina. Senz' altro potrebbe trattarsi di una dimenticanza, anche se piuttosto insolita per una persona abituata a passeggiare in montagna da sola. Altri due oggetti sembrano fondamentali nelle indagini: un orologio gps sparito nel nulla e una scarpa ritrovata lo scorso 23 maggio nei pressi del fiume Fumeclo e riconosciuta come appartenente alla donna. Tre persone - di cui soltanto una, però, sembrerebbe essere attendibile - hanno testimoniato di averla vista sui sentieri quella mattina, ma non tutte le videocamere di sorveglianza presenti nel percorso che avrebbe dovuto fare l'hanno ripresa. Le due sorelle - di cui una con uno spettro autistico - al momento sono libere ma a disposizione dell'autorità giudiziaria: la loro iscrizione nel registro degli indagati, però, permette lo svolgimento di un sopralluogo della casa, adesso sequestrata. «Mi auguro che non sia successo quello che si dice ultimamente, che lei abbia scelto un'altra via, che sia viva e tranquilla da qualche parte», dice il sindaco Giuseppe Pasina. «Io invito i cittadini a stare calmi, a non rilasciare dichiarazioni, anche per non correre il rischio di fare confusione e ostacolare le attività giudiziarie. Tutti sanno e nessuno può sapere davvero».
Laura Ziliani, ex vigilessa svanita nel nulla a maggio. Drammatica svolta, indagate due figlie. Libero Quotidiano il 30 giugno 2021. Due delle tre figlie di Laura Ziliani, scomparsa l'8 maggio 2021 a Temù, sono state iscritte dalla Procura di Brescia nel registro degli indagati con l'accusa di omicidio. La 55enne ex vigilessa era uscita di casa per una passeggiata in montagna nei sentieri della Vallemonica. La donna, ora dipendente comunale a Roncadella, non ha tuttavia mai fatto ritorno dall'escursione. Le dinamiche della sparizione avevano inizialmente fatto pensare a un tragico incidente, proprio su quei sentieri che la 55enne calcava sin da bambina. Ora invece, gli inquirenti temono che Ziliani possa essere stata uccisa. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Caty Bressanelli, si concentrano nella cerchia dei familiari. L'obiettivo è quello di ricostruire un possibile movente, ma prima di tutto va trovato il corpo della vittima. L'unico elemento in mano agli investigatori è una scarpa da trekking rinvenuta sul greto del torrente Fiumeclo. Secondo quanto lascia trapelare il Corriere della Sera, mancherebbe all'appello un orologio gps, che Laura Ziliani utilizzava sempre durante le sue escursioni. Desta sospetto il fatto che la 55enne abbia lasciato il proprio telefono cellulare nel garage della sua abitazione di vicolo Ballardini in una località adiacente a Tamù. Erano state poi proprio le figlie a denunciare la scomparsa della donna, preoccupate del mancato rientro a casa di Laura, che aveva fissato per la tarda mattinata un appuntamento con una di loro. Sono ancora pochi gli elementi in mano agli inquirenti: un escursionista dice di averla incrociata lungo il percorso, dopodiché il nulla. Gli investigatori si sono poi insospettiti per le diverse versioni del racconto della figlia maggiore e di quella più piccola, iscrivendo entrambi nel registro degli indagati. La terza figlia, quella non indagata, è affetta da una grave forma di autismo. L'abitazione Ziliani è stata posta sotto sequestro per consentire gli accertamenti della scientifica.
Francesco Gentile per "il Messaggero" il 30 giugno 2021. Due delle tre figlie di Laura Ziliani, l'ex vigilessa 55enne bresciana scomparsa l' 8 maggio in Val Camonica, sono indagate dalla Procura di Brescia con l' accusa di omicidio. La svolta arriva dopo le numerose incongruenze riscontrate nei racconti delle ragazze. La terza figlia non sarebbe stata ascoltata invece perché affetta da una forma grave di autismo. Laura Ziliani era vedova dal 2012, dopo che il marito Enrico Zani era morto sotto una valanga con l'amico Aldo Sandrini, ed era solita camminare in montagna anche da sola. Così l'8 maggio nessuno si era insospettito più di tanto della sua prolungata assenza per un'escursione sopra Villa Dalegno, il paese dove aveva lavorato come vigilessa. Una telecamera e un testimone l'avevano vista prendere un sentiero, ma poi era scomparsa nel nulla.
LE RICERCHE Erano state le figlie a lanciare l'allarme per il mancato rientro della madre dando il via alle ricerche, che erano durate per giorni, coinvolgendo centinaia di persone fra tecnici del Soccorso alpino e speleologico, unità cinofile giunte da Trento e dal Piemonte, militari del Soccorso alpino della Guardia di Finanza, carabinieri e vigili del fuoco, oltre al sindaco di Temù, alla Protezione civile e al presidente dell'Unione Alta Valle Camonica. Dopo una settimana di sforzi infruttuosi, le ricerche erano state sospese per poi riprendere il 23 maggio, dopo che un escursionista aveva trovato lungo la pista ciclabile che si dilunga al fianco del torrente Fiumeclo una scarpa, riconosciuta dai familiari. In tutto questo tempo Laura Ziliani è stata cercata ovunque: nella zona dove era deceduto il marito pensando a qualche terribile coincidenza, nella vicina valle di Canè, lungo la ciclabile dell'Oglio e pure all' interno della diga Edison completamente svuotata per l'occasione. Nonostante questo il corpo non è mai stato trovato, anche se la scoperta della scarpa indica chiaramente che qualcosa è andato storto. Secondo alcune ricostruzioni una delle figlie avrebbe riconosciuto la scarpa della mamma, mentre l'altra avrebbe espresso qualche dubbio. Il compagno della donna invece l'avrebbe individuata con certezza. Di Laura Ziliani è stato poi trovato il cellulare tra le pieghe di un divano di casa e pare che difficilmente la donna si sarebbe allontanata senza. Queste sono solo alcune delle incongruenze che hanno insospettito gli investigatori e la Procura di Brescia. Così il pm Cathy Bressanelli ha iscritto nel registro degli indagati le due figlie, che sono state sentite a lungo durante il weekend. Le ragazze hanno sempre partecipato alla ricerca della mamma, spesso accompagnate dai fidanzati, e quando la caccia è stata sospesa si sono chieste come mai. Ora che le indagini prendono improvvisamente un'altra piega anche la loro casa di Villa Dalegno è stata posta sotto sequestro.
IL TRASFERIMENTO In Val Camonica le bocche rimangono cucite sulla svolta e tutti ricordano Laura Ziliani come una persona sempre gentile ed educata. Una madre amorevole e attenta a non far mancare nulla alle tre figlie dopo la scomparsa del marito. Evento che l'aveva fatta andare in crisi tanto da spingerla a lasciare le montagne per trasferirsi a Brescia e a cambiare lavoro diventando impiegata nel comune di Roncadelle. Nonostante questo però Laura Ziliani tornava volentieri con le figlie di 27, 25 e 19 anni nella casa di montagna, amava ripetere le vecchie passeggiate scoperte da ragazza e rivedere gli amici di un tempo. Era ritenuta una camminatrice esperta, e anche questo nelle indagini sta avendo il suo peso. Di lei però dopo quasi due mesi resta solo una scarpa.
Da "liberoquotidiano.it". Silvia e Paola sono state arrestate con l’accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere per la morte della madre, la vigilessa Laura Ziliani. Si sospetta a ragion veduta che il movente del delitto sia di natura puramente economica, in particolare legato agli immobili: quelli in possesso della donna hanno un valore che è stimabile fra i 3 milioni e i 3 milioni e mezzo di euro. Il piano delle due ragazze, portato avanti insieme a Mirto Milani (fidanzato di Silvia), appare però piuttosto insensato: erano già in possesso delle quote del patrimonio immobiliare tra Brescia e la Valcamonica, insieme alla madre e all’altra figlia Lucia, quella “buona” di tutta questa brutta vicenda. Uccidendo la madre, Silvia e Paola volevano forse ereditare gli immobili, ma non avrebbero comunque potuto venderli senza il benestare dell’altra sorella. Quest’ultima al pm durante le indagini ha dichiarato quanto segue a proposito degli appartamenti: “Mia mamma mantiene le mie sorelle, anche perché Silvia è stata licenziata tre volte e da quanto ne so non ricevono gli affitti degli appartamenti perché è tutto bloccato”. In pratica Laura Ziliani aveva ereditato quindi proprietà immobiliari e sette terreni agricoli dopo la morte del marito Enrico Zani, avvenuta nel dicembre 2012: la vigilessa possedeva l’intera proprietà soltanto di un grande locale commerciale e di un magazzino, mentre alle tre figlie spettavano due noni a testa di tutti gli immobili.
"Mi vergognavo". Ma sul triangolo "hot" spunta un'altra pista. Angela Leucci il 2 Ottobre 2021 su Il Giornale. Sesso o denaro: cosa potrebbe aver spinto i presunti responsabili della morte di Laura Ziliani? I moventi al vaglio degli inquirenti sono due.
Qual è stato il presunto movente che ha portato alla morte di Laura Ziliani: sesso o denaro?
È quello che probabilmente si chiedono al momento gli inquirenti, che stanno indagando sulle figlie Silvia e Paola Zani, oltre che sul fidanzato della prima Mirto Milani, attualmente in stato di arresto. Se ne è parlato a “Quarto grado”: sono molti gli interrogativi senza risposta che questa vicenda solleva e sono stati sottolineati alcuni comportamenti insoliti dei loro protagonisti. Laura, che era una ex vigilessa, è scomparsa da Temù l’8 maggio 2021. Il suo corpo è stato ritrovato dopo lunghe ricerche.
Il presunto movente sessuale
Un possibile movente indagato dagli inquirenti è quello sessuale: le due sorelle e Mirto sono infatti al centro di un triangolo “hot”, come rivelato da loro stesse, che non hanno consegnato immediatamente i propri smartphone agli inquirenti, ma hanno aspettato per cancellare delle fotografie, stando alla loro testimonianza. “Provavo vergogna all’idea che altre persone potessero vedere foto attinenti alle pratiche sessuali con il mio fidanzato Mirto”, ha spiegato Silvia, quando poi in un secondo momento ha consegnato lo smartphone.
Silvia e Mirto si conobbero circa 10 anni fa su un volo da Londra, ma Mirto pare intrattenga una relazione anche con l’altra sorella, Paola. La quale ha reso una testimonianza alle forze dell’ordine molto simile a quella di Silvia, sempre in merito agli smartphone. “Provavo vergogna all’idea che altre persone potessero venire a sapere che ho una relazione con il fidanzato di mia sorella Milani Mirto”, ha raccontato Paola.
Spunta un'altra pista
Laura Ziliani possedeva 15 appartamenti di proprietà e 7 appezzamenti agricoli: un patrimonio stimato in 3 milioni di euro. “Le sorelle - ha detto la terza figlia dell’ex vigilessa, non coinvolta nelle indagini - si arrabbiavano spesso con lei perché dicevano che non le manteneva e non gli dava abbastanza soldi, questo soprattutto Paola”. Ci sono varie intercettazioni tra Silvia, Paola e Mirto, in cui i tre parlano di denaro e della necessità di cercare alcune cose, come file digitali oppure qualcosa di non meglio specificato negli armadi. E più di un testimone ha sottolineato la bizzarria nel comportamento di Silvia in particolare. “Erano un po’ strane - ha commentato la collega del fast food in cui le due giovani hanno lavorato - Io vedevo la Silvia, che la vedevo durante il turno. Lei canta e balla, mi sembrava un po’ strano. Stiamo lavorando, cosa stai facendo? L’altra era tranquilla. Poi io avevo capito che erano un po’ strane, da come si comportavano”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
La chiamata della figlia di Laura Ziliani ai soccorsi: “Sono preoccupata, non sento mamma da 4 ore”. Fanpage.it l'1 ottobre 2021. A distanza di cinque mesi dal giorno in cui le stesse figlie di Laura Ziliani, ora in carcere per omicidio, hanno lanciato l’allarme della scomparsa della madre, esce la chiamata inedita che hanno fatto ai carabinieri la mattina dell’8 maggio: “Mi chiamo Zani Silvia, mia madre è uscita di casa 4 ore fa per andare a fare una passeggiata sopra Villa Dalegno e non è più tornata”. "Mi chiamo Zani Silvia, mia madre è uscita di casa 4 ore fa per andare a fare una passeggiata sopra Villa Dalegno e non è più tornata. Ho provato a chiamarla ma non si è fatta sentire. Ho chiamato i parenti, ma anche loro da ore non la sentono. Non so inizio a preoccuparmi seriamente". Così Silvia Zani faceva la prima chiamata ai carabinieri la mattina dell'8 maggio e lanciava l'allarme della scomparsa della madre Laura Ziliani. La figlia al telefono si diceva preoccupata anche perché la madre soffriva di alcune leggeri disturbi che faceva pensare le potesse essere successo qualcosa. Questa chiamata è forse già il primo passo falso che fanno le figlie di Laura Ziliani: nella chiamata raccontano tutto con freddezza e forniscono già molti dettagli. Passano poche ore e sono ancora le figlie di Laura, ora entrambe arrestate con l'accusa di omicidio, a chiedere ai giornalisti di tv Boario di poter fare un appello: "Chiunque abbia visto nostra madre anche di striscio ce lo dica". Una frase che già sembrava voler dire qualcosa, anche se pronunciata con la lacrime agli occhi. Qualche mese dopo le due figlie si trovano in carcere con l'accusa di aver ucciso loro la madre per motivi legati all'eredità. Tanti i punti ancora da chiarire di quella mattina dell'8 maggio. Oltre alla chiamata ci sono i materassi che le due figlie hanno gettato in discarica: stando alla versione fornita dalle due sorelle agli inquirenti, quella mattina attendevano la madre verso le dieci per andare insieme in discarica. Hanno raccontato che li volevano cambiare e ne avevano già ordinati degli altri: un ordine che qualche giorno dopo verrà annullato dai genitori dei Mirto Milani, il fidanzato della maggiore anche lui in carcere con l'accusa di omicidio. Ma se Laura Ziliani è stata uccisa la notte tra il 7 e l'8 maggio perché alla mattina il trio si è sbarazzato dei due o tre materassi?
Giorgia Venturini per "fanpage.it" il 18 ottobre 2021. "Laura Ziliani sapeva del triangolo amoroso tra le due figlie Paola e Silvia e Mirto Milani, ufficialmente il fidanzato della maggiore. Lo aveva confessato a un'amica". È l'ultimo colpo di scena del giallo sull'omicidio dell'ex vigilessa di Temù rivelato nella puntata di ieri di "Quarto Grado". A confessare il triangolo sentimentale erano stati gli stessi tre protagonisti, ora tutti in carcere con l'accusa di omicidio, agli investigatori. Sia la 19enne Paola Zani che il 26enne originario del Lecchese, spiegando ai militari perché il loro cellulare era stato consegnato ripulito da qualsiasi contenuto, avevano precisato che si vergognava all'idea che altre persone potessero venire a sapere che avevano una relazione segreta all'insaputa della sorella. Relazione che però, stando a quanto emerge nel programma tv, era accettata dalla sorella maggiore: le due sorelle infatti sono sempre apparse complici e mai rivali in amore.
Il movente dell'omicidio non sarebbe legato al triangolo amoroso
Questa doppia relazione di Mirto con entrambe le sue figlie però spaventava Laura tanto da avrebbe confessato le sue preoccupazioni a un'amica. Di certo per gli inquirenti un ruolo chiave nella vicenda è affidato a Mirto: "Le due sorelle sono state in parte manipolate da Milani", così scrive il giudice per le indagini preliminari Alessandra Sabatucci nell'ordinanza di custodia cautelare che ha disposto l'arresto dei tre con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere. Per gli investigatori questo stretto rapporto tra gli arrestati ha contribuito a creare una forte complicità ma non sarebbe il movente dell'omicidio: le cause che hanno spinto figlie e genero a uccidere sarebbero da ricercare tutte sulla questione dell'eredità e divisione del patrimonio. Da tempo infatti Mirto, con i suoi genitori, si intrometteva negli affari di famiglia.
I sospetti sul doppio viaggio in discarica la mattina della scomparsa
Ora gli inquirenti stanno cercando le risposte alle ultime domande. Le prove dell'omicidio sarebbero da cercare anche in quel doppio viaggio in discarica la mattina dell'8 maggio, giorno in cui le due sorelle hanno chiamato i soccorsi per denunciare la scomparsa della madre. Le figlie infatti hanno raccontato che avevano appuntamento con la Ziliani, che era uscita per una passeggiata, per le 10 di mattina ma non si era presentata all'appuntamento. Così dopo 15 minuti Paola, Silvia e Mirto erano usciti di casa per andare in discarica e buttare due materassi: i tre hanno fatto due viaggi. I sospetti sono concentrati proprio su quei materassi che potevano contenere il Dna della donna e che Paola, Silvia e Mirto avevano così tanta fretta di buttare: purtroppo i materassi sono andati distrutti e non è stato possibile analizzarli. Al vaglio degli inquirenti ci sono anche i minuti impiegati nel tragitto da casa alla discarica: durante quei pochi minuti i tre avrebbero potuto spostare il corpo. Tracce del Dna invece potrebbero emergere dalla analisi del bagagliaio della macchina di Mirto, utilizzata per il trasporto in discarica e ora messa sotto sequestro.
I messaggi tra Laura e una sua amica e quel ritardo nella risposta
Resta riservato l'interrogatorio in Procura tra gli inquirenti e il sindaco di Temù Giuseppe Pasina, ascoltato come persona informata dei fatti. Intervenuto a Quarto Grado il primo cittadino non rivelano sulla sua conversazione con i magistrati ma tiene a ribadire ancora una volta che "Laura Ziliani giudicava Mirto un cattivo partito e che stava manipolando le sue figlie". La famiglia frequentava poco il paese ma i cittadini di Temù non hanno mai creduto all'ipotesi dell'incidente in montagna. Qui però Laura aveva delle amiche. E lo scambio di messaggi tra di loro potrebbe portare altri indizi: ad aprile un'amica di Laura le aveva chiesto se era andata in bici. L'ex vigilessa aveva risposto con un secco: "No, riposo". Poche ora dopo l'amica aveva riscritto ma Laura ha impiegato un giorno per rispondere: il ritardo nella riposta forse era stato dovuto alla famosa tisana preparata dalle figlie e che avrebbe narcotizzato la donna. Laura avrebbe dormito per circa 36 ore.
Laura Ziliani sapeva del triangolo "hot". Angela Leucci il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Laura Ziliani era a conoscenza della relazione di entrambe le figlie con Mirto Milani: il possibile presunto movente resta però quello economico. Laura Ziliani sapeva da tempo che entrambe le figlie avevano una relazione con Mirto. Può essere stato questo un probabile movente per i presunti colpevoli dell’omicidio della vigilessa di Temù scomparsa il 9 maggio 2021 e ritrovata il successo 8 agosto? È la domanda che ci si è posti a “Quarto grado”, dove è intervenuto il sindaco di Temù Giuseppe Pasina.
Laura era preoccupata per le figlie
Il primo cittadino ha raccontato che Laura aveva scoperto del triangolo hot delle figlie Silvia e Paola Zani già dall’inverno scorso e se ne fosse confidata con un’amica: resta però da capire perché questo dettaglio non sia emerso prima. Quello che appare plausibile è che la vigilessa fosse preoccupata per le figlie: sembra che pensasse che Mirto Milani le stesse illudendo e manipolando.
“Il movente principale resta quello economico - ha spiegato tuttavia Giuseppe Pasina - sebbene questa scoperta da parte della madre potrebbe aver influito su attriti precedenti, relativi alle divisioni patrimoniali che Laura aveva in mente, e magari cambiato i rapporti famigliari. Alla fina la madre giudicava Mirto non il fidanzato di una figlia, ma un brutto partito che voleva manipolare le figlie”. Pare che Laura Ziliani infatti stesse operando una divisione patrimoniale in modo da tutelare tutte e tre le figlie, con particolare attenzione a Lucia: a lei sarebbero stati destinati due appartamenti, uno dei quali sarebbe dovuto andare in gestione a una cooperativa o un’associazione per realizzare una casa mirata all’accoglimento di altre ragazze con gli stessi problemi di salute di Lucia.
Su cosa lavorano gli inquirenti
Sembra che le ricerche degli inquirenti si stiano concentrando su una delle azioni fatte da Mirto, Paola e Silvia la mattina della scomparsa. I tre sono stati molto mattinieri, cosa che cozzava con le loro solite abitudini: nonostante dovessero aspettare Laura per smaltire un materasso, i tre hanno portato in discarica il rifiuto ingombrante - che ora, tra l'altro è stato smaltito e non può più “parlare”, essere una prova di qualcosa, in un senso o nell’altro. Centro degli interessi degli inquirenti sono le tempistiche rivelate dai tre per i viaggi in discarica. Non si sa se invece risulti di interesse la pista satanica. Pare che in paese si dicesse che, oltre a Mirto, anche Silvia e Paola facessero parte di una setta a Brescia, ma sono solo voci. Intanto è stato esplorato il piano sotterraneo del palazzo nei pressi di Temù in cui alcuni hanno detto di aver intravisto lo svolgimento di messe nere: ci sono graffiti che incitano all’omicidio, pentacoli, stelle di David e un’inquietante scritta in latino “Hic finit Deus”. Ma non è detto che questo abbia attinenza con la vicenda che ha portato all’omicidio di Laura Ziliani.
Il trio “hot” e la tavola oujia: Laura Ziliani temeva le figlie. Angela Leucci i l23 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel giallo di Laura Ziliani, dopo i presunti moventi sessuale ed economico, spunta la pista satanica: la vigilessa temeva le figlie Paola e Silvia. Si continua a indagare sull’omicidio di Laura Ziliani: il trio “hot” continua a tenere banco nelle cronache, soprattutto perché ancora sembra non si sia riusciti a risalire con certezza al presunto movente per cui la vigilessa di Temù sarebbe stata uccisa. Come è stato rimarcato a “Quarto grado”, le sorelle Silvia e Paola Zani, oltre il fidanzato Mirto Milani, sono al centro, per loro stessa ammissione, di un triangolo sessuale, ma non si sa se questa relazione rappresenti una pista al vaglio degli inquirenti. Lo stesso vale per la voce secondo cui le figlie della vigilessa e Mirto potrebbero far parte di sette sataniche: si tratta di una chiacchiera di paese, certo, ma intanto è stata ritrovata nei pressi di Temù una casa disabitata dove il corpo di Laura potrebbe essere stato tenuto fino a poco prima del ritrovamento. In questa casa sono presenti diversi simboli satanici e perfino una tavola ouija, con cui si evocano i morti, dipinta su un pavimento. Si dice inoltre che ci siano nuovi indagati, ma la Procura di Brescia mantiene il massimo riserbo. Intanto è stato identificato l’autore della lettera anonima che diceva di aver visto il corpo di Laura caricato in auto e aver taciuto per soldi: questa persona sarà ascoltata a breve. Un presunto movente resta inoltre quello economico. Ed è corroborato dalle parole di Lucia Zani, secondogenita di Laura che la vigilessa voleva tutelare economicamente. “Nella nostra famiglia - ha raccontato Lucia - i rapporti non sono del tutto sereni, soprattutto con le mie sorelle, Silvia e Paola. Io non mi fido di loro da quando mi hanno detto che la nonna è perfida come un serpente e da quando mi hanno raccontato altre brutte cose sui miei zii. Le mie sorelle trattavano molto male la mamma, soprattutto Silvia. Si arrabbiavano spesso con lei perché dicevano che non dava loro abbastanza soldi, ma questo lo diceva soprattutto Paola. Ma non è così, è sempre stata la mamma a mantenere noi figlie. Perché Silvia è stata licenziata ben tre volte e per quanto ne so, le mie sorelle non ricevevano gli affitti degli appartamenti. Le mie sorelle si arrabbiavano spesso anche con me, hanno preso il carattere del papà che diceva parolacce alla mamma. Alla morte del papà Silvia e Paola sono cadute in forte depressione e so che da allora hanno iniziato ad assumere delle vitamine. Ho saputo che la mamma era scomparsa dalle mie sorelle e da Mirto, il fidanzato di Silvia che io in famiglia avevo soprannominato ‘il coniglio’. La mamma e Mirto all’inizio della relazione con Silvia non andavano d’accordo. Di recente però il rapporto era migliorato tanto che la mamma lo ospitava sia nella casa di Temù che in quella di Brescia. La mamma non aveva un buon rapporto nemmeno con la mamma di Mirto”. Pare che Laura fosse preoccupata per Silvia e Paola, e aveva confessato alle amiche di come temesse per via del loro carattere forte e determinato. Da più parti giungono testimonianze relative ad atteggiamenti insoliti delle due sorelle, viste saltellare e ballare insieme, per esempio mentre erano ferme a un semaforo. E un’amica di Laura parla di una strana telefonata. “Mi ha risposto subito la figlia, forse Silvia. Ha detto: ‘Non so come dirtelo, mamma si è persa nel bosco’. Non riuscivo a capire se stesse ridendo o stesse piangendo. Aveva una voce piangiolente, neppure piangente, che non sembrava neanche vera”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e Caso Ziliani, parla il medico dell'ex vigilessa: "Mai preso gli ansiolitici". Redazione Tgcom24 il 30 settembre 2021. " Laura Ziliani non ha mai preso ansiolitici". Sono le parole del medico curante dell'ex vigilessa a "Pomeriggio Cinque": "Nel database del mio computer non risulta nessun farmaco di quel tipo - ha spiegato il dottore - neanche a seguito della morte del marito, avrà preso al massimo quattro gocce di Valium il giorno dopo, per il resto era una donna sana come un pesce". Secondo gli inquirenti, Laura Ziliani sarebbe stata soffocata dopo essere stata stordita da psicofarmaci. Resta da capire come le figlie della donna, Silvia e Paola Zani, le due sorelle di 27 e 19 anni accusate dell'omicidio e dell'occultamento del cadavere della madre, abbiano ottenuto questi farmaci: "O se li sono fatti prescrivere da qualcuno - spiega ancora il medico - o li hanno trafugati. Il sospetto che ho è che la figlia più grande, per un periodo, ha lavorato in una Rsa a Ponte di Legno: potrebbe averli presi lì".
Maurizio De Giovanni per il “Corriere della Sera” il 28 settembre 2021. La prima, doverosa premessa è che magari non è vero niente. Perché siamo nella fase scivolosa e sdrucciolevole della costruzione dell'impianto accusatorio, quando cioè la procura ipotizza una soluzione che renda coerenti gli elementi che l'indagine ha messo a disposizione, che unisca cioè i puntini con le linee; e questa fase fa presa su noi che osserviamo dall'esterno, tanto più se la suddetta ipotesi apre una porta sul ribollire di passioni e sentimenti sanguinosi di quell'ambiente infernale che diventa talvolta la famiglia italiana. Ma proviamo a immaginare, ed è un puro esercizio intellettuale, perché la concreta e poco divertente battaglia tra periti di parte, avvocati, magistrati, testimoni e consulenti, una piccola guerra di garanzia fatta di carte bollate e incidenti probatori, durerà probabilmente anni fino a esprimere un definitivo giudizio comunque opinabile, che l'impianto sia veritiero e che effettivamente sia accaduto quello che il magistrato ipotizza. E che cioè Laura Ziliani, che ci sorride dalla cima di una montagna nella foto proposta un po' dovunque, vigilessa e trekker, vedova e madre, imprenditrice agiata, sia stata uccisa da un piccolo determinato gruppo di assassini formato dalle due figlie e dal fidanzato della maggiore. Un'ipotesi, certo: ma molto fondata, l'unica che spiegherebbe tutto quello che a oggi si sa del doloroso evento. Che questa storia sia particolarmente inquietante non c'è dubbio. Ma esattamente qual è il motivo dell'inquietudine che genera? Perché, diciamocelo chiaro, abbiamo visto di peggio: Pietro Maso, per esempio, o Erika e Omar, per restare nel poco piacevole ambito degli uccisori dei genitori, e anche più di recente Benno Neumair a Bolzano hanno coinvolto la cosiddetta opinione pubblica inducendo quell'orrore che lascia senza commenti. Qui però c'è qualcosa di diverso; qui non c'è l'impulso, l'esplosione di violenza, l'incontrollabile rabbia. Qui, se è vero quello che immaginano gli investigatori, c'è una pianificazione concertata e una messa in scena che sa quasi di orribile gioco di ruolo, una lucida e consapevole alternanza di recitazioni perfette e di indizi sbagliati seminati ad arte, una capacità sinistra di depistare e di sviare che non ha eguali in alcun precedente. Dalla conservazione del corpo per tre mesi in un luogo che ne evitasse la decomposizione al lasciare una scarpa su un sentiero per far pensare a un incidente, da lacrime e appelli accorati davanti alle telecamere all'esibizione agli amici di una torta per la festa della mamma preparata successivamente alla morte della Ziliani, dalla scelta del tranquillante per addormentare e probabilmente soffocare nel sonno la donna alle parole lasciate cadere in conversazioni consapevolmente intercettate, dalla finta instancabile ricerca al far ritrovare il cadavere in un luogo compatibile con l'incidente il quadro che emerge con chiarezza è quello di un freddo complotto teso a eliminare quella che era vista come un ostacolo tra i tre e il patrimonio che ambivano a gestire. Tutto preparato, tutto costruito, nulla lasciato al caso tranne la conoscenza degli strumenti scientifici a supporto dell'indagine: che alla fine li hanno traditi. Tutto concepito in quel luogo caldo e sicuro che è la famiglia, dove tutti ci rifugiamo a fine giornata nella convinzione che, una volta chiusa la porta alle nostre spalle, i pericoli siano ben lontani e che ancora una volta ce l'abbiamo fatta. E invece.
· Il Mistero di Roberta Martucci.
Roberta, 22 anni di silenzi e misteri. Scomparsa tra Ugento e Gallipoli il 20 agosto 1999, inchiesta riaperta per la terza volta. Pierangelo Tempesta su La Gazzetta del mezzogiorno il 20 Giugno 2021. Ventidue anni senza conoscere le sorti di un proprio caro. Ventidue anni vissuti nell’angoscia, a domandarsi dove sia finita quella persona, perché sia svanita nel nulla da un momento all’altro, perché nessuno l’abbia mai fatta ritrovare. È il dramma dei familiari di Roberta Martucci, la 28enne di Torre San Giovanni di Ugento di cui si sono perse le tracce la sera del 20 agosto 1999. È, questo, un altro dei «cold case» salentini su cui la «Gazzetta», dopo il primo appuntamento dedicato all’omicidio di Peppino Basile, intende riaccendere un faro. Che fine ha fatto Roberta? È stata uccisa? Da chi? Dove si trova il suo corpo? Domande a cui gli investigatori stanno ancora cercando una risposta, dopo due inchieste archiviate e una terza ancora in corso. Quella sera di quasi 22 anni fa Roberta uscì di casa per recarsi a Gallipoli e raggiungere le sue amiche, ma di lei, da quel momento, non si ebbero più tracce. L’auto con la quale si era spostata, una Fiat Uno, fu rinvenuta qualche giorno dopo a Gallipoli, parcheggiata in una piazzetta. Nel corso degli anni, come si diceva, le indagini sono state chiuse due volte. Sul finire del 2017, dopo un’istanza presentata per conto della famiglia da parte dell’avvocato Carlo Grasso (al quale è poi subentrato l’avvocato Fabrizio Ferilli) e dalle criminologhe Roberta Bruzzone e Isabel Martina, il procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone ha deciso di riaprire per la terza volta il fascicolo. Si indaga per omicidio e soppressione di cadavere. Nell’istanza, il team ha sostenuto con forza che dietro la scomparsa di Roberta non ci sono le amiche, come inizialmente qualcuno aveva pure ipotizzato, né festini o cattive compagnie. Centrale, secondo criminologhe e avvocati, sarebbe la figura di un familiare. Una persona che Roberta conosceva molto bene. Una pista, questa, alimentata anche dalla testimonianza di una delle sorelle della giovane, Sabrina, che ai microfoni della trasmissione televisiva «Chi l’ha visto?» ha rivelato di aver subìto, in passato, attenzioni particolari proprio da quello stesso familiare. Avvocato e criminologhe hanno anche evidenziato presunti tentativi di depistaggio, nel corso delle indagini immediatamente successive alla scomparsa, da parte di quella stessa persona attenzionata nell’istanza. Tra le tante presunte incongruenze fatte emergere dal team c’è quella dell’auto, ritrovata senza chiavi e senza libretto e, nonostante ciò, demolita regolarmente dopo il dissequestro. C’è poi il «giallo» del prelievo di 500mila lire con il Bancomat di Roberta dieci giorni dopo la sua scomparsa, anche questo portato alla luce dal team ingaggiato dalla sorella Lorella. Per il ventesimo anniversario della scomparsa, l’associazione «Penelope» ha organizzato, insieme alla famiglia, una fiaccolata lungo le strade di Torre San Giovanni per chiedere «verità e giustizia». Il caso, intanto, potrebbe approdare in commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, su iniziativa della parlamentare pugliese del M5S Valentina Palmisano. È stata la sorella di Roberta, Lorella, a sollecitare l’intervento del mondo della politica.
· Il Mistero di Mauro Romano.
«Probabile che Mauro Romano sia stato ucciso dopo il rapimento». Ma il gip archivia. Il gip di Lecce non ritiene sufficienti gli elementi indiziari a carico di Vittorio Romanelli e archivia il fascicolo. Prescritto il sequestro di persona. Il Dubbio il 28 novembre 2021. «Pur essendo probabile che il piccolo Mauro Romano sia stato ucciso dopo il suo rapimento, non vi sono tuttavia elementi di prova certi che depongano in tal senso e non si possono escludere a priori delle spiegazioni alternative alla sua scomparsa. Non appare pertanto sostenibile in giudizio l’accusa di omicidio, anche in ragione dell’incertezza che continua a caratterizzare tutta la vicenda». È quanto scrive il gip del tribunale di Lecce, Marcello Rizzo, nel decreto di archiviazione del procedimento per omicidio e sequestro di persona in relazione al caso di Mauro Romano, scomparso a 6 anni da Racale (Lecce), il 21 giugno 1977, e mai trovato.
Caso Mauro Romano, dichiaranti influenzati dalle voci
Il procedimento era stato aperto a carico dell’ex barbiere originario di Brindisi e residente a Racale, Vittorio Romanelli, 80 anni, a cui il 23 novembre 2020 era stato notificato l’avviso di conclusione indagini. Con il decreto – di cui LaPresse ha preso visione – il gip ha accolto le ragioni esposte dal pm, ritenendole «corrette in fatto e in diritto» e per questo da condividere. «L’incertezza nella vicenda determinata dal clima di omertà vigente all’interno della comunità dei testimoni di Geova, a cui appartenevano quasi tutti i protagonisti, e dai molti anni trascorsi dai fatti, nel corso dei quali si sono accumulate e sovrapposte voci e commenti che potrebbero aver influenzato alcuni dichiaranti» scrive il gip di Lecce, Marcello Rizzo, nel decreto di archiviazione del procedimento per omicidio e sequestro di persona a carico Vittorio Romanelli, difeso dall’avvocato Antonio Corvaglia del foro di Lecce.
Scomparsa Mauro Romano, il sequestro di persona è prescritto
«Il reato di sequestro di persona è ormai prescritto» aggiunge il gip Marcello Rizzo. «Peraltro anche per tale reato, gli elementi a carico di Vittorio Romanelli, sono piuttosto equivoci, essendo costituiti in primo luogo dalle dichiarazioni di Vito Paolo Troisi, il cui atteggiamento tuttavia è stato alquanto ondivago, visto che nelle sue prime escussioni non aveva affatto ricordato che Mauro Romano era andato via insieme a un uomo, affermando – scrive il gip – solo essersi accorto a un certo punto, mentre giocava con altri amici, che Mauro non c’era più».
Scomparsa del piccolo Mauro Romano: la Procura di Lecce archivia il caso. La decisione è arrivata dopo settimane di ipotesi, bufere e speranze che il piccolo fosse ancora vivo e fosse diventato uno sceicco negli Emirati Arabi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Aprile 2021. La Procura di Lecce ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta su Vittorio Romanelli, l’ex barbiere di Racale di 79 anni indagato con l’accusa di essere il sequestratore di Mauro Romano, il bimbo di Racale di cui non si hanno più notizie dal 1977. La decisione è arrivata dopo settimane di ipotesi, bufere e speranze che il piccolo fosse ancora vivo e fosse diventato uno sceicco negli Emirati Arabi, come raccontato dalla Gazzetta in tutto questo periodo. Lo si apprende da fonti investigative e lo conferma il legale della famiglia Romano, avvocato Antonio La Scala. La pm inquirente, Simona Rizzo, avrebbe motivato la richiesta di archiviazione ritenendo che gli elementi finora raccolti a carico dell’indagato non permettono di sostenere l'accusa in giudizio. Nei giorni scorsi la mamma di Mauro ha rilasciato dichiarazioni ai media ai quali ha confessato di sperare che sua figlio sia ancora vivo e di credere sia diventato lo sceicco 52enne Mohammed Al Habtoor e che viva negli Emirati Arabi Uniti. Ad accusare Romanelli di essere il sequestratore del piccolo di Racale erano state le rivelazioni di due ergastolani detenuti nel carcere di Opera che avevano indicato nell’ex barbiere l'uomo a cui Mauro si rivolgeva chiamandolo «zio» e che il giorno della scomparsa passò davanti casa dei nonni del bambino facendo salire Mauro a bordo del suo Apecar. Romanelli era l'unico indagato nell’inchiesta riaperta dalla Procura dopo l'arresto di un 70enne di Taviano, accusato di aver compiuto abusi sessuali su alcuni minori. L’anziano in passato era stato condannato a 4 anni di reclusione per aver tentato di estorcere danaro ai genitori del bimbo per fornire loro informazioni su dove fosse stato portato dopo il rapimento.
Da Oggi il 21 aprile 2021. «All’inizio, quando mamma ci ha detto che secondo lei il nostro Mauro era Mohammed Al Habtoor, non le avevo creduto. Pensavo: com’è possibile che sia finito laggiù, cosa c’entriamo noi con gli arabi?». Antonio Romano, il fratello di Mauro, il bimbo rapito a Racale nel giugno del 1977 e identificato dai genitori nello "sceicco" Al Habtoor, ha concesso una lunga intervista esclusiva al settimanale OGGI, in edicola da domani. A OGGI Antonio racconta la sua rincorsa allo "sceicco", che ha raggiunto per telefono e non solo. «Nel 2005 l’ho richiamato e gli ho detto: “Il tempo passa, ti vorrei vedere”. E lui mi ha invitato a Dubai. Il giorno dopo ho comprato il biglietto aereo, quello dopo ancora ero in volo», dice Antonio Romano. Ma l'incontro non ha luogo: «L'ho chiamato decine di volte, ma ha suonato sempre a vuoto. La sera tardi mi ha risposto un signore, in francese. E mi ha gelato: "Le consiglio di rientrare a casa al più presto"». E Romano è rientrato senza incontrare Al Habtoor: «Ho avuto paura. Forse ho sbagliato, e me ne pento, ma il mattino dopo sono corso in aeroporto e ho preso il primo volo per Monaco di Baviera. Alla reception ho lasciato una scatola di cioccolatini svizzeri per Mohammed: so che è passato a ritirarla».
Da oggi.it l'8 maggio 2021. «Non ho niente da dire, è una storia senza senso, offensiva per mio padre e la mia famiglia». Poche parole ma perentorie. Mohammed Al Habtoor, ricchissimo imprenditore raggiunto a Dubai dall’inviato di OGGI, per la prima volta dice la sua sul caso che si è riacceso in Italia dopo che la madre di Mauro Romano, scomparso nel Salento nel 1977, ha sostenuto, soprattutto a causa di due cicatrici, di riconoscere il figlio nel facoltoso arabo, già animatore del jet set internazionale e fidanzato di Manuela Arcuri. Nel numero in edicola OGGI racconta il difficilissimo tentativo di avvicinare Al Habtoor, nelle scuderie dei suoi amatissimi cavalli da polo, nei suoi uffici ad Al Safa, nell’hotel Al Habtoor Grand o nella Business Tower di Jumeira, nel palazzo al Dubai Marina, o sulla Sheick Zayed Road, l’autostrada per Abu Dhabi, dove sorge Al Habtoor City, un gigantesco complesso, con due alberghi superlusso e tre torri. E ne traccia una mappa del potere. Il reportage comprende i “consigli alla prudenza” di un influente occidentale a Dubai da trent’anni: «Se capisci che non vogliono parlare non insistere, perché se va bene ti fanno sbatter fuori, se va male ti fanno sbatter dentro». Il motivo di tanto allarme? «Vai in Italia, vai da Ferrero, Elkann, o Benetton e digli di fare un test del Dna perché non sono quello che credono di essere, e da piccoli sono stati rapiti e poi adottati dai loro genitori».
Mauro Romano, Al Habtoor e la prima clamorosa intervista italiana. Fonte anonima: ora capite perché lo sceicco scappa? Libero Quotidiano l'08 maggio 2021. "Offendete me, mio padre, la mia famiglia". Lo sceicco è Mauro Romano? Per la prima volta Mohammed Al Habtoor parla per la prima volta a un giornale italiano, il settimanale Oggi, e lo fa per respingere categoricamente le voci che lo vorrebbero essere in realtà il bimbo di 6 anni sparito in circostanze mai chiarite da Racale, in Puglia, nel 1977. I genitori del piccolo sostengono che loro figlio sia stato rapito e portato all'estero. Sarebbe, appunto, proprio lo sceicco, ricchissimo imprenditore e tra gli uomini più potenti di Dubai, conosciuto tra l'altro anche ai giornali di gossip italiani avendo avuto una chiacchierata frequentazione, diversi anni fa, con l'attrice Manuela Arcuri. A far credere alla mamma di Mauro che Al Habtoor sia il bimbo, oltre a una certa, sorprendente somiglianza fisica anche due cicatrici sulla mano, le stesse che aveva il piccolo. Al settimanale Oggi, però, lo sceicco risponde con estrema freddezza: "Non ho niente da dire, è una storia senza senso, offensiva per mio padre e la mia famiglia". La caccia alle sue dichiarazioni è stata dura e travagliata. Oggi ha cercato di avvicinarlo "nelle scuderie dei suoi amatissimi cavalli da polo, nei suoi uffici ad Al Safa, nell’hotel Al Habtoor Grand o nella Business Tower di Jumeira, nel palazzo al Dubai Marina, o sulla Sheick Zayed Road, l’autostrada per Abu Dhabi, dove sorge Al Habtoor City, un gigantesco complesso, con due alberghi superlusso e tre torri". Lo sceicco per molto tempo è riuscito a eludere il pressing del settimanale. Il motivo di tanta ritrosia? Lo svela un uomo che lo conosce bene, un "influente occidentale" che vive a Dubai da 30 anni e che ha "consigliato prudenza" ai giornalisti italiani: "Se capisci che non vogliono parlare non insistere, perché se va bene ti fanno sbatter fuori, se va male ti fanno sbatter dentro". In fondo, spiega la fonte anonima, c'è da capire la diffidenza di Al Habtoor: "Vai in Italia, vai da Ferrero, Elkann, o Benetton e digli di fare un test del Dna perché non sono quello che credono di essere, e da piccoli sono stati rapiti e poi adottati dai loro genitori».
Mauro Romano, "quando lo sceicco ha saputo di Mauro, è accaduta una cosa strana": spunta la richiesta dell'estratto di nascita. Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Una storia che racchiude un mistero, quella di Mauro Romano, il piccolo scomparso nel lontano 21 giugno del 1977 da Recale (Puglia) e che la mamma rivede nello sceicco Mohammed Al Habtoor. Nessuna certezza, ma due coincidenze che pesano come macigni nel cuore della famiglia di Mauro. "All’inizio - ha spiegato a Oggi il fratello Antonio il momento in cui mamma Bianca ha notato la somiglianza tra i due - quando ce lo ha detto, non le avevo creduto. Pensavo: com’è possibile che sia finito laggiù? Per curiosità mi sono messo a cercare le sue foto su Internet. Ho subito notato la cicatrice sul sopracciglio, che è come quella di mio fratello. Mauro se l’era fatta con me: eravamo con la zia in sella a un Ciao (un vecchio modello di motorino, ndr), lui è caduto e si è aperto tutto un buco sopra l’occhio. Una cicatrice sul sopracciglio non significa nulla, mi dirà lei". Eppure c'è un'altra coincidenza: "Però mia madre continuava a dirci: “Lo sento negli occhi, nello stomaco, che è lui”. Ho cercato meglio, ho trovato foto più “pulite”. E ho scoperto che Mohammed e Mauro avevano un’altra cicatrice in comune, sulla mano destra. Le coincidenze erano due: mi bastavano per cominciare a cercarlo". E così è stato. Diversi i contatti con Al Habtoor che terminavano in tante promesse e altrettanti nulla di fatto. Lo sceicco alle richieste di Antonio di incontrarsi ha sempre risposto: "Sì, verrò. Non so quando, ma verrò". Risultato? "Non è mai venuto", ha ammesso deluso Antonio. Non è finita qui perché il fratello di Mauro ha spiegato di essere volato a Dubai, dove lo sceicco risiede, dopo un suo invito. Anche in quel caso Al Habtoor non si fece trovare. Di più: "La sera tardi mi ha risposto un signore, in francese. Mi ha detto: “Benvenuto a Dubai, Monsieur Romano. Si faccia un bel giro”. Io gli ho detto che ero venuto per incontrare “Max” e lui mi ha gelato: “Le consiglio di rientrare a casa al più presto”. E ancora: "Ho avuto paura. Forse ho sbagliato, e non sa quanto me ne pento, ma il mattino dopo sono corso in aeroporto e ho preso il primo volo per Monaco di Baviera. Alla reception ho lasciato una scatola di cioccolatini svizzeri per Mohammed: so che è passato a ritirarla". Ma è un altro viaggio a sollevare i tantissimi dubbi, quello a Roma. Al Habtoor alloggiava lì dopo aver fissato un primo appuntamento con Antonio, così - prosegue - "ho preso la macchina, mi sono fatto quei mille chilometri. Lui stava all’hotel Excelsior, l’ho chiamato cento volte al cellulare, ma non si è fatto trovare. Stavamo tornando in Svizzera, quando ho ritentato: ha risposto qualcun altro. Io mi sono offerto di tornare indietro, ma quel signore mi ha ghiacciato: “Continui il suo viaggio, torni a casa”. Poi è successa una cosa strana: qualcuno ha telefonato al comune di Racale per chiedere l’estratto di nascita di Mauro Romano". Antonio, infatti, qualche settimana prima aveva detto allo sceicco della ricerca del fratello Mauro.
Mauro Romano, il fratello e l'incontro saltato con lo sceicco Al Habtoor: "Le consiglio di tornare a casa", inquietante. Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. "All’inizio, quando mamma ci ha detto che secondo lei il nostro Mauro era Mohammed Al Habtoor, non le avevo creduto. Pensavo: com’è possibile che sia finito laggiù, cosa c’entriamo noi con gli arabi?". Antonio Romano, il fratello di Mauro Romano, rapito a Racale nel giugno del 1977 e identificato dai genitori nello "sceicco" Al Habtoor, uno degli uomini più importanti degli Emirati Arabi, si è fatto intervistare dal settimanale Oggi, in edicola domani giovedì 22 aprile. Al giornale Antonio Romano racconta la sua rincorsa allo sceicco che ha raggiunto per telefono e non solo. "Nel 2005 l’ho richiamato e gli ho detto: 'Il tempo passa, ti vorrei vedere'. E lui mi ha invitato a Dubai. Il giorno dopo ho comprato il biglietto aereo, quello dopo ancora ero già in volo", racconta Antonio Romano. Ma l'incontro non ha luogo: "L'ho chiamato decine di volte, ma ha suonato sempre a vuoto. La sera tardi mi ha risposto un signore, in francese. E mi ha gelato: 'Le consiglio di rientrare a casa al più presto'". Così Romano è rientrato senza incontrare Al Habtoor: "Ho avuto paura .Forse ho sbagliato, e me ne pento, ma il mattino dopo sono corso in aeroporto e ho preso il primo volo per Monaco di Baviera. Alla reception ho lasciato una scatola di cioccolatini svizzeri per Mohammed: so che è passato a ritirarla", racconta Romano. Una vicenda di cui si è spesso occupato anche il programma di Federica Sciarelli in onda su Rai Tre Chi l'ha visto, A far crescere i sospetti sono le sensazioni della madre e l’età quasi sovrapponibile (Mauro è del 1970, Al Habtoor ufficialmente del 1968), e due segni particolari: entrambi hanno una cicatrice sul sopracciglio sinistro e una bruciatura sulla mano destra.
Domenica Live, il caso di Mauro Romano, il bimbo rapito. La rivelazione di Manuela Arcuri: "Io e lo sceicco eravamo fidanzati". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 18 aprile 2021. "Io non voglio rimpianti, per sentirmi a posto con la mia coscienza devo vederlo. Voglio parlare con questo ragazzo": a Domenica Live parla Bianca, la mamma del piccolo Mauro Romano scomparso 44 anni fa. Un giallo clamoroso, mai risolto. Quel bambino è scomparso da Racale (in provincia di Lecce). Un rapimento molto strano che ha fatto parlare per mesi e mesi i media di tutto il mondo. Ma ci sarebbe un collegamento con lo sceicco Al Habtoor, che potrebbe essere proprio quel bambino. Infatti, Bianca - sfogliando anni fa un noto settimanale - si è imbattuta nella foto dello sceicco. Quell’uomo avrebbe una cicatrice sotto l’occhio e sulla mano proprio come quelle del piccolo Mauro. Ora la famiglia, che non si è mai arresa, chiede il test del Dna. “Voglio andare avanti”, racconta Bianca. Il caso si riapre e diventa davvero unico. In passato, tra l’altro, la famiglia Romano aveva avuto dei contatti con le persone vicine allo sceicco, ma senza risultati positivi. Ma la bomba arriva con le parole di Manuela Arcuri, che a Domenica Live parla di Al Habtoor. “Abbiamo avuto una relazione di circa un anno, ho conosciuto anche la sua famiglia", racconta. La sua testimonianza potrebbe essere molto importante per capire se quell’uomo sia davvero Mauro Romano. I genitori sono convinti che si tratti di lui. Adesso il caso, soprattutto per la pressione mediatica, potrebbe essere riaperto. Solo l’esame del DNA potrebbe dare a quei genitori le risposte esatte. Lo sceicco ricchissimo è davvero Mauro Romano? Un vero mistero.
Anticipazione da Oggi il 12 aprile 2021. Oggi pubblica una foto scattata durante un evento mondano di cui è entrata in possesso Bianca Romano, mamma di Mauro, scomparso da Recale, in Salento, nel 1977 all’età di 6 anni. «È lui, è Mauro», dice. «Ormai ho pochi ricordi del mio bambino, ma non posso dimenticare il giorno in cui si bruciò la manina col ferro da stiro». A “unire” Mauro e Mohammed Al Habtoor (che risiede a Dubai), oltre al sesto senso di mamma Bianca, anche l’età quasi sovrapponibile (Mauro è del 1970, Al Habtoor ufficialmente del 1968), e due segni particolari: entrambi hanno una cicatrice sul sopracciglio sinistro e una bruciatura sulla mano destra. Intanto, sul fronte giudiziario, la Pm Stefania Mininni ha depositato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, che cristallizzano la dinamica sempre sostenuta dalla famiglia Romano: sarebbe stato Vittorio Romanelli, il barbiere del paese, a rapirlo e a consegnarlo a due uomini scesi da una macchina bianca. Romanelli è (stato) indagato per sequestro di persona.
Claudio Tadicini per corriere.it il 13 aprile 2021. Due cicatrici riaccendono la speranza che Mauro Romano sia ancora vivo. E che oggi sia lo sceicco Mohammed Al Habtoor, 52 anni, figlio del magnate Khalaf Al Habtoor, uno degli uomini più ricchi degli Emirati Arabi Uniti. Che si tratti di lui potrà stabilirlo con esattezza solo l’esame del Dna — che finora l’emiro ha rifiutato — ma la svolta potrebbe essere vicina: i familiari voleranno presto a Dubai per ottenere che l’esame venga eseguito tramite l’intercessione delle autorità consolari. Sono le ultime novità sul giallo del bimbo di Racale, nel Salento, rapito all’età di 6 anni il 21 giugno del 1977 e mai più ritrovato.
«Ho riconosciuto due cicatrici». «Nelle foto ho riconosciuto due cicatrici: una sul sopracciglio, l’altra sulla mano destra, che si procurò con un ferro da stiro» racconta la signora Bianca Colaianni, madre di Mauro Romano, che insieme al marito Natale per 44 anni non ha mai smesso di cercare il figlio. «Questi sono soltanto alcuni dei particolari in comune tra Mauro e quest’uomo — continua la donna —, non possono essere soltanto delle coincidenze. Siamo pronti a partire per Dubai, ma non possiamo andarci da soli. Siamo arrivati fin dove ci è stato consentito: non abbiamo alcun potere per andare oltre. È per questo che chiediamo che la vicenda sia presa in gestione dalle autorità». Dal Medio Oriente, infatti, non sono mai state accolte le richieste dei coniugi Romano e del loro avvocato Antonio La Scala per una comparazione del Dna, utile per fugare ogni dubbio.
«Speravamo almeno in una telefonata di conforto». «Finora abbiamo trovato davanti un muro enorme — continua la donna —, solo silenzio. Speravamo almeno in una telefonata di conforto o anche per dirci che ci stiamo sbagliando. Niente». Ex giocatore professionista di polo, imprenditore e filantropo, ma anche latin lover. Il presunto Mauro Romano — riferisce La Scala — avrebbe flirtato anche con Naomi Campbell, Valeria Marini e Manuela Arcuri, con cui è stato ritratto in una foto d’epoca durante un evento mondano. Riaperta lo scorso gennaio — dopo tre archiviazioni e l’arresto di un 69enne per pedofilia, poi indagato per la scomparsa di Mauro con le accuse di omicidio volontario e sequestro di persona — l’indagine del pubblico ministero Stefania Mininni e dei carabinieri è stata condotta nella convinzione che il bimbo scomparso fosse stato ucciso. Ma finora non è riuscita a portare prove certe a sostegno di questa tesi, né a far ritrovare il corpo del piccolo.
Depistaggi e omertà. Gli inquirenti, assieme alla tenacia della famiglia Romano e del suo legale, dopo anni di depistaggi e omertà, hanno portato però al presunto sequestratore di Mauro Romano, un ex barbiere di 79 anni, per il quale il gip dovrà decidere il rinvio a giudizio: si tratta di un amico di famiglia che Mauro chiamava «zio» e che il giorno della scomparsa, secondo la Procura, fece salire Mauro sul suo Apecar e lo condusse nella sua casa estiva per farlo giocare con il figlio. Questo, sempre secondo l’accusa, in attesa di consegnarlo a due individui, a oggi rimasti sconosciuti, che lo prelevarono poi con la forza facendo sparire di lui ogni traccia.
Mauro Romano, rapito a 6 anni nel '77: "Ora è lo sceicco Al Habtoor". La madre chiede il test del Dna. Lucia Portolano su La Repubblica il 13 aprile 2021. Il piccolo è scomparso da Racale, nel Salento, mentre stava giocando: il caso è stato riaperto da poco ed è indagato un ex barbiere di 79 anni. La madre di Romano, che ora avrebbe 52 anni, ha riconosciuto nel '99 due cicatrici del figlio sul volto e sulla mano di uno degli uomini più ricchi degli Emirati Arabi. Che però non si è mai voluto sottoporre all'esame. Una cicatrice sull’occhio sinistro e i segni di una piccola ustione sulla mano destra. Una ferita particolare che Mauro Romano si era procurato da piccolo con un ferro da stiro, prima di sparire nel nulla nel 1977. Sua madre, Bianca Colaianni, non ha dubbi: si tratta delle stesse cicatrici che ha visto in foto a Mohammed Al Habtoor, 52 anni, uno degli sceicchi più ricchi degli Emirati Arabi. Mauro Romano aveva solo sei anni quando è stato rapito a Racale, paese del Salento, 44 anni fa. Ma dal 1999 la donna è convinta che suo figlio possa essere proprio quell’uomo. Da anni chiede di verificare questa pista, ed ancora oggi si batte per questo fino all'ultimo accorato appello: un test del Dna che lo sceicco, invece, sembra voler evitare.
La scomparsa nel 1977. Era l’estate del 1977, una giornata di giugno, Mauro aveva sei anni e stava giocando di fronte a casa dei nonni. I genitori erano partiti per un funerale nel vicino comune di Poggio Marino e lui era rimasto in paese. Mauro era un bambino tranquillo, descritto da tutti come obbediente, calmo, molto bravo a scuola. Quel pomeriggio però scomparve nel nulla. Le ricerche non portarono a niente. In paese tutti dicevano di non aver visto nulla. Gli investigatori seguirono tutte le piste: dalla pedofilia alla Sacra corona unita, ipotizzando anche che si fosse allontanato da solo. Alla fine si pensò che fosse morto e l'attenzione sul caso calò. Ma mamma Bianca, che oggi ha 76 anni, e papà Natale Romano non si sono mai arresi. Non si sono mai dati pace, nonostante le ricerche e le indagini nel corso degli anni non avessero portato a nulla.
La foto di Al Habtoor. Nel 1999 accade qualcosa che riaccende la speranza. Bianca riceve la telefonata di una vicina di casa che le dice di comprare immediatamente la rivista "Visto" perché è convinta che un uomo in foto, abbracciato a Valeria Marini, sia suo figlio Mauro. Si tratta di Mohammed Al Habtoor, un bell’uomo, un ricchissimo manager degli Emirati Arabi. Lo sguardo della madre di Mauro Romano corre a quei due segni identificativi: l'uomo ha le stesse cicatrici e anche lo sguardo sembra molto simile a quello di suo figlio. Da quel momento più volte la famiglia Romano ha tentato di avere rapporti con l’emiro. Nel 2008 la madre e il papà di Mauro si sono rivolti anche al Viminale, sperando di poter rintracciare l’uomo della rivista. Il ministero ha accolto la loro richiesta e si è messo in contatto con le autorità locali ma solo dopo diversi solleciti il manager della foto è stato rintracciato. La famiglia dello sciecco nega che si possa trattare di Mauro, lui stesso rifiuta di sottoporsi alla prova del Dna.
I contatti con gli Emirati Arabi. Eppure da quel giorno tra le due famiglie succede qualcosa, i rapporti si intensificano e inizia una corrispondenza, sino quando il fratello di Mauro viene invitato a Dubai. Gli viene promesso un incontro per un confronto faccia a faccia con l’uomo ma questo non avverrà mai. La stessa cosa accade un paio di anni dopo con l’avvocato della famiglia Romano, Antonio Maria La Scala. I genitori di Racale si erano rivolto a lui , ormai noto in tutta Italia per le sue battaglie accanto alle famiglie di persone scomparse. Nel 2008 infatti su una rivista era apparsa, ancora una volta, una foto di Al Habtoor, questa volta con Manuela Arcuri. "Nell'articolo del settimanale, a corredo della foto, c'è scritto che uno sceicco arabo, in Italia per motivi di lavoro, era stato visto assieme all'attrice Arcuri", ricostruisce il legale. "A quel punto la mamma di Mauro si rivolge nuovamente al prefetto Rino Romano che all'epoca è commissario per le persone scomparse e chiede di mettersi in contatto con il console italiano presso gli Emirati Arabi. E solo dopo due mesi, in seguito a un sollecito, Monaco riesce a ottenere un riscontro: il console risponde dicendo di essere riuscito a parlare con il padre dell'uomo ritratto in foto, il quale sostiene di non sapere nulla della storia di Mauro Romano". La donna, in quel periodo, prova anche a scrivere direttamente al padre dello sceicco arabo: "Dalla documentazione, risulta che mamma Bianca è invitata a Dubai, ma dopo questo contatto, non ci sono più notizie. Questa persona sparisce. Sempre dagli atti, risulta che il console scrive al prefetto Monaco che, per questioni di opportunità, sarebbe il caso che della vicenda se ne occupino le gerarchie superiori, vale a dire i ministeri. Poi più nulla".
Fino al volo negli Emirati Arabi. "Nel 2012 il fratello di Mauro, Antonio Romano, che vive in Svizzera, riesce a mettersi in contatto direttamente con lo sceicco per chiedere un appuntamento a Dubai e riesce anche a parlargli al telefono". A fare da filtro è la moglie di Antonio che parla il francese. "Quando i due arrivano a Dubai, vengono contattati da due persone che, in lingua francese, dicono che l'incontro non ci sarà e non danno alcuna spiegazione. Da allora non c'è stato più alcun contatto".
La riapertura delle indagini: "Fu un rapimento". Ma ancora una volta la madre e il padre di Mauro non si arrendono, con il loro avvocato nel novembre 2020 decidono di rivolgersi alla pm della Procura di Lecce Stefania Mininni e ai carabinieri. Raccontano della somiglianza con quell’uomo e della presenza di quelle cicatrici. Le stesse del loro bambino. Ma proprio mentre in loro si riaccende la speranza, avviene la svolta nelle indagini del rapimento. La Procura di Lecce indaga un ex barbiere di 79 anni, Vittorio Romanelli, un amico di famiglia. Secondo la Procura questi avrebbe fatto salire Mauro sulla sua Apecar, lo avrebbe portato nella sua casa in vacanza a Taviano e poi da qui il bambino sarebbe stato prelevato con la forza da due uomini. Mauro quell’uomo lo chiamava zio. A supportare questa ipotesi ci sono le dichiarazioni di un ex amico di infanzia di Mauro, Vito Paolo Troisi, condannato all’ergastolo ritenuto capo clan di un gruppo criminale della Sacra corona unita del Salento. Troisi vuole togliersi un peso dalla coscienza, parla con la pm Stefani Mininni e racconta che quel pomeriggio del 1977 era con Mauro ed altri ragazzi, stavano giocando insieme “poi improvvisamente Mauro non si trovava più – ha detto Troisi – poi ricordo che è venuto lo zio”. L'uomo avrebbe portato via Mauro con la scusa di farlo giocare con suo figlio: anche lui, insieme alla moglie di Romanelli, è indagato. Il caso è anche al centro di un libro inchiesta di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni che da due anni lavorano sul mistero di Mauro Romano. A giugno uscirà per Fandango "Storia di una scomparsa". Il libro contiene delle rivelazioni sul giallo. "Quando abbiamo scoperto per la prima volta questa storia, una manciata di anni fa – spiega l’autrice Flavia Piccinni- sia io che Carmine siamo rimasti increduli. Dentro questa vicenda c'è molto più di quello che uno possa immaginare, e non vediamo l'ora di provare a fare un po' luce su questo mistero".
Racale, mamma di Mauro Romano, scomparso nel '77: «È lo sceicco Al Habtoor». La famiglia ha riconosciuto due cicatrici, "ora a Dubai per Dna". La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2021. La mamma di Mauro Romano, il bimbo rapito nel 1977 in Salento quando aveva solo sei anni, oggi spera che suo figlio possa essere lo sceicco Mohammed Al Habtoor, 52 anni, figlio del magnate Khalaf Al Habtoor. «Mi auguro sia lui - dice Bianca Colaianni - perché vorrebbe dire che è ancora vivo e che nessuno l’ha mai ucciso». La mamma di Mauro ha riconosciuto suo figlio in una foto dello sceicco grazie a «due cicatrici: una sul sopracciglio, l'altra sulla mano destra, che si procurò con un ferro da stiro», afferma la donna. Per avere la certezza che si tratti di lui, occorrerà l’esame del Dna che - stando a quanto riferisce il quotidiano - finora l’emiro ha rifiutato. I familiari di Romano, però, hanno intenzione di andare di persona a Dubai per ottenere che l’esame venga eseguito tramite l’intercessione delle autorità consolari. I genitori non hanno mai smesso di cercare Mauro da giorno della sua scomparsa a Racale (Lecce), il 21 giugno del 1977. Grazie alla loro tenacia, le indagini sono proseguite e hanno portato al presunto sequestratore, un ex barbiere di 79 anni: si tratta di un amico di famiglia che Mauro chiamava «zio» e che il giorno della scomparsa, secondo la Procura, fece salire Mauro sul suo Apecar e lo condusse nella sua casa estiva per farlo giocare con il figlio. Questo, secondo l’accusa, in attesa di consegnarlo a due individui, a oggi rimasti sconosciuti, che lo prelevarono poi con la forza facendo sparire di lui ogni traccia.
Il giallo del bimbo di Racale. “Mauro Romano è lo sceicco Al Habtoor”, la nuova pista sul bimbo scomparso nel 1977. Vito Califano su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Una nuova pista nel giallo di Mauro Romano: il bimbo che scomparve nel 1977 da Racale, in provincia di Lecce. Aveva sei anni. Secondo i genitori potrebbe essere lo sceicco emiratino Mohammed Al Habtoor. La madre del bambino Bianca Colaianni ne parla convinta. Con il marito Natale Romano sarebbe decisa a volare a Dubai per insistere sull’esame del Dna. Lo sceicco non sembra però disponibile. Mohammed Khalaf Al Habtoor ha 52 anni. È figlio del magnate Khalaf Al Habtoor, tra gli uomini più facoltosi degli Emirati Arabi. È imprenditore, filantropo, ex giocatore professionista di polo. Noto anche alla cronaca rosa: in passato vennero raccontati suoi presunti flirt con Naomi Campbell, Valeria Marini e Manuela Arcuri. È vice presidente e CEO del gruppo Al Habtoor Group, sovrintende alla diversificazione del gruppo in beni immobili, hotel, istruzione, assicurazione, settore dell’accoglienza, automotive ed editoria. L’emiro ha rifiutato di sottoporsi al test del Dna. A convincere i genitori delle cicatrici dell’uomo, viste in alcune foto. Le stesse del bambino che oggi avrebbe 50 anni. E sulla cui scomparsa non è mai stata fatta chiarezza. “Nelle foto ho riconosciuto due cicatrici: una sul sopracciglio, l’altra sulla mano destra, che si procurò con un ferro da stiro”, ha detto Colaianni al Corriere della Sera. “Questi sono soltanto alcuni dei particolari in comune tra Mauro e quest’uomo – ha assicurato la donna – non possono essere soltanto delle coincidenze. Siamo pronti a partire per Dubai, ma non possiamo andarci da soli. Siamo arrivati fin dove ci è stato consentito: non abbiamo alcun potere per andare oltre. È per questo che chiediamo che la vicenda sia presa in gestione dalle autorità”. Nessuna apertura però da Dubai. Nessun commento neanche per smentire qualsiasi legame con la vicenda. Sul caso del bimbo scomparso sono in corso due inchieste. L’indagine del pubblico ministero Stefania Mannini e dei carabinieri è stata riaperta lo scorso gennaio. L’ipotesi era quella dell’omicidio. Lo scorso novembre un uomo di 79 anni, un ex barbiere di 79, ha ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini da parte del sostituto procuratore. Il gip dovrà decidere sull’eventuale rinvio a giudizio. La pista è quella del presunto sequestro. Quest’uomo, un amico di famiglia, che Mauro Romano chiamava “zio”, fece salire sul suo Apecar il bambino e lo condusse nella sua casa in campagna a Castelforte, prima per giocare con suo figlio, e poi per consegnarlo a due individui, ancora sconosciuti. Da allora nessuna traccia. La nuova pista, al momento senza ulteriori dettagli sugli eventuali legami oltre le cicatrici, sembra però più suggestiva che altro.
Racale, bimbo scomparso nel '77, parla la moglie dell'indagato: «Mio marito è innocente». Assistita dai legali difensori Antonio Corvaglia e Giuseppe Gatti la donna ha rotto mesi di silenzio in un’intervista insieme al figlio. La Gazzetta del Mezzogiorno l'01 Aprile 2021. «Mio marito è innocente. Se solo avessi avuto il minimo dubbio che possa aver fatto quello di cui è accusato, lo avrei ucciso io stessa con le mie mani " Rompe il silenzio Paola Fachechi, la moglie di Vittorio Romanelli, l’ex barbiere di Racale indagato per sequestro di persona perchè sospettato di essere il rapitore di Mauro Romano, il bambino scomparso il 21 giugno 1977 all’età di sei anni mentre giocava per strada davanti casa dei nonni. Assistita dai legali difensori Antonio Corvaglia e Giuseppe Gatti la donna ha rotto mesi di silenzio in un’intervista a Telenorba insieme al figlio. «La Procura di Lecce ci accusa di proteggerlo, ma non è così - racconta la donna - Lui non c'entra niente con il rapimento di Mauro. Gliel'ho chiesto ogni giorno a mio marito e gli credo. Abbiamo fatto tanto per quella famiglia. Mi spiace che abbiano perso un figlio. Questa storia ci ha distrutto anche economicamente, prosegue la donna. Mio figlio ha perso il lavoro e nessuno lo chiama per via del cognome che porta.» Madre e figlio sono indagati in un fascicolo parallelo per false dichiarazioni al Pm. «Dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, attendiamo le determinazioni della Procura - riferiscono i legali - Non abbiano paura di un eventuale giudizio, anzi. Siamo convinti che potrebbe essere la strada per chiarire la verità nelle sedi opportune , di una vicenda con troppe lacune».
Mauro Romano, il bimbo sparito nel 1977? Per la procura di Lecce oggi "è un ricco arabo". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2020. «Dopo un anno di intenso e infaticabile lavoro, la dottoressa Stefania Mininni, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lecce, ha chiuso le indagini relative al sequestro del piccolo Mauro Romano. Oggi, anche se di parte in quanto proveniente dalla stessa Procura della Repubblica e quindi in assenza di un dibattimento, abbiamo dopo quarantaquattro anni una verità. Mauro fu rapito per essere consegnato a due persone». Così esordisce l'avvocato Antonio La Scala che da tempo, assieme ai genitori di Mauro Romano e agli organi inquirenti, sta cercando la verità su ciò che accadde al piccolo bambino di Racale. «Fu proprio Libero, il 25 novembre del 2019 - continua l'avvocato La Scala - a raccontare e riaccendere i riflettori sulla scomparsa di Mauro Romano, il bambino scomparso in provincia di Lecce il 21 giugno 1977. Dal vostro articolo sono scaturite trasmissioni televisive, come "Storie Italiane" condotta da Eleonora Daniele fino a "Chi l'ha visto"». L'avvocato Antonio La Scala, dopo l'articolo di Libero, presentò immediatamente una istanza di riapertura del caso, perché qualche cosa nelle indagini precedenti non era andata nel senso giusto. Avvocato che cosa non la convinceva di come erano state condotte le indagini? «Subito compresi come le indagini fossero state frettolose, e ancor di più l'archiviazione». Perché dice indagini frettolose? «Perché, nonostante fosse stata individuata immediatamente la persona che chiamò i genitori del piccolo Mauro per chiedere un riscatto, non si proseguì su quella pista». Spesso accade che, di fatto, esistano reati di serie A e reati di serie B. In fondo, di quell'umile famiglia di Racale, in provincia di Lecce, poco importava. Per la scomparsa di quel bambino di sei anni soltanto Natale e Bianca, i suoi genitori, si sono battuti per arrivare ad una verità. Ma chi fu a prendere Mauro e portarlo su una "ape-agricola"? «Le risultanze investigative portano ad una persona precisa, conosciuta da Mauro e da tutti chiamata "zio"». Un parente quindi? «Non un consanguineo, ma un amico di famiglia, che per l'appunto veniva chiamato "zio". La cosa triste è che quest' uomo era stato già messo sotto osservazione quarantatré anni fa, e lo si poteva quindi fermare subito. Oggi le indagini si stanno indirizzando su che fine ha fatto Mauro: potrebbe essere stato ceduto e trovarsi all'estero o in Italia con un nome diverso». La scomparsa di Mauro Romano, fino a questo momento, rappresenta un importante fatto di cronaca a cui va aggiunto un elemento eccezionale: la riapertura delle indagini dopo più di quarant' anni e l'identificazione della persona che lo prelevò e lo allontanò dalla famiglia. Ma questa eccezionalità diventa unicità se si immagina che, con ogni probabilità, il piccolo Mauro si trova da qualche parte del mondo probabilmente vivo e, naturalmente, ignaro della propria vera identità. Ma andiamo per gradi. Esaminando le carte delle indagini, si scopre che davvero qualche cosa non ha per nulla funzionato, in questi anni di investigazione. Per carità, l'indagine sulla sparizione del piccolo Mauro Romano era intrisa di omissioni, bugie e reticenze, ma già dal principio esistevano piste investigative che potevano essere seguite con maggiore solerzia e, forse, portare a riscontri più immediati. Da una parte, come ha raccontato l'avvocato La Scala, c'era il telefonista che, già nel 1977, chiese ai genitori di Mauro un riscatto dapprima di trenta e poi di venti milioni di lire. Una persona su cui, nonostante fosse stata condannata a quattro anni per estorsione, non si indagò mai in profondità. Anni dopo venne nuovamente arrestato con l'accusa di pedofilia. Ma c'è di più. Un segnale importante lo diede un mafioso affiliato alla Sacra Corona Unita pugliese, il quale scrisse nel 2010 una lettera a Bianca, la mamma di Mauro, per dirle che voleva essere ascoltato dagli inquirenti: ma anche quella volta l'allora procuratore fece nulla. Soltanto adesso, nell'ultimo anno, la dottoressa Minnini ha preso in carico la volontà di parlare di quell'uomo, e la sua deposizione è risultata decisiva. D'altro canto, questo drammatico fatto di cronaca nera si arricchisce di una tinta più leggera. Era il 1999, i coniugi Romano si imbattono nella foto di un personaggio del jet-set arabo, pubblicata su un settimanale familiare. Osservano bene quell'immagine e ritengono che ci siano le condizioni perché quel giovane uomo, in compagnia di una attrice molto popolare in Italia, sia proprio il loro bambino, all'epoca scomparso già da più di vent' anni. Il motivo del riconoscimento fu dovuto a dei segni "tipici", che solo Mauro poteva avere in qualche parte del corpo. Quella persona era Mohamed Al Habtor, figlio di Khalaf Ahmed Habtor, uno dei tre uomini più ricchi e potenti di Dubai e, per la rivista americana Forbes del 2007, il trecentesimo uomo più ricco del mondo. Una circostanza che risvegliò la speranza in Natale e Bianca Romano, e la volontà di cercare in tutti i modi di prendere contatto con l'importante famiglia araba. Mohamed Al Habtor, che per i signori Romano sarebbe in realtà il figlio Mauro, sul giornale di cronaca rosa c'era finito per una relazione con Valeria Marini (e dopo una con Naomi Campbell) e i due erano ritratti sulla spiaggia di Dubai. Così racconto l'attrice italiana ai giornali: «Mesi fa mi ha mandato a prendermi con una bellissima Rolls Royce e mi mise a disposizione una lussuosa suite di uno dei suoi alberghi a Dubai». Ma a Mohamed - o Mauro Romano? - si legò anche un'altra bellissima donna italiana: Manuela Arcuri. «Sono innamorata di lui. Nell'intimità lo chiamo cucciolo. Lui, da buon arabo, è molto geloso»: così parlava al conduttore della "Vita in diretta" Michele Cucuzza. La Arcuri diceva di non temere il confronto con le precedenti "fiamme" del suo amato, come Naomi Campbell e Valeria Marini: «Sono storie finite, e poi io per Mohamed sono un'altra cosa». L'attrice sorrideva quando si parlava del meraviglioso anello che lo sceicco le aveva regalato: «Non lo metto spesso - dice - però è importante per me perché è l'anello di fidanzamento». I coniugi Romano contattarono poi il papà di Mohamed, Khalaf. Il miliardario arabo per spirito di gentilezza li invitò a Dubai, negando però che quel figlio fosse frutto di una "adozione". Tutto sembrava pronto per il viaggio e per l'incontro, quando improvvisamente quell'appuntamento saltò. Così Natale e Bianca, mai domi nel cercare il loro bambino, si rivolsero al ministero dell'Interno, che in effetti contattò il Consolato Italiano per fare istanza al Console di Dubai in modo che si potesse organizzare l'incontro. La risposta fu perentoria: «Non esistono appigli realistici per immaginare che il signor Mohamed sia Mauro Romano». Ma allora perché, in prima battuta, esisteva la cortese disponibilità dell'emiro per incontrare i due genitori di Mauro? E perché un'altra volta il fratello di Mauro, dopo aver parlato con Mohamed, andò a Dubai per incontrarlo, per poi essere rispedito al mittente poco prima dell'incontro? Io credo che questa storia, drammatica all'inizio e che si prolunga da oltre quarant' anni, meriti una conclusione. Ad oggi l'avvocato La Scala mi racconta: «Ritengo di non escludere che il piccolo, ora uomo di 50 anni, possa essere ancora vivo. Lo auguro alla famiglia con tutto il cuore». Aggiungo che sarebbe bello se la potente famiglia di Dubai consentisse un incontro ai genitori e magari un test del Dna, per fugare ogni dubbio ed eventualmente riprendere a cercare, ancora ed altrove ma con la medesima energia, il piccolo Mauro Romano.
· Il Mistero del piccolo Giuseppe Di Matteo.
La cella, il letto e la botola, l'inferno del piccolo Giuseppe Di Matteo. La Repubblica il 10/1/2021. San Giuseppe Jato – Manca l’aria quando si entra nella stanzetta con il letto arrugginito. Giuseppe Di Matteo, il figlio quindicenne del pentito Mario Santo, lo tenevano rinchiuso qui, nel sotterraneo di un vecchio casolare immerso nella vallata di contrada Giambascio. Non c’è una finestra. Un tempo, non c’era neanche una porta: il boss Giovanni Brusca aveva fatto costruire un montacarichi per arrivare alla prigione bunker. L’11 gennaio di 25 anni fa, il pavimento si abbassò. I carcerieri afferrarono il bambino disteso sul letto. «Non ci fu bisogno di stringerlo molto mentre lo strangolavamo – ha detto Giuseppe Monticciolo, che dopo l’arresto ha iniziato a collaborare con la giustizia – non ci fu bisogno di stringerlo perché tanto non si difendeva, non aveva più la forza di fiatare, si andava accasciando piano piano». Enzo Brusca, il fratello di Giovanni, controllò che il cuoricino di Giuseppe non battesse più. E infilarono il corpo dentro un bidone pieno di acido. Erano passati 779 giorni dal momento del sequestro ordinato dai vertici di Cosa nostra per far ritrattare il padre di Giuseppe, il primo pentito ad aver svelato i segreti della strage Falcone. Nella prigione di Giuseppe gli operai hanno scavato una porta nel muro. E ora entra il sole. «Un luogo di morte è diventato simbolo del riscatto contro la mafia», dice Salvatore Graziano, il commissario del Comune di San Giuseppe Jato. La prigione, ormai bene confiscato ai Busca, è diventata il “Giardino della memoria”. «Grazie ai 150 mila euro donati dalla mamma e dal fratello del piccolo Di Matteo è stato possibile realizzare un’importante ristrutturazione – spiega il commissario – è stato fatto un appalto, i lavori sono ormai completati». Per la famiglia del bambino, è il luogo dove deporre un fiore. «Sarà anche il luogo dove potere organizzare tante iniziative per i giovani, grazie al sostegno di Libera», dice ancora Salvatore Graziano. Intanto, gli operai e gli impiegati del Comune stanno sistemando le ultime cose in vista del momento di ricordo organizzato per domani. Telefoniamo al papà di Giuseppe, che vive in una località segreta. Dice: «Non ci sono parole per definire quello che la mafia ha fatto a mio figlio. Sono peggio delle bestie. Ma, alla fine, ha vinto Giuseppe, perché al processo sono stati inflitti cento ergastoli. E oggi la mafia è col culo per terra». Solo uno dei boss condannati non ha scontato neanche un giorno di carcere, è il superlatitante Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993. «Secondo me vive all’interno di una famiglia – dice Santino Di Matteo – l’ho detto agli inquirenti – e secondo me si trova nel suo territorio». Cos’è rimasto della Cosa nostra delle stragi? «L’omertà è stata sconfitta – risponde l’uomo che un tempo era un mafioso di Altofonte, oggi aiuta un sacerdote nell’assistenza delle persone più bisognose – ormai i mafiosi che provano a riorganizzarsi vengono arrestati nel giro di poco tempo grazie a indagini sempre più incisive. Ma bisogna stare comunque attenti. Ai magistrati ho detto pure di fare molta attenzione alla famiglia Madonia di Palermo e a tutte le persone che ruotano attorno. Sono molti pericolosi». Santino Di Matteo chiede di poter vedere la casa dove uccisero Giuseppe. Gli mandiamo alcune foto per Whats app. «Figlio mio, che inferno avrà vissuto». E ricorda l’ultima volta che lo sentì. «Una mattina telefonai, mi raccontò che sarebbe andato al maneggio, aveva una grande passione per i cavalli. Gli dissi di stare attento, ma era solo un bambino, che ne sapeva di certe cose». Giuseppe lo rapirono in un maneggio di Piana degli Albanesi. Era il pomeriggio del 23 novembre 1993. «Gli raccontammo che eravamo della Dia e che lo avremmo portato dal padre», ha spiegato Salvatore Grigoli, anche lui diventato un collaboratore di giustizia dopo l’arresto. Ma presto Giuseppe capì di essere stato rapito. La prima prigione fu a Lascari, in provincia di Palermo: «Quella notte venne tenuto legato e non smetteva di piangere», ha aggiunto Grigoli. Nei 25 mesi di prigionia, il bambino venne trasferito più volte. Da Palermo, ad Agrigento, a Trapani. Una notte lo portarono da Purgatorio a San Giuseppe Jato. «Con le mani legate da un nastro, infilato dentro al portabagagli di un’auto», ha raccontato Monticciolo. Quando si diffuse la notizia del rapimento, Santino Di Matteo fuggì dalla località protetta in cui si trovava sotto scorta per tornare in Sicilia. Oggi dice: «Quale genitore non sarebbe corso a cercare il figlio. Anche la procura di Palermo e le forze dell’ordine hanno fatto di tutto, non smetterò di dire grazie ai magistrati Alfonso Sabella e Franco Lo Voi». Ora, gli operai hanno terminato i lavori al Giardino della memoria. E c’è un gran silenzio nel casolare. Uno dei carcerieri, Enzo Chiodo, ha raccontato che portava dei fumetti a Giuseppe. Chissà quante storie avrà immaginato per provare a sopravvivere. Storie e sogni che sono rimasti fra queste mura.
· Il Mistero di Wilma Montesi.
Il "fatal pediluvio" che accese la politica: i misteri della morte di Wilma Montesi. Dal "pediluvio fatale" allo scandalo politico. Chi uccise Wilma Montesi e perché? I misteri del caso che ha appassionato l'opinione pubblica italiana degli anni Cinquanta. Francesca Bernasconi, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Erano gli anni Cinquanta. In Italia qualche anno prima la Monarchia aveva lasciato il posto alla Repubblica, facendo sedere al governo la Democrazia Cristiana. E nel 1953 scoppiò il caso Montesi, che da semplice incidente si trasformò in poco tempo nello scandalo del secolo, scatenando una bufera politica e facendo vacillare la solidità dell'esecutivo. Tutto iniziò con il corpo di una ragazza rinvenuto sulla spiaggia di Torvaianica, a 20 chilometri da Ostia: da allora fu un susseguirsi di ipotesi, dall'incidente all'omicidio, che sollevarono domande e misteri ancora oggi rimasti irrisolti. Si trattò del primo caso di cronaca mediatico, in cui la stampa e l'opinione pubblica ebbero un ruolo fondamentale, e che in poco tempo si trasformò da una semplice vicenda di cronaca allo scandalo politico più importante agli albori dell'Italia repubblicana.
Chi era Wilma Montesi? Il 9 aprile del 1953 Wilma Montesi, una ragazza di 21 anni residente a Roma dove viveva insieme alla famiglia, scomparve. Wilma era fidanzata e si sarebbe dovuta sposare con un sottufficiale di polizia in quel momento in servizio a Potenza. Quel pomeriggio la madre e la sorella erano andate al cinema, ma la ragazza aveva preferito restare a casa. Al loro ritorno però le due donne non la trovarono e nemmeno quella sera Wilma tornò a casa. Così intorno alle 20.30 il padre decise di andare a cercarla, prima negli ospedali e poi sul lungotevere ma, non trovandola, alle 22.30 si presentò in commissariato per denunciare la scomparsa della figlia. Passarono due giorni, senza avere alcuna notizia di Wilma. Sabato 11 aprile alle 7.30 del mattino il manovale Fortunato Bettini si accorse di qualcosa che giaceva sulla spiaggia di Torvaianica, a 20 chilometri da Ostia: una volta avvicinatosi capì che si trattava del corpo di una ragazza e corse al più vicino commissariato delle forze dell'ordine, quello della guardia di finanza. I finanzieri contattarono i carabinieri di Pratica di Mare che giunsero sul luogo. Lì trovarono il corpo della ragazza, stesa a faccia in giù parallela alla riva, con la fonte appoggiata alla sabbia, il braccio destro piegato verso l'alto e il sinistro disteso lungo il corpo. La giovane donna aveva indosso una sottoveste, un maglioncino e una giacca abbottonata al collo, con le maniche non infilate, mentre non furono ritrovate le scarpe, le calze, la gonna e il reggicalze. I risultati del medico medico legale parlarono di una morte per annegamento, avvenuta al più tardi la mattina del 10 aprile, e la polizia iniziò a indagare per cercare di capire a cosa fosse dovuta la triste sorte di Wilma Montesi.
Il "pediluvio fatale". La portiera del palazzo in cui Wilma abitava disse di averla vista uscire di casa quel 9 aprile, intorno alle 17.20. Contrariamente a quanto faceva di solito, quel giorno la ragazza non indossò la collana di perle e gli orecchini, che vennero ritrovati in casa. Il 13 aprile a casa Montesi arrivò una telefonata: un'impiegata al Ministero della Guerra, Rosa Passarelli, disse di aver visto Wilma sul treno per Ostia delle 17.30. La sorella a quel punto si ricordò che Wilma aveva parlato di voler andare a Ostia per bagnarsi i piedi nel mare e dare così sollievo a un eczema ai talloni che le provocava rossore e fastidio. Anche la padrona di un'edicola vicino a Ostia affermò di riconoscere Wilma nella ragazza che il 9 aprile aveva acquistato una cartolina, che avrebbe scritto e imbucato per Potenza. Nel settembre del 1953 la procura della Repubblica di Roma chiese l'archiviazione del caso: l'ipotesi era che Wilma si fosse recata a Ostia per fare un pediluvio (che i giornali del tempo ribattezzeranno "fatal pediluvio"), ma una volta in mare, avrebbe avuto un malore e perso i sensi, annegando. La ragazza avrebbe lasciato a casa i gioielli per evitare che si rovinassero. Ma se Wilma si trovava a Ostia, come ci finì il suo corpo sulla spiaggia di Torvaianica? Venne trasportato dal mare, fu la risposta degli inquirenti, che si ricordarono della forte mareggiata del 9 aprile: potrebbe essere stata la corrente a trasportare la salma fino a Torvaianica, per poi depositarla sul bagnasciuga. In dicembre il giudice istruttore accolse la richiesta di archiviazione: Wilma era rimasta vittima di una disgrazia. Ma la vicenda era tutt'altro che chiusa. Alcuni punti infatti sembrarono non tornare nella ricostruzione fatta dagli inquirenti. In primo luogo, gli orari: Rosa Passarelli disse di aver visto Wilma sul treno delle 17.30, ma quella fu all'incirca l'ora in cui la portiera la vide uscire di casa e, date le distanze, la ragazza non avrebbe potuto arrivare alla stazione in tempo per prendere quel treno per Ostia. Inoltre una bambinaia disse di aver visto la 21enne sulla spiaggia di Ostia intorno alle 18: ma anche ammesso che Wilma fosse riuscita a salire sul treno delle 17.30, non sarebbe potuta essere a Ostia alle 18. Un altro mistero fu quello legato ai vestiti: perché la 21enne si è tolta il reggicalze, quando avrebbe potuto sganciare solamente le calze? E poi dove finirono gli altri vestiti? Dubbi anche intorno allo stato del corpo: nonostante i due giorni in mare, sulle unghie di Wilma c'era ancora lo smalto.
I sospetti dei giornali. Nel tentativo di dare risposta a questi quesiti, intervennero i giornali, che in breve tempo trasformarono quello che sembrava un banale caso di cronaca, nello "scandalo del secolo". Il 4 maggio del 1953 il giornale napoletano Roma raccontò di fantomatici testimoni che avrebbero visto la vittima in compagnia di un uomo a bordo di una Fiat 1900, che si era arenata nella sabbia davanti alla tenuta di Capocotta, a metà strada tra Ostia e Torvaianica. Ma chi era quello che venne ribattezzato "il biondino della 1900"? Secondo i giornali, si trattava del figlio di un esponente della Democrazia Cristiana, identificato come Piero Piccioni, figlio di Attilio Piccioni, ai tempi ministro degli Esteri. La notizia venne però smentita dalla questura di Roma: "Da alcuni giorni- si legge sull'Unità - si era diffusa negli ambienti giornalistici della Capitale la notizia che la fanciulla aveva trascorso le sue ultime ore di vita a Ostia, in compagnia del figlio di un alto esponente del partito democratico cristiano. Questa illusione ci è stata ieri smentita dalla questura, la quale, anzi, ha precisato che 'il figlio dell'on. Piccioni è assolutamente estraneo al caso di Wilma Montesi". Ma il 16 maggio il giornale satirico il Merlo Giallo pubblicò una vignetta allusiva, in cui viene raffigurato un piccione che teneva nel becco un reggicalze. Ma la vera svolta si ebbe nell'ottobre del 1953, quando il mensile Attualità fece rivelazioni sensazionali. Il giornalista Silvano Muto pubblicò un articolo dal titolo "La verità sulla morte di Wilma Montesi", in cui veniva fatta una ricostruzione diversa rispetto alle indagini degli inquirenti. Si parlò di stupefacenti, orge e festini a Capocotta e Muto indicò due persone (nell'articolo chiamate X e Y), che si sarebbero trovate in compagnia della Montesi quando ebbe un malore. Sarebbero state loro a lasciarla sul bagnasciuga, credendola morta. Lì la ragazza sarebbe annegata, respirando acqua e sabbia. Muto venne convocato dalla Procura di Roma e ritrattò: il giornalista venne denunciato per la diffusione di notizie false e tendenziose e finì sotto processo. Ma il giornalista ritrattò nuovamente, facendo i nomi di due testimoni che lo avevano informato: Adriana Concetta Bisaccia e Marianna Moneta Caglio, ribattezzata "il cigno nero" che fece i nomi di Ugo Montagna, il marchese di San Bartolomeo che gestiva una tenuta di caccia a Capocotta, e Piero Piccioni, come si legge sul numero dell'Unità del tempo, che riportò le dichiarazioni della donna al processo.
Scoppia il "caso Montesi". La testimone raccontò tutta la vicenda in un memoriale affidato ai gesuiti che riuscirono a farlo arrivare fino ad Amintore Fanfani, allora ministro dell'Interno. Fanfani convocò il colonnello dei carabinieri Umberto Pompei e gli affidò un'inchiesta. Ma perché il ministro si rivolse ai carabinieri e non alle forze di polizia? Perché sembra che Montagna avesse conoscenze in quel campo, tanto che saltò fuori anche il nome del capo della polizia Tommaso Pavone che, secondo l'accusa, avrebbe coperto Montagna e Piccioni.
A seguito delle rivelazioni di Marianna Moneta Caglio e dell'indagine di Pompei, il fascicolo Montesi venne riaperto e scoppiò il caso che appassionò l'opinione pubblica fino alla fine degli anni Cinquanta. Nel marzo del 1954 il tribunale di Roma sospese il processo a Silvano Muto e aprì un'istruttoria sulla morte di Wilma Montesi, affidandola al giudice Raffaele Sepe. Il giudice tornò a esaminare gli orari e le testimonianze del giorno della scomparsa della ragazza e percorse la strada tra casa sua e la stazione, per capire l'attendibilità dell'ipotesi del pediluvio. Ma qualcosa non tornava. Le testimonianze risultarono vaghe: l'impiegata del Ministero avrebbe descritto l'abbigliamento di Wilma in modo diverso rispetto a quello che realmente indossava, la bambinaia non riconobbe con certezza Wilma nella ragazza che aveva visto sulla spiaggia di Ostia e la proprietaria dell'edicola avrebbe riferito di una collana che la ragazza quel giorno non indossava. Inoltre il fidanzato non ricevette nessuna cartolina a Potenza. Anche l'ipotesi dello spostamento del corpo da Ostia a Torvaianica a opera delle correnti marine risultò dubbia, nonostante la mareggiata, perché la salma avrebbe dovuto spostarsi a una velocità di circa un chilometro all'ora. Infine nei polmoni di Wilma venne trovata, insieme all'acqua, anche molta sabbia, segno che la ragazza era annegata in un punto in cui l'acqua era molto bassa. Si tornò così sull'ipotesi del malore e dell'abbandono in spiaggia da parte di chi era con la ragazza. Montagna e Piccioni si ritrovarono così in mezzo alla bufera. Lo scandalo fu tale che entrò nelle vicende politiche, portando alle dimissioni di Attilio Piccioni che il 19 settembre lasciò la carica di ministro degli Esteri. Due giorni dopo il figlio Piero venne arrestato con l'accusa di omicidio colposo insieme al marchese Montagna. Anche all'ex questore di Roma Saverio Polito venne inviato un mandato di comparizione per depistaggio: secondo l'accusa, Polito avrebbe coperto il vero movente del delitto con l'ipotesi del pediluvio. Nel giugno del 1955 Piccioni, Montagna e Polito furono rinviati a giudizio e il processo si spostò a Venezia, dove prese il via il 21 gennaio del 1957. Nel frattempo la vicenda giuridica si era trasformata in un caso politico, con il coinvolgimento dei vertici della Democrazia Cristiana: l'immagine del partito infatti ne uscì gravemente danneggiata, tanto che già a fine luglio del 1953 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi non ottenne la fiducia del Parlamento. Ma mentre la politica era sconvolta dal caso Montesi, in aula il processo si sgonfiò. A carico di Piccioni e Montagna non emerse nulla e Polito ribadì la tesi dell'incidente. A sostegno di Piccioni interviene anche l'attrice Alida Valli, sua fidanzata, che confermò l'alibi fornito dall'uomo: Piccioni era ad Amalfi e tornò a Roma nel pomeriggio del 9 aprile 1953 perché aveva la febbre. Una volta tornato sarebbe rimasto a casa, dove venne visitato da un medico che gli rilasciò delle ricette e da diversi amici. I colpi di scena non erano ancora finiti: tre lettere anonime parlarono di contraffazione delle ricette, ma i giudici ritennero che ad aver modificato la data fosse stato lo stesso medico, per correggere un suo errore. Così il 28 maggio del 1957 tutti gli imputati vennero assolti con formula piena: Piero Piccioni "per non aver commesso il fatto", mentre Ugo Montagna e Saverio Polito "perché il reato non sussiste". Venne però riconosciuto che Wilma fu uccisa e che non morì a causa del pediluvio. Una volta archiviato il processo a Venezia, la procura di Roma tornò a interessarsi all'accusa di calunnia mossa al giornalista Silvano Muto che nel 1964 venne condannato insieme a Marianna Moneta Caglio. L'affare Montesi segnò profondamente la storia politica dell'Italia degli anni Cinquanta, facendo emergere il ruolo di primo piano dell'opinione pubblica, desiderosa di trovare le risposte alle domande che resero oscura la morte di una ragazza di soli 21 anni. Un caso di cronaca che dominò quotidianamente l'attenzione del Paese e che ebbe effetti disastrosi sulla politica del tempo. Ma nonostante l'interesse mediatico e giudiziario, la morte di Wilma Montesi rimane ancora oggi priva di risposte e, a distanza di quasi 70 anni, il mistero rimane irrisolto.
· Il Mistero della contessa Alberica Filo della Torre.
"Volevo farla rivivere". Il killer della contessa rivela tutto. Angela Leucci il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. Uscito dal carcere, il killer della contessa Alberica Filo della Torre racconta la sua versione in un'intervista: ha chiamato la figlia Alberica. È stato scarcerato nei giorni scorsi Manuel Winston Reyes, riconosciuto colpevole per l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, uccisa nella propria villa dell’Olgiata il 10 luglio 1991 dall’ex domestico filippino, che confessò il delitto solo dieci anni dopo: venne condannato a 16 anni, ma ha usufruito di sconti di pena e dei vantaggi della buona condotta. Reyes ha chiamato la propria figlia Alberica, come la donna che uccise nel 1991. “Ho dato il nome della contessa per rivivere quel nome - ha spiegato l’ex domestico - è doloroso. Il mio peccato mi è sempre davanti”. L’uomo ha inoltre espresso un pensiero per la famiglia della contessa, in particolare per il figlio Manfredi Mattei, che all’epoca dell’omicidio era un bambino di poco più di 9 anni. “Lo so benissimo che loro stanno soffrendo anche in questo momento - ha commentato Reyes - ma non posso tornare indietro. Sto pregando per loro”. Reyes giunse in Italia dalle Filippine per fare il domestico, ma in realtà aveva una laurea in ingegneria. Conserva un buon ricordo della contessa Alberica Filo della Torre. “Era gentile - ha illustrato - La prima mattina che sono andato a lavorare mi ha offerto il caffè. Siamo andati in cucina e mi ha preparato il caffè, mentre mi spiegava in cosa consistesse il lavoro”. A un certo punto però il rapporto lavorativo tra i due si incrinò: Reyes beveva e spesso non si presentava al lavoro. “Io chiedevo sempre di non andare perché non stavo bene - ha chiarito - ma ero in hangover. In quel periodo la signora mi disse di non tornare perché non ero in grado di fare le cose”. Ma questo non chiarisce molte cose: perché Reyes tornò a casa della contessa e perché la uccise? Ha davvero rubato i suoi gioielli? L’uomo dice di non averli rubati, ma il presunto crimine, quando Reyes confessò l’omicidio, era comunque stato prescritto, sebbene ci sono delle intercettazioni misteriose a riguardo. “Ci sono tante cose che non riesco a spiegare neanche a me stesso”, ha concluso l'assassino della contessa. La famiglia della contessa ancora soffre per la sua perdita, e anche per “quello che è stato detto dopo, la macchina del fango su mio padre e mia madre”, ha commentato il figlio Manfredi Mattei. Manfredi ha lamentato come “vennero seguite piste esotiche e fantasiose. Oggi noi sappiamo che le prove erano lì, in quanto otto giorni dopo, mi sembra, si sarebbero potute individuare”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
La polemica. Delitto dell’Olgiata, scarcerato l’assassino di Alberica Filo della Torre ma per Davigo non è abbastanza…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Mancava solo, buon ultimo arrivato, Piercamillo Davigo, a spiegarci che “D’accordo, nessuno tocchi Caino (che comunque va in esilio), ma prima di tutto nessuno tocchi Abele, perché la giustizia esiste per proteggere i diritti di tutti, anche quelli delle vittime”. Che i parenti della vittima di un omicidio rispettino solo la sentenza di condanna, possibilmente alla pena eterna senza possibilità per il condannato di tornare mai alla vita è nella normalità, purtroppo. Che analoga lamentela esca dalla mente e dalla bocca di un magistrato, per quanto in pensione come Piercamillo Davigo, fa un po’ rabbrividire. E fa impressione tutta quanta la sua formazione giuridica, dall’analisi del processo fino al concetto di pena. Questa volta, in un articolo scritto nei giorni scorsi sul quotidiano di famiglia dei pm, niente barzellette o raccontini patetici come quello che arriva alla conclusione di quanto sia più conveniente uccidere la moglie piuttosto che divorziare. Una storia che non fa ridere, perché utilizzata a dimostrare che in Italia esistono solo colpevoli che la fanno franca, come l’uxoricida della barzelletta. Si parte invece da un fatto di cronaca dei più tragici e “chiacchierati” nell’eternità del tempo, l’omicidio di Alberica Filo della Torre, avvenuto nel 1991, quindi trent’anni fa. Il dottor Davigo impugna la penna non per ripercorrere una storia che grida vendetta per l’incapacità e l’abulia dei suoi ex colleghi, ma per associarsi a chi si scandalizza perché nei giorni scorsi la persona condannata e rea confessa per quell’omicidio ha terminato di scontare la pena ed è uscita dal carcere. Troppo presto, secondo lui. Del resto, di che stupirsi? Non c’è Cartabia che tenga, non sono sufficienti le sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo e neanche quelle della Corte Costituzionale, se ancora ieri sul Corriere della sera e con una firma esperta come quella di Andrea Purgatori, leggiamo titoli come “La Procura aveva chiesto l’arresto per Castellino. Ma il giudice l’ha negato”. Stiamo parlando di fatti di questi giorni e di un leader di Forza Nuova arrestato in seguito all’aggressione alla sede nazionale della Cgil di sabato scorso. Nell’articolo è spiegato chiaramente il fatto che un gip romano l’agosto scorso non ha accolto la richiesta del pm di custodia cautelare per violazione degli obblighi di sorveglianza speciale cui Castellino era sottoposto. Questo in osservanza di sentenze della Cedu e dell’Alta Corte. Ora, che senso ha mettere alla berlina uno (per fortuna) sconosciuto gip solo perché si è mostrato più garantista del procuratore Prestipino e dei suoi sostituti? Piercamillo Davigo fa un ragionamento più ampio. Ma occorre una breve sintesi di quei fatti tragici di trent’anni fa per inquadrarlo. La signora Filo della Torre fu trovata assassinata una mattina nella sua villa all’Olgiata e una serie di errori e piste false da parte degli inquirenti trasformarono il caso in un giallo irrisolto. Prima si inventò la pista passionale, poi addirittura quella di fondi neri del Sisde. Tralasciamo i nomi dei pubblici ministeri per carità cristiana, perché solo la caparbietà dei familiari della vittima ha fatto riaprire il caso nel 2007 dopo ben due precedenti accantonamenti da parte di due diversi magistrati. Nuove e più sofisticate analisi del dna hanno portato infine all’individuazione del responsabile dell’omicidio, un filippino laureato in ingegneria navale che era stato domestico della signora, poi da lei licenziato. Il quale ha subito confessato, dicendo di essersi tolto un peso. Era incensurato e collaborativo. La sua vita non aveva altra macchia, oltre a quella, gravissima, dell’omicidio. Processato con il rito abbreviato, è stato condannato a sedici anni di carcere ed è uscito dopo dieci, nei giorni scorsi. A norma di legge. Una legge, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 che, insieme a tante altre, tra cui le proposte dell’attuale governo, al dottor Davigo proprio non piace. Non la apprezza perché, secondo lui, essendo la norma penale sostanzialmente una “minaccia”, deve poi mantenere la promessa. Cioè, se la pena edittale impegna chi deve applicarla, cioè il giudice, a tenermi in galera per X anni, quella deve essere, fino all’ultimo giorno. Altrimenti, addio deterrenza. Ora, non sappiamo su quali testi abbia studiato il dottor Davigo, e neanche dove abbia vissuto negli ultimi decenni. Gli risulta che mai qualcuno abbia consultato il codice prima di commettere un delitto per poi spaventarsi per la minaccia della pena? Sa benissimo che l’inasprimento delle pene non ha mai indotto nessuno a desistere dal delinquere. Inoltre, tra minacce e rigidità inflessibile nell’applicazione delle sanzioni, come sarebbe possibile, secondo lui, dare applicazione all’articolo 27 della Costituzione e alla rieducazione del condannato? Mettendogli i ceppi alle caviglie? Non conforta il fatto che un magistrato dal pensiero così reazionario abbia svolto per tanti anni un ruolo delicato come quello di pubblico ministero. Ma molti giuristi, forse meno “sottili” di lui, credono che la norma penale non sia una “minaccia”, ma la previsione di una sanzione che, nel rispetto della Costituzione, conduca il colpevole, tramite l’espiazione, a ricucire quello strappo attuato con il delitto nei confronti della comunità. E molti pensano anche che forse non sia proprio il carcere lo strumento migliore per questo scopo. L’ex pm di Mani Pulite, per tirare l’acqua al proprio mulino, e ritenendo tutti gli altri (tranne lui) molto ignoranti, cita in continuazione il processo penale americano. In questo caso, il fatto che “la persona condannata per l’omicidio di Robert Kennedy ha scontato oltre cinquant’anni di carcere prima di essere scarcerato”. Anche su questo punto ci permettiamo un paio di osservazioni. Prima di tutto, in Italia c’è un migliaio di detenuti condannati, anche grazie all’esistenza dei reati associativi, all’ergastolo ostativo che non potranno uscire dal carcere se non defunti. E poi, dottor Davigo, basta scherzare. Negli Stati Uniti non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e la maggior parte delle cause finisce con un patteggiamento, con cui le parti (ricordiamo anche che il rappresentate dell’accusa non è un magistrato ma un avvocato dello Stato) concordano una pena equa. Il caso da lei citato è semplicemente un’eccezione. Per tornare alla vicenda da cui siamo partiti, il cittadino filippino, non arrestato subito a causa dell’inefficienza degli inquirenti, ha comunque vissuto dieci anni senza commettere altri reati. Poi, quando è stato catturato, ha confessato e in carcere ha tenuto una condotta esemplare. Perché non avrebbe potuto tornare a casa dopo dieci anni? Dieci anni della vita di una persona non sono pochi, sono tanti. Sono moltissimi. Infine, il dottor Davigo, pur con la citazione della Bibbia, ma invertendo l’ordine dei brani (il “sii maledetto” viene prima del “nessuno tocchi Caino”) cita l’Associazione, cui aderiscono anche tanti suoi ex colleghi, nata per l’abolizione della pena di morte nel mondo e contro la tortura. Il che, tradotto in italiano, significa anche battersi per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, magari anche contro l’ergastolo stesso, magari anche contro il concetto stesso di carcere, cioè di privazione totale della libertà. Quindi per un’idea di giustizia che è il contrario delle minacce e delle vendette. Ad Abele pensano tutti, come è giusto, a partire dalle leggi e dai codici. Nessuno lo tocca. Ma “non toccare Caino” è fare giustizia per ogni individuo, quindi per la comunità intera, cui riconsegnare migliore ogni suo figlio, anche coloro che avevano strappato il contratto sociale. Solo così si è davvero “sottili”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Il domestico ha scontato la usa pena ed è stato scarcerato. Chi era Alberica Filo della Torre, la contessa uccisa nel delitto dell’Olgiata: il giallo e l’arresto del maggiordomo Winston Reves. Vito Califano su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. Alberica Filo della Torre apparteneva alla buona società romana. Era dedita alla filantropia e alla beneficenza. È morta tragicamente e violentemente, vittima di uno dei casi di cronaca nera più noti e discussi della storia recente. Il delitto dell’Olgiata, un giallo lungo vent’anni. La contessa venne uccisa il 10 luglio del 1991 presso la residenza romana dove con il marito Pietro Mattei era solita dare delle feste. Condannato per quell’omicidio per anni irrisolto un ex maggiordomo della tenuta. Quel giorno alla villa a nord di Roma era in programma una festa per i dieci anni di matrimonio della contessa con il costruttore romano Mattei. Alberica era nata a Roma nel 1949, figlia della duchessa Anna del Pezzo di Caianello e del contrammiraglio Ettore della Torre di Santa Susanna. Aveva sposato il principe Alfonso de Liguoro in prime nozze. Un matrimonio durato pochissimo. L’incontro con Mattei a una festa. I due si erano sposati nel 1981 e avevano avuto due figli: Manfredi e Domitilla. Venne trovata nella sua camera da letto. Il cadavere era a terra. La contessa era stata colpita con un oggetto contundente, uno zoccolo, alla testa e quindi strangolata. Aveva la testa avvolta in un lenzuolo insanguinato. Sul posto arrivarono le forze dell’ordine e Michele Finocchi, amico di famiglia e funzionario del Sisde, il servizio segreto civile. Dalla stanza erano spariti alcuni gioielli. Le indagini furono dal primo momento in alto mare e inizialmente si concentrarono su Mattei che comunque aveva un alibi di ferro. E per vent’anni vennero battute le piste più disparate. Quando esplode lo scandalo dei fondi neri del Sisde furono coinvolti Finocchi e i servizi segreti. Furono scoperti conti segreti all’estero. Il gossip scrisse che la contessa forse voleva divorziare, e così si tornò sul marito. Quindi arrivò il turno di Franklin Yung, finanziere di Hong Kong e vicino di casa all’Olgiata. Altro particolare da prime pagine: lo strangolamento è avvenuto con una tecnica particolare, tramite pressione sulla carotide. Mattei intanto non badava a spese per scoprire la verità. Nuove analisi commissionate nel 2007 portarono alla scoperta di tracce di dna sul lenzuolo trovato sul cadavere della contessa. Quei risultati portarono a Manuel Winston Reves, domestico filippino, poco tempo prima del delitto licenziato dalla contessa, già messo sotto controllo in passato ma quindi escluso dalla lista dei sospetti. Un magistrato recuperò le registrazioni delle telefonate nelle quali il maggiordomo trattava con un ricettatore la vendita dei gioielli rubati alla contessa. Il domestico intanto si era sposato, aveva avuto una figlia e l’aveva chiamata Alberica come la contessa. “Mi sono tolto un peso che mi portavo dietro da vent’anni, scusatemi”, disse il giorno dell’arresto, il primo aprile del 2021. Raccontò di essere andato alla villa per convincere la contessa a ri-assumerlo. E invece la situazione era degenerata. La rapina andò in prescrizione, la condanna per omicidio con rito abbreviato. Il 9 ottobre la sentenza definitiva: 16 anni di carcere.
Pietro Mattei è morto nel gennaio 2020. Manuel Winston Reyes è stato scarcerato. Tra buone condotte, indulti e pene esigue ha scontato dieci anni di galera. È stato scarcerato dall’Istituto di pena di Rebibbia a Roma pochi giorni fa. “Voglio la mia vita di uomo libero e la mia giustizia. Sono molto emozionato, non so dire nulla, per ora. Arriverà il tempo”, ha detto. “So che stanno soffrendo, ma non posso ridar loro la felicità”, ha detto a Chi l’ha visto?. La delusione invece del figlio Manfredi per la scarcerazione: “In Italia la ricerca della Giustizia ricade su chi, come mio padre, ha spalle larghe per poter affrontare i tribunali. L’ingiustizia, invece, è democratica”. Il 30 gennaio 2012 è stata costituita a su iniziativa dei congiunti Pietro Mattei, Domitilla Mattei e Manfredi Mattei, La Fondazione Alberica Filo della Torre che si prefigge lo scopo di ricordare la lotta per la verità e la giustizia. Vito Califano
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 19 ottobre 2021. Era giusto intervistare Winston Reyes Manuel, il cameriere filippino che il 10 luglio del 1991 ha ucciso la contessa Alberica Filo della Torre? Dal punto di vista di «Chi l'ha visto?» era giusto, ovviamente (Rai3, mercoledì). Da anni, la trasmissione è come un grande feuilleton poliziesco che si occupa non solo di scomparsi, ma di delitti irrisolti, di processi in corso, di sentenze non condivise, di ristabilimento della Giustizia Televisiva. Figuriamoci poi se l'assassino è il maggiordomo. Come ha scritto Matteo Marchesini, «oggi quasi tutti siamo delle tricoteuses della nera, che ci raggiunge con una potenza e capillarità inaudite. Non per caso è dilagata a partire dagli Anni 90, col crollo delle grandi narrazioni ideologiche e la drastica diminuzione della vita attiva, militante: le semplificazioni del giallo, che non finisce mai di complicare paradossalmente le cose per aggiungere una puntata in più, sono diventate la nostra Weltanschauung (e alcuni magistrati ne hanno preso atto)». Certo, la storia del delitto dell'Olgiata ha dell'incredibile. Per scoprire l'assassino ci sono voluti vent' anni. Cinque lustri in cui la fantasia dei cronisti e l'incapacità degli investigatori non si sono fatte mancare niente: oscure trame, servizi segreti, fondi neri, serial killer, collegamenti con l'altro grande giallo estivo di un anno prima: quello di via Poma. Mancavano solo i riti satanici. Manfredi Maffei, il figlio della contessa, ricostruisce in studio tutti gli errori e le negligenze dell'indagine e ascolta la reticente intervista che «Chi l'ha visto?» ha fatto a Winston Reyes Manuel (appena dieci anni di carcere) che nel frattempo aveva ha battezzato la figlia col nome della donna che aveva ucciso. Le logiche televisive non conoscono l'oblio, ma dimenticare è necessario quanto ricordare. Il ruolo della riparazione (della vendetta come del perdono) è sempre e solo assunto dall'oblio.
Il giallo durato 20 anni. La storia del delitto dell’Olgiata: l’omicidio della contessa Alberica Filo Della Torre e l’arresto del maggiordomo Manuel Winston Reyes. Vito Califano su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. Manuel Winston Reyes è un uomo libero. Ha pagato il suo debito con la Giustizia. Era stato condannato a 16 anni per il cosiddetto “delitto dell’Olgiata” del 10 luglio 1991. Quando la contessa Alberica Filo Della Torre venne ritrovata in camera da letto con un lenzuolo avvolto sul cranio. Il maggiordomo tra buone condotte, indulti e pene esigue ha scontato dieci anni di galera. È stato scarcerato dall’Istituto di pena di Rebibbia a Roma pochi giorni fa. Il giallo era durato vent’anni, tra quelli che più avevano incuriosito e sconvolto gli italiani. Il giorno del delitto nella villa dell’Olgiata era in programma una festa per i dieci anni di matrimonio della contessa con il costruttore romano Pietro Mattei. Alberica era nata a Roma nel 1949, figlia della duchessa Anna del Pezzo di Caianello e del contrammiraglio Ettore della Torre si Santa Susanna. Aveva sposato il principe Alfonso de Liguoro in prime nozze. Un matrimonio durato pochissimo. L’incontro con Mattei a una festa. Il matrimonio nel 1981, i due figli Manfredi e Domitilla, tanti viaggi e anche parecchie feste alla villa dell’Olgiata. Dove quel giorno c’erano Manfredi e Domitilla, i domestici filippini, la baby sitter inglese, quattro operai per alcuni lavori.
L’omicidio alla villa
Quel giorno, alle 7:30, la contessa scese al piano di sotto e poi risalì in camera. La figlia Domitilla e una domestica bussarono alla porta della madre intorno alle 9:30. Nessuna riposta. La cameriera cercò e trovò la seconda chiave e aprì la porta. Il cadavere era a terra. La contessa era stata colpita con un oggetto contundente alla testa e quindi strangolata. Aveva la testa avvolta in un lenzuolo insanguinato. C’era sangue dappertutto. Sul posto arrivarono le forze dell’ordine e Michele Finocchi, amico di famiglia e funzionario del Sisde, il servizio segreto civile. Dalla stanza erano spariti alcuni gioielli. La contessa era stata colpita forse con uno zoccolo. Il colpevole, secondo i magistrati, era qualcuno che la vittima conosceva bene. Si concentrarono sul delitto passionale e quindi su Mattei, che quella mattina era al lavoro. Le indagini erano in alto mare e così restarono per anni, per due decenni, tra rivelazioni scandalistiche, dettagli pornografici, gossip clamoroso. Vent’anni. Quando esplose lo scandalo dei fondi neri del Sisde nel 1993 vennero coinvolti Finocchi e i servizi segreti. Furono scoperti suoi conti segreti all’estero. Le riviste scrivevano che la contessa forse voleva divorziare, e così si tornò sul marito. Quindi arrivò il turno di Franklin Yung, finanziere di Hong Kong e vicino di casa all’Olgiata. Altro particolare da prime pagine: lo strangolamento era avvenuto con una tecnica particolare, tramite pressione sulla carotide. Nulla di fatto comunque. Restava un solo punto fermo dopo anni di piste e ipotesi clamorose e accartocciate: la determinazione di Mattei a scoprire la verità. Senza badare a spese.
La scoperta e l’arresto del maggiordomo
Nuove analisi commissionate nel 2007 portarono alla scoperta di tracce di dna sul lenzuolo trovato sul cadavere della contessa. Quei risultati portarono a Manuel Winston, domestico filippino, poco tempo prima del delitto licenziato dalla contessa, già messo sotto controllo in passato ma quindi escluso dalla lista dei sospetti. Un magistrato recuperò le registrazioni delle telefonate nelle quali il maggiordomo trattava con un ricettatore la vendita dei gioielli rubati alla contessa. Il domestico intanto si era sposato, aveva avuto una figlia e l’aveva chiamata Alberica come la contessa. “Mi sono tolto un peso che mi portavo dietro da vent’anni, scusatemi”, disse il giorno dell’arresto, il primo aprile del 2021. Raccontò di essere tornato alla villa per chiedere alla contessa di ri-assumerlo. La rapina andò in prescrizione, la condanna per omicidio con rito abbreviato. Il 9 ottobre del 2012 la sentenza definitiva: 16 anni di carcere.
Pietro Mattei è morto nel gennaio 2020. La delusione del figlio Manfredi per la scarcerazione: “In Italia la ricerca della Giustizia ricade su chi, come mio padre, ha spalle larghe per poter affrontare i tribunali. L’ingiustizia, invece, è democratica”. Poche parole da parte invece dell’ex maggiordomo: “Voglio la mia vita di uomo libero e la mia giustizia. Sono molto emozionato, non so dire nulla, per ora. Arriverà il tempo”. E quindi a Chi l’ha visto?, la trasmissione su Rai3 di Federica Sciarelli: “So che stanno soffrendo, ma non posso ridar loro la felicità”.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" l'8 ottobre 2021. Manuel Winston Reyes è ormai un uomo libero. Il filippino, maggiordomo, assassino di Alberica Filo Della Torre conta le ore che lo separano dalla scarcerazione. Uscirà lunedì prossimo. Dopo appena 10 anni dalla condanna, e 30 dall'uccisione della contessa, l'uomo varcherà il cancello d'uscita del penitenziario per non ritornarvi mai più. L'undici di ottobre è l'ultimo giorno barrato con la x nel calendario dell'ex detenuto Reyes. Il suo conto con la giustizia è stato saldato. Una giustizia che aveva impiegato venti anni per individuarlo quale unico responsabile dell'omicidio avvenuto il 10 luglio del 1991, nella villa all'Olgiata, zona residenziale a nord di Roma. Adesso resta, invece, una ferita indelebile nel figlio della contessa Manfredi Filo Della Torre: «Sapere che per un omicidio si scontano solo 10 anni è aberrante». «Capisco - aggiunge l'uomo - il garantismo, le tutele ma ricordo a tutti che Reyes è un assassino che non si è mai pentito per ciò che ha fatto ed è stato individuato come l'unico responsabile dopo 20 anni dall'omicidio grazie a mio padre». «È stato incastrato - spiega Filo Della Torre - solo dopo le indagini private di mio padre, non ci fosse stato lui non sarebbe mai stato scoperto. Devo dire - conclude - che provo una profonda amarezza per un sistema che non è stato in grado di individuare il colpevole e poi dare la giusta pena».
LA VICENDA Gli inquirenti avevano seguito piste sbagliate, che coinvolgevano i servizi segreti, e non avevano investigato a fondo sulle prove acquisite. Così l'assassino che poteva essere subito individuato - come nel più classico dei gialli - nel maggiordomo carico di livore per essere stato licenziato, era uscito fuori dai radar per rientrarci, e non uscirne più, nella primavera del 2011. Un'inchiesta riaperta grazie alla tenacia del marito di Alberica Filo Della Torre, Pietro Mattei, che aveva preteso analisi più accurate del Dna. Reyes, difeso dall'avvocato Nicodemo Gentile, era stato condannato a 16 anni di reclusione il 14 novembre del 2011, sentenza confermata il 9 ottobre del 2012. L'ex maggiordomo ha perciò beneficiato di una serie di sconti che ne hanno ridotto la pena. A Roma batte un sole torrido la mattina del 10 luglio del 1991. Alberica Filo della Torre, 42 anni, è sposata con Pietro Mattei, un costruttore. Nell'elegante villa a nord della Capitale, all'Olgiata, si preparano per una festa. La coppia, quella sera, vuole celebrare, con amici e parenti, i dieci anni di matrimonio. È un andirivieni di uomini e donne indaffarati per organizzare il ricevimento. Ma quel 10 luglio del 1991 non ci sarà nessun party. Il ritrovamento del cadavere di Alberica Filo della Torre, nella sua camera da letto, sancisce l'epilogo di una giornata di festa mai iniziata e l'inizio di un giallo, ribattezzato il delitto dell'Olgiata. Una tragedia in cui precipitano i figli e il marito della contessa. Non c'è un testimone che abbia visto o sentito alcunché. Inizialmente i sospetti cadono su due uomini, che vengono fermati, salvo poi essere rilasciati in poco tempo. Il primo è il figlio di un'insegnante di sostegno che lavora nella villa, definito come persona violenta. Il secondo è un ex cameriere, il filippino Manuel Winston Reyes, da poco licenziato perché ha il vizio dell'alcol.
LE PISTE Entrambi vengono scagionati. Ecco allora che gli investigatori seguono le piste più suggestive, complotti, fondi neri, servizi segreti, depistaggi, conti esteri miliardari e tangenti. La verità è più semplice. Ed è dietro l'angolo. Forse nessuno avrebbe pagato per l'assassinio della contessa se suo marito, Pietro Mattei, non avesse con caparbietà spinto gli investigatori a non mollare la presa. È stato lui a far riaprire l'inchiesta nel 2007. Una macchia di sangue sul lenzuolo con il quale l'omicida aveva avvolto la donna tanti anni prima e il Rolex della contessa sporco di sangue sono le due prove che dimostrano che l'ex maggiordomo, grazie al test del dna, è l'assassino. «Mi tolgo un peso che mi portavo dietro da vent' anni» dirà Manuel Winston dopo il suo arresto. L'undici di ottobre sarà di nuovo un uomo libero.
Da oggi.it il 30 settembre 2021. Il prossimo 10 ottobre, Manuel Winston Reyes, condannato nel 2011 per il delitto dell’Olgiata, sarà libero. «Ha passato solo 10 anni in carcere. Se lo incontrassi? Gli farei i complimenti per come è riuscito a sfangarla: ha fatto poco più di 9 anni di carcere per un omicidio dopo aver vissuto 20 anni da uomo libero. Complimenti a lui, perché è riuscito a fregare tutti». Così in un’intervista esclusiva a OGGI, in edicola da domani, Manfredi Mattei Filo della Torre, figlio della contessa Alberica, uccisa nella sua villa dell’Olgiata il 10 luglio 1991. Che aggiunge: «Con noi non si è mai scusato, neanche durante le udienze del processo in Corte d’Assise, in cui ci siamo incrociati». Lo scorso anno, Pietro Mattei, marito di Alberica e padre di Manfredi è mancato: «Se non avessimo avuto le spalle forti di papà e le disponibilità economiche che aveva, non avremmo potuto ottenere giustizia», sottolinea Mattei, che non lesina critiche a come la magistratura condusse le indagini nella prima fase dopo il delitto. Anche a causa delle vicissitudini della sua famiglia, Manfredi Mattei sta sostenendo la raccolta firme per i referendum sulla giustizia promossa dai Radicali: «Non è una posizione politica, ma un dovere civico». Manfredi Mattei parla anche del coinvolgimento nella vicenda, come sospettato, di Michele Finocchi, allora uomo dei servizi segreti: «Il giorno in cui mia mamma fu uccisa, mi sembra di ricordare che Finocchi, per esempio, arrivò lì per caso, per un appuntamento pregresso che non si era riusciti a disdire in quel trambusto… I miei lo avevano conosciuto per un motivo banale, quando avevano fatto i passaporti».
A un certo punto i sospetti lambirono anche il padre, Pietro Mattei. Ha mai dubitato di lui?
«Innanzitutto non fu mai lontanamente sospettato, su questo è stata costruita una narrazione mediatica tremenda. Comunque non ho mai, assolutamente, dubitato di lui».
"Mi sono tolto un peso". E il filippino uccise la contessa. Francesca Bernasconi il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. Il 10 luglio 1991 la contessa Alberica Filo della Torre venne uccisa nella sua casa all'Olgiata. Il giallo venne risolto dopo 20 anni grazie all'esame del Dna. Il test del Dna. Fu proprio grazie alla prova regina che vent'anni dopo si arrivò alla soluzione del caso che sconvolse l'Italia nell'estate del 1991, quando la contessa Alberica Filo della Torre venne trovata morta nella sua camera da letto. Iniziò così il giallo dell'Olgiata, che portò gli investigatori a indagare tra ex domestici, vicini di casa, servizi segreti e conti svizzeri. Un mistero che durò vent'anni, fino a quando la riapertura del caso e il riesame dei reperti rinvenuti sulla scena del crimine portarono gli inquirenti al punto da cui era partito tutto e a una delle persone che aveva prestato servizio alla villa della contessa. "L’esame dei reperti ha risolto il caso", spiega a IlGiornale.it la dottoressa Marina Baldi, biologa specialista in genetica medica, che venne nominata consulente di parte dalla famiglia della vittima. E nel 2011 il killer venne arrestato.
Il delitto nella villa "bunker" dell'Olgiata. L'Olgiata. È qui che ebbe luogo il 10 luglio del 1991 l'omicidio della contessa Alberica Filo della Torre. Si tratta di un complesso residenziale situato sulla Cassia, a nord di Roma, e costruito attorno ai campi da golf. Sorto alla fine degli anni Sessanta e destinato, inizialmente, ai soci del Golf Club, al tempo ospitava circa 8mila residenti, tra "imprenditori, finanzieri, personaggi del mondo dello spettacolo e della politica", come riportato dall'Unità del 13 luglio 1991. Una sorta di città nella città, protetta da "un impianto televisivo a circuito chiuso" e da "guardie armate agli ingressi delle ville". Tra queste c'era anche l'abitazione di Pietro Mattei e Alberica Filo della Torre, una villa "bunker", come la definirono alcuni articoli dell'epoca. La casa, riportò l'Unità che ne fornì anche una piantina, aveva varie entrate: "Quella principale - si legge nel testo dell'articolo - sul davanti, è protetta da uno spesso cancello nero in ferro battuto. Accanto, ancora un portoncino in ferro, ma più piccolo". Ma quel giorno qualcuno riuscì a penetrare in quel luogo "strettamente controllato", dove la sicurezza era assicurata da cellule fotoelettriche e da portoni d'ingresso con chiavi magnetiche e codici d'accesso. Un sistema pensato per contrastare chi veniva dall'esterno e le effrazioni notturne, "ma obiettivamente, durante il giorno, chi voleva entrare entrava", rivelerà Pietro Mattei a Delitti su History Channel, specificando però che la presenza dei cani non avrebbe permesso a uno sconosciuto di passare inosservato. Quel 10 luglio 1991 la contessa Alberica Filo della Torre avrebbe dovuto festeggiare il decimo anniversario delle nozze con l'imprenditore Pietro Mattei e, per questo, in casa erano già iniziati i preparativi dalla mattina. Stando alla ricostruzione fatta al tempo, intorno alle 7.30 del mattino, la cameriera portò la colazione alla contessa, che scese poi in cucina intorno alle 8.30, per risalire in camera un quarto d'ora più tardi. La donna non uscirà più viva dalla propria stanza. Il marito aveva lasciato la casa alle 8.15, come confermato dalle videocamere, per recarsi in ufficio all'Eur, dove era arrivato poco prima delle 9. In casa, al momento del delitto, c'erano diverse persone: oltre ai due figli della contessa, Manfredi di 9 anni e Domitilla di 7, erano presenti le due domestiche filippine, la baby-sitter inglese e alcuni operai. Intorno alle 9.15, Domitilla andò a bussare alla porta della mamma, ma non ottenne alcuna risposta. Tornò più tardi accompagnata dalla domestica, tra le 10.30 e le 11, ma dall'altra parte venne accolta dal silenzio. A quel punto, usando una seconda chiave, la domestica entrò nella camera da letto. A terra, tra il letto e la parete, giaceva il corpo della contessa con il capo sanguinante avvolto in un lenzuolo. A lato della testa, c'era uno zoccolo insanguinato. L'assassino colpì prima la donna per stordirla e poi la strangolò: "Abbiamo accertato - rivelerà a Delitti il pm che si occupa del caso - che la morte è avvenuta non per il colpo subito sulla testa, ma per uno strozzamento". Un delitto quindi non premeditato, dal momento che l'assassino non aveva con sé alcuna arma. Successivamente il medico legale fissò l'ora della morte tra le 8.40 e le 9.10. Dalla stanza mancavano alcuni gioielli, tra cui un anello e un collier, dal valore di circa 80 milioni di lire. Per questo il primo movente ipotizzato fu quello di una rapina finita male. Ma ben presto gli inquirenti si ritrovarono a fare i conti con servizi segreti, ex dipendenti rimasti in cattivi rapporti con la contessa, presunti amanti e conti svizzeri.
Il killer conosceva la casa. Data la mancanza dei gioielli, la prima ipotesi fu quella legata alla rapina. Il killer poteva essere entrato nella stanza per rubare ma, scoperto da Alberica, la avrebbe aggredita e uccisa. Qualcosa però non convinceva gli inquirenti: al polso della vittima c'era un Rolex d'oro, ma l'assassino l'aveva inspiegabilmente lasciato lì. Così i sospetti si concentrarono sulle persone presenti nella villa quel 10 luglio 1991 e gli investigatori, guidati dal magistrato Cesare Martellino, le interrogarono tutte un paio di giorni dopo il delitto. Scoprirono che l'ingegner Mattei era uscito di casa alle 8.15 ed era arrivato al lavoro circa 40 minuti dopo. Poi era rimasto nel suo ufficio, fino al momento della chiamata che gli annunciava un malore della moglie e che lo esortava a tornare a casa. Solo a quel punto era uscito dal suo ufficio: un alibi inattaccabile, che lo escludeva totalmente dalla lista dei sospettati. Un buco di circa mezz'ora invece figurava nelle dichiarazioni della baby sitter inglese dei bambini: sostenne di essersi recata a fare la doccia e a sciacquare il costume, dopo essere stata in piscina, ma le spiegazioni della donna non convincevano del tutto gli inquirenti, che però non la trattennero a lungo e dopo poco tempo le permisero di tornare in Inghilterra. Tra gli operai presenti in casa, i due giardinieri erano stati tenuti sott'occhio dalla domestica filippina che aveva scoperto il corpo della contessa, mentre gli altri si trovavano dietro la villa, ma loro carico non emerse nulla. Infine le due domestiche filippine faticarono a rispondere alle domande fin dal primo interrogatorio, ma al tempo vennero definite "di mentalità istintivamente diffidente", tanto che non sollevarono l'interesse degli inquirenti. Altre due persone entrarono fin da subito nella rosa dei sospettati: l'ex domestico filippino Manuel Winston, che pareva non essere rimasto in buoni rapporti con i coniugi Mattei, e il figlio di una ex dipendente della villa, Roberto Jacono. Winston era stato licenziato dalla contessa Filo della Torre, con la quale aveva un debito, e non aveva un alibi convincente per quella mattina. Il filippino infatti sosteneva di essere in servizio in un'altra villa della zona, dove non era presente nessuno e sostenne di essere stato visto, intorno alle 11, dal figlio dei proprietari. Il pm Martellino ricorda nel documentario Delitto di aver verificato l'alibi dell'ex domestico dei Mattei, riscontrando delle incongruenze: il figlio dei proprietari, infatti, confermò di aver visto Winston a quell'ora, "ma era il giorno prima". Così Manuel finì in cima alla lista dei sospettati. A scagionarlo saranno delle tracce di sangue trovate sui suoi pantaloni: le analisi infatti diranno che si trattava del suo sangue, non di quello della contessa. Nel corso di uno dei sopralluoghi successivi al giorno del delitto, le forze dell'ordine trovarono nella cassetta della posta una chiave del cancello della villa, accompagnata da una lettera di Franca Senepa, l'ex dipendente che si occupava dei bambini. "La donna - si legge sul numero dell'Unità del 16 luglio 1991 - finite le lezioni pei i bambini, aveva riconsegnato le chiavi del cancelletto imbucandole nella cassetta della posta ed allegando una lettera di commiato". Una lettera formale, pare a causa delle divergenze avute con la contessa. Il figlio della donna, Roberto Jacono, come spiega Martellino a Delitti, "aveva preteso abbastanza vivacemente spiegazioni sul motivo del licenziamento. Si accertò anche che durante il periodo estivo, Jacono aveva frequentato la casa". Così Jacono venne interrogato e anche sui suoi pantaloni vennero trovate tracce di sangue, che furono analizzate dalla polizia scientifica. Le tracce però erano troppo piccole, tanto da non consentire agli esperti di stabilire se si trattasse di materiale genetico appartenente alla vittima. Così sia i sospetti su Manuel Winston che quelli su Roberto Jacono andarono scemando.
Dagli 007 italiani alla pista cinese. Nel 1993, due anni dopo la morte di Alberica Filo dalla Torre, le indagini per il delitto dell'Olgiata si intrecciarono con quelle di un altro grande caso, quello dei fondi neri del Sisde, i servizi segreti italiani. In autunno l'ex capo di gabinetto dell'agenzia Michele Finocchi venne accusato di aver costituito conti privati usando i soldi del Sisde. Ma cosa c'entravano gli 007 italiani con il delitto dell'Olgiata? Apparentemente nulla, ma una circostanza aveva colpito gli inquirenti: il giorno dell'omicidio, Finocchi era nella villa bunker. "Quando sono arrivato l'ho trovato nella stanza", ha dichiarato il pm a Delitti. Tra i coniugi Mattei e l'uomo del Sisde infatti c'era un rapporto di amicizia: "Era una persona che conoscevamo da 8 o 10 anni - spiegò Mattei nel documentario di History Channel - chiamai Michele Finocchi quando non sapevo ancora che mia moglie fosse stata assassinata". Questo legame spinse gli investigatori a concentrarsi sull'ipotesi di un delitto d'affari e, per questo, vennero avviate indagini patrimoniali. Fu così che vennero scoperti dei fondi bancari aperti in Svizzera che, uniti alla latitanza di Finocchi, fecero sospettare un legame tra lo scandalo del Sisde e il delitto dell'Olgiata. Si pensò infatti che su quei conti potessero essere passati i soldi dei servizi segreti. Un'ipotesi che si rivelò infondata: i controlli patrimoniali infatti non dimostrarono nulla di tutto questo e anche la pista legata a un possibile delitto d'affari venne abbandonata. Qualche tempo dopo, nel 1995, emerse la pista cinese, quella legata all'imprenditore Franklin Yung, un amico dei coniugi Mattei che viveva in una villa all'Olgiata. A far finire Yung sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti fu la moglie dell'imprenditore, che lo descrisse come un uomo violento, come riportato al tempo da Repubblica. Inoltre quando vennero riesaminati i risultati dell'autopsia, sembrò che la contessa fosse stata uccisa con una tecnica particolare di soffocamento, usata nelle arti marziali. Ad alimentare i sospetti degli investigatori contribuì anche l'atteggiamento di Yung, che lasciò improvvisamente l'Italia poco dopo la comparsa del suo nome tra i possibili colpevoli. In più, c'era un buco nelle dichiarazioni dell'imprenditore che, stando a quanto riportò Repubblica, aveva dichiarato "di essere uscito di casa attorno alle 8 e di essere arrivato in ufficio alle 9". Ma, per percorrere la strada dall'Olgiata a via Flaminia, dove Yung aveva il negozio, ci vogliono circa 20 minuti. Inoltre il domestico portoghese negò la versione dell'imprenditore, che dichiarò di aver fatto colazione con il padre. Ma, nonostante le incongruenze, anche la pista cinese, così come quella legata allo scandalo del Sisde, si rivelò un vicolo cieco. E nel giugno del 2005 l'inchiesta sul caso dell'Olgiata venne archiviata.
Dopo 20 anni la soluzione del caso arriva grazie al Dna. Nonostante lo stop delle indagini, Pietro Mattei, il marito della vittima, non si arrese e continuò a insistere per la riapertura del caso. Fino a quando non convinse la procura di Roma a riprendere in mano le indagini, nel 2007, grazie a un'istanza in cui si chiedeva di riesaminare i reperti, date le nuove tecniche di analisi sviluppatesi nel frattempo. In particolare, riportò il Corriere, venne chiesto il riesame delle tracce ematiche trovate sui pantaloni di Roberto Jacono e Manuel Winston, indagati inizialmente e poi prosciolti, quelle sul lenzuolo usato per coprire il volto della contessa e quelle sullo zoccolo e sul Rolex al polso della vittima. "La prima parte delle indagini - spiega a IlGiornale.it la biologa esperta in genetica medica Marina Baldi, nominata consulente di parte dalla famiglia Mattei, insieme al dottor Fiorentino - fu eseguita da alcuni medici legali della Sapienza e del Gemelli, loro presero la prima quota dei reperti e poi analizzarono i vari oggetti in maniera non completa". La famiglia della vittima però, ricorda ancora la Baldi, "non fu soddisfatta, anche su indicazione dei legali e dei consulenti, e quindi venne richiesto dagli avvocati Marazzita e Squillante di proseguire con le indagini e di non archiviare, modificando possibilmente tutto l’apparato per le indagini". Così il Ris di Roma sezione Biologia venne incaricato di svolgere altri esami.
Manuel Winston. Nel frattempo, vennero recuperate anche le registrazioni delle telefonate fatte al tempo. Tra queste, venne trovata anche quella effettuata dall'ex domestico filippino Manuel Winston, il cui telefono era stato posto sotto controllo. Si scoprì che l'uomo aveva effettuato una chiamata a un amico, chiedendogli il contatto di un ricettatore di gioielli. Una telefonata rimasta inascoltata per 20 anni, che portò a galla la verità sul delitto dell'Olgiata. Ma a incastrare il domestico filippino definitivamente fu una traccia di Dna ritrovata sul lenzuolo usato per coprire il volto della vittima. "Fu individuato sul lenzuolo che copriva il capo della contessa, con la quale era stata strangolata, una traccia di sangue puro dell’assassino Manuel Winston - ricorda l'esperta Marina Baldi - Sempre sul lenzuolo fu individuata anche una seconda traccia mista che era composta da sangue della contessa e sangue di Manuel Winston. Inoltre il Dna di Winston fu trovato anche sull’orologio che era rimasto al polso della contessa, in quanto si trattava di un orologio con un braccialetto d’oro monopezzo, quindi non era stato possibile strapparlo". Le tracce trovate dai Ris permisero di risolvere il caso, a distanza di 20 anni: "Queste tracce furono dirimenti in quanto Winston non lavorava più dalla contessa da tempo al momento dell’omicidio e quindi la presenza del suo Dna sul lenzuolo e sull’orologio non era giustificabile in altra maniera se non con la sua presenza al momento dell’omicidio", ha dichiarato la biologa specialista in genetica medica. I Ris inoltre riuscirono a ricostruire il modo in cui il Dna di Winston era finito sul lenzuolo: "Winston aveva una ferita tondeggiante proprio sul gomito - spiega Marina Baldi - e il Ris, con un manichino e il lenzuolo originale, ha ricostruito esattamente come è stato possibile che il filippino si appoggiasse con il gomito per avere più presa nello strangolare la povera vittima". Così Manuel Winston venne arrestato nel 2011 e qualche giorno dopo confessò: "Mi sono tolto un peso", disse agli inquirenti. L'uomo venne condannato a una pena di 16 anni carcere ma, come riferito da AdnKronos, dovrebbe tornare libero il prossimo 10 ottobre. Dopo 20 anni, il giallo dell'Olgiata venne risolto grazie alle tecniche di genetica forense, che nel tempo fecero passi da gigante: "Siamo arrivati a poter analizzare tracce infinitesimali di materiale biologico addirittura da singola cellula con dei parametri ipervariabili che ci consentono di individuare e identificare una persona con una probabilità elevatissima - spiega Marina Baldi - cosa che nel 1991 era impossibile, perché si utilizzavano dei parametri ancora molto grossolani rispetto a quelli di oggi".
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 5 giugno 2021. Conta i giorni che lo separano dalla sua scarcerazione, Manuel Winston Reyes. Il filippino, maggiordomo, assassino di Alberica Filo Della Torre. Dopo appena 10 anni dalla condanna, e 30 anni dall' uccisione della contessa, l'uomo varcherà il cancello d' uscita del penitenziario per non farvi più ritorno. Il prossimo 10 ottobre Reyes avrà definitivamente saldato il suo conto con la giustizia. Una giustizia che aveva impiegato venti anni per individuare il vero responsabile dell'omicidio della donna, avvenuto il 10 luglio del 1991, nella villa all' Olgiata, zona residenziale a nord di Roma. Gli inquirenti avevano seguito piste sbagliate, che coinvolgevano i servizi segreti, non avevano investigato a fondo sulle prove acquisite. E così l'assassino che poteva essere subito individuato - come nel più classico dei gialli - nel maggiordomo carico di livore per essere stato licenziato, era uscito fuori dai radar degli investigatori per rientrarci, e non uscirne più, nella primavera del 2011. Una inchiesta riaperta grazie alla tenacia del marito di Alberica Filo Della Torre, Pietro Mattei, che aveva preteso analisi più accurate del Dna. Reyes, difeso dall' avvocato Nicodemo Gentile, era stato condannato a 16 anni di reclusione il 14 novembre del 2011, sentenza confermata il 9 ottobre del 2012. L'ex maggiordomo ha perciò beneficiato di una serie di sconti che ne hanno ridotto la pena, dato che sarà liberato i primi di ottobre. A Roma batte un sole torrido la mattina del 10 luglio del 1991. Alberica Filo della Torre, 42 anni, è sposata con Pietro Mattei, un costruttore. Nell' elegante villa a nord della Capitale, all' Olgiata, si preparano per una festa. La coppia, quella sera, vuole celebrare, con amici e parenti, i dieci anni di matrimonio. È un andirivieni di uomini e donne indaffarati per organizzare il ricevimento. Ma quel 10 luglio del 1991 non ci sarà nessun party. Il ritrovamento del cadavere di Alberica Filo della Torre, nella sua camera da letto, sancisce l'epilogo di una giornata di festa mai iniziata e l'inizio di un giallo, ribattezzato il delitto dell'Olgiata. Una tragedia in cui precipitano i figli e il marito della contessa. Non c' è un testimone che ha visto o sentito alcunché. Inizialmente i sospetti cadono su due uomini, che vengono fermati, salvo poi essere rilasciati in poco tempo. Il primo è il figlio di un'insegnante di sostegno che lavora nella villa, definito come persona violenta. Il secondo è un ex cameriere, il filippino Manuel Winston Reyes, da poco tempo licenziato perché ha il vizio dell'alcol. Entrambi vengono scagionati. Ecco allora che gli investigatori seguono le piste più suggestive, complotti, fondi neri, servizi segreti, depistaggi, conti esteri miliardari e tangenti. La verità è più semplice. Ed è dietro l'angolo. Forse nessuno avrebbe pagato per l'assassinio della contessa se suo marito, Pietro Mattei, non avesse con caparbietà spinto gli investigatori a non mollare la presa. È stato lui a far riaprire l'inchiesta nel 2007. Una macchia di sangue sul lenzuolo con il quale l'omicida aveva avvolto la donna tanti anni prima e il Rolex della contessa sporco di sangue sono le due prove che dimostrano che l'ex maggiordomo, grazie al test del dna, è l'assassino. «Mi tolgo un peso che mi portavo dietro da vent' anni» dirà Manuel Winston dopo il suo arresto. I primi di ottobre sarà di nuovo un uomo libero.
Dagospia il 14 ottobre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: A nome e per conto della Casa e degli Eredi Filo della Torre di Santa Susanna. Decorso un trentennio dai drammatici eventi che colpirono l’eccellentissima casa Filo della Torre di Santa Susanna con l’uccisione della nostra beneamata Alberica, apprendiamo delle recenti dichiarazioni rilasciate dal Sig. Mattei Manfredi al settimanale “Oggi”, riprese anche da Dagospia, in ordine al rilascio di Manuel Winston Reyes, ritenuto colpevole dell’efferato omicidio avvenuto all’Olgiata. Tali critiche in merito all’operato della magistratura sono state rese dal sig. Mattei anche ieri alla agenzia AdnKronos a commento della puntata di Rai3 che parlava della scarcerazione dell’omicida dopo 10 anni di reclusione. Noi riteniamo opportuno prendere le doverose distanze dalle censure mosse, in particolar modo nei confronti della Magistratura ritenendo, di contro, che un deferente silenzio e un’accorata prece possano preservare la memoria dei nostri defunti. Bene valete, Robert Filo della Torre (Capo della Casa Filo, Conti di Torre Santa Susanna)
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 6 giugno 2021. L' epilogo di una storia che ha segnato la vita di una famiglia, travolgendola, e anche la cronaca nazionale, è ormai ai titoli di coda. Manuel Winston Reyes sta per uscire di galera. È il maggiordomo filippino che uccise la contessa Alberica Filo della Torre, nella villa all' Olgiata, zona residenziale a nord di Roma, il 10 luglio 1991. Il the end, la scarcerazione, porta la data del 10 ottobre. «Ormai i protagonisti di questa terribile storia non ci sono più, mia madre ovviamente e Pietro Mattei, mio padre. Resta solo lui», l'assassino. Non lo nomina mai, Manfredi Mattei Filo della Torre, 39 anni, il figlio della contessa è stato, come dice lui, un osservatore, della vicenda. «L'ho subita, avevo solo nove anni, la nostra famiglia è stata distrutta 30 anni fa».
Cosa direbbe all' assassino di sua madre se lo dovesse incontrare per strada?
«Gli direi bravo, complimenti l'hai sfangata. Sei stato un fenomeno. Dieci anni di carcere per aver ucciso una donna».
È amareggiato?
«Questa storia ha distrutto più vite assieme. E aggiungo che se non ci fosse stato mio padre a combattere con tenacia, l'omicida sarebbe ancora in giro. Una famiglia normale non so come avrebbe potuto affrontare una situazione del genere. Ci siamo potuti permettere economicamente di andare avanti per anni, ma mi chiedo questa è giustizia? Senza contare che è stato un sacrificio, una sofferenza mentale ed emotiva durissima. In questo mio padre è stato un modello anche per tanta gente».
Tra poco, il 10 luglio, trascorrono i 30 anni dall'omicidio.
«Sono tanti, mi dispiace che mio padre non ci sia. Ma è meglio così, non ha assistito a questo obbrobrio che gli avrebbe fatto male. Non avevo rapporti idilliaci con lui, ma per quello che ha fatto, per me rappresenta un personaggio eroico. Venti anni a cercare la verità senza demordere mai».
Parla tantissimo di suo padre
«Questa è stata la sua lotta, senza la sua caparbietà non ci sarebbe stato l'arresto. Ha scelto il momento migliore per lasciarci (24 gennaio 2020, ndr) per non vedere la scarcerazione dopo 10 anni dalla sentenza nel 2011».
Quale sarebbe stata la detenzione che vi avrebbe soddisfatto.
«Negli Usa gli avrebbero dato l'ergastolo, si è trattato di un omicidio violento, a scopo di rapina. Questo è un Paese dove non paga nessuno».
Perché gli investigatori non sono stati capaci di seguire la pista più logica, e invece hanno sposato le tesi più assurde?
«È più facile seguire qualcosa di eclatante che la storia più ovvia. Erano gli anni in cui scoppiò tangentopoli e andare dietro alle tesi più stravaganti faceva notizia, dava più visibilità. Poi c'è stata tanta negligenza, non sono state ascoltate tutte le intercettazioni, dove lui (Reyes) diceva che c'era la refurtiva, quello che aveva rubato in camera di mia madre, e doveva essere venduta».
Avete mai recuperato la refurtiva?
«Mai recuperata».
Manuel Winston, nel 1995, chiamò sua figlia Alberica
«Una persona scaltra»
Chi era stato a licenziarlo?
«Non lo so. Mio padre mi disse che aveva bevuto delle bottiglie di vino pregiate e aveva fumato dei sigari portati da Cuba. Ed era stato trovato alticcio in giro per casa».
Cosa le manca di più di sua madre?
«Mi manca la famiglia, quel giorno è stata distrutta una famiglia felice. Mio padre ha fatto di tutto per tenere l'equilibrio. Mi rendo conto solo adesso che non c' è più dello sforzo che ha compiuto».
Cosa ricorda di quel 10 luglio 1991, lei era un bambino.
«Io ero in villa, stavamo lì, tanto trambusto, tanta gente, i carabinieri. È stato l'inizio della fine di un certo mondo. Di una certa dimensione di Roma, del Paese».
In che senso.
«Non voglio esagerare se dico che il delitto dell'Olgiata è stato uno spartiacque nella storia di questo Paese. Ha anticipato con il suo clamore mediatico, la stagione degli scandali giornalistici che poi hanno caratterizzato, subito dopo, tangentopoli».
La sua famiglia vive ancora nella villa?
«Abbiamo vissuto lì fino al 1992. Adesso ci sta uno sportivo in affitto. Sto cercando di salvare l'immobile da una situazione finanziariamente complicata».
Non le ricorda un passato che vuole dimenticare?
«Al contrario, è un posto carico di ricordi felici. La disegnò mia madre e la costruì mio padre. Negli ultimi anni l'avevamo ribattezzata villa Mattei, con tanto di targa. Papà la guardava contento e divertito».
· Il Mistero della contessa Francesca Vacca Agusta.
Anticipazione da "Oggi" il 4 febbraio 2021. «Disgrazia o omicidio? E se fosse stato un delitto perfetto? Me lo chiedo ancora dopo 20 anni… quando uno fa il mio lavoro e teme di non essere riuscito a risolvere un caso vive un senso di forte frustrazione». Luciano Garofano, generale dei Carabinieri in congedo e comandante del Ris di Parma incaricato di condurre le indagini scientifiche sulla morte della contessa Vacca Agusta, precipitata nel gennaio 2001 da una scogliera sotto la sua Villa Altachiara di Portofino, lo dice a OGGI in un’intervista pubblicata sul numero in edicola da domani. «Capisco la decisione del magistrato. In questi casi deve archiviare. Ma tante volte mi sono chiesto: come possiamo escludere che la morte della contessa Agusta sia stata invece un delitto perfetto?... E se fosse così non sarebbe difficile neppure ipotizzare chi l’avrebbe ordito. Ma con le ipotesi non si risolvono i casi. La contessa ormai aveva capito che molti approfittavano di lei per spogliarla delle sue ricchezze».
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 7 gennaio 2021. Sono passati già vent'anni, ma è ancora oggi. Dalla porta appena socchiusa filtravano le voci e le figure di due uomini a quel tempo piuttosto noti. Seduto ai bordi del letto, Maurizio Raggio parlava con il suo amico Emilio Fede, direttore del TG4, che lo aveva raggiunto da Milano. Stavano trattando l'intervista esclusiva di un'altra persona, Susanna Torretta, donna del mistero, amica del cuore della contessa scomparsa, che verrà poi declassata a semplice conoscente. Quello era il piatto forte dell'accordo in via di definizione nel segreto di una stanza al primo piano dell'hotel Splendido mare di Portofino, meta di sceicchi e nababbi che deve il nome a Gabriele D'Annunzio. Un colpo giornalistico che avrebbe poi dovuto essere condito con speciali, approfondimenti, tutti concordati con un certo rigore, scrivendo su un foglio l'ora e il giorno della messa in onda. «Vedrai che ascolti che facciamo» gongolava Fede, tutto sommato con buone ragioni. La triste storia della contessa Francesca Vacca Agusta, vita intensa alle spalle e davanti un presente di solitudine e infelicità, scomparsa l'8 gennaio del 2001 precipitando in mare dalla terrazza di Villa Altachiara, dimora esclusiva ma con una reputazione da toccare ferro, inaugura l'epoca della cronaca nera come un reality show, dove vengono condivisi in pubblico sentimenti, dolori e finzioni, da esprimere comunque in favore di telecamera. Fu il debutto di qualcosa che è arrivato fino ai giorni nostri, la vita e anche la morte in diretta. C'erano i fidanzati, gli amanti, un tesoro di eredità da cercare, c'era il jet set frequentato dalla povera donna, e una dimora considerata maledetta. C'era persino l'intrigo incarnato dal penultimo compagno, l'enigmatico Maurizio Raggio, che si arrabbiava molto quando lo si definiva faccendiere, ma insomma non si capiva bene come campasse, amico e confidente della famiglia Craxi, sospettato di aver trasportato tesori dell'ex leader socialista all'estero, dettaglio da lui rivendicato con la faccia tosta che lo aveva reso celebre. C'era tutto, e non c'era niente. Perché alla fine il delitto che inaugurò la stagione dei delitti mediatici, non era tale. Sotto effetto di whisky e sonniferi, la contessa scivolò in giardino e precipitò. Era da sola in casa con il suo nuovo fidanzato, il messicano Tirso Chazaro. Il suo corpo venne ritrovato diverse settimane dopo al largo di Tolone. Ci vollero mesi per stabilire una verità che con il senno di poi sembrava evidente, o almeno appariva chiara l'impossibilità di dimostrare qualcos'altro, senza testimoni, senza alcuna pezza d'appoggio a tesi diverse dal tragico incidente. L'occasione era ghiotta. E venne colta, soprattutto dagli addetti ai lavori. Gli inquirenti aprirono una inchiesta per omicidio volontario, senza lesinare su dettagli ambigui, come i segni di colpi «inferti» alla testa della salma, che era rimasta in balia di acqua e scogli per oltre un mese. A Portofino ricordano con una punta di malizia la mattina del 5 febbraio, quando i dirigenti del Ris di Parma si esibirono in una discesa in corda doppia dalla sommità della scogliera assieme ad altri consulenti dell'accusa. Le telecamere del TG1 riprendevano la scena da una pilotina appostata al largo della baia. Fu in quella occasione che nacque una compagnia di giro composta da esperti e psicologi di vario genere, usa a ritrovarsi sui luoghi dei delitti più o meno celebri, e soprattutto nei salotti televisivi. Ma a dettare i toni di una vicenda sono sempre i protagonisti. Negli ultimi anni, sono pochi coloro che hanno scelto riserbo e silenzio, avendone indietro spesso una forma sottaciuta di rispetto mediatico. Non fu certo quello, il caso della disputa intorno alla defunta contessa. Parlavano tutti, e più volte al giorno. Mettevano in scena sentimenti e dettagli inediti con inedita naturalezza. Raggio sapeva come utilizzare la stampa, tutto sommato era passato indenne attraverso Mani Pulite, il suo rivale messicano rispondeva con la stessa moneta, piangendo a richiesta. Erano uomini di mondo. E chi non lo era, come Susanna Torretta, l'unica che per altro non bussava a soldi, lo sarebbe ben presto diventato, posando per Capital e sbarcando all'Isola dei famosi. Si arrivò al paradosso di due diverse cerimonie funebri per la stessa persona, nello stesso giorno, a poca distanza l'una dall'altra, con reazioni in diretta dei protagonisti a ogni pater ave gloria e chiacchiere in libertà all'interno della cappella mortuaria. Finì come doveva, nel nulla. Soppiantato da veri e tremendi delitti, il presunto mistero perse d'interesse. Negli anni ottennero ben poco risalto i tentativi dei personaggi di quella che ormai era stata declassata a telenovela di riaprire le indagini accusandosi l'uno con l'altro. Vent'anni dopo non è rimasto che il contorno. La morte della contessa ha inaugurato un format poi adottato in altri settori della vita privata e pubblica. E tutti noi non abbiamo mai smesso di starci dentro.
· Il Mistero di Maurizio Gucci.
Da ilfoglio.it il 17 Dicembre 2021. C’è un po’ del Foglio in “House of Gucci”. Un fotogramma della nuova pellicola di Ridley Scott, in uscita nelle sale italiane il prossimo 16 dicembre, mostra Adam Driver mentre sfoglia una rivista: si tratta del numero monografico da collezione uscito lo scorso gennaio in occasione dei 25 anni del nostro giornale, al cui interno compaiono le prime pagine salienti del suo primo quarto di secolo. Driver nel film interpreta Maurizio Gucci, ultimo rampollo della famiglia che creò l’omonimo brand, assassinato il 27 marzo 1995, come racconta il film. Nella scena, Lady Gaga – che interpreta Patrizia Reggiani, moglie dell’uomo d’affari e mandante del suo omicidio – chiede a Driver un commento sul suo nuovo taglio di capelli. “Sì, è molto carino. Molto chic”, risponde lui distrattamente, mentre legge il Foglio. C'è però un piccolo errore storico nella scena. Le date infatti non coincidono: quella su cui si sofferma con lo sguardo Driver risale all’11 ottobre 1996 e racconta del caso Pacini Battaglia, uno dei filoni dell'inchiesta di Mani Pulite, più di un anno dopo la morte di Maurizio Gucci. Per Ridley Scott le sviste non sono una novità, basti pensare a quelle disseminate nel Gladiatore. Maurizio Gucci non avrebbe mai potuto leggere il Foglio, perché il primo numero del nostro giornale è stato pubblicato dopo la sua morte, il 30 gennaio 1996.
"Ci hanno rappresentato come mafiosi". La furia dei Gucci contro il film. Arriva la causa? Il Tempo il 16 dicembre 2021. "House of Gucci" non è piaciuto agli eredi della più nota famiglia italiana della moda. Proprio per niente. «Un film diffamatorio che si discosta totalmente dalla realtà». Così Patrizia Gucci - pronipote di Guccio, il fondatore della maison - commenta all’AGI «House of Gucci», l’ultimo, chiacchierato film di Ridley Scott in uscita oggi al cinema, incentrato sulla storia d’amore tra Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani, conclusasi in tragedia con la morte del primo per mano di un sicario assoldato dalla donna (poi condannata a 26 anni di carcere e tornata libera nel 2016 per buona condotta dopo averne scontati 18) quando la coppia aveva già divorziato.
La pellicola con Lady Gaga, Adam Driver, Jared Leto, Al Pacino e Jeremy Irons che si ripropone di raccontare la «vera storia» della famiglia è invece «ricca di fantasiose coloriture». E Patrizia Gucci, che ha lavorato 12 anni nell’azienda e conosce a fondo la verità dei fatti, non esita a definire questa storia in pellicola «brutta, al di fuori della realtà, stereotipata all’americana».
Nessuno dei personaggi del film rappresenta lontanamente la realtà «a partire dalla protagonista, Patrizia Reggiani. Lei - spiega Patrizia Gucci - sembra una manipolatrice, onnipresente che decide tutto ma, in verità, questa frequentazione con la mia famiglia non c’è mai stata». Ma anche il ruolo che il regista ha fatto interpretare ad Al Pacino non ha nulla a che fare con il vero Aldo, il presidente dell’azienda per trenta anni. «Sembra quasi che abbiano voluto dare alla mia famiglia un taglio mafioso quando attribuiscono ad Aldo espressioni del tipo "siamo una famiglia", "siamo uniti", "la famiglia deve restare unita"», sottolinea la donna.
Ma la figura più «tartassata è senza dubbbio quella di mio padre Paolo (il figlio di Aldo, ndr). Nel film viene fatto passare per un demente, una caricatura molto offensiva».
Gli eredi di Aldo Gucci, dopo aver visto il trailer del film in una nota congiunta si erano già detti amareggiati, spiegando che «la produzione non si è curata di interpellarli ed ha descritto i componenti della famiglia come teppisti, ignoranti e insensibili al mondo che li circondava, attribuendo ai protagonisti delle note vicende toni e atteggiamenti che mai sono loro appartenuti».
Pazzia, glamour e avidità sono gli ingredienti usati dal regista per realizzare «l’ultima satira all’italiana» anche se sul grande schermo ha voluto portare il nome di un’indiscussa icona del Made in Italy, Gucci. «Aldo e mio padre erano dei geniacci che hanno segnato la storia della moda italiana e, come ho raccontato anche nel mio libro ( Gucci. La vera storia di una dinastia di successo - edito da Piemme) - erano due grandi lavoratori, appassionati, geniali. Caparbi, determinati, orgogliosi. Due che hanno dedicato l’anima all’azienda nei 70 anni in cui è appartenuta alla famiglia».
Nel libro, Patrizia Gucci, rievoca in prima persona la vera storia della famiglia che ha dato vita a uno dei marchi italiani più noti al mondo, sinonimo di intramontabile classe. «Negli anni 50-60-70 Gucci era tra le famiglie più eleganti del mondo. Mio padre - dice Patrizia - è stato per più di 20 anni direttore artistico dell’azienda, era una fucina di idee: orologi, scarpe, foulard. Fu lui - racconta con orgoglio - ad inventare i mocassini senza lacci» i famosissimi e imitatissimi "175".
Da “Ansa” il 29 novembre 2021. "I membri della famiglia Gucci si riservano ogni iniziativa a tutela del nome, dell'immagine e della dignità loro e dei loro cari". Così si chiude una dura lettera firmata dagli eredi di Aldo Gucci, contro il film di Ridley Scott, 'House of Gucci', in sala dal 16 dicembre in Italia. Lamentano che la produzione ''non si è curata di interpellare gli eredi prima di descrivere Aldo Gucci'', e giudicano ''ancora più censurabile'' la ricostruzione ''di una donna definitivamente condannata per essere stata la mandante dell'omicidio di Maurizio Gucci'' dipinta nel film e nelle ''dichiarazioni dei membri del cast, come una vittima''.
Alice Abbiadati per vogue.it il 30 novembre 2021. Tom Ford non è stato solo uno dei più grandi direttori creativi dietro alla maison di Gucci. È anche un acclamato regista, molto temuto dai suoi colleghi. Per questo motivo, a Ridley Scott non farà molto piacere l'opinione del designer texano sul suo nuovo film House of Gucci. Con diplomazia, Tom Ford ha scritto un pezzo su AirMail, dichiarando apertamente di non aver apprezzato l'umorismo e il camp - ovvero il kitsch ad arte - dietro alla storia sull'omicidio di Maurizio Gucci. L'ha trovato piuttosto come "la soap opera Dynasty, per sottigliezza. Ho spesso riso a crepapelle, ma non dovevo forse farlo? Nella realtà questa storia è a volte assurda, ma pur sempre tragica". Nonostante alcune scene siano per lui troppo "assurde", Tom Ford non ha dubbi che Lady Gaga e Adam Driver faranno incassi da record al botteghino. Sul sito AirMail, inoltre, l'ex direttore creativo di Gucci elogia i costumi, i set e la fotografia. "A volte però, mentre guardavo Al Pacino (Aldo Gucci) e Jared Leto (Paolo Gucci) sullo schermo, mi chiedevo se non stessi vedendo la versione del film ricreata al Saturday Night Live". I personaggi, a mio avviso, sono stati troppo amplificati, e alcune scene salienti sono state tagliate per lasciare quelle con i protagonisti. Il risultato, purtroppo, è una storia in cui non ci identifichiamo con nessuno". Non manca anche una critica al momento in cui compare lui stesso, ovvero il giovane Tom Ford, in veste di designer appena assunto dalla maison, insieme a Maurizio Gucci, prima che questo venisse assassinato "a pochi passi dal mio ufficio a Milano. Non abbiamo mai fatto un brindisi insieme, come in quella secna. I film hanno un modo di diventare verità nella mente delle persone, una realtà alternativa che, con il tempo, cancella ciò che è stato. Alla fine, a chi importa se queste alterazioni producono un grande film?", dichiara il designer. Tom Ford, del resto, conosceva molti dei personaggi che appaiono nel film, e lui stesso aveva rilasciato interviste per la stesura del libro, di Sarah Gay Forden, su cui si basa il film. "È difficile per me separare la realtà dalla soap opera patinata e pesantemente laccata a cui ho assistito sullo schermo". Se vi state chiedendo cosa, per Tom Ford, funziona in questo film, la risposta non è solo l'estetica. Per lui Salma Hayek, che interpreta Giuseppina Auriemma, è stata fantastica, e Jeremy Irons, nei panni di Rodolfo Gucci, formidabile “perché sobrio e distinto”.
In "Lady Gucci" Patrizia Reggiani si racconta. Laura Rio il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. Al cinema se volete vedere una versione soft e romanzata. Sul Nove se volete conoscere la vera storia, con interviste ai protagonisti reali. Oggi arriva nelle sale il sontuoso film House of Gucci, con Lady Gaga nella parte di Patrizia Reggiani e la regia di Ridley Scott e - forse non è proprio una coincidenza - in contemporanea Discovery mette in chiaro (appunto sul canale Nove) il documentario Lady Gucci, firmato da Flavia Triggiani e Marina Loi per Videa Next Station. Nel filmato, Patrizia Reggiani, condannata a 26 anni di carcere - di cui 17 trascorsi in cella - come mandante dell'omicidio di suo marito Maurizio, l'erede del famoso marchio di moda, si racconta, senza omettere nulla delle sue follie: il matrimonio da favola, la vita lussuosa e poi la decisione criminale. Ricorda che, accecata dalla gelosia perché il marito aveva un'altra donna, andava in giro a chiedere a chiunque se fosse disposto ad ammazzare il padre delle sue due figlie. Racconta a Discovery: «Maurizio aveva quattro case a Sankt Moritz e non ce ne voleva dare neanche una». Vederlo morto era diventata un'ossessione: «Io ho un difetto, non so mirare. Avrei dovuto trovare questa Banda Bassotti che me l'hanno fatto». Pina Auriemma, la maga sua amica che l'aiutò a trovare quella banda di balordi, spiega: «L'unica cretina che le ha dato retta sono io. Ma per me doveva essere una truffa, questi non sapevano maneggiare una pistola, non avevo nessuna intenzione di far uccidere Maurizio». Oltre alle interviste, il documentario raccoglie ricordi e pareri di chi ha seguito il caso, come Luca Fazzo, esperto di cronaca giudiziaria del Giornale. Nel documentario si racconta anche la figura della madre di Patrizia, Silvana Barbieri, la vera dark lady della storia che allevò la figlia con l'unico obiettivo dell'arrampicata sociale, della caccia al marito ricco. Oggi Patrizia Reggiani, per niente fiaccata dagli anni di carcere, sta lottando in tribunale contro le figlie per avere i soldi del vitalizio che il marito le aveva garantito, qualcosa come trenta milioni di euro con gli arretrati. Ecco, questa è la Reggiani: guardate il documentario per capirla meglio. Laura Rio
Alessandro Da Rold per “La Verità” il 20 ottobre 2021. Nel Tribunale di Milano c'è un ricorso per interdizione che pende sulla testa di Patrizia Reggiani, l'ex moglie di Maurizio Gucci, in libertà dal 2017 dopo 17 anni di carcere a San Vittore per l'omicidio del marito. È l'ennesimo colpo di scena di una guerra che sembra non avere fine e su cui, non a caso, il regista americano Ridley Scott ha appena finito di girare un film che uscirà a novembre. A richiedere l'interdizione dell'ex Lady Gucci (atto che la porterebbe a una totale incapacità di agire e a non poter compiere alcun atto giuridico in autonomia), è stata la Procura di Milano a giugno di quest'anno. La richiesta di interdizione, a prima vista, potrebbe non sembrare così sconvolgente dato il passato travagliato della donna. Ma la realtà è più complessa. Innanzitutto perché potrebbe rivelarsi come una decisione in parte contraddittoria rispetto al passato giudiziario della Reggiani. La «vedova nera», infatti, nonostante un tumore al cervello nel 1992 poi asportato, ha affrontato lungo tutto il suo iter processuale svariate perizie psichiatriche, sin dall'inizio del processo nel 1998. Tutte ne hanno sempre confermato la capacità di intendere e di volere. Anche per questo è stata condannata a 26 anni, poi ridotti a 17. Eppure l'ex Lady Gucci appare, a prima vista, una persona perfettamente in grado di badare a se stessa. Basta leggere le sue ultime interviste, apparse anche di recente online o sui quotidiani. Se il giudice dovesse accoglierla, l'interdizione avrebbe un effetto domino anche sul destino dell'eredità dei Gucci. Per districarsi in questo labirinto di scartoffie giudiziarie, avvocati, amministratori di sostegno e soldi, una montagna di soldi, bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017. È il 12 febbraio. Quel giorno Patrizia Reggiani esce dal carcere di San Vittore. Ha scontato la sua pena. È nullatenente. Sui giornali si torna a parlare di lei. Deve ancora risarcire il portiere dello stabile di via Palestro che rimase ferito durante l'agguato all'ex marito. Pende su di lei una richiesta di risarcimento da parte di Paola Franchi, la modella che si sarebbe dovuta sposare con Maurizio Gucci. L'eredità resterà un ginepraio fino ai giorni nostri: sulla testa di tutti i protagonisti pende un patto scritto che Patrizia Reggiani aveva stipulato con il marito prima dell'omicidio (noto come «l'accordo di Sankt Moritz»). Grazie a quel «promemoria d'intenti» del 1993, alla Reggiani spettano arretrati per circa 20 milioni di euro e 1 milione di euro l'anno di vitalizio. Le figlie Allegra e Alessandra però si oppongono e contestano il valore dell'accordo. Passa un anno. Nel 2018 alla Reggiani viene assegnato, contro la sua volontà, un amministratore di sostegno dal Tribunale di Milano. Ha lo scopo di tutelare quello che sarebbe divenuto il suo patrimonio alla morte della madre, Silvana Barbieri, presso la cui dimora aveva trovato rifugio dopo essere uscita dal carcere. Dopo il decesso della signora Barbieri, l'ex Lady Gucci risarcisce sia il portiere Giuseppe Onorato, rimasto ferito nell'agguato di via Palestro del 1995, sia la Franchi. Perciò nel febbraio 2021 viene archiviato l'ultimo procedimento civile, nato appunto per la mancata esecuzione del provvedimento del giudice a causa della denuncia di Onorato. Benché i conti col passato siano saldati, il destino della Reggiani sembra comunque non trovar pace. A questo punto serve un inciso. Va ricordato che l'amministrazione di sostegno non è uguale all'interdizione: lascia alla persona ampi margini di libertà e autonomia patrimoniale, seppur con delle lievi limitazioni. Per di più nell'aprile di quest'anno è stata avviata - su richiesta delle figlie Allegra e Alessandra - un'indagine per una presunta circonvenzione di incapace ai danni della madre in cui risultano coinvolte ben quattro persone, tra cui gli indagati avvocati Maurizio Giani e Daniele Pizzi, il consulente finanziario Marco Chiesa e Loredana Canò, ex compagna di cella poi divenuta assistente personale e intima amica della Reggiani. Ed è qui che le cose si fanno complicate. Anche perché dal 2018, come detto, la Reggiani aveva un amministratore di sostegno che doveva tutelare il suo patrimonio unitamente a Ilaria Mazzei, giudice tutelare del Tribunale di Milano. Come è possibile circuire una persona già così tutelata? Tramite l'interdizione verranno a cadere tutti i diritti e le volontà della donna. Se il provvedimento venisse attivato, infatti, Allegra e Alessandra potrebbero di fatto «disinnescare» il diritto della loro madre di far valere il vitalizio milionario che nel novembre del 2020 la Cassazione le aveva definitivamente riconosciuto. Come detto, la Reggiani vanta tuttora nei confronti delle sue due figlie un credito di oltre 20 milioni di euro, a cui va aggiunto 1 milione di franchi svizzeri per ogni anno di vita. Insomma: una Lady Gucci interdetta non costerebbe un centesimo.
Dagotraduzione da Dnyuz l'1 giugno 2021. Negli ultimi mesi, le scene dal Lago di Como in Italia, dove Ridley Scott sta girando “The House of Gucci”, il film sull'omicidio di Maurizio Gucci da parte di sua moglie, hanno fatto tendenza sui social media. Gli spettatori hanno commentato i vestiti e le star, Adam Driver e Lady Gaga, mentre la famiglia ha protestato contro il film, accusato da Patricia Gucci (figlia di Aldo) di «rubare l'identità di una famiglia per realizzare un profitto, per aumentare il reddito del Sistema di Hollywood». Ma fuori dai riflettori, in California, è stato aggiunto un altro capitolo alla saga oscura della vita reale degli eredi di Guccio Gucci. Il 26 aprile, Patricia Gucci, figlia di Aldo e cugina di Maurizio Gucci, e sua madre Bruna Palombo, hanno presentato una mozione per fermare la causa intentata dalla primogenita di Patricia, Alexandra Zarini, che ha accusato il patrigno Joseph Ruffalo di abusi sessuali e la madre e la nonna di negligenza. Patricia Gucci e la madre, Bruna Palombo, nel loro ricorso, hanno negato le accuse di collusione. La Gucci sostiene che anche l’altra figlia, Victoria Gucci-Losio, finora rimasta estranea alla vicenda, è stata vittima di Ruffalo e che Alexandra ha intentato la causa solo per ottenere denaro dalla famiglia. È la prima volta che Victoria Gucci-Losio viene nominata pubblicamente come parte del caso (non è stata inclusa nella documentazione prodotta dalla sorella) e segna uno scisma sempre più profondo nella famiglia che non è più coinvolta nel marchio Gucci dal 1993. Ruffalo, ex manager musicale, è stato sposato con Patricia Gucci dal 1993 al 2008; i due hanno vissuto insieme a Los Angeles dal 1992 al 1998. Patricia Gucci ha divorziato da lui quando la figlia le ha confessato che nel 2007 il signor Ruffalo aveva abusato di lei da quando aveva 6 anni e di sua sorella da quando ne aveva 4. Alexandra Zarini ha anche intentato una denuncia penale contro Ruffalo a Beverly Hills, California, e a Windsor, in Inghilterra; lei, sua madre e le sue sorelle si sono trasferite ad Ascot, a sud di Windsor, nel 1998, dove gli abusi sarebbero continuati ad ogni visita di Ruffalo. Entrambe le indagini stanno proseguendo. Il signor Ruffalo ha finora evitato di farsi notificare la causa in California. Il suo avvocato ha detto al New York Times che «non è a conoscenza di tutte le accuse contenute nel reclamo. Ciò di cui è stato informato, lo nega con veemenza e categoricamente». Patricia Gucci e la madre Bruna Palombo, nella loro mozione, hanno contestato l’autorità del tribunale della California (Gucci vive in Svizzera e la madre in Italia) e sostenuto con forza di non essere state a conoscenza degli abusi. Secondo le carte depositate, Alexandra Zarini avrebbe detto alla sorella di non «dire mai a nessuno, e in particolare alla madre, degli abusi». Le due donne hanno anche insinuato che la causa intentata da Alexandra Zarini sia solo un modo per ottenere denaro dalla famiglia, e che l'attenzione negativa della stampa generata dalla causa li costringerà a fornire «un accesso anticipato all’eredità a cui crede di avere diritto». In una dichiarazione al New York Times, Zarini ha detto: «Insinuare che sono io la colpa per gli abusi sessuali perpetrati dall'ex marito di Patricia sulla mia sorellina, quando io stessa sono stata vittima di abusi, dimostra un profondo malinteso del trauma e degli effetti psicologici dell'abuso sessuale su un bambino piccolo». Zarini ha istituito una fondazione, la Alexandra Gucci Children's Foundation, per combattere gli abusi sessuali sui bambini. Gucci-Losio, 31 anni, che vive in Italia, è stata trascinata nella mischia. Ha confermato l'accusa di essere stata abusata dal signor Ruffalo e che lei e sua sorella avevano discusso di ciò che stava accadendo. Anche se voleva che Ruffalo fosse assicurato alla giustizia, Gucci-Losio ha detto che non voleva essere coinvolta nella causa legale da sua sorella. «Non volevo esporre pubblicamente il mio trauma al mondo, e volevo andare avanti con la mia vita», ha detto. «Sapevamo che il nome della famiglia avrebbe attirato l'attenzione. La decisione di tacere è stata quella di proteggerci». Gucci-Losio ha detto di non essere a conoscenza del fatto che sua sorella «intendeva intentare un'azione legale contro nostra madre e nostra nonna» ed è rimasta «"scioccata" dalle accuse», motivo per cui ha accettato di essere nominata nell'atto di risposta di sua madre. Ha contestato l'affermazione di sua sorella secondo cui sua madre e sua nonna erano a conoscenza dell'abuso ««nel momento in cui si verificava». (Attualmente lavora con sua madre sul marchio di valigie di lusso che Patricia ha lanciato nel 2019).Gucci-Losio ha detto di essere stata in contatto regolare con Zarini fino alla causa, ma che non parlano da quando è stata presentata. La data del tribunale del 20 agosto è stata fissata per ascoltare la mozione della signora Gucci. La signora Gucci-Losio ha detto di non essere stata ancora chiamata come testimone. «Se mi viene chiesto di testimoniare, sono pronta a farlo», ha detto. «Per quanto sarà difficile per me dover rivivere tutto di nuovo, farò ciò che è necessario». Se è così, ancora una volta la saga dei Gucci potrebbe giocare agli occhi del pubblico per ragioni che non hanno nulla a che fare con le borse o con Hollywood.
Paolo Pollo per “corriere.it” il 19 aprile 2021. Se c’è una cosa che Alessandro Michele non sa fare è risparmiarsi. Il giorno dopo la messa in onda del suo film-show Aria (in co-regia con Floria Sigismondi), provato da due mesi di lavoro continuo, parla di moda e dei suoi capelli, di un compagno e di figli, di amici e di scelte, consapevoli. «Qualsiasi conversazione mi affascina: è una delle grandi forme di essere vivi». I cento anni di Gucci sono andati in scena, fra citazioni e coup de theatre: dall’omaggio al fondatore Guccio, al lavoro di Tom Ford all’hackeraggio (questa la definizione) di certe forme di Balenciaga dell’amico Demna Gvasalia, sino alla certezza che è di natura e di aria che oggi le persone hanno bisogno. Per rinascere. È con la metafora del parto, dunque, che lo stilista rivede il nuovo lavoro: «C’è una grande fatica, dietro a tutto questo, bellissima. Ora mi sento un ballerino con le ossa rotte, ma sono contento di essermi preso un tempo maggiore (la decisione di sfilare solo due volte l’anno ndr) per la mia creatività. La moda è una macchina fa guerra pazzesca. Lo capisci dai primi stage, se non ami questo lavoro da morire, non puoi accettarne la clausura». Sembra di sentirlo, il giorno dopo ma di sei anni fa, quando debuttò con una collezione realizzata in poche settimane: «Ero un neonato, per davvero. E oggi leggo in quello che ho fatto un grado di perfezione ma anche di incertezza e ambiguità che sono le stesse di quel febbraio 2015. Mi guardo con gioia: sei anni, ma è come se ne avessi percorsi trenta. È un tempo, lo stesso di Tom (Ford ndr), tondo e pieno che, credo si veda, maneggio con più maturità. Sono io ma con un timbro un po’ diverso». Già il «timbro», perché le parole sono importanti: «Una delle mie più grandi fortune è aver incontrato il mio compagno Vanni (Giovanni Attili, docente di urbanistica alla Sapienza di Romandr) che è un mago della cultura e della parola. Con lui, da colazione a cena, è una scuola quotidiana. Conversazioni così di valore che è impossibile resistere». E succede che dagli abiti si passi a parlare di omofobia: «Come non sono tornati i vecchi regimi, anche i pregiudizi non vinceranno più. Il processo sta andando avanti e per i figli dei nostri figli sarà diverso».
Lei vorrebbe dei figli?
«Non è un pensiero che ho perché ho due nipoti, Tommaso e Pietro, che sono i figli di mia sorella e sono due grandi stelle. Chiamiamola paternità in prestito, sì. Sono però figlio di levatrici e ostetriche, la nascita era parte integrante della mia famiglia. Mi sento vivo e prolifico attraverso quello che faccio. Poi di fronte a questa domanda penso “oddio forse i figli veri sono un’altra cosa”, non lo so. Sono molto affezionato alle cose che non farò mai: sono belle lo stesso, non sono occasioni perse, sono scelte e sono preziose».
Il successo?
«Quando per strada mi salutano, li ricambio nella convinzione che li conosco. Ho una considerazione così autentica di quello che faccio che non mi sembra possibile che mi salutino perché sono famoso».
Certo che con i suoi lunghi capelli neri non passa inosservato...
«Sono diventato il falso di me stesso. Quante volte mi taggano: è facilissimo travestirsi da me. È l’unico difetto di essere così. Ma mi fa piacere quando mi fermano per parlare».
A proposito, il «cambiamento» sembrerebbe non riguardare il suo look: ci tiene molto?
«Solo una volta ho tagliato i capelli molti corti, volevo vedermi. Li trovo comodi: mi alzo, una spazzolata e via».
Neanche un capello grigio?
«Nooooo, li ho ma ho un parrucchiere-amico bravissimo che ogni due mesi me li riprende senza tingermeli. Mio papà ha sempre avuto capelli e barba ancora più lunghi dei miei. La mattina quando si alzava c’era il rito mio o di mia madre di fargli la coda o le trecce. Forse, sì, è una faccenda di famiglia».
I cent’anni di Gucci e le citazioni a Tom Ford e alla storia di Guccio. Nessun riferimento a Frida Giannini e Alessandra Facchinetti, perché?
« In cent’anni sono successe tante cose. Ho scelto una partitura con gli strumenti che per me suonavano più forte: momenti che hanno glorificato Gucci. Ho fatto una scelta personale ma credo rispettosa. Non voleva essere un racconto dalla A alla Z».
Ha contatto Tom Ford?
«Gli ho scritto invitandolo a vedere lo show. Ricordo il colloquio con lui, quando mi assunse: parlavo con un divo non uno stilista. L’ultima volta che l’ho incontrato eravamo al Metropolitan: sembrava un film comico, io ero in cima alla scala addobbato fra un Bacco e un Re Sole, lui è salito e ci siamo scambiati battute affettuose. Lo ammiro, ho imparato molto da lui».
Dal corriere.it il 29 settembre 2021. A troncare le velleità patrimoniali della ex compagna di cella di Patrizia Reggiani a San Vittore, installatasi a titolo di «assistente» contrattualizzata e convivente nella favolosa villa milanese dell’ex moglie dello stilista Maurizio Gucci - fatto uccidere da Reggiani nel 1995 - è stato alla fine il loro domestico cingalese. Il quale ha portato al nuovo amministratore di sostegno della Reggiani due audio con la prova sonora di come Loredana Canò - ex compagna di reclusione nel 2012 di Reggiani quando l’una era in cella per detenzione d’arma modificata e ricettazione, e l’altra per l’omicidio Gucci costatole 26 anni di condanna - stesse ora «sfruttando la fragilità psichica» dell’amica milionaria; e «attraverso vessazioni, violenze, ossessivo controllo e manipolazioni» stesse volgendo «a suo esclusivo vantaggio le importanti possibilità economiche della Reggiani», segnata dal 1992 dalle conseguenze neurologiche dell’asportazione di un tumore al cervello. Per questo la IX sezione del Tribunale civile di Milano ha emesso nei confronti di Canò - senza che sia emerso nelle scorse settimane - un «ordine di protezione» di Reggiani: cioè una misura con la quale la giudice tutelare Piera Gasparini ha intimato all’assistente di Reggiani (una volta licenziata dall’amministratore di sostegno) di allontanarsi dalla lussuosa abitazione dell’ereditiera, di non avvicinarsi più ai luoghi abitualmente frequentati da Reggiani, e di «cessare la condotta pregiudizievole» con la quale avrebbe sinora «indebitamente condizionato la vita privata» di lady Gucci «al fine di manipolarla e orientarne la volontà». La misura non va confusa né con l’inchiesta penale iniziata in aprile dalle pm Tiziana Siciliano e Michela Bordieri, che per l’ipotesi di «circonvenzione di incapace» avevano indagato Canò assieme al precedente amministratore di sostegno e all’avvocato a capo della Fondazione beneficiata dal testamento della madre di Reggiani, Silvana Barbieri; né con la misura cautelare dell’«allontanamento dalla casa familiare», che richiede gravi indizi di reato. È invece un istituto civile che argina un «grave pregiudizio all’integrità morale» di un convivente, qui per la prima volta utilizzato su rapporti non affettivi ma di lavoro. Tra gli elementi valutati, il fatto che Reggiani nel maggio scorso obiettasse all’amministratore di sostegno temi che leggeva (senza capire) da un bloc notes vergato da una grafia diversa dalla sua; e la perquisizione della Finanza che ha trovato e sequestrato «telecamere, registratori, microfoni finalizzati al controllo degli ambienti e delle registrazioni». Da ultimo è arrivato il domestico: prima a raccontare come l’assistente trattava Reggiani, e poi a consegnare gli audio «dal cui ascolto emergeva la dettatura, da parte della Canò, di un comunicato nel quale Reggiani avrebbe dovuto riferire ai giornalisti il malcontento per l’operato del giudice tutelare e del nuovo amministratore di sostegno».
La dinastia Gucci, spiegata per capire il film di Ridley Scott. Cecilia Dardana su Vanityfair.it il 21/3/2021.Con l’inizio delle riprese di «House of Gucci», l’attesissimo film di Ridley Scott, ripercorriamo l’albero genealogico della famiglia che con la doppia G ha stregato il mondo della moda. Difficile, altrimenti, orientarsi tra i legami di una famiglia così complessa. L’hype per il nuovo film di Ridley Scott sull’omicidio di Maurizio Gucci è ufficialmente alle stelle. Dopo le prime immagini dal set di House of Gucci che ritraggono Lady Gaga – che nel film interpreta Patrizia Reggiani, mandante dell’omicidio di quello che all’epoca era ormai il suo ex marito – mentre nelle viuzze del centro di Milano imbocca con un panzerotto un Adam Driver trasformato in Maurizio Gucci, ucciso il 27 marzo 1995, arrivano anche le foto che svelano un Jared Leto irriconoscibile nei panni di Paolo Gucci, il cugino di Maurizio. Troppi nomi a cui stare dietro, direte voi. Vero. E allora proviamo a ricostruire insieme l’albero genealogico della famiglia Gucci, che si è sviluppato nel tempo come una vera e propria Dynasty all’italiana. Partiamo proprio dall’inizio – saremo rapidi, promesso – con colui che ha dato vita a tutto ciò che poi il nome Gucci ha rappresentato negli anni. E cioè Guccio Gucci. È il 1921 e Guccio Gucci, all’epoca quarantenne, fonda una piccola azienda di pelletteria artigianale a Firenze, diventata famosa nel tempo per aver introdotto nella produzione materiali come il lino, la canapa, la juta e il bambù, per aver creato il celebre marchio con le G incrociate e ideato il mocassino con il morsetto. Guccio ha cinque figli: Ugo (che era stato una camicia nera e aveva partecipato alla marcia su Roma), Grimalda, Aldo, Vasco e Rodolfo, considerato il bello di famiglia e diventato un celebre attore con il nome di Maurizio d’Ancona. Dopo la scomparsa del fondatore, i figli Ugo, Grimalda e Vasco lasciano l’azienda. Aldo, che in House of Gucci è interpretato da Al Pacino, e Rodolfo, nel film Jeremy Irons, ne assumono il comando e la rendono celebre in tutto il mondo. Sono gli anni del «Quality is remembered long time after, price is forgotten» (la qualità si ricorda a lungo, il prezzo si dimentica), prolificano le aperture di boutique a New York, Londra, Palm Beach e Parigi. Ma c’è un problema: Aldo e Rodolfo litigano furiosamente fra di loro. A peggiorare la situazione è la terza generazione: i tre figli di Aldo — Giorgio, Paolo (nel film interpretato appunto da Jared Leto) e Roberto — e il figlio di Rodolfo, Maurizio (nel film Adam Driver). Nel 1982 Paolo decide di lasciare il gruppo e di lanciare un proprio marchio indipendente usando proprio il brand Gucci: verrà sanzionato dall’azienda madre ed estromesso definitivamente, dopo diverse diatribe decennali. Come se non bastasse suo padre Aldo viene condannato a un anno di prigione negli Stati Uniti per evasione fiscale. Le discussioni sul controllo del marchio sono all’ordine del giorno, tanto che verso la fine degli anni Ottanta quasi la metà di Gucci viene venduta a un fondo d’investimento. Ma è il 1995 l’anno che sconvolse la famiglia Gucci, quando il 27 marzo Maurizio Gucci viene assassinato a Milano. Ed è proprio attorno a questa vicenda che ruota la pellicola di Ridley Scott. Maurizio aveva sposato Patrizia Reggiani (Lady Gaga nel film) nel ’72, dopo averla conosciuta anni prima a un party nella città meneghina. Bellissima e affascinante, la Reggiani aveva attirato immediatamente le sue attenzioni. «Presentami la donna che somiglia a Liz Taylor», aveva detto lui a un amico comune. La love story dura ben tredici anni, con la nascita di due figlie: Allegra e Alessandra, che si sono sempre tenute lontane dai riflettori. Poi arriva il divorzio dopo che Maurizio lascia Patrizia per una donna più giovane, Paola Franchi, dicendole che stava partendo per un breve viaggio d’affari a Firenze e non facendo più ritorno. Come mandante del delitto sarà poi condannata proprio Patrizia Reggiani, che per molti anni si è presentata come Patrizia Gucci, in virtù del cognome del marito. Un problema enorme per la vera Patrizia Gucci, cugina di Maurizio e figlia di Paolo, che anni dopo racconterà di come questo caso di omonimia l’abbia enormemente danneggiata. Ma se pensate che l’albero genealogico della famiglia Gucci sia finito qua, vi sbagliate. Vi ricordate Giorgio? Uno dei tre figli di Aldo e fratello di Roberto e Paolo. Ecco, lui a sua volta ha avuto due figli, Alessandro e (un altro) Guccio Gucci, che dopo la vendita del marchio Gucci negli anni Novanta, hanno continuato a impegnarsi in un settore che fa parte del loro dna. Fondano così Esperienze srl, azienda di accessori e borse di lusso con sede a Scandicci. Ma se il nome non vi dice niente, forse vi ricorderete le primissime bag che i due fratelli hanno prodotto, le «To Be G», tra cui una capiente shopping di coccodrillo, pezzo a tiratura limitata del valore base di otto mila euro (in su). Purtroppo la breve vita della società è costellata da battaglie legali con Kering, per l’uso di loghi che richiamassero il nome di Gucci, di cui il gruppo francese era ed è proprietario. Infine, arriviamo a una delle più giovani della dynasty: Drusilla Gucci, che i più conoscono per la sua partecipazione all’Isola dei Famosi 2021. Giovanissima – 26 anni tra poco –, è la figlia di Stefania e Uberto Gucci, e nipote di Roberto, uno dei tre figli di Aldo. In altre parole, è la pronipote del Guccio Gucci fondatore della maison. Amante della moda – potrebbe essere altrimenti? – e star dei social network, Drusilla ha una laurea in lingue e fa la modella di professione. Eppure, nonostante faccia parte di una delle famiglie più in vista nel mondo del fashion, non si sa molto di lei. Vorrà dire che impareremo a conoscerla, forse, come naufraga del più longevo adventure game della televisione italiana.
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 16 aprile 2021. L' avvocato «amministratore di sostegno» di Patrizia Reggiani sospeso provvisoriamente dal giudice tutelare, il presidente di una sua società immobiliare rimosso dalla nuova tutela, Reggiani convocata venerdì scorso dal Tribunale civile, la figlia Allegra Gucci ascoltata come teste per 4 ore dal procuratore aggiunto di Milano, e sullo sfondo - oltre allo scontro tra madre e figlie per 35 milioni di vitalizio - una Fondazione beneficiata dal testamento della scomparsa madre di Patrizia, Silvana Barbieri: di questo passo, al regista Ridley Scott (che in Italia sta girando un film con Lady Gaga e Al Pacino sull' assassinio di Maurizio Gucci costato all' ex moglie 26 anni come mandante) toccherà fare già un sequel. Nel 2016-2017 Silvana Barbieri Reggiani, con il proprio avvocato Maurizio Giani, chiede al Tribunale di sottoporre ad amministrazione di sostegno la figlia Patrizia, che teme possa consentire la dissipazione della futura eredità. Alla propria morte, il 12 aprile 2019, Barbieri risulta aver fatto poco prima un testamento in cui lascia alla figlia la villa a Milano e un capannone di 10 mila metri quadri in via Mecenate (abbandonato da anni e gravato da una ipoteca del Fisco), ma incarica il proprio avvocato Giani, quale esecutore testamentario, di costituire una Fondazione alla quale destina un complesso immobiliare da almeno 14 milioni dietro la Stazione Centrale (130 tra appartamenti e negozi e box affittati), e 4 milioni cash (di cui sinora versati 100.000 euro). «Per cercare un punto di incontro» l' amministratore di sostegno Daniele Pizzi riferisce che «ero in trattative con Giani», presidente a vita della Fondazione: il quale, premettendo al Corriere di «non avere piacere a entrare nel merito dei componenti il cda», spiega che «ha esclusivamente fini di beneficenza a persone svantaggiate, anziani, minori, disabili in stato di bisogno». Ma lo scorso 19 marzo la giudice tutelare Ilaria Mazzei sospende provvisoriamente dalla tutela Pizzi (già alla ribalta quale legale della famiglia di Lidia Macchi nel processo a Stefano Binda), che amministratore di sostegno era diventato («con il placet di Barbieri tramite l' avvocato Giani») nel febbraio 2019, a Patrizia Reggiani più gradito dell' iniziale Paola Lovati. La sospensione è in attesa di chiarimenti (da Pizzi) e di verifiche (affidate al nuovo amministratore di sostegno Marco Accolla) sui rendiconti delle uscite, 3 milioni in due anni. «Ciascuna sottoposta a vaglio e autorizzazione del giudice», dice Pizzi, «inoltre il passaggio di Reggiani da nullatenente a capiente ha determinato sia il dovere di onorare i risarcimenti a Paola Franchi» (la compagna di Gucci) «e a Giuseppe Onorato» (il portiere ferito), «sia il ripresentarsi di avvocati e consulenti a chiedere le parcelle passate». Pagamenti fatti in parte dalle due società immobiliari: la «controllata» guidata da Marco Riva, 38enne manager dello sport eletto presidente del Coni Lombardia, e la «controllante» invece guidata da una casalinga che ora il nuovo amministratore di sostegno Accolla ha appena cambiato. In questo contesto Allegra Gucci - una delle due figlie dalle quali la madre mandante dell' omicidio del padre ha diritto (in base alla Cassazione del 2020) di ottenere un vitalizio di 1,1 milioni di franchi l' anno e 35 milioni di arretrati - ha deposto in Procura per 4 ore (senza l' avvocato Antonio Golino che pure l' aveva accompagnata) davanti alla pm Michela Bordieri e alla vice del procuratore Greco, Tiziana Siciliano.
Dagotraduzione dal DailyMail il 16 aprile 2021. La famiglia Gucci si è scagliata contro con il cast «orribile, orribile» e «brutto» del film sulla Maison Gucci con Lady Gaga e Adam Driver, diretto da Ridley Scott. Il film racconta la storia di Patrizia Reggiani e del suo matrimonio sfortunato con Maurizio Gucci. La donna è stata condannata nel 1998 per l'omicidio del marito, ucciso da un sicario. I membri della famiglia Gucci hanno espresso il loro sgomento dopo aver visto le foto paparazzate dal set: Al Pacino sarà Aldo Gucci, uomo chiave nella crescita internazionale del marchio di moda, e Jared Leto nei panni di Paolo Gucci, che ha contribuito al famoso logo a doppia G dell'azienda. Patrizia Gucci, una delle cugine di secondo grado di Maurizio, ha detto ad Associated Press che le foto di Leto con la testa calva vestito con un abito lilla erano «orribili, orribili. Mi sento ancora offesa». E su Aldo Gucci interpretato da Pacino: «Mio nonno era un uomo molto bello, come tutti i Gucci, alto, occhi azzurri, elegante. Nelle foto Al Pacino è grasso, basso, con le basette, davvero brutto. Vergognoso, perché non gli somiglia affatto». «La famiglia, continua la donna - è veramente delusa. Parlo a nome loro. Stanno rubando l'identità la nostra identità per realizzare profitti e per aumentare gli incassi del sistema hollywoodiano… La nostra famiglia ha un'identità, una privacy. Si può parlare di tutto, ma c'è un confine che non si può oltrepassare». All'inizio di questa settimana, il direttore della fotografia del film, Dariusz Wolski, ha descritto il film come una soap opera. «È una tragedia un po' kitsch, divertente e tragica, come una soap opera di alto livello», ha detto a Indie Wire. «E con cast pazzo». La moglie di Ridley Scott, Giannina Facio, ha incontrato la famiglia Gucci negli anni 2000 per discutere di un altro progetto che doveva concentrarsi sull'espansione globale dell'azienda guidata dal padre di Patrizia Gucci, Paolo, e dal nonno Aldo. Il presidente e amministratore delegato di Gucci, Marco Bizzarri, ha dichiarato a Women's Wear Daily che il marchio di moda ha concesso al film «totale libertà creativa». Ha detto: «Gucci sta collaborando con MGM e con [la società di produzione di Scott] la Scott Free Productions, fornendo accesso all'archivio storico della maison per i guardaroba e gli oggetti di scena». All'inizio di questo mese si è saputo anche che Salma Hayek, sposata con François-Henri Pinault, amministratore delegato e presidente di Kering, proprietaria di Gucci, si era unita al cast del film interpretando Giuseppina "Pina" Auriemma, l'amica chiaroveggente di Reggiani che è stata condannata a 25 anni di galera per aver organizzato l'omicidio facendosi pagare 250.000 sterline (circa 280mila euro). Il film, che uscirà ad ottobre, è tratto dal libro di Sara Gay Forden, "The House of Gucci: a Sensational Story of Murder, Madness, Glamour and Greed". Racconta la storia di Patrizia Reggiani, e del modo in cui ha architettato l'omicidio del marito, Maurizio Gucci, nel 1995. L'uomo fu ucciso da un sicario fuori dal suo ufficio di Milano. Reggiani, definita la "Vedova Nera" dai media italiani durante il processo, è stata scarcerata nel 2016 dopo aver scontato 17 dei 29 anni a cui è stata condannata. Gucci, nipote di Guccio Gucci, fondatore della casa di moda, aveva 46 anni quando morì.
Cinzia Romani per il Giornale il 16 aprile 2021. Adam Driver gira in bicicletta intorno alla Fontana delle Rane. Indossa occhiali a goccia, giubbino di renna, morbidi mocassini con fascetta di stoffa e morsetto della maison Gucci e, da bravo trasformista, l' attore americano sembra proprio l' imprenditore Maurizio Gucci, unico rampollo della dinastia dalla doppia G, mentre pedala elegante e senza l' ombra d' un pensiero. L' idea che la moglie Patrizia Reggiani possa farlo togliere di mezzo, con una calibro 32, il 27 marzo 1995, nell' androne di un palazzo di via Palestro, a Milano, neanche lo sfiora.
Moda&Morte. Fiction&realtà nel cuore di Roma, al Coppedé, l' affascinante quartiere gotico dove il maestro dell' horror Dario Argento girò L' uccello dalle piume di cristallo (1970) e Inferno (1984) e dove ieri Ridley Scott ha trasferito il set del suo nuovo film House of Gucci, giallo biografico in uscita a novembre, prodotto da Scott e dalla MGM e ispirato al romanzo The House of Gucci di Sarah Gay Forden. Il fatto è che Roma deve sembrare la Milano «da bere», per esigenze del copione di Roberto Bentivegna, quindi i tendoni gonfiabili oscurano le riprese, effettuate basse, come si dice in gergo, per tagliar via, in fase di montaggio, ogni particolare riconducibile al famoso quartiere della Città Eterna. Lady Gaga, che tra mille polemiche impersona la mandante di quell' omicidio, apparirà oggi, l' eterno foulard sulla parrucca da brunetta somigliante a Liz Taylor e una schiera di guardie del corpo a proteggerla dai curiosi. La sua fama di attrice, oltre che di cantante, si consolida, dopo il convincente A star is born. Intanto Patricia Gucci, figlia di Aldo, fondatore dell' omonimo marchio e zio di Maurizio, su Facebook attacca: «Dopo aver visto le immagini in anteprima di House of Gucci non posso stare a guardare». Suo padre, incarnato da Al Pacino, «è ritratto come un minuscolo delinquente sovrappeso, quando in realtà era alto, magro e con gli occhi azzurri», si sfoga. La donna non gradisce, poi, la scelta di Al Pacino, perché stereotipo negativo: ha interpretato perlopiù ruoli da gangster. Non è l' unica a impallinare il titolo più atteso del prossimo autunno, quando le sale cinematografiche saranno aperte. Patrizia Reggiani, imputata numero uno di tale storia nera, teme che il film destabilizzi emotivamente le figlie avute da Maurizio Gucci, Alessandra e Allegra. «Basta fango!», esorta colei che, comunque, resta al centro d' una vicenda criminale, per la quale ha scontato 17 anni di prigione a San Vittore, per lei il Victor Residence. Il bene non fa rumore. È cosa nota.
Da "lanazione.it" il 26 marzo 2021. "Dopo aver visto le immagini in anteprima di House of Gucci, che uscirà a novembre, non posso stare a guardare. Mio padre - Aldo Gucci, che ha trasformato Gucci da un unico negozio a Firenze a un fenomeno globale durante i suoi 30 anni come Presidente - è ritratto come un minuscolo delinquente sovrappeso, quando in realtà era alto, magro e con gli occhi azzurri. Era la personificazione dell'eleganza, applaudito da reali, capi di stato e leggendarie star di Hollywood". Patricia Gucci non ci sta, e in un lungo post su Facebook si scaglia contro il film di Ridley Scott sulla sua famiglia, 'House of Gucci', criticando aspramente il ritratto del padre che ne emerge. "Nel film - scrive la Gucci - è interpretato da Al Pacino, l'attore noto per il suo ruolo in Il Padrino come gangster e Scarface come spacciatore, in cui stigmatizza generazioni di italiani e latini. La sceneggiatura è basata su un libro di un autore che non ha mai incontrato mio padre ed è incentrato su Patrizia Reggiani (interpretata da Lady Gaga, ndr) - un'assassina condannata - e mio cugino Maurizio Gucci, che ha spietatamente messo da parte suo zio in una scalata ostile prima di mandare all'aria l'attività. Vederli glorificati dall'Olimpo di Hollywood e dall'acclamato regista Ridley Scott è incomprensibile". "La memoria di mio padre è troppo preziosa per essere calunniata - conclude la figlia di Aldo Gucci - Non è più qui per difendersi da questa apparente denigrazione. Per portare avanti la sua eredità, ho pubblicato il mio libro di memorie nel 2016 e ho rifiutato molte offerte per realizzare un adattamento cinematografico, per paura che eventi reali e personaggi venissero distorti a scopo di lucro". La storia, secondo l'erede della maison, "non dovrebbe essere rivisitata nell'interesse di vendere più libri e servizi di streaming. Il 2021 è il 100mo anniversario di Gucci come marchio, 70 dei quali come azienda familiare. Niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza il genio di Aldo Gucci". Set super blindato nel quartiere di Parco Leonardo, a Fiumicino, intanto, dove è stata girata una scena del film. Nulla è trapelato sulla presenza o meno della cantante ed attrice statunitense di origine italiana, che interpreta il ruolo di Patrizia Reggiani, condannata per la morte di Maurizio Gucci ucciso nel 1995. A quanto si è appreso, l'ambientazione del set con veicoli d'epoca degli anni '70, che quindi potrebbe aver avuto luogo senza la presenza di Lady Gaga, ha interessato i parcheggi sotterranei del grande centro commerciale presente nel quartiere. Qualche appassionato, comprese alcune famiglie, ha provato invano ad avvicinarsi al set, off limits, richiamato dai tanti Tir della produzione cinematografica parcheggiati nella zona di via del Perugino, non distante dalla stazione ferroviaria e dal centro commerciale, a ridosso della via Portuense.
"Memoria di mio padre calunniata", Patricia Gucci contro il film con Lady Gaga. La figlia di Aldo Gucci, fondatore dell'omonimo marchio di moda, ha affidato al web un lungo sfogo contro il registra Ridley Scott e la produzione internazionale che sta girando a Roma il film biografico: "Non posso tacere". Novella Toloni - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. Le riprese di "House of Gucci", il film diretto dal regista britannico Ridley Scott, proseguono a ritmo serrato tra Milano, Firenze e Roma. Ma la realizzazione della pellicola prodotta dallo stesso Scott in collaborazione con la casa di produzione statunitense Metro Goldwyn Mayer, sta suscitando non poche polemiche. A scatenarle è stata la stessa famiglia Gucci, prima tra tutti la figlia del fondatore Aldo Gucci, Patricia. Nelle scorse ore Patricia Gucci, 58 anni, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un duro sfogo contro la produzione, criticando aspramente il ritratto del padre che emerge dalla pellicola: "Dopo aver visto le immagini in anteprima di 'House of Gucci' non posso stare a guardare. Mio padre - Aldo Gucci, che ha trasformato Gucci da un unico negozio a Firenze a un fenomeno globale durante i suoi 30 anni come Presidente - è ritratto come un minuscolo delinquente sovrappeso, quando in realtà era alto, magro e con gli occhi azzurri. Era la personificazione dell'eleganza, applaudito da reali, capi di stato e leggendarie star di Hollywood". Nel film, che uscirà il prossimo novembre, Aldo Gucci è interpretato da Al Pacino. Nel cast anche Lady Gaga che veste i panni di Patrizia Reggiani, soprannominata Lady Gucci che, negli scorsi giorni, si era scagliata anche lei contro la produzione angloamericana per non essere stata contattata prima della trasposizione neppure dalla popstar che la interpreta. Nel lungo post di sfogo, Patricia Gucci si scaglia contro la produzione e il regista per aver realizzato un film sulla base di una sceneggiatura tratta da un libro del 2001 - "The House of Gucci: A Sensational Story of Murder, Madness, Glamour, and Greed" - non autorizzato sulla famiglia Gucci. Biografiche che si basa sullo zio, Maurizio Gucci, e sua moglie condannata per l'assassinio del marito: "La sceneggiatura è basata su un libro di un autore che non ha mai incontrato mio padre ed è incentrato su Patrizia Reggiani - un'assassina condannata- e mio cugino Maurizio Gucci, che ha spietatamente messo da parte suo zio in una scalata ostile prima di mandare all'aria l'attività. Vederli glorificati dall'Olimpo di Hollywood e dall'acclamato regista Ridley Scott è incomprensibile". Una memoria, quella del padre Aldo fondatore di un impero, "troppo preziosa per essere calunniata e oggetto di questa apparente denigrazione", ha continuato sui social network Patricia. La donna si è scagliata anche contro il cugino, Maurizio, "che doveva tutto a mio padre, che da giovane lo prese sotto la sua ala protettrice e lo trattò come un figlio. Mio padre non è stato impeccabile. Aveva un carattere leggendario e governava con il pugno di ferro. Con tenacia e lealtà alla sua famiglia si è guadagnato il rispetto di tutti coloro che hanno lavorato con lui, me compresa. Molte persone devono la loro carriera a lui. Il successo di Gucci è in gran parte dovuto a lui". Un aspetto che non sarebbe stato messo in luce nella pellicola che Ridley Scott sta ultimando in Italia e che lei oggi denuncia con amarezza. Lei stessa, nel 2016, ha scritto un libro di memorie sulla figura del padre e ha più volte rifiutato offerte per realizzare un adattamento cinematografico. "Per paura che eventi reali e personaggi venissero distorti a scopo di lucro. Non dovrebbe essere rivisitata nell'interesse di vendere più libri e servizi di streaming", ha concluso Patricia.
Da "oggi.it" il 31 marzo 2021. Sylvie Lubamba, la showgirl che con Patrizia Reggiani ha condiviso la cella per due mesi, dal novembre 2009 al gennaio 2010, rivela al settimanale OGGI, in edicola domani: «Mi ha impressionato quanto lei fosse a suo agio in carcere, quasi serena… Ripeteva spesso: non ho bisogno di nessuno. E, in effetti, rinunciava persino all’ora d’aria: o restava in cella o andava in biblioteca. Non veniva nemmeno a messa la domenica perché lo riteneva ipocrita. Tutte noi ci sfogavamo col cappellano, lei no». Poi rivela: «In prigione c’è l’obbligo di far la doccia ogni giorno ma lei si è sempre rifiutata e le guardie ormai non insistevano più. Si lavava a pezzi nel lavandino che usavamo per cucinare e il mercoledì, quando usciva in permesso, faceva la doccia a casa e andava dal parrucchiere. Per lei condividere la doccia era impensabile ma era sempre in ordine e profumata. La cella era piccola, brutta e vecchia, col bagno alla turca, eppure quando piangevo lei mi guardava perplessa: “Perché piangi? Per me qui è come stare in albergo”».
La moglie, il sicario e il delitto: quella "miscela" che uccise Maurizio Gucci. Il 27 marzo del 1995 un killer uccise Maurizio Gucci. Per il suo omicidio venne condanna l'ex moglie Patrizia Reggiani, accusata di aver assoldato un sicario, tramite diversi intermediari. La storia del caso che diventerà un film. Francesca Bernasconi - Mar, 23/03/2021 - su Il Giornale. Soldi, rancore e timore. Sono queste le tre componenti della "miscela esplosiva" che hanno portato, la mattina del 27 marzo 1995, alla morte di Maurizio Gucci, l'imprenditore italiano presidente dell'omonima casa di moda fino al 1993, ucciso mentre entrava nello stabile di via Palestro a Milano, dove aveva lo studio. Un omicidio che aveva condotto in carcere l'ex moglie dell'uomo, Patrizia Reggiani, accusata di essere la mandante del delitto, e altre quattro persone, tra cui gli esecutori materiali. E ora il delitto dell'imprenditore italiano diventerà un film: sono iniziate in Italia le riprese di "House of Gucci", diretto da da Ridley Scott, con protagonisti Adam Driver e Lady Gaga.
Il delitto Gucci. La mattina del 27 marzo 1995 Maurizio Gucci uscì dal palazzo in Corso Venezia, dove abitava, per recarsi a piedi nel vicino stabile in via Palestro, sede della società Viersee fondata da poco. Una volta arrivato davanti al portone dell'ufficio, Gucci non si accorse di quella Clio verde parcheggiata lì vicino. A bordo c'era il suo killer. Così verso le 8.30 Gucci entrò nel palazzo, ma fece appena in tempo a salire i pochi gradini che separano la portineria dall'androne: un uomo entrò nello stabile, gli sparò tre colpi alla spalla sinistra e al gluteo destro, poi si avvicinò, lo finì con un ultimo colpo alla tempia e si girò per andarsene. Fu allora che vide, poco dietro la porta di ingresso, il portiere dello stabile, che quella mattina stava facendo il suo lavoro, come sempre. Il sicario esplose due colpi anche in direzione dell'uomo, ferendolo a un braccio. Poi uscì di corsa e salì a bordo della Clio verde, guidata da un complice. Morì così Maurizio Gucci, erede della nota casa di moda. E da quel momento iniziò il caso che, tra indagini, operazioni sotto copertura e colpi di scena, ha tenuto col fiato sospeso l'Italia degli anni '90. Le prime indagini si concentrarono sugli affari della vittima, che pochi anni prima aveva ceduto il marchio delle due G alla società araba Investcorp, già proprietaria del 50% del pacchetto azionario. Inizialmente le ricerche condussero gli investigatori in Svizzera: "Una pista precisa non c'è ancora - aveva rivelato il sostituto procuratore che si occupò del caso Carlo Nocerino, come riportò l'Unità all'epoca - anche se quella che riguarda le ultime operazioni finanziarie concluse dalla vittima sembra la più attendibile". Per questo si iniziò a ricostruire luci e ombre degli affari di Maurizio, passando al setaccio vecchie e nuove conoscenze, per capire se qualcuno in campo finanziario potesse avere interesse a uccidere l'uomo. Ma dopo mesi di indagini in quel campo non emerse nulla. E per due anni nessuna novità scosse il caso Gucci.
Carlos, sotto copertura tra i killer. A dare una svolta alle indagini fu una telefonata, arrivata alla Criminalpol la sera dell'8 gennaio 1997, quasi due anni dopo la morte dell'imprenditore. All'altro capo del filo c'era un uomo, Gabriele Carpanese, che chiese di parlare con il vicequestore Filippo Ninni, sostenendo di avere informazioni sull'omicidio di Maurizio Gucci. Secondo le sue dichiarazioni, dietro al delitto ci sarebbe stata la mano di Patrizia Reggiani, ex moglie della vittima, che avrebbe chiesto all'amica Giuseppina Auriemma di trovarle un killer. La donna quindi si sarebbe rivolta a Ivano Savioni (con cui Carpanese era venuto in contatto, raccogliendo le sue confidenze sul caso Gucci), che avrebbe assoldato Benedetto Ceraulo e Orazio Cicala. Gli inquirenti non persero tempo e inviarono l'informatore, munito di una cimice, a parlare con Savioni che, durante la conversazione, chiese a Carpanese di trovare un sicario per fare pressioni sulla Reggiani, di modo da chiederle più soldi. A quel punto si presentò agli inquirenti l'occasione perfetta per infiltrare un proprio uomo: così nacque il personaggio di Carlos, un colombiano senza scrupoli. "Prima di incontrare Savioni, ho fatto un paio di telefonate in albergo per chiedere di Gabriele. Parlavo spagnolo", aveva raccontato l'agente sotto copertura all'Unità. Poi avvenne il primo incontro in una saletta dell'albergo dove lavorava Savioni: "Ho avuto la sensazione che Savioni volesse mettermi alla prova - continua Carlos nell'intervista - Non ho mai detto una parola in italiano, Gabriele faceva da interprete. Quindi, mi offrono una tazzina di caffè, mi chiede se voglio lo zucchero aspettando una risposta immediata. Io non faccio una piega, guardo le altre due tazzine, avevano del latte. Rispondo in spagnolo 'no, non prendo latte'. Poi parliamo della Colombia. Gabriele gli presenta il mio curriculum di pericoloso killer legato alla mafia di Medellin". Poi l'occasione: Savioni diede a Carpanese le chiavi della sua auto, inviandolo al ristorante insieme al colombiano. Il fortunato avvenimento permise agli inquirenti di piazzare sulla macchina le microspie necessarie a carpire informazioni. L’incontro successivo avvenne dopo una settimana: "Savioni mi aveva fatto sapere tramite Gabriele che gli serviva aiuto per spillare nuovi soldi a Patrizia Reggiani". Conversazioni registrate, rivelazioni raccolte e passi falsi fecero giungere gli investigatori a una conclusione del tutto distante dagli affari finanziari dell'imprenditore, che erano stati al centro delle indagini subito dopo l'omicidio. E per i componenti della banda che ha organizzato e portato a termine il delitto scattarono le manette, il 31 gennaio del 1997: l'accusa era quella di omicidio premeditato e tentato omicidio.
Le condanne. Benedetto Ceraulo venne accusato di aver premuto materialmente il grilletto quella mattina del marzo 1995, mentre Orazio Cicala lo aspettava alla guida della Clio verde. I due, secondo i giudici, erano stati assoldati dal portiere d'albergo Ivano Savioni, che a sua volta era stato contattato da Giuseppina Auriemma, una "maga", come la definì la stampa del tempo. La Auriemma era amica intima di Patrizia Reggiani: a lei l'ex signora Gucci rivelava pensieri e desideri, tra cui anche quello di sbarazzarsi di Maurizio. "Io credo che il ruolo di Pina Auriemma sia stato determinante nella vita della Reggiani - ha rivelato a IlGiornale.it la criminologa e psicoterapeuta Margherita Carlini - lei stessa disse che nell'Auriemma aveva trovato la persona con cui confidarsi e forse senza di lei la Reggiani non sarebbe riuscita a esternare questi aspetti così negativi come la volontà di uccidere". Secondo la procura, il piano per l'omicidio dell'ex marito costò alla Reggiani 600 milioni di lire. Il 2 giugno 1998 iniziò il processo: c'erano cinque persone accusate di aver organizzato e messo in atto il piano che portò alla morte di Maurizio Gucci. E il 3 novembre dello stesso anno la Corte d'Assise di Milano dichiarò tutti gli imputati "colpevoli dei reati a loro ascritti", condannando la Reggiani a 29 anni di carcere quale mandante dell'omicidio e l'Auriemma a 25 anni, riconoscendola come intermediaria. A Savioni e Cicala venne riconosciuta una pena pari rispettivamente a 26 e 29 anni di reclusione, mentre per Ceraulo che aveva sparato il giudice decise di applicare l'ergastolo. I giudici di secondo grado, di fatto, confermarono la colpevolezza di tutto il gruppo, ma la sentenza della Corte d'Appello di Milano del 17 marzo 2000 ridusse le condanne: 26 anni per Patrizia Reggiani, 19 anni e 6 mesi per Pina Auriemma, 28 anni 11 mesi e 20 giorni a Ceraulo, 26 a Cicala e 20 a Savioni. L'ex signora Gucci fece ricorso in Cassazione, che il 19 febbraio 2001 confermò la sentenza di secondo grado, riconoscendo la donna come mandante dell'omicidio. Il movente sarebbe stato un insieme tra l'aspetto passionale e quello economico: "Quello che i giudici riportano - spiega la criminologa Carlini - è una sorta di miscela esplosiva, cioè una serie di variabili che hanno influito sulla decisione di compiere il delitto. Si tratta di tre elementi: in primo luogo il rancore dovuto alla percezione di un'estromissione da un certo status, in seconda battuta il timore di perdere l'eredità e l'avidità legata all'assegno di mantenimento che la Reggiani si vedeva diminuire e infine una componente importante è stata quella emotiva e passionale". Nonostante le perizie Patrizia Reggiani non venne mai dichiarata incapace di intendere e di volere, ma secondo i giudici di primo grado la donna soffriva di un disturbo della personalità di tipo istrionico-narcisistico. Ma cosa significa? "la persona istrionica è caratterizzata anche dalla manifestazione esasperata di determinati vissuti - spiega la criminologa - e con narcisistica si intende una personalità che può avere difficoltà ad accettare e gestire il rifiuto. Nel corso del processo la difesa aveva provato a chiedere il vizio di mente, anche legandolo al tumore al cervello per cui la Reggiani era stata operata, ma poi la capacità di intendere e di volere venne dichiarata integra, perché venne riconosciuta un'organizzazione nelle fasi precedenti e successive all'evento".
La "Liz Taylor della griffe". Patrizia Reggiani, che negli ambienti del jet set internazionale era stata soprannominata la "Liz Taylor della griffe" per la somiglianza con l'attrice statunitense, si dichiarò "non colpevole". "Non posso dirmi innocente - aveva rivelato la donna in un'intervista rilasciata a Franca Leosini per il programma Storie Maledette - per tutti gli svarioni che sono andata in giro a dire". Gli "svarioni" a cui allude la Reggiani sono le frasi, ripetute nel corso del tempo, circa la volontà di uccidere Maurizio Gucci. Patrizia divenne la signora Gucci nel 1973 ma nel 1985, dopo la nascita delle due figlie Alessandra e Allegra, Maurizio lasciò la moglie per un'altra donna, Paola Franchi. Nel 1992 la Reggiani e Gucci divorziarono ufficialmente. Ma in quegli anni in Patrizia crebbe sempre più velocemente un rancore cieco e l'allontanamento dell'ex marito anche dalle figlie aumentò la voglia di vendetta. "Dicevo: 'Trovatemi un killer, lo voglio morto' - riconosceva la Reggiani parlando con la Leosini - Ma quale moglie non ha detto io lo ammazzerei e non lo ha detto con degli amici? Se avessimo trovato tante Pina Auriemma avremmo meno mariti in circolazione". Queste confidenze però non vennero fatte solamente all'Auriemma. La Reggiani infatti offrì due miliardi di lire alla governante nel 1991, chiedendole se suo marito avesse potuto organizzare l'omicidio di Maurizio e nel 1994 chiese consiglio all'avvocato, per capire cosa sarebbe successo in caso avesse ucciso Gucci. "Per Patrizia, Gucci era diventato un'ossessione", spiega al Giornale.it la criminologa Carlini. Poi l'ossessione degenerò nel delitto: "Lei ha compiuto un percorso, ricorrente negli omicidi all'interno di coppie, che scaturisce dalla mancata capacità di gestire l'abbandono, che genera una frustrazione. Man mano che si susseguono i rifiuti, l'ossessione d'amore si trasforma in rabbia e in voglia di vendetta". Non si tratta di un cambiamento repentino, ma di un percorso in cui sono stati fondamentali alcuni "elementi di svolta: la separazione, l'abbandono delle figlie, l'intenzione di sposare un'altra donna". Non solo. La Reggiani venne operata anche di tumore al cervello e "la malattia per lei ebbe un valore molto importante, di destabilizzazione". Così Gucci passò "dall'essere la sua ossessione all'essere una 'escrescenza da recidere', come lo definì lei stessa". Ma non ci fu odio dietro alle sue azioni, stando a quanto ha dichiarato la Reggiani in un'intervista al Corriere della Sera: "Nessun odio. Io non odiavo Maurizio. Non l’ho mai odiato. È stata stizza, la mia. Mi stizziva". Dopo aver trascorso 17 anni nel carcere di San Vittore, nel 2014, Patrizia Reggiani venne affidata ai servizi sociali e nel 2017 tornò libera:"Ho pagato quello che dovevo, avendo fatto uccidere il mio ex marito".
Su 7, Pina Auriemma: «Aiutai Patrizia Reggiani a cercare il killer di Maurizio Gucci: ci penso ogni giorno». Greta Privitera su Il Corriere della Sera l'11 dicembre 2021. L’ex amica e complice del delitto Gucci: «Mi hanno definita “la maga” ma non è vero, erano lei e Maurizio a essere ossessionati dalla lettura delle carte. Quando lui la lasciò impazzì e l’amore diventò rabbia. Poi mi chiese di trovare qualcuno che lo uccidesse...»
Patrizia Gucci con l’amica Pina Auriemma durante una vacanza in montagna. Questo servizio è stato pubblicato sul numero di 7 in edicola (e su Digital Edition) venerdì 10 dicembre. Lo proponiamo online per i lettori di Corriere.it. Buona lettura
Da destra, due modelle in piedi sorseggiano un cappuccino, uomini con il turbante parlano seduti su divani di pelle color cognac, una mamma impellicciata intrattiene la figlia agitando i braccialetti d’oro come fossero maracas, un ragazzo giapponese beve champagne. Poi, in fondo a sinistra, lontano da tutti, c’è lei. Il corpo raddoppiato dagli specchi giganti, i capelli bianchi. È avvolta in un maglione verde acqua, troppo largo. Gira la testa in tutte le direzioni, sembra stare in guardia. Poi ci vede e fa cenno di sederci. Siamo in uno dei ristoranti più lussuosi di Milano. Sotto gli affreschi di un ex convento che affaccia su un elegante chiostro al centro del quadrilatero della moda, incontriamo Giuseppina Auriemma, detta Pina, l’amica di Patrizia Reggiani ex moglie di Maurizio Gucci, entrambe condannate per il suo omicidio. Ha scontato 13 anni a San Vittore poi, nel 2010, è tornata in libertà. Auriemma ci dà appuntamento in questa sala. Una zona tra le più ricche della città, a qualche metro dai negozi più amati dal jet set meneghino. «Non frequento queste zone di Milano, preferisco altri quartieri più periferici», ci dirà fra poco. Accanto c’è l’avvocato Pietro Traini, che è tornato a occuparsi di lei da quando è stato annunciato il film House of Gucci , una grande produzione americana di Ridley Scott, con Lady Gaga, Adam Driver e Al Pacino. Un film-evento, in uscita il 16 dicembre, che ha riportato la vicenda dell’omicidio Gucci sui giornali di tutto il mondo. Traini è una delle poche certezze che le sono rimaste, lei vuole essere dimenticata e questa notorietà non cercata fa fatica a gestirla da sola. Pina ordina branzino e vino bianco e, con forte accento napoletano, dice: «Auriemma non è una maga. Scrivetelo. Non ha mai fatto le carte. Sono tutte fake news. Credo che anche in House of Gucci mi facciano passare per stregona, ma non ho ancora visto il film».
Quindi lei non legge i tarocchi?
«No che non li leggo, non sono una maga, che se lo mettano in testa. Sono tutte stronzate, non ci ho mai creduto, è un insulto alla mia intelligenza continuare a identificarmi con una strega. Credo che anche nel film mi diano quella parte, nonostante l’abbia detto già molte volte che è tutta un’invenzione. Gli appassionati di magia erano Patrizia e Maurizio, non muovevano un dito senza consultare i cartomanti».
Racconti.
«Ci credevano e ci andavano spessissimo e a me è capitato di accompagnarli. Maurizio consultava le carte anche per decisioni che riguardavano il lavoro. Chi doveva assumere, cosa doveva fare. Mi scontravo con Patrizia su questo argomento».
Nel film Patrizia è Lady Gaga, lei è Salma Hayek. Che cosa pensa di questa scelta?
«Sono contenta, Salma Hayek è una donna bellissima. Certo, ai tempi ero anche io una bella signora, ma non così bella».
Andrà a vederlo?
«All’inizio ho pensato di non andare, non voglio essere identificata con quel passato. È un peso troppo grande che porto addosso da tantissimi anni, quel dolore preferisco viverlo nel mio privato, e voglio che la gente si dimentichi di Pina Auriemma».
Poi ha cambiato idea?
«Un’associazione di volontariato mi ha chiesto di vederlo in un multisala fuori Milano, i soldi andranno in beneficenza. Ci andrò con l’avvocato Traini, un uomo a cui devo molto».
Che cosa le fa più fatica ricordare?
«Che è morto un uomo, no? Era una brava persona, un padre di due bambine. Aveva solo 47 anni. Non c’è giorno che non pensi a Maurizio e a quello che gli è successo».
Ma lei è stata condannata per questo omicidio.
«Sì, sono stata superficiale. Ora sono una persona diversa. Se ai tempi avessi avuto questa testa avrei denunciato Patrizia che chiedeva di ucciderlo».
Ma è lei che ha trovato il portiere che poi ha messo in contatto Patrizia Reggiani con il killer.
«Sì, ma doveva essere una truffa, non un omicidio. Questa è l’ultima volta che lo racconto, è andata così: Maurizio si è messo con un’altra donna e Patrizia è impazzita. Tutto l’amore che aveva l’ha trasformato in rabbia. Andava in giro per la città chiedendo se qualcuno volesse uccidere l’ex marito. Inizialmente pensavo fosse solo un momento passeggero poi ho capito che faceva sul serio e per tenerla buona ho pensato a una truffa».
Quale?
«Le ho detto che avrei trovato qualcuno disponibile ad ammazzare Maurizio. Ho contattato Ivano Savioni, era il portiere di un piccolo albergo di Milano. Non era un criminale, aveva solo bisogno di qualche soldo. Ma in realtà non c’era nessun vero piano per uccidere. Volevo tenere buona Patrizia e far sì che non accadesse nulla».
È un po’ strano tenere buona un’amica con una truffa.
«In realtà no, non lo è. Nella mia testa, pensavo che con gli anni il suo desiderio di vendetta sarebbe scomparso, e quindi anche l’idea dell’omicidio».
Ma non andò così.
«No. Un giorno venne da me e mi disse: “Pina, è passato tantissimo tempo. Maurizio è ancora vivo”. Mi chiese il contatto di Ivano Savioni e da quel momento fece tutto lei, io sono uscita di scena. Organizzarono senza di me».
Si ricorda quel 27 marzo 1995, il giorno dell’omicidio?
«Eccome. Facevo colazione nel bar di un albergo in zona Buenos Aires, a Milano. C’era la tv accesa e al telegiornale apparve la notizia: Maurizio Gucci ucciso nell’androne del suo ufficio in via Palestro. Mi sono sentita malissimo, ho chiamato Patrizia in panico. All’inizio lei era arrabbiata perché si pensava che il killer avesse ucciso il portiere del palazzo e non Maurizio. La sua reazione mi ha sconvolta».
E poi?
«Stavo male, mi sentivo svenire e Patrizia mi ha mandato un medico in albergo. La sua freddezza è la cosa che mi ha fatto più impressione».
In che senso?
«Non sembrava per niente scossa. Dopo il funerale mi ha anche confidato di aver comprato il vestito nero e la veletta che indossava tre mesi prima dell’omicidio».
Come siete diventate amiche?
«Ci siamo incontrate in un hotel, a Ischia, facevamo le terme. Avevamo un’amica in comune e piano piano ci siamo avvicinate. Stava con Maurizio, si amavano. Lui la riempiva di fiori, spendeva milioni di lire al mese per lei».
Invidiava il loro stile di vita?
«Per niente. Sicuramente erano ricchi, ma avevano una vita normale, niente ostriche e champagne. È una stupidaggine che dicono di me questa dell’invidia. Io venivo da una famiglia che stava bene, lavoravo. Ho aperto un negozio Gucci a Napoli, ma poi l’ho chiuso. Con loro ho fatto una vacanza in Grecia, una in Sardegna e qualche giro a St. Moritz, ma niente di che. Patrizia si appoggiava molto a me».
In che modo?
«Quando Maurizio l’ha lasciata, mi chiamava a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ero diventata il suo punto di riferimento. Non era accettata tra le donne dell’alta società milanese, stava meglio con me. Io l’ascoltavo e le volevo bene, credevo fossimo vere amiche. In quel periodo mi chiese di raggiungerla nella sua casa di New York: stava malissimo».
Ci è andata?
«Sì, siamo state chiuse un mese nel suo appartamento nell’Olympic Tower in centro città. Una casa bellissima, l’aveva arredata lei con una squadra di operai lombardi. In quel lunghissimo mese non siamo mai uscite di casa, io avevo paura di lasciarla sola, si riempiva di psicofarmaci, temevo si facesse del male. Un giorno sono dovuta andare a fare la spesa e quando sono tornata, l’ascensore che portava direttamente nell’appartamento aveva le pareti di cuoio tutte graffiate e stracciate. È stato un momento difficile».
Che cosa la faceva più arrabbiare?
«Quando Maurizio si è fidanzato con un’altra donna ha anche venduto le sue azioni Gucci. Voleva dire che le loro figlie non avrebbero rilevato l’azienda. Questo fatto la mandava in bestia. Un’altra ossessione era l’Oeil Bleu, una delle ville della famiglia a St Moritz. L’ha sempre amata, la voleva per lei».
Si è mai data una spiegazione di quello che è successo?
«La perizia psichiatrica del processo ha stabilito che Patrizia soffre di una grave forma di narcisismo. Lei voleva il potere, che coincideva con il cognome. Voleva essere la signora Gucci. A Patrizia non mancavano i soldi, il patrigno le aveva lasciato una cospicua eredità. Il punto però era quel posto nella società, per lei e per le sue figlie».
Prova odio?
«No, solo indifferenza. Mi spiace per le sue figlie. Meno male che io non ne ho».
Figli?
«Sì, perché quello che è successo li avrebbe distrutti. Voglio proteggere anche la mia famiglia a Napoli, e per questo vivo a Milano. Mi manca la mia città, ma preferisco restare qui, nell’ombra».
Come vive oggi?
«In una casa popolare in una zona periferica della città. Vivo con la pensione sociale e va bene così».
Non sogna più una vita di agi?
«Non l’ho mai sognata davvero. Sogno un po’ di pace. Il carcere mi ha cambiata».
In che modo?
«Sono entrata in contatto con storie e sofferenze inimmaginabili. Ora faccio volontariato».
Di che si occupa?
«Aiuto il prete di una parrocchia vicino a casa con i minori migranti, e poi aiuto i vecchietti del mio palazzo con la tecnologia: non sanno usare whatsapp».
Com’era Maurizio Gucci?
«Un uomo bravo, gentile, forse un po’ manipolabile. La mamma è morta che lui era ancora piccolo, Maurizio aveva dei problemi di salute e il padre lo ha fatto crescere in montagna, a St. Moritz, per respirare aria buona. Credo che quell’infanzia vissuta ai margini non l’abbia aiutato».
E Patrizia Reggiani?
«All’inizio mi sembrava una persona simpatica, brillante. Sicuramente era una brava madre».
È pronta a vedere una parte della sua vita sul grande schermo?
«Sinceramente no. L’ho già detto: voglio essere dimenticata».
Delitto Gucci, l’ex moglie Patrizia Reggiani: «Ho fatto ammazzare Maurizio per stizza». L’ex moglie, mandante dell’omicidio: «Quando conobbi Maurizio non mi piacque, aveva lo sguardo di un pesce lesso e capelli che non si potevano vedere». Andrea Galli il 20 marzo 2021 su Il Corriere della Sera. Patrizia Reggiani è dapprima una silenziosa indagatrice del prossimo, del quale studia corpo e abbigliamento, mossa dall’evidente aspirazione a individuare eventuali armonie e disarmonie dell’essere umano e della sua presenza in scena, in questo caso il salotto della villa a tre piani più torre tra il tribunale e la sinagoga dentro il quale, sotto il suo sguardo severo, si muove leggero il personale di servizio. Patrizia Reggiani sa gestire il tempo e le lunghe immote pause in presenza di un estraneo, forse eredità dei quasi vent’anni di carcere a San Vittore per essere stata la mandante dell’omicidio dell’ex marito Maurizio Gucci, assassinato nel 1995. Ma è, Patrizia Reggiani, una donna che a domanda risponde, pur se lei evoca ricordi e finge di non rammentare dettagli salvo proporli poi, più avanti, fuori sincro, oppure scandisce così netta alcune frasi chiudendo i margini di ulteriori approfondimenti, o ancora mantiene inalterato il basso tono di voce senza distinzione fra gli argomenti, non manifestando quali concetti siano preferibili e quali interrogativi fastidiosi. Sono le diciassette. È reduce da una seduta di fisioterapia. Nessuna fotografia riflette le sue dimensioni assai minute, elegantemente corredate di bracciali e anelli che non esibisce: seduta sul divano, tiene infatti le mani basse, incrociate. Ha settantadue anni. Offre un chinotto con cubetti di ghiaccio e una torta mimosa di rara bellezza, ma mai come i piattini sui quali poggiano le fette e che osserva soddisfatta. Il programma di giornata proseguirà con la cena e la visione dell’intervista dei reali inglesi Meghan ed Harry.
Come nacque la storia con Gucci?
«Ci trovammo a uscire in quattro. Io e il ragazzo con cui flirtavo, e una mia amica che faceva lo stesso con Maurizio. Andavamo al Nephenta, in piazza Diaz, e negli altri migliori locali di Milano. Ho sempre adorato far tardi e, di conseguenza, svegliarmi tardi. In sincerità lo facevo anche in carcere. Comunque: dopo le iniziali uscite a quattro, trascorsero dei giorni, delle settimane. Ci divertivamo un mondo. Cene, feste, eventi… Seppi dall’amica che Maurizio mi aveva messo gli occhi addosso, fin dall’inizio, e che a un certo punto lei si era arresa, lasciandogli il campo libero. Soltanto che io non mi ero accorta di un bel niente. Quei suoi occhi sembravano quelli di un pesce lesso, e comunque ero la regina di Milano, insomma, bisognava andarci piano con me… Quando quel quartetto si sgretolò, perché le due coppie sparirono in virtù della creazione di una sola – quella formata da me e Gucci – e iniziai a stare con lui, per prima cosa lo portai dal parrucchiere. I capelli con la brillantina non si potevano vedere. Per la verità, nemmeno un dente mezzo rotto che aveva sul davanti».
Insomma, non fu colpo di fulmine.
«In lui cresceva lo slancio a mia completa insaputa. Zero proprio».
E invece che cosa successe?
«Successe».
Fu amore?
«È stato amore, grande amore. Senza dubbio».
Siete stati felici?
«Sì».
Davvero?
«Sì.»
E fu anche passione?
«Non pari all’amore nelle fasi originali. Io ero illibata».
Che coppia siete diventati?
«Siamo stati una bella coppia. Fin quando si sono messi in mezzo dei suoi amici. Hanno fatto gruppo contro di me e lì è iniziata la rovina. Una costante opera di isolamento».
Per quale motivo?
«L’hanno fatto e basta».
Nella degenerazione del matrimonio l’amore s’è lentamente trasformato in odio? La coppia si incrina e frantuma, dilaniata da incomprensioni, litigi, ripicche, suo marito che la abbandona per un’altra mentre lei si ammala di una bestia atroce… Per questo ha deciso di farlo uccidere? Odio?
«Nessun odio. Io non odiavo Maurizio. Non l’ho mai odiato. È stata stizza, la mia. Mi stizziva. Andavo dal salumaio e domandavo se conoscesse qualcuno che ammazzava la gente. Pensare che anni prima, avevano assassinato un conoscente di Maurizio e ci trovammo a parlarne. Eravamo alle Galapagos. Io ripetevo – e non mentivo – che non ne sarei mai stata capace. Mai».
Dunque fu la stizza? Si commissiona un assassinio per la stizza?
«Così le ho detto».
Da allora a ora. Il 27 marzo 1995. Corso Venezia. Un sicario. Una pistola calibro 32. Proiettili destinati a Maurizio Gucci; ha 46 anni e per dieci è stato presidente del marchio di moda; lascia la casa in corso Venezia 38, attraversa la strada e prende via Palestro; entra nel palazzo al civico 20 dove ha sede la sua nuova società, la Viersee; cammina; il killer gli sta dietro, spara, lo uccide, scappa. Due anni di indagini a vuoto, forse depistate dal labirinto infinito dei milioni e milioni di lire fra aziende, banche, località estere, tracce che esplorano l’alta finanza e i suoi segreti, debiti e prestiti, scenari che aprono interconnessioni con sceicchi arabi e contabili svizzeri. Indagini riaperte e concluse grazie a una soffiata. Cinque arrestati. Tre uomini, due donne. Benedetto Ceraulo: muratore e il killer; Orazio Cicala, imprenditore devastato dai debiti di gioco e l’autista del sicario; Ivano Savioni, portiere d’albergo nella zona di via Lulli, hotel a ore per amanti, e l’organizzatore dell’agguato; Giuseppina Auriemma, che si spacciava per cartomante e sensitiva, l’intermediaria; infine lei, Patrizia Reggiani. Una banda di scappati di casa anziché un commando di fuoco. E invece…
Li ha più rivisti o sentiti?
«Quelli della banda bassotti, i tre, no».
La maga?
«Nemmeno».
Si dice che già due persone che condividono un segreto sono troppe.
«Auriemma mi chiamava una, due, tre volte al giorno. Parlava, commentava…».
Ma trascorsero due anni, la polizia aveva dei sospetti – forti sospetti – senza riuscire però a individuare uno straccio di indizio. Forse lei, Patrizia, credeva che non vi avrebbero mai scoperto. Ma era un esercizio razionale? Un delitto così mediatico, così oggetto di pressioni affinché venisse risolto, ambientato a Milano, quella Milano…
«Quando la governante mi avvisò dell’arrivo degli agenti, questi dissero che sarei finita in carcere ma per poche ore. Due, tre giorni al massimo e tornavo a casa».
Ha avuto ammiratori, mentre era a San Vittore?
«Un uomo mi ha scritto a lungo. Prometteva che, uscita, avrei trovato uno yatch in dono. Trenta metri di lunghezza».
L’ha trovato?
«No, ma quello aveva smesso di scrivere».
Donne le hanno spedito lettere?
«No».
Mitomani?
«Parecchi».
Che cosa volevano?
«Non ne ho idea».
Ha paura?
«Paura?»
Che cos’è stato il carcere?
«Quando ho iniziato a usufruire dei permessi premio, non vedevo l’ora di tornare in cella. Stare fuori mi spaventava. Mi spaventavano, come dire, le molteplici complicazioni nella gestione della mia esistenza successive alla cattura e alla detenzione… Dentro, in prigione, mi sentivo al sicuro».
E adesso che è definitivamente libera?
«Ho avuto la fortuna, a San Vittore, di avere come direttore Luigi Pagano. Averlo, è stato un privilegio per me e centinaia di detenuti. Lo penso spesso».
Da allora a ora. Stanno girando a Milano il film sulla storia di Patrizia Reggiani. Ridley Scott il regista, fra i protagonisti Al Pacino. Hanno già chiuso le riprese a Roma e Gressoney. Lei sarà interpretata da Lady Gaga.
«Va bene, mi somiglia».
Ha conosciuto qualcuno della produzione?
«Nessuno. Avevano cercato mia mamma, ma con me non si sono fatti vivi, non hanno mandato nulla… Vedrò lo stesso il film, spero nei cinema finalmente riaperti».
Non teme che, non avendola consultata, magari usciranno inesattezze, verranno adottate soluzioni narrative non aderenti alla realtà?
«Non ne vedo il motivo. Dovrei?».
Uno dei dati è la distanza temporale tra lei e Milano. Si è persa vent’anni, di questa città. Una trasformazione epocale nell’urbanistica, nel tessuto sociale, nell’anima della borghesia...
«Di allora mi mancano i miei locali. Nient’altro».
Sono rimasti angoli del cuore?
«Mai avuti».
Forse vorrebbe vivere altrove?
«Mah. Forse New York. Avevamo un magnifico attico, nella Olimpic Tower. Vedevo il mondo dall’alto. È una sensazione che mi dà pace e soddisfazione».
Lei pensa alla morte?
«La attendo.»
In che senso?
«Sono divorata dalla curiosità di sapere come possa essere».
E come potrà essere?
«Appunto, mi piacerebbe scoprirlo. Verrò cremata, le ceneri lanciate in mare dal mio antico veliero. Poi, forse, mi reincarnerò».
In chi o cosa?
«Spero una coccinella».
Ne ha viste mai a San Vittore?
«Due. Non so come, erano riuscite a entrare. Uno spettacolo magnifico. Piccole, leggere, eleganti, colorate, riservate. Dentro un carcere. Quel carcere».
La galera è l’unico luogo dove si tocca veramente l’anima delle persone?
«Si è nudi. Disperati. Ma intendiamoci: solidarietà, d’accordo, però io stavo per i fatti miei e così gli altri stavano per i fatti loro».
Stasera vedrà l’intervista ai reali. Le sarebbe piaciuto vivere a corte?
«Forse. Per il gusto di osservare tutto e tutti con lo sguardo della stilista».
Si dice che i processi non raccontino mai l’intera verità, nemmeno quando si completano i gradi in Cassazione. Rimangono delle venature, degli angoli nascosti, a volte degli innocenti condannati e dei colpevoli in libertà…
«Ho pagato quello che dovevo, avendo fatto uccidere il mio ex marito. Non di più, non di meno».
Angela Geraci per il Corriere della Sera il 10 gennaio 2021. Avvolta in un tailleur rosa confetto, con anelli e bracciali che accompagnano i gesti eleganti, gli inseparabili occhialoni neri stretti in una mano e lo sguardo volitivo di sempre: Patrizia Reggiani, ex Lady Gucci, racconta con calma e fierezza la sua vita a 26 anni dall’omicidio del marito Maurizio Gucci, assassinato a Milano nel 1995. Un delitto per cui è stata condannata come mandante e per cui ha passato 17 anni in carcere. Contraddittoria, a tratti sconcertante, sempre fedele a se stessa, Reggiani non rinnega nulla del suo passato e concede di affacciarsi al suo presente nel documentario «Lady Gucci - La storia di Patrizia Reggiani», disponibile dall’11 gennaio sulla piattaforma Discovery+ (qui la clip). Una intervista lunga un’ora e un quarto - il condensato di decine di ore registrate - che mostra senza filtri «una donna magnetica che non può lasciare indifferenti e che ha una storia da romanzo, da film», dice Marina Loi che con Flavia Triggiani è autrice del documentario. E così, comodamente seduta in poltrona, vediamo Lady Gucci, oggi 72enne, ricordare l’incontro con il futuro marito («Vidi che aveva una macchina piccola e io, abituata a ben altro, pensai: “Che sfigato”»), il matrimonio sfarzoso (anche se senza la famiglia di lui che la considerava un’arrampicatrice sociale), l’esistenza scintillante accanto all’erede della famosa dinastia della moda fra viaggi, case da capogiro e feste esclusive. «Facevo una vita incredibile», ammette con gli occhi che le brillano ancora. Sullo sfondo: la Milano degli anni Sessanta, Settanta e poi Ottanta, attraversata da Patrizia Reggiani Gucci con leggerezza e volontà d’acciaio, sempre immersa nel lusso estremo. «È una donna che ha sempre amato il bello e che ha ottenuto tutto ciò che voleva», continua Loi. È per questo probabilmente che Patrizia Reggiani vive dapprima con incredulità la decisione di Maurizio Gucci di lasciarla dopo 13 anni di matrimonio e con due bambine piccole («Anche se avevo sempre una tata, va be’»). Poi subentra il rancore: «Sono arrivata anche a odiare Maurizio in certi giorni poi però la famiglia è sempre la famiglia». I due si separano («Mi sono stupita che avesse le valigie già pronte») ma lei resta sempre la signora Gucci. Le cose cambiano quando lui le chiede il divorzio: ha una nuova compagna, Paola Franchi. Sono anni di litigi e accuse (in una telefonata lei gli dice: «Sei un’escrescenza deforme, sei un’appendice dolorosa [...] l’inferno per te deve ancora venire») che portano a un accordo di divorzio stellare: Patrizia riceverà l’equivalente di un milione di euro all’anno. Ma quando Maurizio Gucci decide di sposarsi di nuovo, nella ex moglie inizia a farsi strada l’idea di farlo eliminare. È il 1994, un anno prima del delitto. Patrizia Reggiani racconta candidamente: «Andavo in giro e chiedevo a tutti, anche al salumaio: “Ma c’è qualcuno che ha il coraggio di ammazzare mio marito?». E ancora: «Io ho un difetto, non so mirare e non conosco la portata di una pistola: non lo potevo fare da sola. E ho trovato questa “Banda Bassotti” che me lo ha fatto». Entrano in scena allora la maga napoletana Pina Auriemma, grande amica poi diventata nemica, e gli altri tre uomini condannati poi insieme alle due donne per il delitto: Maurizio Gucci viene ucciso la mattina del 27 marzo 1995 con tre colpi di pistola nell’androne di casa. Ci vorranno due anni e un’indagine cinematografica (l’«operazione Carlos» della Criminalpol) per scoprire la verità dietro l’omicidio che ha sconvolto la «Milano da bere». «Non pensavo che mi avrebbero beccato», ammette senza giri di parole Reggiani. Arrivano i processi, le condanne e i 17 lunghi anni trascorsi nel carcere di San Vittore: «Victor’s Residence lo chiamo io - va avanti imperturbabile l’ex Lady Gucci -. Mi sono trovata benissimo lì, sono stati anni di pace: dormivo, mi lavavo e scendevo giù in giardino, avevo un trattamento speciale». In effetti durante la reclusione Patrizia Reggiani avrà anche un furetto e rifiuterà la semilibertà («Non ho mai lavorato, preferisco restare in carcere a curare le mie piante»). «Il carcere non l’ha cambiata - sintetizza il suo avvocato, Daniele Pizzi - è stata piuttosto lei a cambiare il carcere». Oggi Patrizia Reggiani vive con un pappagallo e un cagnolino bianco, circondata da collaboratori che l’aiutano nella gestione del suo patrimonio. È rimasta sola dopo la morte della madre e le figlie non vogliono avere più nulla a che fare con lei. «Adesso? - conclude - Mi manca di risorgere». Ancora una volta.
La faida infinita di casa Gucci: madre e figlie scaricano Patrizia. La Reggiani è pronta al decreto ingiuntivo contro Alessandra e Allegra. E la mamma Silvana l'ha diseredata. Luca Fazzo, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Dice Patrizia Reggiani: «Andavo in giro fin dal salumaio a chiedere: ma c'è qualcuno che ha il coraggio di ammazzare mio marito?». Dice Pina Auriemma: «L'unica cretina che le ha dato retta sono stata io». Così morì Maurizio Gucci, l'erede del marchio italiano più famoso al mondo. E così, un quarto di secolo dopo, lo raccontano sua moglie Patrizia e la maga di lei Pina Auriemma, davanti alle telecamere di Discovery+. Erano amiche, confidenti, una foto d'epoca le mostra una accanto all'altra, i segni del benessere. Oggi sono due vecchie, che hanno passato tanti anni di carcere. Ma il carcere non le ha livellate. Pina è povera, alle sue spalle si vede un tinello dimesso. Patrizia è ricca, a milioni. E a breve lo sarà ancora di più. Perché i soldi del marito che ha fatto ammazzare le arriveranno. E a darglieli dovranno essere Alessandra e Allegra, le due figlie che ha reso orfane facendo ammazzare Maurizio in via Palestro, il 27 marzo 1995, dalla squadra di balordi arruolata dalla maga Auriemma. Nei prossimi giorni, Patrizia Reggiani farà partire il decreto ingiuntivo contro le figlie, che si rifiutano di dare corso alla sentenza della Cassazione di due mesi fa. La sentenza dice che a Patrizia spettano, con venticinque anni di arretrati, i soldi del vitalizio che Gucci le aveva garantito al momento del divorzio. Più di un milione di franchi l'anno; con gli interessi fanno una montagna di soldi. Trenta milioni di euro, o giù di lì. Si capisce che le due figlie, protette dalla residenza svizzera, cerchino di svicolare. E si capisce che la mamma non molli il colpo. Così la telenovela del delitto più glamour che Milano abbia mai visto va avanti all'infinito. A fare da sfondo, come giusto, è una location cupa, quasi macabra: il castellotto gotico, all'angolo tra via Guastalla e via Andreani, che è la nuova casa di Patrizia Reggiani. Una dimora sontuosa ma buia, con le persiane perennemente chiuse. Qui vive la donna che ebbe la bella idea di fare ammazzare l'uomo che la manteneva nel lusso. Ma che si era trovato un'altra donna. E poi, racconta oggi la Reggiani a Discovery, «Maurizio aveva quattro case a Sankt Moritz e non ce ne voleva dare neanche una». Vederlo morto divenne un'ossessione. Patrizia: «Io ho un difetto, non so mirare. Avrei dovuto trovare questa Banda Bassotti che me l'hanno fatto». E la Auriemma, che reclutò gli esecutori: «Ma per me doveva essere una truffa, questi non sapevano maneggiare una pistola, non avevo nessuna intenzione di fare uccidere Maurizio». Sul documentario («Lady Gucci», firmato da Flavia Triggiani e Marina Loi) incombe una figura: quella di Silvana Barbieri, la madre di Patrizia. É lei la vera dark lady di questa storia. Una mamma terribile (Auriemma: «Cosa si può dire di una madre che chiama la figlia bastarda?») che alleva Patrizia con l'unico obiettivo della arrampicata sociale, della caccia al marito ricco; che poi coltiva in lei l'odio contro Maurizio Gucci, «il traditore», fino a quando entrano in scena i sicari. Ma che quando la figlia finisce in carcere fa di tutto per impadronirsi dei suoi soldi, fino alla richiesta di farla interdire per amministrarne i beni. Ora la Barbieri è morta, ultranovantenne. Al momento di aprire il testamento si è scoperto che si è tolta l'ultima soddisfazione: ha diseredato Patrizia, lasciandole solo la quota legittima. Dello sterminato patrimonio immobiliare, centoventi appartamenti a Milano, ha fatto lascito a una fondazione benefica. Quel che è rimasto, è bastato a Patrizia Reggiani per comprarsi il villone tenebroso a due passi dal tribunale, e a chiudere gli ultimi conti con la giustizia: i risarcimenti al portinaio di via Palestro azzoppato dagli assassini e a Paola Franchi, l'amica che le rubò il marito. Ma una che quando incontrò Gucci per la prima volta lo considerò «uno sfigato» non si accontenta facilmente. L'obiettivo di Patrizia sono i trenta milioni che le figlie non vogliono mollare. Conoscendo la sua caparbietà, c'è da scommettere che ci riuscirà. Chi l'ha detto che il delitto non paga?
· Il Mistero di Maria Chindamo.
Alessia Candito per repubblica.it il 6 gennaio 2021. Uccisa e data in pasto ai maiali o fatta a pezzi con un trattore per far sparire ogni traccia del suo corpo. Secondo il pentito Antonio Cossidente, sarebbe stata questa la tragica fine di Maria Chindamo, imprenditrice di Laureana di Borrello, nel reggino. Ufficialmente è scomparsa da tre anni, ma investigatori e familiari da tempo ne sono certi. È una delle tante vittime di lupara bianca, “gli spariti”, ammazzati e sepolti in tombe senza nome, privando i familiari anche di spoglie su cui piangere. A condannarla ad una fine senza storia – ha rivelato il pentito Cossidente – sarebbe stato Salvatore Ascone “U pinnularu”, narcotrafficante nell’orbita del clan Mancuso e vicino di casa di Chindamo, qualche anno fa arrestato per aver manomesso il sistema di videosorveglianza nella proprietà della donna proprio la sera prima della sua sparizione. Per lui, inquirenti e investigatori avevano ipotizzato un ruolo – ma non da protagonista – in quella scomparsa, che più probabilmente ritenevano legata ad una vendetta della famiglia dell’ex compagno della donna, morto suicida dopo essere stato lasciato. Adesso però emergono altre motivazioni che potrebbero aver armato la mano del killer. Sui terreni della vittima – ha rivelato Cossidente nel corso di un interrogatorio del 7 gennaio 2020 anticipato dalla testata “Il Vibonese” - Ascone aveva da tempo messo gli occhi. Ma l’imprenditrice non aveva mai avuto l’intenzione di cederglieli, alle sue pretese avrebbe sempre detto no. E quel rifiuto lo avrebbe pagato con la vita. Tutti dettagli che il pentito ha appreso da Emanuele Mancuso, primo collaboratore di giustizia del potente casato mafioso di Limbadi, che con lui era entrato in confidenza in uno dei momenti più delicati del suo percorso. Da mesi i familiari facevano pressione perché facesse un passo indietro, “lo minacciavano sulla bambina – spiega Cossidente - dicendogli che doveva ritrattare altrimenti non gliela avrebbero più fatta vedere”. I tentacoli del clan, che in quei mesi tentava di mettersi al riparo dalle rivelazioni della sua prima “gola profonda”, si erano allungati fin dentro al carcere, dove anche alcuni detenuti avevano avvicinato Mancuso per convincerlo ad un passo indietro. Incontri – racconta Cossidente – che lo lasciavano estremamente turbato. “Ricordo che io gli preparavo il caffè, fumava come un turco perché lui non voleva collaborare più, perché diceva: "Non mi fanno vedere la bambina, mi minacciano, mettono in mezzo la bambina che non c'entra niente, per me è la cosa più bella della mia vita”. E toccava a lui, pentito da oltre dieci anni, convincerlo a resistere a quelle pressioni, armi fra le più comuni usate dai clan per minare i percorsi di collaborazione di chi decide di saltare il fosso. Ed è nel corso di una di queste lunghe chiacchierate che Mancuso gli avrebbe rivelato nuovi particolari sulla morte dell’imprenditrice. “Mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c'era di mezzo questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna, in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà”. Per Ascone era un ostacolo e avrebbe ordito un vero e proprio piano per rimuoverlo, facendo per di più ricadere i sospetti su altri. “Emanuele – si legge nei verbali di interrogatorio di Cossidente - mi ha detto che in virtù di questo l’ha fatta scomparire lui, ben sapendo che se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe certamente ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché l’uomo dopo che si erano lasciati, si era suicidato”. L’obiettivo era uno: “entrare in possesso di quei terreni”. I metodi per distruggere ogni traccia, barbari. “Mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali” riferisce il pentito. Dichiarazioni che in parte coincidono con quelle di Mancuso, che con i magistrati a lungo ha parlato dell’ingordigia di Ascone. “Lui – ha raccontato - aveva interesse ad acquisire i terreni di proprietà dei vicini e, per timori circa possibili misure di prevenzione nei suoi confronti, era solito pagarli prima in contanti, per evitare la tracciabilità dei pagamenti, lasciarli formalmente intestati agli originari proprietari, per acquisirli successivamente attraverso l’usucapione”. Se in quelle dichiarazioni ci fossero riferimenti alla tragica fine di Maria Chindamo, non è dato sapere. I verbali del pentito sono ancora coperti da larghi omissis. Ma quanto anticipato da Cossidente di certo apre nuove piste utili forse per fare luce sulla fine dell’imprenditrice e permettere ai familiari di trovare pace e perché.
“Maria Chindamo data in pasto ai maiali”. Il fratello: "Un pugno nello stomaco". Le Iene News l'08 gennaio 2021. Il collaboratore di giustizia Antonio Cossidente ha raccontato particolari terribili sulla misteriosa morte di Maria Chindamo, imprenditrice scomparsa nel 2016 nelle campagne di Limbardi in Calabria. “Leggere queste cose è stato come un pugno allo stomaco", ci dice il fratello di Maria. Noi de Le Iene ci siamo occupati di questo caso con Nina Palmieri. “Emanuele Mancuso mi disse che Maria Chindamo venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali”. Sono atroci i dettagli emersi sulla misteriosa morte di Maria Chindamo, imprenditrice di 44 anni scomparsa il 6 maggio 2016 a Limbardi in Calabria, di cui ci siamo occupati nel servizio di Nina Palmieri che potete vedere qui sopra. Maria Chindamo sarebbe stata uccisa e il suo corpo dato in pasto ai maiali o macinato con un trattore. Lo ha raccontato alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Antonio Cossidente, collaboratore di giustizia ex componente del clan dei Basilischi. "Leggere queste cose è stato un pugno nello stomaco", dice il fratello di Maria, Vincenzo, contattato da Iene.it. "Mi si è gelato il sangue. Mi rendo conto che la fine di Maria non possa essere stata una fine dignitosa, ma violenta e intrisa di criminalità. Ma leggere questi dettagli, immaginarla sotto un trattore o mentre un maiale che le sbrana il viso ci ha fatto girare la testa". Il motivo dell’uccisione, secondo quando ha riportato il collaboratore di giustizia, sarebbe stato quello di punirla per essersi rifiutata di cedere un terreno a Salvatore Ascone, indagato per l'omicidio dell'imprenditrice. "Ammesso che sia vero, può essere che questo sia stato uno dei motivi", sostiene Vincenzo. "Ma non è secondo me il movente assoluto. Credo ci sia stata una convergenza di motivi che si è abbattuta su di lei. Sappiamo per certo che la famiglia dell'ex marito di mia sorella, Nando, aveva ostilità nei confronti di Maria in seguito alla morte di lui". "Sono passati quattro anni da quando mia mamma è stata fatta sparire, sequestrata e uccisa”, aveva detto a Nina Palmieri il figlio di Maria, Vincenzino. Dal giorno della sua scomparsa, di lei non si è saputo più nulla. Fino appunto a questo inizio di 2021. “Mi sono convinto che c’è qualcuno che sa”, ci aveva detto il figlio. “Non è possibile che nessuno sappia niente”. Maria viveva con la sua famiglia a Rosarno, in un contesto difficile dal quale cercava di emanciparsi. Parlando con la mamma e il fratello della donna emerge il ritratto di una persona dinamica, indipendente. Conosce giovane il suo amore: Nando. Ma dopo vent’anni di matrimonio iniziano i problemi tra i due. Nel 2015 Nando, il marito, si toglie la vita e le due famiglie, quella di Nando e quella di Maria, si allontanano sempre di più. “Loro pensavano che la colpa era di Maria”, racconta la mamma della donna a Nina Palmieri. Secondo quanto ci ha raccontato nel servizio il fratello di Maria, Vincenzo, la donna sarebbe stata accusata di essere in qualche modo responsabile del suicidio di suo marito. Maria cerca di riscattarsi e ripartire. Lavora nell’azienda agricola di famiglia che dopo la morte di Nando è passata alla sua gestione. Fino alla mattina del 6 maggio 2016. Quel giorno l’auto di Maria viene ripresa alle 6.58 mentre si dirige verso il comune di Limbardi, dove c’è la sua azienda. Secondo quanto ci ha raccontato il fratello, Maria avrebbe avuto un appuntamento alle 7 con un operaio che doveva fare dei lavori. Ma arriva in ritardo e l’operaio fa un ulteriore ritardo. Così quando Maria arriva con l’auto davanti al cancello è sola. Dopo circa 10 minuti Vincenzo, il fratello, riceve una telefonata: è un operaio che vive nell’azienda. Gli dice che Maria non c’è ma che c’è la sua macchina. “È accesa, però fuori è piena di sangue, macchiata di sangue”, dice al telefono l’operaio. Vincenzo si precipita sul posto e trova la macchina accesa con macchie di sangue dappertutto. “Avrà cercato di difendersi”, dice alla nostra Nina, “è stata aggredita brutalmente e portata via”. Partono le indagini e vengono vagliate diverse piste, sia quella economica che quella legata alla famiglia di Nando a cui vengono sequestrati decine e decine di mezzi per fare accertamenti. Ma non si trova nulla. E nemmeno le telecamere di fronte al cancello dell’azienda di Maria, quella mattina, vedono qualcosa, “Sono piazzate su quella casa e su quel palo quella mattina non hanno visto niente. La Procura ha detto che sono state manomesse”, dice Vincenzo. Secondo la procura, il regista di quella manomissione sarebbe stato Salvatore Ascone, proprio la persona alla quale, secondo il collaboratore di giustizia che ha parlato, Maria si sarebbe rifiutata di cedere un terreno. L’agguato a Maria si sarebbe consumano proprio di fronte alla proprietà di Ascone. Nina Palmieri ha cercato di parlare con lui diverse volte, senza riuscirci. Accusato di aver manomesso il sistema di videosorveglianza, Ascone fu arrestato nel luglio 2019, ma poi scarcerato dal Tribunale del riesame. Ora stanno emergendo nuovi dettagli su questa tragica vicenda. Antonio Cossidente ha detto di aver appreso i particolari sulla vicenda da Emanuele Mancuso, primo pentito della sua famiglia. “Emanuele Mancuso mi disse anche che in virtù di questo rifiuto della Chindamo a cedere le proprietà, Pinnolaro (Salvatore Ascone, ndr) l’ha fatta scomparire”: sono queste le parole del verbale di Cossidente riportate dall’Agi. “Ben sapendo che se le fosse successo qualcosa la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché il marito o l’ex marito dopo che si erano lasciati si era suicidato. Quindi questo Pinnolaro sapendo delle vicende familiari della donna, sarebbe stato lui l’artefice della vicenda per entrare in possesso dei terreni e poi far ricadere la responsabilità sulla famiglia del marito in modo da entrare in possesso di quei terreni”. "L'interesse sui terreni di Maria è una cosa possibile", commenta il fratello Vincenzo. "Che potrebbe però essere incastrata in un movente a mio avviso più complesso. Come reazione al solo motivo del non aver ceduto il terreno mi sembrerebbe esagerata, di solito si passa per le intimidazioni. Invece Maria non ci ha mai detto di essere preoccupata per tali motivi". “Purtroppo questa è una terra in cui l’omertà sembra una cosa normale”, ci aveva detto Vincenzino, il figlio di Maria. “Ma se non siamo noi a dare l’esempio le cose non cambiano”. Per questo ci eravamo uniti all’appello della famiglia di Maria, che rinnoviamo: chi sa parli.
(ANSA l'11 ottobre 2021) La famiglia di Dora Lagreca "esclude il suicidio" e chiede "la verità" sulla morte della trentenne, deceduta a Potenza nella notte tra l'8 e il 9 ottobre scorso dopo essere precipitata da un balcone al quarto piano di una palazzina di via Di Giura, nel quartiere Parco Aurora del capoluogo lucano. Attraverso l'avvocato Revinaldo Lagreca, i famigliari mettono in evidenza che "non c'era alcuna sintomatologia che potesse far pensare a un suicidio".
Carlo Macrì per corriere.it l'11 ottobre 2021. È indagato per istigazione al suicidio Antonio Capasso, il fidanzato di Dora La Greca, la trentenne precipitata dal quarto piano, sabato mattina, a Potenza. La procura dopo averlo ascoltato nuovamente lo ha iscritto nel registro degli indagati. Il giovane nel corso del primo interrogatorio aveva sostenuto di non essere riuscito a fermare la fidanzata che dopo aver scavalcato la ringhiera si è buttata, finendo prima su una parabola satellitare e poi sul prato. Dora non è morta subito, ma dopo due ore di agonia all’ospedale San Carlo.Tra i due c’era stata una violenta discussione, forse per motivi passionali, sfociata nella decisione di Dora di farla finita.
La gelosia, la lite, la caduta. Indagato il fidanzato di Dora. Nino Materi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'uomo accusato di istigazione al suicidio, ma l'esito dell'autopsia potrebbe aggravare la sua posizione. Un giallista avrebbe pochi dubbi sullo sviluppo giudiziario di questa brutta storia. Al momento gli elementi in mano agli investigatori non sono ancora «univoci e concordanti» (ad esempio manca il risultato fondamentale dell'esame autoptico, in programma oggi) tuttavia la ricostruzione della morte di Dora Lagreca, 30 anni, sembra indicare una strada precisa. Che non è certo quella del «suicidio volontario». Almeno così come l'ha descritto il compagno della vittima, Antonio Capasso, 30 anni, disoccupato: unico testimone (al momento indagato per istigazione al suicidio, ma la sua posizione potrebbe aggravarsi) della drammatica fine della fidanzata, precipitata due notti fa dal balcone dell'appartamento che la coppia condivideva a Potenza. Un volo di 12 metri che non ha lasciato scampo alla giovane, spirata all'ospedale «San Carlo» del capoluogo lucano dov'era stata ricoverata dopo l'allarme lanciato dallo stesso Capasso. Per lui, nell'immediatezza della tragedia, un primo interrogatorio durato 5 ore; ieri una seconda convocazione nella caserma dei carabinieri, conclusa con la formalizzazione del capo d'accusa: istigazione al suicidio. La procura di Potenza si è mossa con rapidità. Trovando riscontri al racconto di Capasso e soprattutto verificando le ragioni di quell'«acceso litigio» che ha fatto da prologo al dramma. Dora Lagreca era una donna affascinante, nel suo passato anche qualche book fotografico da aspirante modella. Ma cosa ha spinto Capasso a trasformarsi in un «istigatore di morte»? La solita parola intinta nel veleno dell'ossessione: gelosia. Macchina infernale generatrice di deliri, sospetti e offese. Si può aggredire una donna anche con la «semplice» violenza delle parole. Fino a liquefare i sentimenti, spingendo ad ammazzarsi. La conferma nelle testimonianze dei vicini: «Nella notte tra venerdì e sabato abbiamo sentito urla e rumori provenienti dalla casa della coppia». Poi, un tonfo: il corpo della giovane che precipita dal quarto piano. Cosa c'è all'origine di questo volo senza ritorno? Il fidanzato corre per le scale a piedi nudi, tenta di prestarle soccorso, ma Dora è già agonizzante. Originaria di Montesano sulla Marcellana (Salerno), si era trasferita in Basilicata da qualche mese dopo essere stata assunta come ausiliaria scolastica in un istituto di Tito, un paese dell'hinterland potentino. Era felice del nuovo lavoro. Familiari e amici concordano su un punto cruciale: «Dora non si sarebbe mai suicidata». Del resto anche le ore precedenti alla disgrazia documentano una serata passata allegramente in comitiva, un clima sereno con tanto di stories, foto e commenti social. Ma sulla pagina facebook, spunta pure un post di tenore diverso, un messaggio accorato sul tema dei femminicidi. Dora scrive: «La maggior parte delle violenze non sono commesse da persone col passamontagna che aspetta dietro l'angolo. A commetterle sono invece persone conosciute». Uno sfogo che potrebbe essere messo in relazione con quanto di brutto le è accaduto? Capasso si difende: «La amavo, quando ha minacciato di uccidersi ho sottovalutato le sue parole. Ho cercato di fermarla, ma era troppo tardi. Non le avrei mai fatto del male». I genitori di Dora pregano per la figlia. Invocano la giustizia divina. Ma hanno diritto anche alla giustizia umana. Nino Materi
Dora Lagreca, la ragazza morta a Potenza: la lite col fidanzato, poi il volo dal balcone. Carlo Macrì, inviato a Potenza, su Il Corriere della Sera l'11 ottobre 2021. La ragazza morta a Potenza: a che punto sono le indagini. L’assistente scolastica di 29 anni è precipitata dal quarto piano dopo un’accessa discussione con il convivente. Lui agli investigatori: «Non ce l’ho fatta ad afferrarla». Disposta l’autopsia. Prima un’accesa discussione con il fidanzato, alle 2,30 di sabato le grida, le minaccia di farla finita. Poi la caduta giù dal quarto piano della mansarda dove vivevano in affitto, di fronte il parco dei Comuni, una zona residenziale di Potenza. Se si sia trattato di un suicidio o di un omicidio, saranno l’autopsia e le indagini dei carabinieri ad accertarlo. La morte di Dora Lagreca, 29 anni, originaria di Arenabianca, frazione di Montesano della Morcellina (Salerno), ma da tempo residente a Potenza, resta avvolta nel mistero. Il procuratore di Potenza Francesco Curcio non si sbilancia: «Stiamo ancora indagando e non è il caso di fare alcuna ipotesi. Lavoriamo cercando di capire quello che è realmente successo in quelle ore». Domani ci sarà l’autopsia sul corpo della ragazza, da poco in servizio come assistente scolastica in un istituto di Tito, a pochi chilometri da Potenza. Il fidanzato Antonio Capasso, non è indagato. Sabato mattina per diverse ore è stato interrogato dal magistrato e dal capitano dei carabinieri Alberto Calabria. Ha raccontato la sua versione dei fatti. La coppia venerdì sera era andata in pizzeria con alcuni amici. Tra divertimento, brindisi e quattro chiacchiere la serata era trascorsa in allegria, senza che nessuno dei presenti potesse immaginare cosa sarebbe accaduto di li a qualche ora. Dora e Antonio hanno lasciato gli amici e si sono diretti a casa. La discussione sarebbe iniziata già in macchina, per poi continuare con toni piuttosto accesi una volta arrivati nella casa dove convivevano solo da qualche mese. Dora era entusiasta del nuovo lavoro, l’aveva confidato anche alle sue amiche; Antonio, invece era in cerca di una occupazione. I due stavano insieme da poco e, comunque, la loro unione sembrava filare senza particolari problemi. Cosa sia accaduto tra le mura domestiche l’ha raccontato Antonio, anche nei particolari. La discussione animata, forse per motivi sentimentali, si era fatta molto tesa. Dora avrebbe aperto una delle due finestre della mansarda minacciando di farla finita, buttandosi dal terrazzino. Una sfida che Antonio avrebbe sottovalutato tanto che quando la donna ha aperto il balcone ed è uscita fuori correndo, lui l’avrebbe seguita e, quando lei ha scavalcato la ringhiera non molto alta lui avrebbe tentato di afferrarla. «Non ce l’ho fatta» avrebbe detto rispondendo alle domande degli inquirenti. Ha visto la fidanzata precipitare ed è corso, a piedi nudi, giù per cercare di prestarle soccorso. Dora nel cadere ha sbattuto la testa contro un’antenna parabolica che sporgeva sulla facciata dell’edificio prima di finire nel giardino. Le urla del fidanzato hanno svegliato i condomini. Trasportata al vicino ospedale San Carlo la ragazza è morta due ore dopo. Dora Lagreca era una ragazza solare. La sua vera passione erano i tatuaggi: ne aveva tantissimi. Il sindaco di Arenabianca Giuseppe Rinaldi ha detto di lei: «Era un fiore delicato, profumato, bello, pieno di affetto, simpatia e voglia di vivere».
La tragedia a Potenza. Cade dal quarto piano dopo lite furibonda col fidanzato, Dora muore a 30 anni dopo 2 ore di agonia. Vito Califano su Il Riformista l'11 Ottobre 2021. È un caso la morte di Dora Lagreca: 30enne, assistente scolastica, che nella notte tra venerdì e sabato è precipitata dal quarto piano dell’appartamento in affitto dove viveva, a Potenza. È morta dopo due ore di agonia all’Ospedale San Carlo. Poco prima della tragedia una furibonda lite con il fidanzato. Sul caso indagano i carabinieri diretti dal capitano Alberto Calabria. Lagreca era originaria di Arenabianca, una frazione di Montesano della Morcellina, provincia di Salerno. Viveva in un appartamento, una mansarda, in via di Giura. Erano più o meno le 2:30 di sabato quando si è verificato l’incidente. Il suo fidanzato è un giovane al momento in cerca di occupazione. È stato interrogato per cinque ore dai carabinieri. Al momento non è indagato. La sera prima i due erano usciti, erano stati in pizzeria con amici. Una serata apparentemente come tante. Una lite sarebbe scoppiata tra i due una volta rientrati a casa. Una lite piuttosto accesa. Il ragazzo avrebbe riferito nell’interrogatorio che dopo quella discussione la ragazza avrebbe cominciato a urlare e a minacciare di buttarsi giù dal terrazzino della mansarda. La caduta da 12 metri. La 30enne è finita in un prato, nel cortile del palazzo. Prima di atterrare aveva sbattuto la testa contro un’antenna parabolica. Non è morta sul colpo. Il ragazzo ha detto di aver tentato di afferrarla mentre scavalcava la ringhiera del terrazzino della mansarda. “Stiamo ancora indagando e non è il caso di fare alcuna ipotesi. Stiamo ancora cercando di capire quello che è accaduto in quelle ore”, ha riferito Francesco Curcio, capo della procura di Potenza. Domani l’autopsia sul corpo della donna. Il ragazzo potrebbe essere nuovamente interrogato.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Morte Dora, era completamente nuda Aggrappata al parapetto prima del volo. Affari Italiani il 13/10/2021. La morte di Dora, la 30enne precipitata dal balcone di una casa di Potenza, dopo un litigio con il fidanzato, resta avvolta nel mistero. La ragazza - si legge sul Corriere della Sera - dopo essere volata dal quarto piano, potrebbe essersi aggrappata al parapetto del balcone, prima di cadere nel vuoto. Forse nell’estremo tentativo di salvarsi. È un’ipotesi su cui starebbe lavorando la procura. Ieri i Ris hanno portato via gran parte della lamiera che copre il parapetto per cercare di individuare eventuali tracce di Dna della donna. I carabinieri del reparto investigazioni scientifiche hanno lavorato tutta la giornata e a tarda sera sono andati via dalla mansarda portandosi dietro cinque valigie di materiale che sarà passato ai raggi x per cercare di trovare qualcosa di utile all’indagine. Altro particolare emerso in questo giallo potentino è - prosegue il Corriere - che Dora è caduta dalla mansarda completamente nuda. Ieri l’autopsia sul cadavere della ragazza non ha fornito molti particolari. I periti si sono riservati prima di dare risposte ai quesiti posti dalla procura. La discussione sarebbe nata dopo che i due fidanzati hanno lasciato la festa di laurea di una loro amica. Sarebbe iniziata già in macchina per poi proseguire nel mini appartamento al quarto piano che il ragazzo aveva da poco preso in affitto, condividendolo con Dora.
Dora Lagreca, l’ipotesi dei pm sulla morte: «Si è aggrappata al parapetto». Quando è caduta era nuda. Carlo Macrì, inviato a Montesano sulla Marcellana (Salerno) su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2021. Dora Lagreca, dopo essere volata dal quarto piano, a Potenza, potrebbe essersi aggrappata al parapetto del balcone, prima di precipitare nel vuoto. Forse nell’estremo tentativo di salvarsi. È un’ipotesi su cui starebbe lavorando la procura. i Ris hanno portato via gran parte della lamiera che copre il parapetto per cercare di individuare eventuali tracce di Dna della donna. I carabinieri del reparto investigazioni scientifiche hanno lavorato tutta la giornata e a tarda sera sono andati via dalla mansarda portandosi dietro cinque valigie di materiale che sarà passato ai raggi x per cercare di trovare qualcosa di utile all’indagine. Altro particolare emerso in questo giallo potentino è che Dora è caduta dalla mansarda completamente nuda. Ieri l’autopsia sul cadavere della ragazza non ha fornito molti particolari. I periti si sono riservati prima di dare risposte ai quesiti posti dalla procura. La famiglia ha nominato come proprio consulente l’ex maresciallo dei carabinieri Vegermino Testa, già comandante del Ris di Salerno. I familiari vogliono sapere se, prima che, abbia subito qualche violenza. «Al momento non mi sembrano esserci elementi che possano far presumere esserci stata una colluttazione o un litigio tra i due nelle fasi antecedenti la morte della giovane», ha detto l’avvocato Domenico Stigliani, difensore di Antonio Capasso, il fidanzato di Dora indagato dalla procura per istigazione al suicidio. In verità tra Dora e Antonio una discussione c’è stata. L’ha riferito lo stesso legale. La discussione sarebbe nata dopo che i due fidanzati hanno lasciato la festa di laurea di una loro amica. Sarebbe iniziata già in macchina per poi proseguire nel mini appartamento al quarto piano che il ragazzo aveva da poco preso in fitto, condividendolo con Dora. Poco dopo aver fatto rientro nel monolocale, i due fidanzati avrebbero continuato a discutere animatamente. È a quel punto — secondo il racconto del ragazzo — che Dora avrebbe pronunciato la frase, «adesso la faccio finita» che potrebbe esse stata solo un tentativo di provocare Antonio. E nel dirlo la giovane avrebbe aperto il balcone del monolocale che si trova a circa un metro dal parapetto. «Forse la ragazza voleva dimostrare qualcosa al fidanzato e si è lanciata, dopo aver aperto il balcone senza calcolare la distanza del muretto e a quel punto non è riuscita a fermarsi — è l’ipotesi dell’avvocato Stigliani —. Antonio avrebbe cercato di afferrarla senza riuscirci. È corso sotto e alle 2.27, come testimonia la chiamata fatta dal cellulare, ha avvertito il 118». Sette minuti dopo l’ambulanza aveva già preso a bordo Dora, che respirava ancora. Il ragazzo ha poi avvertito i suoi genitori, ma non quelli della fidanzata perché i carabinieri gli hanno detto che ci avrebbero pensato loro. La relazione tra Dora e Antonio andava avanti, tra alti e bassi, da un anno. A volte si lasciavano, sono stati lontano anche per mesi, ma poi bastava una telefonata di lui per riappacificarsi. I due fidanzati avevano gli stessi hobby: i tatuaggi e le moto. Dora adorava le due ruote e così Antonio le aveva regalato la patente. Venerdì sera, alla festa di laurea, i due fidanzati sono apparsi uniti più che mai, sempre abbracciati. Poi però è accaduto qualcosa. Sino a causare quel volo di lei dal quarto piano. Ieri per le strade di Montesano sulla Marcellana, il paese di Dora, c’era solo qualche anima. Rosalba e Giovanni i genitori della ragazza, e la sorella Michela, chiusi nel dolore, non hanno voluto fare nessuna dichiarazione.
Mauro Evangelisti per "il Messaggero" il 12 ottobre 2021. «No, Dora non si è uccisa. Impossibile. Le indagini ci devono dire come è morta. Vogliamo la verità». I familiari di Dora Lagreca, la ragazza di 30 anni precipitata dal quarto piano di un palazzo di Potenza dopo un litigio molto violento con il fidanzato, non si danno pace. Lui, Antonio Capasso, è un coetaneo che lavora come Oss (operatore socio sanitario). Ha raccontato ai carabinieri: si è gettata, ho tentato di fermarla, ma è stato inutile. Ora la procura lo ha indagato per il reato di istigazione al suicidio. Un atto dovuto. Oggi sarà eseguita l'autopsia e i Ris dei Carabinieri faranno un sopralluogo nell'appartamento in cui la coppia conviveva da poco nel quartiere elegante di Potenza. Non sarà semplice capire cosa sia successo, se davvero Dora si sia buttata dal balcone o se le cause della sua morte siano altre. Definire i contorni di un reato come l'istigazione al suicidio non è semplice. Fino a pochi giorni fa sui rispettivi social si scambiavano messaggi pubblici di intesa: «Mi fai venire voglia di futuro», le scriveva lui condividendo una foto con le mani di un neonato e dei suoi genitori. Lei rispondeva con tre cuori. Di messaggi affettuosi così tra i due fidanzati ce ne sono decine. Oggi sul profilo del giovane, pubblico, ci sono impietosi messaggi di insulti al ragazzo le cui eventuali responsabilità, sia chiaro, sono tutte da appurare. Altri amici lo difendono. Tutto è successo nella notte tra venerdì e sabato scorsi. Dora Lagreca era una assistente scolastica originaria di Montesano della Marcellana, cittadina in provincia di Salerno, a 80 chilometri da Potenza. Si era trasferita in Basilicata per lavoro e venerdì aveva trascorso la serata con il fidanzato, Antonio Capasso, in alcuni locali, da dove aveva anche pubblicato alcune storie su Instagram. Appariva spensierata, così come si mostra nelle tante foto degli ultimi anni sui social, che raccontano la vita di una bella ragazza, il fisico da modella, viaggi, vacanze, amiche, in passato aveva lavorato anche come estetista. «In quelle immagini che aveva pubblicato su Instagram dedicate all'ultima serata trascorsa con il fidanzato - spiega l'avvocato Revinaldo Lagreca che assiste la famiglia della vittima - si vede una giovane allegra e solare, non certo qualcuno che sta meditando il suicidio». Vero, sui social di Dora non c'è il ritratto di una trentenne che sta pensando di togliersi la vita. Qualche giorno prima, però, aveva pubblicato un post su Facebook di un'associazione che si batte contro la violenza sulle donne: «La maggior parte delle violenze non sono commesse da un tipo col passamontagna che aspetta dietro l'angolo. Sono attuate da una persona conosciuta». Torniamo a venerdì e andiamo indietro di qualche ora: durante la giornata Dora va al suo paese, a Montesano sulla Marcellana, a trovare i familiari. È come sempre: serena, aperta, parla con uno zio del matrimonio di un cugino fissato per la prossima settimana. Torna a Potenza, incontra il fidanzato, vanno in pizzeria e in alcuni locali. Alle 2.30 qualcosa cambia: nell'appartamento di Antonio scoppia un violento litigio, Dora cade dal balcone, al quarto piano, 12 metri. L'ambulanza del 118 la soccorre, è ancora viva, ma muore in ospedale. In cinque ore di interrogatorio il fidanzato racconta: ho provato a fermarla, è stato inutile. Questa mattina sarà eseguito l'esame autoptico. «I familiari chiedono solo la verità - racconta l'avvocato Lagreca, che è cugino del padre della ragazza - di certo nessuno crede al suicidio, al gesto meditato, causato dalla depressione. No, Dora era una ragazza molto bella, che curava il suo fisico, con dei progetti, molto legata alla famiglia e agli amici, con un lavoro e una stabilità economica». Dora Lagreca stava con il fidanzato da un anno. Lui è originario di Venosa, la città di Orazio, a sessanta chilometri da Potenza, in varie occasioni era stato con Dora a Montesano sulla Marcellana, a trovare la famiglia di lei. Il padre di Dora è dipendente dell'Enel, la madre casalinga, la coppia ha un'altra figlia. Anche Giuseppe Rinaldi, sindaco di Montesano sulla Marcellana, non crede al suicidio: «Chi la conosceva sa che Dora era una ragazza solare, allegra, piena di vita e di idee. Anche io conoscevo Dora. Cosa possa essere accaduto non lo sappiamo, ma vivere in questa incertezza è un doppio strazio per la famiglia».
Giallo di Potenza, l’avvocato del fidanzato: "Ha cercato di trattenere Dora, ma non ce l’ha fatta" | Il perito: "Non ci sono segni di colluttazione". Redazione Tgcom24 il 14 ottobre 2021. "È successo tutto in una frazione di secondi. Loro stavano discutendo, Antonio era seduto sul divano. Poi lei, all'improvviso, va verso il terrazzo, lui si alza per cercare di trattenerla, non ce la fa e succede l'irreparabile". A " Mattino Cinque" Antonio Stigliano, avvocato di Antonio Capasso, ricostruisce dal punto di vista del proprio assistito la morte della fidanzata Dora Lagreca, caduta da un balcone al quarto piano di un palazzo a Potenza. Il giovane è al momento indagato dalla procura per istigazione al suicidio. La trasmissione di Canale 5 raccoglie anche la testimonianza di Giovanni Zotti, perito di parte di Capasso, che esclude qualsiasi tipo di contatto. "Dall'autopsia non ci sono segni di colluttazione. Il muretto era 60 centimetri, nello spingere una persona lascia tracce anteriori che in questo caso non ci sono", dichiara Zotti. "Quando sono entrati i Ris, la casa era in ordine, non c'era nulla di particolare", aggiunge.
Giallo di Potenza, i messaggi di Dora all'amica: "Ci siamo lasciati, mi ha rivolto parole brutte". Redazione Tgcom24 il 14 ottobre 2021. " Va male, ci siamo lasciati è già da lunedì che non ci parliamo più". Così Dora Lagreca si confidava, attraverso alcuni messaggi, inviati a una cara amica. La 30enne, morta a Potenza nella notte tra venerdì e sabato dopo essere caduta da un balcone al quarto piano di una palazzina, raccontava di aver litigato con il suo ragazzo. "Sono successe troppe cose - continua la donna - ha sbagliato ti dovrei spiegare di più, ma ha sbagliato: usa brutte parole", conclude. La conversazione è stata mostrata in esclusiva a " Pomeriggio Cinque", nel corso della puntata del 13 ottobre. Per la morte di Dora, al momento, è indagato per istigazione al suicidio Antonio Capasso. L'uomo ha raccontato ai carabinieri di aver cercato di fermare la fidanzata ma di non esserci riuscito. E' stato poi lo stesso Capasso a chiamare i soccorsi. L'ipotesi degli investigatori non convince però la famiglia della giovane, che " esclude il suicidio" e chiede "la verità" sulla morte della trentenne.
"Non è normale". Ora spuntano le chat choc di Dora. Angela Leucci il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gelosia, chat choc e quei concitati momenti della caduta: perché Dora Lagreca è morta? Gli inquirenti cercano di capire il rapporto col fidanzato. Il mistero sul presunto suicidio di Dora Lagreca si infittisce, e spuntano messaggi vocali e chat che la donna avrebbe scambiato con le amiche, lamentandosi dell'ossessività del fidanzato Antonio Capasso. Nella notte tra l’8 e il 9 ottobre a Potenza, Dora è precipitata dal balcone della sua casa. Era completamente nuda, forse perché pare stesse per fare il suo ingresso nella doccia: il fidanzato Antonio è corso a prestare i primi soccorsi e l’avrebbe coperta con la propria camicia. Gli inquirenti gli avrebbero consigliato di non contattare la famiglia di Dora, famiglia per la quale restano tanti gli interrogativi.
Le chat e i messaggi di Dora
Le chat sono state mostrate a “Chi l’ha visto?”. In una di esse, un’amica si riferisce alla relazione tra Dora e Antonio come ad “amore tossico”, mentre Dora si difende forse dalla gelosia del compagno, attualmente indagato per istigazione al suicidio. “Però - dice Dora - io ho amato e basta, né tradito, nulla, e lui non mi capisce, non crede”. Pare che entrambi fossero gelosi l’uno dell’altra. “Non riesco più a perdonarlo - commentava Dora in un messaggio vocale - ha sbagliato per l’ennesima volta con le parole. Non è possibile che dica putt… e zocc… Mi sono stancata, non lo voglio proprio più perdonare. Non è normale una rabbia così, non è normale quest’aggressività”.
Cos’è accaduto l’ultima notte
Gli inquirenti dovranno lavorare per stabilire cosa sia accaduto di fatto l’ultima notte di Dora. Lei e Antonio erano stati in un locale la sera prima: c’era stata qualche discussione, ma niente di apparentemente rilevante, tanto che la coppia si era scambiata un bacio immortalandosi con lo smartphone. Starà quindi a chi indaga comprendere se nel corso della serata si fossero manifestati i prodromi della tragedia: si è trattato davvero di suicidio o di una fatalità? “Sono usciti tranquillamente a mangiare e bere qualcosa - racconta di quell’ultima serata l’avvocato Antonio Stigliano, che difende il giovane - Sono rientrati a casa intorno alle due, ed è scoppiato un litigio dovuto a motivi di gelosia, secondo Antonio, da parte della fidanzata. Mentre stavano litigando, la ragazza ha aperto la porta del balcone e si è lanciata di sotto. Sempre secondo Antonio, lei lo accusava di volere un’altra ragazza all’interno del locale. Antonio l’aveva sempre rassicurata, anche in passato, di non avere altro interesse verso ragazze”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
L'inchiesta di Potenza. Dora Lagreca, il giallo dei messaggi alle amiche: “Ci siamo lasciati, ha usato brutte parole”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. “Io e Antonio in questo ultimo mese e mezzo stiamo litigando di più rispetto a prima. Prima cedevamo. Mi dice brutte parole e ora, rispetto a prima, non cedo e ci scontriamo. Lui usa brutte parole, anche se non c’è stato tradimento, non può fare così”. È solo uno dei messaggi vocali inviati tramite WhatsApp ad alcune amiche da Dora Lagreca, la 30enne assistente scolastica originaria di Montesano sulla Marcellana, in provincia di Salerno, morta dopo essere precipitata nella notte tra venerdì e sabato scorso dal quarto piano del suo appartamento di via di Giura, a Potenza. Nell’inchiesta sulla morte di Dora è indagato il fidanzato 29enne, Antonio Capasso, per istigazione al suicidio. La giovane, come emerso dall’inchiesta, era nuda quando è caduta e si sarebbe aggrappata al parapetto del balcone prima di precipitare nel vuoto, morendo poi dopo alcune ore di agonia all’Ospedale San Carlo nel capoluogo lucano. I carabinieri del Ris, incaricati dalla Procura, hanno portato via gran parte della lamiera che copre il parapetto per cercare di individuare eventuali tracce di dna della 30enne, oltre ad alcuni indumenti intimi della vittima e a medicinali. Ma l’indagine per ora procede lentamente: “Al momento non mi sembrano esserci elementi che possano far presumere esserci stata una colluttazione o un litigio tra i due nelle fasi antecedenti la morte della giovane”, ha spiegato l’avvocato Domenico Stigliani, che difende il fidanzato di Dora, al momento della tragedia in casa. La sera prima della tragedia, venerdì scorso, i due erano stati insieme in un locale, avrebbero bevuto secondo quanto detto dall’amico, ma erano tranquilli e sereni. L’occasione era una festa di laurea di un’amica. In una foto scattata da un amico si vedono sullo sfondo i due mentre si baciano. Il Corriere della Sera scrive che però una lite ci sarebbe stata tra i due: iniziata in macchina e continuata a casa. Anche per questo gli inquirenti sono al lavoro per ricostruire il rapporto tra i due fidanzati: tra allontanamenti e riavvicinamenti, Dora e Antonio erano fidanzati da circa 10 mesi. L’avvocato della famiglia di Droga, Renivaldo Lagreca, ha definito la storia d’amore tra i due come tumultuosa in una memoria presentata già nella giornata di domenica agli inquirenti. Quanto ai messaggi su WhatsApp, la 30enne più volte ha evidenziato dubbi sulla relazione: “Mi sono lasciata, da lunedì non ci parliamo più. Troppe cose sono successe”, dice a un’amica tra il 24 e il 25 settembre, pochi giorni prima del presunto suicidio. Alla stessa amica quindi invia un secondo vocale: “Ha sbagliato a parlare e ha usato brutte parole”. Un amico di Antonio invece, scrive Il Messaggero, conferma solo parzialmente il rapporto turbolento tra i due: “Nel loro rapporto c’era molta gelosia, soprattutto da parte di Dora verso noi amici. Una volta è entrata a casa ci ha visto e ha spaccato il vetro dell’armadio”. Quanto ai litigi, l’amico de 29enne indagato aggiunge che i due “litigavano molto e spesso per cose da niente, sono convinto non l’abbia picchiata mai”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Pasquale Sorrentino per "il Messaggero" il 14 ottobre 2021. Una perizia medico legale nell'ospedale San Carlo di Potenza per Antonio Capasso, il fidanzato di Dora Lagreca, indagato per istigazione al suicidio per la morte della trentenne. Ieri pomeriggio, alle 13, la notifica e poi intorno alle 15 il giovane 29enne di Potenza è stato accompagnato dal legale, l'avvocato Domenico Stigliani, da alcuni parenti e soprattutto dai carabinieri della Compagnia potentina in ospedale per essere sottoposto a una serie di controlli. Le visite, molto accurate, sono durate fino alle 17 quando Capasso ha lasciato il nosocomio ed è tornato a casa dei genitori accompagnato anche da uno zio. Si tratta, da quanto riferito dall'avvocato di Capasso, di un atto dovuto su disposizione della Procura. Inoltre, il 29enne disoccupato è stato fotografato dai carabinieri, scatti che serviranno per ulteriori controlli per verificare se erano presenti graffi o ecchimosi. Questi esami si aggiungono ad altri esami di rito eseguiti nelle due ore di visite.
SEQUESTRI Altri particolari emergono, poi, dal materiale sequestrato due giorni fa dai Ris nell'appartamento di via Di Giura, nella mansarda dalla quale la giovane ex modella è precipitata nella notte tra venerdì e sabato: sono stati portati via alcuni indumenti intimi di Dora Lagreca - che è volata da 12 metri completamente nuda - e alcuni medicinali. Essendo la casa di Capasso questi ultimi potrebbero essere dello stesso giovane. Inoltre i Ris hanno sequestrato circa due metri e mezzo di poggiamano lungo la ringhiera in cemento del terrazzino. Si cercano, in questo caso, tracce per comprendere dove, come e se Dora avesse poggiato le mani prima di cadere, così si potrà ricostruire la dinamica esatta della caduta e quindi avallare l'ipotesi più plausibile, se suicidio, omicidio o incidente. Gli esami dei carabinieri del Ris si concentreranno proprio sulla parte di copertura in alluminio nella prossima fase di indagine. E poi c'è l'autopsia. I periti nominati dalla Procura, il professore Biagio Solarino, anatomopatologo del Policlinico di Bari, e il dottor Aldo Di Fazio, primario del reparto di Medicina legale dell'ospedale potentino, hanno 60 giorni per consegnare la relazione conclusiva. Attesa, in questo caso, anche per gli esami tossicologici. Intanto gli inquirenti stanno lavorando anche sul rapporto tra i due fidanzati. Stavano insieme da circa dieci mesi, anche se c'erano stati diversi allontanamenti e poi riavvicinamenti. L'avvocato della famiglia della ragazza, il legale Renivaldo Lagreca, ha definito la storia d'amore tra i due come tumultuosa in una memoria presentata già nella giornata di domenica agli inquirenti.
I MESSAGGI In questo contesto stanno circolando diversi audio di messaggi Whatsapp di Dora. La trentenne in diverse occasioni ha espresso alle sue amiche, dubbi sul rapporto con Capasso per degli insulti - stando alla voce di Dora nei messaggi - nei suoi confronti. «Mi sono lasciata, da lunedì non ci parliamo più. Troppe cose sono successe», dice a un'amica tra il 24 e il 25 settembre. E ancora alla stessa amica. «Ha sbagliato a parlare e ha usato brutte parole». A un'altra amica invece ha riferito sempre in un vocale di Whatsapp: «Io e Antonio in questo ultimo mese e mezzo stiamo litigando di più rispetto a prima. Prima cedevamo. Mi dice brutte parole e ora, rispetto a prima, non cedo e ci scontriamo. Lui usa brutte parole, anche se non c'è stato tradimento, non può fare così». Versione diversa invece da un amico di Antonio che conferma la forte gelosia nella coppia. «Quella sera non avevano litigato, Antonio ha anche detto che sarebbero venuti il giorno dopo alla festa. Nel loro rapporto c'era molta gelosia, soprattutto da parte di Dora verso noi amici. Una volta è entrata a casa ci ha visto e ha spaccato il vetro dell'armadio». L'amico ha anche ribadito che i due «litigavano molto e spesso per cose da niente, sono convinto non l'abbia picchiata mai».
GIALLO DI POTENZA, IL FIDANZATO DI UN'AMICA DI DORA: "LEI VOLEVA LASCIARE QUEL RAGAZZO". Da tgcom24.mediaset.it il 15 ottobre 2021. "Antonio era geloso, nell'ultimo periodo le cose non andavano bene. Lui, per la sua gelosia, l'aveva quasi costretta ad andare via di casa". A "Mattino Cinque" parla il fidanzato di un'amica di Dora Lagreca, la 30enne morta a Potenza nella notte tra l'8 e il 9 ottobre dopo essere caduta da un balcone al quarto piano di una palazzo. "Dora aveva addirittura fatto le valigie, era rientrata a casa convinta di voler troncare la relazione, in virtù di questi scontri", continua il ragazzo, convinto della colpevolezza di Antonio Capasso. "Magari lui voleva fare qualcosa e lei si è opposta, è probabile", conclude, in riferimento al fatto che il corpo della ragazza sia stato ritrovato senza vestiti.
Da "il Messaggero" il 15 ottobre 2021. È stato il giorno del dolore quello di ieri a Montesano sulla Marcellana, il giorno dell'addio a Dora Lagreca. Ma è stato anche il giorno per la scoperta di un particolare importante sulla ricostruzione della tragedia. La ragazza, infatti, è caduta di spalle. O almeno è atterrata di schiena sul prato al di sotto della terrazza della mansarda del fidanzato. La ricostruzione, anche in base delle persone ascoltate in questi giorni, compresi i soccorritori, sembra far propendere verso la caduta di schiena della giovane. che, qualora fosse confermata, con maggiore difficoltà potrebbe essere compatibile con un gesto volontario. «Non è un suicidio»: è ciò che dicono da giorni gli amici di Dora, la sua famiglia attraverso le parole dell'avvocato e lo stesso sindaco di Montesano sulla Marcellana. «Dora aveva troppa voglia di vivere, e amava tutto ciò che faceva per potersi togliere la vita». Lo hanno detto nei giorni scorsi e anche ieri chi ha assistito alle esequie. Le indagini quindi continuano e non si sono fermate neanche durante i funerali nella piccola chiesa ad Arena Bianca dedicata alla Madonna di Loreto. Ai funerali era assente Antonio Capasso, il fidanzato indagato per istigazione al suicidio. «La amava e voleva costruire un futuro con lei», aveva detto il suo legale nei giorni scorsi. Ma Capasso, da quanto si dice all'esterno della chiesa di Arena Bianca, non era molto amato da queste parti. A essere amata, e tanto, ad Arena Bianca, era Dora. Gli amici della trentenne l'hanno salutata con uno striscione e con un verso di una canzone di Carmen Consoli: «Mandaci una cartolina e una ridente foto di te». Poi in migliaia hanno accolto il feretro, coperto da rose rosse e bianche, con applausi, lasciando andare i palloncini bianchi al cielo.
L'ultimo bacio di Dora e il sospetto: c'era un’altra donna? Angela Leucci il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dora Lagreca era gelosa di un'altra donna? Da ambo le parti, amici e famiglie raccontano versioni diverse di cosa sia accaduto prima del presunto suicidio. La gelosia tra Dora Lagreca e il fidanzato era immotivata o c’era un’altra donna tra loro? Potrebbe essere un dettaglio importante questo per gli inquirenti, per capire se in effetti ci possa essere stata la presunta istigazione al suicidio, per cui è indagato il fidanzato Antonio Capasso. Dora è morta cadendo dal balcone dell’abitazione di lui a Potenza: la donna ha fatto un volo di 12 piani completamente nuda - Antonio ha raccontato che Dora stava per entrare in doccia - e ha perso la vita due ore dopo essere stata soccorsa. Ma perché avrebbe dovuto suicidarsi questa giovane che aveva da poco trovato lavoro come bidella in una scuola, viaggiava con le amiche, voleva bene alla sua famiglia e in particolare alla nonna? “Dora voleva continuare a vivere”, ha detto a “Quarto grado” Renivaldo Lagreca, legale della famiglia della giovane.
I messaggi social tra Dora e Antonio
I due giovani stavano insieme da 10 mesi. Non convivevano ancora, ma progettavano di farlo. Avevano dei litigi anche in pubblico, per lo più per motivi di gelosia. “I veri uomini hanno famiglie, non amanti”, ha scritto Dora pochi giorni prima della morte su Facebook. Un messaggio tra le stories di Antonio sembra altrettanto eloquente: “Magari non sono il primo amore… o il tuo primo bacio. Quello che importa è che io sia l’ultimo di tutto”. C’era stato un tradimento tra i due? C’era una terza persona, una donna forse, della quale Dora era gelosa? Nella notte tra 8 e 9 ottobre, all’1.13 la coppia ha pubblicato sui social la foto di un bacio appassionato scambiato in un locale: 74 minuti più tardi, lei cade dal balcone. Antonio ha raccontato che lui e la fidanzata avrebbero iniziato a litigare già in auto, perché lui avrebbe guardato un po’ troppo un’amica. Il litigio sarebbe proseguito, prima in ascensore e poi in casa, finché Dora non avrebbe detto, prima di cadere dal balcone: “Tu vuoi lei, adesso la faccio finita”.
Due versioni
Chi era davvero la persona gelosa tra Dora e Antonio? Lui accusava lei di essere gelosa, sembrava deriderla per questo anche sui social. Famiglia e amici di lui dicono che la giovane si sarebbe gettata contro l’auto di Antonio per fermarlo una volta, e che la donna avrebbe rotto i piatti a casa dei suoceri durante un litigio. “Io sono arrivato a sapere che nella relazione precedente aveva detto: ‘io mi ammazzo’”, ha detto Giuseppe Lobianco, amico di Antonio. D’altro canto pare che Dora avesse un secondo telefono, che utilizzava per parlare con la propria famiglia, con cui Antonio aveva avuto dei dissapori. Sembra infatti che lui le avesse dato della poco di buono per strada. “Negli ultimi tempi - ha raccontato un’amica di Dora che mantiene l’anonimato - la cosa stava andando fuori controllo. Lui era aggressivo. Lei era gelosa ma non morbosa. La gelosia di lui era un po’ più pesante, perdeva un po’ più il controllo. Non le ha mai messo le mani addosso, la feriva con le parole”. L’amica dice anche che non crede al suicidio di Dora, che non si abbatteva mai, non era una che si chiudeva in casa dopo una rottura: “C’è qualcosa che non torna in quello che lui ha raccontato”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Dora Lagreca aveva il torace sfondato e il cranio intatto: ipotesi caduta per spinta improvvisa. Debora Faravelli il 20/10/2021 su Notizie.it. Dora Lagreca aveva il cranio intatto e il torace sfondato: non si esclude la pista della spinta improvvisa prima di precipitare dal balcone. Dalle analisi effettuate sul corpo di Dora Lagreca, la ragazza di 30 anni morta dopo essere caduta dal balcone a Potenza, è emerso che la giovane avesse il torace sfondato e il cranio intatto. Si tratta di particolari che rendono ancora più complessi i chiarimenti sulle reali cause che hanno portato al decesso. Il cranio intatto lascia pensare che Dora, caduta di spalle, non abbia battuto la testa. Le lesioni interne diagnosticate sono gravissime, qualcuna al bacino ma soprattutto al torace che è risultato completamente sfondato. Un dettaglio che apre alla possibilità che ci sia stata una spinta improvvisa e che la donna abbia tentato di proteggersi rannicchiandosi o quantomeno sollevando la testa. Giunta a terra avrebbe battuto la schiena e l’onda d’urto si sarebbe propagata da una parte all’altra del corpo con un impatto devastante. Un’altra ipotesi è che lo sfondamento del torace sia stato causato dall’urto con la ringhiera protettiva a margine del terreno che l’ha poi fatta rimbalzare e fatta trovare in una posizione latero-supina. Intanto, mentre si attendono i risultati dell’autopsia e dei rilievi da parte dei Ris dei Carabinieri, i militari del reparto operativo e del nucleo investigativo hanno sbloccato i due cellulari della donna e iniziato a scandagliare tutti i messaggi scambiati negli ultimi tempi con particolare riguardo agli audio che la vittima avrebbe inviato alle amiche raccontando di una situazione burrascosa tra lei il fidanzato.
Dora Lagreca: l’avvocato a Quarto Grado: “Il fidanzato aveva una app per controllarla”. Giampiero Casoni il 23/10/2021 su Notizie.it. Dora Lagreca: l’avvocato in collegamento con Quarto Grado svela un inquietante retroscena non verificato: “Il fidanzato aveva una app per controllarla”. Sul giallo del suicidio della 30enne salernitana Dora Lagreca l’avvocato di famiglia ha spiegato a Quarto Grado che “il fidanzato aveva una app per controllarla sul cellulare”. Continuano gli aggiornamenti sulla tragica caduta dal balcone della giovane insegnante di Montesano sulla Marcellana, aggiornamenti ai quali si è andata a sommare una pesante dichiarazione di Renivaldo Lagreca, intervenuto in collegamento con la trasmissione di Rete4 “Quarto Grado”. Secondo il legale di famiglia Antonio Capasso non avrebbe neanche avvisato i familiari della tragedia, su cui i cari erano stati ragguagliati dai carabinieri. Insomma, il fatto che Dora fosse appena precipitata dal balcone al quarto piano di una palazzina di via di Giura a Potenza non era sembrato per il fidanzato una informazione meritevole di essere condivisa con chi Dora l’amava. Il 29enne allo stato indagato per istigazione al suicidio, un suicidio che in trasmissione avrebbe trovato un contesto (non una causa diretta, sia chiaro) di una gelosia morbosa diffusa e bilaterale nel rapporto fra i due, presi in una sorta di “amore tossico”. Tanto tossico che Antonio, secondo il legale dei Lagreca, avrebbe potuto controllare tutti i messaggi che la donna inviava: “È quanto mi hanno riferito ed è uno dei temi di indagini che sottoporrò agli inquirenti”. Come? Con una app, ma il particolare rivelato dal legale per sua stessa ammissione non ha il conforto della veridicità assoluta.
“Perdo il controllo”: cosa non torna nella morte di Dora. Angela Leucci il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dora Lagreca si è suicidata o è caduta dal balcone? Le testimonianze dei suoi amici e di quelli di Antonio Capasso non collimano. Continua il giallo della morte di Dora Lagreca, scomparsa la notte tra l’8 e il 9 ottobre cadendo dal balcone dell’abitazione del fidanzato a Potenza. Gli inquirenti stanno cercando di capire se ci sia stata istigazione al suicidio, ma ci si chiede se si sia trattato effettivamente di suicidio, cosa che la famiglia e le amiche di Dora sembrano escludere, parlando di una ragazza piena di vita. In più, la ricostruzione della caduta di Dora, avvenuta parallelamente all’edificio, potrebbe essere incompatibile con un gesto volontario. Si fa infatti sempre più strada l’ipotesi dell’incidente: il parapetto dell’abitazione dalla quale Dora è caduta era molto basso: si potrebbe essere sbilanciata con il pavimento bagnato dalla pioggia e la presenza di dislivelli? Se ne è parlato a “Quarto grado”: le dichiarazioni delle amiche della giovane sono risultate molto diverse da quelle degli amici di Antonio Capasso, il fidanzato di Dora indagato per istigazione al suicidio. “Non mi è sembrata una persona né arrabbiata né triste”, ha raccontato un’amica di Dora che tende a escludere la possibilità di suicidio. Quella sera, la giovane le aveva mandato un video in cui alzava un bicchiere come a voler brindare e le scriveva che la pensava. Le amiche di lei descrivono Antonio come molto possessivo: arrivava in moto per litigare con lei, Dora raccontava che il fidanzato si indisponesse molto quando lo rifiutava sessualmente. E lui sui social ha scritto: “Il fatto che sono innamorato di lei mi fa impazzire, perdo il controllo”. Di contro, ci sono diverse testimonianze anche a favore di Antonio. A partire dalla “ragazza col giubbotto bianco”, una conoscente che pare avrebbe suscitato la gelosia di Dora. “Quella sera - ha raccontato - non ho mai parlato con Antonio. So che Dora aveva una gelosia a livello possessivo, ma da lì a dire che lei fosse ossessionata da me è strano”. La “ragazza col giubbotto bianco” dice di aver guardato, in maniera infastidita peraltro, la coppia solo in un’occasione la sera della tragedia: quando, entrata nel locale, li avrebbe trovati al tavolo che lei aveva prenotato. Anche la ex fidanzata di Antonio è dalla sua parte e lo descrive come “un ragazzo che riempie di attenzioni, molto sensibile”, ben diverso da “come lo stanno descrivendo”. La ex, Alessia, è stata con Antonio per 4 anni e dice che lui non è mai stato geloso. Nella giornata di ieri, gli inquirenti hanno ascoltato il padre di Dora e un’amica: è stato chiesto del rapporto di coppia e alla ragazza è stato chiesto di consegnare lo smartphone per vedere i messaggi scambiati con Dora. “Mi è stato riferito - ha spiegato il legale della famiglia Renivaldo Lagreca - ed è uno dei temi di indagine che sottoporrò agli inquirenti - Ho saputo di un’app con cui Antonio riceveva i messaggi inviati a Dora. A me è stato riferito, non so se è vero, chiederò accertamenti”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Dora Lagreca, tracce di sangue sugli orecchini: “Potrebbero essere una prova”. Debora Faravelli il 26/10/2021 su Notizie.it. Sugli orecchini di Dora Lagreca sono state trovate tracce di sangue: la Procura potrebbe analizzarle per capire se possano costituire una prova. Continuano ad emergere dettagli sul caso di Dora Lagreca, la ragazza di 30 anni morta dopo essere precipitata dal balcone della casa del fidanzato: sui suoi orecchini sono state trovate tracce di sangue che l’avvocato della sua famiglia ha inviato alla Procura perché potrebbero costituire una prova. Non si sa se la giovane indossava questi gioielli al momento del decesso o se li avesse con sé la sera in cui è morta: per il momento si sa solo che i pendenti appartenevano a lei e che la famiglia li ha restituiti insieme ad altro materiale. Potrebbero dunque essere inviati alla Procura per approfondire ulteriormente le indagini e capire a chi appartengano le tracce ematiche. Gli esami potrebbero inoltre fornire un nuovo sostegno alla pista dell’aggressione. Nonostante l’ipotesi formulata dall’inizio fosse stata quella di suicidio (tanto che il fidanzato di Dora è indagato per istigazione), a insospettire gli inquirenti è stato il fatto che la ragazza fosse nuda quando è precipitata dal balcone. Ulteriori dettagli potrebbero arrivare dall’analisi del parapetto al quale 30enne si sarebbe aggrappata prima di cadere nel vuoto. Un particolare che, se confermato, confermerebbe la volontà di salvarsi. Anche gli stessi amici della giovane si sono mostrati perplessi sull’ipotesi del suicidio e hanno più volte accusato Antonio Capasso di essere geloso, possessivo e aggressivo nei confronti della fidanzata.
· Il Mistero di Martina Rossi.
Da "Ansa" il 7 ottobre 2021. Rigettare i ricorsi di entrambi gli imputati e confermare le condanne. Lo ha chiesto pg di Cassazione Elisabetta Ceniccola nella sua requisitoria per il processo per la morte di Martina Rossi, 10 anni fa in Spagna, che vede imputati i due trentenni aretini Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni. I due sono stati condannati nell'appello bis a Firenze, il 28 aprile scorso, a 3 anni per tentata violenza sessuale di gruppo. Martina è morta a vent'anni il 3 agosto 2011 a Palma di Maiorca, dove era in vacanza con le amiche. La vicenda processuale è stata lunga, tanto che se dovesse arrivare la parola fine sarebbe nell'imminenza della prescrizione. L'udienza, dopo una breve pausa, riprenderà con le arringhe degli avvocati e la sentenza è attesa in serata. "Quello di Martina Rossi non fu un suicidio" ma "il tentativo di fuggire ad una violenza di gruppo", come stabilito dalla Corte d'appello di Firenze: ne è convinta la pg di Cassazione Elisabetta Ceniccola, che al processo per la morte della studentessa ha chiesto la conferma della condanna dei due trentenni aretini Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni. La requisitoria si è soffermata in particolare sulla qualificazione del reato, 609 octies, violenza sessuale di gruppo e non in concorso, dalla quale dipendono anche i termini di prescrizione (quello di morte per conseguenza di altro reato è già prescritto ed è uscita dal processo). Per la pg è giusta la ricostruzione che vede "la compresenza" dei due imputati nella stanza d'albergo di Palma di Maiorca, che "ha influito negativamente" sulla reazione di Martina, "che si è sentita maggior ragione in uno stato di soggezione e impossibilitata a difendersi". Motivo per cui la ragazza avrebbe scelto una via di fuga "più difficile", che la metteva in pericolo e non di uscire dalla porta: scavalca la balaustra "ma non si getta con intento suicidiario". Inoltre Ceniccola ha ricordato che "Martina non aveva i pantaloncini, che indossava, e non sono più stati ritrovati. Per la Corte d'appello - ha sottolineato - era illogico che la ragazza girasse in albergo senza pantaloncini e senza ciabatte". Altri elementi evidenziati dalla pg sono alcune lesioni sul corpo di Martina oltre a quelle riconducibili alla caduta dal terrazzo e i graffi di Albertoni, uno dei due imputati. "Dovremmo essere arrivati alla fine, si spera. In passato c'è stata una catena di errori, di conteggi sbagliati. E la controparte si è presa tanto tempo, troppo": Bruno Rossi in Cassazione con la moglie Franca attende l'udienza del processo per la morte della figlia Martina. In attesa del processo in Cassazione per la morte di Martina Rossi alcune attiviste di 'Non una di meno' si sono radunate per un sit-in davanti al Palazzaccio. Sui cartelli la richiesta di "verità e giustizia per Martina". "La violenza non va in prescrizione, la violenza non si cancella", hanno scritto. Su un altro striscione le foto della studentessa ventenne.
Tre anni per Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni. Martina Rossi è morta per sfuggire a uno stupro, la Cassazione conferma le condanne. “Figlia mia giustizia è fatta”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Martina Rossi non si è tolta la vita ma è morta, cadendo dal balcone dell’hotel, perché stava fuggendo a un tentativo di stupro. La quarta sezione della Corte di Cassazione ha confermato nella serata di giovedì 7 ottobre le condanne a 3 anni di reclusione per Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, i due giovani originari di Arezzo, per tentata violenza di gruppo, in merito al processo sulla morte della 20enne genovese che il 3 agosto 2011 precipitò dalla camera di un albergo a Palma di Maiorca, alle Baleari in Spagna. Dopo dieci anni si conclude così il processo sulla morte della studentessa ligure, inizialmente archiviato in Spagna come suicidio e poi riaperto in Italia grazie alla caparbietà dei genitori di Martina. Luca Albertoni e Alessandro Vanneschi, dopo oltre sette ore udienza e due di camera di consiglio, sono stati ritenuti responsabili di aver tentato lo stupro di Martina Rossi che all’alba del 3 agosto 2011, di ritorno da una serata in discoteca, perse la vita cadendo dal sesto piano dell’hotel ‘Santa Ana’ a Palma di Maiorca, dove si trovava in vacanza con delle amiche. Il sostituto procuratore generale della Cassazione, Elisabetta Ceniccola, nella sua requisitoria, aveva chiesto la conferma delle condanne. “La compresenza di Vanneschi – ha detto in aula il Pg – ha determinato il rafforzamento del proposito criminale di Albertoni e ha influito negativamente sulla possibilità di difesa di Martina, che si è sentita in soggezione e impossibilitata a difendersi. Fatto che ha impedito alla ragazza di uscire dalla stanza usando la via più facile, la porta. Per questo Martina ha cercato di fuggire, mettendo a rischio la sua vita, scavalcando la balaustra del terrazzo, ma non si è gettata con intento suicida. Quando è morta non aveva i pantaloncini, che non sono stati ritrovati, come anche le ciabatte”. Albertoni e Vanneschi, nel corso del processo d’appello, avevano rilasciato dichiarazioni spontanee per ribadire la loro innocenza. Albertoni aveva sostenuto che la ventenne genovese si sarebbe buttata dal balcone perché in stato confusionale dovuto al fatto che poco prima avevano fumato insieme uno spinello.
Secondo la ricostruzione la notte tra il 2 e il 3 agosto Martina salì in camera dei due giovani, perché nella sua le amiche erano in compagnia degli altri due ragazzi della comitiva di aretini. All’alba Martina precipitò dal balcone della stanza 609, quella dei due giovani, per sfuggire a un tentativo di stupro.
Le parole dei genitori di Martina
“Non ci deve essere più nessuno che possa permettere di far del male a una donna e passarla liscia. Ora posso dire a Martina che il suo papà è triste perché lei non c’è più, ma anche soddisfatto perché il nostro paese è riuscito a fare a giustizia“. Queste le parole di Bruno Rossi dopo la sentenza della Cassazione.
“Finalmente la verità, anche se quello che ha sofferto Martina non lo cancella nessuno. Non hanno avuto neanche pietà”. Così la madre Franca Murialdo. “Quando ho letto la sentenza di appello bis ho pensato che faceva onore alla verità. Ecco – ha aggiunto- è vero, lo conferma la Cassazione”.
Duro il commento dei Luca Fanfani, legale della famiglia Rossi: “Non esiste un’altra verità se non quella per cui Martina è morta per sfuggire a un tentativo di stupro ed era talmente disperata al punto da scavalcare un balcone al sesto piano. Ora la Spagna chieda scusa per come ha archiviato l’indagine e per il fatto che quella stanza d’albergo venne affittata solo qualche ora dopo” ha aggiunto.
L’archivio come suicidio in Spagna e la riapertura del caso in Italia
Dopo le prime indagini in Spagna, dove il caso fu archiviato come suicidio, i genitori di Martina, Bruno Rossi e Franca Murialdo, oggi in aula, hanno lottato a lungo per far riaprire il caso. In primo grado ad Arezzo il 14 dicembre 2018 i due imputati vennero condannati a 6 anni di reclusione per tentato stupro e morte in conseguenza di altro reato (poi estinto per intervenuta prescrizione). Il 9 giugno 2020 la Corte d’appello di Firenze aveva assolto Albertoni e Vanneschi “perché il fatto non sussiste”. La Suprema Corte di Cassazione lo scorso 21 gennaio ha annullato la sentenza di assoluzione disponendo un nuovo processo per i due imputati come aveva sollecitato, nel corso della requisitoria, il sostituto procuratore generale Domenico Seccia e accogliendo i ricorsi presentati dalla procura generale di Firenze e dalla parte civile. Processo d’appello bis celebrato in fretta per sfidare i tempi della prescrizione definitiva. La difesa dei due imputati ha sempre contestato la ricostruzione, attribuendo la caduta della 20enne a un suicidio o a un incidente. Oggi la Cassazione ha però confermato le condanne per entrambi.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
Martina Rossi, condanne confermate: "Morì tentando di sfuggire allo stupro". Nino Materi l’8 Ottobre 2021 su Il Giornale. La ragazza cadde da un balcone. Tre anni di cella ai 2 imputati. «Speriamo si arrivi alla fine», aveva detto il papà di Martina entrando ieri sera in Cassazione. E la «fine» è arrivata. «Condanne a tre anni confermate». Dopo 11 anni. Un'attesa troppo lunga per chiamarla davvero «Giustizia»; ma questa è la deprimente regola nei tribunali italiani. La Suprema corte era chiamata a ratificare definitivamente una verità che, per troppo tempo, è stata appannata da dubbi e, addirittura, ribaltata da una sentenza assolutoria. Verdetti paradossalmente contraddittori. Ora l'ultimo giudizio di terzo grado ha smantellato l'ipocrita del dogma virtuoso «dialettica processuale»: Martina Rossi, la studentessa morta il 3 agosto 2011 in Spagna precipitando dal balcone di un hotel, fece quella fine tragica «nel tentativo di sfuggire a uno stupro». Parole che fanno male, pur avendo il merito di diradare, una volta per tutte, la coltre di nebbia che ha avvolto dal 2011 il dramma della 20enne genovese in vacanza a Lloret de Mar. «C'è stata una catena di errori, la controparte è riuscita a far passare tanto tempo», hanno ricordato i genitori della vittima, Bruno Rossi e Franca Murialdo. Sul banco degli imputati, oggi come allora, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, entrambi 30enni di Arezzo, condannati lo scorso 28 aprile a 3 anni per tentata violenza sessuale nel processo di appello bis a Firenze; sentenza sulla quale ieri si sono espressi i giudici della quarta sezione penale del Palazzaccio, confermando la pena. I due imputati dovranno scontare la pena in carcere. Ma rimarranno in galera per tutto il periodo previsto dalla sentenza? In teoria sì, in pratica è probabile che escano ben prima dei tre anni. Gli ermellini si erano già espressi sulla vicenda annullando il 21 gennaio scorso la sentenza di assoluzione decisa nel giugno 2020 dalla Corte d'appello di Firenze, con la formula «perché il fatto non sussiste». «Rigettare i ricorsi di entrambi gli imputati e confermare le condanne» la richiesta del pg di Cassazione; poi, il fulcro della sua requisitoria: «Quello di Martina Rossi non fu un suicidio ma il tentativo di fuggire a una violenza di gruppo come stabilito dalla Corte d'appello di Firenze». La pg si è soffermata in particolare sulla qualificazione del reato: «violenza sessuale di gruppo e non in concorso». Per la pg è giusta la ricostruzione che vede «la compresenza» dei due imputati nella stanza d'albergo di Palma di Maiorca, che «ha influito negativamente sulla reazione di Martina, la quale si è sentita a maggior ragione in uno stato di soggezione e impossibilitata a difendersi». Motivo per cui la ragazza avrebbe scelto una via di fuga «più difficile (che la metteva in pericolo) e non di uscire dalla porta»; l'attimo fatale viene ricostruito così: «Martina scavalca la balaustra, ma non si getta con intento suicidiario». Altri elementi evidenziati dalla pg sono stati «alcune lesioni sul corpo di Martina oltre a quelle riconducibili alla caduta dal terrazzo e i graffi sul viso di uno dei due imputati». Fuori dalla Cassazione un sit-in contro i femminicidi; tra gli striscioni esposti in piazza, uno diceva: «Verità su Martina: non è stato suicidio, è stato stupro». Una «verità» che ora - a un passo dal rischio di una vergognosa prescrizione - rende onore a Martina e alla sua famiglia. Nino Materi
Gabriella Mazzeo per "fanpage.it" il 26 agosto 2021. La sentenza definitiva sul caso Martina Rossi non arriverà oggi. L'udienza è stata infatti rinviata al prossimo 7 ottobre quando la Suprema Corte di Cassazione dovrà pronunciarsi sui due imputati Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, accusati della morte della giovane avvenuta nel 2001 e condannati in appello-bis a 3 anni per tentata violenza di gruppo. Si tratta dell'ultimo atto di una vicenda giudiziaria durata 10 anni: tutto inizia quando la ragazza, che allora aveva 20 anni, precipita dal balcone della stanza 609 dell'albergo Santa Ana di Palma di Maiorca, meta della sua prima vacanza con le amiche. Stefano Savi, legale della famiglia di Martina Rossi, parla di "tristezza e amarezza" dopo la decisione del rinvio da parte della Cassazione che ha accolto la richiesta avanzata dalle difese dei due imputati: "Questa di oggi, in realtà, è una mossa che gli serve poco – ha commentato il legale – perché si ritorna alla sezione di partenza e quindi, tutto sommato, non cambia un granché. È già stato stabilito che il relatore sarà lo stesso di oggi e quindi non vedo, bene o male, come questa mossa possa giovare".
Dopo 10 anni di sofferenza, ci aspettiamo che venga consolidata la verità. In aula c'erano anche mamma Franca e papà Bruno che per 10 anni hanno cercato giustizia senza arrendersi neppure davanti alla prima condanna in appello a 3 anni di reclusione per i due. "Dopo 10 anni di sofferenza, ci aspettiamo che almeno venga consolidato quel pezzettino di verità che è rimasto", le parole pronunciate da Bruno e Franca Rossi prima del rinvio. La sezione feriale della Suprema Corte è chiamata a decidere se confermare o meno la sentenza emessa lo scorso aprile dai giudici di Firenze, in sede di appello-bis, con cui i due imputati nel processo, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, sono stati condannati a 3 anni per tentata violenza di gruppo. Secondo l'accusa, infatti, Martina cadde da quel balcone per sfuggire a un tentativo di violenza sessuale. Prescritto, invece, il reato di ‘morte come conseguenza di altro delitto', che era stato contestato agli imputati.
Il blog sugli atti del processo. Vanneschi e Albertoni, invece, asseriscono di aver assistito a un "gesto suicida della ragazza" e di essere vittime di un errore giudiziario. Lo stesso Vanneschi ha aperto un sito web sul quale ha iniziato a pubblicare le trascrizioni delle testimonianze raccolte durante le indagini, nel tentativo di "dimostrare la sua innocenza", come conferma l'avvocato. Ad aiutarlo in questa iniziativa, alcuni amici che hanno creato per lui il sito. "Sui social si vantava di essere un ammiratore di Vallanzasca e indossava le magliette di Scarface. Adesso si ritiene un perseguitato dalla giustizia? Entrambi cercano di riscrivere la storia – ha dichiarato Bruno Rossi a proposito del sito web -. Si tratta dell'ultimo colpo di teatro che stanno mettendo in atto. Il colpo di coda del blog è come buttare il pallone fuori dal campo per prendere tempo. Ma loro sono gli stessi che dopo la morte di Martina sono rimasti in vacanza. Nel loro paese, a Castiglion Fibocchi, sono ritenuti due bravi ragazzi perseguitati dalla giustizia".
Michela Allegri per “il Messaggero” il 25 agosto 2021. Mentre parla ha di fronte a sé la fotografia della sua Martina, «guarda come sorride. Mi sembra di sentirla mentre mi rimprovera: Papà, lascia stare, non andare avanti come un carro armato. E invece no, noi siamo andati avanti per dieci anni e continueremo a farlo, anche se speriamo che domani sarà tutto finito». Era il 3 agosto 2011 quando Martina Rossi, studentessa genovese di 20 anni, precipitò da un balcone al sesto piano di un hotel a Palma di Maiorca, dove era in vacanza con le amiche. Da quella morte è scaturito un processo tortuoso, che si è chiuso con la condanna in appello di Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi: 3 anni di reclusione per tentata violenza sessuale. L'altra accusa, quella di morte come conseguenza di un altro reato, è ormai prescritta. Il padre di Martina, Bruno Rossi, con la moglie Franca, attende da mesi la giornata di domani: la Cassazione emetterà il verdetto definitivo.
Signor Rossi, sono passati dieci anni da quella notte terribile.
«Dieci anni sono un tempo infinito per la vita di una persona, anche per me che ne ho già vissuti 80. Dieci anni con la mancanza di una figlia, morta in quelle condizioni, sono un tormento, un eterno tormento. Quando sento parlare questi ragazzi, i loro avvocati, i loro periti, quando vedo questi giovani forti, in salute, circondati dai loro genitori, penso sempre a Martina. Penso al desiderio con cui l'abbiamo aspettata, per così tanti anni. È stata un dono arrivato dopo tantissimo tempo dal matrimonio. Era così tranquilla, serena, gioiosa di vivere. La sua morte non è comprensibile per me, non l'ho mai accettata».
Che idea si è fatto dopo tante udienze e dopo tante testimonianze?
«C'era una contraddizione lampante, che si è manifestata subito e che è stata espressa dai giudici e dai poliziotti. L'assurdità di questa fine insolita: una ragazza felice che improvvisamente cade dalla finestra di una camera non sua, dal sesto piano dell'albergo, senza pantaloni, e rimane 35 minuti a morire in una vasca. Le persone che erano con lei, invece di aiutarla, invece di scendere a vedere cosa le fosse successo, hanno iniziato a dire bugie e a cercare alibi. L'hanno lasciata morire da sola, per 35 minuti».
Domani ci sarà la decisione della Cassazione. Dopo tutti questi anni, cosa pensa della giustizia?
«La giustizia è stata troppo lenta e laboriosa. La verità l'hanno cercata solo in Italia. In Spagna dicevano che mia figlia aveva aggredito alcune persone e si era buttata dalla finestra. Invece, con le indagini abbiamo capito che non era stata una disgrazia. Era il 2014 quando è finita l'inchiesta. Poi è iniziato un processo lunghissimo, estenuante. Quando c'è stata la prima sentenza, che ha stabilito 6 anni di reclusione per gli imputati, era il 2018. Erano già passati 7 anni da quando Martina era morta. Io pensavo che fosse finita, pensavo di poter tornare un po' a respirare. Invece è arrivato l'appello e quei due ragazzi sono stati assolti. Poi la Cassazione ha annullato tutto e abbiamo ricominciato un nuovo processo di secondo grado. È arrivata la condanna, ma a quel punto il reato più grave era prescritto. Si parla tanto di riforma della giustizia, ma penso che agli esperti sfugga ancora un dato fondamentale».
Quale?
«Il vero scandalo della giustizia italiana è che è un affare per persone benestanti. In questi anni abbiamo speso tantissimi soldi, per andare avanti e combattere. Se non avessimo avuto disponibilità economica ci saremmo dovuti arrendere. Ricchi e poveri non hanno le stesse armi da impugnare di fronte ai giudici».
Gli imputati vi hanno mai contattati? Vi hanno mai parlato?
«Sono stati in silenzio per anni. Uno di loro ha fatto dichiarazioni spontanee per dire che stava dormendo e non si era accorto di nulla. Per il resto non hanno mai detto una parola in aula, ma hanno cercato di riscrivere i fatti. Stanno cercando di farlo anche in questi giorni».
Si riferisce al fatto che uno degli imputati, Alberto Vanneschi, ha aperto un blog nel quale pubblica gli atti del processo e sostiene di essere vittima di un errore giudiziario?
«Vanneschi, che sui social si vantava di essere ammiratore di Vallanzasca e indossava le magliette di Scarface, ora scomoda addirittura Émile Zola e paragona il suo caso all'affaire Dreyfus. La prima pagina di questo sito è la foto dell'editoriale J' accuse.
È l'ultimo colpo di teatro che stanno mettendo in atto. Una volta mi sono bruciato con l'acqua fredda, a Firenze, quando è arrivata l'assoluzione. Non me lo aspettavo. Ora sono fiducioso. Anche questo colpo di coda del blog è come buttare il pallone fuori dal campo per prendere tempo. Questa storia è diventata un giallo che ha appassionato tutti tranne la mamma e il papà di Martina. Non dimenticheremo mai quei giorni».
Cosa ricorda?
«Ero in giardino. Stavo tagliando un albero di albicocche che si era seccato e sono arrivati cinque poliziotti. Pensavo di avere fatto qualcosa io, invece mi hanno dato la notizia. Mia moglie non c'era, ho aspettato che arrivasse. Ci siamo precipitati in Spagna, nessuno sapeva dirci cosa fosse successo. Ci hanno trattato malissimo, sembrava quasi che volessero arrestare noi. C'è stato un tentativo di rendere la vittima carnefice. Con le donne succede troppo spesso».
Cosa si aspetta dalla sentenza di domani?
«Siamo sfiniti, ma spero di trovare una porzione di verità, che non sarà mai totale. Sono convinto che le abbiano dato un pugno in faccia e l'abbiano buttata giù. Le hanno levato i pantaloni, lei ha reagito e loro non hanno accettato il rifiuto».
Com' era Martina?
«Non lo dico perché era mia figlia, ma lei era bella davvero. Era intelligente, sapeva scrivere e disegnare, sapeva fare tutto. Era la prima volta che andava in vacanza da sola, che prendeva l'aereo con le amiche. Una cosa mi tormenta: perché nessuno l'ha aiutata dopo la caduta? Il medico legale ha detto che si sarebbe potuta salvare, invece è stata lasciata sola. La colpa di questi due giovani è tremenda. Non so come faranno a vivere, ad avere una moglie, una fidanzata. Se avessero ammazzato una formica per loro sarebbe stata la stessa cosa. Sa perché parlo delle formiche? Perché Martina da bambina mi sgridava e si arrabbiava quando distrattamente le schiacciavo».
(ANSA il 14 maggio 2021) "Gli elementi indiziari che il processo ha faticosamente acquisito" sono "tutti convergenti nell'affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Martina Rossi la mattina del 3 agosto 2011 precipitò della camera 609 dell'albergo Santa Ana di Palma di Maiorca nel disperato tentativo di sottrarsi a una aggressione a sfondo sessuale posta in essere in suo danno da entrambi gli imputati". Così le motivazioni della sentenza con cui la corte di appello di Firenze il 28 aprile ha condannato in un processo bis, a 3 anni di reclusione, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi per tentata violenza sessuale di gruppo.
«Mia figlia Martina Rossi è stata uccisa due volte: da chi voleva stuprarla e da questa giustizia». Matteo Macor su L'Espresso il 30 aprile 2021. La Corte d’Appello di Firenze ha condannato a tre anni i due imputati per la morte della giovane avvenuta nel 2011 a Palma di Maiorca. Ma la prescrizione è a un passo. «Oggi i processi sono dei ring, dove vince sempre il più forte, chi ha i mezzi, i soldi, il potere». Ha ritrovato la speranza, Bruno Rossi, ma la sua, «la nostra» - dice - è una «giustizia sfiorita». Occhi stanchi, voce esausta, questo ottantunenne genovese sono quasi dieci anni che lotta per ridare pace alla memoria della figlia Martina, ritrovata senza vita nel cortile di un hotel di Palma di Maiorca il 3 agosto del 2011, poco più che ventenne. Morta dopo essere precipitata da un terrazzo del sesto piano, in fuga da un tentativo di stupro di gruppo in una stanza d’albergo, e «uccisa due volte» - è la convinzione dei suoi genitori - da un processo dalla storia travagliata e infinita, per la quale una vera parola fine potrebbe non arrivare mai. La Corte d’Appello di Firenze questa settimana ha condannato in appello alla pena di tre anni i due ragazzi toscani imputati, sulla ricerca di verità e giustizia di questa famiglia pesa infatti la possibilità concreta che tutto finisca in prescrizione in agosto. «Stessa cosa di tante altre storie, tante altre ingiustizie». Stessa cosa pure per il processo "costola" in corso a Genova, imputati i testimoni accusati di falsa testimonianza sulla vicenda, che ripartirà da zero dai primi di maggio. Motivo per cui pare così amaro il parziale conforto di questi giorni, e soprattutto la spinta che ha portato questo padre privato dell’unica figlia a fare del suo lutto personale uno strumento di lotta collettiva. Un’occasione per «provare a costruire un mondo migliore, quello che sognavo da ragazzo, di libertà vera per le donne e legge uguale per tutti, ma per davvero». Le lotte che porta avanti nel nome della figlia, del resto, anche con tutto il peso di dieci anni di sofferenza sulle spalle, Bruno Rossi le sa inquadrare ancora con la chiarezza di chi ha una storia di lavoro, militanza, solidarietà. «Come possiamo accettare, da uomini, una società dove la violenza di genere fa così parte del quotidiano?». «Cosa c’è di più ingiusto - insiste - di una giustizia ad personam, dove chi ha mezzi e denaro è più tutelato, e chi non può molto meno?». Lui che di professione è stato camallo, uno di quei portuali del porto di Genova che per decenni hanno fatto da spina dorsale alla coscienza politica di una città, ancora oggi - da pensionato - è la voce più autorevole del Calp, il collettivo di autonomi che sulle banchine genovesi resiste ai cambiamenti del settore e all'eterno braccio di ferro con i terminalisti. Nei mesi scorsi c’era anche lui, tra i lavoratori che hanno provato a bloccare l’attracco in porto delle navi delle armi destinate allo Yemen. Ed è con lo stesso spirito che ha lasciato fare del proprio dolore una battaglia per tanti. «Non avrei mai pensato né tantomeno voluto che Martina diventasse un simbolo, la rivorrei qui con me», dice. «Ma almeno che serva a portare avanti lotte giuste che meritano di essere portate avanti, e io stesso porterò avanti finché avrò energia». La richiesta di verità e giustizia per Martina Rossi, più di ogni altra, oggi fa da bandiera per “Non una di meno” e altre associazioni in prima fila nella lotta alle violenze di genere. «Quella per Martina è la lotta per tutte le donne, per difenderle dalla prevaricazione di tanti uomini, violenti, privi di coscienza», dice Bruno Rossi. Chiede di non accennare nessun paragone con la vicenda di Ciro, il figlio di Beppe Grillo accusato di stupro. «Ho visto il suo intervento in difesa del figlio, è stato orribile, da pazzi, ha usato parole così lontane dalla mia mentalità e da quello che era mia figlia». Ma ribadisce: «Il nostro dolore di genitori ha fatto da cassa di risonanza per un movimento, e questo perché in Martina e in noi si possono immedesimare tutti, ragazzi e genitori. Intorno a noi c’è tanta solidarietà, tante persone che fanno militanza per il bene comune. Perché prima o poi si possa vivere in un mondo dove le donne possano scegliere di fare l’amore quando ne hanno voglia, senza il rischio di diventare trofei, o di venire ammazzate come animali». «Quello delle violenze sulle donne è un problema culturale, che abbiamo tollerato per troppo tempo. Ma la coscienza per uscirne ce l’abbiamo, come uomini e come società. Il mondo migliore, l’ho imparato sul lavoro e nella solidarietà tra compagni, si costruisce a piccoli passi. Ognuno facendo la propria parte». Se il sorriso nelle foto di Martina è diventato simbolo della lotta alle violenze di genere, il suo processo nel tempo è diventato per il padre una missione, insieme l’unico scopo e il punto di partenza. Qualunque sarà l’esito del procedimento, la vicenda della famiglia Rossi «vogliamo serva a far riflettere un Paese sul sistema malato che inceppa la Giustizia italiana», dice Bruno Rossi. Ogni giorno è un rimpianto, oggi. «Abbiamo voluto Martina a tutti i costi, è nata dopo 26 anni di matrimonio, - racconta, abbracciato alla moglie Franca - siamo stati due genitori anziani, forse troppo protettivi, e le abbiamo insegnato a nuotare in un mare pulito, senza avvertirla che può anche essere pieno di pericoli». Sono rimpianti i ricordi («Il diploma al classico, l’università a Milano, il talento per il disegno e la scrittura, la voglia di vivere: siamo felici e orgogliosi di com’era»), sono rimpianti i sogni («Oggi nostra figlia avrebbe trent’anni, adesso starei portando all'asilo il mio nipotino»). Ma sono rimpianti e tanta rabbia, forse ancora di più, «tutti i giorni e ogni singolo passaggio del nostro processo». «Oggi siamo siamo soddisfatti, almeno ad una sentenza di condanna siamo arrivati, si è ristabilito ciò che accadde e per noi è comunque importante. Ma sono dieci anni che triboliamo giorno e notte, contro tutto e tutti. Non sappiamo ancora se e con quale risultato». La storia giudiziaria seguita alla morte di Martina, del resto, è stata da subito una via crucis fatta di errori e negligenze, indagini superficiali, sgambetti legali, infinite perdite di tempo. Dalla frettolosità con cui le autorità spagnole avevano liquidato la vicenda come un caso di suicidio, fino alle accuse stabilite già prescritte (morte in conseguenza di altro reato) e l’ottovolante delle sentenze (tra la condanna in primo grado, l'assoluzione in appello, poi il passaggio dalla Cassazione e il via al processo bis), i genitori Rossi in questi anni hanno ribattuto colpo su colpo al loro percorso ad ostacoli. «Siamo stati io e mia moglie a far riaprire le indagini. In Spagna volevano farlo passare come gesto volontario, quando siamo arrivati a Palma di Maiorca avevano già fatto l’autopsia, volevano insabbiare in fretta», insiste il padre. E poi, ancora, i «mille cambi di versione» degli avvocati degli imputati, i poco più che trentenni Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, o «i modi con cui non si sono fatti trovare per mesi, per far slittare i tempi delle notifiche della Procura». Quindi le bugie di alcuni testimoni, «di chi ha osato mentire dicendo mia figlia facesse uso di psicofarmaci o avesse consumato droga, tutti dati risultati completamente falsi, solo per rallentare la ricerca della verità». Pure i depistaggi degli amici degli imputati, Federico Basetti ed Enrico D’Antonio, accusati di aver coperto i responsabili della tragedia con false testimonianze. Le cui condanne - anche quelle - rischiano di finire in prescrizione a inizio 2023, visto che i loro difensori hanno fatto ripartire tutto il procedimento da zero. «La Giustizia con cui ci siamo scontrati noi è un sistema che non funziona, ostaggio di eserciti di azzeccagarbugli, dove il principio sacrosanto della difesa dell’accusato permette che a forza di bugie si possano inquinare anche le verità più limpide, dimenticare il merito delle questioni dietro la forma e le cancellerie - conclude Rossi - Gli avvocati dei ragazzi che mi hanno ammazzato Martina hanno cambiato in corsa prove, permesso di stravolgere i tempi del processo, fatto dimenticare la sostanza delle colpe. Ovvero che una ragazza di vent’anni, per scappare da un tentativo di violenza di gruppo, è stata lasciata morire dopo un’agonia di 40 minuti, ancora oggi senza il minimo pentimento. Invece di cercare e stabilire la verità con trasparenza e semplicità, oggi i processi ring, dove in qualche modo vince sempre il più forte, chi ha già i mezzi, chi ha i soldi, chi ha potere. Noi stessi, se non fossimo stati economicamente all'altezza, non avremmo mai potuto sostenere un processo lungo dieci anni. Io ho combattuto una vita per aiutare gli altri, sul lavoro, nella politica, nella società. La parola giustizia dovrebbe voler dire parità, ricchi e poveri, primi e ultimi, non tutela dell’interesse di persona, o di categoria. Gli assassini di Martina faranno meno carcere di chi ruba una mela, se lo faranno». La battaglia di Bruno, non appena arriverà una giustizia per Martina, in parte anche per questo è già da tempo quella dei tanti - tra associazioni e comitati, compresi quelli che riuniscono i familiari delle vittime delle stragi, da quella di Viareggio a quella del ponte Morandi - che hanno partecipato al dibattito sul cammino della riforma della prescrizione, un nodo che in questi giorni sta tornando ad agitare gli animi all’interno del governo. «Io sarò sempre garantista, ma la prescrizione non dovrebbe esistere proprio, soprattutto quando a venire schiacciati sono i più deboli, le donne, i poveri, i migranti. Un altro motivo per cui oggi combatto per mia figlia e insieme il principio di una giustizia che non è giusta. Perché oggi conta ancora qualcosa andare ad arrestare persone in Francia a 40 anni dalle loro colpe, e non dovrebbe contare far soffrire una famiglia per dieci anni e poi far svanire tutto con la prescrizione? Niente e nessuno ci potranno ridare indietro nostra figlia e alleviare il dolore mio e di mia moglie, ma almeno che la sua, la nostra pace, prima o poi, servano a qualcosa. Faremo la nostra parte fino all’ultimo, sarà l’unico modo per contribuire a fare un mondo migliore».
Da La Stampa il 28 aprile 2021. La Corte d'appello di Firenze, al termine del processo bis dopo il rinvio disposto dalla Cassazione, ha condannato a 3 anni di reclusione ciascuno il 28enne Alessandro Albertoni e il 29enne Luca Vanneschi, entrambi di Castiglion Fibocchi (Arezzo), per tentata violenza sessuale di gruppo, reato in conseguenza del quale sarebbe morta Martina Rossi, la studentessa genovese di 20 anni precipitata la notte del 3 agosto 2011 dal sesto piano di un albergo a Palma di Maiorca, dove era in vacanza con le amiche. La sentenza è stata emessa oggi pomeriggio, alle 16, ed è stata letta dal presidente Alessandro Nencini. In aula erano presenti i due giovani condannati (che prima della camera di consiglio non hanno rilasciato dichiarazioni spontanee come era stato invece annunciato) e i genitori di Martina, Bruno Rossi e Franca Murialdo, che hanno lottato a lungo per far riaprire il caso. La Corte ha accolto la pena illustrata dal sostituto procuratore generale Luigi Bocciolini, lo scorso 7 aprile: al termine della sua requisitoria aveva chiesto la condanna dei due giovani a 3 anni di reclusione, che peraltro si estinguerà per prescrizione tra la fine della prossima estate e l'autunno. Le difese dei due imputati nell'udienza dello scorso 14 aprile avevano chiesto l'assoluzione per i loro assistiti. L'avvocato Stefano Buricchi nella sua arringa in difesa di Vanneschi aveva chiesto l'assoluzione ipotizzando che la giovane genovese si sarebbe suicidata gettandosi dal terrazzo dell'abergo. Analoga richiesta di assoluzione era arrivata dall'avvocato Tiberio Baroni, legale di Albertoni, sostenendo la tesi secondo cui Martina Rossi non sarebbe scivolata mentre cercava di passare da un terrazzo all'altro dell'hotel nel vano tentativo di evitare uno stupro. Il difensore di Albertoni aveva ipotizzato che la caduta sarebbe avvenuta dal centro del terrazzo e quindi si potrebbe pensare ad un volo accidentale, perché si sarebbe sporta troppo dalla balaustra mentre vomitava dopo aver fumato uno spinello. Albertoni e Vanneschi sono accusati di aver tentato lo stupro della ventenne di Genova che all'alba del 3 agosto 2011, di ritorno da una serata in discoteca, perse la vita cadendo dal sesto piano dell'hotel 'Santa Ana' a Palma di Maiorca, dove si trovava in vacanza con delle amiche. Secondo la ricostruzione dell'accusa, a Palma di Maiorca la notte tra il 2 e il 3 agosto Martina Rossi salì in camera dei due giovani perché nella sua stanza le amiche erano in compagnia degli altri due ragazzi della comitiva di aretini e avevano formato due coppie. All'alba Martina precipitò dal balcone della stanza 609 dell'hotel Santa Ana, quella dei due giovani Albertoni e Vanneschi, per sfuggire, sempre secondo l'accusa, a un tentativo di stupro. Dopo indagini in Spagna dove il caso fu archiviato come suicidio, i genitori di Martina, Bruno Rossi e Franca Murialdo, sono riusciti a far riaprire il caso. In primo grado ad Arezzo il 14 dicembre 2018 i due imputati vennero condannati a 6 anni di reclusione per tentato stupro e morte in conseguenza di altro reato (poi estinto per intervenuta prescrizione). Il 9 giugno 2020 la Corte d'appello di Firenze aveva assolto Albertoni e Vanneschi «perché il fatto non sussiste». La Suprema Corte di Cassazione lo scorso 21 gennaio ha annullato la sentenza di assoluzione disponendo un nuovo processo per i due imputati come aveva sollecitato, nel corso della requisitoria, il sostituto procuratore generale Domenico Seccia e accogliendo i ricorsi presentati dalla procura generale di Firenze e dalla parte civile. Ora la decisione di condanna per gli imputati da parte della Corte d'appello di Firenze nel processo bis.
Da ilsecoloxix.it il 7 aprile 2021. Il pg Luigi Bocciolini ha chiesto tre anni di reclusione ciascuno per Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, i due imputati di tentata violenza sessuale di gruppo al processo d'appello bis per la morte di Martina Rossi, la studentessa genovese deceduta a 20 anni dopo essere precipitata dal balcone di una camera d'albergo a Palma di Maiorca (in Spagna) il 3 agosto del 2011. La stessa richiesta è stata avanzata dai legali dei genitori, costituitisi parte civile. La procura generale ha chiesto una pena dimezzata rispetto alla condanna a sei anni di reclusione inflitta in primo grado ad Albertoni e Vanneschi, a seguito dell'intervenuta prescrizione dell'accusa di morte in conseguenza di altro reato. La prossima udienza, con le arringhe dei difensori, è fissata per il 14 aprile, giornata in cui potrebbe arrivare anche la sentenza. In caso contrario, i giudici hanno fissato un'altra udienza per il 28 aprile. Questa mattina nel corso del processo Alessandro Albertoni ha chiesto di essere esaminato come imputato, richiesta sulla quale i giudici decideranno nelle prossime udienze.
Il padre di Martina Rossi: “Ora condannare gli imputati”. Bruno Rossi, padre di Martina, questa mattina dopo il suo arrivo al palazzo di giustizia di Firenze insieme alla moglie per assistere al processo di appello bis, ha detto: "Spero che questo nuovo appello confermi la condanna di primo grado, quella arrivata prima che in appello venisse cancellato tutto". "Martina - ha aggiunto - non è caduta dal balcone per sua volontà, ma perché cercavano di farle fare qualcosa che non voleva fare. Spero in una condanna anche se ormai chi ruba una mela al supermercato ha una pena maggiore di chi ammazza una persona".
Il legale di Vanneschi: “Difensori e imputati non hanno mai mirato alla prescrizione”. L’avvocato Stefano Buricchi, difensore di Luca Vanneschi, rispondendo alle domande di alcuni cronisti, ha affermato: "Non abbiamo mai puntato alla prescrizione, voglio che sia chiaro". La prescrizione per il reato di tentata violenza sessuale scatterà ad agosto. "Il processo - ha precisato Buricchi - è partito a sei anni dal fatto, e si è sempre svolto secondo i tempi voluti dalla corte. Difensori e imputati non hanno mai mirato alla prescrizione".
Le tappe del processo. In primo grado il tribunale di Arezzo aveva condannato i due imputati, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, a sei anni di reclusione ritenendo che Martina fosse precipitata dal balcone della camera dove alloggiavano i due ragazzi - nello stesso hotel della studentessa genovese - per fuggire a un tentativo di stupro. In appello invece, lo scorso 9 giugno, Albertoni e Vanneschi sono stati assolti dall'accusa di tentata violenza sessuale con la formula "perché il fatto non sussiste" mentre è stato dichiarato prescritto il capo di imputazione di morte come conseguenza di altro reato. Lo scorso gennaio la Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dalla procura generale di Firenze, ha annullato la sentenza disponendo un nuovo appello. All'appello bis che si è aperto questa mattina a Firenze erano presenti anche i due imputati.
La Cassazione e la morte di Martina: "Era senza pantaloncini, non fu suicidio". Disposto il nuovo processo: «In appello ignorati fatti fondamentali». Redazione Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Ci sarà un nuovo processo per la drammatica morte di Martina Rossi, la ventenne ligure morta precipitando dal balcone di una camera di albergo a Palma di Maiorca, in Spagna, il 3 agosto 2011. Una fine «anomala» con l'ombra di un tentativo di stupro cui la ragazza stava cercando di sottrarsi. Una dinamica che portò in primo grado alla condanna di due giovani che si trovavano con lei in quell'albergo. Condanna poi ribaltata nel processo di appello con la piena assoluzione degli stessi due imputati. Ora è arrivata la Cassazione che ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione riservando ai giudici di appello parole di inusitata durezza. «La più evidente carenza di analisi, con conseguente evidente insufficienza motivazionale e mancanza di motivazione rafforzata, va rilevata in riferimento ai contenuti della audio-video intercettazione effettuata il 7 febbraio 2012, la cui analisi è addirittura ritenuta superflua dal Collegio d'appello», scrive la Suprema corte nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 21 gennaio ha annullato l'assoluzione per Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi imputati nel processo sul caso di Martina Rossi. Gli «ermellini» si sono poi soffermati su un aspetti che i giudici di secondo grado avevano completamente trascurato: cioè la «mancanza dei pantaloncini» al momento in cui il cadavere della ragazza fu rinvenuto. Un dettaglio che - a giudizio della Cassazione - «mal si concilia con un intento suicidiario». Per i giudici di piazza Cavour si tratta invece di un «elemento gravemente indiziario, soprattutto se letto in correlazione ai graffi sul collo di Albertoni». «Ciò che conta è che Martina precipitò senza i pantaloncini del pigiama - si legge nella sentenza - e tale elemento oggettivo indiscutibile non può sparire anch'esso dalla valutazione dei giudici di merito, ma deve essere correttamente considerato in collegamento con le altre evidenze probatorie al fine di esaminare in via deduttiva le probabili o possibili ragioni della sua mancanza addosso a Martina al momento della caduta, essendo evidente che i pantaloncini con cui la ragazza giunse nella stanza d'albergo degli imputati furono tolti quando la stessa si trovava all'interno della camera 609». Ma la Cassazione non si ferma qui e stigmatizza il verdetto di assoluzione con antri argomenti: «I giudici di appello, con un esame invero superficiale del compendio probatorio, hanno ritenuto di ricostruire una diversa modalità della caduta della ragazza». Secondo i supremi giudici, nella sentenza di appello sono stati «depotenziati tutti gli elementi fattuali certi della scena del tragico evento come emergenti dagli atti, depotenziando, altresì la portata delle altre circostanze indizianti certe (i graffi sul collo di Albertoni ed il mancato rinvenimento sul cadavere della vittima dei pantaloncini del pigiama) e con un ragionamento di evidente incongruenza logica, hanno assolutizzato le dichiarazioni del testimone oculare della precipitazione di Martina () sminuendo altresì il narrato degli altri testimoni de auditu, però essenziali per individuare la diacronicità degli accadimenti, ossia quanto riferito dai turisti danesi che occupavano la stanza a fianco di quella ove si trovavano i giovani imputati».
M.L. per “la Repubblica” il 22 gennaio 2021. Per Bruno Rossi e Franca Murialdo, due genitori rimasti senza la loro unica figlia, è una speranza che torna a farsi viva. Per due trentenni prima condannati, poi assolti, ora di nuovo imputati, Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, una giustizia mai risolutiva. Ma adesso che la Corte di Cassazione ha stabilito un nuovo processo di appello sulla morte della studentessa genovese Martina Rossi, volata da un balcone a Palma di Maiorca ancora senza un perché, c' è un' altra ombra che incombe, ed è sempre più fitta: la prescrizione. Non a caso lo stesso padre della ragazza, frastornato dalla commozione, dice che «quando si ammazza una persona non può esistere la prescrizione. Il signor ministro della Giustizia, che mi aveva ricevuto in passato, dovrebbe dirmi cosa è stato fatto in questi mesi». Perché sono passati quasi dieci anni da quel 3 agosto 2011, da quando l' allora ventenne volò dal sesto piano dell' hotel Santa Ana di Palma di Maiorca. Nella stanza 609, con lei, c' erano i due giovani di Castiglion Fibocchi, che oggi hanno 29 e 28 anni. La Suprema Corte ieri ha annullato l' assoluzione stabilita dalla Corte di Appello di Firenze. E sembra aver riavvolto il nastro a quanto invece aveva detto il tribunale di Arezzo, che aveva inflitto sei anni di reclusione a entrambi, accusati di tentata violenza sessuale e morte come conseguenza di altro reato. Per il giudice di primo grado, insomma, Martina morì perché stava scappando da un tentativo di stupro. Per quelli di secondo grado, forse si era buttata da sola perché in preda alla disperazione, forse si era trattato di un incidente. Una sentenza fatta a pezzi dalla Procura generale di Firenze, ma anche dal sostituto procuratore generale della stessa Cassazione Domenico Seccia, che in una udienza carica di tensione ha parlato di indizi «travisati » in modo «superficiale», «frammentario» e «non collegando gli uni agli altri ai fini della valutazione globale». In particolare, a Firenze era stata ritenuta credibile la testimonianza di una addetta dell' hotel, Francisca Puga, che agli inquirenti spagnoli aveva detto di aver visto Martina buttarsi. Dichiarazioni sempre confutate dall' accusa. È la vittoria di Bruno Rossi e Franca Murialdo, lui un tempo camallo nel porto di Genova rimasto in prima linea nelle battaglie per i diritti dei lavoratori, lei insegnante. Entrambi in pensione, in dieci anni non si sono persi un' udienza. Con le lacrime agli occhi, il padre dice che «Martina non me la ridarà nessuno, ma almeno si saprà cosa è successo quella notte. Ci hanno provato in tutti i modi a distruggere me e mia moglie, a scaricarci dalle spalle Martina anche da morta. A raccontare che era depressa, drogata o alcolizzata. Lo hanno fatto anche in quest' ultima udienza. Ma io sono più duro di loro e non ho mai ceduto». Questo camallo che non smette di lottare sa che bisogna aggirare uno scoglio enorme: »Bisogna fare presto». Dopo la condanna di Arezzo è già scattata la prescrizione per la morte come conseguenza di altro reato. Inaccettabile per la famiglia Rossi, che ha incontrato Alfonso B onafede. Ma adesso, come hanno spiegato a Bruno e Franca i legali Stefano Savi, Luca Fanfani ed Enrico Marzaduri, anche la tentata violenza sessuale corre verso l' estinzione. Il termine dovrebbe essere entro la fine di agosto (sul giorno esatto sarà battaglia in aula). Vuol dire che i giudici della Cassazione dovranno depositare le motivazioni della sentenza a strettissimo giro, e subito la Corte di Appello di Firenze dovrà fissare l' inizio del processo bis, che dovrà correre spedito. Ma la pronuncia dei magistrati fiorentini sarà oggetto di un nuovo ricorso in Cassazione. Se i termini fossero superati prima dell' ultimo approdo davanti alla Suprema Corte, l' unica speranza per Bruno e Franca sarebbe la non ammissibilità del ricorso. Per Albertoni e Vanneschi, "un tunnel senza fine". Il legale di quest' ultimo, Stefano Buricchi, dice che «sono passati dieci anni, i due ragazzi adesso sono uomini, è indegno di un paese civile che siano ancora sulla graticola».
Morte Martina Rossi, la Cassazione annulla il verdetto di assoluzione. Marco Lignana su La Repubblica il 21 gennaio 2021. Al centro del processo tornano ora i due ragazzi condannati in primo grado per tentato stupro e per aver causato la morte della ragazza precipitata dal sesto piano di un albergo di Palma di Maiorca. I genitori: "Primo passo verso la giustizia". Quasi dieci anni dopo, i giudici della Corte di Cassazione hanno scritto un nuovo capitolo sulla morte di Martina Rossi e dato il via a nuovi dibattimenti, udienze, testimonianze. Il verdetto con cui hanno annullato la sentenza di assoluzione rimette al centro del processo i due 28enni di Castiglion Fibocchi che quel 3 agosto 2011 erano nella stanza 609 dell'hotel Santa Ana di Palma di Maiorca insieme a Martina: in primo grado ad Arezzo Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi erano stati condannati a sei anni per tentato stupro e per aver causato la morte, nella fuga, di Martina. La Cassazione ha dunque annullato le assoluzioni dei due imputati emesse dalla Corte di Appello di Firenze, che ora deve riesaminare il caso.
La studentessa. Martina Rossi il 3 agosto del 2011 aveva vent'anni, studiava architettura a Milano ed era alla sua prima vacanza da sola, a Palma di Maiorca con due amiche. Cadde dal balcone di un albergo e la polizia spagnola archiviò frettolosamente come suicidio.
Gli imputati. Per questo fatto in primo grado erano stati condannati a sei anni di reclusione i due giovani aretini, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, entrambi di Castiglion Fibocchi, accusati di tentata violenza di gruppo e morte come conseguenza di altro reato. Secondo il Tribunale di Arezzo, Martina precipitò dal balcone della camera dove alloggiavano i due ragazzi - nello stesso hotel della studentessa genovese - per fuggire a un tentativo di stupro. In appello invece, lo scorso 9 giugno, Albertoni e Vanneschi sono stati assolti dall'accusa di tentata violenza sessuale mentre è stata dichiarata prescritta l'imputazione di morte come conseguenza di altro reato. i giudici non avevano saputo dare un perché alla tragedia, ma avevano parlato di “un litigio, un malore, un approccio di natura sessuale o anche un tentativo di violenza che potesse aver innescato in lei la spinta a un gesto autolesivo o comunque uno stato psicologico di non pieno controllo di sé”. La sentenza della Corte di appello di Firenze è stata impugnata dalla procura generale di Firenze per "indizi non valutati", per "motivazione contraddittoria" e per una "valutazione frazionata e priva di logica degli indizi".
La battaglia dei genitori. I due imputati oggi non sono venuti in Cassazione, sono rimasti a casa in contatto con i loro avvocati. In udienza c'erano, invece, come del resto ci sono sempre stati, i genitori di Martina. Bruno Rossi, una vita da camallo nel porto di Genova a lavorare e lottare per i diritti dei lavoratori, e Franca Murialdo, insegnante. Entrambi in pensione, hanno passato gli ultimi due lustri della loro vita a "ricercare la verità per Martina e a ridarle dignità". Anche questa mattina, aveva detto Bruno mentre rientrava nel suo albergo della Capitale dove aspettava notizie, "abbiamo sentito dire delle enormi falsità sul nostra figlia. Che era drogata, che era depressa, che si era buttata giù per una delusione d'amore. Ma continuiamo a sperare". Dopo l'annuncio del verdetto della Cassazione i genitori di martina hanno commentato, visibilmente emozionati: "Abbiamo fatto un primo pezzo di strada, ora speriamo di correre veloce anche nel prossimo, evitando ostacoli come la prescrizione, affinché si riesca ad affermare le responsabilità per la morte di nostra figlia".
Il pg e gli errori. Il sostituto procuratore generale, del resto, come annunciato è stato molto duro, e ha chiesto di annullare le assoluzioni di Albertoni e Vanneschi. Nel ricorso depositato nei giorni ha scorsi ha messo nero su bianco, a proposito della sentenza di Appello, una "motivazione contraddittoria", una "valutazione frazionata e priva di logica degli indizi", un "travisamento di circostanze decisive".
E ancora: "E' stato commesso un evidente errore sul punto di caduta della Rossi che ha inficiato tutto il ragionamento probatorio, Nessuna certezza sugli esami tossicologici: collegare una sigaretta di hashish, fumata in due, al comportamento di Martina sembra esagerato".
Martina Rossi, i genitori della 20enne caduta nel vuoto a Maiorca nel 2011: «Non cerchiamo vendetta. Ma un giudice deve dirci com’è morta nostra figlia». Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 19/1/2021. La 20enne era precipitata nel vuoto in Spagna nel 2011. Il pg della Cassazione: «Travisate le prove, annullare l’Appello». Adesso resta solo l’ultimo atto, il verdetto della Cassazione che potrebbe arrivare giovedì, per sapere come e perché è morta Martina Rossi, studentessa genovese di 20 anni, precipitata il 3 agosto del 2011 da un terrazzo di un hotel di Palma di Maiorca dove era in vacanza con alcune amiche.
Violenza. Era inseguita da due ragazzi toscani che, come hanno stabilito i giudici di primo grado, avrebbero tentato di violentarla? Oppure si è gettata nel vuoto in preda a una crisi di nervi come si intuisce dal giudizio della Corte di Appello di Firenze che ha ribaltato la sentenza? Il procuratore generale della Suprema Corte nella requisitoria ha scritto che prove e indizi sono stati «travisati» in modo «superficiale», «frammentario» e «non collegando gli uni agli altri ai fini della valutazione globale». Tutto ciò è stato fatto andando «a ritroso» dalla convinzione aprioristica che non si potessero condannare gli imputati «oltre ogni ragionevole dubbio». E ha chiesto l’annullamento della sentenza di secondo grado, che assolveva i due imputati, e un nuovo processo di appello.
Verità. «Noi non cerchiamo vendetta e non vogliamo neppure che innocenti finiscano in galera — commentano i genitori di Martina, Bruno, 80 anni, ex portuale e sindacalista del porto di Genova e Franca, insegnante in pensione —. Chiediamo giustizia e verità. Dieci anni dopo ci devono dire perché è morta Martina, la nostra unica figlia». In primo grado i due imputati Alessandro Albertoni 28 anni, campione italiano di motocross e il coetaneo Luca Vanneschi, entrambi di Castiglion Fibocchi (Arezzo), erano stati condannati a sei anni di carcere per tentata violenza sessuale e per aver causato la morte della giovane in conseguenza di un altro delitto. Quest’ultimo reato era andato in prescrizione provocando polemiche e un intervento del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. In appello a Firenze, il pg Luciana Singlitico, aveva chiesto per gli imputati una condanna a tre anni per il solo tentativo di stupro ma i giudici li avevano assolti «perché il fatto non sussiste».
Il dolore. «La cosa che ci addolora di più è che in quel processo nostra figlia è stata descritta come una pazza mangiatrice di uomini in preda all’alcol e alle droghe — spiegano papà Bruno e mamma Franca — suicida chissà per quale motivo. Non soltanto Martina era sana di mente, non beveva e non si drogava, ma persino le analisi sul suo corpo effettuate dalle autorità spagnole dimostrano che non era ubriaca e che non aveva ingerito sostanze stupefacenti. Per non parlare poi delle testimonianze che, come ha riconosciuto anche il pg della Cassazione, danno una valutazione opposta al giudizio di Appello». Secondo l’avvocato di famiglia, Stefano Savi, le indagini spagnole purtroppo sono state lente e hanno puntato a priori sull’ipotesi del suicidio.
«Amava lo studio». I genitori di Martina chiedono che la figlia venga adesso ricordata per quello che era: «Una ragazzina piena di entusiasmo, che amava le amicizie, lo studio, aveva la passione per l’arte e disegnava i volti delle persone descrivendo con il tratto e i colori il loro carattere e ci indovinava sempre». Spesso la vita e la morte sono un turbinio di fatalità. Ce n’è una che ancora oggi tormenta i genitori di Martina. «Lei non doveva essere lì dove è morta — spiega commossa la madre —. Voleva andare in Corsica con le sue amiche ma era tutto esaurito. Così avevano cambiato destinazione. Mi chiamò dall’agenzia di viaggi. “Mamma andiamo a Palma di Maiorca”, disse ridendo. La vidi partire con il pullman per Milano dove poi avrebbe preso l’aereo. È stata l’ultima volta che l’ho accarezzata. Oggi mi rimangono le ultime foto scattate con le amiche in spiaggia poco prima che qualcuno ce l’ammazzasse».
· Il Mistero di Emanuela Orlandi.
Fabrizio Peronaci per corriere.it il 16 dicembre 2021. «Quello sventurato bambino nella pineta non ci finì per caso. Un esponente della banda della Magliana cercava ragazzi di vita. Sull’argomento consegnai al dottor Capaldo una nota di sette pagine...». Giallo di Emanuela Orlandi e misteri collegati: all’indomani delle dichiarazioni televisive dell’ex procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo su una trattativa con il Vaticano per individuare il luogo della sepoltura della ragazzina scomparsa nel giugno 1983, parla anche un ex poliziotto della Squadra Mobile a conoscenza di alcuni passaggi dell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma nel 2008 e archiviata nel 2015. È l’ex ispettore Pasquale Viglione, da tempo in pensione, a rispolverare dalla memoria un episodio che confermerebbe i legami tra il caso della «ragazza con la fascetta» e la morte di Josè Garramon, 12 anni, figlio di un funzionario uruguayano della Fao, travolto e ucciso nella pineta di Castel Porziano nel dicembre 1983 da quel Marco Accetti, fotografo romano oggi 66enne, poi indagato nel 2013 (dopo aver consegnato il flauto riconosciuto dalla famiglia) e successivamente prosciolto. Il racconto dell’ex ispettore (all’epoca capo della Mobile era Vittorio Rizzi, attuale vicecapo della polizia) si riferisce al 2008, fase investigativa «caldissima» per le rivelazioni di Sabrina Minardi sul coinvolgimento nell’affaire Orlandi del suo ex amante Renatino De Pedis. «Un pomeriggio - ricorda Pasquale Viglione - mi trovavo insieme ad un collega nell’anticamera dell’ufficio di Capaldo che, insieme alla pm Maisto, stava interrogando la Minardi. Ad un certo punto sento il nome ‘Scimone’… Poco dopo, finito l’interrogatorio, dico al magistrato: Dottore, ho sentito che parlava di Scimone. Risposta: Questo glielo ha suggerito lei...».
Ricapitolando: il titolare delle indagini sta torchiando l’amante del boss, il poliziotto da fuori la porta sente pronunciare il nome di Peppe Scimone, luogotenente di De Pedis con fama di perversioni sessuali, lo stesso poliziotto si illude che la pista da lui lungamente battuta sia stata finalmente presa in considerazione ma resta deluso. «A me sono cascate le braccia… - è la prosecuzione del racconto che Viglione ha pubblicato nel gruppo Fb di Pietro Orlandi, il fratello - Su Scimone avevo già redatto una annotazione di sette pagine che lui (Capaldo, ndr) evidentemente non aveva letto. Abitava nei pressi di via Po (episodio in cui De Pedis scaglia un bicchiere di vino contro il muro) e una sera aveva inviato il suo factotum a procurargli un ‘ragazzo di vita’ alla stazione Termini. È agli atti. Inoltre, aggiungo che la famiglia era proprietaria di una villa a Castel Porziano, che lui usava spessissimo. Questa villa, è distante circa 800 metri dal luogo ove fu investito il piccolo José Garramon, rapito mezz’ora prima all’Eur… Mi fermo qui…»
Al di là dell’allusione finale - forse preannuncio di nuove rivelazioni - quanto raccontato dall’ex investigatore della Squadra Mobile riporta l’attenzione sulla mai chiarita fine di Josè Garramon, per il quale Accetti fu condannato a due anni e due mesi di carcere per omicidio colposo e omissione di soccorso (l’ipotesi iniziale di omicidio volontario cadde durante il processo). Secondo Viglione, Capaldo non diede credito all’ipotetico legame Scimone-Garramon (e quindi Accetti-banda della Magliana), al punto che gli rinfacciò di avere imbeccato lui Sabrina Minardi durante precedenti interrogatori, ma resta il fatto che come e perché il bambino si sia trovato in quella pineta alle sette di sera del 20 dicembre 1983 non è mai stato chiarito. Il procuratore aggiunto è sempre stato convinto che sia stato Marco Accetti a caricare Josè sul suo furgone Ford Transit bianco, neanche un’ora prima, all’uscita di un salone da barbiere all’Eur, e che poi il piccolo sia riuscito a fuggire dal veicolo e lo stesso «uomo del flauto», inseguendolo, lo abbia travolto. Adesso, però, il combinato disposto delle nuove rivelazioni apre uno scenario ulteriore e mai emerso: il reclutamento di minori a fini sessuali, in ambienti criminali e non solo.
Emanuela Orlandi, la trattativa segreta. "Ce l'hanno chiesto gli emissari del Papa. Dall'ex magistrato bomba sul Vaticano. Libero Quotidiano il 12 dicembre 2021. Questa sera, domenica 12 dicembre, nella puntata di Atlantide in onda su La7 l'ex procuratore Giancarlo Capaldo, nel 2012 titolare dell'inchiesta su Emanuela Orlandi , in una intervista rivela che nella primavera del 2012 due emissari di Papa Ratzinger diedero la "disponibilità del Vaticano a far ritrovare alla famiglia Orlandi il corpo della quindicenne Emanuela, svanita nel nulla nel 1983, in cambio di un aiuto da parte della magistratura italiana a liberare la Chiesa dall'imbarazzo che aveva creato la scoperta della tomba del boss della Banda della Magliana, Enrico «Renatino» De Pedis, nella basilica di Sant' Apollinare (lo stesso complesso da cui era scomparsa Emanuela)", scrive il Corriere della Sera.
Capaldo è pronto a svelare i nomi dei due emissari e rivela che furono testimoni altre persone e che di quei colloqui esisterebbe anche una registrazione. Una svolta clamorosa che potrebbe portare alla riapertura delle indagini, visto che l'avvocatessa della famiglia Orlandi ha chiesto formalmente alla magistratura vaticana e al Csm di ascoltare Capaldo. "Chiedono di conferire con me due personaggi del Vaticano, importanti in quel momento, per chiedere la riesumazione del corpo di De Pedis ed eliminare dalla basilica un cadavere troppo ingombrante", spiega Capaldo. "Gli emissari presero atto del mio punto di vista e si riservarono di sentire alcune persone più in alto nella gerarchia e di darmi una risposta. La risposta avvenne qualche settimana dopo e fu positiva. La disponibilità era quella di mettere a disposizione ogni loro conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione", rivela ai microfoni di Atlantide condotto da Andrea Purgatori.
"Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall'altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà. Se fossi convocato nell'ambito di un'attività giudiziaria seria direi chi sono queste persone, se erano presenti altri oltre a me e a queste due persone e se il colloquio è stato registrato. A queste tre domande io risponderò soltanto a chi ha il titolo per chiedermelo". Parole che provocano la reazione di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela: "Sono contento di questa posizione che ha preso il dottor Capaldo dopo tanti anni, sono convinto che farà i passi giusti nelle sedi opportune e sono convinto che farà i nomi di queste persone perché così ci sarà finalmente qualcuno a fare giustizia per Emanuela".
Emanuela Orlandi: «Così il Vaticano promise di rivelare dov’era il corpo». Andrea Purgatori su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2021. L’ex magistrato Capaldo e le nuove rivelazioni sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi: «La trattativa su De Pedis. I due emissari della Santa Sede chiedevano che la Procura riesumasse il boss». Nella primavera del 2012 due emissari di Papa Ratzinger, verosimilmente due alti prelati, diedero la disponibilità del Vaticano a far ritrovare alla famiglia Orlandi il corpo della quindicenne Emanuela, svanita nel nulla nel 1983, in cambio di un aiuto da parte della magistratura italiana a liberare la Chiesa dall’imbarazzo che aveva creato la scoperta della tomba del boss della Banda della Magliana, Enrico «Renatino» De Pedis, nella basilica di Sant’Apollinare (lo stesso complesso da cui era scomparsa Emanuela). Fu l’inizio di una trattativa che inspiegabilmente si arenò, mentre la Procura di Roma decideva l’archiviazione del caso che tra oscuri ricatti aveva coinvolto il segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, la Banca Vaticana guidata dal discusso monsignor Paul Marcinkus, ed esponenti della potente organizzazione criminale della capitale.
Due incontri
Lo rivela nella puntata di Atlantide in onda stasera su La7 l’ex procuratore Giancarlo Capaldo, all’epoca titolare dell’inchiesta, in una intervista esclusiva alla presenza di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, e dell’avvocatessa della famiglia, Laura Sgrò. Non solo, Capaldo è pronto a svelare i nomi dei due emissari se verrà interrogato dalla magistratura vaticana o italiana. E in modo indiretto ma inequivocabile racconta che di quell’inizio di trattativa, avviata su richiesta del Vaticano con due incontri negli uffici della Procura, furono testimoni «altre persone» e di quei colloqui esisterebbe addirittura una registrazione. Insomma, a 38 anni dalla scomparsa della ragazza, ecco una svolta clamorosa che potrebbe portare alla riapertura delle indagini, visto che l’avvocatessa Sgrò ha chiesto formalmente alla magistratura vaticana e al Csm di ascoltare Capaldo.
Il boss della Magliana
Tutto comincia nel 2012, sotto il papato di Benedetto XVI, cioè Joseph Ratzinger, con una segnalazione anonima che fa scoprire nella basilica di Sant’Apollinare, a due passi da Piazza Navona, una tomba in cui è sepolto «Renatino» De Pedis, carismatico boss della Banda della Magliana che aveva trasformato l’organizzazione in un «service» a disposizione dei poteri oscuri della politica, della finanza e della Chiesa e nel 1990 era stato ucciso da un killer in una stradina di Campo de’ Fiori. «A quel punto — racconta Capaldo, che in quella fase è “reggente” della Procura — chiedono di conferire con me due personaggi del Vaticano, importanti in quel momento, per chiedere la riesumazione del corpo di De Pedis ed eliminare dalla basilica un cadavere troppo ingombrante» che getta discredito sulla Chiesa. Ed è allora che Capaldo spiega ai due emissari che anche la famiglia Orlandi ha diritto a ritrovare una sua pace , anche se passando dal dolore per la conferma della morte di Emanuela, cioè dal ritrovamento dei resti della ragazza.
Nuova inchiesta
Gli emissari, continua Capaldo, «presero atto del mio punto di vista e si riservarono di sentire alcune persone più in alto nella gerarchia e di darmi una risposta. La risposta avvenne qualche settimana dopo e fu positiva. La disponibilità era quella di mettere a disposizione ogni loro conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione». Ma ad un passo dalla possibile soluzione del giallo di Emanuela, accadono due eventi: «Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall’altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà». Ma chi erano i due emissari del Papa? Capaldo su questo è rigido ma va oltre: «Se fossi convocato nell’ambito di un’attività giudiziaria seria direi chi sono queste persone, se erano presenti altri oltre a me e a queste due persone e se il colloquio è stato registrato. A queste tre domande io risponderò soltanto a chi ha il titolo per chiedermelo».
Le mosse della famiglia
Rivelazioni e parole pesantissime a cui Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, risponde così: «Sono contento di questa posizione che ha preso il dottor Capaldo dopo tanti anni, sono convinto che farà i passi giusti nelle sedi opportune e sono convinto che farà i nomi di queste persone perché così ci sarà finalmente qualcuno a fare giustizia per Emanuela». E per spingere in tempi brevi anche magistratura vaticana e italiana a fare i «passi giusti» l’avvocatessa Sgro’ ha presentato una richiesta di interrogatorio di Capaldo al Promotore di Giustizia vaticano e al Consiglio superiore della magistratura una «Richiesta di accertamenti sulla condotta dei magistrati della Procura di Roma sul caso Emanuela Orlandi». Per la cronaca (e la storia) dopo quei due incontri la trattativa si arenò, la tomba di De Pedis fu aperta e i resti rimossi, il procuratore capo Pignatone avocò l’inchiesta su Emanuela e la archiviò. Subito dopo essere andato in pensione, papa Francesco lo ha nominato Presidente del Tribunale della Città del Vaticano.
Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 13 dicembre 2021. L'ex procuratore reggente di Roma Giancarlo Capaldo, coordinatore dell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, ha stilato la lista di monsignori, ufficiali e militari dei carabinieri, cancellieri che a vario titolo, chi come protagonista, chi come testimone, avrebbero partecipato alla trattativa da lui condotta con il Vaticano per ritrovare i resti della giovane sparita nel 1983 e mai più ritrovata. Un confronto avviato nel novembre del 2011, quando un ufficiale dell'Arma avrebbe portato nell'ufficio di Capaldo al primo piano a piazzale Clodio la richiesta d'Oltretevere di aprire un dialogo riservato e che si sarebbe poi sviluppato con almeno tre incontri - due in procura e uno nella biblioteca apostolica nello stato città del Vaticano. Interlocutori due monsignori che pur di chiudere l'inchiesta avrebbero agevolato in ogni modo il ritrovamento del corpo di Emanuela, chiedendo al contempo di traslare la salma del presunto cassiere della banda della Magliana Renatino De Pedis, ucciso a Roma il 2 febbraio 1990, da incensurato, e sepolto nella cripta della basilica di sant' Apollinare. Una trattativa che - qualora confermata - avrebbe del clamoroso. Infatti, a che titolo gli alti prelati esercitavano pressioni su un'indagine svolta da uno stato estero? Ed è vero che avrebbero potuto offrire indicazioni utili al ritrovamento della Orlandi? Capaldo già lo scorso 17 novembre, in occasione della presentazione del suo romanzo "La ragazza scomparsa" sul caso alla libreria Libraccio di via Nazionale a Roma, aveva confermato l'esistenza della trattativa, mostrandosi poi pronto a svelare i nomi di chi vi partecipò durante la puntata del programma Quartogrado dello scorso 26 novembre. Il primo a ipotizzare un clamoroso dietro le quinte era stato nel 2016 il regista Roberto Faenza nel documentario "La verità sta in cielo". Da parte sua però Capaldo aveva preferito rimanere in silenzio, senza mai né confermare né smentire queste ricostruzioni. Fino appunto a un mese fa quando ha deciso di uscire allo scoperto dicendosi pronto a raccontare tutto. Una posizione che non è sfuggita all'avvocatessa Laura Sgrò, che da tempo tutela gli interessi dei familiari di Emanuela Orlandi. La penalista ha quindi reiterato alla giustizia vaticana l'istanza di sentire Capaldo come aveva già formalizzato nel 2017 dopo che nei primi due capitoli del mio saggio "Peccato Originale" avevo approfondito temi, dati e interlocutori di questi incontri senza ricevere alcuna smentita. La Sgrò ha presentato anche istanza alla prima commissione del Csm affinché ascolti l'ex magistrato per chiarire con quali crismi sono avvenuti questi incontri, se sono stati verbalizzati e se vi sono le registrazioni dei colloqui come ha lasciato intuire lo stesso Capaldo, intervenuto domenica sera nella trasmissione Atlantide di Andrea Purgatori. Dall'identikit che siamo in grado di ricostruire, i due prelati chiamati in causa da Capaldo sarebbero personaggi all'epoca di rilievo della curia con papa Benedetto XVI. Il primo appartenente alla segreteria di Stato con al vertice il cardinale Tarcisio Bertone, il secondo in organigramma in altro dicastero ma in dialogo diretto con monsignor Georg Ganswein, all'epoca segretario particolare di Joseph Ratzinger. I due avrebbero dialogato con il procuratore reggente chiedendo di spostare la salma di De Pedis al cimitero Verano, togliendola dalla cripta della basilica che proprio la Orlandi frequentava per seguire le lezioni di flauto traverso all'istituto "Ludovico da Vittoria". Si tratta ora di trovare conferme alle parole di Capaldo per capire se trattativa c'è stata e qual è stata la sua genesi visto che poi sarebbe finita nel nulla. Di certo qualche mese dopo il nuovo procuratore Pignatone, il 14 maggio 2012, dopo aver assunto la guida delle indagini scelse una mossa ad alto impatto mediatico, incaricando l'antropologo forense Cristina Cattaneo e la polizia scientifica di ispezionare la chiesa e analizzare tutte le ossa conservate sotto la basilica alla ricerca di quelle di Emanuela. Per settimane ai telegiornali scorrevano i servizi su quest' attività ciclopica che si sviluppava su 58.188 reperti ritrovati sia nell'ossario sia nella grotta dei Martiri sotto il pavimento della cripta. All'appello sembra che manchino però 100-110 scheletri che dovrebbero essere lì custoditi e che, invece non si trovano. Mistero. Ancora, proprio in quei giorni l'allora rettore della basilica Pietro Vergari viene indagato per sequestro di persona e conseguente morte di Emanuela e intercettato. Il 19 maggio trapela la notizia sui giornali e lui preso dall'agitazione chiama un'utenza in Vaticano. Al suo interlocutore si rivolge con il titolo di «eccellenza» e quest' ultimo prima lo esorta a stare calmo e non fare errori come in passato («Perché tutte le volte che lei è andato di fuori poi è successo quello che è successo. Stia tranquillo adesso!») e poi letteralmente gli dice: «Guardi che il suo telefono è sotto controllo». Insomma misteri rimasti insoluti ma non determinanti per Pignatone che nel 2015 chiese e ottenne la chiusura dell'inchiesta. Capaldo si oppose e non firmò la domanda che venne accolta e confermata anche dalla Cassazione, lasciando l'assoluto mistero sul destino di questa povera ragazza e sui parenti che ancora oggi non sanno dove piangerla.
Scontro tra magistrati su Emanuela Orlandi. Botta e risposta tra Capaldo e Pignatone. Il Tempo il 13 dicembre 2021. Scontro tra magistrati sul giallo di Emanuela Orlandi. Scintille a Roma sulla giustizia dopo i sospetti dell'ex procuratore reggente di Roma Giancarlo Capaldo, coordinatore dell’inchiesta sulla scomparsa della ragazza figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia che all'epoca, nel 1983, aveva 15 anni, nei confronti di chi gli ha succeduto nel fascicolo.
Per Capaldo l'intricata vicenda stava per arrivare a risultati concreti, ma poi si sono verificate due cose. "Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall'altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà" dice il magistrato in una intervista al Corriere della sera.
Attacco che provoca la reazione sdegnata di Pignatone che scrive al giornale. "Il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con «emissari» del Vaticano alle colleghe titolari, insieme a lui, del procedimento. Nulla in proposito egli ha mai detto neanche a me, che pure, dopo avere assunto l'incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del «caso Orlandi»".
Nella lettera di Pignatone al direttore del Corriere, Luciano Fontana, si legge inoltre: "Dopo il mio arrivo a Roma il dottor Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, sentendo personalmente testimoni e indagati, disponendo intercettazioni e attività di polizia giudiziaria e nominando consulenti; egli ha anche coordinato, intervenendo sul posto, le attività per la rimozione della salma di Enrico De Pedis dalla tomba nella Basilica di Sant'Apollinare e i successivi scavi nella cripta che hanno portato al rinvenimento di alcuni scheletri e di numerosissimi frammenti ossei non riconducibili però alla Orlandi. Io non ho mai ostacolato in alcun modo nessuna attività di indagine disposta dal dottor Capaldo o dalle altre colleghe".
Lettera di Giuseppe Pignatone al "Corriere della Sera" il 13 dicembre 2021. Caro direttore, con riferimento all'articolo di Andrea Purgatori sulla scomparsa di Emanuela Orlandi pubblicato sul Corriere della Sera di ieri, ritengo opportuno precisare quanto segue: il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con «emissari» del Vaticano alle colleghe titolari, insieme a lui, del procedimento. Nulla in proposito egli ha mai detto neanche a me, che pure, dopo avere assunto l'incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del «caso Orlandi». Dopo il mio arrivo a Roma il dottor Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, sentendo personalmente testimoni e indagati, disponendo intercettazioni e attività di polizia giudiziaria e nominando consulenti; egli ha anche coordinato, intervenendo sul posto, le attività per la rimozione della salma di Enrico De Pedis dalla tomba nella Basilica di Sant' Apollinare e i successivi scavi nella cripta che hanno portato al rinvenimento di alcuni scheletri e di numerosissimi frammenti ossei non riconducibili però alla Orlandi. Io non ho mai ostacolato in alcun modo nessuna attività di indagine disposta dal dottor Capaldo o dalle altre colleghe. Non ho mai avocato il procedimento relativo alla scomparsa di Emanuela Orlandi. La richiesta di archiviazione è stata decisa a maggioranza tra i colleghi titolari del procedimento. Io ho condiviso e «vistato», quale Capo dell'Ufficio, tale richiesta, mentre il dottor Capaldo, che non era d'accordo, ha rifiutato - come era suo diritto - di firmarla. La richiesta, presentata il 5 maggio 2015, è stata accolta dal gip, dopo che i familiari della Orlandi avevano presentato opposizione, il 19 ottobre dello stesso anno e confermata definitivamente dalla Cassazione il 6 maggio 2016. Solo dopo essere andato in pensione (23 marzo 2017), il dottor Capaldo ha riferito in libri e interviste delle sue asserite interlocuzioni con emissari del Vaticano. Aggiungo infine un ultimo particolare: la circostanza della sepoltura di De Pedis nella basilica non fu scoperta nel 2012 grazie ad un anonimo, come si afferma nell'articolo così da ricollegarla temporalmente alle asserite «trattative». Essa, infatti, era nota fin dal 1997 ed era stata oggetto di articoli di stampa e di polemiche.
Estratto dell'articolo di Andrea Purgatori per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2021. […] Tutto comincia nel 2012, sotto il papato di Benedetto XVI, cioè Joseph Ratzinger, con una segnalazione anonima che fa scoprire nella basilica di Sant' Apollinare, a due passi da Piazza Navona, una tomba in cui è sepolto «Renatino» De Pedis, carismatico boss della Banda della Magliana che aveva trasformato l'organizzazione in un «service» a disposizione dei poteri oscuri della politica, della finanza e della Chiesa e nel 1990 era stato ucciso da un killer in una stradina di Campo de' Fiori. «A quel punto - racconta Capaldo, che in quella fase è "reggente" della Procura - chiedono di conferire con me due personaggi del Vaticano, importanti in quel momento, per chiedere la riesumazione del corpo di De Pedis ed eliminare dalla basilica un cadavere troppo ingombrante» che getta discredito sulla Chiesa. Ed è allora che Capaldo spiega ai due emissari che anche la famiglia Orlandi ha diritto a ritrovare una sua pace, anche se passando dal dolore per la conferma della morte di Emanuela, cioè dal ritrovamento dei resti della ragazza. Gli emissari, continua Capaldo, «presero atto del mio punto di vista e si riservarono di sentire alcune persone più in alto nella gerarchia e di darmi una risposta. La risposta avvenne qualche settimana dopo e fu positiva. La disponibilità era quella di mettere a disposizione ogni loro conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione». Ma ad un passo dalla possibile soluzione del giallo di Emanuela, accadono due eventi: «Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall'altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà». […]
Dagospia il 28 giugno 2021. Da “Radio Cusano Campus”. Sono passati 38 anni da quel 22 giugno 1983 in cui Emanuela Orlandi scomparve nel nulla. Ma la famiglia non molla e non considera chiusa la vicenda delle tombe al cimitero teutonico. Lo ha annunciato a “Crimini e Criminologia” su Cusano Italia TV l'avvocato Laura Sgrò. Il legale della famiglia Orlandi, al microfono di Fabio Camillacci ha affermato: “La storia delle tombe al cimitero teutonico del Vaticano per noi non è ancora chiusa dopo aver fatto analizzare a spese della famiglia Orlandi tutte le ossa trovate nell'ossario delle due tombe risultate vuote. Tra quelle ossa non c'è traccia di Emanuela ma non sono nemmeno ossa molto datate come dicevano in Vaticano, alcune risalgono al 1950. Ma soprattutto, perché quelle tombe erano vuote senza le nobili riportate sulle lapidi? Perchè la tomba dell'angelo era vuota? Sono risultate molto pulite entrambe le tombe, nonostante a noi continuino ad arrivarci segnalazioni, anonime e non, di quella posizione, cioè che Emanuela fu sepolta lì nella tomba dell'angelo. Sotto quelle tombe c'è pure una stanza completamente vuota: perché fu costruita se non c'è niente? Ho chiesto le planimetrie ma non mi sono state date. Vi garantisco che molte persone sono venute a trovarmi nel mio studio, facendo racconti dettagliati indicando luoghi e personaggi ben precisi però poi dicono, 'ma non dica che ve l'ho detto'. Il mio appello pertanto è questo: chi ci vuole dare una mano deve avere il coraggio di farlo fino in fondo mettendoci nome, cognome e faccia. Ma alla luce di tutte queste segnalazioni le dico che quella tomba non è stata indicata per caso. E proprio per questo, stiamo continuando a verificare quello che ci dicono molti testimoni, quindi ribadisco; per noi la vicenda del cimitero teutonico non è chiusa. Inoltre, mi auguro che presto Papa Francesco rispetto a questa vicenda dica qualcosa e visto che è un pontefice di grande accoglienza, deve convocare presto Pietro Orlandi che sta chiedendo da tempo di essere ricevuto. La collaborazione annunciata e sbandierata dal Vaticano, per me non c'è stata e non c'è”. Poi sul mistero e i tanti depistaggi, l'avvocato Sgrò ha aggiunto: “La scomparsa di Emanuela Orlandi è un unicum nella storia del crimine d'Italia; visto che la sua vicenda è stata messa in contatto nelle indagini con i più grossi buchi neri che hanno riguardato Repubblica italiana e Città del Vaticano. Dall'attentato al Papa, alla Banda della Magliana, passando per l'omicidio Calvi; ma la lista dei misteri è lunga. Quindi uno dei più grossi buchi neri della nostra storia, senza dimenticare che Emanuela Orlandi rimane l'unica cittadina vaticana svanita nel nulla. Dopo 38 anni restiamo convinti che Emanuela sia stata vittima di un ricatto: che sia stata presa da qualcuno per un motivo ben preciso. Un ricatto che ha coinvolto personaggi apicali della Chiesa e che su tutto questo ci ha fatto una fortuna e a oggi senza dubbio ci sono ancora persone che si avvantaggiano di questa storia. Niente a che vedere però con l'attentato a Giovanni Paolo II e Ali Agca: ecco quello è stato il più grande depistaggio per sviare le indagini da ben altro. Compreso il famoso appello dello stesso Wojtyla durante l'Angelus. Non a caso Giovanni Paolo II non era un pontefice che improvvisava: è stato anche un grande politico e un grande capo di Stato che ha cambiato la comunicazione della Chiesa. Quindi cercò il contatto con i rapitori di Emanuela Orlandi perché evidentemente la vicenda lo interessava molto da vicino; solo perché Emanuela era una cittadina vaticana o per altro? Sarebbe interessante saperlo. Il movente del rapimento e del ricatto pertanto vanno cercati all'interno del Vaticano. Aggiungo, che a mio avviso un ruolo determinante in tutta questa storia lo ebbe Enrico De Pedis della Banda della Magliana; quindi credo alle dichiarazioni fatte dall'ex compagna del boss, Sabrina Minardi cioè che fu De Pedis a rapire Emanuela e a farla sparire. Poi una volta che i verbali dell'interrogatorio furono resi pubblici dalla stampa, Sabrina Minardi cambiò versione, evidentemente a tutela di se stessa. Un'indagine bruciata volutamente da qualcuno. E voglio precisare che il gruppo dei testaccini di De Pedis era quello che in quel periodo storico aveva rapporti col Vaticano, rapporti di natura economica con lo Ior, la banca vaticana, e aveva conoscenze importanti all'interno delle mura leonine, tipo il cardinal Poletti”.
Anticipazione da “Oggi” il 25 marzo 2021. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, ha ritracciato l’attrice, allora 14enne, che nel 1983 recitò nei panni di Emanuela Orlandi in un film diretto da Gianni Crea, prodotto da due faccendieri turchi, Ugur Terzioglu e Vedat Sakir, a loro volta in stretto contatto con Bekir Celenk, indagato in Italia per traffico di droga e armi, imputato chiave nel processo per l’attentato a Papa Wojtyla. Un film all’epoca sequestrato e ora scomparso. «Io ero una ragazzina, con me Crea era gentilissimo, ma non mi considerava un interlocutore. Parlava però con mia mamma, che mi accompagnava sul set. Le diceva che il giallo della Orlandi era un intrigo internazionale, mafioso e politico, e che lui girava quel film affinché se ne parlasse», racconta Ombretta Piccioli, che poi fu attrice di fotoromanzi e oggi gestisce un bar a Figline Valdarno. «Alla prima molto affollata il regista si lamentò con mia madre perché il film era bello, ma temeva che lo sequestrassero». Il film infatti venne fatto sparire. «Se ricordo bene aveva un finale aperto, ma lasciava intendere che Emanuela, dopo tanta paura, veniva finalmente liberata», racconta la Piccioli che all’epoca, per mesi, fu controllata a vista dai genitori: temeva che rapissero anche lei come Emanuela Orlandi.
Anticipazione da “Oggi” il 25 febbraio 2021. Su OGGI in edicola da domani, un documentato articolo fa emergere il mistero della sparizione di un film su Emanuela Orlandi girato in Turchia tre mesi dopo la scomparsa della ragazza e mai passato al visto della censura. Il regista Gianni Crea disse di averne riportato in Italia due copie: non si hanno notizie di quella di cui Gennaro Egidio, il legale della famiglia Orlandi, ottenne il sequestro immediato. Rubata quella custodita negli uffici della casa cinematografica Gaumont. Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, dice a OGGI: «La soluzione di uno dei due misteri ci porterà a capire e risolvere entrambi. Ne sono convinto». OGGI rivela che i Carabinieri del Reparto Operativo di Roma inoltrarono un rapporto giudiziario riservatissimo al Sostituto Procuratore Domenico Sica, titolare delle indagini. Nel rapporto rivelano che i produttori sarebbero due trafficanti turchi, Ugur Terzioglu e Vedat Sakir, residenti a Roma e Milano, che sono a loro volta in stretto contatto con Bekir Celenk, indagato in Italia per traffico di droga e armi, imputato chiave nel processo per l’attentato a Papa Wojtyla, accusato da Agca di aver fatto l’intermediario per i servizi segreti bulgari nell’organizzare l’assassinio del Pontefice. Siamo nel 1983. Meno di due anni dopo Celenk morirà in carcere per un infarto. E i Carabinieri avanzano il sospetto che Terzioglu, in quanto legato a Celenk, possa conoscere notizie sulla scomparsa della ragazza. Come dire, quel film su Emanuela potrebbero averlo girato i complici dei rapitori o addirittura gli stessi rapitori.
· Il Mistero di Gloria Rosboch.
Quel "sogno d'amore" letale che uccise la prof Gloria Rosboch. Quattro anni fa la professoressa Gloria Rosboch veniva strangolata e gettata in una cisterna. "Un sogno d'amore finito in truffa sentimentale", spiega a ilGiornale.it la psicoterapeuta Amalia Prunotto. Rosa Scognamiglio, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Il 19 febbraio del 2016, all'interno di una vasca di scolo a Rivara, in località Rossetti nel Canavese, viene rinvenuto il corpo senza vita di una donna. Si tratta di Gloria Rosboch, insegnante 49enne di Castellamonte (Torino), della quale si erano perse le tracce dal 13 gennaio. La vittima era stata gettata in un pozzo da Gabriele Defillippi, ex studente di 22 anni, che aveva estorto alla professoressa circa 187mila euro con la promessa mendace di un futuro insieme ad Antibes in Costa Azzurra, per poi ammazzarla. Una truffa sentimentale, giunta a conclusione con un epilogo drammatico, a cui ha partecipato anche il compagno di Gabriele, il 53enne Roberto Obert. Ma cos'è una truffa affettiva? "Una forma di adescamento che avviene attraverso i social in cui le vittime si ritrovano, in maniera del tutto inconsapevole, in una condizione di plagio nei confronti di uno o più manipolatori. Cadono in una vera e propria truffa finanziaria, arrivando a perdere anche ingenti forme di danaro nel tentativo di procurarsi un sogno d'amore", spiega a ilGiornale.it la psicoterapeuta Amalia Prunotto del Movimento Acta (Azione Contro Truffe Affettive). Nel caso della professoressa Rosboch, quel "sogno d'amore" si è tramutato nel peggiore degli incubi pensabili. "Defilippi, prima di truffare e uccidere Gloria Rosboch, ha ricattato altre donne, le ha adescate su internet e, dopo averle sedotte, le ha ricattate e obbligate a pagarlo per non pubblicare le foto scattate durante i loro rapporti sessuali. Le vittime di soggetti disturbati come Defilippi sono persone vulnerabili con le quali questi mostri creano una falsa relazione, un falso rapporto di intimità e di fiducia", chiarisce la criminologa Ursula Franco che ha profilato i due killer di Gloria.
Chi era Gloria Rosbosch. Gloria Rosboch, 49 anni, viveva a Castellamonte, una piccola località in provincia di Torino, insieme ai genitori. Insegnava francese presso la scuola media Cresto e, nelle ore libere dagli impegni scolastici, seguiva le partite di calcio alla tivù, passione che condivideva col papà Ettore. Era una donna pacata, senza vezzi né vanità, riservata e poco dedita alla vita mondana. Aveva qualche amica con cui scambia messaggi e confidenze, ma non ha alcuna frequentazione assidua fuori dal contesto familiare. "Era una donna molto intelligente, istruita e di famiglia borghese. Eppure, è caduta in questa trappola - spiega la dottoressa Amalia Prunotto - Questo perché la truffa affettiva è un fenomeno trasversale che può coinvolgere chiunque, indipendentemente dall'età, dal sesso e dalla estrazione sociale. Nessuno può proclamarsi indenne ed è errato pensare che solo soggetti vulnerabili possano cadere in questo genere di trappole".
La scomparsa. Nel primo pomeriggio del 13 gennaio 2016 Gloria esce di casa per incontrare Gabriele Defilippi. Ai genitori racconta, però, di dover presenziare a una riunione a scuola. Lo fa per evitare loro preoccupazioni in quanto, specie mamma Marisa, non vedono di buon occhio il giovane De Filippi. Questi nel 2014 aveva convinto la figlia a investire i risparmi di una vita – circa 187mila euro – in una società immobiliare ma, dopo essersi garantito il malloppo, è sparito nel nulla. Ma Gloria si fida del suo ex allievo ed è certa che non l'abbia ingannata. "Personaggi come il Defilippi scelgono soggetti vulnerabili ai quali si mostrano affidabili, fingono con loro di avere una morale e desideri in comune, prospettano un rapporto sentimentale a lungo termine, recitano la parte dei compagni protettivi e interessati al loro benessere, mentre in realtà hanno un unico obiettivo, un tornaconto economico - spiega la criminologa Ursula Franco - Non appena le vittime comprendono di essere state manipolate e truffate e chiedono indietro i loro averi, questi soggetti le accusano di creare problemi nella relazione e poi accampano sempre nuove scuse per non riconsegnare il denaro. Sono capaci di minacciarle e diffamarle pubblicamente, a volte arrivano perfino a denunciarle per molestie". Fatto sta che Gloria quella maledetta sera di gennaio non rientra a casa. Sua cugina ne denuncia la scomparsa ai carabinieri di Rivarolo Cavanese. Il giorno successivo iniziano le ricerche coordinate dalla procura di Ivrea in tutto il perimetro di Castellamonte. Vi partecipano carabinieri, vigili del fuoco, volontari e personale del 118. Ma della professoressa non vi è traccia: sembra sparita nel nulla.
L'omicidio. Quel freddo pomeriggio di gennaio, pressappoco alle ore 15, Gloria raggiunge Gabriele Defilippi e il suo complice, Roberto Obert, alla rotonda che dista circa un chilometro dalla sua abitazione. I due killer la attendono a bordo di una Twingo bianca, armati delle peggiori intenzioni. Alla guida della vettura c'è Obert che si finge un avvocato mentre sul sedile posteriore è seduto Gabriele. Ignara di quanto le sarebbe accaduto da lì a poco, la professoressa si accomoda accanto all'ex alunno. "Era seduta davanti. Io guidavo e dietro a lei c’era Gabriele. Lui la intortava", spiegò Obert nel faccia a faccia col 22enne davanti al procuratore di Ivrea Giuseppe Ferrando. Gloria, immersa nella conversazione, commette due errori fatali. Non dà peso al fatto che l’auto diretta a Valperga si inoltri in un bosco, quello della discarica. E consegna a Obert, all’inizio del viaggio e su suggerimento di Defilippi, il suo cellulare, dopo averlo spento: l’unica ancora di salvataggio. Lo fa con serenità, testimoniò Obert, perché “è lui a chiederglielo”, riferendosi Gabriele. “La Finanza potrebbe intercettarci, meglio se chiudiamo i telefoni”, sarebbe stata la scusa del giovane. E così, quando inizia il tragitto che la consegnerà alla morte, Gloria non ha alcun mezzo per chiedere aiuto. I due la conducono in prossimità di una vasca di scolo a Rivara, in zona Rossetti. Gabriele la strangola con una corda,"all'improvviso" raccontò Obert. E quando la professoressa è già morta, la getta a testa in giù, completamente svestita, nella cisterna. Il 56enne partecipa al delitto, complice e testimone oculare di una esecuzione terrificante.
Quella truffa da 187mila euro. Il corpo senza vita di Gloria viene rinvenuto dai carabinieri di Ivrea con l'ausilio dei vigili del fuoco il 19 febbraio 2016, un mese dopo la denuncia di scomparsa. L'esito dell'autopsia eseguita dal medico legale Roberto Testi prova che la vittima è morta per strangolamento. A poche ore dal ritrovamento del cadavere la Procura di Ivrea apre dunque un fascicolo per omicidio volontario e soppressione di cadavere. Nel mirino degli inquirenti finisce Gabriele Defilippi, già fortemente sospettato della misteriosa scomparsa dell'insegnante. A fare il suo nome è Roberto Obert: "È stato lui a strangolarla. Io non c'entro", si difese il 56enne quando condusse i militari dell'Arma sulla scena del crimine. Dalle indagini emerge un dettaglio non trascurabile circa la relazione tra la prof e l'ex allievo. Il 28 settembre 2015 la Rosboch, tramite l'avvocato Stefano Caniglia, aveva presentato una querela contro Gabriele Defilippi per dei soldi mai restituiti. Gloria aveva conosciuto il ragazzo nel 2005 a Castellamonte, dove anch'egli era residente. Il loro rapporto di amicizia era continuato nel corso degli anni evolvendo in una relazione sempre più intima. "Posso affermare che il nostro rapporto diventava più stretto, nonostante la differenza di età - scrisse Gloria nella querela - La sua personalità molto suadente mi induceva a fidarmi di lui". Defilippi l'aveva convinta a investire il suo denaro (187 mila euro) per aprire una nuova attività ad Antibes, in Costa Azzurra. "A Ferragosto mi propone un lavoro completamente nuovo e diverso dall’attuale, in relazione alla sua società", continuò la prof. Ed è in quella occasione che, per la prima volta, il ragazzo le avrebbe prospettato un futuro insieme. Una sera, a Vidracco, in Valchiusella, i due erano a cena quando l'ex allievo le raccontò "di come sarebbe stata la nostra vita insieme se avessi accettato di andare a lavorare ad Antibes. Saremmo stati ospiti di un piccolo residence, senza troppe incombenze domestiche. Una vita magnifica insieme". La querela apre a nuovi scenari sul delitto dell'insegnante di Castellamonte, quello di una truffa sentimentale. La sera del 19 febbraio, Gabriele Defilippi e Roberto Obert vengono arrestati con l'ipotesi di omicidio e soppressione di cadavere. Anche Caterina Abbattista, madre del 22enne, finisce nel mirino degli inquirenti. Secondo l’accusa, la donna sapeva i piani del figlio, ma non avrebbe fatto nulla per fermarlo. Anzi, lo avrebbe poi “coperto” durante le ricerche del corpo della donna. Nel registro degli indagati viene iscritta anche un'amica del ragazzo, Efisia Rossignoli: si sarebbe finta un'operatrice bancaria nel tentativo di rassicurare Gloria sulla veridicità investimento.
I mille volti di Gabriele Defilippi. Quindici profili attivi su Facebook, decine di travestimenti e una sessualità multipla. È una vita decisamente al limite quella di Defilippi, segnata da relazioni instabili e consumo di droghe. "Gabriele Defilippi è un soggetto affetto da un grave disturbo di personalità, ha tratti antisociali e narcisistici - spiega la dottoressa Ursula Franco - È un mentitore abituale, un megalomane, un millantatore. È incapace di provare empatia, senso di colpa e rimorso. È un soggetto estremamente pericoloso. Non ha mai smesso di recitare, dopo l’arresto ha detto: “Come vi permettete? Non capisco il motivo per cui mi state trattenendo” e “Quando ho visto Gloria morire, sono rimasto impietrito, avevo anch’io paura dell’assassino, non sono riuscita a difenderla… voglio farla finita… No, non posso più vivere.” Defilippi ha recitato di fronte al magistrato sentimenti che non prova ma che ha imparato a mettere in scena allo scopo di manipolare il suo prossimo. Durante la permanenza in carcere cercherà di truffare il sistema carcerario, si servirà infatti di tutte le sue doti manipolatorie per mostrarsi agli operatori nelle vesti di un uomo nuovo. Nel dicembre 2018, il Defilippi ha dichiarato pubblicamente: “Studiare è un modo per chiedere scusa ai genitori della professoressa Gloria Rosboch. Da quando sono in carcere sono una persona diversa, ho abbandonato i personaggi che recitavo prima ma tutti i giorni faccio i conti con la mia coscienza. Ho deciso di iscrivermi a Scienze Politiche e laurearmi, poi un giorno vorrei lavorare, ricominciare una nuova vita. L’università è un primo passo del mio percorso di riabilitazione. Un modo per dimostrare concretamente che non sono più il Gabriele del passato, quello che indossava le maschere e che pensava di conquistare tutto con l’inganno. Non posso dimenticare quello che è successo. Con lo studio e questo percorso che ho intrapreso voglio chiedere scusa alla famiglia Rosboch, anche se sono consapevole che non saranno accettate. Per dare un senso a queste scuse è necessario dimostrare di essere un Gabriele diverso. So cosa ho fatto e quanto mi pesa lo so solo io".
Roberto Obert: vittima o manipolatore? Quando si trovano davanti al procuratore Ferrando, Defilippi e Obert si accusano vicendevolmente circa la paternità del delitto. "L’hai uccisa tu!", grida Gabriele puntando il dito contro il 56enne. Obert ribatte: "Peccato che era già morta. Era già morta quella poverina! E chi tirava la corda coi guanti? Tu tiravi, hai tirato la corda coi guanti! E in un men che non si dica, gli tirato il collo col cappio… Tiravi a due mani, con tutta la tua forza!". Defilippi reagisce alle accuse spiegando che è Obert a fermare la macchina: "Scende, sale dietro e la strozza", è la sua versione. Ma il procuratore non gli crede. La Rosboch, dalla ricostruzione ultima del misfatto, viene spinta giù dalla macchina, spogliata dei vestiti e dei gioielli, trascinata per terra e buttata a testa in giù nella cisterna. Muore subito, dopo la stretta al collo che la sorprende mentre parla col ragazzo di cui è ancora innamorata. Dunque Obert è vittima o anch'egli carnefice? Qual è il suo ruolo? "Obert era, come si definisce lui, un “servo” del Defilippi, un uomo completamente soggiogato: “Mi comportavo come un servo, sia perché affascinato sia impaurito. Gabriele era molto suadente, potrei dire che ero invaghito di lui. È stato Gabriele a prendere l’iniziativa, devo confessare che ero fortemente attratto da lui. Gabriele ha una personalità molto forte, al di là della sua età. Non ricordo esattamente come sia iniziata, so per certo che è stato lui a prendere l’iniziativa quando lui ha capito che io ero attratto fisicamente da lui. È capitato anche che abbiamo avuto rapporti a tre, alcune volte in albergo, altri nei pressi del parco dei Lumini di Torino, nei pressi del cimitero monumentale di Torino. In questi casi succedeva che ci incontravamo per avere dei rapporti sessuali e poi insieme decidevamo dei rapporti a tre. Quando aveva problemi mi cercava. Ricordo che all'inizio della nostra relazione mi agganciò chiedendomi una somma di denaro di 200 mila euro che gli servivano per un affare. Avendo io capito che qualcosa nel discorso non andava, e anche per il fatto che non avevo soldi, non acconsentii. Io ho telefonato anche alla mamma per chiederle come mai era sparito, lei mi ha detto che era un periodo che era molto nervoso. Ci siamo reincontrati all'inizio di gennaio del 2016 a Castellamonte e lui era di nuovo tutto gentile. Mi riferì che aveva i suoi problemi, in particolare che una donna di Castellamonte lo aveva denunciato perché le avrebbe preso 187mila euro. Gabriele, dopo aver passato i sui primi tre giorni in prigione, ritengo che mi abbia coinvolto apposta, perché mi ha visto debole. Adesso devo ammettere che appare quasi impossibile spiegare il mio comportamento. A volte ho avuto paura, quando ad esempio, dopo l'omicidio volevo andar via, lui mi ha detto: “Dove cazzo vai?”. Devo ancora dire che io in questo momento ho paura di cosa potrà dire Gabriele e ho paura che qualcuno dentro il carcere possa farmi del male perché non so con chi è invischiato. Frequentava delle persone su a Pinerolo poco raccomandabili. Lui mi raccontava così, che erano dì una famiglia mafiosa. Me lo disse diverse volle, non so se per minacciarmi.”
I processi e le condanne. Il 14 febbraio del 2017 inizia il processo per il caso Rosboch. Gabriele Defilippi assistito dal suo legale, l’avvocato Giorgio Piazzese, chiede il rito abbreviato condizionato alla perizia psichiatrica. L’obiettivo è quello di dimostrare un vizio parziale di mente dell'imputato in misura dei problemi psichici che sarebbero stati evidenti, secondo la difesa, già in tenera età del reo confesso. Nel dossier depositato dai difensori di Defilippi ci sarebbero, infatti, i referti dell’Asl del 2007 e 2008 da cui si evincerebbe che già all'età di 12 anni Gabriele avesse una personalità fuori dal comune, "disturbata". "Sicuramente aveva una mente molto lucida e un’intelligenza sopra la media - spiegò il procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando - Ma il disturbo di personalità non è sempre rilevante per la capacità di intendere e volere". Anche Roberto Obert, assistito dall'avvocato Celere Spaziante, chiede il rito abbreviato. Segue invece l'iter processuale standard Caterina Abbattista, che sin dal primo giorno si era professata innocente ed estranea alla vicenda. Il 14 dicembre del 2018 la Corte d'assise d'appello condanna Gabriele Defilippi a 30 anni di reclusione per omicidio volontario e soppressione di cadavere. A Obert, invece, viene comminata una pena di 19 anni. Il 18 dicembre del 2019, la prima sezione penale della Cassazione conferma entrambe le sentenze prevedendo un lieve sconto di pena per Obert (da 19 a 18 anni e 9 mesi). Assolta invece dall'accusa di concorso in omicidio Caterina Abbattista: per il giudice della Corte d'Ivrea non avrebbe partecipato all'omicidio dell'insegnante. La donna dovrà scontare una pena di 14 mesi per truffa.
"Amore criminale". Una truffa sentimentale ha condannato la professoressa Rosboch a una morte tanto crudele quanto assurda. Ma Gloria non è stata la sola persona ad essere caduta nella rete dei "manipolatori affettivi". L'associazione Acta ha stimato circa 10mila casi in poco più di 2 anni. "Si parla di "truffe affettive" per la profondità di queste situazioni e perché può colpire non solo come modalità di seduzione relazionale – spiega la psicoterapeuta Amalia Prunotto – Le vittime, uomini o donne di tutte le età, sono agganciate su diversi piani, non solo su quello sentimentale. I manipolatori, vere e proprie organizzazioni criminali, sono in grado di profilare perfettamente colui o colei che intendono adescare attraverso dei test di personalità e con un linguaggio mirato. Usano i social o le chat perché il web dà dipendenza garantendo un contatto quotidiano con la vittima. È un lavorio lungo e graduale che culmina col plagio totale della persona prescelta. L'intento ovviamente è quello di estorcerle denaro. E quando la vittima si rende conto di essere caduta in una trappola talvolta può essere troppo tardi". Un problema complesso e articolato dunque, che miete silenziosamente una vittima dietro l'altra. "È una vera e propria pandemia perché si tratta di un fenomeno trasversale e mondiale - conclude la dottoressa Prunotto - Bisognerebbe parlarne di più e fare qualcosa di più".
· Il Mistero di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio".
La sbarra, i colpi e la finta rapina: così la "belva" sterminò tre bambini. Francesca Bernasconi il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Il 30 novembre 1946 il corpo di Franca Pappalardo venne ritrovato privo di vita nel suo appartamento. Accanto a lei giacevano i tre figli piccoli. Tutti erano stati massacrati con una sbarra di ferro. Erano le vittime di Rina Fort, la "belva di via San Gregorio". "Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile e sta forse preparandosi a nuovo sangue". Con queste parole Dino Buzzati descrisse per il Corriere della Sera l'assassino che aveva colpito al numero 40 di via San Gregorio a Milano, la sera del 29 novembre 1946. Le sue vittime furono Franca Pappalardo, emigrante siciliana di 40 anni, e i suoi tre figli: Giovanni di 7 anni, Giuseppina di 5 e Antonio di 10 mesi. Tutti vennero massacrati a colpi di spranga, mentre si trovavano nel loro appartamento. Il killer venne individuato poco dopo: si trattava di Rina Fort, nata Caterina, amante di Giuseppe Ricciardi, il marito di Franca e il padre dei tre bimbi assassinati. La scena del crimine che si parò davanti agli occhi di fotografi e investigatori fu una delle più efferate della Milano del Dopoguerra, tanto che l'assassina venne rinominata la "belva di via San Gregorio".
La macabra scoperta. La mattina del 30 novembre 1946 Giuseppina Somaschini, una commessa alle dipendenze di Ricciardi, arrivò in via San Gregorio per ritirare le chiavi del magazzino, come ogni mattina. Il commerciante il giorno prima si era recato a Prato per effettuare alcuni acquisti. Quando la donna arrivò davanti all'appartamento trovò la porta accostata ed entrò. Fu allora che fece la macabra scoperta. A terra giaceva il corpo senza vita di Franca Pappalardo, mancante di una scarpa. Lì a fianco era steso il figlio Giovanni, con la testa poggiata a uno stipite e la faccia rivolta a terra. Poco più in là, in cucina, si vedevano i corpi senza vita della piccola Giuseppina, anche lei stesa a terra, e di Antonio, ancora nel seggiolone, con il corpicino afflosciato e la testa reclinata in avanti. Tutt'intorno il sangue. Franca, come si legge nella requisitoria che il pm Giovanni De Matteo terrà nel corso del processo, pubblicata su Misteri d'Italia, venne uccisa da "18 colpi di sbarra metallica alla testa", mentre i due figli maggiori vennero raggiunti da 7 e 9 colpi. Uno solo, alla testa, invece fu sufficiente a fermare la vita del piccolo Antonio. A testimonianza di quell'atroce scena del crimine ci sono le foto, scattate da fotografi e giornalisti arrivati prima della polizia ed entrati nell'appartamento di Milano per documentare il macabro quadro. La casa era stata messa sottosopra ed erano spariti alcuni gioielli. Tra Franca e l'assassino doveva esserci stata anche una violenta lotta, dato che la vittima stringeva in mano una ciocca di capelli neri, non molto lunghi, probabilmente strappati al killer. Difficile pensare che si fosse trattato di omicidi a scopo di rapina, data l'efferatezza con cui erano stati compiuti: per portare a termine il massacro, l'assassino aveva usato una sbarra di ferro. Per questo si pensò che un delitto tanto lugubre potesse essere stato opera di una donna, "accecata dalla gelosia".
La "belva" di via San Gregorio. La ricerca di quella che venne rinominata dai giornali dell'epoca la "belva di San Gregorio" fu breve. Subito il pensiero andò all'amante del Ricciardi, ex commessa nel suo negozio: Rina Fort. A fare il suo nome fu la Somaschini, che la ritenne, stando alle parole del pm Giovanni De Matteo, "l'unica persona in Milano che avesse potuto nutrire sentimenti di odio, di gelosia, di distruzione contro la famiglia del Ricciardi". Giuseppe, "Pippo", si era trasferito a Milano da Catania per lavoro e aveva lasciato in Sicilia moglie e figli. Da poco, la famiglia si era ricongiunta e i rapporti tra Rina e Pippo si erano interrotti. La donna venne rintracciata nella sua casa e condotta in questura, dopo di che venne sottoposta a un lungo interrogatorio. I sospetti vennero confermati anche dai rilievi effettuati su Caterina: ecchimosi al ginocchio, escoriazioni alle gambe compatibili con le possibili azioni difensive della Pappalardo e macchie di sangue sul soprabito. Inoltre i capelli ritrovati nelle mani della vittima corrispondevano a quelli della Fort. Dopo 17 ore (tanto durarono le domande degli inquirenti), Rina Fort crollò e iniziò a confessare. La sera del 1° dicembre 1946 la donna ammise di aver ucciso Franca colpendola ripetutamente con una spranga, "trasportata ed accecata dall'odio contro la moglie dell'amante che, con la sua presenza a Milano, ostacolava la sua convivenza col Ricciardi". Il giorno dopo la "belva di via San Gregorio" disse di aver colpito anche i tre bambini. Non solo. Fornì ulteriori particolari raccapriccianti: di come avesse calpestato il corpo della donna morente, che infatti venne ritrovata con le costole rotte, e di come avesse cosparso di ammoniaca i volti dei piccoli che ancora si lamentavano, infilandogli in bocca degli stracci. Una versione, questa, che la "belva" non raccontò mai più: cambierà diverse volte la sua narrazione e negherà di aver ucciso anche i tre bambini. Per esaminare la personalità della Fort venne chiamato il professor Filippo Saporiti, direttore del manicomio giudiziario di Aversa, che delineò il profilo di una persona "sana di mente". Ma dopo aver confessato l'eccidio la versione della donna cambiò.
Il misterioso Carmelo. Fu allora che Rina Fort decise di far entrare in gioco una seconda persona: il misterioso Carmelo. Secondo quanto raccontato dalla donna, il 25 novembre Giuseppe le avrebbe presentato un cugino, Carmelo, e tutti e tre sarebbero andati insieme al ristorante "Mamma Bruna", dove Ricciardi, a cui la Fort aveva attribuito il ruolo del mandante del crimine, avrebbe esposto il suo piano: una finta rapina al magazzino, così da poter mettere a tacere i molti creditori alle costole del Ricciardi. Così quel 29 novembre Caterina avrebbe incontrato il misterioso Carmelo, che le avrebbe offerto una sigaretta molto forte, forse contenente oppiacei, e l'avrebbe condotta in uno stato di semi-incoscienza fino al numero 40 di via San Gregorio. Franca avrebbe aperto la porta di sua volontà e, a quel punto, Carmelo avrebbe dato alla Fort un pugno in testa e lei si sarebbe ritrovata con una sbarra tra le mani. Non seppe spiegare il motivo del cambio di piano (dal magazzino all'abitazione del Ricciardi) e dell'efferato omicidio della Pappalardo e dei suoi tre bambini. Nel frattempo, però, la polizia fece alcune ricerche e individuò cinque possibili Carmelo in qualche modo legati a Giuseppe Ricciardi. Quattro, al momento del delitto, non erano a Milano e vennero rilasciati. Un quinto, invece, venne arrestato: si chiamava Giuseppe Zappulla. Insieme a lui, venne condotto nel carcere di San Vittore anche Ricciardi, sospettato di essere il mandante dell'omicidio. Dopo 18 mesi, entrambi vennero scarcerati.
La Fort agì da sola? Successivamente la Fort continuò a sostenere di non essere stata sola quella notte e spuntò anche un terzo uomo che avrebbe partecipato al delitto e l'avrebbe spinta facendola cadere addosso a Franca Pappalardo. Un'ipotesi, quella indicata dall'assassina, che non convinse il pm De Matteo, che nel corso della sua requisitoria spiegò: "Caterina Fort uccise da sola. Unica è stata la causale, unico il meccanismo offensivo". Il 10 gennaio del 1950 iniziò il processo contro Rina Fort davanti alla Corte d'Assise di Milano. La difesa cercò di avvalorare il fatto che la donna, secondo quanto da lei sostenuto, aveva confessato gli omicidi sotto le pressioni dei lunghissimi e disumani interrogatori cui venne sottoposta. Infatti, stando alla versione della difesa, Rina non aveva agito da sola e quel 29 novembre era stata vista in compagnia del misterioso Carmelo. La difesa cercò di dimostrare che la Fort, quella sera, agì con dei complici e portò a sostegno della propria tesi alcuni punti, riportati all'epoca dall'Unità. Tra gli altri interrogativi esposti, l'avvocato chiede perché la Pappalardo avrebbe dovuto aprire la porta alla Fort se non ci fosse stata con lei una persona di cui si fidava, forse proprio questo cugino Carmelo. Inoltre la scomparsa dei gioielli e dell'arma del delitto potrebbero implicare la presenza di altre persone. I testimoni chiamati in aula però ricordarono di aver incontrato Rina da sola quella sera e la tesi della difesa non convinse i giudici che, alla fine del processo, ritennero la Fort colpevole di omicidio volontario nei confronti di Franca Pappalardo e dei tre bambini e di simulazione di reato (data la situazione in cui era stata trovato l'appartamento di via San Gregorio e il furto di gioielli). La pena fu l'ergastolo, con sei mesi di isolamento, oltre che l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Così, la "belva" di San Gregorio tornò nel carcere di San Vittore. Poco dopo, venne trasferita in quello di Perugia e fece ricorso. Così nel 1951 venne celebrato un nuovo processo davanti alla Corte d'Assise di Bologna. Ancora una volta la difesa sostenne che quella notte qualcun altro avesse ucciso i tre figli del Ricciardi e avesse indotto la Fort a colpire la Pappalardo. Anche nel corso delle udienze a Bologna vennero ascoltati alcuni testimoni, ma nessuno confermò di averla vista insieme a un uomo la sera del 29 novembre. Così anche il secondo processo si concluse con una sentenza fotocopia di quella pronunciata dai giudici milanesi: ergastolo. Il ricorso alla Corte di Cassazione non riservò alcuna sorpresa e il 25 novembre del 1953 venne confermata la condanna al carcere a vita per Rina Fort. La donna però continuò a professarsi innocente circa l'omicidio dei tre bambini: "Non è la quantità della pena che mi spaventa - recita una delle frasi che le viene attribuita - C'è una parte del delitto che non ho commesso e non voglio". Fino al 1960 la "belva di via San Gregorio" rimase nel carcere di Perugia, poi venne trasferita a Trani per motivi di salute e successivamente a Firenze. Nel 1975, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone concesse a Rina Fort la grazia. Gli omicidi di via San Gregorio rappresentano uno dei crimini più atroci della storia italiana, per la sua efferatezza e per il coinvolgimento di tre bimbi, incapaci di difendersi dalla furia omicida che si abbatté su di loro quella notte di novembre. Rina Fort venne ritenuta l'unica "belva" colpevole del massacro. Non tutti i nodi però vennero al pettine e i dubbi sulla presenza di un complice rimasero nell'aria. I gioielli spariti in casa Ricciardi infatti non vennero mai ritrovati, così come l'arma del delitto. Giuseppina Somaschini, la commessa che scoprì la strage, rilasciò anni dopo un'intervista, sostenendo: "Rina non può aver compiuto quel massacro da sola".
· Il Mistero del delitto di Garlasco.
"Non è Stasi l'assassino di Chiara": luci e ombre di un delitto. Rosa Scognamiglio il 13 Agosto 2021 su Il Giornale. A 14 anni dall'omicidio di Chiara Poggi, l'avvocato Panciroli a ilGiornale.it: "Non esiste una prova diretta della colpevolezza di Stasi". A 14 anni esatti dal delitto di Garlasco, l'omicidio di Chiara Poggi riserva ancora numerosi dubbi e incertezze. Ombre che continuano ad addensarsi attorno al nome di Alberto Stasi, già condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per l'assassinio della fidanzata. Lo scorso ottobre, la Corte d'Appello di Brescia ha respinto l'istanza di revisione del processo presentata da Laura Panciroli, legale del 34enne. "Sono fermamente convinta dell'innocenza del mio assistito. - afferma l'avvocato di Stasi a ilGiornale.it - L'assassino di Chiara è a piede libero. Chi conosce la verità si faccia avanti".
Quel dna maschile sulle unghie di Chiara. Nel corso dell'intricato e complesso iter processuale, i colpi di scena non sono mancati. A partire dal 2014, quando fu individuato un cromosoma Y (maschile), non attribuibile con certezza al dna di Stasi, sui frammenti di due unghie della giovane vittima. Ad occuparsi degli accertamenti genetici fu il professor Francesco De Stefano, perito nominato dalla Corte d'Assise d'Appello di Milano in seguito alla riapertura dell'istruttoria dibattimentale. "Le osservazioni risultarono inconclusive. - spiega alla redazione de ilGiornale.it il noto genetista - Ciò significa che le tracce di dna maschile rivenute sui frammenti ungueali della ragazza non esclusero né accertarono la compatibilità con quello di Stasi o di qualunque altra persona. Purtroppo, disponevamo di una quantità infinitesimale di materiale genetico da analizzare e non fu possibile stabilire un'attribuzione certa. Alla vicenda seguirono molte polemiche ma furono queste le conclusioni della nostra osservazione peritale".
La richiesta di revisione del processo: "Avevamo prove nuove". Successivamente alla condanna, Alberto Stasi ha continuato a professarsi innocente. A giugno del 2020, la avvocato Laura Panciroli, legale del 34enne, aveva chiesto la revisione del processo. L'istanza della difesa faceva capo alla rilettura di una testimonianza, alle impronte papillari trovate sul dispenser di sapone e ai capelli rinvenuti nel lavandino del bagno della villetta di Garlasco. La richiesta è stata respinta, dapprima dalla Corte d'Appello di Brescia e poi in via definitiva dalla Cassazione, poiché secondo i giudici "le nuove prove" non sarebbero state tali da rimettere in discussione la posizione del 34enne. "La Corte d'Appello di Brescia ha frainteso l'argomento probatorio con le prove: ce ne erano di nuove. - afferma l'avvocato Panciroli - Per la prima volta avevamo a disposizione una fotografia digitale dei capelli ritrovati nel lavadino del bagno a casa dei Poggi. Se è vero, così come è agli atti del processo, che l'assassino di Chiara si è lavato con cura le mani dopo aver commesso l'omicidio, tanto da non lasciare tracce di sangue, come si spiega che invece i capelli siano rimasti nel lavandino?". Poi, c'è la questione delle impronte digitali sul dispenser di sapone. "C'erano anche quelle di Stasi ma non solo le sue. - continua il legale - Stabilire che sia lui l'assassino di Chiara solo perché - secondo quanto messo nero su bianco dai giudici - è stato l'ultimo a toccare il dispenser, non credo sia una prova di colpevolezza".
L'informativa dei carabinieri: "Indagini lacunose". Lo scorso 21 aprile, una lunga e corposa informativa dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano ha gettato nuove ombre sul delitto di Garlasco. Nella nota inviata dai militari dell'Arma procura di Pavia le indagini vengono definite "lacunose dal punto di vista investigativo, anche poco coerenti con la dinamica del delitto Inoltre, la complessiva analisi delle investigazioni svolte all'epoca individuerebbe alcuni elementi degni di approfondimenti investigativi poiché, fermo restando gli elementi a carico di Stasi, bisognerebbe prendere in considerazione quantomeno la presenza di un correo". "Quella informativa dei carabinieri di Milano riprende, almeno in parte, le argomentazioni che avevamo avanzato quando abbiamo presentato l'istanza di revisione del processo. - continua l'avvocato Panciroli - Credo che la nota inviata dai militari al tribunale di Pavia offrisse degli spunti interessanti. Quantomeno, si potevano fare degli approfondimenti prima di archiviare rapidamente la vicenda". In attesa eventuali e nuovi risvolti, Stasi resta in carcere: "Sono fermamente convinta della sua innocenza. - conclude il legale - Stasi è in carcere senza una prova diretta di colpevolezza né di un movente delittuoso. Chi conosce la verità dovrebbe farsi avanti".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Anticipazione da “Giallo” il 21 aprile 2021. Settimanale Giallo è venuto in possesso di una clamorosa informativa dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano che getta nuove, inquietanti, ombre sull'omicidio di Chiara Poggi, la giovane uccisa a Garlasco, paesino in provincia di Pavia, il 13 agosto del 2007. Per il delitto è stato condannato a 16 anni il fidanzato, Alberto Stasi, ma dopo aver rianalizzato gli atti contenuti nel fascicolo processuale del caso, il 7 luglio del 2020 i carabinieri di Milano hanno scritto una lunga nota alla procura di Pavia, concludendo che: “Quanto narrato indica alcuni aspetti non solo lacunosi dal punto di vista investigativo, ma anche poco coerenti con la dinamica del delitto. Inoltre, la complessiva analisi delle investigazioni svolte all'epoca individuerebbe alcuni elementi degni di approfondimenti investigativi poiché, fermo restando gli elementi a carico di Stasi, bisognerebbe prendere in considerazione quantomeno la presenza di un correo”. Per i carabinieri sono molti i punti che non tornano o che avrebbero meritato ulteriori approfondimenti: le tracce del dna di Alberto Stasi sul dispenser del sapone in bagno, i capelli neri nel lavandino, il sangue sulle porte e sui muri di casa Poggi, mai analizzato. Il documento completo e tutta la vicenda su Settimanale Giallo, Cairo editore, in edicola da domani, giovedì 22 aprile.
Garlasco, il colpo di scena: Stasi ha avuto un complice? Rosa Scognamiglio il 21 Aprile 2021 su Il Giornale. Un'informativa inviata dai carabinieri di Milano getta ombre sul dinamica del delitto di Garlasco. "Alcuni elementi meritavano ulteriori approfondimenti" recita la nota. Un clamoroso colpo di scena potrebbe riaprire le indagini relative al delitto di Garlasco. Quattordici anni dopo l'omicidio di Chiara Poggi, per il quale fu condannato a sedici anni di reclusione il fidanzato Alberto Stasi, un' informativa dei carabinieri di Milano getta ombra su uno dei casi di cronaca nera più discussi dell'ultimo ventennio. L'indiscrezione è stata raccolta in esclusiva dal settimanale Giallo, in edicola giovedì 22 aprile.
L'informativa raccolta dai carabinieri. Stando a quanto rivela un'anticipazione del settimanale Giallo, rilanciata dal sito Dagospia, i carabinieri di Milano avrebbero inviato una lunga e dettagliata nota alla Procura di Pavia in cui si evidenzierebbero alcuni "aspetti lacunosi" delle indagini e "poco coerenti" con la dinamica omicidiaria. "Quanto narrato indica alcuni aspetti non solo lacunosi dal punto di vista investigativo, ma anche poco coerenti con la dinamica del delitto. - reciterebbe la presunta informativa - Inoltre, la complessiva analisi delle investigazioni svolte all'epoca individuerebbe alcuni elementi degni di approfondimenti investigativi poiché, fermo restando gli elementi a carico di Stasi, bisognerebbe prendere in considerazione quantomeno la presenza di un correo". Dunque, Stasi potrebbe aver agito in correità con un complice? Ma soprattutto, c'è già il nome del presunto, altro indiziato?
Cosa non torna. Per i carabinieri ci sarebbero molti punti che non tornano nella dinamica del delitto o che, almeno, avrebbero meritato ulteriori accertamenti. A partire dalle tracce del dna di Alberto Stasi sul dispenser del sapone in bagno, i capelli neri nel lavandino, fino al sangue rinvenuto sulle porte e sulle pareti di casa Poggi, mai analizzato. Fatto sta che circa il valore probatorio di quegli stessi reperti, la Corte di Cassazione si è già pronunciata due settimane fa.
Il dispenser, i capelli, la porta: "Perché Stasi resta colpevole". Nella sentenza depositata lo scorso 19 marzo dalla prima sezione penale, la Suprema Corte ha chiarito la questione relativa alle tracce rinvenute sul dispenser di sapone rilevando che "da una parte la convinzione dei giudici del rinvio dell'avvenuta pulitura del dispenser dopo che l'assassino si era lavato le mani derivava anche da ragionamenti di tipo logico discendenti da nuove emergenze probatorie e dall'altra era stata valorizzata la posizione delle impronte di Stasi sul dispenser e il dito coinvolto per dedurre che le impronte fossero state lasciate dopo il lavaggio delle mani, del lavandino e del dispenser stesso; il tutto nella consapevolezza che sull'oggetto fosse presente il dna di Chiara Poggi e che, quindi, il lavaggio non aveva reso l'oggetto totalmente immune da tracce". Per questo, concludono i giudici "non si può ritenere che i giudici non avessero presenti le condizioni del dispenser". Che ci possa essere un colpo di scena inatteso? Il documento completo e tutta la vicenda su Settimanale Giallo, Cairo editore, in edicola da domani, giovedì 22 aprile.
"Avevamo capito che Stasi era il killer a pochi mesi dal delitto". "Riuscimmo a stanare il serial killer Donato Bilancia in soli 40 giorni. L'omicidio più complesso resta quello di Chiara Poggi" spiega in un'intervista a ilGiornale.it l'ex comandante dei Ris di Parma Luciano Garofano. Rosa Scognamiglio - Sab, 20/03/2021 - su Il Giornale. "L'omicidio più complesso è stato quello di Chiara Poggi". Non ha dubbi Luciano Garofano, biologo e generale in congedo dell'Arma dei carabinieri, che dal 1995 al 2009 è stato a capo dei Ris di Parma, lavorando sulla scena del crimine dei delitti più cruenti dell'ultimo ventennio. Dal caso di Cogne al massacro di Novi Ligure passando per il delitto di Garlasco, nella sua lunga e onorata carriera Garofano vanta anche il merito di aver stanato il serial killer Donato Bilancia: "È stato l'assassino seriale più atipico", spiega in un'intervista concessa a ilGiornale.it
Comandante Garofano, lei è stato a capo dei Ris di Parma dal 1995 al 2009. Come si sono evolute le tecniche di indagine nel corso degli anni?
"Tecnica e scienza hanno migliorato le nostre capacità di intervento sulla scena del crimine, consentendoci di scandire in maniera più precisa, le varie fasi dell'attività di indagine. Nel corso degli anni, sono aumentate le possibilità di analisi scientifica sul luogo del delitto. Questo ci ha imposto una rimodulazione delle tecniche di intervento e ci ha permesso di capire che il solo dato empirico non era più sufficiente. Così ci siamo dati dei nuovi protocolli, che senza ombra di dubbio hanno portato a risultati sempre più precisi".
Qual è stata l'innovazione che, in base alla sua esperienza, ha segnato la svolta?
"Disporre di luci forensi che permettono di mettere in evidenza tracce invisibili ha segnato una svolta importante. Successivamente con il luminol potevamo mettere in evidenza tracce di sangue invisibili e, congiuntamente all'analisi del Dna, ci ha dato la possibilità di cercare le tracce non percettibili a occhio nudo".
Cosa sono le "tracce invisibili"?
"Le tracce papillari, ovvero le impronte digitali ad esempio. Ma ce ne sono molte altre non visibili a occhio nudo che invece si rivelano significative ai fini dell'indagine".
Quali sono per un Ris gli elementi più importanti sulla scena del crimine?
"Intanto dipende dal tipo di evento che bisogna approfondire. Un conto è un colpo da arma da fuoco, un altro se si tratta di un delitto in cui alla vittima sono state inferte delle ferite con arma da punta e taglio ad esempio. In misura dell'evento cambia l'importanza degli elementi da repertare. Fondamentale è poi se sulla scena del crimine vi sia o meno la vittima e se l'evento sia occorso in un ambiente chiuso o aperto. A seconda della scena del delitto cambiano la strategia di intervento e le competenze dei professionisti chiamati a fare una valutazione".
Quanti e quali sono i professionisti dei Ris che di norma intervengono sulla scena del crimine?
"Normalmente le pedine stabili sono: un fotografo che documenti la scena del crimine, un responsabile che coordini le attività, un biologo, un esperto di impronte papillari e poi, in funzione dell'evento, l'esperto che caratterizza e connota quella scena. Faccio un esempio: se c'è stato un delitto d'arma da fuoco, in tal caso interverrà un esperto di balistica. Quindi stiamo parlando di 4 o 5 persone al massimo".
Quanto è importante il "fattore tempo" per la risoluzione di un caso?
"Sicuramente prima si interviene e prima c'è una minore dispersione delle tracce e una migliore raccolta di tutti gli elementi a disposizione. Però bisogna sfatare il mito che la tempestività sia l'unico fattore da cui dipende tutto. L'elemento che ritengo ancor più importante è la luce. Nella vicenda di Cogne, ad esempio, ricordo che abbiamo preferito intervenire al mattino, invece che a tarda sera, quando ci hanno chiamati, in quanto bisognava cercare elementi sia all'interno che all'esterno dell'abitazione. E in ogni caso un solo sopralluogo non basta mai. Nel primo intervento si raccolgono tracce che, una volta analizzate, suggeriscono dove andare ad approfondire ulteriormente. Non è detto che tutto si esaurisca in una sola occasione".
Cos'è la "prova regina"?
"Anche in questo caso dipende dal tipo di evento. Il Dna e le impronte papillari fanno sicuramente la differenza perché consentono di identificare una persona fisica. Soprattutto il Dna, essendo presente in numerose tracce biologiche (sudore, saliva, sangue, sperma), è tra le prove scientifiche la più significativa. Sta di fatto che, in ogni caso, bisogna tener conto di tutti gli elementi raccolti sulla scena del crimine, sempre".
L'analisi dei video e dei tabulati telefonici stanno acquisendo sempre maggiore importanza. Lo conferma?
"Le celle telefoniche e le registrazioni delle telecamere di sorveglianza hanno aggiunto altri elementi importanti. Attraverso l'esame delle celle e dei video, ad esempio, possiamo scandire i movimenti e i comportamenti delle persone coinvolte nella vicenda. Ovviamente poi gli elementi ottenuti dallo studi delle celle e dei filmati devono essere confrontati con le dichiarazioni rese dai protagonisti agli inquirenti. Ma è fuori da ogni dubbio che abbiano notevole rilevanza nella fase d'indagine".
Lei si è occupato anche di serial killer. Quali sono le tracce di un assassino seriale sulla scena del crimine?
"I serial si qualificano per l'area geografica in cui operano, le modalità con cui aggrediscono, le vittime e l'arma. C'è sempre una costante negli eventi omicidiari di un assassino seriale. Talvolta lo studio della Bpa (Bloodstain Pattern Analisys), ovvero della morfologia, delle dimensione e della distribuzione degli schizzi di sangue, ci permette di capire la dinamica dell'aggressione e, di conseguenza, fare un confronto con eventi analoghi che potrebbero suggerire un unico autore".
Qual è stato il serial killer più di atipico?
"Sicuramente Donato Bilancia. All'esame dei criminal profiler ha fallito perché si è spostato in diversi territori colpendo vittime tra loro molto diverse e con modalità differenti. Lo studio balistico dei proiettili e delle tracce biologiche che lasciava sul terreno o sulle vittime ci ha permesso però di stanarlo in soli 40 giorni a fronte di un assassino che era riuscito a uccidere anche tre persone in una sola settimana".
Qual è stato, in generale, il caso più complesso?
"L'omicidio di Chiara Poggi è stato molto complesso. Che fosse stato il dottor Alberto Stasi a colpire la vittima noi dei Ris ci eravamo arrivati a distanza di pochi mesi dal delitto. Abbiamo puntato alla mancanza di sangue sulle sue scarpe e sulla mancanza delle impronte delle calzature che indossava quando è entrato nella villetta dei Poggi. Eppure ci sono voluti 8 anni prima che si giungesse a una condanna. E questo la dice lunga su come durante il confronto processuale tante cose non vengano capite".
E invece quello più "particolare"?
"L'omicidio di Maria Fronthaler, ad esempio, è stato il primo caso di screening genetico, ancor prima di Yara Gambirasio. Poi c'è stato Cogne per tutta una serie di elementi che non solo riguardavano gli aspetti psicologici della vicenda ma anche quello delle tracce repertate in quella villetta. Quando s'indaga in ambito familiare le difficoltà aumentano notevolmente perché molte delle tracce si possono confondere con quelle dovute alla convivenza tra i protagonisti della vicenda. E in effetti il contributo più importante alla soluzione in quel drammatico caso è venuto con la Bpa".
Il 3D è l'ultima frontiera delle indagini?
"Il 3D è un sistema di misura e in quanto tale può essere molto utile. Si tratta di una proposta ricostruttiva visuale, in tre dimensioni per l'appunto, dei dati raccolti. Ci permette di animare qualcosa che altrimenti sarebbe statico. Ma talvolta può essere fuorviante perché può fornire una ricostruzione che va oltre l'obiettività del dato. Bisogna utilizzare questa misura con molta parsimonia".
Cosa ne pensa del caso di Bolzano?
"Non mi espongo perché non me ne sto occupando personalmente. Dico solo che, se sono arrivati a quel fermo, vuol dire che ci sono degli elementi obiettivi. In ogni caso bisogna attendere le analisi. Le tracce raccolte nell'autovettura, in casa dei due coniugi e l'esito dell'autopsia sulla salma della signora potranno dirci qualcosa in più. Indicare un possibile responsabile è molto semplice ma poi bisogna provarlo. Bisogna stare molto attenti, le ipotesi vanno sempre verificate. Le sentenze spettano ai giudici".
“Delitti imperfetti”. Ma i Ris sbagliano mai?
"Noi non suggeriamo il colpevole, raccogliamo e analizziamo degli elementi sulla scena del crimine. Oggi non tutto è perfetto. Anzi l'approccio è ancora discutibile specie per quanto riguarda i primi accessi sulla scena del delitto ovvero, quelli delle prime pattuglie e dei soccorritori. Bisogna lavorarci ancora molto, dobbiamo arrivare a un coordinamento ottimale tra chi interviene sulla scena del crimine. Su questo difettiamo ancora".
· Il Mistero di Tiziana Cantone.
Nuovi dubbi sul presunto suicidio. Tiziana Cantone, manomessi i suoi iPhone e iPad: “Dispositivi svuotati dopo la morte”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Una ulteriore conferma all’ipotesi che la morte di Tiziana Cantone, la giovane 31enne trovata senza vita nella tavernetta della sua abitazione a Mugnano di Napoli il 13 settembre del 2016 dopo esser stata vittima di revenge porn, non sia stato un suicidio. Dal professore Danilo Bruschi, del dipartimento di Informatica dell’Università Statale di Milano, è arrivato un parere pro-veritate sulla consulenza della Emme Team, il gruppo di specialisti informatici cui si è affidata la madre di Tiziana, Maria Teresa Giglio, in merito all’iPhone e all’iPad in uso a Tiziana. Bruschi, scrive il Corriere della Sera, ha concordato con l’ipotesi fatta dal team di investigatori: i due dispositivi sarebbero stati alterati, con la cancellazione della memoria all’interno dell’iPad ed il blocco dell’iPhone, mentre erano in possesso dell’autorità giudiziaria, e riconsegnati poi alla famiglia senza possibilità di accedere ai dati. “Durante un anno di lavoro — si legge in una nota — i consulenti italo-americani hanno lavorato con i propri periti per recuperare quei dati, inclusa la rubrica telefonica completa, ora parte delle prove depositate presso la Procura di Napoli Nord. Il professor Bruschi ha visionato la relazione e le conclusioni di Emme Team e ha concordato con i risultati, chiedendo a sua volta che la Procura di Napoli Nord decida, dopo quasi un anno, di iniziare le azioni peritali sui dispositivi, come da tempo legali e consulenti hanno richiesto in svariate occasioni. L’azione peritale è necessaria per poter confermare con certezza i risultati ottenuti”. A cinque anni di distanza dal quel drammatico giorno, la procura di Napoli nord ha riaperto il caso (dopo che sulla pashmina che la ragazza avrebbe usato per impiccarsi sono state rinvenute tracce biologiche maschili) con un fascicolo nel quale viene ipotizzata l’accusa di omicidio volontario contro ignoti. Lo scorso giugno è stata invece disposta la riesumazione del corpo di Tiziana, con l’incarico conferito a un collegio di consulenti, formato da un medico legale e un anatomo patologo e il cui esito non è stato ancora reso noto. Secondo gli esperti di Emme Team col parere del professore Bruschi vien confermato il lavoro dei tecnici che hanno affiancato Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana, e per questo vi è la “necessità da parte della Procura di nominare i propri consulenti per verificare quei dati, che nel frattempo, sono stati confermati anche da altri due esperti statunitensi, oltre che da quelli italiani, e dalla stessa Vodafone, che ha consegnato i tabulati telefonici e internet di Tiziana Cantone, dimostrando l’utilizzo dello smartphone immediatamente dopo il ritrovamento del corpo di Tiziana Cantone”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Da liberoquotidiano.it il 2 ottobre 2021. Tiziana Cantone, la donna di 31 anni trovata senza vita nella tavernetta della sua abitazione a Mugnano di Napoli il 13 settembre del 2016 dopo esser stata vittima di revenge porn, sarebbe stata uccisa. Non si tratterebbe dunque di suicidio ma di omicidio. E' questa la pista che sta prendendo corpo dopo gli ultimi accertamenti sui suoi dispositivi. Entrambi, infatti, rivela il Corriere della Sera, sono stati manomessi e svuotati dopo la sua morte. Al professore Danilo Bruschi, del dipartimento di Informatica dell'Università Statale di Milano, è arrivato un parere pro-veritate sulla consulenza della Emme Team, il gruppo di specialisti informatici cui si è affidata la madre di Tiziana, Maria Teresa Giglio, in merito ai suoi iPhone e iPad. I due dispositivi sarebbero stati alterati, con la cancellazione della memoria all'interno del tablet e il blocco del telefono, mentre erano in possesso dell'autorità giudiziaria, e riconsegnati poi alla famiglia senza possibilità di accedere ai dati. La Procura di Napoli Nord, dunque, a cinque anni di distanza dalla morte di Tiziana Cantone, ha riaperto il caso anche dopo il ritrovamento sulla pashmina che la ragazza avrebbe usato per impiccarsi delle tracce biologiche maschili, con un fascicolo nel quale viene ipotizzata l'accusa di omicidio volontario contro ignoti. Lo scorso giugno è stata invece disposta la riesumazione del corpo di Tiziana ma l'esito non è ancora noto. Secondo gli esperti di Emme Team col parere del professore Bruschi vien confermato il lavoro dei tecnici che hanno affiancato Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana, e per questo vi è la "necessità da parte della Procura di nominare i propri consulenti per verificare quei dati, che nel frattempo, sono stati confermati anche da altri due esperti statunitensi, oltre che da quelli italiani, e dalla stessa Vodafone, che ha consegnato i tabulati telefonici e internet di Tiziana Cantone, dimostrando l’utilizzo dello smartphone immediatamente dopo il ritrovamento del corpo di Tiziana Cantone".
Da "Oggi" l'1 settembre 2021. Mariano Cingolani, ordinario di Medicina Legale all’Università di Macerata e consulente della famiglia di Tiziana Cantone, spiega a OGGI, in edicola da domani, perché si è convinto che la ragazza sei anni fa non si impiccò ma fu strozzata. «Ho detto alla madre che dalle immagini fotografiche che mi sono state fornite, c’erano due segni sul collo della povera Tiziana riconducibili a tempi e modalità distinte. Uno attribuibile a uno strangolamento realizzato da qualcuno che ha voluto mettere fine alla vita di sua figlia, mentre l’altro a un impiccamento che ne simulasse il suicidio. Ne è rimasta toccata e sorpresa», dice il medico legale. Dopo la riesumazione del cadavere fatta a giugno per effettuare l’autopsia non svolta all’epoca dei fatti, il parere pro veritate del professor Cingolani è stato consegnato alla Procura e per avere riscontri su suddetto parere basterebbe un esame istologico sui tessuti: «È possibile anche a distanza di anni valutare la vitalità delle lesioni attraverso dei test istochimici, ovvero stabilire se una lesione è stata inferta quando il corpo era ancora in vita oppure no. La letteratura scientifica ha mostrato che questi test è possibile farli anche dopo dieci anni ottenendo risultati pressoché certi», spiega a OGGI Cingolani.
Leandro Del Gaudio per “il Messaggero” il 26 agosto 2021. Due solchi, due segni sul collo di Tiziana Cantone, da ricondurre a due eventi forse differenti: il primo riguarderebbe un episodio di strangolamento; il secondo, a pochi centimetri di distanza, effettuato pochi minuti dopo la morte della ragazza, sarebbe il frutto di una sorta di messa in scena: un impiccamento organizzato per simulare il suicidio della giovane donna che aveva provato a ribellarsi alla violenta campagna denigratoria subita a mezzo social. Due lesioni, dunque, sul collo della 31enne trovata morta nella tavernetta della sua villa di Mugnano il 13 settembre del 2016, su cui - come è noto - pendono indagini della Procura di Napoli nord, che ha riaperto il caso con un fascicolo nel quale viene ipotizzata l'accusa di omicidio volontario contro ignoti. Ma in cosa consiste l'ultima novità sul caso di Tiziana Cantone? Tutto ruota attorno a un parere pro veritate firmato dal professor Mariano Cingolani, ordinario di Medicina Legale presso l'università di Macerata, (in passato intervenuto come perito nel caso di Meredith Kercher): si tratta di una consulenza giurata chiesta dai consulenti della Emme Team, a loro volta schierati al fianco di Maria Teresa Giglio (mamma di Tiziana), destinata ad entrare nel fascicolo di indagine condotto dal pm Giovanni Corona. Cosa sostiene il docente intervenuto nel suo parere? Tre pagine, che si soffermano sulle foto scattate sul collo di Tiziana Cantone, subito dopo il suo decesso, da parte delle forze dell'ordine intervenute nell'abitazione di Mugnano. Stando alla valutazione del nuovo consulente, in quelle immagini ci sarebbero elementi per raggiungere due conclusioni: qualcuno avrebbe strangolato Tiziana, probabilmente usando un mezzo asfissiante tipo la pashmina reperita e acquisita agli atti (ma mai conservata in modo asettico, che conteneva tracce biologiche di un dna di tipo maschile); e in un secondo momento sarebbe stata realizzata una sorta di messa in scena, con l'impiccamento di Tiziana, usando la stessa pashmina attaccata alla panchetta da ginnastica. Ma come si fa ad arrivare a una simile considerazione? Proviamo a seguire il ragionamento del dottor Cingolani. Che si sofferma su due lesioni, entrambe rappresentate dalle foto a disposizione, rinvenute sul collo di Tiziana a pochi centimetri di distanza l'una dall'altra. In una prima lesione - si legge - si rinviene un solco discontinuo e obliquo; nella seconda lesione, posta un poco sotto la prima lesione, si rinviene un solco trasversale e uniforme. Dunque? Spiega ancora il consulente: «La seconda lesione reca caratteristiche tipiche del solco da strangolamento, per uniformità di profondità, continuità e andamento trasversale». E ancora: «La lesione due (ipotesi strangolamento) ha preceduto la lesione uno (impiccamento, suicidio)»; pertanto, «l'impiccamento ha avuto lo scopo di dissimulare, confondere o rendere più difficilmente percepibile la prima modalità lesiva, tentando di simulare una modalità lesiva risaputamente suicidiaria». Ma c'è spazio anche per un altro elemento nella valutazione del consulente di parte. Quello legato alla piccola lesione cutanea rinvenuta sul lato destro del mento della giovane donna, una ferita di due centimetri con margini netti e angoli acuti. Di che si tratta? Potrebbe trattarsi - condizionale doveroso - di una ferita apportata da un soggetto ignoto, nell'ipotesi di uno strangolamento avvenuto con la pashmina, prima di inscenare la posizione del suicidio per impiccamento. Ipotesi, solo ipotesi, giusto ribadirlo, nel rispetto del lavoro che stanno conducendo i magistrati della Procura di Aversa.
"Nessun suicidio, Tiziana Cantone fu strangolata". Valentina Dardari il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. Non si sarebbe quindi trattato di un suicidio ma di un omicidio. Il killer avrebbe inscenato il tutto volontariamente. Tiziana Cantone non si sarebbe uccisa ma sarebbe stata strangolata. A mettere i dubbi due solchi sul collo della vittima, la 31enne rinvenuta cadavere il 13 settembre del 2016 nella tavernetta della sua villa di Mugnano, comune in provincia di Napoli. Il primo segno sarebbe riconducibile a un episodio di strangolamento, mentre il secondo, successivo e a poca distanza dal primo, a un tentativo di inscenare un suicidio. Come disposto dalla Procura di Napoli Nord il corpo della giovane è stato riesumato lo scorso giugno per essere sottoposto a un esame autoptico. Inizialmente si era pensato al suicidio giunto in seguito a offese e continue umiliazioni nei suoi confronti tramite i social.
Le lesioni sul collo di Tiziana. Tiziana era stata la protagonista di un video hot che rimbalzò su internet, di sito in sito, nonostante i suoi tentativi di bloccare quel filmato diventato in poco tempo virale. La ragazza aveva sporto denuncia ed era stata condannata a dover pagare le spese del processo. Il giorno della sua morte la 31enne aveva appuntamento con un altro avvocato. Ma morì poche ore prima dell’incontro. Dopo l’autopsia e quelle due lesioni sul collo della vittima, la Procura ha aperto sul caso un fascicolo dove viene ipotizzata l’accusa di omicidio volontario contro ignoti. L’ipotesi emerge da una nuova perizia giurata firmata dal professor Mariano Cingolani, docente ordinario di Medicina Legale dell'Università di Macerata, che in passato era stato consulente anche nel processo riguardante Meredith Kercher. La nuova perizia è stata chiesta dallo studio Emme Team, che assiste la mamma di Tiziana, Maria Teresa Giglio. Anche questa finirà nel fascicolo della Procura di Napoli Nord nelle mani del sostituto procuratore Giovanni Corona, che ha riaperto le indagini sul caso Cantone.
La nuova perizia. Come riporta Il Messaggero, si tratta di tre pagine corredate dalle foto scattate dalle forze dell’ordine sul collo di Tiziana Cantone poco dopo la sua morte. Secondo Cingolani ci sarebbero elementi sufficienti per arrivare a due conclusioni. La prima che qualcuno possa avere strangolato la 31enne, forse utilizzando la pashmina ritrovata e messa agli atti, ma mai conservata in modo asettico, che conteneva tracce biologiche di un dna di tipo maschile. E la seconda che il killer abbia inscenato un suicidio usando ancora una volta la sciarpa. Alla base di queste considerazioni i due solchi presenti sul collo della vittima. Come scritto: “In una prima lesione si rinviene un solco discontinuo e obliquo; nella seconda lesione, posta un poco sotto la prima lesione, si rinviene un solco trasversale e uniforme”. Come spiegato dal consulente la seconda lesione reca caratteristiche tipiche del solco da strangolamento, per uniformità di profondità, continuità e andamento trasversale. Inoltre “la lesione due (ipotesi strangolamento) ha preceduto la lesione uno (impiccamento, suicidio)”; quindi, “l'impiccamento ha avuto lo scopo di dissimulare, confondere o rendere più difficilmente percepibile la prima modalità lesiva, tentando di simulare una modalità lesiva risaputamente suicidiaria”. Vi sarebbe anche una piccola lesione cutanea rinvenuta sul lato destro del mento della giovane vittima, ovvero un taglietto di due centimetri con margini netti e angoli acuti.
Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.
Attesa per l'esito dell'autopsia dopo riesumazione. Il giallo della morte di Tiziana Cantone, medico: “E’ stata strangolata, suicidio fu messa in scena”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Agosto 2021. Tiziana Cantone è stata strangolata e il suicidio è una messa in scena. E’ quanto emerge dalla valutazione, raccolta in tre pagine, del nuovo consulente chiamato in causa dalla famiglia della giovane 31enne trovata senza vita nella tavernetta della sua abitazione a Mugnano di Napoli il 13 settembre del 2016 dopo aver subito revenge porn. A quasi cinque anni di distanza dal quel drammatico giorno, la procura di Napoli nord ha riaperto il caso (dopo che sulla pashmina che la ragazza avrebbe usato per impiccarsi sono state rinvenute tracce biologiche maschili) con un fascicolo nel quale viene ipotizzata l’accusa di omicidio volontario contro ignoti. A inizio giugno è stata disposta la riesumazione del corpo di Tiziana, con l’incarico conferito a un collegio di consulenti, formato da un medico legale e un anatomo patologo e il cui esito non è stato ancora reso noto. Ad esprimersi sulla vicenda, in un parere pro veritate (opinione espressa formalmente in merito a una determinata questione), è il professor Mariano Cingolani, ordinario di Medicina Legale presso l’università di Macerata, interpellato in passato come perito nel caso di Meredith Kercher a Perugia. A riportare la notizia è il quotidiano Il Mattino. Si tratta di una consulenza giurata chiesta dalla Emme Team, il gruppo di studio legali che assiste Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana, che sin da subito ha allontanato l’ipotesi suicidio. Nella relazione di tre pagine, Cingolani si sofferma sulle foto scattate dagli investigatori sul collo di Tiziana Cantone subito dopo il decesso. Stando alla valutazione del nuovo consulente, in quelle immagini ci sarebbero elementi per arrivare a due conclusioni. La prima: qualcuno avrebbe strangolato Tiziana, presumibilmente usando un “mezzo asfissiante” tipo la pashmina sulla quale sono state rilevate tracce maschili. La seconda: successivamente sarebbe stata realizzata una sorta di messa in scena, con l’impiccamento di Tiziana, usando la stessa pashmina attaccata alla panchetta da ginnastica. Secondo la relazione di Cingolani, si arriva a una conclusione del genere perché in una prima lesione si rinviene un solco discontinuo e obliquo; nella seconda lesione, posta un poco sotto la prima lesione, si rinviene un solco trasversale e uniforme. “La seconda lesione reca caratteristiche tipiche del solco da strangolamento, per uniformità di profondità, continuità e andamento trasversale” scrive il consulente che aggiunge: “La lesione due (ipotesi strangolamento) ha preceduto la lesione uno (impiccamento, suicidio)”. Si arriva così all’ipotesi finale: “L’impiccamento ha avuto lo scopo di dissimulare, confondere o rendere più difficilmente percepibile la prima modalità lesiva, tentando di simulare una modalità lesiva risaputamente suicidiaria”.
Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.
Cingolani: «Nessun suicidio, Tiziana Cantone fu strangolata». Il medico legale Mariano Cingolani torna sul decesso di Tiziana Cantone, la ragazza campana vittima di Revenge Porn. Nuovi particolari sulla vicenda giudiziaria. Il Dubbio il 27 agosto 2021. Due lesioni sul collo di Tiziana Cantone, la 31enne suicidatasi il 13 settembre 2016 dopo la diffusione di alcuni video hot che la ritraevano: una da strangolamento e una seconda idonea a simulare un’impiccagione. È quanto ipotizzato – a raccontarlo è l’edizione di ieri de Il Mattino – in un parere pro veritate emesso dal medico legale Mariano Cingolani (ordinario presso l’Università di Macerata), incaricato da Emme-Team, il gruppo di studio legali che assiste da quasi due anni Teresa Giglio, madre di Tiziana Cantone. Una “mamma coraggio” che con la sua determinazione è riuscita prima ad incidere sull’approvazione della legge sul revenge porn e poi a far riaprire il caso giudiziario dalla Procura di Napoli Nord (sostituto Giovanni Corona), che da qualche mese indaga per omicidio volontario – per ora senza indagati – e per vederci chiaro ha fatto riesumare il corpo della Cantone per effettuare quella autopsia mai realizzata. Il parere di Cingolani, emesso sulla base di alcune fotografie, aggiunge nuovi particolari ad una vicenda che si trascina da anni, e conferma ovviamente quanto sostenuto dalla Giglio e da Emme- Team, secondo cui Tiziana non si sarebbe suicidata con la pashmina ritrovata attorno al suo collo dalla zia, ma sarebbe stata uccisa, forse con la stessa pashmina, per cause peraltro al momento ignote. Il parere si aggiunge a mole di documenti difensivi presentati negli ultimi due anni da Emme-Team alla Procura con sede ad Aversa (Caserta). Sulla vicenda si attende soprattutto l’esito dell’esame autoptico non ancora presentato alla Procura dai consulenti nominati nei mesi scorsi. L’inchiesta ipotizzò il reato di istigazione al suicidio. Secondo la ricostruzione di allora, Tiziana Cantone era finita nel tritacarne del web dopo che un ragazzo aveva filmato un suo rapporto sessuale. Lei si fidava, parlava con lui ma non poteva mai pensare che quella persona avrebbe fatto girare quel video. Milioni e milioni di visualizzazioni che hanno reso la vita di Tiziana un inferno. Il giudice del Tribunale di Napoli Nord aveva imposto ai social che continuavano a trasmettere il video di eliminarlo dalla rete per il cosiddetto diritto all’oblio. Quel video hard che lei aveva girato consenziente, ma che poi era stato messo in rete senza il suo consenso aveva trasformato la vita di Tiziana costringendola a cambiare citta’, lavoro e anche a chiedere e ottenere dal tribunale un nuovo cognome. A coordinare le indagini, il pm Rossana Esposito che ascoltò la madre di Tiziana e tutte le persone più vicine a lei per ricostruire una storia già nota negli ambienti giudiziari. Tiziana, prima di cadere in una profonda depressione, aveva lottato per ottenere giustizia contro quelle persone di cui lei si fidava ma che poi l’hanno tradita dandola in pasto ad un mondo virtuale che non le ha risparmiato alcun tipo di insulto. Perfino la madre era stata costretta a lasciare il suo lavoro e trasferirsi altrove. Insomma, una storia dolorosissima sulla quale, però, oggi si aprono scenari inediti e inquietanti secondo i quali Tiziana sarebbe infatti stata uccisa.
La donna fu trovata morta nel 2016. Riesumato il corpo di Tiziana Cantone, si indaga per omicidio: “Cercate sotto le unghie”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Si cercano le tracce di un eventuale colluttazione, indizi che possano far pensare che quello di Tiziana Cantone, la donna trovata morta con una pashmina al collo nel Napoletano nel settembre 2016, non sia stato un suicidio. La Procura della Repubblica di Napoli Nord ha conferito stamattina l’incarico a un collegio di consulenti, formato da un medico legale e un anatomo patologo, di eseguire l’esame autoptico sulla salma della 31enne di Mugnano trovata senza vita dopo aver subito revenge porn. Il suo caso è stato riaperto ed era stata richiesta la riesumazione del cadavere. Ai consulenti – spiega la nota firmata dal procuratore Carmine Renzulli – è stato chiesto di accertare le cause del decesso e di effettuare esami tossicologici e genetici, i secondi su eventuali reperti organici sotto le unghie nel caso in cui – visto lo stato di decomposizione – fossero reperibili. I consulenti si sono riservati di dare riscontro con una relazione scritta che depositeranno entro 90 giorni. A gennaio era stato aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti: un atto dovuto alla luce della denuncia presentata a inizio anno dai legali della famiglia della giovane. Sulla pashmina che la ragazza avrebbe usato per impiccarsi sono state rinvenute tracce biologiche maschili, oltre a quelle di Tiziana e della zia, che trovò la ragazza e le sfilò la sciarpa che le stringeva il collo. Dagli accertamenti è anche emerso che il suo cellulare è stato acceso, bloccato e utilizzato per circa un’ora dopo il sequestro seguito al ritrovamento del corpo. Dopo la morte della ragazza, va ricordato, non ci fu autopsia e il caso venne rapidamente archiviato per suicidio. L’inchiesta venne poi riaperta per istigazione al suicidio, ma nel dicembre 2017 l’indagine venne archiviata.
Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.
Il livido sul collo e il sospetto: Tiziana Cantone è stata uccisa? Angela Leucci il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ombra dell'omicidio sul caso di Tiziana Cantone: tutti i dubbi sul presunto omicidio a "Chi l'ha visto?", che ha ricostruito il suo rinvenimento. Tiziana Cantone si è davvero suicidata o è stata uccisa da qualcuno? È il dubbio corso nella puntata di ieri di Chi l’ha visto?. Il corpo di Tiziana, trovata impiccata a un attrezzo da palestra nella tavernetta di casa sua, a Mugnano, il 13 settembre 2016 all’età di 31 anni, sarà riesumato il prossimo martedì, al fine di eseguire l’autopsia come disposto dalla Procura di Napoli Nord. Infatti il corpo di Tiziana non fu analizzato nell’immediato all'epoca del decesso, dato che per gli inquirenti fu subito certo che si sia trattato di un suicidio. All’inizio fu predisposta un’indagine per istigazione al suicidio contro ignoti, ma poi fu archiviata. Ma non fu perquisita la tavernetta, non furono eseguite analisi sull’attrezzo da palestra. E ora il dubbio, per anni sospeso nell’aria, torna a palesarsi. A trovare il corpo di Tiziana fu la zia Maria. Lei e suo marito, lo zio Giuseppe, l’avevano invitata a pranzo quel giorno. Di fronte al rifiuto della giovane, lo zio la sollecitò a prendere almeno il caffè tutti insieme. Non vedendola arrivare, la zia iniziò a cercarla, ma non trovandola in casa provò nel luogo che era meno congeniale alla giovane: la tavernetta. Tiziana era lì, con una sciarpa intorno al collo. Istintivamente la zia la liberò da quella morsa e lo zio provò a farle un massaggio cardiaco. Arrivò anche il 118 e si provò a rianimarla per un’ora.
Tiziana fu uccisa? La salma viene riesumata. Tiziana, che successivamente cambiò il suo cognome in Giglio, era stata la protagonista di un episodio di revenge porn perpetrato sul Web. Un suo video hot rimbalzò tra social, motori di ricerca, siti e piattaforme, nonostante lei abbia cercato di fermare quel filmato in cui si vedeva solo lei e non la controparte maschile. Aveva anche sporto denuncia ed era stata condannata a pagare le spese processuali. Così, proprio quel 13 settembre, avrebbe dovuto vedere un altro avvocato per rinverdire la propria battaglia. Ma è morta poche ore prima dell’appuntamento. La mamma di Tiziana, Maria Teresa Giglio, si dice “costretta a un’agonia continua”, a causa dei “contenuti diffamatori” ancora oggi presenti in qualche luogo della Rete, contenuti pubblicati da “gente che continua a guadagnare” sulla tragedia di una figlia e il dolore di una mamma. Successivamente è stata varata una legge ad hoc che porta il nome della 31enne. Si ritenne all’epoca che Tiziana si fosse suicidata a causa della continua umiliazione cui venne sottoposta. Tuttavia, se avesse pensato di togliersi la vita, la giovane sarebbe andata in tavernetta con il telefonino, le sigarette e l’accendino? Ha incontrato qualcuno e quell’incontro le è stato fatale? Fu quindi omicidio? L’amica di famiglia Tina, che ha vestito Tiziana in obitorio, crede di sì. “Mi ha colpito vedere quel livido - ha detto Tina - lasciato al centro del collo, proprio centrale. Nei laterali non c’era niente, non c’era livido, solo qui, una chiazza”.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
(Ansa il 28 maggio 2021) La Procura della Repubblica di Napoli Nord ha disposto la riesumazione del cadavere di Tiziana Cantone, la 31enne che si sarebbe tolta la vita il 13 settembre del 2016 in una abitazione di Mugnano, in provincia di Napoli, a causa della diffusione in chat di alcuni suoi video privati. La riesumazione dei resti della 31enne è stata disposta dal sostituto procuratore Giovanni Corona nell'ambito delle indagini aperte di recente che ipotizzano il reato di omicidio contro ignoti. La riesumazione dovrebbe avvenire nella prima decade di giugno.
Tiziana fu uccisa? La salma viene riesumata. Rosa Scognamiglio il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Il corpo di Tiziana Cantone sarà riesumato. Le indagini condotte dai legali della famiglia proverebbero che la ragazza si stata vittima di omicidio. Svolta clamorosa nel caso di Tiziana Cantone, la 31enne trovata morta il 13 settembre 2016 a Mugnano (Napoli) successivamente alla diffusione online di alcuni suoi video e foto hard. La Procura di Napoli ha disposto la riesumazione del cadavere dopo che, lo scorso 26 gennaio, era stato aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti, a seguito della denuncia depositata dai legali della madre di Tiziana, Maria Teresa Giglio.
La morte sospetta di Tiziana Cantone. Tiziana Cantone era stata ritrovata senza vita il 13 settembre 2016 al piano seminterrato di un'abitazione in Mugnano di Napoli. Secondo la versione che risulta agli atti, la 31enne si sarebbe impiccata perché alcuni video e foto private che la ritraevano in pose equivoche sarebbero stati diffusi in rete a sua insaputa. Profondamente provata dalla vicenda, la ragazza avrebbe deciso di togliersi la vita. Tuttavia, stando alle indiscrezioni diffuse dal Corriere della Sera, il caso potrebbe essere riaperto e le carte dell'inchiesta completamente stravolte per via di alcuni dettagli emersi nel corso delle investigazioni postume alla conclusione giudiziaria della vicenda.
Perché il caso può essere riaperto. Dalle indagini difensive condotte dai legali della famiglia Cantone emergerebbero alcuni contenuti - contatti telefonici e attività internet - che sarebbero stati cancellati dall'I-phone e l'I-Pad di Tiziana mentre erano in custodia dei carabinieri nel corso degli accertamenti sulle circostanze del decesso. Per questo motivo, la Procura di Napoli Nord ha aperto un'inchiesta per frode processuale. L'accesso agli account della 31enne è stato ottenuto dagli esperti dell'Emme-Team, il gruppo di studi legali con sede a Chicago che, da oltre un anno assiste Maria Teresa Giglio e di cui fa parte il difensore Salvatore Pettirossi. Secondo i tecnici, Tiziana sarebbe stata vittima di un omicidio.
La "prova regina" sulla sciarpa usata per impiccarsi. Secondo quanto rivela Il Mattino, nei giorni scorsi, sono state infatti rinvenute tracce biologiche maschili sulla sciarpa della 31enne, oltre a quelle di Tiziana e della zia, che per prima trovò il corpo senza vita della ragazza sfilandole subito la pashmina dal collo. Tali risultanze sono state prodotte alla Procura, che dovrà decidere si riaprire una nuova indagine per omicidio dopo l’archiviazione di quella per istigazione al suicidio. In previsione del nuovo filone di indagine, la Procura ha deciso di disporre la riesumazione della salma per eseguire l’autopsia. Prima di procedere, il magistrato si è consultato con un anatomopatologo secondo il quale, nonostante sia passato tanto tempo anni dalla morte della donna, è ancora possibile raccogliere elementi che facciano propendere per una delle due ipotesi.
Napoli, morta suicida dopo la diffusione di video: la Procura indaga anche per omicidio. La Repubblica il 26 gennaio 2021. Aperto un nuovo fascicolo sul caso di Tiziana: atto dovuto sulla base dei nuovi elementi segnalati dai legali della madre. A quasi quattro anni e mezzo dalla morte di Tiziana Cantone, la Procura di Napoli Nord apre un fascicolo dove, per la prima volta, compare anche l'ipotesi di omicidio sulla tragica fine della trentunenne di Mugnano, sconvolta dalla diffusione in rete, contro la sua volontà, di suoi video privati. Le indagini aperte dopo quel tragico 13 settembre del 2016, quando fu ritrovato il corpo senza vita di Tiziana, con una pashmina legata al collo, hanno avvalorato la tesi del suicidio dettato proprio dalla disperazione per la circolazione on line di quei filmati. Adesso, in seguito ai nuovi elementi di prova depositati negli ultimi mesi dallo staff difensivo che assiste la madre di Tiziana, Teresa Giglio, i magistrati hanno deciso avviare accertamenti anche su un'ipotesi alternativa, quella dell'omicidio. Si tratta, precisano dall'ufficio inquirente di Aversa, di un "atto dovuto", al momento contro ignoti. Nei mesi scorsi, la Procura di Napoli Nord ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di frode processuale in relazione alla cancellazione di tutti i dati contenuti nell'iphone e nell'ipad di Tiziana quando erano sotto custodia. Secondo gli esperti informatici dell'Emme Team che, insieme con l'avvocato Salvatore Pettirossi, assistono la madre della donna, l'iphone di Tiziana sarebbe stato acceso, sbloccato e utilizzato per oltre un'ora, dopo il sequestro seguito al ritrovamento del corpo.
La giovane morta a 31 anni dopo la gogna social. Tiziana Cantone, la svolta dopo 52 mesi: si indaga per omicidio, il giallo di pashmina e cellulare. Redazione su Il Riformista il 26 Gennaio 2021. Formulata l’ipotesi di omicidio contro ignoti in relazione alla morte di Tiziana Cantone, la 31enne trovata senza vita il 13 settembre 2016 all’interno della cantina della propria abitazione a Mugnano di Napoli, comune a nord del capoluogo partenopeo. Questo il fascicolo aperto dalla procura di Napoli nord. “Un atto dovuto” fanno sapere dalla procura, dopo la denuncia depositata due settimane fa, dai legali della famiglia della giovane che si sarebbe suicidata dopo la diffusione in rete di alcuni filati privati, e relativa agli accertamenti, svolti da un team di esperti informatici, sul presunto utilizzo del telefono cellulare della ragazza dopo la sua morte. Una svolta nelle indagini, anche se al momento non c’è nessun indagato. La denuncia – come conferma il legale della famiglia, Salvatore Pettirossi, a LaPresse – è stata depositata contro ignoti quindici giorni fa. La documentazione è stata già iscritta e il pm Giovanni Corona è già al lavoro per svolgere le indagini. Inoltre sulla pashmina che la ragazza avrebbe usato per impiccarsi sono state infatti rinvenute tracce biologiche maschili, oltre a quelle di Tiziana e della zia, che trovò la ragazza e le sfilò la sciarpa che le stringeva il collo. Tornando al cellulare della 31enne, dagli accertamenti è emerso che l’Iphone è stato acceso, bloccato e utilizzato per circa un’ora dopo il sequestro seguito al ritrovamento del corpo. Gli investigatori, ricordano i consulenti del team statunitense, “riferirono di non essere riusciti ad accedere al suo cellulare a causa del PIN”. Secondo Emme-Team però, qualcuno invece riuscì ad accedere a quel cellulare trovato a poca distanza dal corpo esanime della 31enne.
Anticipazione stampa da OGGI il 20 gennaio 2021. Tiziana Cantone, 31 anni, fu trovata il 13 settembre 2016 nella sua casa di Napoli impiccata con una pashmina sintetica. Per gli inquirenti si sarebbe tolta la vita dopo che alcuni suoi video, girati in momenti di intimità, erano finiti su internet. «Mia figlia è stata ammazzata», dice la madre a OGGI, che nel numero in edicola da domani elenca elementi certi, tutti orientati nella stessa direzione e che giorno dopo giorno starebbero sgretolando l’ipotesi originaria di suicidio. Sviste nelle indagini, errori madornali, forse addirittura depistaggi, e un’indagine difensiva condotta tra Italia e Stati Uniti potrebbero far riaprire il fascicolo. La scheda Sim del telefono sostituita e quella dell’i-Pad era sparita, l’incongruente posizione del corpo e ora anche il ritrovamento sulla sciarpa con cui «si impiccò» di due Dna maschili, uno dei quali è presente su tutta la lunghezza del tessuto, come se qualcuno lo avesse maneggiato: troppi elementi sospetti. E, come scrive OGGI, una pista: incrociare quel codice genetico con quello degli uomini registrati nei contatti del telefonino, recuperati non dalla magistratura ma dalle indagini della famiglia, potrebbe essere la chiave per risolvere il giallo.
Antonio Piedimonte per "la Stampa" il 19 gennaio 2021. Ormai è un giallo con tanto di tasselli di puzzle che si dipanano prima sulle circostanze della morte e poi su quello che sarebbe accaduto dopo. L'ennesimo colpo di scena sulla tragedia di Tiziana Cantone è arrivato ieri: la conferma che i periti della famiglia hanno fatto una scoperta destinata ad aprire nuovi, clamorosi scenari. Dagli esami scientifici effettuati dai genetisti sono emerse tracce di Dna sulla sciarpetta che fu trovata intorno al collo della giovane morta quattro anni fa, una pashmina che era stata dissequestrata lo scorso novembre su richiesta della madre della ragazza, Teresa Giglio. I residui - che appartengono a due uomini - potrebbero costituire una svolta decisiva nella ricostruzione di quanto accaduto il 13 settembre 2016, quando la 31enne napoletana (di Mugnano) fu rinvenuta priva di vita nella cantina della sua casa. Una tragedia archiviata come suicidio, indotto dalla gogna social a cui era stata sottoposta perché il fidanzato aveva messo in circolazione alcuni video che la ritraevano in atteggiamenti intimi, in quello che oggi viene definito revenge porn. Caso chiuso troppo presto? Di certo le prove scoperte dai tecnici messi in campo dai legali della famiglia (l'Emme-team, uno studio di Chicago) si vanno ad aggiungere ai dati web che gli stessi avvocati sono riusciti recuperare grazie all'accesso agli account di Tiziana, perché sia l'Ipad che l'Iphone erano stati resettati mentre si trovavano in custodia giudiziaria. Episodio poco chiaro quello della cancellazione dei dati (19 le «anomalie» accertate), al punto che la Procura partenopea ha aperto un'indagine per frode processuale. Indagini che saranno forse brevi: dopo l'accesso alle banche-dati di Facebook, Instagram e Twitter si potranno conoscere i nomi di tutti i contatti (oltre un centinaio) e sarà possibile far emergere le prove di eventuali manomissioni e accessi non autorizzati. Sempre a proposito di anomalie sospette e altre inquietanti quanto tecnologiche stranezze, l'altro ieri sera la signora Giglio ha subito un'intrusione informatica. Sull'episodio, subito denunciato, si sono immediatamente attivati i tecnici dello studio legale, i quali hanno scoperto che i "pirati" si sono serviti di un server professionale e sono anche risaliti anche alla posizione Gps, al dispositivo usato e quindi all'indirizzo Ip. Dunque, anche in questo caso, con ogni probabilità si scoprirà qualcosa in tempi rapidi. La speranza della mamma (e di tanti con lei) è che riprendano le indagini sulla morte della figlia e si faccia luce sulla scomparsa di una bella ragazza «che non si sarebbe mai tolta la vita». E stavolta il caso potrebbe davvero riaprirsi.
Il Dna riapre il giallo di Tiziana Cantone. Tracce di materiale genetico maschile sul foulard con cui si sarebbe uccisa la ragazza. Tiziana Paolocci, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Il caso di Tiziana Cantone potrebbe essere a una svolta. E sulla morte della trentunenne, trovata senza vita il 13 settembre 2016 dopo che alcuni video hot erano finiti su Internet a sua insaputa divenendo ben presto virali, potrebbe trasformarsi in un fascicolo per omicidio. Sulla pashmina che la ragazza aveva attorno al collo quando fu trovata dalla zia, infatti, sono state rinvenute tracce di Dna di due uomini diversi. Era stata proprio quella sciarpa ad aver fatto propendere gli inquirenti per l'ipotesi di suicidio. Come aveva rivelato la trasmissione «Quarto Grado» la pashmina era stata dissequestrata a novembre su richiesta del legale della famiglia Salvatore Pettirossi e la mamma della vittima, Teresa Giglio, aveva nominato l'Emme-Team, un team di studi legali con sede a Chicago di cui da parte lo stesso avvocato, per far luce su tutta la vicenda. Ieri è arrivata la risposta del laboratorio che attribuisce il Dna a due uomini. Il risultato è già sulla scrivania del sostituto Giovanni Corona, della Procura di Napoli Nord, che si occupa del fascicolo aperto per ora solo per frode processuale in relazione alla cancellazione di tutti i dati contenuti nell'iphone e nell'ipad di Tiziana mentre gli apparecchi erano in custodia della Polizia giudiziaria per gli accertamenti successivi alla morte. Ma i dati sono stati recuperati e ora i risultati delle nuove perizie sulla pashmina potrebbero spingere gli inquirenti a ipotizzare che la ragazza sia stata uccisa. Troppi misteri, infatti, girano attorno alla fine della trentunenne, bollata troppo rapidamente come suicidio. Due sere fa anche la mamma della vittima ha subito un'intrusione informatica sul proprio account Facebook. Chi ha interesse a capire come si muovono e a che punto sono le indagini sulla fine della Cantone? Emme-Team ha scoperto che l'intrusione è avvenuta da un server professionale con l'uso del sistema operativo Linux ed è riuscita a identificare il responsabile, la posizione Gps, il suo dispositivo e il suo indirizzo. Dettagli consegnati ancora una volta alla Procura di Napoli.
Tiziana Cantone, i nuovi elementi e la pista dell'omicidio. Le Iene News il 12 gennaio 2021. Ci sarebbero delle tracce genetiche maschili sulla pashmina con cui è stata trovata morta impiccata Tiziana Cantone, a 33 anni nella sua casa in provincia di Napoli. E dal suo telefono emergono 100 contatti tra cui ci potrebbe essere il nome di chi ha diffuso per primo i suoi video privati finiti in chat e siti pornografici. Il primo tassello di un incubo culminato con la sua morte da molti considerata a suicidio. Ora nuovi elementi danno contorni diversi a questa storia. Roberta Rei ha raccontato il dramma di Tiziana attraverso il racconto di sua mamma.
Nickname, nomi, persone. E tra questi ci potrebbe essere chi ha fatto partire quella catena infernale di video privati finiti in rete che hanno portato alla morte di Tiziana Cantone. È quanto emerge dal telefono e da un centinaio di contatti della donna dopo un’indagine in cui si profila anche il reato di frode processuale. Chi ha fatto tabula rasa dopo il suo sequestro? Ora queste novità potrebbero dare una svolta alle indagini. Nel servizio qui sopra, Roberta Rei ci ha raccontato il dramma di questa donna che si è tolta la vita all’età di 33 anni.
È il 13 settembre 2016, quando viene trovata morta nella taverna della sua casa di Mugnano in provincia di Napoli. Da subito propende la pista del suicidio, ma ora i nuovi dettagli potrebbero dare i contorni di un omicidio a tutta questa tragedia.
“Questo è femminicidio virtuale. Mia figlia è stata derisa, insultata”. Così lo definisce mamma Teresa, che con Roberta Rei ha ricostruito le ultime settimane di vita di Tiziana. “Una vera persecuzione” perché alcuni suoi video intimi e privati sono arrivati sui social diventando virali. Un incubo da migliaia di condivisioni e commenti diventati insulti. “Lei stava male e non usciva più di casa, era devastata”, racconta la madre. Una devastazione che la porta a cercare di togliersi la vita in un paio di occasioni. “Ha tentato di lanciarsi dal balcone e di soffocarsi con un sacchetto della spazzatura, è andata in analisi e ha iniziato cure anti-depressive”, dice Teresa. Invece quel 13 settembre del 2016, Tiziana è stata trovata senza vita con un foulard al collo. Su quella pashmina sarebbero state rinvenute tracce genetiche maschili che non sono compatibili con lo zio, uno dei primi soccorritori. Ma anche la profondità della ferita e la posizione del collo, ora non sembrano più spiegare il suicidio che sarebbe stato comunque difficile da attuare con una panca ginnica. Soprattutto ora emergono nomi e cognomi dei contatti di Tiziana. Quegli stessi numeri di telefono che sono spariti inspiegabilmente dalla sua rubrica dopo il sequestro di tablet e telefono. Tra questi ci sarebbero anche nomi di professionisti ed esponenti delle forze dell'ordine che potrebbero aver diffuso i video di Tiziana. “Mi diceva che le davo coraggio senza fare troppe domande e che lei un giorno mi avrebbe dato spiegazioni”, racconta la mamma, che ha mai creduto al suicidio per la sua morte. “Diceva di sentirsi sporca, era demoralizzata e non vedeva più un futuro”. Lei denuncia subito social, motori di ricerca e giornali che proponevano in qualche modo quei filmati. Il punto di non ritorno per Tiziana è arrivato quando il giudice l’ha condannata a pagare 20mila euro di spese legali”. Quei video sono finiti anche su siti porno: “In uno c’era il compagno che ho riconosciuto dalla voce perché si vedeva solo mia figlia. Mi sono resa conto che lei era manipolata non aveva di queste perversioni. La faceva andare con altri uomini perché a lui piaceva così”.
· Il Mistero di Sissy Trovato Mazza.
Sissy Trovato Mazza, due anni dalla morte: “Nostra figlia non si è uccisa”. Le Iene News il 12 gennaio 2021. Il 12 gennaio 2019 è morta Sissy Trovato Mazza dopo che per due anni ha lottato per la vita, da quando nel 2016 l’agente penitenziario è stata trovata in una pozza di sangue nell’ascensore dell’ospedale di Venezia. Il 25 novembre scorso il gip ha respinto la seconda richiesta di archiviazione come suicidio del caso e ha disposto nuove indagini. I genitori non si danno pace e anche oggi combattono per avere giustizia e verità. Con Nina Palmieri abbiamo ricostruito le ultime ore di Sissy
“Dopo due anni spero si mettano a cercare gli assassini. Questo è omicidio, nostra figlia non si è uccisa”. Salvatore Trovato lo ribadisce a Iene.it anche in questa giornata. Oggi sono due anni esatti da quando, il 12 gennaio 2019, il cuore dell’agente penitenziario Sissy ha smesso di battere dopo due anni di lotta con la vita. Ma per suo papà il tempo si è fermato all’1 novembre 2016, quando è iniziato questo incubo fatto di misteri e una cruda realtà da accettare. Con Nina Palmieri vi abbiamo raccontato questa vicenda che ha ancora tanti punti oscuri come potete vedere nel video qui sopra. Sissy Trovato Mazza lavorava presso il carcere femminile della Giudecca. L’1 novembre 2016 viene trovata in una pozza di sangue in un ascensore dell’ospedale civile di Venezia dove era andata per un servizio. Dopo le indagini preliminari, il caso prende la pista del suicidio: per gli inquirenti si era uccisa con la pistola d’ordinanza. “Non ci hanno mai ascoltato, per noi è altro”, dice Salvatore, il papà di Sissy che per due anni da quel giorno è stato al suo fianco mentre lottava per la vita. “Io ancora aspetto la verità per sapere che cosa è successo a mia figlia”. Il 25 novembre scorso il gip ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione della procura sul caso come suicidio e ha disposto nuove indagini. “Abbiamo raccolto nuovi elementi, ma tanto materiale non è più disponibile”, sostiene il papà. Tra questi ci sarebbero potuti essere le immagini registrate dalle telecamere nell’ospedale, agli atti però ci sono solo i nastri dei 30 minuti attorno alle 11:17 di quel maledetto giorno. “Avrebbero dovuto prendere più ore sia prima che dopo perché è lì che si vedrebbero gli assassini”, dice Salvatore. Ma ora quei filmati non sarebbero più disponibili. Poi ci sono i misteri sulle gocciolature del sangue all’interno dell’ascensore o il telefono dell’agente penitenziario ritrovato nel suo armadietto in carcere. Per Salvatore e sua moglie questa giornata è iniziata alle 06:10, prima di andare a trovare sua figlia al cimitero. “Da quattro anni questo periodo dell’anno per noi non è mai bello. Le feste non sono feste senza Sissy”, racconta. Gli occhi di tutta la famiglia sono puntati a fine febbraio, quando il giudice dovrebbe pronunciarsi definitivamente sugli elementi raccolti e nel caso proseguire con le indagini. “Dopo 4 anni non accettiamo più che ci sia ancora questo valzer tra omicidio e suicidio. Che cosa vogliono ancora per cercare chi ha ammazzato mia figlia? Chiedo solo giustizia per una ragazza che la sua vita si è fermata a 27 anni”.
· Il Mistero di nonna Rosina Carsetti.
Nicola Catenaro per il “Corriere della Sera” il 13 febbraio 2021. «Tu ci costi cinquemila euro l'anno». Dopo averla costretta a cedere metà dell' abitazione, dandole non più di 10 euro al giorno per vivere, la consideravano un peso economico. E alla fine se ne sono liberati, dopo aver saputo (ne registravano le conversazioni) che aveva appuntamento il 29 dicembre con un legale del centro antiviolenza. Per la morte di Rosina Carsetti (detta «Rosy»), 78 anni, strangolata il pomeriggio del 24 dicembre a Montecassiano, nella villetta in cui abitava col resto della famiglia, sono finiti in carcere la figlia e il nipote, Arianna Orazi, 49 anni, ed Enea Simonetti, di 20, accusati di «omicidio premeditato pluriaggravato dalla minorata difesa della vittima». Al marito di Rosy, Enrico Orazi, 79 anni, è stata invece risparmiata la custodia cautelare per via dell' età. La Procura guidata da Giovanni Giorgio e i carabinieri di Macerata, al comando del colonnello Nicola Candido, non hanno trovato riscontri alla loro versione. Quella del ladro mascherato che aveva aggredito e ucciso Rosy per poi fuggire con duemila euro. Secondo l' accusa regista del delitto sarebbe Arianna, ma a uccidere materialmente Rosy sarebbe stato il nipote Enea, l' unico con una corporatura compatibile con il tipo di ferite riscontrate sul corpo della vittima, che aveva 14 costole rotte. Sarebbe stato proprio Enea a mettere sulla pista giusta gli inquirenti. Interrogato in caserma, svela il procuratore, si è più volte contraddetto, salvo successivamente avvalersi della facoltà di non rispondere. «No, non c'è stata alcuna rapina, è stato un incidente», aveva dichiarato, aggiungendo di aver aderito alla successiva messa in scena orchestrata dal nonno e dalla madre solo per amore nei loro confronti. Quando Arianna viene a sapere che il figlio si è dichiarato estraneo alla vicenda, appare impaurita. Intercettata, dice al figlio: «Non puoi dirgli che si è trattato di un incidente, uno strozzamento non si può far passare per incidente...». La donna fa riferimento alla causa della morte della mamma, che però fino a quel momento nessuno, nemmeno i medici, aveva ancora rivelato. Poi al ragazzo di stare zitto sostenendo che, alla fine, gli inquirenti avrebbero attribuito l'omicidio «a nonno Enrichetto, l' anello debole della vicenda». Ma sono tanti i passi falsi di madre e figlio. Enea, ad esempio, si vantava del «macello fatto nella mansarda» e di aver «rifilato due sganassoni in faccia al nonno». In un' altra intercettazione ricorda alla madre che la porta finestra (quella che sarebbe stata manomessa dall' omicida) era «danneggiata da tempo». Arianna, invece, si rammaricava di alcuni «errori», come ad esempio il fatto di non aver addormentato i cani (così sarebbe sembrato normale che non avessero abbaiato) o che il figlio non avesse detto agli inquirenti di essersi trattenuto nel garage dell' abitazione prima di rientrare. Tra il suo rientro dopo gli acquisti al supermercato (aveva riferito di essersi allontanato alle 17.40) e la telefonata al 112, infatti, trascorrono non più di 6 minuti. Pochi per uno che inciampa nel cadavere della nonna e deve liberare il resto della famiglia. C' è anche la chat del 16 dicembre su Instagram a rinforzare le tesi dei pm, quella in cui Arianna invita Enea a raggiungerla a casa perché lei ha «iniziato a studiare il piano». Anche la data, il 24 dicembre, non sarebbe stata scelta a caso. Una giornata di lockdown in cui non sarebbe sembrata strana la presenza di tutti e tre in casa piuttosto che nel negozio di ricambi dove lavoravano.
Omicidio Montecassiano, arrestati figlia e nipote di Rosina Carsetti. Notizie.it il 12/02/2021. Svolta sull'omicidio di Rosina Carsetti, donna di 78 anni massacrata in casa la Vigilia di Natale. Sono stati arrestati la figlia e il nipote. Nelle indagini sulla morte di Rosina Carsetti, donna di 78 anni massacrata nella sua abitazione a Montecassiano la Vigilia di Natale, è arrivata una svolta. I carabinieri di Macerata hanno arrestato la figlia, Arianna Orazi, e il nipote, Enea Simonetti. Madre e figlio sono accusati di concorso in omicidio volontario pluriaggravato dalla minorata difesa della vittima. Arianna Orazi ed Enea Simonetti, figlia e nipote della vittima, sono stati accusati di concorso in omicidio volontario pluriaggravato dalla minorata difesa della vittima ed è stata contestata anche la premeditazione del delitto. Il Gip del Tribunale di Macerata ha emesso un ordine di custodia cautelare in carcere su richiesta della Procura della Repubblica. Nell’inchiesta è stato coinvolto anche l’anziano marito della donna, Enrico Orazi, di 79 anni, per il quale il Gip del Tribunale di Macerata non ha ritenuto di dover applicare provvedimenti restrittivi. Figlia e nipote erano già finiti sotto l’attenzione degli inquirenti dopo il delitto, quando i carabinieri avevano escluso la loro ricostruzione che parlava di rapina in casa. I militari hanno accertato che nessun malvivente è entrato in quella casa, come invece sostenevano i tre indagati. Ulteriori accertamenti hanno ricondotto l’omicidio all’ambito familiare. Secondo l’accusa, sarebbe stata la figlia ad organizzare tutto e coinvolgere gli altri due. Tra le due i rapporti erano molto tesi e alcuni testimoni hanno confermato le violenze verbali della donna contro la madre, tanto che Rosina Carsetti si era rivolta al centro antiviolenza di Macerata. Agli indagati viene contestato il reato di maltrattamenti e concorso in simulazione della rapina che avrebbe dovuto scagionarli. Secondo la famiglia, la morte della donna era avvenuta durante una rapina da parte di uno sconosciuto entrato in casa nel pomeriggio della vigilia di Natale. Hanno raccontato che l’uomo aveva immobilizzato Arianna e il padre, legandoli. Secondo il loro racconto era stato Enea, una volta tornato a casa, a liberarli. La loro versione non è stata giudicata attendibile dagli investigatori. Come emerso dall’autopsia, Rosina Carsetti è stata massacrata in casa e soffocata. Gli esami hanno riscontrato quattordici costole rotte e una frattura a una clavicola.
Nonna Rosa uccisa in casa. Arrestati figlia e nipote. La confessione: "Il rapinatore? Una messinscena". I pm: strangolata dal 20enne. Coinvolto il marito. Nino Materi, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Come nel film Brutti, sporchi e cattivi, con Nino Manfredi al centro di una faida familiare che puntava ad ammazzarlo. Si salverà per miracolo. La povera «nonna Rosina», 78 anni, non è stata invece altrettanto fortunata: la trama di morte scritta contro di lei dalla figlia (regista del piano criminale), dal nipote (attore principale dell'omicidio) e dal marito (comprimario nella scena del delitto) si è infatti realizzata, anche se i troppi errori commessi nella fase esecutiva del crimine hanno tradito i parenti diabolici. Almeno secondo l'ipotesi accusatoria. Tutto dovrà essere ovviamente dimostrato in sede processuale, ma intanto ieri la Procura di Macerata ha arrestato la 49enne Arianna Orazi (figlia della vittima, Rosina Carsetti) e il 20enne Enea Simonetti (nipote di nonna Rosa e figlio di Arianna Orazi) per «concorso in omicidio volontario premeditato pluriaggravato dalla minorata difesa della vittima»; coinvolto pure il marito di Rosina, Enrico Orazi, 79 anni, cui sono state risparmiate le manette a causa dell'età avanzata. La Procura ha delineato i «compiti» ricoperti dai tre nel corso di quel maledetto 24 dicembre 2020 quando dalla cascina della famiglia Orazi partì una telefonata allarmata ai carabinieri: «Correte subito - urlò tra le lacrime Arianna Orazi - un uomo mascherato e vestito di nero è entrato in casa, ha rubato 2mila euro e ha ammazzato mia madre»; in realtà non esisteva nessun «uomo mascherato», perché a strangolare Rosina erano stati proprio loro tre: Arianna era la «mente», Enea il «braccio» ed Enrico il «depistatore». Quando i carabinieri giunsero sul posto trovarono l'abitazione a soqquadro e il corpo senza vita dell'anziana. «Quell'uomo ci ha legati e imbavagliati, poi è fuggito», avevano detto ai carabinieri. Ma era solo una messinscena. Gli investigatori lo sospettarono subito. Del resto la versione dei fatti, così come raccontata dai tre «testimoni», non stava in piedi: un «uomo mascherato e vestito di nero» che si introduce in casa e strangola con il «filo dell'aspirapolvere» una vecchia inerme, non è una tesi credibile. Se a ciò si aggiunge che i presunti «2mila euro rubati» dal fantomatico rapinatore furono in realtà subito trovati nella borsa di Arianna, l'ipotesi del rapinatore solitario diventa ancor più improbabile. La conferma delle tante bugie è venuta dal più vecchio del gruppo, il 79enne marito di Rosina che davanti al pm è crollato: «Non esiste nessun ladro». Enrico Orazi si è limitato a «confessare» questo, senza aggiungere dettagli su come sia stata ammazzata la moglie. L'autopsia sul corpo della vittima parla di soffocamento ma anche di molte altre ferite causate da vari corpi contundenti: secondo la Procura è stato il nipote a sferrare l'affondo decisivo, ma è probabile che - in una sorta di patto di sangue - anche gli altri due abbiano infierito sulla vittima. Solo qualche settimana prima nonna Rosa aveva contattato un'associazione anti-violenza per fissare un appuntamento con un legale: «Ho paura, temo che i miei parenti vogliano farmi del male». Purtroppo, aveva ragione.
· Il giallo di Stefano Ansaldi.
Stefano Ansaldi, il ginecologo morto a Milano con biglietto di business class. Debiti e coltello da cucina: un anno di misteri. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2021. La misteriosa morte del ginecologo napoletano Stefano Ansaldi, trovato sgozzato per strada. Omicidio o suicidio? Un anno dopo, tutti i dubbi sul caso del professore.
Stefano Ansaldi aveva 65 anni
Omicidio e non suicidio, nel percorso dei famigliari tra dolore e segreti scoperti soltanto sui giornali. Suicidio e non omicidio, nel percorso logico-razionale degli investigatori. La morte a Milano, un anno fa, del professor Stefano Ansaldi, ginecologo napoletano rinvenuto agonizzante alle 18.06 del 19 dicembre sotto un ponteggio di via Macchi, non sarebbe più un mistero nonostante la mancata archiviazione del caso.
La business class
E nello schema, certo passibile di inediti ma poco probabili elementi aggiuntivi, di un gesto volontario contro se stesso — il coltello da cucina, la letale ferita alla gola —, si collocano le coordinate dell’ultimo viaggio di Ansaldi, 65 anni, una moglie, due figli, troppi debiti, alcune fidanzate, un animo buono, un professionista adorato dalle pazienti, un tormento interiore divorante da marito, papà, cattolico. E anche se privo perfino di monetine, con la carta di credito quasi svuotata da un’amante comunque da lui autorizzata, nonché con l’ennesimo prestito supplicato in giro celando l’imbarazzo, quel giorno il medico cambiò il biglietto del treno Napoli-Milano (già comprato in precedenza con andata e ritorno) dall’Economy alla Business, attraversò l’Italia solitario nella comoda carrozza vuota, silenzioso tranne le chiamate ai cari per sentire le loro voci e congedarsi; scese in stazione Centrale, vagò nei dintorni, buttò il cellulare, capitò sotto il ponteggio, un breve tunnel al buio, aprì la 24 ore che conteneva chiavi di casa, biscotti e caricatori del telefonino, ed estrasse la lama che appoggiò sul collo causando tre tagli paralleli. Un’azione esitante oppure preparatoria al successivo taglio definitivo compiuto da sinistra verso destra, e impossibile da arginare per i soccorritori, chiamati dai passanti che videro quel corpo di un metro e ottantacinque precipitare sul marciapiede.
Le indagini
Sono quasi duecento le telecamere pubbliche e private, pressoché tutte quelle a disposizione e pure oltre, scelte dai carabinieri per esaminare i filmati. E in quei filmati mai Stefano Ansaldi camminava in compagnia, mai incrociava un estraneo che lo pedinava, mai avanzava in direzione d’una persona in attesa; e mai l’analisi dei palazzi lungo il confuso tragitto ha isolato figure criminali collegate al professore e collegabili dopo la ricostruzione della sua esistenza. L’esistenza di un uomo che inseguiva ovunque denaro per appianare le perdite e tornare a fatturare con l’apertura di una nuova clinica, e che aveva organizzato l’arrivo a Milano per incontrare un ipotetico mediatore che divenisse ipotetico garante di un ipotetico massiccio finanziamento. Però qui in città non incrociò proprio nessuno, e a maggior ragione se diretto a un appuntamento in una geografia metropolitana ignota, allora non avrebbe abbandonato il cellulare, che non risultò esser stato rubato.
Il mediatore
Nell’elaborazione di un lutto così improvviso e tragico, gravato ancor più da un’eco mediatica straziante per una famiglia di profonda riservatezza, i parenti ripetono che servono maggiori sforzi, che ulteriori piste vanno battute in Italia e all’estero. La Procura e il Comando provinciale, non certo per esercizio retorico, proseguono le analisi, ma anziché una classica scena del crimine con una vittima e un assassino latitante, via Macchi appare ormai la scena conclusiva di un’opprimente angoscia individuale. La presenza di un biglietto anche di ritorno andrebbe letta a ritroso: Ansaldi aveva previsto una tappa a Milano per appunto innescare, tramite quell’eventuale mediatore, un miracoloso rilancio economico. Ma forse era lui, il professore, ad essersi convinto di un’imminente conclusione dei problemi, ad aver investito un’errata fiducia in sconosciuti che avevano prospettato significative somme. A meno che, al contrario, il quadro poggiava su delle basi però prive della concretezza e della futuribilità auspicate da Ansaldi, il quale infatti chiamò una persona a Chiasso — l’ipotetico mediatore —, annullando un presunto appuntamento.
L’ultima telefonata
In quelle 24 ore mancavano spazzolino da denti e biancheria intima, a conferma che il ginecologo non avrebbe dovuto pernottare. Nei carabinieri del Nucleo investigativo, l’immediata analisi aveva generato un dubbio, legato ai guanti in lattice indossati da Ansaldi. Una misura per celare impronte in uno scambio di oggetti quali banconote, armi, documenti? Una misura per affrontare un avversario col rischio di una degenerazione? No: il dottore era malato di Covid, e i guanti furono una precauzione per non infettare il prossimo. L’ultima telefonata ricevuta, dopo aver bevuto un caffè, informò Ansaldi che la carta di credito in possesso dell’amante aveva superato, in un negozio di vestiti, la soglia massima di disponibilità. Poi il cellulare, forse fatto cadere in un tombino come una sigaretta consumata, smise di funzionare.
Il giallo del medico morto a Milano. “Stefano Ansaldi è stato ucciso”, la famiglia del ginecologo sgozzato contro la pista del suicidio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. La famiglia di Stefano Ansaldi rigetta con convinzione l’ipotesi del suicidio. È stato un “brutale omicidio” dicono, quello del ginecologo nato a Benevento, da anni a Napoli, uno studio nel Rione Sanità e una clinica all’Arenella, ritrovato sgozzato a Milano, lo scorso 19 dicembre. “Non c’è certezza che non sia stato ucciso”, dicono gli inquirenti, prudenti, perché il suicidio è una soluzione logica solo procedendo per esclusione. Un lungo articolo del Corriere della Sera di Giuseppe Guastella ha ripercorso tutta la storia, l’inchiesta, le piste e le ipotesi, del caso ancora oscuro, un rompicapo, dell’incrocio di via Macchi e via Scarlatti dove Ansaldi, sotto un’impalcatura, è morto con la gola squarciata da una coltellata. Era arrivato a Milano da Napoli poco dopo le 14:50, un biglietto di andata e ritorno, l’altro treno alle 18:10. Alla moglie aveva detto di dover incontrare un amico di Dubai “che in questi giorni si trova in Svizzera”. La Guardia di Finanza indaga su “vorticosi giri di soldi” intorno al medico che, a quanto ricostruito, voleva aprire una clinica a Malta. Aveva perciò aperto una società in Svizzera. Avrebbe contratto una serie di debiti. Gli inquirenti hanno esaminato i movimenti da circa 140 telecamere intorno alla Stazione Centrale di Milano. Ansaldi ha annullato un appuntamento con il fiduciario svizzero a Chiasso e parlato con l’assistente al telefono per un problema con la carta di credito. Dalle 17:00 in poi nessuna traccia del cellulare, che comunque non sarebbe stato più acceso: è il mistero nel mistero. Alle 18:06 la chiamata al 118 di una donna, il compagno soccorre Ansaldi: la gola squarciata da sinistra a destra, un coltello da cucina da 20 centimetri. Sul collo del medico altre tre ferite, parallele a quella fatale. La coppia non ha visto nessuno fuggire. Esclusa l’ipotesi di una rapina. Nella 24 ore del ginecologo documenti, dei carica batteria, mazzi di chiavi. Non è chiaro con chi avesse appuntamento Ansaldi. Il biglietto andata-ritorno e un appuntamento al rientro a Napoli escludono presumibilmente la pista del suicidio premeditato. Attesi per i prossimi giorni i risultati dell’autopsia e quelli dei Ris.
Leandro Del Gaudio per ilmattino.it il 16 febbraio 2021. Che si sia ucciso ci credono sempre di meno. Sì, d’accordo, è solo un’ipotesi, una chance ultima da accettare, magari andando per esclusione rispetto ad altre piste in grado di tenere in piedi la caccia a un assassino. Che si sia ucciso è possibile, anche se la storia del suicidio di un medico fa a pugni con l’incertezza del colpo mortale: il taglio va da sinistra verso destra (e il medico non era mancino), ma ci sono anche tre graffi spuri, segno di un tentennamento finale nell’affondare la lama alla gola. Tre graffi che sono solo l’ultimo tassello difficile da incastrare nel puzzle della vita (e della morte) di Stefano Ansaldi, il ginecologo sgozzato a Milano lo scorso 19 dicembre. Un caso con tanti - troppi - colpi di scena che spinge gli inquirenti a scavare nella vita del professionista beneventano (da anni radicato a Napoli), trovato morto con la gola squarciata nei pressi di via Macchi, zona ferrovia. Sessantacinque anni, esperto di fecondazione assistita, con in testa il pallino degli affari: sognava una clinica privata a Malta, investimenti in campo farmaceutico, lavorava in una clinica privata napoletana e gestiva anche uno studio nei pressi di piazza Cavour. Omicidio volontario, secondo la pista battuta dal pm milanese Adriano Scudieri, in uno scenario investigativo che conviene raccontare dalle ultime tappe. Morto a Milano, nonostante avesse un appuntamento a Chiasso. Al suo autista napoletano, prima di salire sull’ultimo Frecciarossa da Napoli, aveva confidato che si recava al nord, per incontrare una persona per motivi di lavoro: «Devo parlare con un amico di Dubai, che in questi giorni si trova in Svizzera». Una versione che collima con un altro punto messo agli atti nell’inchiesta milanese e che riguarda la testimonianza fornita dall’uomo che avrebbe dovuto incontrare il ginecologo beneventano. Il gancio, il contatto, l’amico. Che ha ricordato che quel pomeriggio dello scorso 19 dicembre era previsto un incontro tra i due - non a Milano, ma in quel di Chiasso - sempre per parlare di lavoro, secondo quanto concordato sin dalla mattinata. Tutto chiaro? Ci sono due tasselli in questa storia su cui ora battono gli inquirenti e hanno a che vedere con le rotte aeree: quelle che da Lugano o da Milano conducono a Dubai, la «città del futuro», per usare lo slogan degli emiratini. Non una meta qualunque, Dubai. Ma un avamposto economico (e fiscale) da sempre aggredito dalla camorra napoletana. Da anni, quelli di Secondigliano (Lo Russo e scissionisti in primis) investono e ripuliscono soldi sporchi a Dubai, attraverso il metodo più antico e sicuro della interposizione fittizia: quello che usa i prestanome; che si avvale di professionisti dal volto pulito (magari in difficoltà economiche) per trasportare capitali (magari aprendo conti correnti o dando inizio a intraprese imprenditoriali) e per ripulire capitali. Una prospettiva che spinge gli inquirenti a controllare la trama di rapporti del ginecologo (non solo parenti e amici, ma anche contatti di lavoro superficiali e lontani nel tempo), nel tentativo di verificare se ci sono state sortite negli Emirati. Ma chi era l’amico di Dubai, che doveva incontrare, secondo la confidenza resa al suo autista? Era l’uomo che si è presentato in Procura a Milano, con fare ingenuo e confuso? Facile immaginare che ci sia un check su liste di viaggiatori negli ultimi mesi, su soggetti che da Napoli (magari via Milano o con ponte in Svizzera) si sono recati negli Emirati, con un chiaro obiettivo investigativo: sgomberare il campo dalla possibilità che Ansaldi sia rimasto stritolato nella morsa di riciclatori. Indebitato, pressato, costretto a fare qualcosa di estraneo alla sua etica. Al punto tale da finire in un tunnel: una prospettiva che potrebbe tenere in piedi la pista dell’omicidio, ma anche quella di un suicidio in un momento di disperazione estrema, magari dopo aver capito di essere finito - sotto ricatto - in un vicolo cieco. Un caso su cui anche la Procura di Napoli tiene accesi i riflettori. Indaga la Dda partenopea, alle prese con una serie di tasselli difficili da incastrare. E torniamo agli ultimi momenti di vita. Sbarcato a Milano alle 14.50, Ansaldi vaga per la stazione. Si ferma in un bar, dove scrive su alcuni biglietti di carta, che poi strappa e che getta in un cestino (i carabinieri non fanno in tempo a recuperarli), per poi riprendere a vagare in zona ferrovia. Ci sono 140 telecamere attive da quelle parti, che inquadrano il professionista mentre cammina senza particolare fretta. Come se stesse aspettando qualcuno. Ed è a questo punto che c’è un nuovo colpo di scena. Alle 16.30, il suo cellulare smette di funzionare. Non sarà mai più trovato. Come evaporato. Domanda: perché gettarlo via, se hai intenzione di chiudere i conti con la vita? C’è stato qualcuno che gli ha chiesto di sbarazzarsi del telefono, magari per non essere intercettato? Una premura tipica di chi fa lo “spallone” in Svizzera o che semplicemente sa il fatto suo a proposito di intercettazioni. Ma restiamo alla sua morte. Tubi Innocenti, un ponteggio di via Macchi, angolo via Scarlatti. La scena è straziante. Due testimoni vedono un uomo rantolare a terra, riverso nel suo sangue. Chiede aiuto, prima di arrendersi. Nessuno però nota altri passanti. Né le telecamere della zona hanno inquadrato gente sospetta. Ucciso da un fantasma? O da chi è scappato sotto il ponteggio, per poi infilarsi nel portone di un palazzo dove rimanere per ore, prima di tagliare la corda? Niente cellulare, pochi soldi in tasca, un costoso orologio Rolex tolto dal polso, richiuso e stretto tra le mani, ma anche una valigia con poche carte (e due ricariche del telefonino). Occhio, però. Restiamo alla valigia. Che senso ha portarsi una valigia vuota a Milano se poi ti vuoi ammazzare? Cosa doveva trasportare? Poi c’è un’altra tessera del puzzle, che riguarda il coltello da cucina affondato nella sua gola. Non ha impronte (Ansaldi aveva i guanti di lattice, causa covid), non si capisce da dove sia sbucato. I parenti non lo hanno riconosciuto, nessuno sa da dove sia sbucato (era usato, non nuovo di zecca), forse serviva per difesa. Ma difesa di cosa? Di se stesso o di soldi che contava di mettere in valigia, al termine di un affare di ampio respiro? Un affare sull’asse Napoli, Milano, Chiasso, Dubai. Già, Dubai: la città del futuro - dicono gli slogan - una metropoli sempre più gemellata con Secondigliano e dintorni.
La famiglia: "Rispettate il nostro dolore, fiducia nelle indagini". Morte di Stefano Ansaldi: il rolex, gli aggressori-fantasma, l’incontro andato male e l’ipotesi suicidio. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2020. Il cellulare staccato almeno un’ora prima del decesso, le immagini delle telecamere di videosorveglianza che non hanno riscontrato la presenza di altre persone sul luogo del delitto, il Rolex trovato a pochi passi dal cadavere chiuso e senza segni di effrazione e il coltello senza impronte con la vittima che indossava guanti in lattice. Continua a restare un mistero la morte del medico, nato a Benevento ma in servizio a Napoli, Stefano Ansaldi, trovato sgozzato sabato scorso, 19 dicembre, in via Macchi a Milano, a pochi passi dalla stazione centrale. Gli investigatori stanno lavorando senza sosta per ricostruire le ultime ore di vita del ginecologo arrivato in treno nel capoluogo lombardo poco prima delle 15 e trovato senza vita intorno alle 18. Al momento, in base agli elementi acquisiti, la pista seguita da carabinieri e magistrati meneghini porta a escludere l’omicidio (rapina finita male o motivi personale ed economici) lasciando principalmente aperta l’ipotesi di un suicidio i cui contorni sono tutt’altro che chiari. I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, coordinati dall’aggiunto Laura Pedio e dal pm Adriano Scudieri, in base agli elementi acquisiti ipotizzano che Ansaldi si sia tagliato la gola con un coltello da cucina ritrovato vicino al corpo. Sull’arma non sono state rinvenute impronte con lo stesso Ansaldi che indossava dei guanti in lattice, un dettaglio che in questa fase d’emergenza coronavirus potrebbe anche risultare irrilevante. Inoltre le telecamere presenti nella zona non hanno riscontrato la presenza di altre persone così come i due testimoni, che l’hanno visto cadere a terra e morire, non hanno visto qualcuno scappare o sentito rumori di passi. Se ne stanno analizzando altre più lontane da via Macchi così come l’obiettivo degli investigatori è quello di chiarire se l’eventuale aggressore sia entrato all’interno di un civico della via, coperta da una impalcatura, senza essere ripreso.
Il cellulare di Ansaldi, non ancora ritrovato insieme al portafogli, è risultato spento circa un’ora prima del decesso. Circostanze che spingono gli investigatori a ipotizzare il suicidio anche dopo aver ascoltato familiari ed amici della vittima che, stando a quanto ricostruito, aveva difficoltà finanziarie. Accanto al cadavere, oltre al Rolex, i carabinieri hanno ritrovato una valigia con all’interno biscotti, caricabatteria e altri oggetti di poco conto. Nel cappotto aveva 20 euro, il tesserino da medico e la carta d’identità. Ma perché andare fino a Milano per togliersi la vita? I dubbi sono tantissimi anche sulla pista che conduce al suicidio. Ansaldi a Milano aveva una sorella in quei giorni già rientrata a Napoli per le festività natalizie. Alla moglie aveva invece raccontato di recarsi nel capoluogo lombardo per incontrare delle persone, probabilmente provenienti dalla Svizzera, per motivi di lavoro. Il biglietto del treno era di sola andata. Non ha lasciato nessun biglietto d’addio, le condizioni economiche non rosee potrebbero però far propendere per un gesto estremo, “magari dopo un appuntamento andato male”. Dall’autopsia, i cui esiti definitivi si avranno tra almeno una quarantina di giorni, è emerso che il taglio alla giugulare è stato inferto da sinistra a destra. Sarebbero inoltre state riscontrati altri tentativi di tagli sempre sul collo.
IL DOLORE DEI FAMILIARI – “I familiari del dottor Stefano Ansaldi, nel confermare la più ampia fiducia nei confronti della magistratura e degli organi di polizia giudiziaria, che lavorano incessantemente per trovare i colpevoli del brutale assassinio del loro congiunto, confidano che sia rispettato il loro profondo dolore e chiedono particolare e maggiore riserbo da parte degli organi di stampa, vista la diffusione di notizie che non hanno, allo stato, alcun fondamento, ma che provocano ulteriore ed inutile sofferenza ai figli, alla moglie ed ai familiari tutti del dottor Ansaldi”. Lo afferma in nome e per conto della famiglia di Ansaldi l’avvocato Francesco Cangiano.
Stefano Ansaldi, i debiti, l’incontro saltato, il coltello: che cosa si sa del medico morto. Milano, l’inchiesta sul suicidio del ginecologo napoletano trovato sgozzato per strada. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2021. La chiazza di sangue che sul muro di via Macchi dopo un mese e mezzo segna ancora il punto preciso dove è stato trovato morto con la gola squarciata, è l’unica assoluta certezza sulla fine di Stefano Ansaldi, ginecologo generoso dai tanti amori e dai troppi creditori. Ci sono vuoti da riempire in quello che la logica riesce a spiegare come un suicidio solo andando per esclusione.
Una vita movimentata. Fisico asciutto tenuto in forma in palestra, un metro e 85, Stefano Ansaldi dimostra meno dei 65 anni che gli dà l’anagrafe. Due figlie, vive a Napoli con la moglie da separato in casa, ha una vita sentimentale piuttosto movimentata. È un cattolico fervente, ma allo stesso tempo segue le ispirazioni del santone indiano Sai Baba. Specializzato nella cura dell’infertilità, si divide tra lo studio nel quartiere popolare della Sanità e una rinomata clinica privata all’Arenella. Stimatissimo, guadagna bene, ma i soldi non gli bastano, pressato dai debiti per i regali fatti alle donne con le quali ha o ha avuto una relazione.
Il sogno maltese. Sono anni che sogna una clinica tutta sua a Malta in cui fare anche ricerca nucleare sui farmaci antitumorali. Un progetto da 20 milioni di euro (che ovviamente non ha) che vorrebbe realizzare attraverso la società che ha costituito in Svizzera e che fa gestire da un fiduciario locale. È la stessa in cui dovevano confluire anche i 300 mila euro che gli ha dato una famiglia campana che voleva acquistare un hotel di lusso sul Golfo di Napoli, soldi che però non sono mai arrivati oltre confine. Ha anche chiesto 200 mila euro in prestito alla clinica dicendo che ne aveva bisogno per pagare le tasse, ma l’operazione non si è perfezionata e a primavera si è trovato con cambiali protestate per 20 mila euro.
La speranza. Mancano pochi giorni a Natale e finalmente una luce sembra apparire in fondo al tunnel. Nonostante il divieto di uscire dalla Campania per il Covid-19, Stefano Ansaldi acquista un biglietto di andata e ritorno Napoli-Milano del Frecciarossa del 19 dicembre con arrivo alle 14,50 e ripartenza per Napoli alle 18,10. Evidentemente, pensa che tre ore basteranno per risolvere i suoi problemi: «Devo incontrare un amico di Dubai che in questi giorni si trova in Svizzera», racconta alla moglie e all’autista che lo accompagna alla stazione di Napoli. Con sé ha solo una vecchia e lisa valigetta 24 ore in cui i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, che indagano coordinati dal pm Adriano Scudieri e dal procuratore aggiunto Laura Pedio, troveranno solo pochi documenti, alcuni del progetto maltese, mazzi di chiavi e due carica batteria di cellulari che non usava più. Nessun effetto personale che possa far pensare che metta in conto di restare in città per la notte.
Stazione Centrale. Il Frecciarossa arriva in Centrale con una decina di minuti di ritardo. D’ora in poi i Carabinieri pedineranno Ansaldi virtualmente con le 140 telecamere disseminate nelle strade. Lo inquadrano in un bar della stazione mentre strappa alcuni fogli di carta, quando esce in Piazza Luigi di Savoia e percorre via Scarlatti, via Macchi, via Settembrini e via Vitruvio vagando senza fretta, come chi attende l’ora di un appuntamento. Alle 16 chiama il fiduciario svizzero che doveva incontrare a Chiasso per annullare l’appuntamento e riceve la telefonata della sua assistente che ha un problema con la carta di credito. Alle 16,30 il cellulare smette di funzionare. Dalle 17 in poi, sarà per il buio o forse per un caso, Ansaldi non compare più nel campo visivo delle telecamere.
Sotto il ponteggio. Sono le 18,06 quando una donna che attraversa l’incrocio tra via Macchi e via Scarlatti chiama il 118: «C’è un uomo che sta male!». È stato il compagno, un geometra di 30 anni, a farle chiamare aiuto. Aveva sentito a una decina di metri come «uno scroscio d’acqua» che proveniva da sotto un ponteggio addossato a un edificio, si è avvicinato incuriosito ed improvvisamente ha visto un uomo con un’ampia ferita alla gola che si aggrappava all’impalcatura e scivolava a terra in un lago di sangue schizzato fin sul muro ad oltre due metri di altezza. Prova ad aiutarlo, ma non c’è più nulla da fare, l’uomo muore in pochi secondi.
La rapina e l’orologio. I carabinieri arrivano subito e identificano la vittima dai documenti che con qualche soldo ha nelle tasche (non usava il portafoglio). Accanto ci sono un coltello da cucina usato, con il manico nero e la lama di 20 centimetri insanguinata, la valigetta e il costoso Rolex che lo stesso Ansaldi si è sfilato chiudendo il cinturino (nella fibbia è rimasto un pezzetto di uno dei guanti di lattice che indossava, cosa non strana in pandemia). Lì per lì si pensa a una rapina finita in tragedia, anche perché qualche minuto prima e ad un paio di centinaia di metri un anziano di 72 anni è stato rapinato da due nordafricani che gli hanno preso il cellulare e l’orologio e sono scappati. Pur non riuscendo ad arrestali, presto i Carabinieri escludono che abbiano a che fare con la morte del ginecologo.
Suicidio? La coppia che ha tentato di aiutare Ansaldi non ha visto né sentito nessuno fuggire. Nulla dalle telecamere. E ci sono tracce di sangue solo dove Ansaldi è stato trovato. La sola spiegazione di una morte così orrenda resta il suicidio eseguito da un chirurgo che anche con un coltello da cucina sa perfettamente come morire in pochi secondi. Il taglio procede da sinistra verso destra, ed Ansaldi non è mancino. Sul collo, all’altezza del pomo d’Adamo ci sono altri tre piccoli tagli paralleli, come se avesse esitato prima di darsi la coltellata mortale. Potrebbero anche essere compatibili con un aggressore che prende alle spalle la vittima la quale si ferisce dimenandosi, ma, come detto, non c’è traccia di altre persone e sul coltello non ci sono impronte, e Ansaldi aveva i guanti.
Le domande. Che fine ha fatto il cellulare? Ansaldi potrebbe averlo spento e gettato in un cestino disperato per non aver ricevuto aiuto oppure perché chi avrebbe dovuto aiutarlo non si era presentato, ma quando i carabinieri li hanno rovistati, purtroppo, erano già stati tutti svuotati. Difficile che sia stato rubato, dato che non è stato mai più riacceso. Non si sa se e con chi aveva appuntamento Stefano Ansaldi. Gli investigatori non hanno accertato la presenza in quelle ore a Milano di persone a lui collegabili. E il coltello? Due ipotesi: dovendo tornare a Napoli di notte magari con soldi in contanti, forse il medico voleva sentirsi più sicuro avendo un’arma oppure pensava di essere costretto a minacciare chi doveva incontrare. Il biglietto di ritorno e un appuntamento al rientro a Napoli farebbero escludere che avesse premeditato il suicidio.
«È stato ucciso!». Gli inquirenti sono estremamente prudenti, nonostante la logica. «Non c’è certezza che non sia stato ucciso», dicono con un contorto giro di parole. Nei prossimi giorni arriveranno i risultati dell’autopsia e le ultime analisi dei Ris, mentre la Guardia di Finanza esamina i vorticosi giri di soldi attorno al ginecologo. Poi la Procura deciderà se chiudere il caso come suicidio chiedendone l’archiviazione o seguire una pista diversa. I familiari del dottor Ansaldi hanno subito escluso il suicidio. Per loro si è trattato di «un brutale omicidio».
· Il Giallo di Mithun.
Giallo di Mithun, il gip: nuove indaghi per omicidio. Le Iene News il 21 aprile 2021. Con Veronica Ruggeri nel 2018 vi abbiamo raccontato tutti i dubbi sulla versione ufficiale del suicidio per la morte di questo ragazzo di 26 anni, nato in India e adottato poi in Italia da piccolissimo, trovato impiccato a Porto Sant’Elpidio il 7 agosto 2016 dopo essere andato a una festa gay. Il gip ora ha accolto la richiesta della famiglia di nuove indagini, per omicidio. Si deve indagare ancora, per omicidio, sulla morte di Mithun, 26enne nato in India e adottato poi in Italia da piccolissimo, che è stato trovato impiccato a Porto Sant’Elpidio il 7 agosto 2016. Il gip di Fermo ha accolto la richiesta di nuove indagini della famiglia, che si era opposta a quella di archiviazione come suicidio della procura e che ha sempre pensato che il ragazzo sia stato ucciso. Di questo caso vi abbiamo parlato anche noi de Le Iene nel 2018, chiedendoci proprio se sia stato davvero un suicidio. Mithun è stato trovato impiccato in una villa dopo essere andato a una festa gay. Veronica Ruggeri nel servizio che vedete qui sopra ci racconta la sua storia. Gli amici e la sua famiglia ci parlano dell’allegria che l’ha sempre accompagnato, anche negli ultimi tempi da studente universitario. “Era un ragazzo perfetto, purtroppo ho scoperto che negli ultimi tempi magari beveva tanto”, racconta mamma Lorena. “Una volta a tavola ha detto: "A me piacciono sia gli uomini che le donne", dopo qualche giorno l’ho abbracciato e baciato ed è finita lì”. Mithun va da solo a quella festa gay nel locale “Tropical”. Di notte i carabinieri chiamano mamma Lorena: hanno trovato la sua auto dopo un incidente, di lui però non c’è nessuna traccia. Un anziano racconta di averlo visto nella notte nudo, diceva di essere stato derubato. Due amici lo trovano poi impiccato nel pomeriggio del 7 agosto 2016 in una villa isolata con una tuta da lavoro non sua addosso. L’ipotesi della famiglia legali è che sia stato ucciso dopo un incontro che gli si è rivelato fatale. La Iena ripercorre le sue ultime ore, parlando con le ultime persone che l’avrebbero visto vivo e ci spiega tutto quello che non torna secondo la famiglia nella tesi del suicido. Seguiamo anche la storia degli abiti ritrovati sparsi in maniera anomala nella zona. Gli elementi che non tornano si accumulano, tra l’itinerario che avrebbe percorso a piedi e il modo in cui è morto. Speriamo ora che le nuove indagini aiutino a fare chiarezza.
· Il Mistero di Stefano Barilli.
Stefano Barilli, procura apre un fascicolo per istigazione al suicidio. Identificato il cadavere. Le Iene News il 23 aprile 2021. La procura della Repubblica di Lodi ha aperto un fascicolo a carico d’ignoti con l’ipotesi di istigazione al suicidio, dopo il ritrovamento del cadavere decapitato di Stefano Barilli. Intanto il test del Dna ha confermato l'identificazione del corpo. Qualche settimana fa il nostro Gaston Zama aveva parlato con la madre Natasha: ci ha raccontato di aver visto un forte cambiamento nel carattere di suo figlio, apparentemente dopo essersi avvicinato a presunti “guru del web”. La procura della Repubblica di Lodi ha aperto un fascicolo a carico d’ignoti con l’ipotesi di istigazione al suicidio, dopo il ritrovamento del cadavere decapitato di Stefano Barilli nelle acque del Po a Caselle Landi. Il ragazzo, dopo essersi allontanato da casa, era scomparso a Piacenza lo scorso febbraio. Il risultato del test del Dna disposto dalla Procura ha confermato l'identificazione di Stefano Barilli. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato la storia di Stefano Barilli con il nostro Gaston Zama: Stefano Barilli, 23 anni, si era allontanato all’improvviso dalla casa in cui viveva con la madre e la sorella a Piacenza lo scorso febbraio. Da quel giorno sua madre Natasha aveva fatto diversi appelli, spiegando anche quelli che secondo lei erano i motivi che avevano spinto suo figlio ad allontanarsi, come potete vedere nel servizio di Gaston Zama in testa a questo articolo. Qualche settimana fa il nostro Gaston Zama era andato a incontrare Natasha, una lunga chiacchierata che ancora non vi avevamo mostrato. Ve l’abbiamo mostrata, perché da mesi stiamo lavorando ad una serie di servizi sul mondo dei presunti "guru del web". Un mondo che Natasha fin dall’inizio di questa vicenda ha identificato come motivo centrale di un forte cambiamento nel carattere di suo figlio. Una situazione che in questi mesi non ci ha raccontato solo lei, ma anche una serie di genitori che abbiamo incontrato in giro per l’Italia. E tutti a un certo punto ci parlano di un cambiamento radicale nei comportamenti dei figli. Una trasformazione che secondo loro sarebbe avvenuto a seguito dell’avvicinamento a gruppi di presunti guru in grado in qualche modo di fargli svoltare la vita in breve tempo, raggiungendo con facilità successo e denaro.
· Il Mistero di Biagio Carabellò.
"È Biagio...". I misteri del cadavere e del (falso) testamento. Rosa Scognamiglio il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. Sono di Biagio Carabellò i resti umani rinvenuti lungo il Reno. Il 46enne era scomparso da Bologna nel novembre del 2015. Sono di Biagio Carabellò i resti umani - un cranio e delle ossa - ritrovati in un canale alla periferia di Bologna lo scorso 23 marzo. Nella giornata di martedì 21 aprile, la Procura ha comunicato i risultati degli accertamenti medico-legali precisando che sono stati confrontati i dati odontoiatrici riferiti al 46enne scomparso nel 2015 con l’arcata dentale rinvenuta tra i frammenti ossei. Il confronto ha evidenziato la corrispondenza tra "peculiarità anatomiche, patologiche e terapeutiche" dell'uomo. "Ciò è sufficiente - ha precisato con una nota della Procura riportata dal Corriere della Sera - per identificare il cadavere nella persona di Biagio Carabellò".
La scomparsa nel 2015. Biagio Carabellò è scomparso dalla Bolognina, un rione del capoluogo emiliano compreso nel quartiere Navile, il 23 novembre del 2015. Quel giorno, era un freddo lunedì, uscì di casa al mattino presto per andare al lavoro senza mai più farvi ritorno. Sul caso ha sempre aleggiato un alone di profondo mistero, tale da minare ben presto l'ipotesi di un allontamento volontario formulata a poche ore dall'assenza prolungata e sospetta. Tra gli elementi al vaglio degli inquirenti, il giallo di un testamento, rivelatosi poi falso, intascato da un’amica di Biagio e della sua compagna, morta di cancro quattro anni prima della scomparsa. Era quindi finita a processo, con l’accusa di falsificazione e soppressione di testamento, Simona Volpe, amica della fidanzata di Carabellò, Elisabetta Filippini, deceduta nel 2010. Nel testamento Volpe era nominata unica erede. Il 24 ottobre del 2018, la donna fu condannata a due anni per aver falsificato il documento ereditando immobili e valori per diverse migliaia di euro. Nel 2016, la Procura di Bologna aprì un fascicolo per sequestro di persona (senza indagati) che però non portò a nulla. L’inchiesta dei carabinieri, coordinati dal pm Stefano Orsi e dal procuratore Giuseppe Amato, fu archiviata nel settembre del 2018. Le investigazioni non avevano dato riscontri significativi sulle circostanze della scomparsa, e soprattutto non era stato trovato il corpo dell'uomo. Su sollecitazione dei familiari, da sempre convinti che Biagio fosse stato ucciso, successivamente sono state condotte ulteriori indagini, con sopralluoghi dei Ris nella casa del rione Bolognina e ricerche dei sommozzatori nel fiume Reno (dove si sospettava che giacesse il cadavere).
Il ritrovamento dei resti umani. Lo scorso 23 marzo, alcuni resti di uno scheletro umano – fra cui un cranio - sono affiorati lungo l’argine di un canale artificiale in via Romita, all'estrema periferia Nord di Bologna. A ritrovare i frammenti ossei, tra sterpaglie e rifiuti, sono stati alcuni operai addetti alla pulizia di un’area verde in prossimità del canale. I manovali hanno subito sospeso i lavori e avvisato la polizia che, con anche l'intervento dei vigili del fuoco e dei tecnici della Scientifica, ha circoscritto e ispezionato la zona. Oltre al cranio, sono state via via recuperate altre parti del corpo che hanno consentiti di ricostituire quasi interamente lo scheletro. Accanto ai resti, c'erano anche un telefono cellulare, sprovvisto di sim, e una siringa. Gli accertamenti del caso sono stati affidati all'amatomopatologa Cristina Cattaneo, esperta in identificazione di cadaveri senza nome, nominata consulente dalla Procura.
"È Biagio". Nella giornata di martedì, la Procura ha comunicato i risultati degli accertamenti medico-legali specificando che sono stati raffrontati i dati odontoiatrici del 46enne con l’arcata dentale rinvenuta insieme ai resti. Il confronto ha la corrispondenza tra "peculiarità anatomiche, patologiche e terapeutiche. Ciò è sufficiente per identificare il cadavere nella persona di Biagio Carabellò", ha precisato con una nota la Procura. Non sono ancora noti, invece, i risultati del test del Dna, previsti per i prossimi giorni. L’identificazione certa dei resti potrebbe portare ad una nuova svolta del caso, ad oggi, ancora irrisolto. Gli inquirenti, che avevano riaperto e archiviato per due volte le indagini su impulso dei familiari e dell’avvocato Barbara Iannuccelli – legale dei Carabellò - , si sono convinti che si sia trattato di omicidio e non di un allontanamento volontario nè di un suicidio.
"La verità verrà fuori". "La verità verrà fuori, io ci credo. Anche perchè per me, per mio fratello Sergio e per mia mamma è inconcepibile continuare a vivere così. Io non sono più la stessa dalla scomparsa di Biagio", ha dichiarato Susanna Carabellò, sorella di Biagio, in una recente intervista al quotidiano BolognaToday. "Lasciamo lavorare chi lo sta facendo semplicemente continuando ad aspettare, ma con fiducia. Sappiamo che non è semplice. Dalla nostra abbiamo un legale che non si arrende mai e che in questo ci ha molto sostenuti e aiutati a non mollare anche nei momenti più duri", ha concluso.
· Il mistero di Kasia Lenhardt , ex di Jerome Boateng.
Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2021. Una modella bellissima, un calciatore famoso, un amore tormentato e un finale tragico. La contro-favola tra Kasia Lenhardt, trovata morta a 25 anni il 9 febbraio in un appartamento di Charlottenburg, quartiere raffinato di Berlino, e Jerome Boateng, difensore del Bayern e della Germania campione del mondo 2014, è entrata in un fascicolo della procura di Monaco, che ha indagato il calciatore per lesioni personali nei confronti dell' ex fidanzata, lasciata una settimana prima del sospetto suicidio. E tra le carte è entrata ora una vecchia denuncia di Kasia, che il 3 ottobre 2019 incolpava Jerome di una lesione all' orecchio, salvo poi ritirarla. Particolare inquietante di una storia già tossica: al cadavere della modella, secondo la Bild , mancava un lobo. Era cominciata come nei film. Lei nata in Polonia e diventata famosa in Germania, quarta a soli 17 anni al concorso Next Top Model nel 2012, un figlio da una relazione precedente; lui il campione rientrato in patria dopo l' esperienza al Manchester City, totem nel club e in Nazionale, nipote d' arte (lo zio è Robert Boateng, ex giocatore ghanese, il fratello è Kevin Prince, ex del Milan oggi al Monza), pieno di donne, troppe. Quindici mesi fa lascia la fidanzata brasiliana Rebecca Silvera, per mettersi con Kasia. C' è anche una legittima moglie, Sherin Senler, madre dei gemelli Soley e Lamia, e ci sono innumerevoli amanti, ciascuna si fa viva per rivendicare un pezzo di verità («Mi tradiva» è il ritornello) ora che l' ultimo messaggio di Kasia è sparito da Instagram («C' è un limite a tutto, adesso basta») e Boateng è precipitosamente rientrato dalla Coppa del Mondo per club in Qatar. Verrà interrogato. Il suicidio dell' ex fidanzata non pare in discussione ma gli inquirenti vogliono capire in quale clima, e stato emotivo, sia maturato. La Bild ha svelato l' esistenza di un patto di riservatezza in base al quale Lenhardt si era impegnata, sotto la minaccia di salatissime penali, a non rivelare informazioni (né foto né sms né mail) su Jerome. L' annuncio della separazione della coppia, infatti, il 2 febbraio avviene per bocca di Boateng: «Chiedo scusa a tutti, soprattutto a Rebecca e ai miei figli. Sono deluso di me stesso». In un' intervista, nei giorni in cui Kasia ha un incidente d' auto con la Mini del calciatore, rivela di essere sotto ricatto della modella, che avrebbe minacciato di distruggergli la carriera. Lenhardt esce dal silenzio sui social: spiega di aver scelto di separarsi lei da un uomo che non conosce («Chi sei, in realtà?») e da cui ha ricevuto solo bugie e infedeltà. Una settimana dopo, nel giorno del sesto compleanno del figlio, si toglie la vita. Ad aggiungere mistero alla vicenda provvede Cathy Hummels, moglie di Mats, compagno di reparto di Boateng nella Germania: «Bisogna smetterla con l' odio, con il body shaming e il cyber mobbing - scrive in un post -. Tutto ciò distrugge le persone. Mi dispiace tanto, cara Kasia. Siamo entrambe nel mondo del calcio e so quanto possa essere brutale». Sotto il vestito, le tenebre di Kasia. Che solo Jerome, ormai, può aiutare a dipanare.
Jerome Boateng indagato per lesioni all'ex fidanzata morta. La Repubblica il 24/2/2021. Sul corpo di Kasia Lenhardt trovato un lobo dell'orecchio strappato. Al momento del decesso della donna, si pensa per suicidio, i due si erano lasciati da una settimana tra accuse e post pubblici. La pm: "L'indagine è ancora in corso". Altro che Champions. Il calciatore del Bayern Monaco Jerome Boateng, appena rientrato in Germania dalla trasferta a Roma dove ha affrontato la Lazio martedì, ha trovato ad attenderlo l'ipotesi di un'accusa gravissima. Procedimento riaperto. La procura di Monaco ha riaperto le indagini per lesioni personali nei confronti della sua ex fidanzata, la modella Kasia Lenhardt, morta suicida (questo credono gli inquirenti) due settimane fa. La Bild però riporta le parole del procuratore capo Anne Leiding, secondo cui "l'indagine è ancora in corso". Il procedimento infatti "è stato riaperto il 10 febbraio perché ci sono arrivate nuove informazioni nell'ambito dell'inchiesta sulla morte a Berlino, che potrebbero dare indicazioni su una possibile continuazione del procedimento".
Le accuse di infedeltà. I risultati dell'esame autoptico sul corpo della 25enne, sempre secondo la Bild, avrebbero riscontrato una lesione a un lobo dell'orecchio, che risulterebbe strappato. Boateng e Kasia si erano lasciati da una settimana circa al momento del decesso della donna, separazione annunciata - come d'altronde il fidanzamento tra i due, circa 15 mesi prima - con un post su instagram, con annesse accuse di infedeltà. L'ultimo post della donna era un'accusa senza destinatario: "Ora è dove hai passato la linea. È abbastanza". Adesso Boateng rischia un'accusa per lesioni personali alla giovane donna, mamma di un bambino di 5 anni.
Da gazzetta.it il 25 febbraio 2021. La procura di Monaco ha riaperto le indagini sul giocatore del Bayern Monaco Jerome Boateng per lesioni personali nei confronti della sua ex fidanzata, morta suicida due settimane fa, 7 giorni dopo la rottura con il difensore tedesco e due settimane dopo aver firmato un contratto che le imponeva il massimo riserbo sul rapporto con lo stesso Boateng. Lo riferisce Bild. I risultati dell’esame autoptico hanno dato conto di un lobo dell’orecchio strappato sul corpo della modella Kasia Lenhardt. “Il procedimento è stato riaperto il 10 febbraio 2021 perché ci sono arrivate nuove informazioni nell’ambito dell’inchiesta sulla morte a Berlino, che potrebbero dare indicazioni su una possibile continuazione del procedimento. L’indagine è ancora in corso” riporta Bild citando le parole del procuratore capo Anne Leiding. In realtà si tratterebbe di una riapertura di un’inchiesta già aperta nel 2019 e conclusasi con l’archiviazione lo scorso anno. Secondo quanto riportano fonti tedesche difatti, alla luce delle nuove informazioni emerse dalle inchieste della polizia di Berlino sul suicidio dell’ex fidanzata, la procura di Monaco avrebbe deciso di riaprire il caso. Boateng sarebbe dunque accusato di aver ferito deliberatamente Kasia Lenhardt, poco più di un anno prima della brutale rottura pubblica che l’ha portata alla morte nella sua casa di Berlino.
Le strappò l'orecchio a morsi, poi lei si è ammazzata. Boateng nei guai. Secondo quanto si apprende dalla Bild, Jerome Boateng è indagato per lesioni personali nei confronti della ex, suicida ad una settima dalla rottura. Rosa Scognamiglio - Gio, 25/02/2021 - su Il Giornale. Avrebbe strappato a morsi l'orecchio della fidanzata, poi lei si è tolta la vita. Sarebbe questo, secondo quanto riferisce la Bild, il contesto in cui sarebbe maturata la decisione da parte della Procura di Monaco di riaprire un'indagine per lesioni personali ai danni del giocatore del Bayern Monaco Jerome Boateng. Secondo l'accusa, il difensore dei "rossi" avrebbe aggredito deliberatamente la ex, la modella 25enne Kasia Lenhardt, suicida circa una settimana fa.
Il giallo della morte di Kasia Lenhardt. Kasia Lehardt, 25 anni, è stata ritrovata senza vita in un appartamento di Berlino, lo scorso 10 febbraio. Stando a quanto si apprende da fonti a vario titolo, le circostanze del decesso avrebbero destato sospetti, motivo per cui le autorità tedesche hanno deciso di avviare un'indagine. La donna si sarebbe tolta la vita nel giorno del compleanno del suo bimbo di 6 anni nato da una precedente relazione. L'esito degli esami autoptici ha accreditato l'ipotesi di un suicidio ma una lesione ad un orecchio della vittima ha gettato ombre sull'ex fidanzato, il giocatore del Bayern Monaco Jerome Boateng. I due hanno avuto una relazione di 15 mesi salvo poi decidere di lasciarsi circa due settimane fa. Ad annunciare la separazione era stato proprio il difensore del Bayern Monaco con un messaggio sui social. "Com'è noto dai media - aveva detto lo scorso 2 febbraio - ho concluso la mia relazione con Kasia Lenhardt. D'ora in poi andremo per strade separate. E' deplorevole per me, ma per la mia famiglia è l'unica via giusta. Ho dovuto fare questo passo e tracciare una linea. Chiedo scusa a tutti quelli che ho ferito, soprattutto la mia ex ragazza Rebecca e i nostri figli. Anch'io sono deluso da me stesso. Un uomo deve assumersi la responsabilità e agire nell'interesse della famiglia e lo sto facendo ora. Auguro il meglio a Kasia. Jerome Boateng". Dopo soli sette giorni, Kasia si è tolta la vita.
Boateng indagato per "lesioni personali". A fronte del responso autoptico, la procura di Monaco ha deciso di riaprire le indagini sul giocatore del Bayern Monaco Jerome Boateng per lesioni personali nei confronti della modella. Secondo quanto riporta la Bild, l'autopsia ha dato riscontro di un lobo dell’orecchio "strappato a morsi" sul corpo della 25enne. "Il procedimento è stato riaperto il 10 febbraio 2021 perché ci sono arrivate nuove informazioni nell’ambito dell’inchiesta sulla morte a Berlino, che potrebbero dare indicazioni su una possibile continuazione del procedimento. L’indagine è ancora in corso” ha riferito il procuratore capo Anne Leiding al tabloid tedesco. In realtà si tratterebbe di una riapertura di un’inchiesta già aperta nel 2019 e conclusasi con l’archiviazione lo scorso anno".
Quel contratto sospetto. Secondo quanto riferisce il Corriere della Sera, Kasia Lenhardt avrebbe firmato un contratto che prevedeva penali altissime nel caso in cui avesse parlato della sua vita privata con Jerome Boateng, quasi a lasciar intendere che nei rapporti della coppia ci fosse qualcosa da nascondere. Cathy Hummels, moglie del difensore Mats che con Jerome Boateng ha giocato a lungo nel Bayern e nella Nazionale, aveva raccontato invece che Kasia era stata a lungo nel mirino degli haters sul web. Sulla natura dell'accordo tra il calciatore e la modella, però, vige ancora strettissimo riserbo.
Un passato burrascoso con le donne. Jerome Boateng, fratello 32enne dell'ex calciatore del Milan Kevin Prince, non sarebbe nuovo a dinamiche conflittuali di coppia. Sebbene l'ultima parola sulla triste vicenda della modella tedesca spetterà alla magistratura, dal passato del calciatore emergono non trascurabili dettagli circa il suo rapporto con le donne. Già in passato infatti era stato accusato di aggressione nei confronti della sua ex compagna, Sherin Senler, madre delle sue due figlie, le gemelline Soley e Lamia, nate nel 2011. La donna aveva presentato una denuncia nel febbraio 2019, ma l’iter giudiziario era stato bloccato a causa della pandemia. Finora, il giocatore si è difeso dalle accuse, ma si parlava di un video che, al contrario, avrebbe potuto dare ragione alla Senler. La loro relazione è terminata nel 2018, dopo 11 anni. Subito dopo, Boateng aveva avuto un flirt con la modella giamaicana Rebecca Silvera prima di cominciare la relazione con Kasia Lenhardt. Ma c’è un altro aspetto oscuro nella vita del calciatore: Boateng ha anche un terzo figlio, avuto da una donna il cui nome non è mai stato reso pubblico.
Da corriere.it il 10 febbraio 2021. Giallo per la morte della modella Kasia Lenhardt, ex fidanzata del difensore del Bayern Monaco Jerome Boateng. La 25enne tedesca è stata trovata morta dalla polizia nel suo appartamento di Berlino. Lenhardt e Boateng si erano lasciati poco più di una settimana fa dopo una relazione durata 15 mesi.
Le cause della morte. Sulle cause del decesso sono ancora in corso le indagini. Ci sono molti punti ancora oscuri e sulla vicenda le autorità di polizia non si sono ancora espresse in modo definitivo. Se ne saprà qualcosa in più soltanto quando verranno resi noti i risultati dell’autopsia, prevista nelle prossime ore. Per ora l'ipotesi più accreditata, secondo quanto riporta la «Bild», è quella del suicidio.
L’addio social. Non è comunque ancora chiaro se la morte della modella possa essere collegata in qualche modo alla rottura con Boateng. Era stato lo stesso Boateng ad annunciare sui social l’addio a Kasia lo scorso 2 febbraio: «Come è noto dai media, ho concluso la relazione con Kasia Lenhardt. D’ora in poi andremo per strade separate. È deplorevole, ma per la mia famiglia e per me è l’unica via giusta. Ho dovuto fare questo passo e tracciare una linea. Chiedo scusa a tutti quelli che ho ferito soprattutto con la mia ex ragazza Rebecca e i nostri figli. Anch’io sono deluso da me stesso. Un uomo deve assumersi la responsabilità e agire nell’interesse della sua famiglia e lo sto facendo ora. Auguro il meglio a Kasia. Jerome Boateng».
Niente finale di mondiale per club per Jerome. In ogni caso il decesso della sua ex fidanzata ha profondamente scosso il calciatore che salterà la finale del mondiale per club che avrebbe dovuto disputare giovedì con il Bayern Monaco contro i messicani del Tigres. «Questo ci ha sbalordito», ha detto l'allenatore dei bavaresi, Flick in conferenza stampa. «Jerome è venuto da me e mi ha chiesto di tornare a casa. Dopo un test (COVID-19) negativo tornerà a casa e non sarà disponibile fino a nuovo ordine» ha concluso il tecnico. Boateng era partito titolare nella vittoria del Bayern in semifinale per 2-0 contro l'Al Ahly . I campioni tedeschi puntano al sesto titolo in meno di nove mesi, sperando di emulare il bottino di sei trofei in stagione, già raggiunto dal Barcellona nel 2009.
Christina Ciszek per "corriere.it" il 20 febbraio 2021. Il caso del suicidio di Kasia Lenhardt, ex fidanzata del calciatore Jerome Boateng, si arricchisce di un nuovo capitolo. La Bild è infatti entrata in possesso del contratto tra il calciatore del Bayern Monaco e della nazionale e Lenhardt — 25 anni, modella, origini polacche e un figlio di 6 anni — per la quale Boateng aveva lasciato la compagna Rebecca Silvera.
Nel contratto, firmato da entrambi, Lenhardt si impegnava a non pubblicare alcuna informazione relativa all’ex fidanzato raccolta durante la loro storia, durata 15 mesi. Niente sms, niente mail, niente foto. Boateng — secondo l’accordo — avrebbe potuto chiedere, nel caso di una violazione dell’obbligo di segretezza, il pagamento di una penale sul cui controllo sarebbe potuto poi intervenire, eventualmente, «un tribunale». Secondo l’esperto di diritto Stephan Rübben, intervistato dalla Bild, quella penale avrebbe potuto raggiungere cifre considerevoli, anche se un tribunale avrebbe poi potuto definirne «l’immoralità». L’annuncio della separazione avviene il 2 febbraio scorso: «Ho dovuto fare questo passo e tracciare una linea», spiega Boateng. «Chiedo scusa a tutti quelli che ho ferito, soprattutto la mia ex ragazza Rebecca e i nostri figli. Sono deluso da me stesso. Un uomo deve assumersi la responsabilità e agire nell’interesse della sua famiglia: lo sto facendo ora». Il tema viene rilanciato da tabloid, quotidiani e riviste. E l’unico a parlare è Boateng. Alla Bild dichiara che Lenhardt lo ha ricattato, l’ha minacciato di distruggere la sua carriera e di fargli perdere i figli. La stessa Bild aveva anche coinvolto la ex di Boateng, che aveva — in una intervista — descritto in modo estremamente negativo Lenhardt. Poche ore dopo, Lenhardt reagisce su Instagram: e la sua versione dei fatti è opposta. Dichiara che «è stata lei a scegliere di separarsi, per le bugie e l’infedeltà» di Boateng. E si chiede «chi sia, quest’uomo, in realtà». Queste frasi avrebbero potuto far scattare una penale, secondo il contratto stipulato tra i due. Ma di quale cifra? La Bild non è riuscita a ottenere una dichiarazione, né da parte di Boateng né da parte della famiglia di Lenhardt. Di sicuro c’è che il 9 febbraio, nel giorno del sesto compleanno del figlio, Lenhardt si toglie la vita. E che ora Cathy Hummels —moglie di Mats Hummels, del Borussia Dortmund — ora punta il dito sui messaggi di odio con i quali Lenhardt è stata colpita dopo il 2 febbraio.
Bugie, tradimenti, litigi e alcol: cosa c'è dietro la morte dell'ex di Jerome Boateng. Dopo il ritrovamento del cadavere dell'ex fidanzata di Jerome Boateng, la polizia scava nel recente passato della modella per risolvere il mistero. Novella Toloni, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. "Lo so, non me la caverò, anche se lo voglio davvero". Questo uno degli ultimi messaggi che Kasia Lenhardt, modella polacca di 25 anni, ha scritto sulla sua pagina Instagram prima di essere trovata morta nella sua abitazione nel quartiere di Charlottenburg a Berlino. Spetterà all'esame autoptico fornire dettagli sulle cause della morte della ragazza, anche se per il momento gli inquirenti pensano al suicidio. La chiave di svolta nelle indagini starebbe nel recente passato di Kasia fatto di tradimenti, abuso di alcol e litigi con l'ex fidanzato il calciatore del Bayer Monaco, Jerome Boateng. A trovare il corpo senza vita di Kasia Lenhardt - modella diventata famosa nel 2012 per la sua partecipazione al reality "Germany's Next Top Model" nel team di Heidi Klum - è stata la polizia tedesca, che nella serata del 9 febbraio ha fatto irruzione nella casa della Lenhardt in seguito a una segnalazione. Il rinvenimento del cadavere, senza indizi che indichino la presenza di terze persone, sta facendo pensare al suicidio, ma il caso è aperto e sta assumendo sempre di più i toni di un giallo. Le ultime settimane della modella 25enne potrebbero, infatti, nascondere i motivi del gesto estremo e svelare cosa è successo in quell'appartamento nel cuore di Berlino.
La rottura con Boateng e gli annunci social. L'attenzione degli inquirenti si sta concentrando sugli ultimi giorni di vita di Kasia e sulla recente rottura con il calciatore Jerome Boateng. L'annuncio della fine della loro relazione, durata poco più di un anno, era arrivata attraverso i social per bocca del giocatore del Bayer che, lo scorso 2 febbraio, aveva annunciato la rottura su Instagram. Un lungo post dove Boateng chiedeva addirittura scusa alla sua ex compagna e ai suoi figli e parlava di delusione e responsabilità. L'ultimo contenuto condiviso da Kasia, invece, risale al giorno successivo, il 3 febbraio. Un post sibillino nel quale la modella aveva scritto: "Ora è dove oltrepassi la linea. Basta". La stessa "linea" di cui aveva parlato Jerome poche ore prima. Non parole spensierate come quelle che ci si aspetterebbe da una ragazza di 25 anni nel pieno della sua vita e carriera.
L'incidente e l'abuso di alcol della modella. La fine della relazione tra Kasia Lenhardt e Jerome Boateng non sarebbe stata "pacifica". Come riportano i giornali scandalistici tedeschi, la coppia aveva una relazione turbolenta, fatta di liti e accuse, eccessi e infedeltà. L'uno accusava l'altro. L'apice del difficile momento che i due stavano attraversando è stato toccato all'inizio dell'anno. Quando il 5 gennaio la modella ha avuto un brutto incidente con l'auto del calciatore, schiantandosi contro un lampione. Porta d'urgenza in ospedale i medici hanno riscontrato nel suo sangue un elevato tasso alcolemico. Questo gravissimo episodio avrebbe incrinato definitivamente il loro rapporto, arrivato al capolinea poche settimane dopo.
Le accuse mosse da un'amica di Kasia. Dietro la morte della modella 25enne, però, ci sarebbero "altre persone". A svelarlo è stata la migliore amica Sara Kulka attraverso le storie del suo account Instagram. Come riporta il portale tedesco InFranken, la modella Kasia Lenhardt sarebbe stata "portata alla morte da diverse persone. Spero che tutti i responsabili che li hanno ricattati, minacciati e messi sotto pressione si sentano in colpa". L'amica di Kasia ha poi rimosso le storie dal social. L'ex compagno, intanto, ricevuta la notizia dell'improvvisa morte della Lenhardt ha abbandonato il Bayer Monaco alla vigilia della finale del Mondiale per Club in Qatar, scegliendo di rientrare a Berlino.
Michela Allegri per "il Messaggero" l'11 febbraio 2021. Liti, accuse reciproche, la fine di un amore durato 15 mesi annunciata sui social. Una vita vissuta sempre sotto i riflettori. Anche l'ultimo atto, quando è calato il sipario, è finito in prima pagina, perché la morte della bellissima Kasia Lenhardt, ex fidanzata del calciatore Jérôme Boateng, è un mistero che rimbalza da un capo all'altro del web e riempie i servizi dei telegiornali di mezzo mondo. Il corpo senza vita della modella è stato trovato ieri dalla Polizia nel suo appartamento di Berlino. Sarà l'autopsia a chiarire le cause della morte: verrà effettuata nelle prossime ore. Kasia e il giocatore si erano lasciati da appena una settimana, dopo una relazione tormentata, con accuse incrociate di eccessi e infedeltà. Il difensore del Bayern, sconvolto, ieri ha abbandonato il mondiale per club in Qatar, poco prima della finale con i messicani del Tigres, ed è tornato a Monaco.
LA CARRIERA. Polacca, 25 anni, madre di un bambino di 5, la Lenhardt era molto famosa in Germania: la sua carriera era decollata dopo la partecipazione nel 2012 al reality Germany' s Next Top Model. All'epoca Kasia si era classificata quarta, ma era diventata uno dei volti più noti sulle passerelle e in televisione. Così come l'inizio, anche la fine della storia con il calciatore era stata rilanciata sui social e sulle prime pagine delle riviste scandalistiche. L'ultimo post pubblicato su Instagram da Kasia è enigmatico: «Ora è dove tracci il limite. Abbastanza», si legge sotto una fotografia che la ritrae, splendida, in bianco e nero. Anche il difensore del Bayern Monaco aveva scelto i social per annunciare che lui e Kasia si erano lasciati dopo 15 mesi di amore parecchio turbolento, fatto di accuse pubbliche di presunti tradimenti e abuso di alcol: «Com' è noto dai media ho concluso la relazione con Kasia. D'ora in poi andremo per strade separate. È deplorevole, ma per la mia famiglia e per me è l'unica scelta giusta. È ora di tracciare una linea e chiedere scusa a tutti quelli che ho ferito, soprattutto alla mia ex fidanzata Rebecca e ai nostri figli». E ancora: «Anche io sono deluso da me stesso. Un uomo deve assumersi le proprie responsabilità e agire nell'interesse della sua famiglia. È quello che sto facendo adesso».
L'INCIDENTE. Qualche giorno fa il quotidiano tedesco Bild aveva rivelato che Kasia era stata coinvolta in un incidente automobilistico con la Mini del calciatore il 5 gennaio scorso: dopo essersi schiantata contro un lampione, la modella era stata portata in ospedale dove le era stato scoperto un tasso alcolemico nel sangue molto alto. Da qui, ipotizzavano i media, la decisione di Boateng di mettere fine alla storia con la modella. Lei aveva però replicato al post di Jérôme con una versione molto diversa: diceva di avere lasciato il calciatore a causa delle sue «bugie» e della sua «costante infedeltà».
L'AMICA. Il 3 febbraio, l'ultimo post e ieri il corpo senza vita trovato dai poliziotti tedeschi. Per sapere cosa abbia ucciso Kasia servirà l'autopsia, ma da un primo esame il medico legale ha escluso segni di violenza. Ad alimentare il giallo il messaggio di un'amica della modella su Instagram: «Riposa in pace. Persona meravigliosa, mi manchi e mi sarebbe piaciuto dirti addio. Spero che tu trovi la tua pace e spero che la verità venga fuori ora, so che lo avresti voluto. Non ti dimenticherò mai, non conosco nessuno che possa ridere come te. Mando molta forza alla famiglia».
· Il Caso Imane.
Caso Imane, avvisi di garanzia per i medici. Per la Procura Milano è un atto dovuto l'iscrizione per omicidio colposo in concorso dei medici dopo il no del gip all'archiviazione dell'indagine. Ora entro sei mesi dovrà essere completata la consulenza per stabilire un'eventuale nesso tra la condotta dei medici e la morte della modella marocchina. Andrea Siravo, Venerdì 22/01/2021 su Il Giornale. Era un atto atteso da settimane come passaggio obbligato l’iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Milano dei medici dell’equipe dell’Istituto clinico Humanitas che ha curato per 31 giorni Imane Fadil, la modella 34enne marocchina morta il primo marzo del 2019 per aplasia midollare. Per i pm il caso era chiuso: la teste del caso Ruby è morta per cause naturali. Non c'è stato un assassino deciso a farla tacere per sempre per evitare nuove rivelazioni e n’è deceduta per colpa medica, come hanno certificano i risultati della lunga e dettagliata consulenza affidata a un pool di esperti capitanati da Cristina Cattaneo, il medico legale più noto d’Italia. Oggi, però, dopo il rigetto del 31 dicembre scorso del gip alla richiesta di archiviazione e la decisione di far svolgere nuove indagini il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio si sono visti ‘obbligati’ come atto dovuto a notificare 12 avvisi di garanzia con l’ipotesi di omicidio colposo in concorso ad altrettanti medici dell’Humanitas in vista dell’ennesima consulenza. Per il gip servirà a stabilire per l’ultima volta se via sia “un nesso” tra “la condotta dei sanitari e il decesso di Imane Fadil”. Entro sei mesi, si dovranno completare quindi le nuove analisi che si andranno ad aggiungere a quelle già fatte, e già durate un tempo infinito. Solo allora se la nuova consulenza confermerà l’esito di quelle precedenti si potrà mettere la parola fine sulla triste storia di una bella ragazza venuta in Italia a cercare un futuro, e inghiottita nelle sabbie mobili dei media e dei processi. Dalla struttura sanitaria alle porte di Milano vi è “ferma convinzione dell'assenza di responsabilità a carico dei professionisti che si sono prodigati nelle cure di Imane Fadil, esprimendo un'altissima competenza professionale e appropriatezza delle cure”. A pochi giorni dalla morte, come in una spy-story, si era ipotizzato che la modella fosse stata avvelenata con dei metalli radioattivi. Ad alimentare il teorema era stato un audio della ragazza al suo avvocato in cui dice di avere il timore di essere stata avvelenata. A quel punto la Procura aveva aperto un fascicolo per omicidio volontario a carico ignoti. Poi era arrivato l’esito delle lunghe indagini mediche con la conclusione che la causa del decesso fosse da attribuire a una grave forma di anemia associata a un’epatite acuta. Il caso si sgonfia. "Oggi abbiamo alcune certezze. Che malattia ha avuto, che decorso, cosa si poteva e non poteva fare. Se l’esito finale della consulenza e sicuro sulla malattia, resta aperto l’interrogativo sulla causa che l’ha generata. Si è cercato in tuti I modi di trovare qualche spunto, ma su questo è non si è trovato nulla”, dice davanti a microfoni e telecamere il procuratore capo Francesco Greco. A quel punto i pm hanno chiesto l’archiviazione ma la famiglia non si è rassegnata, e contestando l’esito delle conclusioni dei magistrati si era opposta a febbraio 2020. Tutto tace fino quando il giorno di capodanno il gip ha sciolto la riserva e ha disposto i nuovi accertamenti.
Morte di Imane Fadil, avvisi di garanzia a 11 medici dell'Humanitas indagati per chiarire la fine della teste di Ruby Ter. Luca De Vito il 22 gennaio 2021 su La Repubblica. L'iscrizione della procura di Milano dopo che la gip Alessandra Cecchelli aveva respinto l'archiviazione. Sono undici gli avvisi di garanzia arrivati ad altrettanti medici dell'Humanitas, l'ospedale milanese dove era stata curata la modella e supertestimone del caso Ruby Imane Fadil nelle settimane prima della sua morte. L'iscrizione, decisa dalla procura di Milano in questi giorni, è avvenuta nell'ambito del fascicolo sulla morte della modella marocchina 34enne ospite delle cene eleganti di Arcore. L'indagine, affidata al pm Luca Gaglio del dipartimento dell'Aggiunto Tiziana Siciliano, nasce dal respingimento della richiesta di archiviazione siglato dalla gip Alessandra Cecchelli nelle scorse settimane. La giudice infatti aveva fissato "un termine di sei mesi" per il compimento di ulteriori indagini sulla morte della modella finalizzate, in particolare, "a determinare se sia ravvisabile un nesso eziologico tra la condotta dei sanitari e la morte di Fadil". La modella marocchina è morta a 34 anni nella clinica Humanitas di Milano il primo marzo del 2019 per un'aplasia midollare associata a un'epatite acuta, un'entità clinica estremamente rara e grave. In una nota "Humanitas esprime ferma convinzione dell'assenza di responsabilità a carico dei professionisti che si sono prodigati nelle cure di Imane Fadil, esprimendo un'altissima competenza professionale e appropriatezza delle cure. A seguito delle decisioni del GIP, gli avvisi di Garanzia ora emessi dalla Procura consentiranno ai sanitari coinvolti di meglio dimostrare la linearità dei loro atti, anche grazie al contributo di propri consulenti tecnici. Da subito l'Istituto ha collaborato alle indagini e ha fornito tutti i chiarimenti necessari all'Istruttoria, al punto che i PM avevano chiesto l'archiviazione del caso non ravvisando alcuna colpa medica".
· Il mistero di Ilenia Fabbri. L’omicidio di Faenza.
Omicidio di Faenza, il delitto di Ilenia era già stato tentato due volte. La Repubblica il 22 marzo 2021. In mattinata l'ex marito Claudio Nanni, interrogato in Questura, si era avvalso della facoltà di non rispondere. Il piano prevedeva di nascondere la 46enne dentro a un trolley, di cospargerla di acido e di gettarla in una buca già scavata nelle campagne faentine. Già altre due volte avevano tentato di uccidere Ilenia Fabbri, in un piano messo a punto tra settembre e ottobre. E' quanto emerso dalla confessione che il 17 marzo il 53enne Pierluigi Barbieri, alias "lo Zingaro", sicario reo-confesso dell'omicidio di Faenza, su mandato dell'ex marito. L'uomo avrebbe detto che i due precedenti tentativi di eliminare la donna erano falliti, il primo perché lui non si era orientato bene nella casa alla ricerca della stanza della 46enne e l'altro perché l'ex marito, Claudio Nanni, il cui arrivo avrebbe dovuto segnare l'inizio dell'azione, si era presentato tardi. Barbieri, originario di Cervia, ma domiciliato nel Reggiano, ne ha parlato quando è stato sentito in Questura a Ravenna in merito alla 46enne uccisa il 6 febbraio nella sua abitazione di via Corbara. I dettagli sono emersi dopo un altro interrogatorio, quello di lunedì mattina, nel quale invece l'ex marito della donna, 54 anni, presunto mandante del delitto, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Secondo Barbieri, il piano all'inizio - in cambio di 20 mila euro e un'auto usata - prevedeva di fare scomparire la 46enne dentro a un trolley, di cospargerla di acido e di gettarla in una buca già scavata nelle campagne faentine e individuata dagli inquirenti. Tanto che, su sua indicazione, in un magazzino dell'officina di Nanni nei giorni scorsi la polizia, coordinata dal Pm Angela Scorza, ha sequestrato una vanga, dell'acido e un trolley. Sempre Barbieri ha dato indicazione per recuperare in un campo adiacente a una piazzola dell'autostrada A14 tra Faenza e Imola il manico di un martello da carpentiere con cui aveva provato a soffocare la donna subito prima di tagliarle il collo con un coltello da cucina recuperato nell'abitazione. I nuovi elementi, se confermati, rafforzano l'ipotesi della premeditazione di un delitto aggravato anche dai motivi abietti: un assassinio commesso con il fine di non corrispondere alla donna le somme di denaro di sua spettanza e per rientrare nella disponibilità della casa coniugale. Barbieri, secondo quanto ricostruito, ha raggiunto Faenza nelle prime ore della mattina del 6 febbraio e, accertatosi dell'allontanamento di Nanni, sopraggiunto per prendere la figlia Arianna (così da precostituirsi un alibi) si è introdotto nella casa, poi è andato nella camera da letto al primo piano e ha tentato di uccidere Ilenia strangolandola. La donna si è difesa, lui l'ha inseguita per le scale e, dopo averla colpita più volte l'avrebbe accoltellata alla gola, vicino alla cucina.
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" l'1 aprile 2021. Cerca di strangolarla, la picchia, la sgozza. E poi confessa tutto agli inquirenti con naturalezza e dovizia di particolari, peraltro riscontrati: i tentativi falliti, la fossa già scavata nella quale avrebbe dovuto buttare Ilenia in settembre, il trolley per trasportarla, la vanga. Un film dell'orrore al quale hanno assistito la pm Angela Scorza e il suo avvocato, Diego Dell'Anna, che a un certo punto hanno incrociato gli sguardi: «Ci siamo guardati, stupita lei, stupito io. Diceva cose di una gravità inaudita, non me l'aspettavo». Dell'Anna conosce da un annetto Pierluigi Barbieri, l'uomo che il 6 febbraio ha ucciso a Faenza Ilenia Fabbri dopo averci provato due volte, sempre seguendo un piano dell'ex marito della donna, Claudio Nanni. Terminato il sorprendente interrogatorio, Dell'Anna ha voluto capirne di più di questo cliente, cercando di ricostruire i suoi ultimi anni, trascorsi fra lavoretti precari, pestaggi su commissione e carcere: «Non solo, ho trovato che fino al 2016 Barbieri era seguito da un Centro di salute mentale. Poi ha avuto un grave incidente in moto, con un'emorragia cerebrale, ha fatto mesi di ospedale per rimettersi in piedi. E quando è tornato in forma è uscito dai radar del Centro, anche perché ha cambiato città, casa, compagna. Resta il fatto che era ed è un soggetto psichiatrico, con un disturbo della personalità certificato, oltre a essere tossicodipendente». Come dire, un tipo da tenere sotto controllo. Negli ultimi cinque anni Barbieri si è distinto per una serie di crimini che il giudice per le indagini preliminari di Ravenna, Corrado Schiaretti, ha così sintetizzato: «Si è accreditato nell'ambiente malavitoso come soggetto da spedizioni punitive - scrive nell'ordinanza che ha disposto il carcere -. In spregio a qualunque rischio, con la capacità di porre in essere qualsiasi condotta violenta per conseguire un compenso. In sostanza, è noto per essere un picchiatore su commissione». Ne sa qualcosa una persona disabile di Predappio che nel febbraio dello scorso anno se l'è visto piombare in camera con un frustino d'acciaio. L'uomo aveva accettato di guidare un carico rubato di materiale ferroso da Marghera a Ravenna per poi tirarsi indietro. Uno sgarbo. Che la banda volle fargli pagare ingaggiando Barbieri per estorcergli 500 euro, considerato il giusto prezzo del ripensamento. Missione riuscita e lui se ne vantò al telefono con un conoscente, senza sapere di essere intercettato: «Con un calcio gli ho buttato giù la porta... proprio buttata giù... bu-bum, nel frattempo quello si era chiuso nella camera da letto. Ho dato allora un calcio alla porta della camera e non veniva giù, due e non veniva... tre e bum è andata giù. Io non l'avevo mai visto questo, gli son volato addosso con il frustino d'acciaio, bum bum bum. Gli stavo dando una legnata sui denti e fa: "Ma no ma sei matto". Ho detto: se non tiri fuori i soldi ti rovino». Brividi. «È andata proprio così», ha confermato di recente la vittima. Per quel fatto Barbieri era stato arrestato il 6 aprile 2020 e il 10 agosto scarcerato per poi essere condannato a 5 anni e 4 mesi. «Vista la portata dissuasiva della misura già applicata - ha scritto il giudice di Forlì che l'ha rimesso in libertà - si sostituisce il carcere con il divieto di avvicinarsi alla persona offesa e l'obbligo di presentazione alla pg. Si comunichi la cosa ai servizi socio assistenziali del territorio». Nel frattempo Barbieri si era stabilito a Reggio Emilia. «Lui mi ha detto che è andato un paio di volte ai servizi del Sert dove c'è un Centro di salute mentale ma l'hanno rinviato», aggiunge il legale. Dietro c'è certamente la strategia processuale di far riconoscere un vizio di mente. Bisogna dire che Dell'Anna ha fatto ben tre istanze per farlo scarcerare, nelle quali naturalmente non ha scritto della pericolosità del suo cliente. «Non lo sapevo ancora», assicura. Per il procuratore di Ravenna, Daniele Barberini, «la questione del Centro di salute mentale è emersa dopo l'ordinanza di arresto ed è da verificare. Se ne discuterà certamente al processo dove cercheranno di sollevare il problema della capacità di intendere di volere». Un processo dove si parlerà di un uomo feroce che girava per la Romagna come una mina vagante. Nanni l'ha innescata e Ilenia è stata sgozzata.
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 25 marzo 2021. «Il progetto iniziale era quello di ucciderla, metterla dentro un trolley, pulire casa, portare il corpo di Ilenia con il trolley in un posto... Nanni aveva scavato la buca per seppellirla... Aveva comprato dell' acido che io avrei dovuto buttare sul corpo di Ilenia affinché non potesse essere riconosciuta in caso di rinvenimento. Tutto era stato organizzato da Nanni. Mi disse che dopo averla seppellita dovevo allontanarmi con il trolley e le bottiglie di acido». Una confessione piena, cruda, agghiacciante. Di qua il pm di Ravenna Angela Scorza, di là lui, Pierluigi Barbieri, il pluripregiudicato cinquantatreenne arrestato per aver ucciso a Faenza lo scorso 6 febbraio Ilenia Fabbri, l' ex moglie del meccanico Claudio Nanni. Barbieri ha raccontato i sorprendenti retroscena del delitto, che è stato preceduto da due tentativi falliti per un paio di imprevisti. Quello del «trolley» è il primo, che lui fa risalire a fine settembre, neppure due mesi dopo essere uscito dal carcere.
«Sono andato a Faenza a casa di Ilenia per ucciderla come mi aveva detto Nanni. Quando mi diede le chiavi non mi aveva spiegato bene come era fatta la casa. Io sono entrato, con il trolley, sono andato in salotto e sulla destra ho visto una porta bianca, ho provato ad aprirla ma era chiusa e allora me ne sono andato. In quel momento in casa c' era solo la moglie... Ero furibondo... Con Nanni ci siamo rivisti dalle mie parti e gli ho consegnato sia il trolley sia le bottiglie di acido. Acido molto particolare, molto forte». Le rivelazioni di Barbieri hanno trovato conferme. Seguendo le indicazioni dell' assassino, gli uomini della Squadra mobile di Ravenna hanno individuato la fossa scavata da Nanni, in una zona di campagna non distante dalla casa di Ilenia. Nel corso di una perquisizione all' officina di Nanni hanno rinvenuto il trolley e l' acido e pure una vanga nuova che Barbieri avrebbe dovuto usare per seppellire Ilenia. Ma quel piano era fallito. Nanni non aveva però rinunciato all' idea del delitto. E ci ha riprovato in ottobre, con un piano che non contemplava trolley e acido. «La seconda volta lui doveva andare con la figlia a vedere una macchina... ma ho aspettato fino alle 5 e un quarto circa, non l' ho visto e allora me ne sono andato. Ero nervosissimo... gliel' ho detto che doveva essere puntuale, ero lì e la gente iniziava a vedermi, non sapevo cosa fare... Io posso solo ribadire che lui la moglie la voleva ammazzare, mi ha ripetuto tante volte che non doveva uscire di casa viva». Andato all' aria anche quel tentativo, passano altri quattro mesi e Nanni torna all' attacco. La terza volta è purtroppo quella tragica: lo scorso 6 febbraio, alle 6 del mattino, il meccanico passa a prendere la figlia per andare a Lecco a ritirare un' auto e precostituirsi così un alibi. Barbieri a quell' ora è vicino alla casa di Ilenia e, per entrare, attende il segnale concordato del passaggio dell' auto. Spunta una preoccupazione: per la figlia Arianna che avrebbe subito lo choc di ritrovare la madre morta a casa. «Ma lui mi disse che non importava... il cerchio si doveva chiudere prima del processo del 26 febbraio 2021». Il 26 febbraio era il giorno della causa civile che gli aveva intentato Ilenia per il risarcimento degli anni lavorati nell' azienda di famiglia e mai retribuiti: circa 100 mila euro. «L' idea in questa occasione era quella di ucciderla e fingere un furto. Avevo un manico di martello... Sono andato diretto in camera da letto: Ilenia era sveglia sul suo letto, è scappata via ha iniziato a urlare... L' ho uccisa utilizzando un coltello». Infine, il prezzo del delitto: «Gli accordi erano di 20 mila euro e una macchina... Io non dico bugie, voglio liberarmi la coscienza». Termina così una confessione capace di sorprendere l' avvocato di Barbieri, Diego Dell' Anna: «Chiederò una perizia per valutare lo stato di salute mentale del mio cliente». Segni di pentimento? «Sì, l' ho visto piangere».
Delitto di Faenza, il verbale della confessione del killer di Ilenia Fabbri: "Parlo per liberarmi la coscienza". La Repubblica il 24 marzo 2021. Pierluigi Barbieri agli inquirenti ha confermato la tesi che vede nell'ex marito, Claudio Nanni, il mandante: "Non mi ha dato nessun anticipo, gli accordi erano di 20 mila euro e una macchina". I precedenti due tentativi andati a vuoto, il piano originario di fare sparire la donna dentro a un trolley poi mutato nella messinscena di un furto finito male, il manico del martello usato per provare a soffocarla e persino un accenno di pentimento per "liberarmi la coscienza". E' quanto riferito testualmente nel verbale con cui il 53enne Pierluigi Barbieri il 17 marzo scorso in Questura a Ravenna alla presenza del suo avvocato difensore Diego Dell'Anna del Foro di Pesaro e del Pm Angela Scorza, ha confessato il delitto di Ilenia Fabbri, la 46enne uccisa il 6 febbraio scorso nella sua abitazione di via Corbara a Faenza (Ravenna). "Io non dico bugie, le sto dicendo la verità, voglio liberarmi la coscienza", ha detto agli inquirenti confermando la tesi che vede nell'ex marito Claudio Nanni il mandante. Di Nanni dice: "L'ho conosciuto tramite altre persone appassionate di scooter. Ho anche lavorato con lui nella sua officina per un periodo, ho lavorato in nero. Il progetto iniziale era quello di ucciderla, metterla dentro un trolley, pulire casa, portare il corpo di Ilenia dentro il trolley in un posto. Lui aveva scavato una buca dove dovevo portarla, aveva scavato la buca per seppellirla, il trolley che dovevo utilizzare era nella sua officina". Nanni in quel periodo aveva comprato dell'acido "che io - dice sempre Barbieri - avrei dovuto buttare sul corpo di Ilenia, una volta buttata dento la buca, affinché non potesse essere riconosciuta in caso di rinvenimento. Il progetto era stato interamente organizzato da Nanni il quale mi disse che una volta seppellita la moglie dovevo allontanarmi con il trolley e le bottiglie di acido". Materiale tutto ritrovato e sequestrato dalla polizia. Compresa la buca scavata da Nanni in una zona di campagna a Faenza sotto a un cavalcavia. Parole agghiaccianti. E ancora: "Nanni non mi ha dato nessun anticipo, gli accordi erano di 20 mila euro e una macchina". Sono le frasi pronunciate testualmente nel verbale. Nanni ha invece riferito di aver dato a Barbieri duemila euro solo con l'intento di spaventarla, ma non di ucciderla. A riprova della genuinità della sua confessione, Barbieri ha descritto minuziosamente il materiale che doveva inizialmente usare per portare via il cadavere della 46enne, nei due precedenti tentativi che non si erano concretizzati e quanto avvenuto la mattina del delitto. "Lui - ha detto nell'interrogatorio - la moglie la voleva ammazzare, mi ha ripetuto tante volte che la moglie non doveva uscire di casa viva, io gli ho detto che anche la figlia avrebbe visto il cadavere della madre al suo ritorno, ma lui mi disse che non importava, la moglie non doveva restare viva. Il cerchio si doveva chiudere prima del processo del 26 febbraio 2021, che aveva con la moglie", una causa di lavoro da 500 mila euro promossa dalla defunta per via delle sue collaborazioni nell'impresa di famiglia. "L'idea in questa ultima occasione era quella di fingere un furto ed uccidere la moglie. Io dovevo simulare il furto, aprire cassetti e buttare la roba in giro - si legge ancora nei verbali - Nanni mi disse solo che la moglie doveva morire e basta. Non mi spiegò come. Io sono entrato in casa con un manico di un martello da muratore. Il manico poi l'ho gettato nel tragitto tra Faenza e Imola. Sono entrato in casa, con le chiavi che mi diede Nanni, sia le chiavi del cancello che di ingresso di casa. Sono entrato dal garage, sono andato in camera da letto diretto e Ilenia era sveglia nel suo letto, lei è scappata via ha iniziato ad urlare, utilizzando un coltello l'ho uccisa. Ho lasciato il coltello all'interno del lavello. Sono scappato di fretta e non ho avuto il tempo di simulare il furto perché nel frattempo sentivo dei rumori che mi avevano allarmato".
Il femminicidio di Faenza. Omicidio Ilenia Fabbri, la confessione del sicario: “Già tentato due volte di ammazzarla”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Marzo 2021. L’omicidio di Ilenia Fabbri il 6 febbraio nella sua casa a Faenza diventa sempre più fitto di dettagli agghiaccianti. Il 17 marzo Pierluigi Barbieri, detto ‘Lo zingaro’, sicario reo-confesso, ha dichiarato che per ben altre due volte aveva già provato a uccidere Ilenia su presunto mandato dell’ex marito Claudio Nanni, in un piano messo a punto tra settembre e ottobre, ma senza riuscirvi. Come riportato dall’Ansa, l’uomo avrebbe detto che i due precedenti tentativi di eliminare la donna erano falliti, il primo perchè lui non si era orientato bene nella casa alla ricerca della stanza della 46enne e l’altro perchè l’ex marito, Claudio Nanni, il cui arrivo avrebbe dovuto segnare l’inizio dell’azione, si era presentato tardi. I dettagli sono emersi dopo un altro interrogatorio, quello di stamattina, nel quale invece l’ex marito della donna, 54 anni, presunto mandante del delitto, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Secondo Barbieri, il piano all’inizio – in cambio di 20 mila euro e un’auto usata – prevedeva di fare scomparire la 46enne dentro a un trolley, di cospargerla di acido e di gettarla in una buca già scavata nelle campagne faentine e individuata dagli inquirenti. Tanto che, su sua indicazione, in un magazzino dell’officina di Nanni nei giorni scorsi la polizia, coordinata dal Pm Angela Scorza, ha sequestrato una vanga, dell’acido e un trolley. Sempre Barbieri ha dato indicazione per recuperare in un campo adiacente a una piazzola dell’autostrada A14 tra Faenza e Imola il manico di un martello da carpentiere con cui aveva provato a soffocare la donna subito prima di tagliarle il collo con un coltello da cucina recuperato nell’abitazione. I nuovi elementi, se confermati, rafforzano l’ipotesi della premeditazione di un delitto aggravato anche dai motivi abietti: la donna sarebbe stata uccisa solo per una questione di soldi. Barbieri, secondo quanto ricostruito, ha raggiunto Faenza nelle prime ore della mattina del 6 febbraio e, accertatosi dell’allontanamento di Nanni, sopraggiunto per prendere la figlia Arianna (così da precostituirsi un alibi) si è introdotto nella casa, poi è andato nella camera da letto al primo piano e ha tentato di uccidere Ilenia strangolandola. La donna si è difesa, lui l’ha inseguita per le scale e, dopo averla colpita più volte l’avrebbe accoltellata alla gola, vicino alla cucina.
C.Gu. per "Il Messaggero" il 15 marzo 2021. «Arianna, come ti avranno detto i miei avvocati, le cose sono andate diversamente da come dovevano andare. In ogni caso ho commesso un errore e dovrò pagare». Claudio Nanni, meccanico di 54 anni accusato di essere il mandante dell'omicidio della ex moglie Ilenia Fabbri, 46 anni, sgozzata nella sua casa di Faenza il 6 febbraio, scrive dal carcere questa lettera alla figlia il 5 marzo. Prima di sapere che il presunto killer Pierluigi Barbieri, detto lo Zingaro, il lunedì successivo avrebbe raccontato tutto davanti al gip. «Nanni mi ha detto: Ilenia non deve uscire di casa viva», ha messo a verbale. In cambio il meccanico avrebbe offerto allo Zingaro una cifra di denaro sulla quale si concentrano le indagini coordinate dal sostituto procuratore Angela Scorza. Per avere a disposizione i 20 mila euro pattuiti, infatti, l'ex marito di Ilenia avrebbe commissionato a Barbieri un «ulteriore lavoro». Lo Zingaro avrebbe dovuto «menare un'altra persona». La presunta vittima sarebbe l'Ungherese, promotore finanziario al quale Nanni ha affidato una somma, 20 mila euro appunto. Nanni ha confidato a una conoscente, ascoltata dagli inquirenti, di avere fatto un investimento nel giugno scorso per sottrarre liquidità alle rivendicazioni patrimoniali avanzate dall'ex moglie. «Mi vuole rovinare, prima o poi le mando qualcuno», si è sfogato. Ora sono in corso verifiche della polizia anche in una società ungherese specializzata nella compravendita di pellet per risalire all'identità della persona che, secondo la confessione del sicario, era «da menare». Il dettaglio del possibile duplice ingaggio è stato fornito da Barbieri durante l'interrogatorio. Nanni ha detto di avere dato incarico allo Zingaro di spaventare Ilenia per 2.000 euro. Ma nel giugno scorso, ha riferito la testimone, ha «effettuato un investimento di 20 mila euro» con l'obiettivo di «sottrarre il denaro dal conto corrente». Nanni ha poi chiesto di riavere i suoi soldi, subito e in contanti. E, secondo quanto filtra dalle indagini, dapprima lo ha fatto con mail e messaggi amichevoli fino ad arrivare a prospettare un incontro con l'Ungherese fin sotto casa. A Nanni infatti servivano 15 mila euro subito, per rispettare l'accordo stretto con Barbieri mesi prima dell'omicidio, come ha riferito lo stesso Zingaro. Che ora, in cella, dice di avere paura: «Nanni è aggressivo e vendicativo». Dice di temere ritorsioni contro di sé e la sua compagna. Intanto la figlia di Nanni, Arianna, ha chiesto un colloquio in carcere con il padre. La ragazza gli crede e ritiene Barbieri unico responsabile dell'omicidio della madre. «Mio papà mi dice che mi vuole tanto bene - è la missiva di Arianna -, Io so che non la voleva ammazzare. Lui me l'ha detto, ha sbagliato a fare questa cosa per farle paura ma il problema non è babbo. Il problema è Barbieri Pierluigi». Nanni e Barbieri sono indagati per omicidio aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti. Lo Zingaro, 53 anni, è noto per essere un «picchiatore su commissione». Nanni invece sarebbe il mandante. Per il gip che lo ha arrestato è un uomo «avido e paranoico», che provava un «profondo astio» per l'ex moglie e da anni combatteva «per annientarla personalmente ed economicamente» per riprendersi e tenersi «quello che era suo». Il meccanico, hanno rivelato le indagini, perseguitava Ilenia con minacce di morte dirette e indirette. Le avrebbe mandato qualcuno, diceva. Tutto questo fino alla morte della donna, sgozzata all'alba di una mattina di febbraio mentre tentava di fuggire.
(ANSA l'8 marzo 2021) - Il 53enne Pierluigi Barbieri, alias 'lo Zingaro', nel corso dell'interrogatorio di garanzia appena concluso, ha ammesso di avere ucciso Ilenia Fabbri, la 46enne ammazzata il 6 febbraio nel suo appartamento di via Corbara a Faenza, mal Ravennate. L'uomo, nato a Cervia (Ravenna) e da tempo domiciliato in provincia di Reggio Emilia, davanti al Gip Corrado Schiaretti e al Pm Angela Scorza, ha risposto a tutte le domande restituendo una piena ammissione dei fatti. Alle 14 sarà l'ex marito della vittima, il 54enne Claudio Nanni, ad essere portato in aula per l'interrogatorio: è accusato di essere il mandante.
Il killer reo confesso: "In cambio 20mila euro e un'auto". Ilenia sgozzata su commissione, la difesa del marito: “Avevo detto solo di spaventarla”. Giovanni Pisano su Il Riformista l'8 Marzo 2021. “Avevo detto solo di spaventarla”. E’ quanto riferito nel corso dell’interrogatorio di garanzia da Claudio Nanni, 54 anni, marito di Ilenia Fabbri, la 46enne sgozzata in casa nella notte del 6 febbraio scorso a Faenza. L’uomo – secondo quanto riferito davanti al Gip del Tribunale di Ravenna Corrado Schiaretti e al pm Angela Scorza – aveva incaricato Pierluigi Barbieri solo di far paura alla moglie, rea di continuare a chiedergli soldi. Nanni ha poi precisato di aver dato circa 2mila euro a Barbieri, soprannominato “lo Zingaro”, per assolvere al suo compito. Il marito è accusato di essere il mandante dell’omicidio confessato in mattinata da Barbieri, 53enne residente a Reggio Emilia. I due sono stati arrestati il 3 marzo con l’accusa di omicidio pluriaggravato in concorso. Nanni ha poi ammesso di aver dato la copia della chiave di casa dell’oramai ex moglie Ilenia Fabbri a Barbieri.
“VOLEVA FERMARE STILLICIDIO CAUSE” – Stando alle parole – riportate dall’agenzia Agi – di Guido Maffuccini, legale di Nanni, l’intenzione “era di intimorirla facendole sapere che in ogni momento del giorno e della notte c’era qualcuno che poteva entrare in casa sua” perché “voleva che lei cessasse con questo stillicidio di cause che avevano portato la signora Ilenia Fabbri a ottenere la casa che era stata pagata da lui, l’automobile più altre cose. Se c’era premeditazione era solo quella di andare ad intimorirla”. LA CONFESSIONE E IL COMPENSO – Lo Zingaro ha ammesso che il suo compito era invece quello di uccidere Ilenia: “Dovevo strangolarla o buttarla giù dalle scale”. Barbieri ha precisato che gli era stato chiesto di non uscire dalla casa, senza avere prima ucciso la 46enne, per poi simulare un furto finito in tragedia. La donna aveva però opposto una strenua resistenza, difendendosi dall’aggressione del sicario che alla fine l’ha accoltellata alla gola. Il killer di Ilenia era potuto entrare indisturbato nell’appartamento di via Corbara grazie ad una copia delle chiavi di casa, sorprendendo la donna nella sua stanza da letto. Un omicidio su commessione in cambio di 20mila euro e un’automobile, stando sempre alle dichiarazioni di Barbieri nel corso dell’interrogatorio. A casa sua invece, quando è stato arrestato, la polizia aveva trovato e sequestrato 2.200 euro in contanti. Secondo la procura il denaro potrebbe essere collegato proprio al femminicidio di Ilenia Fabbri. Secondo invece quanto riferito dallo stesso Barbieri i 2200 euro in contanti rinvenuti nella sua abitazione non avevano alcun legame con l’omicidio.
Alessio Ribaudo per il "Corriere della Sera" il 9 marzo 2021. Adesso dice che non voleva. «Pierluigi Barbieri non doveva uccidere Ilenia quella maledetta notte, doveva solo intimorirla». Claudio Nanni, accusato di essere il mandante dell'omicidio dell'ex moglie Ilenia Fabbri, ha ammesso ieri davanti a Corrado Schiaretti, gip di Ravenna, e al pm, Angela Scorza, di aver ingaggiato il pluripregiudicato di Rubiera. Però ha fornito una versione diversa rispetto alla ricostruzione degli inquirenti sul femminicidio che si è consumato, il 6 febbraio, nella casa della 46enne a Faenza. Secondo Delia Fornaro, difensore con Dario Maffuccini del 54enne meccanico faentino, «la sua intenzione era quella di farla spaventare dandole un segnale che, in qualsiasi momento, c'era qualcuno pronto a entrare in casa e così pensava di farla desistere dalle cause intentate dopo la separazione». Una battaglia legale che riguardava la proprietà della casa e il mantenimento della figlia Arianna. «Le cause per Nanni erano diventate un'ossessione, assieme al Covid che aveva ucciso il padre il 28 dicembre e contagiato lui, la sorella diversamente abile e la madre», dice l'avvocato. La versione di Nanni, però, si scontra con quella del killer, reo confesso. «Ho ucciso io Ilenia Fabbri - ha detto ieri Pierluigi Barbieri: -. Mi ha mandato Nanni, promettendomi 20 mila euro e un'auto per farla fuori». Insomma, per il «picchiatore su commissione», come è stato definito dal gip, il «mandato» era quello di uccidere e simulare un furto. Il mandante sostiene di aver pattuito solo 2 mila euro. Durante la perquisizione a casa dell'assassino sono stati trovati 2.200 euro ma, a suo dire, non sono legati al femminicidio. Di certo il meccanico perseguitava l'ex moglie da tempo con minacce di morte dirette e indirette. Per il giudice, sarebbe un uomo «avido e paranoico del controllo» che provava un «profondo astio» per l'ex moglie tanto da volerla «annientare personalmente ed economicamente». Agli inquirenti risultano quattro contatti telefonici fra Nanni e Barbieri a ridosso del delitto: il 9, il 19, il 20 e il 29 gennaio. Forse si sono anche visti a Rubiera e a Faenza. Nanni per il gip si è costruito un alibi. Quella notte a casa di Ilenia c'era Arianna ma quando la donna è stata sgozzata all'alba, l'ex marito era già passato a prendere la figlia per andare in Lombardia, dove avrebbe dovuto ritirare un'auto. Il killer, come ha ammesso anche Nanni, è entrato in casa facilmente perché aveva ricevuto da lui una copia delle chiavi, poi è salito al secondo piano dove dormiva Ilenia. Ha provato a strangolarla, ma la vittima si è difesa, lui l'ha inseguita per le scale e, dopo averla colpita più volte, l'ha uccisa in cucina con un coltello preso lì. Barbieri, però, non sapeva che Ilenia non si trovava da sola in casa ma c'era un'amica di Arianna che, seppur terrorizzata, l'ha chiamata per dirle di rientrare assieme al padre, facendo così saltare il piano. I difensori di Nanni sostengono che si è reso conto in carcere della tragedia che si è consumata e sarebbe «destabilizzato perché pensa anche a quanto stia soffrendo la figlia». La stessa che, qualche settimana fa, lo ha difeso: «Non è stato il mio babbo, una cosa così brutta non avrebbe mai potuta farmela». Dal carcere il padre le ha scritto una lettera: «Le cose non dovevano andare così, volevo solo impaurirla, ti voglio e ti vorrò sempre bene». Arianna vittima due volte: la mamma uccisa e il padre in cella. «Lui non se la sente di vedere la figlia e le ha voluto scrivere per dirle la verità prima che ne leggesse una diversa sui media», dice Fornaro. «Nanni - conclude il legale - non si spiega perché Barbieri abbia ucciso ma il fatto che fosse entrato disarmato prova che dice la verità. Valuteremo se chiedere il riesame della custodia». A breve si attende la decisione del gip sulla convalida degli arresti.
Delitto di Faenza, la compagna del presunto killer: «Spero non sia vero». Elisa Pederzoli su La Gazzetta di Reggio il 5/3/2021. Voglio che la gente sappia che io non c’entro nulla. Che tutto questo per me è uno shock, un trauma. Qualcosa di inimmaginabile. Vedo che le persone ora mi additano, mi evitano. Su Facebook sto ricevendo messaggi di ogni tipo. Ho paura, sto male, perché penso di non meritarmelo. Io sono estranea a tutto questo». Ad aprirci la porta di casa e decidere di parlare è la compagna di Pierluigi Barbieri, il 53enne finito al centro della cronaca per l’omicidio di Ilenia Fabbri, la 46enne di Faenza uccisa all’alba del 6 febbraio scorso. Un delitto per il quale è accusato di essere il mandante l’ex marito della vittima, il faentino Claudio Nanni. Ma per gli inquirenti il sicario che senza pietà ha aggredito la donna nel suo letto mettendole le mani al collo, l’ha rincorsa per la casa quando lei ha reagito cercando di mettersi in salvo, l’ha tramortita sul pavimento e l’ha sgozzata tagliandole la gola con un coltello da cucina è Pierluigi Barbieri. La polizia ha fatto irruzione nella palazzina di via Schiaparelli, a Bagno, dove l’uomo vive con la donna e la figlia di lei prima del sorgere del sole, mercoledì mattina, per eseguire l’ordinanza di arresto. «Mi hanno bloccato mentre stavo andando al lavoro – racconta la compagna –. Me li sono trovata nel parcheggio, saranno state le 4.20. Mi sono spaventata, ma poi si sono presentati. Ho detto: “Oddio cosa è successo?”. Ma di cosa viene accusato l’ho scoperto in questura a Reggio, diverse ore dopo. Lì, mi hanno solo detto che non erano venuti per me. Mi hanno preso le chiavi della macchina, quelle di casa e poi mi hanno tenuto in disparte. Mi sono solo raccomandata di fare attenzione perché in casa c’era mia figlia, di non spaventarla. Mi hanno assicurato che non lo avrebbero fatto e così devo dire è stato. Mi sembrava di essere dentro a un film». È l’ultima volta che ha visto Pierluigi Barbieri. Tra i due in seguito l’unico contatto è stato un biglietto: «Me lo hanno fatto avere i poliziotti giovedì sera, con il numero dell’avvocato che ha incaricato. E dove ha scritto che di queste cose si occupa lui». È nel salotto della stessa casa che due giorni prima è stata perquisita palmo a palmo e dove il 53enne è stato ammanettato dopo essere stato buttato giù dal letto, che la donna ci parla. Da dove, dice, aspetta di capire cosa deve fare. Da dove l’atrocità che racconta l’inchiesta di Faenza sul delitto di Ilenia sembra, per ora, ancora rimanere dentro al televisore spento. «Non riesco a guardare i telegiornali, non riesco ad affrontare questa cosa. Devo pensare a mia figlia, a tutelare la sua tranquillità» dice la donna. In questo appartamento, da circa tre anni, madre e figlia vivono con Barbieri. «Abitava a Forlì quando ci siamo conosciuti, in passato ha vissuto per un lungo periodo a Novara – racconta –. Dopo un po’ che ci frequentavamo, che facevamo avanti e indietro, abbiamo deciso di vivere insieme qui da me. Si è trasferito, lasciando anche un lavoro ben retribuito».
Ma chi è Pierluigi Barbieri? Gli investigatori oggi lo definiscono un “picchiatore per pochi soldi”, uno secondo gli inquirenti che per soldi avrebbe ucciso.
«A vent’anni aveva preso una brutta strada, atti di bullismo e violenza. Anche perché da piccolo ha subìto dei soprusi che l’hanno portato ad avere tanta aggressività» spiega. Ma per la donna tutto questo faceva parte di un passato lontano. «Ora dicono che è un picchiatore? È qualcosa che non so. Però mi sembra assurdo. Lui piangeva per il cane...». È per questo che ha deciso di parlare. «In questi giorni tante persone mi hanno scritto su Facebook cose terribili, tanti li ho bloccati. “Come fai a stare con un assassino?”, “Ti piacciono gli assassini?”, “La prossima sei tu, schifosa”. Ma io vorrei dire che l’uomo che ho conosciuto io è sempre stato a favore delle donne. Di fronte alle cose che succedevano, come i femminicidi, lui imprecava, diceva “bastardo”. L’ho sentito io! L’ho detto anche a chi mi ha interrogato, in questura: in tre anni non l’ho mai sentito una sola volta dire qualcosa fuori dal seminato. Se sono stata con questa persona è perché ho visto il buono. Con me è sempre stato un uomo rispettoso, perfetto. E adesso tutto questo mi sembra incredibile», racconta. Un quadro che stride con i fatti di cui è accusato: un efferato omicidio per il quale gli investigatori parlano di un grave quadro indiziario. Anche per quei riscontri della presenza di Barbieri a Faenza, intorno all’orario dell’omicidio e dei contatti con Nanni.
Dov’era il 53enne nelle prime ore del 6 febbraio quando Ilenia è stata uccisa?
«Mi hanno fatto tante domande anche in questura. Le indagini sono in corso. Io non ricordo. Certo, succedeva che andasse in Romagna per le udienze in tribunale. Di notte? A volte non dormiva per i disturbi che ha, si alzava, andava in garage a trafficare con la moto. Mi ero abituata...» spiega. E poi c’è quella condanna in primo grado, per un pestaggio a Predappio di un anno fa. «Io quella situazione l’ho seguita – spiega – è stato condannato a cinque anni e quattro mesi perché aveva precedenti. Ma su questa cosa è come se si fossero accaniti. Tutti quelli che erano lì con lui lo hanno scagionato: lui era rimasto in macchina. È negli atti. Ha fatto appello. Dicono che ha rotto le mani a una persona, ma non è vero».
La donna racconta che qualche anno fa Barbieri ha avuto un grave incidente in moto – «che lo ha anche fatto finire in coma e che gli ha lasciato diversi disturbi, ha problemi di memoria, dimentica tutto» – ma anche una patologia psichiatrica. «Viviamo anche grazie alla sua pensione di invalidità. A causa di questi suoi disturbi è complicato per lui anche trovare un lavoro». Durante la perquisizione, sono stati trovati dei soldi. «Non sapevo ci fossero – ammette – ma non mi fa strano: era abituato a tenersi i suoi risparmi a disposizione».
E Claudio Nanni?
«No, io non lo conosco, assolutamente. So solo che loro si conoscevano, per questioni di moto».
Conclude, infine, la donna: «Non posso farmi prendere dall’angoscia sennò non vado più avanti. Lo devo fare per me e per mia figlia. Ma mi sconvolge anche solo pensarci. Io non credo che sia possibile tutto questo, è qualcosa di più grande di quello che potrei sopportare. Io spero che venga fuori qualcosa che lo scagioni, che ci sia stato un errore. Sennò sarebbe davvero troppo».
Da bologna.repubblica.it il 3 marzo 2021. Svolta nel giallo di Faenza, la morte di Ilenia Fabbri avvenuta il 6 febbraio scorso. Quasi un mese dopo, la Polizia di Ravenna nel corso della notte ha eseguito un provvedimento di custodia cautelare in carcere nei confronti dell'ex marito della donna e di un suo conoscente, ritenuti il mandante e l'esecutore materiale dell’omicidio. Il movente del delitto sarebbe da ricondurre al profondo astio che l’uomo provava nei confronti della ex moglie a causa delle sue pretese economiche. "Prima o poi mando qualcuno a farle la festa", così diceva il 53enne Claudio Nanni, in guerra da tempo con l'ex moglie che lo aveva denunciato anche per maltrattamenti. Il contenzioso civilistico tra i coniugi era culminato con l'assegnazione della casa di via Corbara alla donna, e la 46enne aveva promosso una causa di lavoro contro l'ex lamentando mancati compensi per 100mila euro legati alla sua collaborazione nell'impresa di famiglia. Ilenia Fabbri è stata sorpresa dal suo killer probabilmente nel sonno. La figlia era appena uscita di casa per andare a Milano insieme al padre, che si era offerto di portarla a ritirare una nuova auto. In casa c'era però la compagna della ragazza, diventata l'unica testimone del delitto, suo l'identikit dell'assassino. La giovane era finita nelle scorse settimane sotto protezione, solo due giorni fa la notizia che Nanni aveva chiesto a un ferramenta un paio di duplicati di una chiave simile a quella che apre la porta del garage al seminterrato dell'abitazione della vittima. L’inchiesta, coordinata dalla Procura della Repubblica di Ravenna e svolta dai poliziotti della squadra mobile di Ravenna e del Servizio Centrale Operativo di Roma, ha permesso di acquisire gravi elementi indiziari nei confronti dei due. Maggiori dettagli verranno forniti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle ore 10:30 in questura.
Delitto di Faenza, quei 2.200 euro sequestrati in casa del presunto killer di Ilenia Fabbri. Rosario di Raimondo su La Repubblica il 5 marzo 2021. Gli investigatori lavorano per capire se il denaro in contanti trovato a Barbieri è legato al femminicidio. Le carte dell'inchiesta: l'ex marito Nanni venne condannato per lesioni e minacce alla moglie. Quando mercoledì Pierluigi Barbieri è stato arrestato, la polizia ha trovato e sequestrato in casa sua 2.200 euro in contanti. Soldi per i quali al momento non c'è una spiegazione certa ma che, almeno in linea teorica, potrebbero essere collegati al femminicidio di Ilenia Fabbri. Il presunto sicario assoldato dall'ex marito della donna, Claudio Nanni, era disoccupato da tempo, nel 2020 aveva trascorso alcuni mesi in carcere dopo aver partecipato alla spedizione punitiva contro un disabile ed era spesso senza soldi. Per questo si prestava a delitti su commissione: pestaggi e rapine. Sarà da verificare se quei soldi sono legati alla morte della donna di 46 anni ed è presumibile che qualche informazione in più si potrà avere dagli interrogatori di garanzia, attesi tra il fine settimana e lunedì. A proposito del compenso, il giorno degli arresti il procuratore capo di Ravenna Daniele Barberini ha detto: "Non pensiamo a una cifra altissima". Sono inoltre in corso accertamenti sull'auto di Barbieri, la Toyota Yaris che compare nei video nel giorno del delitto. Il 51enne accusato di aver ucciso Ilenia per i magistrati "è accreditato nell'ambiente malavitoso come soggetto disponibile a partecipare a spedizioni punitive, in spregio a qualunque rischio". Capace di ogni "condotta violenta per conseguire un compenso", un "picchiatore su commissione". Alto quasi un metro e novanta, robusto, capelli rasati, nel 2020 è stato assoldato per una spedizione punitiva: ha rotto le ossa delle mani a una vittima. "Ha scelto la violenza come stile ordinario di vita", "aveva manifestato la sua incapacità a resistere alle proposte di commissione di delitti su compenso ogni volta che si trova in difficoltà economiche".
La chat tra Nanni e Barbieri. Oltre ai numerosi contatti telefonici tra l'ex marito e il killer, oltre ai due incontri di persona il 20 e il 29 gennaio, pochi giorni prima del delitto, agli atti dell'inchiesta coordinata dal procuratore Barberini e dalla pm Angela Scorza, e seguita dalla squadra Mobile guidata da Claudio Cagnini e dallo Sco della Polizia, c'è un messaggio audio del 10 dicembre 2020. Nanni è a casa, ammalato per il Covid e comunica a Barbieri qualcosa che sembra programmato da tempo: "Una volta che esco...dai...dopo si fan tutte le cose che bisogna fare, ok?".
Le violenze e le minacce di morte. Già nella fase finale del matrimonio Claudio era stato violento nei confronti di Ilena, che prima dello scorso Natale aveva persino confidato di voler fare testamento. Il 14 febbraio 2019 Nanni è stato condannato con un decreto penale per lesioni e minacce. Nell'ottobre del 2017 ha aggredito la moglie alle spalle, "afferrandola con forza con una mano da dietro il collo e facendole sbattere la testa nel muro, per poi spingerla verso un mobile, tenendole la testa abbassata e stringendole il polso". Nanni aveva minacciato la moglie dicendole "che quella era casa sua, che lui fa quello che gli pare e che se continuo a rompere le scatole mi stacca la testa dal collo". Le minacce di morte, negli anni, sono state tante e riferite da più testimoni. A un’amica di vecchia data, a cena, aveva confidato: "Se mi ammazzano sappiate che è stato Claudio". Il suo ultimo compagno, Stefano, che voleva sposare, ha riferito di una frase che Ilenia avrebbe detto a proposito dell’ex marito: "Se mi fai causa per il lavoro e vinci sappi che ti ammazzo".
Le violenze economiche. Ma c'è un altro aspetto che non si può trascurare: la violenza economica nei confronti della donna. Nanni aveva un controllo "ossessivo" dei soldi, lasciava a Ilenia solo la carta di un supermercato per le piccole spese quotidiane, le amiche hanno raccontato che "per ogni spesa era costretta a chiedergli denaro". Alla moglie "era negata un'autonoma disponibilità di denaro, nonostante il lavoro prestato in officina". Non la pagava per il lavoro nell’azienda di famiglia, non le ha dato un euro dopo la vendita di una gelateria e dopo la separazione non versava i 500 euro mensili per la figlia Arianna. L'ex moglie ha vinto la causa per la casa di via Corbara, dove viveva e dove è stata uccisa. E aveva fatto causa all'ex marito per 100mila euro in relazione al lavoro svolto in officina. Come ha scritto il gip Corrado Schiaretti, "Nanni era l’unico che da anni combatteva contro di lei per annientarla personalmente ed economicamente". Il denaro era un problema "che sarebbe stato risolto con la morte di Ilenia". Perché Nanni è "avido, paranoico del controllo, privo di scrupoli".
Faenza, il femminicidio di Ilenia Fabbri: "L'ex marito avido e paranoico, voleva annientarla da anni”. Rosario di Raimondo su La Repubblica il 3 marzo 2021. Faenza, per il femminicidio di Ilenia Fabbri arrestati Claudio Nanni e un conoscente che avrebbe assoldato per ucciderla. Un unico movente: "Bassi interessi economici". Prima di Natale Ilenia Fabbri ha confidato alla sua legale di voler fare testamento perché aveva paura. Si è "aggrappata alla vita" fino alla fine, scrive il giudice che ha ordinato il carcere per chi l'ha uccisa. Si è ribellata all'uomo che voleva strangolarla mentre dormiva, che l'ha presa a pugni e l'ha sgozzata. La svolta sul giallo di Faenza è arrivata all'alba di ieri. La polizia ha arrestato Claudio Nanni, 53 anni, ex marito e mandante dell'omicidio, e Pierluigi Barbieri, 51, picchiatore di provincia, professionista delle spedizioni punitive, secondo gli inquirenti un killer su commissione. Lo hanno incastrato le telecamere, la mattina dell'omicidio era lì. Un solo movente, "abietto": i soldi. Ilenia aveva capito. A un'amica di vecchia data, a cena, aveva confidato: "Se mi ammazzano sappiate che è stato Claudio". Il suo ultimo compagno, Stefano, che voleva sposare, ha riferito di una frase che Ilenia avrebbe detto a proposito dell'ex marito: "Se mi fai causa per il lavoro e vinci sappi che ti ammazzo". Dal 2017 il rapporto con Claudio era un inferno. Nell'ottobre di quell'anno lui la aggredì, le fece sbattere la testa contro il muro dicendo che "quella era casa sua, lui fa quello che gli pare e se continuo a rompere le scatole mi stacca la testa dal collo". Per questo episodio venne condannato. Aveva un controllo "ossessivo" dei soldi, le lasciava solo una carta Conad per le piccole spese. Le amiche hanno raccontato che "per ogni spesa era costretta a chiedergli denaro". Non la pagava per il lavoro nell'officina di famiglia, dopo la separazione non versava i 500 euro mensili per la figlia Arianna. La donna ha vinto la causa per restare nella casa di via Corbara 4, l'appartamento che alle sei del mattino del 6 febbraio è diventato la scena del delitto. Ha fatto causa chiedendo 100mila euro per il lavoro in officina. Scrive il gip Corrado Schiaretti: "Nanni era l'unico che da anni combatteva contro di lei per annientarla personalmente ed economicamente". Il denaro era un problema "che sarebbe stato risolto con la morte di Ilenia". Perché Nanni è "avido, paranoico del controllo, privo di scrupoli". Così Nanni si rivolge a un conoscente, Barbieri, con cui condivide la passione per le moto. Una persona scelta non a caso: l'anno scorso è stato condannato per una spedizione punitiva contro un disabile. Lo chiamano "lo zingaro", vive nel Reggiano e non sa "resistere" alle commissioni. Il 10 dicembre Nanni, a casa con il Covid, manda un audio a Barbieri: "Una volta che esco...dopo si fan tutte le cose che bisogna fare, ok?". Il 20 e 29 gennaio si vedono a Faenza. Claudio non è solo un mandante: gli dà le chiavi di casa, gli spiega come raggiungere la camera da letto, forse fanno un sopralluogo. All'alba del 6 febbraio il killer entra in camera da letto e quando Ilenia urla ("Chi sei? Cosa vuoi?") e scappa per le scale, lui la insegue, la massacra di botte, le stacca un orecchino dal lobo, le sbatte la testa a terra. La figlia di Ilenia, Arianna, 21 anni, è da poco in macchina col padre Claudio per andare a comprare un auto a Lecco. Il padre non sa che in casa c'è un'altra persona che dà l'allarme: è la fidanzata della figlia, la sera prima hanno festeggiato il loro terzo anniversario e si è fermata a dormire. Se il killer se ne fosse accorto, forse avrebbe ucciso anche lei, una testimone scomoda. La compagna chiama Arianna, padre e figlia tornano indietro. E mentre Arianna avvisa la polizia, quando si pensa ancora a un ladro, urla al padre di accelerare: "Ma sei deficiente? Vai veloce su! Invece di darmi una mano stai lì a piangerti addosso!". Sì, perché Nanni "piange in modo incontrollabile", non vuole che la compagna della figlia esca dalla camera a vedere cosa succede, come chiede invece Arianna: "Prendi un pezzo di ferro e vai giù". Perché non vuole che esca? Spiegherà alla figlia, con una frase che per gli inquirenti sembra una "involontaria confessione": "Cosa faccio? Esci, vai fuori, fatti ammazzare?". Come se sapesse il pericolo al quale sarebbe andata incontro. Quando padre e figlia tornano davanti alla casa, lei corre dentro e vede il corpo della mamma. Lui resta in auto. A piangere. Arianna ha perso la mamma. E ora il padre è in carcere. La pm Angela Scorza, che ha condotto l'indagine col procuratore Daniele Barberini, la squadra Mobile guidata da Claudio Cagnini e gli investigatori dello Sco, dice su Nanni: "Mi colpisce che ha usato la figlia per l'alibi, poi l'ha delegata a vedere il corpo della madre". Il piano doveva essere un altro: far scoprire il cadavere di Ilenia nel pomeriggio, far sembrare tutto una rapina, pagare il killer su commissione ("Non pensiamo a una cifra altissima", dice Barberini). Arianna e la fidanzata sospettavano di Claudio? "(Tuo papà, ndr) non lo sapeva che io c'ero. Non gliel'avevi detto", ha ricordato la studentessa.
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 4 marzo 2021. Un bestione di un metro e novanta, 53 anni, pluripregiudicato. Professione: picchiatore. E ora, per gli inquirenti di Ravenna, anche assassino. Sarebbe lui, Pierluigi Barbieri di Rubiera (Reggio Emilia), il killer di Ilenia Fabbri, uccisa il 6 febbraio nella sua abitazione di Faenza. Lui il tassello mancante al delitto che vedeva già indagato come mandante l' ex marito di Ilenia, il meccanico Claudio Nanni. Sono stati entrambi arrestati ieri notte dalla polizia dopo che il gip romagnolo ha accolto la richiesta della Procura fatta qualche giorno fa, una volta raccolti diversi indizi a carico di entrambi. Svolta dell'indagine, dunque, che fa tirare un sospiro di sollievo a Faenza, soprattutto alle amiche di Ilenia scese in campo ad accusare l'ex marito, ma anche ai vari testimoni, dai quali è emerso il movente, di natura economica: su tutto, una causa civile che poteva costringere Nanni a versare 100 mila euro a Ilenia per il suo lavoro nell' azienda di famiglia. Nanni e Barbieri, uno incensurato, l'altro con una fedina penale non proprio candida, rapine, estorsioni, pestaggi. Entrambi appassionati di moto, qualche volta uscivano insieme. «Barbieri è accreditato nell' ambiente malavitoso come soggetto disponibile a partecipare a spedizioni punitive - scrive il gip -. Capace per compenso di qualsiasi violenza». E il procuratore di Ravenna: «Stiamo vedendo i conti bancari, non pensiamo a una cifra alta». L'anno scorso era finito in galera per aver rotto le ossa a un disabile di Predappio, sempre su commissione. Ne era uscito in agosto, dopo 4 mesi. E appena uscito ha preso contatto con l' amico. A incastrarlo sono stati innanzitutto i tabulati telefonici: 36 contatti con Nanni da settembre, che hanno indotto gli uomini della Mobile e del Servizio centrale operativo della polizia a vederci chiaro. Da lì sono state solo conferme. Lo scorso 10 dicembre, l' ex marito, costretto a casa dal Covid, rassicurava l' amico: «Una volta che esco... dai... dopo si fan tutte le cose che bisogna fare, ok?». Uscito dalla malattia, hanno preso a vedersi. Agli inquirenti risultano tre incontri a ridosso del delitto: il 19 gennaio a Rubiera, da Barbieri, il 20 e il 29 successivi a Faenza, all' autofficina di Nanni. Questi ultimi ripresi dalle telecamere del vicino distributore di benzina. A chiudere il cerchio le immagini della mattina del delitto. L' auto della moglie di Barbieri, una Toyota Yaris grigia, è stata vista circolare per Faenza poco dopo le 5 del mattino (il delitto è delle 6). Entra a Faenza alle 5.10 ed esce alle 6.40. È stata immortalata da una telecamera non distante dalla casa di Ilenia, mentre la targa è stata fotografata dagli impianti di video sorveglianza della città e lui è stato ripreso a piedi, dopo aver parcheggiato. Voleva essere un piano perfetto, è stato disastroso. A partire dal fatto che Nanni non faceva mistero del suo odio per la moglie. «Se vinci la causa ti ammazzo». «Prima o poi le mando qualcuno». Ma a far saltare il programma è stata soprattutto la presenza a casa di Ilenia della fidanzata di sua figlia Arianna. Questo Nanni non l' aveva previsto. «Quel giorno le due ragazze festeggiavano i 3 anni della loro relazione e avevano deciso di trascorrere insieme anche il venerdì (normalmente solo sabato e domenica)». E così, quando Barbieri è entrato in azione alle 6 del mattino, subito dopo che Nanni era passato a prendere a casa la figlia per andare a Milano, la fidanzata ha dato l' allarme. Prima ha chiamato Arianna e poi lo stesso Nanni, che avevano appena superato il casello di Faenza. La conversazione, registrata, è considerata una «confessione involontaria» del meccanico. «Che si chiuda in camera!... Arianna non sto bene». «Ma sei deficiente babbo? Vai veloce! metti gli abbaglianti, suona». Per gli inquirenti lui sapeva cosa stava succedendo lì dentro ed era sconvolto dalla situazione. «Un uomo avido - conclude il gip -. Odiava la madre di sua figlia e l' ha voluta annientare. Lei che non era colpevole di nulla se non di chiedere quanto le spettava».
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 2 marzo 2021. Ci sono le amiche che raccontano le paure di Ilenia, le sue angosce per le minacce dell'ex marito Claudio Nanni; c'è una testimone che lo dice chiaro: «Lui mi ha chiesto se conoscevo qualcuno che potesse fare del male a Ilenia». Un'altra che ricorda la sua rabbia per la causa in corso: «Le faccio fare la festa». E ora, alla lista degli indizi, si aggiunge anche una chiave duplicata. Il sospetto degli inquirenti è che possa essere quella del garage di Ilenia Fabbri, uccisa lo scorso 6 febbraio a Faenza da un killer assoldato dall'ex (secondo il pm). L'assassino di Ilenia si sarebbe introdotto in casa da quella porta, visto che la mattina del delitto è stata trovata stranamente aperta e senza segni di scasso. A fornire il nuovo elemento è stato il titolare di una ferramenta di Faenza rintracciato dagli investigatori. Nanni, professione meccanico, 53 anni, si sarebbe rivolto a lui per chiedere il duplicato. «Si tratta però di una chiave comune fatta 3-4 mesi fa e quindi la cosa al momento ha un'importanza relativa per l'indagine - invita alla prudenza il procuratore di Ravenna, Daniele Barberini -. Cioè non si può dire che sia stata fatta una copia della chiave del garage». L'ipotesi investigativa è quella del sicario al quale Nanni si sarebbe rivolto istruendolo sugli ambienti e dotandolo di una copia delle chiavi. Quella mattina, intorno alle sei, l'assassino avrebbe atteso che il meccanico e sua figlia partissero per Milano, per entrare subito in azione. Secondo gli inquirenti, un piano premeditato. L'obiettivo dell'ex marito sarebbe stato quello di precostituirsi un alibi: Ilenia uccisa a Forlì mentre lui era a Milano. A far saltare il programma, un imprevisto. Ilenia non era infatti sola in casa quella mattina. C'era anche l'amica di Arianna che, svegliatasi di soprassalto per l'improvviso trambusto, ha dato subito l'allarme chiudendosi nella cameretta dove aveva dormito. Trambusto che il procuratore traduce così: «Possiamo dire che c'è stato probabilmente un primo tentativo di strangolamento, poi un inseguimento verso il soggiorno e nella cantinetta, dove la donna è stata uccisa». Una ricostruzione fatta anche sulla base delle anticipazioni dell'esame autoptico. A mettere subito gli inquirenti sulla pista dell'ex marito è stata l'anomala coincidenza temporale: Arianna esce di casa ed entra l'assassino. Il quale, tra l'altro, è stato ripreso da una telecamera della zona mentre sembra attendere il passaggio dell'auto di Nanni. Contro di lui, indagato a piede libero per omicidio pluriaggravato in concorso con persona ignota, anche una nuova testimone. La donna avrebbe riferito di un episodio del 2019, quando avrebbe raccolto uno sfogo di Nanni rispetto alla causa civile che aveva in corso per gli anni lavorati da Ilenia nell'azienda di famiglia e non retribuiti. «Mi vuole rovinare, chiede un sacco di soldi... conosci qualcuno che possa farle del male?», le avrebbe detto lui. In quei soldi, 500 mila euro poi diventati 100 mila, la Procura legge il movente del delitto. C'è il movente ma manca un elemento decisivo: il nome dell'assassino.
Il femminicidio di Faenza. Omicidio Ilenia Fabbri, svolta nelle indagini: arrestati l’ex marito e un conoscente. Elena Del Mastro su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Svolta per l’omicidio di Ilenia Fabbri. Durante la notte sono stati arrestati l’ex marito della donna, Claudio Nanni, 53 anni e un suo conoscente. L’uomo sarebbe il mandante dell’omicidio e l’altro colui che ha materialmente commesso il delitto. Nanni era già indagato in concorso con una persona ignota per la morte di Ilenia, 46 anni, sgozzata il 6 febbraio nella sua casa a Faenza. Omicidio aggravato dalla premeditazione, dai legami familiari e dai motivi abietti. Sono queste le accuse mosse contro Nanni. I due arrestati sono stati fermati e sottoposti a interrogatorio. Sono diversi gli indizi che hanno incastrato i due. La polizia ha diffuso un video, ripreso evidentemente da una telecamera di un’abitazione privata in via Corbara (Borgo Durbecco) a Faenza, la via dove Ilenia aveva continuato ad abitare con la figlia Arianna dopo la separazione da Claudio Nanni. Nel video si vede un uomo nei pressi della casa la mattina dell’omicidio, avvenuto verso le 6. Quella mattina Nanni aveva raggiunto via Corbara per prendere la figlia Arianna con cui andare a Milano per acquistare un’auto. L’uomo avrebbe dunque usato la figlia come perfetto alibi. Non sapeva probabilmente che in casa insieme a Ilenia c’era un’amica di Arianna che si era fermata lì per la notte. È stata lei a chiamare il 112 e a sentire le ultime parole di Ilenia. Ha anche intravisto il killer di cui ha fatto un identikit: l’uomo corrisponderebbe a quello che si vede nel video. Nanni da quanto emerge dalle testimonianze era un uomo turbato e violento. Ilenia lo aveva più volte denunciato per maltrattamenti. Poi c’erano le cause aperte per il lavoro di Ilenia nell’azienda di famiglia. La vittima aveva prima ottenuto l’assegnazione della dimora matrimoniale di via Corbara pagata a suo tempo circa 300 mila euro; poi aveva promosso una causa di lavoro contro l’ex chiedendogli 500mila euro per le sue collaborazioni nell’officina di famiglia e per la cessione di una gelateria per manifestare infine l’intenzione di non accettarne meno di 100mila. “Conosci qualcuno che possa fare del male a mia moglie?”. Secondo alcuni testimoni, come riporta il Mattino, Nanni nei mesi precedenti all’omicidio si sarebbe rivolto a varie persone sfogandosi per la causa in atto con l’ex moglie: “Mi vuole rovinare, mi chiede un sacco di soldi”, avrebbe detto. E poi: “se continua così, prima o poi le mando qualcuno ‘a farle la festa'”, avrebbe detto. A verbale ci sono anche diverse testimonianze del fatto che l’uomo l’avrebbe direttamente o indirettamente minacciata di morte. Un confidente avrebbe anche rivelato che Ilenia si sentiva minacciata dall’ex marito, tanto da aver pensato a scrivere un testamento in favore della figlia Arianna. Ma al momento il documento non è stato trovato. Poi c’è la questione delle chiavi di casa. Un ferramenta ha raccontato di aver fatto un duplicato si una chiave che corrisponderebbe a quella del garage di Ilenia su commissione di Nanni. La polizia giunta sul posto subito dopo la chiamata dell’amica di Arianna aveva trovato il garage aperto senza segni di effrazione. L’uomo avrebbe potuto istruire il suo complice su come entrare in casa. “Chi sei? Cosa vuoi?”, avrebbe detto Ilenia secondo la testimonianza chiave dell’amica di Arianna, segno che la donna non conosceva il suo assassino. Se le indagini e l’interrogatorio dovessero confermare le ipotesi la situazione di Arianna diventerebbe drammatica. La ragazza potrebbe essersi resa a sua insaputa l’alibi del padre di cui ancora è convinta dell’innocenza.
Da leggo.it il 28 febbraio 2021. Ilenia Fabbri uccisa a Faenza. «Conosci qualcuno che possa fare del male a mia moglie?». Secondo quanto riferito da una testimone agli inquirenti, è quanto nel 2019 le avrebbe chiesto Claudio Nanni, il 53enne indagato in concorso con persona ignota per l'omicidio della ex moglie Ilenia Fabbri, la 46enne trovata sgozzata il 6 febbraio nella sua casa di Faenza (Ravenna). Come riportato dai quotidiani locali, la donna, sentita di recente nell'ambito delle indagini della polizia coordinate dal Pm Angela Scorza e all'epoca vicino al Nanni, durante un incontro con il 53enne, avrebbe raccolto dall'uomo uno sfogo sul contenzioso civilistico sul patrimonio coniugale con la ex moglie: «Mi vuole rovinare - il senso della parole che lui avrebbe pronunciato - mi chiede un sacco di soldi». E poi: «Conosci qualcuno che possa fare del male a mia moglie?». La donna, a suo dire, avrebbe allora risposto con una frase di questo tipo: «Ma stai scherzando? Tu sei fuori». Non è la sola testimonianza di questo tipo: poco dopo l'omicidio, un'altra donna, pure lei in passato legata all'indagato, ha riferito in commissariato che l'uomo un paio di volte, uscendo da incontri con l'avvocato civilista, si sarebbe lasciato andare a sfoghi contro la ex moglie: se continua così, prima o poi le mando qualcuno «a farle la festa», avrebbe detto. Ci sono inoltre a verbale diverse altre testimonianze secondo le quali l'indagato, almeno dal 2018, direttamente o indirettamente, avrebbe minacciato la ex di morte. Sul punto, una persona di fiducia della defunta ha raccontato agli investigatori che poco prima dell'ultimo Natale, la 46enne le aveva confidato di avere paura perché si sentiva minacciata e di volere per questo fare testamento a favore della figlia Arianna. Al momento non risulta esserci alcun testamento.
Da “il Giornale” il 22 febbraio 2021. Le telecamere sono generose. E regalano nuovi dettagli sul killer di Ilenia Fabbri. Pochi minuti prima dell' ora in cui è avvenuto l' omicidio, alle 6 di mattina, quelle piazzate in una strada perpendicolare a quella dove si trova la casa di via Corbara, a Faenza, dove è avvenuto il delitto, hanno ripreso un passante. Si tratta di un uomo alto 1,80 o 1,90, di carnagione chiara, vestito di scuro, con jeans e un giubbotto, un cappuccio sulla testa e la mascherina a coprire quasi completamente il viso. Ai piedi ha un paio di scarpe con una componente bianca, che spiccano chiaramente nelle immagini. Il tipo si ferma per un istante, quasi si fosse accorto della presenza della videosorveglianza. Poi si gira di scatto, attraversa la strada e scompare dalla telecamera, che poco dopo riprende la macchina dell' ex marito di Ilenia che passa. È in quei minuti che accade tutto: alle 5:57 Claudio Nanni invia un messaggio alla figlia e le dice di scendere. Alle 6:06 l'amica, rimasta a dormire nella casa, chiama Arianna perché sospetta la presenza di un estraneo nell'appartamento. Il primo pensiero è che si tratti di un ladro. Quando la polizia arriva alle 6.20 Ilenia è già morta e il suo corpo è nel garage di casa, con un taglio alla gola. Per ora l'unico indagato a piede libero resta Claudio Nanni, ex marito di Ilenia e padre di Arianna su cui pesa un' accusa di omicidio volontario pluriaggravato in concorso con persona ignota. Tra i due la separazione era stata dura e in tribunale civile pendeva una richiesta economica consistente da parte della vittima, che per diverso tempo aveva lavorato nell' azienda di famiglia e ora chiedeva il compenso arretrato. Quando Ilenia è morta l' ex e la figlia Arianna erano in autostrada, ma la ragazza continua a sostenere che il padre è innocente.
L'ultimo saluto in forma privata. Ai funerali di Ilenia partecipa anche l’ex marito: le amiche con le scarpe rosse. Elena Del Mastro su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Ancora non è chiaro cosa sia successo all’alba della mattina del 6 febbraio nell’appartamento di via Corbara a Faenza. Ilenia Fabbri, 46anni, è stata trovato sgozzata a casa sua. Oggi i funerali che sono stati celebrati in tarda mattinata alla chiesa del cimitero dell’Osseravanza di Faenza, nel Ravennate. Ad accogliere il feretro in arrivo dall’obitorio di Ravenna, dove all’indomani del delitto era stata eseguita l’autopsia, c’erano alcune delle amiche più strette della vittima, tutte con scarpette rosse ai piedi simbolo della lotta alla violenza di genere. Durante la cerimonia, che si è tenuta in forma strettamente privata, la figlia convivente della 46enne, Arianna, ha letto un messaggio in ricordo della madre. Alcuni dei presenti hanno notato anche l’ex marito, il 53enne Claudio Nanni l’unico indagato per l’omicidio di Ilenia, a piede libero per omicidio volontario pluriaggravato in concorso con persona ignota: l’uomo a loro avviso sarebbe entrato da un accesso più defilato per evitare un eventuale assalto mediatico. In ogni caso fuori dal cimitero c’erano diversi agenti della polizia a garantire il regolare svolgimento del funerale. Proprio contro Nanni le amiche di Ilenia hanno puntato il dito: “Ilenia era una di noi. Ci vedevamo spesso e ci raccontava delle minacce dell’ex marito….”, hanno spiegato Daniela, Alessandra e Francesca al Corriere della Sera – E aggiungono- “La voleva ammazzare….Il nostro è un gruppo di donne single ci confidavamo questa è una tragedia grandissima”. “Lei aveva paura di quell’uomo”, concludono.
Faenza: sotto protezione la compagna della figlia di Ilenia Fabbri, unica testimone del delitto. La Repubblica il 17/2/2021. Per la compagna della figlia di Ilenia Fabbri, uccisa in casa a Faenza il 6 febbraio nel suo appartamento di via Corbara, è scattato un programma di protezione: la ragazza, infatti, è l'unica testimone del delitto per il quale è indagato l'ex marito della donna in concorso con l'assassino, che secondo l'ipotesi della procura avrebbe agito proprio su mandato di Caludio Nanni. Il 53enne deve rispondere di omicidio pluriaggravato in concorso con persona ignota. Il via libera al provvedimento per la ragazza, che quella sera si era fermata a dormire a casa della compagna, è stato deciso dalla Prefettura su richiesta del procuratore capo di Ravenna Daniele Barberini. Come appurato dalle indagini, lo stesso Nanni non sapeva della sua presenza. La giovane ha fornito elementi ritenuti fondamentali per l'inchiesta. A partire dalla chiamata alle 6.06 ad Arianna, figlia della vittima, in quel momento in viaggio con il padre e ex marito di Ilenia, facendo così scattare l'allarme per quella che si pensava essere l'intrusione di un ladro. La ragazza ha inoltre potuto riferire le ultime parole della vittima ("Chi sei? Cosa vuoi?") consentendo così di capire che non conosceva l'assassino. E ha contribuito a stilare un primo parziale identikit del killer: molto alto, ben piazzato, con spalle grosse e vestito di scuro. Terrorizzata da quanto stava accadendo, prima si è barricata in camera e ha dato l'allarme, riuscendo poi a vedere il killer di spalle. Per arrivare a dare un nome all'aggressore, gli inquirenti, coordinati dal pm Angela Scorza, ieri hanno sentito altri testimoni: oltre alla giovane negli ultimi tempi molto vicina all'indagato, sono state ascoltate quattro persone su un possibile esecutore materiale del delitto, non necessariamente una persona esperta.
Donna uccisa a Faenza, le urla della figlia al padre: "Vai forte, vai forte". Rosario di Raimondo su La Repubblica il 15 Febbraio 2021. Le parole registrate durante il viaggio in macchina dopo l'allarme lanciato dalla ragazza rimasta in casa di Ilenia Fabbri. Lui diceva: "Ho paura". L'immagine del killer: aveva un cappuccio in testa. "Vai forte, vai forte!". Lo ripete otto, nove volte, Arianna, la figlia di Ilenia Fabbri. E' in macchina col padre Claudio Nanni, indagato per l'omicidio dell'ex moglie, sospettato di essere il mandante del killer che all'alba di sabato 6 febbraio ha sgozzato la donna in casa. Lui si lamenta, sembra piagnucolare: "Oddio, sto male. Ho paura". Bisogna tornare a quella mattina per capire le urla di sua figlia e perché, secondo gli investigatori, rappresentano un pezzo del puzzle, un nuovo tassello di questa complicata inchiesta.
La telefonata registrata. Alle 5.59, Claudio Nanni e la figlia Arianna partono in macchina in direzione Milano per comprare una vecchia Bmw da 1.500 euro da un venditore privato. Alle 6.05 entrano in autostrada, come dimostra il Telepass. Alle 6.06 l'allarme. La giovane compagna di Arianna, rimasta in casa di Ilenia Fabbri a dormire, chiama la figlia della donna. Racconta che ha sentito le urla di una donna - "Chi sei, cosa vuoi?" - e che ha visto una sagoma scendere le scale. Arianna chiama la polizia. Alle 6.08 la ragazza in casa chiama di nuovo ma il telefono di Arianna è occupato perché è al telefono con gli agenti. E allora prova sul cellulare di Claudio, dotato di una app per registrare le chiamate. Registra anche questa. Dura 21 minuti. E ora fa parte dell'inchiesta.
"Accelera, vai in terza corsia". Padre e figlia devono tornare indietro. Devono tornare a casa, in via Corbara, perché Ilenia è in pericolo. Arianna pensa ancora che siano i ladri. Ma succede qualcosa di strano. Arianna, come si sente dalla telefonata, urla al padre: "Vai forte, vai forte!". Lo ripete almeno otto o nove volte. "Accelera, vai in terza corsia!". E' il cellulare di Claudio, al telefono con la compagna della figlia, a catturare tutto. Ma lui reagisce in un altro modo. Dice: "Oddio, sto male". E poi: "Ho paura, ho paura". Arianna dice anche alla compagna di prendere un attizzatoio e andare giù a vedere che succede. Ma il padre le dice che è meglio di no, che si chiuda in camera. Quando i due arrivano a casa, il corpo di Ilena Fabbri è già a terra, in una pozza di sangue. Un assassino le ha tagliato la gola da sinistra verso destra. Ed è scappato.
Un altro tassello. La sensazione degli investigatori è che Claudio, oggi blindato nella sua casa in campagna di Faenza (assieme alla figlia), non volesse affatto correre per tornare nella casa di via Corbara. E' un tassello dell'inchiesta, non l'unico. Come il fatto che lui abbia ammesso a verbale di non sapere che in casa, quella mattina, oltre a Ilaria c'era un'altra persona, la compagna della figlia. Come la frase "Le mando qualcuno che le faccia la festa", che lui avrebbe detto, o le minacce di morte nei confronti della donna che altre persone gli hanno attribuito. Tutto conduce a quel divorzio burrascoso, a quella causa in tribunale con la quale la vittima chiedeva 100mila euro. Una ricostruzione via via più nitida emerge nella mente di chi indaga: lui pensava di partire presto, di arrivare a Milano con la figlia, di far passare ore, altro che minuti. Un alibi che scricchiola sempre di più.
Le immagini del killer. Ha un cappuccio in testa, forse la mascherina (ma potrebbe essere un inganno dei pixel dell'immagine), cammina con un atteggiamento strano, sospetto, come se fosse in attesa. Percorre un marciapiede alla fine di via Corbara, durante un orario compatibile con quello del delitto, fa qualche metro, attraversa in diagonale la strada velocemente. Del presunto killer di Ilenia Fabbri sappiamo solo questo. E' il racconto dell'immagine di una telecamera di sorveglianza, l'unica finora che sembra di averlo inquadrato, primo passo per dare un volto e un nome all'assassino di Ilenia Fabbri. La Scientifica è al lavoro per rendere migliore quell'immagine.
Delitto di Faenza, un testimone: "L'ex marito disse: le mando qualcuno a farle la festa". La Repubblica il 13 febbraio 2021. Al vaglio una videocamera di sicurezza in via Corbara, la strada della casa dove è stata uccisa Ilenia Fabbri: forse l'ombra è del killer. In almeno un paio di circostanze, uscendo da incontri con l'avvocato civilista, l'ex marito si sarebbe lasciato andare a sfoghi di questo tipo contro la ex moglie: se continua così, prima o poi le mando qualcuno "a farle le festa". Il particolare è stato riferito da una persona presentatasi spontaneamente in commissariato poco dopo l'omicidio della 46enne Ilenia Fabbri, trovata sgozzata sabato 6 febbraio nella sua abitazione di via Corbara a Faenza (Ravenna). Mentre è al vaglio un filmato di una videocamera di sicurezza di un'abitazione in via Corbara a Faenza in cui si vede un'ombra scura allontanarsi velocemente in un orario compatibile con la morte della donna.
Il testimone. Secondo quanto riferito da quotidiani locali, la persona in questione aveva ricevuto la confidenza direttamente dall'ex marito della defunta - il 53enne Claudio Nanni ora indagato per omicidio volontario pluriaggravato in concorso con persona ignota - nel periodo segnato da un contenzioso civilistico tra i coniugi culminato con l'assegnazione della casa di via Corbara alla donna. Inoltre la 46enne aveva promosso una causa di lavoro contro l'ex lamentando mancati compensi per 100mila euro legati alla sua collaborazione nell'impresa di famiglia.
L'ombra del killer. Altro elemento nuovo uscito nelle ultime ore dalle indagini della polizia coordinate dal Pm Angela Scorza, è l'immagine di una figura scura captata da una telecamera privata non distante dall'abitazione di via Corbara e in un orario compatibile con quello del delitto avvenuto a cavallo delle 6.
L'analisi del dna. Ora gli inquirenti si muovono su due fronti: l'analisi del dna delle tracce trovate nell'abitazione e sul corpo della vittima che, grazie anche alle banche dati, potrebbe dare un nome al killer e un lungo lavoro di indagini e di incrocio di dati tra tabulati telefonici, analisi delle videocamere dell'officina di Nanni e ascolto di testimonianze e verifiche per comporre il quadro di una vicenda che ha gettato una tranquilla cittadina di provincia in un giallo di caratura nazionale. Ieri pomeriggio la Scientifica è tornata sulla scena del delitto per proseguire nell'accertamento tecnico irripetibile iniziato giovedi' dove, grazie al luminol, sono emersi indizi importanti. E' possibile di Ilenia si sia difesa ferendo il suo aggressore prima di essere finita con un coltello alla gola.
Ilenia, il volto del killer ripreso da una telecamera. Il video in mano ai pm. Un testimone: «Il marito disse che avrebbe mandato uno a farle la festa». Redazione, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Si aggrava la posizione del 53enne Claudio Nanni, l'ex marito di Ilenia Fabbri, la 43anni trovata sgozzata alle prime luci di sabato 6 febbraio nella sua casa di Faenza (Ravenna). Il filmato di una telecamera di sicurezza potrebbe infatti fornire un aiuto importante alle indagini sull'assassinio della donna per il quale il principale indagato è proprio Nanni. Infatti gli inquirenti sono riusciti a isolare alcuni fotogrammi che riprendono un individuo aggirarsi intorno alla casa della donna in un orario compatibile con quello del delitto, avvenuto intorno alle 6 del mattino. Quella che appare nel video potrebbe essere la stessa persona che l'amica della figlia della vittima, presente nella residenza in quei momenti, potrebbe aver intravisto per un attimo. In quel momento Nanni si trovava in compagnia della figlia, ma l'ultimo immortalato nel video potrebbe essere il sicario che gli inquirenti credono sia stato ingaggiato da Nanni per far fuori Ilenia Fabbri. Inoltre contro l'ex marito della donna spuntano altri particolari compromettenti. In almeno un paio di circostanze, infatti, uscendo da incontri con l'avvocato civilista (la coppia era in procinto di separarsi), l'ex marito si sarebbe lasciato andare a sfoghi di questo tipo contro la ex moglie: se continua così, prima o poi le mando qualcuno «a farle le festa». Il particolare è stato riferito da una persona presentatasi spontaneamente in commissariato poco dopo l'omicidio della 46enne. La persona in questione aveva ricevuto la confidenza direttamente dall'ex marito della defunta - il 53enne Claudio Nanni ora indagato per omicidio volontario pluriaggravato in concorso con persona ignota - nel periodo segnato da un contenzioso civilistico tra i coniugi culminato con l'assegnazione della casa di via Corbara alla donna. Inoltre la 46enne aveva promosso una causa di lavoro contro l'ex lamentando mancati compensi per 100mila euro legati alla sua collaborazione nell'impresa di famiglia. Inoltre la vittima aveva denunciato Nanni per maltrattamenti: «Lui aveva fatto mettere a verbale la donna - mi ha aggredita e minacciata di morte». Il fascicolo penale venne però archiviato, ma senza che il contenzioso legale tra i due cessasse. In ballo c'era infatti anche l'assegnazione della casa di famiglia (la stessa dove la donna è stata uccisa). Il giudice civile, pur riconoscendo che le risorse liquide erano in effetti giunte dall'uomo anche attraverso la vendita di un altro immobile, aveva lasciato l'abitazione alla moglie a cui era stata intestata. Una situazione che Nanni non accettava e che aveva accresciuto il rancore contro l'ex moglie.
"Oddio, mi sento male". Ecco la frase che accusa l'ex marito di Ilenia. Nino Materi su Il Giornale iil 15/2/2021. «Oddio, mi sento male». È la frase pronunciata da Claudio Nanni, 53 anni, l'ex marito di Ilenia Fabbri, proprio nell'attimo in cui la 46enne stava per essere uccisa in casa a Faenza. «Oddio, mi sento male», quattro parole urlate con un «tempismo» perfetto, tale da bloccare la reazione dell'unico supertestimone che avrebbe potuto guardare in faccia il sicario di Ilenia, un killer che - secondo l'accusa - sarebbe stato ingaggiato proprio da Nanni. Ma facciamo un po' d'ordine. Sono le 6 di mattina del 6 febbraio. Nanni arriva sotto l'abitazione dell'ex moglie, in via Corbara, e fa salire in auto la figlia Arianna per andare insieme a Milano. In casa restano Ilena Fabbri e un'amica di Arianna che ha passato la notte lì. Dopo pochi minuti Nanni riceve una telefonata allarmata dell'amica di Arianna che le spiega in maniera concitata che «qualcuno» è entrato nella villetta e «sta aggredendo» Ilenia. Arianna ascoltando in vivavoce la telefonata dell'amica le dice di «afferrare un attizzatoio da camino» e di «precipitarsi a vedere cosa stava succedendo». Ma è proprio in quell'attimo che Nanni se ne esce con quella frase - «Oddio, mi sento male» - bloccando l'amica della figlia, anzi ordinandole di «rimanere ben chiusa a chiave nella sua camera da letto». E sarà proprio questo il comportamento seguito dalla giovane, che così non ebbe modo di vedere con chiarezza il killer di Ilenia, riuscendo solo a malapena ad udire le ultime parole di Ilenia rivolte al suo carnefice: «Chi sei? Cosa vuoi?». Poi un ultimo tonfo. Un urlo disperato. E il silenzio. Ora la Procura di Ravenna, che ha indagato a piede libero Nanni per omicidio pluriaggravato in concorso con persona ignota, si chiede: «Perché Nanni ha stoppato l'eventuale reazione dell'unica testimone del delitto?» Lo ha fatto per proteggere e coprire la fuga dell'assassino che lo stesso Nanni aveva forse assoldato per uccidere Ilenia? Di certo la registrazione telefonica di 21 minuti (realizzata tra le 6.08 e le 6.29 del 6 febbraio) in possesso degli inquirenti - e di cui Il Resto del Carlino ha anticipato alcuni frammenti - può rappresentare un ulteriore tassello a sfavore del sospettato numero uno: Claudio Nanni, presunto mandante di un killer ancora misterioso. Una registrazione dai risvolti controversi che va ad aggiungersi a un quadro indiziario che potrebbe presto portare in cella Nanni, contro il quale giocano anche altri importanti indizi: minacce, denunce per violenza (se pure archiviate), contrasti economici e una causa di separazione tra mille litigi. Dalla registrazione si evince inoltre che l'auto, con padre e figlia a bordo, inizia a tornare indietro verso via Corbara mentre Nanni e Arianna continuano a parlare. La figlia ribadisce che è sicura di «avere chiuso tutto uscendo di casa»; circostanza smentita dalla polizia che invece troverà la porta del garage aperta senza segni di effrazioni. Il killer aveva le chiavi. E a dargliele potrebbe essere stato proprio Nanni.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 14 febbraio 2021. C'è l'amica che ricorda le paure di Ilenia: «Diceva "se vinco la causa mi ammazza e non si sporcherebbe neanche le mani"»; c'è l'amico che l'ha vista in lacrime: «Era il periodo della separazione, si sentiva in pericolo, minacciata»; e c'è l'ex fidanzata di Claudio Nanni, la prima donna con la quale lui ha avuto una relazione sentimentale dopo la separazione da Ilenia: «Per due volte, uscendo dallo studio dell'avvocato, l'ho sentito dire che le avrebbe mandato qualcuno a casa». Insomma, le testimonianze della rabbia di Nanni contro Ilenia non mancano. C'erano in ballo le conseguenze della burrascosa separazione, la casa, il lavoro, i conti. E dunque, il cinquantatreenne meccanico di Faenza, indagato come mandante dell'omicidio di Ilenia, non poteva che essere il primo sospettato. Ed è per questa ragione che, secondo la Procura di Ravenna, ha cercato di precostituirsi un alibi di ferro. L'idea sarebbe stata quella di far entrare il killer a casa di Ilenia alle 6 del mattino, dopo essere passato a prendere Arianna, che viveva con la madre, per andare a Milano a ritirare un'automobile. Lui in viaggio con la figlia mentre l'assassino agiva solitario. Un piano perfetto, fallito per un imprevisto: quella notte a casa di Ilenia c'era anche la compagna della figlia che, sentite le urla, ha telefonato subito ad Arianna, per poi parlare per 15 lunghissimi minuti con Nanni, che le diceva «stai chiusa in camera, arriviamo», mentre faceva retromarcia e rientrava a Faenza. La polizia era già lì, accanto al corpo senza vita di Ilenia. Mancava solo il killer. E manca ancora, in questa strana indagine in cui il mandante è stato individuato prima dell'assassino. Esistono però delle immagini che potrebbero aiutare. Sono quelle di una telecamera posizionata vicino alla casa di Ilenia. Alle 5.45 del mattino spunta un uomo con un cappuccio in testa. «Ha un fare sospetto, come se fosse in attesa di qualcosa», spiegano gli inquirenti. L'uomo cambia marciapiede, torna indietro, rimane sul posto. Stava forse aspettando il passaggio dell'auto di Nanni per entrare in casa? Gli investigatori stanno analizzando i video di altre telecamere di Faenza che potrebbero aver ripreso l'uomo prima e dopo il delitto. E mentre la caccia al killer prosegue, Nanni resta a casa con Arianna: «Non sono io il mandante», ripete. Chissà cosa pensa Arianna.
Delitto Faenza, l'alibi e l'imprevisto metre Ilenia moriva. Tutti i sospetti sull'ex marito. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 12/2/2021. Una stradina di campagna, un grande silenzio e questa casa a due piani con le persiane tutte chiuse. Sembra disabitata ma non è così. Dentro ci sono loro: Arianna e suo padre. «Mamma, non so come e quando, ma ti farò giustizia», ha promesso lei, 20 anni, su un bigliettino appeso a un mazzo di fiori. Vuole fare giustizia a sua madre, Ilenia Fabbri, sgozzata sabato scorso a Faenza da un assassino ancora senza nome. Ma un nome c’è ed è quello di suo padre, Claudio Nanni, accusato di essere il mandante di quel delitto. In queste ore terribili vivono uno accanto all’altra, da soli, nel gelo della campagna faentina. Suoniamo il campanello e una finestra si apre molto lentamente. Eccolo Nanni: «Chi sei?». Si affaccia alla finestra, gli occhi pesti, la mano fissa sulla maniglia. «Papaaà!», lo richiama lei da dietro. «Non dico nulla, saluti», taglia corto il padre. E richiude tutto. Qualcosa ha però detto ai suoi avvocati: «Non c’entro nulla con l’omicidio». Gli inquirenti hanno invece forti sospetti sul suo conto. Dicono che potrebbe aver premeditato l’assassinio della sua ex e madre di Arianna, assoldando un killer e studiando nei dettagli un piano diabolico con un alibi che coinvolgeva proprio l’inconsapevole figlia. Sarebbe andata così: Nanni decide di fissare un appuntamento a Milano per ritirare un’automobile, poi passa a prendere Arianna a casa di Ilenia e insieme partono per Milano. E sa che è tutto documentato: messaggino sms delle 5.57, «sono qui, scendi», casello autostradale alle 6.05. Nel frattempo il sicario entra in casa e uccide Ilenia, sgozzandola. Un imprevisto fa però saltare tutto: la presenza di un’altra Arianna, la compagna della figlia (sono omonime). C’è anche lei a casa di Ilenia e secondo gli inquirenti Nanni questo non l’aveva previsto. La ragazza ha dormito lì quella notte e si sveglia di soprassalto quando sente la donna gridare — «chi sei?, cosa vuoi?» — si spaventa, apre la porta della cameretta e vede la sagoma di un uomo alto e robusto scendere le scale. «Ho pensato fosse un ladro che stava inseguendo Ilenia — dirà agli inquirenti — ho avuto paura e mi sono chiusa dentro e ho chiamato subito Arianna». Ore 6.06. Padre e figlia sono appena entrati in autostrada al casello di Faenza. Chiusa in quella stanza, l’amica vive il quarto d’ora più brutto della sua vita. Mentre al piano inferiore l’assassino si accanisce su Ilenia, lei attende, terrorizzata, con il telefonino all’orecchio e un filo di voce a chiedere aiuto, prima ad Arianna e poi a Nanni. «Stai calma, stiamo tornando», la tranquillizza lui. Quindici minuti da film dell’orrore. Non esce dalla stanza nemmeno quando gli agenti entrano in casa. «Abbiamo bussato alla porta della cameretta e ancora non apriva». Questa la dinamica ipotizzata da magistrati e Squadra Mobile di Ravenna, che alla base vedono un movente di natura patrimoniale. Nella ricostruzione, però, non tutto torna. Dicono per esempio che l’arma usata potrebbe essere un coltello trovato in cucina, il che sembra incompatibile con una premeditazione. Due: i tempi, troppo stretti. L’appuntamento a Milano è stato preso da Nanni due giorni prima del delitto, la figlia è stata avvertita il venerdì sera. Possibile che un piano studiato con tanto di killer al fosse legato a queste incertezze? Per trovare altri indizi la Scientifica sta analizzando le tracce di sangue trovate in casa, dove ci potrebbero essere quelle del misterioso assassino (da comparare con quelle delle banche dati). Al setaccio video, telefonini, computer. Oltre, naturalmente, alla storia della coppia: 18 anni di matrimonio. Ilenia con lui ha lavorato e condiviso progetti, l’officina, una gelateria. Fino alla crisi, alla separazione del 2018 e alle cause da lei intentate, prima denunciando maltrattamenti «psicologici», poi presentandogli un conto salato: 100 mila euro, segnato sul calendario alla data del prossimo 26 febbraio. Quel giorno il giudice avrebbe forse deciso qualcosa sulle ragioni di Ilenia. La causa sarà estinta perché lei non c’è più.
Rosario Di Raimondo per “la Repubblica” il 12 febbraio 2021. Quando fa buio, solo due telecamere restano puntate davanti alla villetta di Claudio Nanni. Ieri mattina la polizia ha perquisito la sua casa nelle campagne di Faenza, l' officina che ha avviato nel 2004, l' abitazione dell' anziana madre. L' ex marito di Ilenia Fabbri, uccisa con una coltellata alla gola all' alba di sabato scorso, è libero ma blindato fra quattro mura. La procura lo indaga per omicidio volontario in concorso contro ignoti. L' avviso di garanzia è stato spedito poche ore prima di un nuovo sopralluogo della Scientifica nella casa di via Corbara, dove viveva la donna. Un blitz decisivo per raccogliere gli indizi, fissare le prove, ricostruire gli ultimi minuti di vita di Ilenia e seguire la pista finora più battuta: quella di un killer su commissione. «Chi sei, cosa vuoi?», le ultime parole della vittima all' uomo che è entrato nella sua camera da letto, che forse voleva strangolarla, che l' ha buttata giù per le scale prima di finirla con un coltello. Queste parole le ha raccontate la giovanissima compagna della figlia della donna, che quella notte è rimasta lì a dormire e ha dato l' allarme. Alla polizia cercherà di descrivere la sagoma scura intravista prima di barricarsi in camera e chiedere aiuto: un uomo molto alto, robusto, spalle larghe, vestito di scuro. L' ex marito e la figlia della vittima erano in viaggio per Milano da pochi minuti. La coppia si era lasciata nel 2018. Entrambi si erano ricostruiti una vita: lei amava Stefano, l' idraulico, ben presto scagionato da questa storia. Anche Claudio, 53 anni, si frequentava con un' altra donna. L' avvocato Guido Maffuccini, che lo difende con Delia Fornaro, lo descrive «provato». La figlia Arianna, ventenne, viveva alternandosi con entrambi. Col padre condivideva l' amore per il cane Tukla, i viaggi, i pranzi e le cene fuori con gli amici. Due giorni fa è andata a portare dei fiori davanti alla casa della madre. Un filo teneva ancora insieme i cocci di una relazione a pezzi. Ilenia aveva portato l' ex in tribunale: chiedeva compensi per 100mila euro relativi al lavoro svolto in passato come segretaria nell' officina del marito, la stessa dalla quale ieri gli inquirenti sono usciti con diverso materiale, dopo aver persino setacciato i bidoni del vicino distributore di benzina. I legali di lei dicono che qualche tentativo di mediazione c' era stato ma era naufragato. Il 26 febbraio era prevista un' altra udienza. Ma scavando, in questi giorni, è emerso altro. Nel 2017 Ilenia aveva denunciato Claudio per maltrattamenti psicologici e minacce. In un caso, anche un' aggressione fisica. Aveva raccontato che il marito la faceva pedinare con un gps a calamita attaccato alla sua auto temendo che si vedesse con un altro uomo. Tutto archiviato. Si era rivolta al centro anti-violenza "Sos-donna", senza intraprendere un percorso. L' aspetto penale ha lasciato posto a quello civile: la casa di via Corbara, un' abitazione su tre livelli - la cucina al piano seminterrato dov' è stata trovata morta, la sala al piano terra e le stanze da letto all' ultimo - è rimasta a lei. Infine la causa di lavoro. Su questo filo si muovono le indagini coordinate dal procuratore di Ravenna Daniele Barberini e dalla pm Angela Scorza, e seguite dalla squadra Mobile guidata da Claudio Cagnini. Un omicidio «in concorso» per il quale si cercano almeno due persone: un mandante e un esecutore materiale. Capace, quest' ultimo, di entrare in casa, si pensa con un mazzo di chiavi, un minuto dopo che l' ex marito di Ilenia e la figlia sono partiti in macchina per Milano. E capace, almeno fino ad oggi, di sparire nel nulla.
(ANSA l'11 febbraio 2021) Su disposizione della Procura di Ravenna, sono scattate perquisizioni della polizia a carico di Claudio Nanni, l'ex marito della 46enne Ilenia Fabbri trovata morta sabato scorso nella sua abitazione di Faenza, nel Ravennate. Le verifiche, oltre che la residenza dell'uomo, riguardano la sua auto-officina sempre a Faenza. In concomitanza con l'avvio delle perquisizioni di casa e officina di lavoro, a Claudio Nanni, ex marito di Ilenia Fabbri, la 46enne trovata sgozzata sabato scorso nella sua abitazione di Faenza (Ravenna), è stato notificato un avviso di garanzia per l'ipotesi di reato di omicidio pluriaggravato in concorso con persona ignota.
(ANSA l'11 febbraio 2021. ) Molto alto, ben piazzato, con spalle grosse e vestito di scuro. Ecco il parziale identikit a cui la polizia sta lavorando per risolvere il giallo di Ilenia Fabbri, la 46enne trovata sgozzata poco prima dell'alba di sabato nel suo appartamento di Faenza (Ravenna). La descrizione, come riportato da alcuni quotidiani, è stata fornita dall'amica della figlia che quella notte si trovava nell'appartamento e che alle 6.06, temendo l'intrusione di un ladro, ha lanciato l'allarme chiamando l'amica uscita da poco per recarsi assieme al padre, ed ex marito della vittima, a una concessionaria di Milano. La giovane testimone avrebbe prima sentito queste parole dalla vittima: "Chi sei? Cosa vuoi?", seguite dalle sue grida. Quindi, prima di barricarsi in stanza, la giovane si è affacciata vedendo un uomo di spalle giù per le scale: si tratta di una persona che non aveva mai visto prima e che in quel momento stava inseguendo la vittima o la stava spingendo giù. La giovane ha sentito alcuni tonfi, poi le urla della donna sono cessate. Ematomi su una spalla e la fronte fanno pensare agli esiti di rovinose cadute oppure a una suola di scarpa: come se l'assassino avesse voluto tenere ferma la vittima a terra per finirla. Si ipotizza che l'arma del delitto possa essere un coltello in ceramica lama piatta recuperato nel vano cucina dove la donna è stata trovata morta. Per confermarlo, occorrerà l'esito finale dell'autopsia eseguita domenica su incarico del Pm Angela Scorza. Ma non è escluso che il killer abbia cercato di aggredire la vittima già dalla camera da letto al piano superiore con altri modi, compreso lo strangolamento. Il fatto che non siano state trovate impronte fa pensare all'uso di guanti, rafforzando l'ipotesi di un delitto compiuto da un sicario su commissione.
Omicidio Faenza, compagno di Ilenia: “Volevo sposarla”. Notizie.it il 15/02/2021. Stefano Tabanelli, compagno di Ilenia Fabbri, ha raccontato che voleva sposarla e che stavano solo aspettando la data del divorzio. Sono giornate molto tese a Faenza, dove si parla di un assassino ancora libero e di un ex marito come mandante. Stefano Tabanelli, compagno di Ilenia Fabbri da un paio di anni, ha voluto parlare di lei e del loro grande amore. “Ilenia ed io portavamo già le fedi al dito nelle quali dovevamo far incidere la nostra data” ha dichiarato Stefano. Ilenia era la sua compagna di vita da un paio di anni e i due avevano deciso di sposarsi, tanto da mettere già le fedi al dito. “Pensavamo di definire le cose questa estate” ha spiegato. Prima non avevano potuto farlo perché mancava una cosa molto importante, ovvero il divorzio di Ilenia da Claudio Nanni, ex marito meccanico dal quale si era separata nel 2018 in modo molto teso. Un marito, sposato vent’anni fa, con cui aveva condiviso ogni cosa e con cui aveva fatto una figlia, e che ora è stato accusato di aver assoldato un killer per farla uccidere. “Aspettavamo la tanto attesa data del divorzio di Ilenia e a quel punto avremmo programmato il nostro matrimonio” ha spiegato il compagno di Ilenia, di 55 anni, titolare di una ditta di termoidraulica. Questo matrimonio, purtroppo, non ci sarà, perché all’alba dello scorso 6 gennaio un uomo sconosciuto si è introdotto nella casa di Ilenia e l’ha sgozzata. C’è un particolare che secondo gli inquirenti è molto importante. Pochi minuti prima che il killer entrasse in azione, da quella stessa abitazione stava uscendo la figlia ventenne di Ilenia, per salire nell’auto di Claudio Nanni, che le aveva appena inviato un messaggio per dire che era arrivato. L’uomo era passato a prenderla per andare a Milano a ritirare un’automobile. Mentre loro stavano partendo, l’assassino entrava in casa. “Pensiamo che sia stato tutto pianificato da lui, che avrebbe usato Arianna e il viaggio a Milano come alibi del delitto” hanno spiegato in Procura. La Procura di Ravenna ha ipotizzato un movente di natura economica. Chiusa la causa della separazione, Ilenia Fabbri si era rivolta al giudice per chiedere conto di tutti gli anni lavorati nelle varie attività del marito senza essere pagata. Una richiesta della somma di 100mila euro. La prima udienza sarebbe stata il 26 febbraio, poi sarebbero passati alla causa del divorzio. Lei voleva fare tutto in fretta, perché voleva sposarsi di nuovo, mentre l’ex marito era furioso. “Se non la smette le mando qualcuno a casa” avrebbe detto, secondo quanto riportato. Daniele Barberini, procuratore, ha spiegato che non si può escludere che l’imminente matrimonio abbia avuto un peso sul movente. Per il momento l’indagato ha negato ogni responsabilità.
Chiara Nava. Nata a Genova, classe 1990, mamma con una grande passione per la scrittura e la lettura. Lavora nel mondo dell’editoria digitale da quasi dieci anni. Ha collaborato con Zenazone, con l’azienda Sorgente e con altri blog e testate giornalistiche. Attualmente scrive per MeteoWeek e per Notizie.it
Tiziana Paolocci per "il Giornale" l'11 febbraio 2021. Sette, al massimo nove minuti per portare a termine l' omicidio su commissione. Prende sempre più piede l' ipotesi che qualcuno abbia assoldato un killer per uccidere Ilenia Fabbri, la donna di 46 anni sgozzata sabato all' alba nella sua abitazione di Faenza, nel Ravennate e potrebbe esserci presto un identikit. Mentre sembra tramontato il movente passionale, si valuta quello legato a interessi economici. Qualcuno voleva togliere di mezzo la quarantaseienne e aveva orchestrato tutto, studiando ogni minimo dettaglio a tavolino. «L' ipotesi che sia stata una rapina non la scartiamo completamente, è sul tavolo ma non è quella più accreditata - afferma il procuratore capo facente funzioni di Ravenna Daniele Barberini - Il compagno non c' era e non abbiamo niente sulla figlia e sull' amica. Con l' ex marito c' era il problema della separazione che si era protratta con dei problemi di carattere economico. Ci stiamo muovendo su tutti i livelli, sia dal punto di vista scientifico e sia continuando a sentire le persone, cercando telecamere e cercando immagini. Al momento non abbiamo raccolto nessuna immagine, ma stiamo cercando». Secondo gli investigatori l' assassino potrebbe essere entrato dal garage con una copia delle chiavi, per poi salire al piano superiore, sorprendendo la donna che si trovava in camera da letto. La vittima avrebbe tentato inutilmente la fuga, ma il killer l' avrebbe finita in un vano adiacente all' autorimessa. Questo è quanto ipotizzato vista l' assenza di impronte dentro e fuori l' abitazione. Ilenia sarebbe stata uccisa in un lasso di tempo tra 7 e 9 minuti con un profondo taglio al collo praticato da sinistra verso destra. Il killer avrebbe prima cercato di ucciderla in un altro modo, poi avrebbe afferrato il coltello da cucina con lama piatta trovato sul posto. Un' arma occasionale, che poi è stata maldestramente ripulita in un lavabo. Le indagini della squadra mobile scavano nel passato della vittima e nei suoi rapporti e hanno rivelato che la donna aveva in piedi una causa di lavoro con l' ex marito, con cui era in procinto di divorziare, da cui vantava a suo avviso compensi per 100mila euro dovuti al suo impiego nell' officina familiare. Ieri la scientifica ha compiuto un nuovo sopralluogo nell' abitazione a caccia di indizi. Alcune tracce di sangue e ciocche di capelli trovate nelle stanze superiori testimonierebbero che Ilenia abbia cercato in tutti i modi di sottrarsi al killer professionista, ingaggiato per farla fuori, che sarebbe stato costretto a fuggire alle 6.10 del mattino, quando un vicino di casa si è attaccato al campanello dopo essere stato svegliato dalle urla, provenienti da quella casa. Nessuno però ha risposto. Gli inquirenti hanno sentito a lungo l' amica della figlia della vittima che al momento del delitto era ospite nella casa: è lei l' unica che avrebbe intravisto la sagoma del killer in fuga e la sua testimonianza sarà utile per stilare un possibile identikit. La giovane, dopo essersi chiusa in camera temendo la presenza di un malvivente, ha chiamato la polizia. Secondo quanto appreso, avrebbe escluso che l' omicida possa essere qualcuno che lei conosceva. Ieri mattina Arianna, la figlia della vittima, che al momento del delitto era partita con il padre, ha deposto un mazzo di fiori in ricordo della madre. La Procura bizantina, invece, ha ieri ha concesso il nulla osta ai funerali della vittima.
Enea Conti per corriere.it il 7 febbraio 2021. «Siamo molto lontani da una qualsiasi conclusione, abbiamo sentito dieci persone, ma il quadro è ancora piuttosto confuso». Con queste parole, alla fine della giornata di sabato il procuratore Capo di Ravenna Daniele Barberini ha fatto il punto sulle indagini sulla morte di Ilenia Fabbri, la quarantaseienne trovata senza vita poco prima dell’alba di sabato nella sua abitazione di Faenza, ferme in un vicolo cieco. Nessuna persona è stata fermata, nessun sospettato iscritto al registro degli indagati nell’arco di una giornata fatta di interrogatori a ritmi serrati con gli inquirenti che hanno ascoltato almeno dieci persone, tra parenti, amici, vicini e conoscenti della vittima.
Pochi punti fermi. Si brancola ancora nel buio e l’unico punto fermo sembra essere l’ora in cui è stato commesso il delitto. Sono da poco passate le sei del mattino di sabato quando gli agenti della polizia del commissariato di Faenza ricevono la telefonata di una giovane donna, che si rivelerà essere la figlia della vittima. «Correte in via Corbara hanno ucciso mia mamma, me lo ha detto un’amica che questa notte ha dormito lì». Lei, la ragazza, ventenne, è con il padre, l’ex marito di Ilenia Fabbri con cui avrebbe dovuto trascorre il weekend. Alle 5, un’ora prima, l’uomo era passato in via Corbara a prenderla e lei era uscita di soppiatto per non far rumore. In casa, come spiegato poi dalla ragazza, erano rimaste a dormire la madre e un’amica coetanea loro ospite.
L’arrivo degli agenti. Quando gli agenti sono entrati in cucina si sono trovati nel mezzo della scena del crimine con il cadavere disteso sul pavimento. Sul posto, mentre gli uomini della Scientifica procedevano con i rilievi, c’erano anche il magistrato di turno Angela Scorza e il Procuratore capo di Ravenna Daniele Barberini. La prima a essere stata ascoltata è stata proprio l’amica che aveva telefonato alla figlia per avvertirla dell’accaduto. «Mi ero svegliata», ha raccontato agli inquirenti, «perché avevo sentito un gran baccano e Ilenia che urlava. Mi sembrava stesse discutendo ad alta voce non so se con qualcuno. Poi sono entrata in cucina e l’ho trovata morta». Non è un particolare da poco.
Le grida. Negli stessi istanti, alcuni degli inquilini al piano di sopra si erano affacciati alla finestra mentre altri residenti negli appartamenti vicini tendevano le orecchie ancora a letto ma svegliati di soprassalto. Tutti avrebbero poi raccontato, chi sul posto chi in commissariato, di aver sentito chiaramente le grida di Ilenia Fabbri pochi minuti prima delle 6 del mattino. Dopo aver raccolto le testimonianze della ragazza gli agenti hanno proseguito l’interrogatorio in commissariato. Qui hanno ascoltato e messo a verbale il racconto della figlia, dell’ex marito e dell’ultimo fidanzato della vittima. Per sgomberare il campo da qualsiasi ipotesi affrettata gli inquirenti hanno spiegato che sia l’ex coniuge - in viaggio nei minuti in cui sarebbe stato commesso l’omicidio - che l’ultimo compagno della vittima - che non conviveva con la quarantaseienne e abitava lontano da lei - non sono al momento sospettati per aver commesso il delitto. La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti e non è esclusa addirittura la pista del furto finito in tragedia. In un primo momento, tanto il quadro era confuso, erano stati avanzati addirittura dubbi su un gesto di autolesionismo, un’ipotesi poi accantonata con l’apertura del fascicolo per omicidio. Intanto gli uomini della Scientifica hanno sequestrato il cellulare della vittima - i cui dati verranno scandagliati nelle prossime ore - e un coltello da pane lavato in modo maldestro in un lavandino ritenuto l’arma del delitto su cui sarà comunque effettuata una perizia.
Da ilfattoquotidiano.it il 10 febbraio 2021. Un omicidio su commissione: l’assassino ha agito su mandato di un’altra persona, entrando in casa con una copia delle chiavi, per poi mettersi alla ricerca della donna, tanto che l’aggressione è cominciata ai piani alti dell’appartamento. Gli inquirenti che indagano sull’omicidio di Ilenia Fabbri, la 46enne uccisa con una coltellata alla gola sabato nel suo appartamento di Faenza, stanno valutando anche questa ipotesi. Tra gli elementi a sostegno di questa ricostruzione, infatti, c’è anche l’assenza di impronte, che dimostrerebbe l’eventuale premeditata prudenza e attenzione dell’assassino nel non lasciare tracce. Per ora, grazie all’analisi di testimonianze e tabulati, gli investigatori sono convinti che Ilenia Fabbri sia stata uccisa in un tempo compreso tra 7 e 9 minuti. Alle 5.57 Arianna, la figlia che abitava con lei, ha ricevuto un messaggio dal padre Claudio, ex marito della vittima: l’uomo l’aspettava in strada. La giovane, che era già pronta, ha lasciato la madre in camera e alle 5.59 è scesa. Agli inquirenti ha specificato di avere chiuso la porta a chiave. Alle 6.06, quando i due si trovavano già in autostrada in viaggio per andare a ritirare una vettura da una concessionaria di Milano, un’amica della figlia, pure lei di nome Arianna, ospite quella notte nell’appartamento, ha chiamato la giovane per dirle di essersi barricata in camera temendo l’intrusione di un ladro a causa di rumori e grida. Sempre alle 6.06 la figlia ha chiamato la polizia lanciando così l’allarme. Alle 6.08 a chiamare la polizia sono stati alcuni vicini allarmati dalle grida provenienti dalla casa della 46enne. Quando pochi minuti dopo la volante è intervenuta per quello si pensava fosse un furto in abitazione, ha trovato la porta del garage aperta e la donna, già vestita, in una pozza di sangue all’interno del vano uso cucina al primo dei tre piani dell’abitazione. Dalle ultime verifiche è emerso che nemmeno sulle finestre, così come sulle porte esterne, erano presenti segni di effrazione. Per quanto riguarda la dinamica dell’omicidio, sono state isolate macchie di sangue ai piani superiori: l’assassino ha cioè iniziato lì la sua aggressione per terminarla nel vano uso cucina al piano terra con un coltello usato da tergo. Ciò spiegherebbe anche una delle ultime novità sui rilievi: non sono state trovate impronte dell’assassino, né sulla scena del crimine né fuori dall’abitazione. I quattro principali testimoni finora ascoltati in Commissariato sono Arianna, la figlia convivente, l’amica della figlia, Stefano, il nuovo compagno della vittima, e Claudio, il marito da cui la donna si era separata nel 2018. Sono state sentite anche le amiche della 46enne e l’avvocato civilista della vittima. Dalle verifiche è emerso che nel 2017 Ilenia Fabbri aveva denunciato il marito per maltrattamenti. Il fascicolo era stato archiviato ma tra i due ex coniugi era rimasto in piedi un contenzioso civilistico sulla divisione del patrimonio. È infatti emerso che la donna aveva fatto causa al marito, per lamentare mancati compensi per alcune decine di migliaia di euro relativi al suo impiego nell’attività di famiglia: la prossima udienza – la seconda della causa – con i testimoni delle parti, era stata fissata per il 26 febbraio davanti al giudice del Lavoro del Tribunale di Ravenna.
Omicidio Faenza, "Ilenia sgozzata in meno di 10 minuti". Resta un giallo la morte di Ilenia Fabbri, sgozzata all'interno della propria cucina. Nessuna traccia del killer né altre impronte sulla scena del crimine. Rosa Scognamiglio, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale. Sgozzata in meno di dieci minuti. Sarebbe questo il tempo stimato dagli investigatori in cui si sarebbe consumato l'omicidio ai danni di Ilenia Fabbri, 46enne di Faenza, ritrovata in una pozza di sangue all'interno della propria abitazione. Il killer, secondo gli inquirenti, avrebbe agito in una manciata di minuti salvo poi dileguarsi con l'arma delitto. Ma il movente del truce assassinio resta un rebus. "Non escludiamo nessuna pista, tranne il movente passionale", afferma il procuratore Daniele Barberini.
L'omicidio. Ilenia è stata ritrovata senza vita, riversa in una pozza di sangue all'interno della propria cucina, nella mattinata di lunedì 8 febbraio. Ad allertare la polizia sarebbero stati alcuni vicini di casa della donna, spaventati dalle grida provenienti dall'appartamento incriminato. Il killer, la cui identità resta ancora un mistero, si sarebbe introdotto nell'abitazione - verosimilmente dal garage - poco dopo l'alba. A quel punto, avrebbe assaltato di spalle la 46enne salvo poi immobilizzarle il capo con una mano e reciderle la gola l'altra. Dopodiché, si sarebbe dileguato portando con sé l'arma del delitto. Ilenia è quindi caduta al pavimento esanime. Quando sono arrivati i soccorritori era già morta.
Il giallo della scena del crimine. Un giallo a tinte fosche che rischia di tramutarsi in un vero e proprio rebus. Gli investigatori hanno escluso l'ipotesi di una rapina finita nel sangue in quanto, come ben riporta il quotidiano La Nazione, non ci sarebbero segni evidenti di effrazione alle finestre dell'abitazione. Anche la porta di accesso, secondo la versione fornita dalla figlia della vittima, era chiusa saldamente. Senza contare che, ad eccezione del vano cucina, non risultano altre tracce di sangue nell'appartamento. Un rompicapo non da poco a cui, proprio in queste ore, i tecnici delle Forze dell'Ordine stanno tentando di trovare risposta. Da dove è entrato l'assassino?
"Sgozzata in 10 minuti". Un altro rebus riguarda i tempi in cui si sarebbe consumato il delitto. Arianna, figlia della vittima, ha raccontato di essere uscita di casa pressapoco alle ore 6 del mattino, tra le 5.57 e le 5.59. Dai tabulati telefonici risulta infatti che la ragazza avesse avuto uno scambio di sms col papà, che la sollecitava ad uscire per andare in una concessionaria, proprio una manciata di minuti prima dell'aggressione. Alle ore 6.08, la ragazza avrebbe ricevuto la chiamata di una amica che le raccontava di essersi barricata in camera in quanto spaventata dalle grida provenienti dalla vicina abitazione. A quel punto, Ilenia ha telefonato in Commissariato. Dunque, secondo un calcolo algoritmico, il killer di Ilenia avrebbe agito in un lasso di tempo compreso tra i 7 e 10 minuti.
Un delitto senza movente. Da ultimo, resta il mistero del movente: perché Ilenia è stata uccisa? Stando alle prime testimonianze raccolte, pare che la donna avesse una vita sentimentale piuttosto tranquilla. Nel 2018 aveva divorziato dal marito Claudio, poi aveva conosciuto Stefano con il quale condivideva una relazione stabile e serena. I due, stando a quanto riferito dalla figlia Arianna, avrebbero avuto persino intenzione di sposarsi. Nessuno scheletro nell'armadio né rapporti turbolenti, insomma. Dunque, chi e per quale ha ggredito così brutalmente la donna? "Il movente passionale è escluso categoricamente", fa sapere il procuratore Daniele Barberini. Ma tutte le altre piste restano aperte: "Non escludiamo nessuna altra ipotesi", concludono gli investigatori.
Franco Giubilei per “la Stampa” l'8 febbraio 2021. L' esito dell' autopsia è brutale come la misteriosa aggressione al coltello contro Ilenia Fabbri, la donna di 46 anni trovata in una pozza di sangue nella cucina di casa sua, l' altra mattina, in un condominio della prima periferia faentina: tecnicamente è stata sgozzata, in pratica è stata uccisa con un profondo taglio al collo inferto con un solo colpo di coltello che le ha reciso vene e arteria. Si valuta ora la compatibilità della ferita mortale con le caratteristiche del coltello da cucina rinvenuto sul luogo del delitto, ripulito alla meglio e recuperato dalla polizia. Un omicidio tuttora inspiegabile, per cui la procura di Ravenna non ha ancora indagato nessuno e continua a cercare in tutte le direzioni. Ieri la scientifica è tornata nell' appartamento di via Corbara per altri rilievi, ma una delle ipotesi battute è comunque quella che porta ai familiari della vittima. Ilenia Fabbri, impiegata in una concessionaria a Imola, abitava con la figlia ventenne che proprio la mattina del delitto era uscita per avviarsi in auto a Milano con l' ex marito della donna, per l' acquisto di un' auto, come i due hanno raccontato agli inquirenti. L' uomo è stato protagonista di una separazione complicata dalla moglie, tanto che Ilenia lo aveva denunciato per maltrattamenti. Padre e figlia risultano essersi allontanati verso le 5.45 mentre la morte è avvenuta alle 6. Nella cerchia ristretta della dozzina di persone sentite da magistrati e squadra mobile ravennati ci sono anche la figlia e l' attuale compagno della vittima, da due anni con lei, descritto come «disperato». Non ci sono testimoni diretti di quanto accaduto all' alba di sabato, se non un' amica della figlia fermatasi a dormire nell' appartamento, che avendo sentito del trambusto si è chiusa in camera temendo ci fosse un ladro in casa. Ha quindi avvertito l' amica, che ha dato l' allarme. La polizia ha trovato il cadavere già esanime sul pavimento della cucina. E poi ci sono i tempi: ci sono solo quindici minuti fra le 6, l' ora della morte accertata dal medico legale, e le 5.45, quando padre e figlia sarebbero partiti. Un quarto d' ora che ne esclude la presenza nell' appartamento nel momento in cui i vicini hanno sentito le urla di terrore della donna. Gli inquirenti non trascurano l' ipotesi della rapina finita male, ma non ci sono segni di effrazione, dunque la vittima conosceva il suo assassino e gli ha aperto, ma siamo nel campo delle congetture. Anche la possibilità che la persona che l' ha accoltellata fosse già nell' abitazione è poco più di un' ipotesi di scuola. Resta un delitto che ha sconvolto la cittadina: «Faenza è stata scossa da un grave fatto di sangue - commenta il sindaco, Massimo Isola -. Come tutti sono sconvolto dall' efferatezza del gesto che ha tolto la vita a Ilenia Fabbri. Fa riflettere che a perdere la vita in modo così violento sia stata, ancora una volta, una donna».
· Il Mistero di Denis Bergamini.
Morte Bergamini, entra nel vivo il processo: ecco la lunga lista di testimoni. Marco Cribari Il Quotidiano del Sud il 23 novembre 2021. Sono in tutto 223 i testimoni che sfileranno sulla scena del processo Bergamini partito lo scorso 25 ottobre in Corte d’assise, a Cosenza e la cui prossima udienza è prevista per giovedì 25 novembre. Oltre 200 quelli indicati dal pm Luca Primicerio della Procura di Castrovillari che saranno controesaminati dagli avvocati dell’imputata, Angelo Pugliese e Rossana Cribari, con l’aggiunta di una ventina di persone convocate in aula solo per espressa volontà della difesa. Negli elenchi figurano anche le persone decedute come il papà di Denis, Domizio Bergamini, il maresciallo dei carabinieri Francesco Barbuscio, il direttore sportivo Roberto Ranzani, l’ex allenatore Luigi Simoni e il bomber Gigi Marulla, il magazziniere Renato Madia e altri ancora, inseriti in lista per consentire l’acquisizione delle dichiarazioni da loro rese in passato sull’argomento.
Tra i convocati in aula anche testimoni minori dei quali, con l’accordo delle parti, la Corte potrebbe rinunciare all’audizione limitandosi ad acquisire i rispettivi verbali di sommarie informazioni rese durante le indagini.
Ex calciatori del Cosenza
Sig. Angelo Aimo nato a Manerbio il 17.11.1964
Sig. Luca Francesco Altomare nato a Cosenza il 14.01.1972
Sig. Gabriele Baldassarri nato ad Antrodoco il 08.03.1962
Sig. Stefano Benanti nato a Salerno il 30.12.1971
Sig. Alessio Brogi nato a San Giovanni Valdarno (AR) il 03.01.1966
Sig. Rudi Brunelli nato a Ferrara il 09.04.1968
Sig. Raimondo Bruno Caneo nato ad Alghero il 12.04.1957
Sig. Renzo Castagnini nato a Roggello (FI) il 14.11.1956
Sig. Alessandro Celano nato a Crotone il 06.05.1968
Sig. Vittorio Cozzella nato a Napoli il 10.10.1961
Sig. Nicola Di Leo nato a Trani il 07.01.1960
Sig. Luigi De Rosa nato a Bari il 08.07.1962
Sig. Bruno Fantini nato a Gorizia il 06.10.1967
Sig. Sergio Galeazzi nato a Premosello Chivenda il 15.05.1965
Sig. Pasquale Logiudice nato a Reggio Calabria il 01.03.1968
Sig. Claudio Lombardo nato a Voghera il 27.05.1963
Sig. Maurizio Lucchetti nato a Crema il 26.06.1959
Sig. Francesco Marino nato a Cosenza il 28.08.1961
Sig. Stefano Marra nato a Roma il 11.03.1968
Sig. Ciro Muro nato a Napoli il 09.03.1964
Sig. Ugo Napolitano nato a Napoli il 10.03.1965
Sig. Francesco Nocera nato a Napoli il 12.06.1968
Sig. Michele Padovano nato a Torino il 28.08.1966
Sig. Gian Luca Presicci nato a Orbetello il 26.06.1965
Sig. Stefano Ruvolo nato a Roma il 23.08.1968
Sig. Antonio Schio nato a Cittadella (Pd) il 12.04.1960
Sig. Luigi Simoni nato a Massafiscaglia il 15.02.1965
Sig. Massimo Storgato nato a Casale Monferrato il 03.06.1961
Sig. Giorgio Venturin nato a Bollate il 09.07.1968
Sig. Alberto Urban nato a Saint Avold il 17.06.1961
Sig. Carmine Della Pietra nato a Nola (NA) il 18.02.1963 (ex Salernitana)
Ex dirigenti, impiegati e staff tecnico della società di calcio
Sig. Eugenio Caligiuri nato a Cosenza il 01.09.1953 (dirigente)
Sig. Giovanni Di Marzio nato a Napoli il 08.01.1940 (allenatore)
Sig. Tonino Ferroni a Comacchio (FE) il 26.07.1948 (all. in 2)
Sig. Enrico Costabile nato a Cosenza il 16.01.1952 (medico sociale)
Sig. Antonio Gregorio Covino nato a Nardò il 20.03.1957 (segretarui)
Sig. Bonaventura Lamacchia nato a Spezzano Piccolo il 19.02.1953 (dirigente)
Sig. Roberto Loria nato a Cosenza il 27.06.1957 (magazziniere)
Sig. Giuseppe Maltese nato a Palermo il 10.03.1957 (massaggiatore)
Sig. Fabiano Paolo Pagliuso nato a Cosenza il 08.11.1946 (dirigente)
Sig. Sergio Pini nato a Siena il 09.01.1936 (All. in 2)
Sig. Antonio Serra nato a Cosenza il 06.06.1955 (presidente)
Sig. Santo Fiorentino nato a Cosenza il 22.08.1936 (dirigente accompagnatore)
Sig.ra Natalina Rende nata a Cosenza il 10.07.1959 (sorella Alfredo Rende)
Sig.ra Adelina Romano nata a Cosenza il 26.06.1948 (vedova Mimmo Corrente)
Testimoni diretti e indiretti degli eventi del 18 novembre 1989
Sig. Angelo Depalo nato a Giovinazzo il 15.05.1958 (carabiniere)
Sig. Francesco Forte nato a Torino il 26.01.1963 (camionista di passaggio)
Sig. Mario Infantino nato a Roseto Capo Spulico il 20.10.1942 (titolare bar)
Sig.ra Anna Napoli nata a Roseto Capo Spulico (CS) il 19.12.1962
Sig. Rocco Napoli nato a Roseto C. S. il 08.12.1966 (automobilista di passaggio)
Sig. Mario Panunzio nato a Taranto il 18.09.1964 (automobilista di passaggio)
Sig. Raffaele Pisano nato a Rosarno il 02.01.1938 (camionista che investì Denis)
Sig. Bernardino Rinaldi nato a Noepoli il 31.08.1958 (automobilista di passaggio)
Sig. Michele De Marco nato a Villapiana il 19.10.1954 (medico Trebisacce)
Sig. Salvatore De Paola nato a Plataci (CS) il 05.06.1948 (infermiere Trebisacce)
Sig. Rocco Giampietro nato a Roseto Capo Spulico (CS) il 17.07.1955 (fotografo)
Dott. Antonio Raimondi nato a Trebisacce il 29.06.1946 (medico Trebisacce)
Sig. Antonio Maio nato a Gioia Tauro (RC) il 15.07.1962 (camionista)
Sig. Francesco Sprovieri nato a Cosenza il 27.10.1947 (già proprietario Maserati)
Sig. Antonio Bandiera nato a Montegiordano il 05.10.1952 (infermiere Trebisacce)
Sig. Giovanni Luigi Putignano nato ad Ostuni il 21.06.1955 (ausiliario Trebisacce)
Sig. Antonio Silvestri nato ad Oriolo (CS) il 10.06.1949 (infermiere Trebisacce)
Sig. Iconio Bagnato nato a Cessaniti il 23.07.1945 (poliziotto in pensione)
Sig.ra Giovanna Cornacchia nata a Calvera il 29.09.1965 (passeggera)
Sig.ra Maria Lucia Cosentino nata a Cassano allo Ionio il 12.08.1966 (passeggera)
Sig.ra Antonietta Rosa Valerio nata a Corigliano Calabro il 06.04.1961 (passeggera)
Sig.ra Giovanna F. Valerio nata a Montegiordano (CS) il 24.06.1966 (passeggera)
Sig.ra Barbara Dodaro nata a Cosenza il 23.07.1971 (amica di Isabella)
Sig.ra Carmela Dodaro nata a Cosenza il 20.12.1969 (amica di Isabella)
Familiari e conoscenti di Isabella Internò
Sig.ra Tenuta Concetta nata a Cosenza il 01.01.1950 (mamma)
Sig.ra Francesca Siciliano nata a Milano il 06.07.1929 (nonna)
Sig.ra Assunta Trezzi nata a Cosenza il 14.09.1955 (zia)
Sig. Luciano Conte nato a Ragusa il 02.01.1962 (marito)
Sig. Francesco Arcuri nato a Cosenza il 14.01.1964 (cugino)
Sig. Pietro Casciaro nato a Cosenza il 06.06.1970 (cugino)
Sig. Dino Pippo Internò nato a Rende (CS) il 15.09.1968 (cugino)
Sig. Roberto Internò nato a Rende il 16.06.1961 (cugino)
Sig. Luigi D’Ambrosio nato a Cosenza il 30.11.1964
Sig.ra Michelina Mazzuca nata a Cosenza il 27.04.1963
Sig.ra Sandra Maria Pugliano nata a Bonifati (CS) il 16.01.1962
Sig.ra Antonella Raimondo nata a Cosenza il 11.06.1971
Sig. Gino Chiappetta nato a Rende (CS) il 25.06.1965
Sig.ra Valeria Bisciglia nata a Cosenza il 13.05.1970
Sig. Giorgio Cozza nato a San Giorgio Albanese il 18.07.1941;
Sig.ra Loredana Cava nata a Cosenza il 12.06.1973
Sig.ra Carmela Giuliano nata a Lecce il 02.02.1970
Sig.ra Anna Esposito nata a Cosenza il 10.01.1972
Sig.ra Emilia Guarascio nata a Rogliano (CS) il 17.06.1971
Sig. Franco Iovino nato a Cosenza il 28.09.1961
Sig.ra Stefania Libero nata a Cosenza il 30.01.1971
Sig.ra Teresa Libero nata a Cosenza il 30.01.1971
Sig.ra Teresa Lopez nata a Cosenza il 07.04.1970
Sig.ra Luisa Marsico nata a Cosenza il 15.11.1970
Sig. Antonio Mazzitelli nato a Cosenza il 23.01.1969
Sig.ra Carmela Parise nata a Cosenza il 18.02.1970
Sig. Attilio Perna nato a Cosenza il 09.03.1968
Sig.ra Maria Antonietta Perna nata a Cosenza il 09.08.1966
Sig.ra Rita Perna nata a Cosenza il 14.09.1965
Sig. Fernando Pinnarelli nato a Cosenza il 18.05.1970
Sig.ra Fabrizia Principe nata a Rende il 29.12.1969
Sig.ra Lidia Rovito nata a Cosenza il 25.06.1944
Sig.ra Paola Ruffolo nata a Cosenza il 18.11.1971
Sig. Lucio Spagnolo nato a Cosenza il 16.12.1966
Familiari, amici e conoscenti di Donato Bergamini
Sig.ra Donata Bergamini nata ad Argenta (FE) il 01.06.1961 (sorella)
Sig.ra Maria Zerbini nata ad Argenta il 03.12.40 (mamma)
Sig.ra Roberta Alleati nata a Faenza il 05.12.1966 (presunta fidanzata)
Sig. Bruno Carpeggiani nato a Cento (FE) il 27.10.1942 (procuratore di Bergamini)
Sig. Andrea Toschi nato a Ferrara il 17.08.1944 (avvocato parte civile nel 1992)
Sig.ra Tiziana Rota nata a Milano il 23.08.1961 (moglie di Maurizio Lucchetti)
Sig.ra Amelia Bargone nata a Cosenza il 26.05.1969
Sig.ra Donatella Borea nata a Ferrara il 04.10.1962
Sig. Ievdo Braccioli nato a Ferrara il 07.12.1944
Sig.ra Anna Maria Brogno nata a Cosenza il 14.08.1964
Sig. Ravio Capparelli nato a Malvito il 27.01.50
Sig.ra Carla Crispino nata a Cosenza il 19.01.1971
Sig.ra Lucia Cuccaro nata a Poppi il 04.10.1967
Sig.ra Graziella De Bonis nata a Rende (CS) il 11.10.1972
Sig. Concetta De Luca nata a Cosenza il 25.03.1958
Sig.ra Giuliana Dima nata a Luzzi il 21.01.1947
Sig.ra Rossella Fischetti nata a Cosenza il 26.01.1964
Sig.ra Antonella Fregnani nata a Ferrara il 27.01.1968
Sig. Massimo Fregnani nato a Portomaggiore il 19.10.1957
Sig.ra Angelina Fusinato nata a Cosenza il 06.04.1964
Sig.ra Maria Gallo nata a Cosenza il 04.04.1967
Sig.ra Francesca Mirabelli nata a Cosenza il 21.11.1973
Sig. Michele Mirabelli nato a Cosenza il 27.05.1945
Sig.ra Fabiana Novelli nata a Comacchio (FE) il 17.10.1965
Sig.ra Arsenia Perri nata a Cosenza il 15.09.1965
Sig.ra Angelica Ranieri nata a Vibo Valentia il 18.04.1968
Sig. Roberta Sacchi nata a Pavia il 04.03.1963
Sig. Luca Simoni nato ad Argenta il 24.12.1963
Sig. Vincenzo Speziale nato a New Rochelle (Stato di New York) il 06.07.1965
Sig.ra Lorella Tagliani nata a Gattatico il 18.07.1959
Sig.ra Elena Tenzi nata a Cosenza il 13.04.1973
Sig.ra Emilia Tropea nata a Cosenza il 22.04.1953
Sig.ra Giuliana Tampieri nata ad Alfonsine (RA) il 11.11.1966
Collaboratori di giustizia o persone già vicine al crimine organizzato
Sig. Nicola Belmonte nato a Cosenza il 27.01.1961
Sig. Franco Garofalo nato a Cosenza il 04.10.1960
Sig. Franco Pino nato a Cosenza il 26.03.1952
Sig. Giuseppe Vitelli nato a Cosenza il 20.04.1960
Sig. Raffaele Mazzuca nato a Cosenza il 13.10.1958 (ex affiliato clan Perna)
Sig. Pietro Pugliese nato a Napoli il 01.07.1954 (ex camorrista)
Dipendenti del Garden che parleranno dell’uscita di Bergamini dal cinema.
Sig. Francesco D’Ippolito, nato a Cosenza il 29.06.1956 (proprietario)
Sig. Mario D’Ippolito nato a Cosenza il 18.04.1958 (proprietario)
Sig. Natale Ferraro a San Giorgio A. (CS) il 29.03.1933 (parcheggiatore)
Sig. Luigi Fiorito nato a Paola il 02.09.1951 (maschera)
Dipendenti del motel Agip che parleranno della telefonata fatta da Bergamini e di quella che, secondo Padovano, Denis avrebbe effettuato dalla sua stanza.
Sig. Giuseppe Bossio nato ad Amantea il 25.09.1962
Sig. Vincenzo Tucci nato a Cosenza il 27.07.1946
Sig. Roberto Tuscolano nato a Cosenza il 04.01.1946
Periti tecnici, consulenti di accusa e difesa, medici legali
Ing. Pasquale Coscarelli nato a Parenti il 26.04.1937 (perito tecnico del 1989)
Prof. Francesco Maria Avato, Dipartimento Scienze Biomediche e Terapie Avanzate Sez. Medicina Legale e delle Assicurazioni – Università degli Studi di Ferrara
Dott. Aldo Barbaro, Specialista in Medicina legale – Patologo Clinico
Dott.ssa Anna Maria Barbaro
Ten. Col. Andrea Berti, C.te Sez. Biologia – RIS Roma Arma dei Carabinieri
Prof. Dott. Giorgio Bolino, Professore presso l’Università La Sapienza di Roma
M.A. Alberto Carli, Comandante della Stazione dei Carabinieri di Argenta;
Prof. Ciro Di Nunzio, Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro
Prof. Vittorio Fineschi, Professore Ordinario di Medicina Legale presso l’Università “La Sapienza” di Roma
Prof.ssa Rosa Maria Gaudio, Direttore dell’Istituto di Medicina Legale di Ferrara, Responsabile della camera mortuaria della ASL di Ferrara;
Dott. Melchiorre Giganti, Dipartimento di Diagnostica per Immagini e di Medicina di Laboratorio – S.C. di Radiologia Diagnostica ed Interventistica Interaziendale;
Dott.ssa Liliana Innamorato, CTP Isabella Internò;
Mar. Vincenzo Emanuele Lotti, in servizio presso il Reparto Investigazioni Scientifiche CC di Messina;
Magg. Dott. Ing. Aldo Mattei, in servizio presso il Reparto Investigazioni Scientifiche CC di Messina;
Dott. Per. Ind. Francesco Miglino, CTP P.M. relativa all’analisi del foglio di registrazione estratto dal cronotachigrafo sull’autocarro di Raffaele Pisano;
Prof.ssa Margherita Neri Professore Associato di Medicina Legale in ruolo presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Ferrara;
Dott.ssa Maria Chiara Pieri, Chimico, Tossicologo Forense,
Prof. Pierantonio Ricci nato a Benevento Codice il 07.05.1953 e domiciliato in Benevento alla Via N. Sala n. 29;
Cap. Dott. Carlo Romano in servizio presso il Reparto Investigazioni Scientifiche CC di Messina;
M.llo Marco Santacroce, Analista di laboratorio RIS-ROMA Arma dei Carabinieri, Viale di Tor di Quinto n. 119;
Dott. Roberto Testi, Direttore della S.C. Medicina Legale Necroscopica e Consulenziale dell’ASL Torino 2 e della S.C. Medicina legale sociale;
Dott. Gianluca Tiesi, CTP Isabella Internò;
Prof.ssa Emanuela Turillazzi, Sezione di Medicina Legale, Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica, Università di Pisa;
Investigatori che hanno lavorato all’inchiesta del 2017 e a quella precedente
Assistente Capo P.D.S. Pasquale Pugliese della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari;
Ispettore P.D.S. Ornella Quintieri, P.G della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari;
Sov. Capo Coord. della P. di S. Giuseppe Mainieri nato a Castrovillari (Cs) il 10.07.1961 precedentemente presso Sez. PG Polizia – Procura Castrovillari;
Isp. Sup. SUPS della P. di S. Raffacle Merico– Sez. PG Polizia di Stato Procura Castrovillari;
Isp. Sup. SUPS della P. di S. Mario Miceli nato a Laino Borgo (Cs) il 02.04.1960 precedentemente in servizio presso Sez. PG Polizia di Stato – Procura Castrovillari
Isp. Sup. SUPS della P. di S. Franco Alpino nato a Lattarico (Cs) il 26.04 1963 precedentemente in servizio presso Sez. PG Polizia di Stato – Procura Castrovillari;
V. Isp. della P. di S. Massimo Vigna, Sez. PG Polizia di Stato – Procura di Castrovillari;
Ass. C. della P. di S. Barbara Scaldaferri, Sez. PG Polizia di Stato – Procura Castrovillari;
Tenente Colonnello CC Marcello Sciarappa – Vice Comandante della Stazione CC di RosetoCapo Spulico all’epoca dei fatti;
Antonio Pugliese nato a Valsinni (MT) il 17.08.1953 all’epoca dei fatti in servizio presso la Stazione CC di Roseto Capo Spulico;
V. Isp.re P. di S. Giuseppe Valvano in servizio presso Sezione Polizia Stradale di Siena, all’epoca dei fatti operatore della polizia stradale di Trebisacce
Tenente CC Vincenzo Pappalardo, all’epoca dei fatti in servizio presso Nucleo Investigativo Carabinieri Cosenza;
Luogotenente CC Leonardo Citino – Reparto Operativo – Nucleo Informativa Carabinieri Cosenza;
M.llo Magg. CC Roberto Redavid – Reparto Operativo – Nucleo Investigativo Carabinieri Cosenza 2;
M.llo Magg. CC Fabio Lupo – NORM- Aliquota Operativa CompagniaCarabinieri Rende;
Brig.re Luigi Canale – Aliquota operativa carabinieri Castrovillari
App. Sc. Qs. CC Giuseppe Greco – Stazione Carabinieri Rende;
M.llo Magg. CC Tommaso Vendola – NORM Sezione Operativa Cerignola (Fg);
M.llo Magg. CC Stefano Bruno Rachiele – Reparto Operativo – Nucleo Investigativo Carabinieri Cosenza 2^;
M.llo Magg. CC Paolo Caforio – Reparto Operativo-Nucleo Investigativo Carabinieri Cosenza I^ sezione;
M.llo Capo CC Nicola Carbone – Reparto Operativo – Nucleo Investigativo
Sig. Giovanni Anselmo nato a Cosenza il 04.09.1966 (consulente Procura)
Tifosi, giornalisti, poliziotti in pensione e altre testimonianze minori
Sig. Francesco Bisceglia “Padre Fedele” nato a Dipignano (CS) il 06.11.1937
Sig. Fabio Gigliotti nato a Colosimi il 22.10.1969
Sig. Riccardo Tucci nato a Cosenza il 28.09.1961
Sig. Roberto Arditi nato a Messina il 05.02.1960
Sig. Francesco Armenise nato a Cosenza il 29.06.1971
Sig.ra Antonietta Francesca Berardi nata a Rende (CS) il 01.04.1967
Sig.ra Annalisa Brandi Capurro nata a Genova il 01.10.1950
Sig. Antonio Carbone nato a Salerno il 14.01.1950
Sig. Gabriele Carchidi nato a Cosenza il 12.11.1965
Sig. Giuseppe Cazzato nato a Montalbano Jonico (MT) il 26.02.1960
Sig. Franco Chiappetta nato a Rende (CS) il 27.09.1966
Sig.ra Tiziana Decarlo nata a Vibo Valentia il 08.03.1970
Sig. Massimiliano De Pasquale nato a Cosenza il 24.10.1966
Sig. Alfredo Iuliano nato a Cosenza il 27.02.1949
Sig. Antonio Lanzaro nato ad Acquappesa il 10.04.1947
Sig. Gianfredo Lecci nato a San Gallo (Svizzera) il 04.04.1969
Sig. Carmine Madeo nato a Mandatoriccio il 30.08.1948
Sig.ra Ylenia Manfredi nata a Cosenza 06.06.1976
Sig. Giuseppe Milicchio nato a Cosenza il 29.10.1961
Sig. Norberto Pisani nato a Cosenza il 11.05.1952
Sig. Michele Renzo nato a Bocchigliero il 08.03.1952
Sig.ra Brunella Ricci nata a Cosenza il 22.02.1966
Sig.ra Paola Ricci nata a Cosenza il 19.06.1967
Sig. Giuseppe Rossi nato a San Pietro Apostolo il 10.06.1954
Sig. Francesco Sapone nato a Reggio Calabria il 23.07.1966
Sig.ra Maria Rosaria Spina nata a Cosenza il 22.01.1967
Sig. Antonio Spizzirri nato a Cosenza il 13.06.1965
Sig. Pietro Toscano nato a Cropalati il 06.12.1957
Avv. Daniela Biondi nata a Torino il 19.03.1973
Processo Bergamini, in aula proiettata l'ultima intervista del calciatore. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 26 Novembre 2021. La sua deposizione è durata quattro ore, ma ne serviranno almeno il doppio per completare l’opera. Ornella Quintieri, ispettore in forza alla pg del tribunale di Castrovillari, ha inaugurato ieri la sedia su cui transiteranno altri 229 testimoni del processo che mira a far luce sulla morte di Donato Bergamini, il calciatore del Cosenza investito da un camion il 18 novembre del 1989. Una vicenda che due inchieste giudiziarie, una avviata nell’immediato e l’altra più di recente, hanno inquadrato come suicidio o al più incidente, ma che oggi la terza si propone di riscrivere assegnandole una matrice molto diversa: quella dell’omicidio. Alla sbarra, com’è noto, c’è Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore che nel corso del tempo ha sempre riferito di aver visto il ragazzo lanciarsi volontariamente sotto le ruote del camion come «un tuffatore in piscina», ma che secondo la Procura è molto più della semplice testimone oculare di una tragedia: è l’istigatrice di un delitto mascherato da suicidio. Una macchinazione che l’allora diciannovenne studentessa di Ragioneria avrebbe ordito in concorso con alcuni suoi familiari, sfiorati dalle indagini ma non coinvolti nel processo. Quali familiari? E perché? Sarà la Quintieri a spiegarlo oggi in aula affiancata dal suo assistente Pasquale Pugliese. Le 1600 pagine della informativa su cui sono apposte in calce le loro firme si aprono infatti con una lunga introduzione sulla vita quotidiana della vittima, sulla sua permanenza a Cosenza nella squadra che lo aveva lanciato sulla ribalta del calcio professionistico, e soprattutto sul rapporto sentimentale che lo legava alla Internò, avviato nel 1985 e concluso pochi mesi prima della sua morte con in mezzo una gravidanza interrotta. Proprio l’aborto, risalente a due anni prima dei fatti di Roseto Capo Spulico, rappresenta per gli investigatori il cuore del problema, l’anticamera del delitto d’onore di cui sarebbe rimasto vittima il calciatore. Come la Procura sia giunta a tali conclusioni, sarà ancora il duo Quintieri-Pugliese a spiegarlo, ma per il momento il loro contributo si è limitato a dati di contesto: l’ultima intervista di Bergamini – quella in cui dice «Mi piace vivere» – peraltro visionata ieri in aula dai giudici della Corte d’assise; la gelosia di Isabella, «morbosa» secondo la tesi d’accusa e contrapposta a quella di Denis, presente ma non così ossessiva. E con la ragazza che per giunta «mirava sposare il calciatore, mentre i progetti futuri di Bergamini non includevano lei». Sarà davvero così? Saranno i testimoni a chiarirlo, alcuni più degli altri, con un occhio anche alla tempestività delle loro affermazioni. L’inchiesta ha prodotto una mole spaventosa di atti giudiziari, per lo più accertamenti risultati poi ininfluenti, come la pista di un secondo aborto di Isabella suggerita da un’amica di Denis, ora deceduta, rispetto alla quale gli inquirenti hanno cercato a lungo un riscontro. Per farlo, hanno passato al setaccio le cliniche e gli ospedali di tutt’Italia, isole comprese, ma senza costrutto. E non solo: è stata passata al vaglio anche la documentazione relativa ad altri due incidenti avvenuti sempre sulla Ss 106 jonica: il primo risale a qualche mese dopo quello di Bergamini e riguarda gli allora magazzinieri del Cosenza, Alfredo Rende e Mimmolino Corrente, deceduti nello scontro un camion; l’altro d’un paio d’anni successivo, tocca ancora in modo diretto la squadra rossoblù con la morte del centrocampista Massimiliano Catena. Anche in questo caso si è andati a lungo in cerca di un collegamento con queste vicende laddove, però, un collegamento vero non c’è. Esauriti i primi tre capitoli dell’informativa, ne restano altrettanti. Su quelli relazioneranno oggi i testimoni al loro ritorno in aula. Aspettando le conclusioni.
Margherita Montanari per corrieredibologna.corriere.it l'1 dicembre 2021. Non per schiacciamento, non per trascinamento, ma per soffocamento è morto Donato Denis Bergamini. Secondo quanto riportato nella terza udienza del processo dagli ispettori di polizia giudiziaria, l’ex calciatore del Cosenza, il 18 novembre 1989, è stato soffocato con un sacchetto di plastica messo in testa e poi trasportato oltre il perimetro della piazzola di sosta, sulla Statale 106, in posizione supina. Lì, un camion l’ha “parzialmente sormontato”, non investito. «È fuori dubbio, dall’esito delle prime tre udienze, che Denis Bergamini è stato barbaramente ucciso», le parole dell’avvocato Fabio Anselmo, che ha seguito la famiglia del giocatore di Argenta in questi anni.
Terza udienza
Con l’udienza del 30 novembre presso la Corte di Assise di Cosenza, può dirsi concluso l’esame del pubblico ministero Luca Primicerio, della procura di Castrovillari, nei confronti dei due teste di polizia giudiziaria - l’ispettrice capo di polizia Ornella Quintieri e il collega Pasquale Pugliese -, chiamati a deporre nel corso del procedimento che vede come imputata Isabella Internò. Un’indagine riaperta in seguito agli esiti degli esami medici condotti sul corpo riesumato del calciatore e che ora segue la pista del delitto passionale. A 32 anni di distanza dai fatti, l’ex fidanzata del centrocampista, è accusata di omicidio volontario. Il corposo lavoro d’indagine sulla morte del calciatore è confluito nelle prime due udienze. L’ispettrice di polizia giudiziaria Ornella Quintieri ha parlato della “gelosia ossessiva” di Internò, dei suoi piani di sposare il giocatore di Argenta, non corrisposti, e ha ricostruito le ultime ore di vita del giocatore. Bergamini viene descritto come un 27enne “a cui piace vivere”, desideroso in futuro “di giocare in serie A”, come dichiarato da lui stesso in un’intervista del a una tv locale, poco prima di morire. Elementi che stridono con l’ipotesi che potesse pensare al suicidio, come sempre sostenuto dall’ex fidanzata. A quanto disse Internò, Denis si sarebbe tuffato sotto un camion di passaggio sulla statale 106.
Soffocato con un sacchetto
Un dettaglio smentito dagli elementi presentati nella terza udienza. “Un’udienza di formidabile efficacia dal punto di vista ricostruttivo e probatorio di tutta la vicenda di Denis Bergamini - il commento di Anselmo, legale della famiglia Bergamini - Questi, uniti alle informazioni medicolegali, non danno spazio a nessuna versione alternativa. È emerso chiaramente che Denis Bergamini è stato ucciso. Se la responsabilità sia dell’imputata, questo lo chiariremo nella dialettica processuale”. La perizia del medico, nel 2017, “riscontrò una lesione addominale sul lato sinistro del corpo e nessun segno di trascinamento”. La causa della morte? Un “enfisema acuto, un decesso sopraggiunto per asfissia meccanica probabilmente cagionata con un sacchetto posto intorno al capo di Bergamini”. Insomma, “quel corpo parla, anche a distanza di anni”, come riferito in una conversazione telefonica intercettata tra una consulente della difesa e Luciano Conte, compagno di Isabella Internò. Parla e racconta di un delitto, come sempre sostenuto dalla famiglia di Denis, e in particolare dalla sorella Donata.
Il filmato Rai, i testimoni, la mercedes nera
Una marea di dettagli, voci di testimoni, video sono confluiti nel lavoro della pg. C’è anche un filmato della Rai, ripreso all’indomani della morte. «La visione del filmato grezzo della Rai ha dato contezza visiva dell’impossibilità fisica della ricostruzione operata dai primi pm seguendo la ricostruzione Internò-Pisano (il conducente del camion)», ha aggiunto Anselmo. A questo dettaglio, si sommano i racconti di chi si è trovavo suo malgrado sul posto della tragedia, nei pressi di Roseto di Capo Spulico. «Era presente un altro camionista che seguiva il mezzo condotto da Raffaele Pisano, un certo Francesco Forte - ha detto in aula l’ispettrice Quintieri – Pisano dice a Forte di non aver visto il giovane, che si trovava già per terra, ma Forte non gli crede, perché riscontra segni di urto nel mezzo. Nota poi nella piazzola una Mercedes nera parcheggiata, con due uomini fuori e una ragazza in lacrime, disperata. Poco dopo, la macchina è partita in direzione Cosenza». Potrebbe trattarsi dei complici di Internò, personaggi che potrebbero diventare la chiave di volta dell’indagine, ma mai rintracciati.
«Ti lascio il mio cuore ma non il mio corpo»
Altro testimone, un automobilista, Mario Panunzio, «fermato dalla Internò, che chiese un passaggio per poter telefonare perché il fidanzato si era suicidato». In un bar poco distante, la giovane chiamò due volte Luigi Simoni, allenatore del Cosenza, e una Ciccio Marino, compagno di squadra di Denis, per comunicare loro la morte di Bergamini. Raccontò che «Denis voleva smettere con il calcio e andare all’estero» e per questo «si è buttato sotto il camion». Una notizia che lasciò increduli tutti, anche Simoni, che «all’inizio pensava ad uno scherzo, visto che Isabella non stava più con Denis». Ma la giovane insistette su quella versione. «Mi disse ti lascio il mio cuore ma non il mio corpo», la frase che riportò al ds del Cosenza, Roberto Ranzani.
Denis Bergamini, il testimone: «Sbagliato processare Isabella». Il Quotidiano del Sud il 18 Dicembre 2021. A trentadue anni di distanza dalla morte di Denis Bergamini e con un nuovo processo in corso nei confronti dell’allora fidanzata Isabella Internò, arrivano ancora testimonianze sulle ore drammatiche del decesso. L’ultima è quella di uno dei primi automobilisti che giunsero sul luogo della statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico, dove sarebbe morto Bergamini. Una testimonianza affidata alla trasmissione televisiva “Quarto Grado”, in onda ieri sera su Rete 4: «Secondo me – ha affermato – stanno sbagliando a processarla. Isabella era disperatissima, mi si buttò proprio sulla macchina e disse che il fidanzato si era suicidato. Non ho visto altre persone, solo lei sa in cuore suo che cosa è realmente accaduto».
Processo Bergamini, parla la difesa di Isabella Internò. Un dramma di calcio e gelosia. La gelosia e il suo gran rifiuto al Parma tra i temi proposti in aula. Ma secondo gli investigatori «aveva una pistola puntata in testa». Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 17 Dicembre 2021. La gelosia di Donato Bergamini nei confronti di Isabella Internò. Un dato acquisito in modo quasi pacifico trentadue anni fa, ma che sparisce dai radar a partire dal 2011, quando si riaprono le indagini sulla morte del calciatore del Cosenza datata 18 novembre 1989.
Di questo e altro si è parlato ieri in Corte d’assise durante il processo che vede proprio la donna, oggi 52enne, sotto accusa per l’omicidio del suo fidanzato dell’epoca, ingranaggio di una cospirazione che all’epoca avrebbe determinato l’uccisione di Bergamini – soffocato con un cuscino, si ritiene – e poi l’esposizione del suo corpo al passaggio di un camion transito con l’obiettivo di simularne il suicidio.
A queste conclusioni, almeno, è giunta la Procura di Castrovillari attraverso indagini eseguite da due poliziotti della locale sezione di pg, Ornella Quintieri e Pasquale Pugliese, tornati ieri in tribunale per affrontare il controesame. Un momento importante giacché per la prima volta, dopo dieci anni di silenzio, la difesa della Internò ha potuto prendere la parola per cominciare a far valere le proprie ragioni.
Gelosia dicevamo, che unita al risentimento per la fine del loro rapporto avrebbe divorato l’allora ex fidanzata diciannovenne del calciatore; una gelosia «ossessiva», come l’hanno definita tanti compagni di squadra di Bergamini, che l’avrebbe determinata a trasformarsi in assassina. Che però il calciatore nato in provincia di Ferrara nutrisse un sentimento analogo nei confronti di quella studentessa cosentina di ragioneria, biondina e con i capelli a caschetto, è un dettaglio passato quasi in sordina.
Eppure, subito dopo la sua morte le testimonianze al riguardo erano pressoché univoche. Gli avvocati Rossana Cribari e Angelo Pugliese le hanno snocciolate tutte: da Claudio Lombardo a Michele Padovano, passando per Graziano Nocera e per l’allenatore Gigi Simoni, persino con l’aggiunta di Domizio Bergamini, il papà di Denis. Nei giorni successivi alla tragedia di Roseto Capo Spulico, infatti, tutti loro concordavano sul fatto che, malgrado si fossero lasciati da qualche mese, Donato fosse ancora molto preso da Isabella. Era stato lui a troncare il fidanzamento perché «non tollerava la relazione avuta dalla ragazza con un altro calciatore prima del suo arrivo a Cosenza».
Gelosia retrospettiva, insomma, che non era svanita neanche quando il diretto interessato, interpellato da Bergamini stesso, aveva di fatto ridimensionato le sue preoccupazioni. Denis parlava di questa storia un mese prima di morire e «diventava rosso, come paonazzo» (Padovano) e a luglio dello stesso anno, quattro mesi prima del suo presunto omicidio, aveva sul proprio comodino «una foto di Isabella». (Giuseppe Maltese).
Eppure voleva sposare un’altra – Roberta Alleati, una ragazza delle sue parti – e intratteneva rapporti con altre donne. Un tema solo sfiorato da Pugliese e Cribari, ma che dimostra quanto pesino in questa vicenda le testimonianze, tempestive e non, e come l’accertamento della loro genuinità sia uno dei principali compiti della Corte presieduta dal giudice Paola Lucente. Non a caso, le indagini hanno messo insieme una mole enorme di dati di contesto, ma indizi specifici a carico dell’imputata non sono emersi dalla narrazione dei due investigatori protrattasi per quattro lunghe udienze. Gran parte, se non tutta l’ipotesi d’accusa si fonda sulla nuova perizia che nel 2017 ha riproposto il tema di un Bergamini morto per asfissia meccanica, ammantando tali conclusioni di «certezze tecniche», ma di questo si parlerà più avanti quando in aula sfileranno i tanti medici legali che in trent’anni hanno detto la loro su questa vicenda. Il processo è appena cominciato e si annuncia lunghissimo.
Per il momento, la difesa ha puntato a far emergere altre contraddizioni della versione d’accusa, facendo accenno alle altre sentenze – l’assoluzione di Pisano, l’archiviazione del 2014 – che hanno assegnato al caso una verità in bilico tra l’incidente e il suicidio, con un focus particolare sulle dichiarazioni del supertestimone d’accusa Francesco Forte – definito dai suoi stessi parenti «un pallonaro» – e poi sulla scelta di Bergamini che, nell’estate del 1989, strappa il contratto appena sottoscritto con il Parma e decide di restare in Calabria.
«È rimasto giù per lei» convengono il suo ex compagno di squadra Luigi Simoni e il suo procuratore Bruno Carpeggiani, laddove per lei si intende Isabella, ma è una spiegazione alla quale non aderisce il pubblico ministero Luca Primicerio e neanche la parte civile rappresentata dall’avvocato Fabio Anselmo. Anche quest’ultimo ha esaminato i due testi – per Primicerio si è trattato invece di un riesame – e la circostanza più significativa emersa dalle sue domande riguarda un piccolo ematoma che alcuni testimoni sostengono di aver visto sulla tempia di Bergamini subito dopo la sua morte: rotondo, grande quanto una monetina.
Non vi è traccia di questa ferita nelle foto scattate dopo la prima riesumazione, cinquanta giorni dopo l’accaduto, ma l’ispettore Quintieri ci ha costruito su un ragionamento esposto ieri in aula: «Riteniamo possa essere il segno di una pistola che qualcuno gli aveva puntato in testa per minacciarlo». Prossima udienza il 10 gennaio e poi il 13 e 14 dello stesso mese. Si procederà a un ritmo di quattro testimoni per volta fino a esaurimento. In totale sono più di duecento.
Bergamini, 20 anni di omertà: Denis, l’uomo in più di Gianni Di Marzio. Da Iacchite il 30 Ottobre 2021. Spesso, dovendo trattare della drammatica vicenda del suo omicidio, trascuriamo di ricordare non tanto a noi cosentini quanto al resto dell’Italia chi era il calciatore Denis Bergamini e la sua carriera con la maglia del Cosenza. Dovrebbero ricordarlo soprattutto quegli scribacchini venduti ai suoi assassini che ancora continuano a sostenere senza un minimo di pudore e di vergogna la tesi del suicidio. Di seguito, il campionato più bello di Denis in maglia rossoblù e la testimonianza di Gianni Di Marzio. Tutto il resto è miseria umana.
IL CAMPIONATO DELLA CONSACRAZIONE
Gianni Di Marzio sa già di avere a disposizione una buona rosa per provare l’impresa attesa da quasi un quarto di secolo ma chiede ancora uno sforzo alla società. Urban decide di restare, Rocca viene sostituito da un’altra vecchia lenza come Renzo Castagnini, reduce dalla promozione in Serie B con il Barletta, che Di Marzio aveva già avuto con se a Catania mentre il posto di Messina viene preso da Maurizio Lucchetti, un talentuoso centravanti di manovra garantito da Ranzani. Serve anche un libero e in questo caso Di Marzio va sul sicuro convincendo Maurizio Giovanelli, un’altra sua vecchia conoscenza dai tempi di Catania. E per non lasciare nulla al caso, arriva anche un altro rinforzo per il centrocampo: Gigi De Rosa, proveniente dal Pescara.
Il Cosenza è tra le superfavorite del torneo. I nuovi arrivi vanno a completare un’ossatura già collaudata con i ragazzi portati in rossoblu da Ranzani: Simoni, Lombardo, Bergamini, Galeazzi e Padovano. Ai quali si aggiungono l’ormai inamovibile Ciccio Marino, Giansanti e Schio.
Quella squadra riuscirà a compiere l’impresa ma non senza patemi d’animo.
Le sconfitte iniziali di Foggia e Reggio Calabria provocano parecchi malumori ma Di Marzio tiene duro, motiva la squadra e ne esalta le sue capacità. E’ un gruppo che prende pochissimi gol ma che non segna molto. Tante le partite, dentro e fuori, che finiranno zero a zero.
Il vulcanico tecnico napoletano è restio a schierare sempre il “tridente” formato da Lucchetti, Urban e Padovano perché teme per la tenuta del centrocampo e della difesa e allora spesso e volentieri Padovano finisce in panchina e in mezzo al campo giocano sia Bergamini che De Rosa (come si vede nella foto in alto). In realtà, Di Marzio utilizza Denis anche come ala tattica (maglia numero sette) in alternativa a Galeazzi, che nelle prime giornate non trova molto spazio tra i titolari. Per tutto il girone d’andata “Berga” gioca per lo più con la maglia numero undici e qualche volta anche con la dieci.
Il 6 marzo, in un Cosenza-Reggina finito a reti inviolate ma pesantemente condizionato da un rigore non concesso ai Lupi per un plateale atterramento di Urban, Bergamini inizia a indossare la sua maglia numero otto, che non mollerà più dalla leggendaria vittoria di Salerno.
Sì, perché il campionato dei Lupi si sblocca proprio al “Vestuti” di Salerno dove un gol in contropiede di Padovano sancisce la svolta di tutto. La tifoseria fa il resto, colorando di rossoblu ogni quartiere della città e trascinando la squadra agli ultimi indispensabili successi. Da allora Bergamini non mollerà più quella maglia che diventerà il suo biglietto da visita.
Denis Bergamini è uno degli eroi della promozione. Le ragazze lo corteggiano, i ragazzi lo eleggono tra i loro idoli preferiti. “Berga” perde anche un po’ della sua timidezza e si convince sempre di più delle sue grandi qualità. E’ uno dei giocatori più presenti in quella squadra. Disputa 32 partite su 34. Di Marzio lo ritiene indispensabile per l’equilibrio tattico della squadra. Denis, come al solito, corre per chi fa il playmaker davanti alla difesa (in questo caso Castagnini, il capitano) e per consentire a Urban di fare il “fenomeno” lì davanti. Spende un sacco di energie ma non perde un contrasto e una sola occasione per ripartire.
IL RICORDO DI GIANNI DI MARZIO
(da www.denisbergamini.com)
Potrei raccontare tante cose di Denis, così come di tutti i ragazzi che allenai, ed a cui rimango ancora oggi profondamente affezionato.
Sono due gli episodi che mi colpirono di più. Uno, il primo, è un rammarico: senza colpevolizzare nessuno, ma per il mio modo di fare, di vedere il calcio, io ero uno di quelli che seguiva i suoi ragazzi metro per metro, giorno per giorno. Ed avevo un allenatore in seconda, Tonino Ferroni – peraltro, come Simoni, molto amico di Denis – che mi aiutava nel controllarli.
Non sono mai stato particolarmente ‘democratico’, in tal senso, nella gestione dei calciatori: anzi, ero abbastanza assolutista. Se entravamo in 20 al cinema, in 20 dovevamo uscire, e per questo sguinzagliavo Ferroni che mi sostituiva nel fare da ‘fratello maggiore’ ai ragazzi. Ecco perché, all’epoca, mi meravigliai moltissimo di come, Denis, quel giorno, abbandonò il cinema: lui non l’avrebbe mai fatto. Una cosa del genere non stava né in cielo né in terra.
L’altro momento che ricordo è legato ai funerali di Donato. A casa di Denis parlai con suo papà, Domizio: quando mi spiegò che l’orologio, anche a seguito dell’incidente, rimase intatto, oltre a tutto il resto, la prima cosa che gli proposi fu di chiedere un’autopsia. Andava fatta.
Denis, in ritiro, con Simoni, Ferroni e Padovano componeva il gruppo – anzi, il quartetto – degli inseparabili. Certo, con lui non avevo un rapporto vero e proprio di complicità, come poteva essere per mio figlio Gianluca, che, essendo più giovane, con lui faceva lunghe passeggiate.
Questo era Denis, un ragazzo semplice, sereno e gioviale. Certo, come calciatore mi faceva anche arrabbiare. Era discontinuo e talvolta mancava di intensità: e per questo io, per educarlo, lo spronavo di frequente. Lo incattivivo. Volevo che desse sempre il massimo in campo, e lui lo faceva. Infine volevo che migliorasse ancora, e ancora: ecco perché, alla fine, con me ha sempre giocato. Perché aveva splendide potenzialità. Ottime potenzialità.
Tanto che Denis potrebbe essere tranquillamente collocabile, oggi, nel calcio moderno. Personalmente, in lui rivedo una sorta di antesignano di Pavel Nedved. Ecco, Denis era il mio Nedved, anche perché io mi circondavo, soprattutto a centrocampo, di giocatori rapidi, scattanti, proprio come Bergamini. La sua rapidità, accoppiata a quella di Urban, alla capacità agonistica e temperamentale di Giovanelli e Castagnini, dava alla mediana una quantità ed una qualità inaudita. Oggi in tanti usano il 4-3-3: bene, nel ruolo di ala largo, a sinistra, in attacco, Denis si sarebbe perso, ma i ruoli di mezzala mancina nei 3, oppure esterno nel 4-2-3-1, sarebbero stati una vera e propria manna per lui, per le sue capacità, e per chi avrebbe potuto schierarlo.
Un pò Mertens, un pò Hamsik, per riferirsi al Napoli, ad esempio. Esplosività, rapidità, dedito agli inserimenti: Denis, in qualche modo, anticipò il calcio di oggi, in cui i giocatori come lui sono richiestissimi. E nel quale lui, Denis, sarebbe stato benissimo.
Gianni Di Marzio – Allenatore, opinionista e dirigente sportivo
Il caso Bergamini entra in aula, inizia il processo a Isabella Internò. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 24 ottobre 2021. Compagni di squadra, operatori di polizia, medici legali. E poi gli amici d’infanzia di Denis, quelli di Isabella nonché i rispettivi familiari con l’aggiunta di tifosi e giornalisti per un totale di 238 persone. Sono i testimoni convocati sulla scena del processo a carico di Isabella Internò che avrà inizio domani in Corte d’assise per verificare se il 18 novembre del 1989, l’allora calciatore del Cosenza, Donato Bergamini, sia rimasto vittima di una cospirazione finalizzata a a mascherare il suo omicidio con un tuffo volontario sotto a un camion in transito. Questa è la tesi che proporrà in aula la Procura di Castrovillari che, a fronte di una precedente inchiesta finita in archivio, ha ottenuto il rinvio a giudizio della Internò, all’epoca coinvolta in una tormentata relazione sentimentale con il calciatore. Riguardo ai testimoni che a partire dalla prossima udienza si alterneranno in aula è stata proprio la Procura a dettare numeri e tempi. La lista approntata dal pm Luca Primicerio ne include 208 e quella dei difensori dell’imputata, Angelo Pugliese e Rossana Cribari, segue la stessa scia con l’aggiunta di una trentina d’unità. Nell’elenco figurano quasi tutti gli ex membri della squadra di cui faceva parte lo sfortunato Bergamini e che sfiorò la promozione in serie A. Da Gigi Simoni a Michele Padovano, passando per Giorgio Venturin, Renzo Castagnini e Maurizio Lucchetti fino ad Antonio Schio, Alberto Urban e Sergio Galeazzi. Mancano i mister Bruno Giorgi e Luigi Simoni, entrambi deceduti (di Simoni sono presenti le dichiarazioni rilasciate agli investigatori), ma c’è Gianni Di Marzio. E poi dirigenti come Giovanni Pagliuso, Bonaventura La Macchia, Antonio Serra. Sul fronte dei medici legali, l’ufficio un tempo diretto da Eugenio Facciolla non ha ritenuto di inserire nella propria lista il professor Francesco Maria Avato, colui il quale eseguì la prima autopsia sul corpo di Denis a gennaio del 1990 e neanche Carmela Buonomo, ovvero l’anatomopatologa che più degli altri si è assunta la responsabilità di dire che Bergamini era già morto prima di essere investito, soffocato con un cuscino o un sacchetto di plastica, assegnando alle proprie conclusioni il sigillo della “certezza scientifica”. Sia Avato che la Buonomo saranno sentiti comunque in aula dato che figurano nell’elenco dei testimoni della difesa. Ci sarà invece Vittorio Fineschi, convocato un po’ a sorpresa ma tant’è: è considerato il “padre nobile” delle nuove tecniche d’indagine in tema di vitalità o meno delle lesioni. Consulente di fiducia dell’avvocato di parte civile Fabio Anselmo (insieme si sono occupati del caso Cucchi) si deve proprio a lui la riapertura delle indagini nel 2017. Non a caso, il suo parere scritto fu inteso come “fatto nuovo” in grado di giustificare la ripartenza dell’inchiesta. Di questo e altro si comincerà a parlare in occasione della prossima udienza, considerato che quella di domani, come da copione, sarà dedicata alla costituzione delle parti e alle questioni preliminari. Alla partita in aula, comunque, si affianca quella che si disputa all’esterno. Gli ultrà del Cosenza, infatti, hanno organizzato un presidio davanti al palazzo di giustizia per manifestare il proprio sostegno alla famiglia Bergamini.
Carlo Macrì per corriere.it il 25 ottobre 2021. Capelli biondo platino, camicia nera a pois, jeans. A sorpresa Isabella Internò, imputata di concorso in omicidio al processo per la morte del suo ex fidanzato, il calciatore del Cosenza Denis Bergamini, si è presentata in aula, arrivando da un’uscita secondaria. Nessuna dichiarazione da parte sua, così come nulla hanno detto i suoi avvocati. La prima udienza del processo è volata via tra eccezioni della difesa (respinte dalla Corte d’Assise di Cosenza) e l’acquisizione della lista dei testimoni, oltre 220. L’udienza di lunedì si è caratterizzata anche per una presa di posizione molto energica dell’avvocato della Internò nei confronti dell’avvocato di parte civile Fabio Anselmi, in passato difensore della sorella di Stefano Cucchi.
Vietate le telecamere e fotografi
Il penalista ferrarese è stato interrotto bruscamente dall’avvocato Pugliese, allorquando il legale dei Bergamini ha parlato di analogie tra il caso Bergamini e Cucchi. In particolare l’avvocato Anselmi ha evidenziato come una relazione del professor Masciocchi da lui commissionata per stabilire l’entità delle fratture subite da Stefano Cucchi, sia poi stata fatta propria dai pubblici ministeri titolari dell’indagine. Stessa cosa è avvenuta con la relazione del professor Nicolas Zenghero, sempre chiesta dall’avvocato Anselmi, per accertare le lesioni sul corpo di Denis e anche questa finita per essere fatta propria dalla procura di Castrovillari che ha riaperto il caso sulla morte del calciatore, dopo le insistenze dei familiari. Per decisioni della Corte le udienze del processo, che dovrà accertare la verità sulla morte di Bergamini, saranno vietate a telecamere e fotografi.
Uscita da una porta secondaria
L’imputata Internò lunedì non si è mai mossa dai banchi della prima fila, attorniata dai suoi legali. Anche alla fine dell’udienza l’ex fidanzata del giocatore ha lasciato l’aula allontanandosi da una porta secondaria e dribblando giornalisti e cineoperatori che hanno invano cercato di raggiungerla. La Internò è andata via in macchina coprendosi il volto con le mani. La prossima udienza è prevista per il 25 novembre. In questo processo la donna è l’unica imputata. Dopo la riesumazione del cadavere di Bergamini e le attività medico-scientifiche sul corpo, 31 anni dopo le perizie dei consulenti della procura hanno accertato che il calciatore è stato ucciso, probabilmente soffocato con una busta di plastica e poi «adagiato sull’asfalto a pancia in su». Non si è trattato quindi di suicidio (ascolta il podcast) come ha sempre sostenuto l’ex fidanzata. In questo processo è uscito di scena Raffaele Pisano, l’autista del camion che la sera del 18 novembre del 1989 raccontò di aver investito Denis perchè non era riuscito a frenare e di averlo trascinato «per una cinquantina di metri». Il camionista disse inoltre che quell’uomo si era buttato volontariamente sotto le ruote del mezzo.
Morte di Bergamini, al via il processo prime schermaglie tra accusa e difesa. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 25 ottobre 2021. È iniziato da pochi minuti il processo a carico di isabella Internò, accusata dell’omicidio del calciatore Donato Bergamini. La difesa ha riproposto alla corte d’assise una questione sollevata già in precedenza davanti ad altri giudici, ma senza successo: la nullità del decreto di riapertura delle indagini preliminari. Secondo l’avvocato Angelo Pugliese, infatti, l’inchiesta precedentemente archiviata fu riaperta nel 2017 con una consulenza affidata dall’allora procuratore Eugenio Facciolla al dottor Aldo Barbaro. Quest’ultimo, poi, certificò l’esistenza di nuove tecniche di medicina legale che suggerivano di procedere con la riesumazione del corpo di Denis. Per Pugliese si tratta di un atto d’indagine che precede la riapertura dell’inchiesta, quindi nullo.
«È solo un parere, non una consulenza» hanno obiettato il pm Luca Primicerio e poi il patrono di parte civile, Fabio Anselmo, ritenendo la questione «totalmente infondata».
La corte si è ritirata in camera di consiglio e dopo un quarto d’ora di valutazione è tornata in aula con il responso: obiezione rigettata, il processo va avanti.
Prime schermaglie in aula tra difesa e parte civile. Oggetto del contendere la lista dei testimoni difensivi dalla quale l’avvocato Anselmo avrebbe voluto escludere la dottoressa Carmela Buonomo, l’anatomopatologa che ha stabilito, a suo dire con certezza tecnica, che Denis Bergamini fu soffocato.
«È stata già sentita in incidente probatorio» ha obiettato Anselmo, evidenziando poi come il medico che guidava quel pool, Antonello Crisci, sia ormai defunto.
La parte civile ha fatto accenno poi a un altro processo, quello per la morte di Stefano Cucchi, scatenando la reazione dell’avvocato Pugliese.
Il presidente Paola Lucente ha riportato l’ordine, prima che il codifensore Rossana Crìbari polemizzasse con il pm: «Usa troppi toni di certezza, se siamo qui vuol dire che tutte queste certezze non ci sono».
Anche in questo caso la Lucente è intervenuta a stemperare gli animi, richiamando poi i colleghi della Corte in camera di consiglio. La decisione è arrivata in tempi più brevi: sono ammessi tutti i suoi testi della difesa, tranne, per ora, i periti già sentiti in incidente probatorio.
Il processo entrerà nel vivo il 25 novembre, data della prima udienza in cui saranno sentiti i testimoni. I primi a sfilare in aula saranno l’ispettore Ornella Quintieri e l’assistente Pasquale Pugliese, entrambi della polizia giudiziaria di Castrovillari e autori dell’informativa su cui poggia l’inchiesta.
Seguirà un fitto calendario di udienze: il 26 e il 30 novembre, il 14 dicembre, poi il 10, 13 e 14 gennaio. Cinque addirittura le udienze in programma a febbraio. Da sentire infatti ci sono oltre duecento testimoni. E la volontà della corte sembra quella di procedere spediti.
Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 21 settembre 2021. Isabella Internò, 52 anni, ex fidanzata del calciatore del Cosenza Denis Bergamini, trovato senza vita sotto un camion lungo la statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico, la sera del 18 novembre del 1989, sarà giudicata dalla Corte d'Assise di Cosenza per concorso in omicidio volontario pluriaggravato. È questa la decisione del giudice dell'udienza preliminare Lelio Festa che ha rinviato a giudizio la donna. Cade così, dopo 32 anni, la tesi del suicidio che la stessa Isabella Internò ha sempre sostenuto, affermando che Denis Bergamini si sarebbe lanciato sotto il camion dopo che i due avevano avuto un litigio. La prima udienza è stata fissata per il prossimo 25 ottobre. «La famiglia di Denis ha vinto una battaglia dura e piena di trappole. Tutte le nostre richieste sono state accolte», afferma l'avvocato Fabio Anselmo, legale dei Bergamini. Il penalista non nasconde la sua soddisfazione, ma va giù duro, accusando il procuratore di Castrovillari Abbate che, all'epoca della morte di Bergamini, era titolare del fascicolo d'indagine. «Abbate ha falsamente accertato sul corpo di Bergamini una pluralità di lesioni che i periti che si sono succeduti in questa indagine non hanno mai riscontrato, facendo così intendere che il calciatore era stato investito da un camion» ha spiegato Anselmo. La riapertura del caso, nel 2011, con una perizia del Ris di Messina ha, in effetti, avvalorato l'ipotesi secondo la quale Denis Bergamini sarebbe morto già prima di venire travolto dal camion. Il gip, però, nel 2014 ritenne insufficienti gli indizi chiedendo, e ottenendo, l'archiviazione del caso. Donata Bergamini, sorella del calciatore, non ha mai creduto all'ipotesi dell'incidente stradale e ha continuato a lottare affinché si giungesse alla verità. Così, nel 2017 con nuove argomentazioni, riuscì a convincere l'allora procuratore della Repubblica di Castrovillari Eugenio Facciolla a far riaprire il caso sulla morte del fratello. La salma di Bergamini fu riesumata. E la perizia disposta dal magistrato certificò, ancora una volta, che la morte del calciatore era avvenuta per soffocamento. La certezza la diede l'esame della glicoforina attraverso la quale è possibile stabilire se una ferita è stata provocata a una persona in vita oppure dopo la morte. Nel caso Bergamini i periti stabilirono che le lesioni sul corpo, provocate dalla ruota del camion che gli passò sopra, erano successive al decesso. La nuova indagine del sostituto procuratore Luca Primicerio accertò che Denis Bergamini prima di essere buttato sull'asfalto era stato soffocato, probabilmente con una busta di plastica. Nella relazione firmata dai professori Antonello Crisci, Carmela Buonomo e Maria Pieri, è descritto in modo netto che solo la parte sinistra dell'addome di Bergamini è «scoppiata» sotto il peso della ruota destra del camion. Poi il mezzo è come se avesse fatto retromarcia, lasciando intatte le altre parti del corpo: testa, arti superiori e inferiori. I vestiti addirittura erano intatti, l'orologio integro e i calzini ben tirati sul polpaccio. L'autista del mezzo pesante Raffaele Pisano, finito sotto processo, venne successivamente assolto da ogni accusa. Per la Procura Isabella Internò avrebbe attirato il fidanzato in una trappola, aiutata da qualcuno che lo soffocò. Non sopportava la sua decisione di interrompere la relazione.
Denis Bergamini, l'ex fidanzata a processo per concorso in omicidio dopo 32 anni. Le Iene News il 21 settembre 2021. Il calciatore del Cosenza Donato "Denis" Bergamini è morto a 27 anni 18 novembre 1989. In un primo tempo si era pensato che si fosse suicidato buttandosi sotto un camion. Noi de Le Iene vi abbiamo parlato con una nostra inchiesta dei molti misteri di questo caso, che si riapre ora ufficialmente anche in Tribunale con il rinvio a giudizio dell’ex fidanzata Isabella. Prima udienza il 25 ottobre. Si riapre ufficialmente dopo 32 anni anche in Tribunale il caso della morte a 27 anni del calciatore del Cosenza Donato "Denis" Bergamini di cui vi abbiamo parlato nel servizio che vedete qui sopra. La sua ex fidanzata Isabella è stata appena rinviata a giudizio per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e da motivi futili in concorso con ignoti. Il processo comincerà il prossimo 25 ottobre. Secondo i pm "in concorso con altre persone rimaste ignote", avrebbe narcotizzato Denis prima di "asfissiarlo meccanicamente con uno strumento soft" e di "adagiarlo, già morto, sulla statale allo scopo di farlo investire da uno dei mezzi in transito". Sulla statale 106 poi "effettivamente veniva investito da un autocarro condotto da Raffaele Pisano". Pisano è il camionista già giudicato e assolto in passato dall'accusa di omicidio colposo. In un primo tempo si era pensato che il calciatore si fosse suicidato buttandosi sotto l’automezzo. L’inchiesta era stata riaperta sei anni fa dalla procura di Castrovillari (Cosenza). Archiviata la posizione del marito di Isabella, inizialmente indagato per favoreggiamento in relazione alle dichiarazioni della moglie. La famiglia di Denis si è sempre battuta credendo che si sia trattato di un omicidio. In prima linea c’è sempre stato papà Domizio Bergamini: è morto un anno fa e non potrà vedere questi nuovi sviluppi. Noi, come vedete qui sopra, abbiamo ricostruito cosa potrebbe essere successo quel 18 novembre 1989. Denis riceve due telefonate che lo inquietano. Quella sera, sempre secondo la prima ricostruzione, scompare dal cinema dove andava come abitudine prima di una partita. Con lui quel giorno nel cinema c’era dopo tanto tempo Isabella. Verrà trovato morto tre ore dopo. Secondo l’ex fidanzata il ragazzo le aveva detto di voler scappare dall’Italia e dal calcio. Sarebbe poi sceso dall’auto all’improvviso buttandosi sotto un camion. Anche il camionista dà la stessa versione. Il suo orologio però funziona ancora dopo la morte, nelle scarpe di Denis non ci sono segni del fango che ricopriva la strada, il volto è intatto. Tutte circostanze che sembrano incompatibili con l’incidente. I suoi vestiti, chiesti dalla famiglia, vengono bruciati, dicono. Mimmo Lino, ex dirigente del Cosenza, sorprende i familiari: “Ve li porto io i vestiti e vi racconto tutto”. Non ce la farà, viene ucciso anche lui assieme a un collega da un camion. Venticinque anni dopo la sorella Donata Bergamini riceve una telefonata: parla l’autista del camion che si trovava dietro a quello che avrebbe colpito Denis. Secondo il suo racconto l’altro camion si era fermato prima: Denis era già morto? Dall’altro lato della strada, dice, c’erano tre persone, tra cui una donna che urlava disperata. Poi l’uomo ritratterà quanto detto in questa telefonata. Familiari ed ex compagni avevano dubbi proprio sull’ex fidanzata Isabella, che sarebbe stata molto morbosa e che voleva a ogni costo tornare con lui. Compaiono anche le figure di due cugini che, se avessero saputo che Denis l’aveva lasciata, l’avrebbero ammazzato per il “disonore”. Si è arrivati così alla riesumazione del cadavere nel luglio 2017 e poi all’autopsia. Per l’avvocato Fabio Anselmo “c’è la certezza che si è trattato di omicidio”. Chi l’avrebbe ucciso? Abbiamo provato a chiederlo a Isabella, che non ha risposto.
Denis Bergamini, il gup di Castrovillari rinvia a giudizio l’ex fidanzata del calciatore per concorso in omicidio con premeditazione. La prima udienza del processo è stata fissata per il 25 ottobre prossimo. Isabella Internò è accusata di concorso in omicidio del calciatore del Cosenza aggravato dalla premeditazione e dai motivi futili. In aula non erano presenti né la Internò né la sorella di Bergamini, Donata. Nel corso dell’udienza, l'avvocato Angelo Pugliese, difensore di Isabella Internò, ha chiesto il non luogo a procedere per la propria assistita. Il Fatto Quotidiano il 20 settembre 2021. Dopo 32 anni si celebrerà un processo per la morte Donato “Denis” Bergamini, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989 sulla statale 106, nei pressi del Castello di Roseto Capo Spulico. Isabella Internò, l’ex fidanzata Bergamini, è stata rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio Isabella Internò. Lo ha deciso il gup di Castrovillari Fabio Lelio Festa accogliendo la richiesta del pm Luca Primicerio. La prima udienza del processo è stata fissata per il 25 ottobre prossimo. Isabella Internò è accusata di concorso in omicidio di Bergamini aggravato dalla premeditazione e dai motivi futili. In aula non erano presenti né la Internò né la sorella di Bergamini, Donata. Nel corso dell’udienza, l’avvocato Angelo Pugliese, difensore di Isabella Internò, nella sua arringa durata circa tre ore, ha illustrato le tesi della difesa chiedendo il non luogo a procedere per la propria assistita. La famiglia Bergamini era rappresentata dall’avvocato Fabio Anselmo. Secondo l’accusa il magistrato quella sera la donna “un appuntamento con Donato Bergamini” e, “in concorso con altre persone rimaste ignote, dopo averlo narcotizzato o, comunque ridotto né le capacità di difesa, né cagionava la morte”. Stando a una perizia del 2017 presentata nel corso di un incidente probatorio, infatti, la causa del decesso potrebbe essere un “soffocamento lento”. Forse è stata utilizzata una busta. Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia, il corpo, esamine o quasi, sarebbe stato posto sull’asfalto perché fosse investito. Cosa che è avvenuta. Bergamini, infatti, venne travolto da un tir in transito guidato da Raffaele Pisano, di Rosarno, che al termine dell’inchiesta non risulta indagato dalla Procura di Castrovillari. L’uomo, tra l’altro, era stato già processato e assolto dall’accusa di omicidio colposo. A Isabella Interno viene contestato pure l’aggravante della “premeditazione, nonché – si legge nel capo di imputazione – di aver agito con crudeltà e per motivi abietti e futili, rappresentati dalla decisione della vittima, non accettata, di aver posto fine al rapporto sentimentale”. Oltre all’autista del camion che ha investito Bergamini, esce dall’inchiesta il marito della donna che era indagato per favoreggiamento in relazione alle dichiarazioni fornite dalla moglie durante le indagini. Per anni, si è ipotizzato che Bergamini si fosse suicidato. Ipotesi alla quale la sorella Donata non ha mai creduto chiedendo a più riprese che venissero riaperte le indagini. L’ultima archiviazione risale al 2015 quando il giudice ha sottolineato “l’infondatezza della notizia di reato non essendovi alcuna prova della commissione da parte di alcuno del reato di omicidio”. Sempre il gip aveva ribadito “che non vi sia stato alcun delitto di omicidio e che la morte del Bergamini non sia ascrivibile alla condotta violenta di terze persone”. Motivando l’archiviazione, in sostanza, il giudice sei anni fa scrisse: “Ci troviamo di fronte ad una ipotesi di carenza degli elementi ‘idonei a sostenere l’accusa in giudizio’”. Nel 2017, l’ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, trasferito dal Csm al Tribunale civile di Potenza, riaprì l’inchiesta su richiesta della sorella del calciatore e dell’avvocato Fabio Anselmo. Il magistrato fece riesumare il corpo di Bergamini e dispose una perizia secondo cui il calciatore del Cosenza è morto “per soffocamento”.
Il caso aperto da 32 anni. Il giallo di Denis Bergamini, rinviata a giudizio per omicidio l’ex del calciatore: “Suicidio fu messinscena”. Vito Califano su Il Riformista il 20 Settembre 2021. Il caso di Donato Denis Bergamini a una svolta. A quasi 32 anni dalla tragedia è stata rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio Isabella Internò, ex fidanzata del calciatore del Cosenza trovato senza vita sulla Statale Jonica 106 davanti alle ruote di un camion. A deciderlo il gup di Castrovillari Fabio Lelio Festa che ha accolto la richiesta del pm Luca Primicerio. L’accusa è di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi. Il caso è stato riaperto quattro anni fa, il corpo riesumato. Un caso irrisolto e deviato da bugie, depistaggi, sparizioni di reperti. La superperizia stabilì che il calciatore morì per soffocamento. Internò oggi ha 52 anni. Il caso venne sempre derubricato come un suicidio. Una versione alla quale la famiglia del calciatore non ha mai creduto. Nel frattempo il padre del calciatore, Domizio, è morto. A occuparsi in prima persona del caso è stata la sorella dell’atleta, Donata. Era il 18 novembre 1989. Il corpo di Bergamini veniva ritrovato sulla Statale Jonica davanti alle ruote di un camion. La versione accreditata da testimoni e carabinieri era quella del suicidio: il calciatore si era lanciato sotto le ruote del mezzo ed era stato trascinato per 59 metri. I segni sul corpo della vittima però erano incompatibili con quella versione: i vestiti erano intatti, l’orologio da polso integro, le scarpe senza graffi e i calzini ben tirati sui polpacci. Niente ferite neanche sul volto dell’atleta. Nessun segno neanche sul camion. Che la dinamica non tornasse era evidente già dalla prima autopsia. La ricostruzione di Internò ha destato perplessità dall’inizio. Era evidente più che altro uno “schiacciamento da sormontamento” su un fianco. Sparirono poi nel nulla una nota di servizio dei carabinieri sulle auto fermate quel 19 novembre sulla strada della tragedia e la scatola con i vestiti indossati da Bergamini. Mesi dopo la morte vennero recapitate al padre del calciatore le scarpe del figlio. Gliele consegnò il direttore sportivo del Cosenza, Roberto Ranzani, che le aveva ricevute da uno dei factotum della squadra con il messaggio che a fine campionato quel factotum gli avrebbe raccontato quello che sapeva sulla morte del figlio. Proprio dopo l’ultima gara di quella stagione i due factotum del Cosenza morirono in un incidente stradale sulla Statale Jonica, a pochi chilometri da dov’era stato trovato il corpo di Bergamini. L’ipotesi dell’accusa, a carico di Internò, è che la donna, che all’epoca aveva 19 anni, avrebbe voluto punire l’ex fidanzato per averla lasciata e che quella del suicidio sarebbe stata tutta una messinscena. Il calciatore sarebbe stato narcotizzato e soffocato. Il dibattimento stabilirà la verità processuale dopo 32 anni. La prima udienza del processo è stata fissata al prossimo 25 ottobre.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Caso Bergamini, un processo dopo 30 anni crea solo nuove vittime….L'ex fidanzata del calciatore del Cosenza, Denis Bergamini, è accusata di omicidio. Ma sono passati più di trent'anni e si rischia di creare una nuova vittima. Il Dubbio il 20 settembre 2021. C’è un data fissata per la prima udienza, è quella del prossimo 25 ottobre; e c’è una donna sul banco degli imputati: la signora Isabella Internò. Per il resto vaghiamo nel campo dell’ignoto, soprattutto se consideriamo che stiamo parlando di un delitto (presunto) avvenuto nel 1989, dunque più di trent’anni fa. Parliamo della morte di Donato Bergamini, il calciatore del Cosenza calcio morto in circostanze misteriose il 18 novembre del 1989 sulla strada statale 106 jonica, nei pressi di Roseto Capo Spulico (Cs). L’uomo fu travolto e ucciso da un mezzo pesante. Si parlò di suicidio o di tragico incidente ma la stampa e i familiari del calciatore hanno sempre rifiutato questa versione dei fatti. E a distanza di tanti anni, la Procura di Castrovillari ha accusato la donna, che allora aveva 19 anni ed era la fidanzata di Bergamini di aver organizzato l’omicidio perché il giovane calciatore voleva interrompere il loro rapporto. E così, sempre secondo la procura, la donna lo avrebbe narcotizzato e ucciso simulando un incidente. Ma sarà possibile, a distanza di tanti anni, imbastire un processo credibile? E non c’è piuttosto il rischio di creare una nuova vittima?
Il mistero dietro la morte di Bergamini: Per la Procura il calciatore fu soffocato. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 7 settembre 2021. La nuova perizia eseguita sul corpo di Bergamini è il punto di partenza dell’inchiesta, ma anche il suo punto d’arrivo. Con quell’accertamento, infatti, la Procura ritiene di aver dimostrato che il calciatore sia stato ucciso, soffocato con un cuscino o con un sacchetto di plastica. A tali conclusioni, dopo la riesumazione del cadavere, arriva un collegio formato dall’anatomopatologa Carmela Buonomo e dai due suoi colleghi – la dottoressa Maria Pieri e il professor Antonello Crisci – supportati, con ruoli marginali, dal tenente colonnello dei Ris, Andrea Berti, e dal maresciallo Marco Santacroce. La parola chiave è glicoforina, perché è in questa proteina contenuta nei globuli rossi che il pool ritiene di aver trovato la chiave dell’enigma. L’osservazione della glicoforina, infatti, ha la pretesa di rivelare se una lesione presente su un corpo sia stata inflitta a una persona già morta oppure ancora in vita. Il meccanismo è semplice, quasi banale: si applica la glicoforina su una ferita e se questa si colora di rosso, allora vuol dire che quella lesione è stata inflitta a un soggetto ancora in vita. Nel caso dello squarcio provocato dal camion sul corpo di Denis, questa reazione non c’è, quindi significa che era già morto – o “in limine vitae” – prima di essere investito. La glicoforina, invece, fa il suo dovere in un altro punto del corpo del calciatore, mostrando una microlesione all’altezza della laringe. I dati offerti dalla polvere magica si incrociano con l’osservazione dei tessuti polmonari repertati nel 1990, durante la prima autopsia eseguita da Avato. Si tratta degli stessi vetrini analizzati da Testi e Bolino in epoca più recente, durante la prima inchiesta guidata da Giacomantonio.
La svolta nella valutazione degli esami. Bene, le tracce di enfisema polmonare che per i precedenti medici legali potevano essere riconducibili alla putrefazione del cadavere – la prima autopsia fu eseguita 50 giorni dopo la morte del calciatore – per la Buonomo diventano solo i segni del soffocamento. Gli specialisti nominati dal gip Teresa Reggio consegnano la loro relazione il 15 novembre del 2017, ma con una chiosa in calce al documento: a tali conclusioni, avvertono, non è possibile attribuire alcuna «certezza tecnica». Sembra un replay della vecchia inchiesta, ma due settimane dopo il gruppo si presenta in aula per presentare il proprio lavoro durante l’incidente probatorio richiesto dal difensore della Internò, l’avvocato Angelo Pugliese. E in quella sede la musica cambia.
Il soffocamento diventa la causa “probabile” della morte. L’ipotesi del soffocamento, infatti, è descritto dalla Buonomo in termini di «alta probabilità» e la sua precisazione è interpretata così dal gip: «Quindi mi pare di aver capito che ha un dato di certezza scientifica?». La dottoressa risponde con un «certo» e poi un «sicuramente», richiamandosi più volte alla letteratura internazionale sul tema. «Quale letteratura?» la incalza Pugliese che già conosce la risposta. La cifra della glicoforina è uno studio pilota dal quale derivano poi due pubblicazioni su una rivista medica specializzata. «Rivista ad alto impatto» aggiunge Crisci, ma tant’è: l’esame consisteva nell’utilizzo di cadaveri esposti alla putrefazione per trenta giorni per consentire ai ricercatori di sperimentare poi le loro teorie sugli anticorpi in questione. Del resto, l’argomento era stato toccato tre anni prima anche da Testi e Bolino che avevano però scartato la glicoforina, ritenendo che la stessa andasse applicata su corpi freschi, deceduti al massimo da un paio di settimane, e non da più di trent’anni. Più in generale, i due luminari evidenziavano come gli studi sulla vitalità o meno delle lesioni fossero partiti all’inizio degli anni Novanta, ma da allora non avevano mai superato la soglia del livello sperimentale. Nel 2017, invece, in sole due settimane, la scienza sembra aver compiuto passi da gigante. Crisci evoca ancora i livelli «mondiali» e «internazionali» della glicoforina, a suo dire utilizzata da «tutti i medici legali e gli anatomopatologi che vogliono dimostrare un’asfissia o una vitalità». «Tutti?» osserva il gip Reggio. «Quelli di un certo livello» risponde il professore, purtroppo deceduto qualche mese più tardi poiché vittima di un presunto caso di malasanità. Alta probabilità o certezza scientifica? Per il giudice sembrano sinonimi, ma la questione resta appesa a questo dilemma. La Buonomo prova a ridimensionare la portata di quella frase dubitativa messa nero su bianco in fondo all’elaborato – nessuna certezza tecnica – e delinea il perimetro di una “piccola zona grigia” in cui confinare ogni perplessità, ma la Reggio continua a cercare un’interpretazione definitiva del suo pensiero: “Quindi mi pare di capire che noi possiamo dire con certezza assoluta che era già morto”, riflette il giudice.
“Morto per soffocamento”, ma mancano le tracce tipiche. A quel punto, la dottoressa chiude così la questione: “Io penso, lo penso e c’è un’alta probabilità. Ecco, lo penso e c’è un’alta probabilità. Lo penso e l’ho scritto insomma”. A suo avviso, dunque, Bergamini è stato soffocato con uno strumento che non ha lasciato tracce sul corpo, ma è sempre la letteratura medica a suggerire che, in caso di asfissia meccanica, soft o violenta, dovrebbero essere ben visibili altri segni, quelli determinati dalla reazione dell’organismo: la cianosi di labbra, unghie e piedi, un irrigidimento anomalo degli arti superiori e inferiori e piccole ecchimosi (le cosiddette petecchie) sparse per il corpo in particolare sulle palpebre.
Il “giallo” della digitopressione di Raimondi. C’erano questi segni sul corpo di Donato Bergamini? No a giudicare dalle foto dell’epoca e nulla rilevava in tal senso l’autopsia eseguita da Avato a gennaio del 1990. Niente del genere riferisce in proposito il dirigente del pronto soccorso di Trebisacce, Antonio Raimondi, convocato in obitorio la notte del 1989 per eseguire l’ispezione cadaverica. Il dottore opera una digitopressione sulla mano di Denis per stabilire sommariamente l’orario della morte, ma nella sua relazione non parla di cianosi, petecchie o irrigidimenti sospetti. C’è un problema però. Il 17 maggio del 2017 la polizia giudiziaria sente Raimondi a sommarie informazioni e il medico nega di aver eseguito quell’esame nonostante lo stesso si fosse svolto davanti al pm Ottavio Abbate, a tre marescialli e a un brigadiere. «Non è il mio modo di esprimermi – spiega rileggendo la relazione dell’epoca a sua firma – I termini utilizzati nel parere sono tecnici specifici di chi si occupa di esami autoptici, non di mia competenza. Inoltre non ho effettuato alcun esame tipo digitopressione sul cadavere, feci solo un esame visivo peraltro molto veloce”. Quella notte a ispezionare il cadavere di Denis è anche il pm Abbate che dopo essersi infilato un paio di guanti, gli scopre le braccia in cerca di punture da siringhe per escludere da parte sua l’assunzione di qualche droga. Non trova nulla di tutto questo.
I perché della morte di Bergamini: L'aborto come movente e il ruolo della famiglia Internò. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud l'8 settembre 2021. ISABELLA Internò non può aver fatto tutto da sola, ma “deve aver cercato l’aiuto e l’appoggio della sua famiglia”. La polizia giudiziaria si esprime in questi termini: “deve” aver agito così perché un’altra spiegazione non c’è. L’unica possibile è quella che rimanda all’esistenza di una vera e propria famiglia diabolica: la sua. Facciolla, com’è noto, ha lasciato Castrovillari per motivi disciplinari prima della conclusione delle indagini preliminari. A chiudere il fascicolo è stato poi il pm Luca Primicerio che ha chiesto il rinvio a giudizio della sola Internò, ma è lecito ritenere che le intenzioni di partenza fossero differenti.
Isabella l’ispiratrice, ma chi sarebbero stati gli esecutori?
Non a caso, la ricostruzione dei fatti cristallizzata nell’informativa, assegna a Isabella il ruolo di ispiratrice, ma soprattutto di “esca” – avrebbe cioè attirato Bergamini nella trappola mortale di Roseto – tuttavia, sia l’esecuzione che l’ideazione dell’omicidio sarebbero toccate ad altri. A chi?
Per quanto riguarda i sicari, le attenzioni si sono concentrate sui fratelli Roberto e Pippo Internò, cugini della ragazza, a lungo intercettati e destinatari di due dei trojan utilizzati nel corso delle indagini, ma alla resa dei conti sia la pg che Primicerio hanno concordato sul fatto che non vi fosse il benché minimo motivo per chiederne l’incriminazione.
I genitori di Isabella possibili mandanti?
Il discorso cambia per i mandanti. È possibile, infatti, che l’intenzione iniziale fosse quella di chiedere anche il rinvio a giudizio della mamma di Isabella, Concetta Tenuta, e non del padre, Franco Internò, ma solo perché lo stesso è deceduto alcuni anni fa. Pur non essendosi tradotta in un’incriminazione, l’idea è che siano stati loro ad aver decretato la morte di Bergamini per cancellare l’onta dell’offesa subita due anni prima. La vicenda è quella ormai arcinota dell’aborto affrontato da Isabella a luglio del 1987. Era rimasta incinta del calciatore, ma non volle tenere il bambino interrompendo la gravidanza in una clinica di Londra nella quale si era recata in compagnia di Denis e di nascosto dai propri genitori. Il papà e la mamma, dunque, sarebbero rimasti all’oscuro di quanto accaduto fino a una settimana prima del 18 novembre fatale. Perché proprio una settimana? Gli investigatori non lo spiegano, ma è in quel frangente che secondo loro Isabella si sarebbe determinata a punire l’uomo che ai suoi occhi era colpevole di aver interrotto la loro relazione sentimentale. E così avrebbe confidato a Franco e Concetta quanto avvenuto due anni prima in Inghilterra, scaricando la responsabilità sull’ex fidanzato. A quel punto i due coniugi avrebbero maturato la decisione di ucciderlo predisponendo anche un piano d’azione: Isabella lo convince a partecipare a un incontro chiarificatore con i familiari e quel sabato, l’atleta abbandona il cinema “Garden”, dove si trova insieme ai compagni di squadra, per andare incontro al proprio destino inconsapevole di ciò che l’attende di lì a poco. Neanche Facciolla e i suoi riescono a dare una spiegazione del perché abbia accettato di recarsi a un appuntamento in un posto così inquietante – una piazzola buia e sterrata a cento chilometri da casa – ma ritengono di avere le idee chiare su ciò che sia accaduto in seguito: Denis e Isabella aspettano per quasi due ore l’arrivo dei loro interlocutori, ma alla fine a piombare sul posto sono solo gli assassini, che dopo averlo ucciso con la tecnica giù illustrata, approntano la messinscena del suicidio. Una ricostruzione serrata che occupa le ultime venti pagine dell’informativa, ma con quali indizi a supporto? Cosa spinge gli investigatori a dare per possibile, se non per certo, il coinvolgimento dei coniugi Internò?
Il coinvolgimento dei genitori di Isabella. Riguardo a Concetta Tenuta, sono state rispolverate le dichiarazioni da lei rese nel 2012 a Giacomantonio, nell’ambito della precedente inchiesta. In quella circostanza, la donna minimizza il rapporto sentimentale tra Isabella e Bergamini, definendolo “una cosa tra ragazzi”. Bergamini, a suo dire, non frequentava abitualmente la loro abitazione e lei non ha mai pensato che quella relazione si sarebbe trasformata in qualcosa di più duraturo, data anche la giovane età della figlia. Secondo i nuovi inquirenti, nel rilasciare quelle dichiarazioni ai loro predecessori, la donna mente su tutta la linea. Interpellate sul punto, infatti, alcune amiche dell’epoca di Isabella riferiscono che sua mamma era solita vantarsi del fidanzamento di Isa con il calciatore famoso, e che lo stesso Bergamini era stato ospite in un pranzo organizzato a Fuscaldo nella loro casa al mare. Tutto ciò, dunque, fa di lei una bugiarda e la rende partecipe della cospirazione. Riguardo al padre, invece, si è pensato di valorizzare un interrogatorio più recente di Roberto Internò. I fatti da lui raccontati sono relativi al funerale di Bergamini: “Zio Franco – il papà di Isabella, ndr – chiese a mio fratello e ad altri nostri cugini di accompagnare la figlia in chiesa perché temeva fosse insultata o aggredita da qualcuno. E dato che non aveva figli maschi, si rivolse ai nipoti”. Questo particolare, per il pool investigativo, è rivelatorio della personalità di Franco Internò, descritto come un patriarca in grado di muovere un ipotetico braccio militare della famiglia a difesa di sua figlia e ritenuto quindi altrettanto capace di mobilitarlo in chiave offensiva. Marito e moglie, infine, avrebbero mostrato ulteriori segni di colpevolezza in virtù della condotta da loro tenuta la sera della tragedia. Una volta appresa la notizia della morte di Denis, infatti, avrebbero aspettato circa un’ora prima di partire alla volta di Roseto dove li attendeva Isabella. Perché? Sul punto, la polizia giudiziaria si pone la domanda e si dà subito una risposta: “Perché hanno atteso il ritorno a Cosenza degli assassini”. Alla fine Primicerio non se l’è sentita di chiedere il rinvio a giudizio di Concetta Tenuta sulla scorta di questi elementi, ma seppur non coinvolta formalmente, il ruolo della donna e quello del defunto marito restano centrali nella ricostruzione dei fatti proposta dalla Procura di Castrovillari. Sapevano di quella gravidanza interrotta come teorizza Facciolla? Nel già citato interrogatorio del 2012, i carabinieri mettono la mamma di Isabella a conoscenza di quell’aborto affrontato dalla figlia venticinque anni prima e, in coda al verbale, danno atto di come nell’apprendere la notizia la Tenuta si mostri “emotivamente scossa”.
Il giallo dietro la morte di Bergamini: Le verità del nuovo supertestimone. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 9 settembre 2021. C’è un altro uomo che il 18 novembre 1989 avvista Bergamini sul fazzoletto di strada che in seguito diventerà la sua tomba. Si chiama Berardino Rinaldi e fa il rappresentante di commercio. Ciò che ha da dire al riguardo, lo qualifica come supertestimone di questa nuova inchiesta. Quel pomeriggio è diretto dalla sua Amendolara a Rocca Imperiale per un appuntamento finalizzato alla vendita di un elettrodomestico. Procede sulla Ss 106 in direzione nord e, all’altezza del km 401, nota come la corsia opposta alla sua sia occupata da un giovane dai capelli biondi e con indosso un giubbino color marrone bruciato che si sbraccia come a voler fermare le auto in transito. In seguito preciserà: “come a voler chiedere aiuto”. Si accorge pure della presenza di un’auto ferma nella piazzola che, nei suoi ricordi, “è di colore scuro”. Nell’abitacolo avvista un’ombra sul sedile del passeggero: non c’è dubbio che si tratti della Maserati di Denis e che all’interno vi sia Isabella. Il testimone descrive questa scena: mentre Bergamini è in mezzo alla strada, una Golf di colore bianco lo schiva e invade l’altra corsia, salvo poi rientrare rapidamente in quella di marcia. Dopo aver affiancato e superato quello che ai suoi occhi è un incauto pedone, Rinaldi ne inquadra il volto nello specchietto retrovisore: si tratta proprio di Donato Bergamini. È la seconda persona che quella sera vede il calciatore muoversi pericolosamente – e da solo – sulla carreggiata correndo il rischio di farsi investire tant’è che la sera stessa, di ritorno a casa, Rinaldi attribuirà proprio a questo possibile epilogo la lunga coda di veicoli formatasi sulla Statale, che lui evita imboccando una scorciatoia. Si tratta di un avvistamento precedente a quello operato da Rocco Napoli dato che, secondo il testimone, Bergamini indossava la giacca di renna che invece non aveva al momento di essere investito. Come mai impiega tutto questo tempo prima di irrompere sulla scena? Al riguardo, il diretto interessato sostiene di aver contattato “molti anni prima” – non ricorda quanti – la trasmissione tv “Chi l’ha visto” e di aver raccontato loro la sua storia. Nessuno però sente il bisogno di ricontattarlo almeno fino al 2017 quando a casa sua, ormai inaspettata, arriva la telefonata della polizia giudiziaria. Stranezze a parte, per la Procura rappresenta un problema. Il suo racconto, infatti, associato a quello di Napoli, sembra confermare che al km 401 della Statale 106, quella sera ci sono solo Bergamini, Isabella e una strada trafficata con auto che vanno e vengono in entrambe le direzioni. Gli investigatori contattano la ditta per conto della quale lavora all’epoca Berardino, vogliono capire se è vero che quel 18 novembre andava a Rocca Imperiale per piazzare un robot da cucina. Non trovano riscontri, ma poi riescono a individuare gli acquirenti, due anziani coniugi che confermano: sì, è tutto vero. Alla fine, il senso che gli investigatori decidono di dare alla sua testimonianza è questo: quel giorno, Berardino vede Denis che cerca di fermare le auto in transito perché vuole fuggire da lì. È andato in quel luogo buio e lontano insieme a Isabella, ma a un certo punto fiuta l’inganno e cerca di mettersi in salvo. Non scaraventa Isabella fuori dall’abitacolo della Maserati per filare via a tutto gas, prova invece con l’autostop ma poi – per ragioni oscure – ci ripensa, torna nella piazzola e attende che il proprio destino si compia. L’aspetto singolare di questa ricostruzione è che sul posto non sono ancora arrivati gli assassini. L’omicidio di Bergamini sarebbe stato pianificato nei minimi particolari, ma nell’ora X le persone incaricate di eliminarlo non ci sono. Rinaldi colloca l’avvistamento tra le 16 e il 17 e certamente si sbaglia, dato che è proprio alle 16 che il calciatore parte dal cinema “Garden” e un’ora più tardi, giunto a Roseto, si ferma al posto di blocco del brigadiere Barbuscio. Verosimilmente, dunque, il venditore passa da lì dalle 17,30 in poi e dato che un’ora e mezza dopo si materializza Rocco Napoli – con il calciatore che si muove ancora in solitario sulla carreggiata – vuol dire che l’arrivo dei sicari deve essere successivo alle 19. Secondo la Procura, insomma, i cospiratori lasciano che la vittima designata attenda il loro arrivo per un paio d’ore e, una volta giunti sul posto, provvedono prima a narcotizzarlo e poi a soffocarlo con un cuscino; infine, approntano la messinscena dell’investimento. Quest’ultimo passaggio è tutt’altro che banale. Il corpo, infatti, è stato ritrovato a circa sessanta metri dalla piazzola che – va da sé – è l’unico posto in cui può essere avvenuto l’omicidio. Questo implica che chi ha ucciso Bergamini deve aver compiuto quel tragitto per adagiarlo sull’asfalto con il rischio, dunque, di essere avvistato anzitempo e veder sfumare il proprio piano. Non è l’unica obiezione stimolata da questa teoria. Come facevano, gli assassini, a essere così certi che il corpo sarebbe stato investito? È stato appurato che il Fiat Iveco di Pisano procedeva a 30/35 km orari. Il rosarnese avrebbe potuto fermarsi in tempo, oppure un automobilista proveniente dalla direzione opposta poteva scorgerlo e scendere a prestare soccorso. Qual era allora il piano di B rispetto a tali eventualità? Un progetto alternativo evidentemente non c’era, perché all’arrivo di Pisano – peraltro tallonato da un secondo camionista – sul posto ci sono solo Denis e Isabella e nel giro di pochi minuti, la scena si popolerà di decine e decine di persone. Insomma, per essere un omicidio premeditato, il suo successo sembra determinato anche da una buona dose di fortuna. E di improvvisazione.
La morte di Bergamini e i segreti delle amiche di Isabella: le sorelle Dodaro. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 10 settembre 2021. “Prima di uscire, chiese di andare in bagno per rinfrescarsi. Domandò se vi fosse un profumo che potesse usare”. Isabella Internò, l’ispiratrice dell’uccisione di Donato Bergamini, si sarebbe presentata così all’appuntamento con la sua vittima: fresca come una rosa. Sta accompagnando il calciatore in una trappola mortale, ma il suo pensiero principale, in attesa che lui passi a prenderla, è quello di farsi bella. Le sorelle Barbara e Carmela Dodaro sono l’altra vera grande novità di questa inchiesta. Le due donne, all’epoca poco più che ragazze, abitano nello stesso residence di via Adige a Rende in cui dimorano gli Internò. Isabella si trova a casa loro quando riceve la prima telefonata di Denis ed è proprio Barbara a commentare con lei quella richiesta d’appuntamento arrivata così all’improvviso. Da circa un anno Isabella e Bergamini non sono più fidanzati, ma lui continua ancora a cercarla, circostanza di cui le due sorelle sono informate perché da mesi l’amica si confida con loro. “In qualche occasione le dissi che forse sbagliava a concedersi così facilmente” ricorda Barbara che peraltro le ripete la stessa solfa il 18 novembre, dopo quella telefonata che annuncia l’arrivo del calciatore: “Le dissi di lasciar stare (…) di non farsi usare, ma lei aveva deciso di andare perché sperava in un ripensamento di Denis e in una ripresa del loro rapporto”. Eppure era stato proprio lui a chiudere la relazione, secondo Isabella “senza una valida ragione”. Si esprimeva così con le amiche e dava a Padovano la colpa delle sue pene d’amore. “Associava il suo allontanamento al fatto che fosse andato a vivere con lui (Padovano, ndr) il quale, a detta di Isabella, frequentava persone poco raccomandabili; mentre Denis, diceva, era una persona onesta, pulita, buona d’animo e integerrima. E quindi pensava si fosse allontanato da lei per proteggerla. Tali ragionamenti li faceva dopo che Bergamini aveva preso la Maserati”. Nei ricordi adolescenziali dell’amica, Isabella piangeva spesso quando affrontava questo argomento, ma poi Denis la contattava chiedendole di rivedersi e lei “non riusciva mai a dire di no”. Non dice di no neanche quel 18 novembre perché, come spiega lei stessa a Carmela – che al pari della sorella tenta di convincerla a disertare l’invito – “per abbandonare il ritiro, lui che è così ligio e scrupoloso, deve dirmi qualcosa d’importante o deve essere successo qualcosa di molto grave”. Così si spruzza il profumo dell’amica e va all’appuntamento che di lì a poco le sconvolgerà la vita. Prima, però, chiede a Carmela di accompagnarla giù in cortile, ad aspettare con lei l’arrivo dell’uomo sulla Maserati bianca. Il racconto delle due sorelle sembra stravolgere la narrazione che dal 2011 in poi si è fatta a proposito dei rapporti tra il calciatore e Isabella, con quest’ultima descritta come una persona ossessiva e morbosa, che tenta di appiccicarglisi addosso “come l’attack” mentre lui ormai sprezzante e distaccato, non vuole più sentire parlare di lei e anzi, in gran segreto, medita di sposare un’altra donna. A quanto pare, invece, il vero segreto di Denis era proprio quella relazione tormentata con la ragazza di Rende che lui ha lasciato, ma dalla quale pare non riesca a staccarsi. All’epoca, la sua famiglia d’origine, in Emilia, non sa nulla di questo strascico sentimentale perché – come ammette la sorella Donata nel lontano 1989 – Denis li tiene all’oscuro sulla sua vita affettiva dopo che, a causa di una fuga di notizie, suo papà Domizio è venuto a conoscenza dell’aborto di due anni prima. Le Dodaro, invece, raccolgono in presa diretta le confidenze dell’amica su quel tema specifico, e a distanza di trent’anni sono ancora in grado di riferirne fin nei minimi dettagli. Le ragioni di questa memoria a lungo termine le spiega ancora Carmela: “Dopo la tragedia in tanti venivano da me a chiedere cosa ne pensassi perché sapevano del rapporto che avevo con Isabella. Ho parlato tante volte di questa storia e quindi ho tenuto a mente tutti i particolari”. La Procura ribalta il loro racconto in chiave colpevolista. Secondo la lettura dei fatti che dà la pg, Barbara e Carmela Dodaro sono parte dell’alibi che Isabella Internò si è precostituita quel 18 novembre, il giorno della grande messinscena. L’assassina coinvolge le sue amiche con l’obiettivo di dimostrare che non è stata lei a imporre a Bergamini di uscire dalla sala del cinema per recarsi all’appuntamento fatale, ma che quell’incontro è frutto esclusivo della volontà del calciatore. In tal senso, Denis non ha mai fatto partire alcuna telefonata dal cinema “Garden”; l’unica l’ha ricevuta poco prima nella stanza del motel Agip, come riferisce Padovano dal 2011 in poi, ed è la chiamata con cui Isabella o chi per lei lo convoca per il meeting in quel di Roseto. Il fatto, però, è che quella telefonata dal cinema, Denis la fa per davvero. Anzi, ne fa due perché la prima va a vuoto – risponde la mamma di Isabella – e a entrambi i tentativi, operati a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro, assiste un testimone seduto nella hall. È il figlio dei proprietari, Francesco Tenuta, che lo racconta al cronista già nel 2013, ma viene ignorato sia dagli inquirenti dell’epoca che dai loro successori. La polizia giudiziaria va sì al cinema “Garden”, ma si limita a parlare con suo fratello, che quel 18 novembre si trova in ufficio al piano di sopra e non vede né sente niente di utile. Anche Barbara e Carmela Dodaro non trovano posto inizialmente nella vicenda giudiziaria. All’epoca dei fatti, Isabella fa solo un vago accenno a “un’amica” che aspetta con lei l’arrivo di Denis, ma ne parla solo in uno dei primi colloqui con i magistrati, poi anche lei – incredibilmente – dimentica di avere un alibi. Non ne fa accenno neanche dal 2011 al 2014 quando i suoi telefoni sono sotto controllo e, nel frattempo, in tv e sui giornali impazza la tesi secondo cui Bergamini non è mai andato a prenderla in via Adige, ma lo avrebbero prelevato dalla sala cinematografica le famose ombre intraviste dal suo compagno di squadra Sergio Galeazzi. Isabella non parla neanche allora della sua presenza a casa Dodaro. Non dice nulla neanche al suo avvocato. Eppure, se c’era un alibi, quello era il momento di tirarlo fuori.
Il giallo dietro la morte di Bergamini, la radiografia della famiglia Internò. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud l'11 settembre 2021. Il movente ipotizzato continua a essere quello passionale con in primo piano la storia dell’aborto, considerata come il prologo all’omicidio. Il che ci riporta agli Internò. È davvero la famiglia diabolica che tratteggia la Procura? Un ambiente attraversato da logiche arcaiche e codici d’onore distorti? Quelle che seguono sono tutte le informazioni raccolte al riguardo dai detective castrovillaresi. Franco Internò, suo padre, era un imbianchino, titolare di un’impresa con qualche dipendente al suo servizio. Un po’ tutti i testimoni lo descrivono come persona mite e riservata, “un gran lavoratore” che gli amici chiamano mastru Franchino ma che per i clienti è Pennellino d’oro, un omaggio alla sua abilità nel mestiere. Un’esistenza ordinaria la sua, segnata da un momento di difficoltà economica per l’insorgere del lavoro nero che, a detta dei più, manda in crisi la sua piccola impresa. Mastro Franchino non si adegua all’andazzo generale e finisce per soccombere davanti alla concorrenza. Servirà un po’ di tempo prima che i suoi affari si raddrizzino, ma la sua vita e quella del suo nucleo familiare continuano a scorrere tranquille. Casellario immacolato: mai una lite, una multa, una violazione collegata all’attività lavorativa. Nulla di nulla. Discorso analogo per sua moglie. Nel 1989 Concetta Tenuta non ha ancora compiuto quarant’anni. Bella, ma poco appariscente; curata ma senza necessità di ricorrere al parrucchiere, un po’ per austerity e un po’ “perché tanto i capelli le stanno sempre in piega”; Cettina – tutti la chiamano così – è mamma di due figlie poco più che maggiorenni con le quali, a detta di molti, ha un rapporto quasi alla pari, di complicità. Isabella poi gode di libertà che molte sue coetanee dell’epoca possono solo sognare. Ha già avuto un altro fidanzato prima di Denis e frequenta l’ambiente dei calciatori fin da quando aveva quindici anni. Alcuni video di quel periodo, allegati agli atti dell’inchiesta, la immortalano all’uscita di scuola – la Ragioneria di Rende – alla guida di una Fiat Panda mentre dà un passaggio fino a casa ad alcuni maschi della sua classe. Una ragazza emancipata, insomma, in un’epoca in cui era davvero difficile esserlo. A ben vedere, non è l’unica in famiglia. Sua mamma Concetta, infatti, ha anche un fratello e una sorella – Gianni Cervesato e Assunta Trezzi – che con ogni evidenza portano cognomi diversi dal suo. Negli anni Cinquanta, i genitori si lasciano dopo averla messa al mondo e la futura nonna di Isabella, Francesca Siciliano, conosce un altro uomo con il quale, di lì a poco avrà una seconda figlia. Anche questa relazione finisce e la donna ne avvia un’altra che le regalerà una terza gravidanza. Tre figli con tre uomini diversi, quasi una sfida alle convenzioni – quelle sì un po’ arretrate – della Calabria di settant’anni fa. Isabella chiama “zio” l’ultimo compagno di sua nonna, ma non trascura il suo nonno naturale che nel frattempo si è rifatto una vita e abita nel centro di Cosenza. Le giovani Internò frequentano tutti i loro parenti, anche quelli di secondo e terzo letto come una grande famiglia allargata. Anche la zia Assunta si distingue in tema di anticonformismo. È lei che aiuta Isabella ad abortire nonostante fosse già al quinto mese, dunque oltre il limite di tre previsto dalla legge. La Trezzi si attiva per reperire la clinica londinese in cui la ragazza si recherà in seguito, e riesce a trovarla grazie all’aiuto di esponenti del Partito radicale con i quali è in contatto. Nonna libertaria e zia pannelliana, quello degli Internò non sembra il piccolo mondo antico e crudele cucito su misura per loro dal 2013 in poi. Cos’è allora che dal 2013 in poi fa decollare questa pista? Due testimonianze in particolare: una è quella di Tiziana Rota – moglie del calciatore Maurizio Lucchetti – che afferma di aver parlato con Isabella pochi giorni prima della tragedia. “Lo voglio mio; deve essere mio. Piuttosto che sia di un’altra preferisco che muoia” le avrebbe detto la ragazza riferendosi a Denis, reo di aver interrotto la loro relazione. “Se lo sanno l’ammazzano” è il monito che sempre Isabella avrebbe rivolto all’amica, intimandole il silenzio al passaggio di due dei suoi cugini perché “Tizia’, tu non capisci, qui c’è l’onore, la famiglia. È diverso che al Nord”. Tutto questo la Rota lo riferisce nel 2013 e in un’intercettazione di qualche anno dopo aggiunge di aver pensato fin dal primo momento che Isabella avesse a che fare con l’omicidio di Denis. Nel 1990, però, sono proprio i coniugi Lucchetti, su iniziativa di Tiziana, a ospitare Isabella a Salerno, dove l’ex attaccante del Cosenza si è appena trasferito. Sono trascorsi pochi mesi dal dramma di Roseto, e con quell’invito, a detta di entrambi, vogliono regalare all’amica un periodo di svago per aiutarla a superare il trauma. Se erano già così convinti che fosse un’assassina, come mai le hanno aperto le porte della loro casa? C’è poi la conversazione che Donata Bergamini sostiene di aver avuto con Assunta Trezzi, nell’estate del 1987, poco dopo l’aborto di Isabella. La sorella di Denis parla con lei al telefono e la donna le rappresenta l’esigenza di tenere all’oscuro i genitori della nipote perché “al Sud la storia sarebbe stata recepita come un grave disonore”. Anche Donata racconta tutto questo nel 2013, ma di quella telefonata aveva parlato con i magistrati già a dicembre del 1989, circa due settimane dopo la morte di suo fratello, e nella sua prima versione dei fatti non faceva alcun accenno all’onore evocato dalla zia di Isabella, ma solo alla necessità, rappresentata dalla stessa, che la nipote “proseguisse gli studi”. È anche per queste ragioni che nel 2014, sia la Procura che il gip marginalizzano queste testimonianze, reputandole “tardive” e “suggestive”. Sette anni dopo, hanno riacquistato centralità nel teorema d’accusa.
Bergamini, lacrime e sangue a Roseto, il camionista e il dubbio 'ndrangheta. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 12 settembre 2021. Lacrime e sangue. Sull’asfalto di Roseto ci sono solo quelle. Il sangue è di Donato Bergamini, le lacrime che sgorgano copiose sono di Isabella Internò. Il primo che la vede in preda alla disperazione è Mario Panunzio, l’uomo che l’accompagnerà al bar a fare le telefonate, ma nei giorni successivi saranno decine e decine le persone che ne documentano lo choc emotivo in corso. Nel mezzo, c’è il passaggio al bar di Infantino, con la moglie del titolare che la porta in bagno su sua richiesta e mentre salgono le scale, nota che è scossa da un fremito nervoso. “Buttato… si è buttato… buttato”, ripete ossessivamente. Secondo la Procura sta dissimulando le sue emozioni più autentiche, perché già da una settimana ha pianificato l’omicidio del suo ex fidanzato e quella, quindi, è solo una recita. Nell’elenco dei testimoni c’è anche chi la descrive “fredda”, “distaccata”, non particolarmente scossa da quegli eventi. Si tratta di impressioni maturate ancora dal 2011 in poi giacché prima d’allora nessuno aveva rilevato in lei i segni della glacialità. Se l’atteggiamento di Isabella appare spontaneo, quello di Pisano non è da meno. Dopo aver tentato per anni di coinvolgerlo nella cospirazione, la Procura ha dovuto ammettere che è solo un camionista che passa di lì per caso, ma per lui parlano anche le reazioni emotive. Forte, il camionista che lo segue da vicino lo vede pochi secondi dopo l’investimento biascicare parole come “Non l’ho visto, non l’ho visto”. Poi parlando con Donata Bergamini gli mette in bocca anche un “Era già a terra, era già a terra!”, dichiarazioni che non conferma poi davanti a Giacomantonio. Lo farà tre anni più tardi davanti a Facciolla, ma torniamo a Pisano. “Trent’anni sulla strada e questo ragazzo proprio sotto alle mie ruote doveva buttarsi”. Quando arriva Panunzio, l’autista ha cambiato atteggiamento: non è più in stato catatonico, ma strepita e inveisce contro il cielo. Una mezzoretta più tardi, sul posto c’è l’ambulanza con due barellieri giunti per portar via il corpo del povero Bergamini. Uno di questi, Salvatore De Paola, nota un uomo che passeggia nervosamente nei pressi del cadavere. Si rivolge a lui, senza sapere che si tratta proprio del camionista, e indicando il morto sull’asfalto dice: “Poveretto questo ragazzo”. La reazione di Pisano è furiosa: “Poveretto io! Mi ha rovinato la vita!”. Confusione, sgomento e poi rabbia. L’escalation emotiva del rosarnese, nei minuti successivi alla tragedia, è tutta qui. Seguiranno anche per lui le lacrime con cui, un anno e mezzo più tardi, inonderà l’aula di tribunale durante il processo che lo vede imputato – e poi assolto – per omicidio colposo. Anche Isabella, manco a dirlo, singhiozzerà a tutto spiano intervenendo come testimone nell’udienza a lei dedicata, ma si tratta di dettagli. La Procura ne è certa: mente lei e mente pure il camionista. È vero che ha investito Bergamini per caso e che non è coinvolto nella cospirazione, ma si “allinea” alla versione della ragazza, quella secondo cui il calciatore si è tuffato volontariamente sotto al suo camion. Secondo la polizia giudiziaria lo fa per “convenienza”, perché ciò “avrebbe comportato per lui minori conseguenze rispetto, invece, a quel che si sarebbe verificato qualora avesse riferito la verità ovvero che il corpo si trovava già per terra (come lo stesso Pisano aveva rivelato a Francesco Forte qualche istante dopo l’investimento)”. Dell’atteggiamento ondivago di Forte abbiamo già riferito. Oscure, invece, sono le ragioni per cui Pisano avrebbe ritenuto opportuno omettere un particolare – quello del corpo già a terra – che lo avrebbe scagionato con effetto immediato. Il suo cruccio, in quelle ore, è quello di non perdere la patente di guida che gli dà sostentamento. Piuttosto che affrontare un processo per omicidio colposo, che in caso di condanna avrebbe avuto anche questa conseguenza per lui infausta, gli sarebbe convenuto molto di più dire di aver investito un uomo già morto. Invece ha sempre affermato di aver messo sotto una persona che poco prima si trovava in posizione eretta. Il sottocapitolo dell’informativa a lui dedicato si apre con una serie di note biografiche. Suo cognato Antonio Cimato, il fratello della moglie, è stato ucciso nel 1986 nell’ambito di una guerra tra le cosche della Piana di Gioia di Tauro. Lo stesso cognome Pisano – parallelo che sostiene di aver fatto all’epoca anche Franco Pino – rimanda alla ragione sociale di una potente famiglia di ‘ndrangheta del reggino collegata al clan Pesce. Raffaele è incensurato e non c’è alcun rapporto di parentela neanche alla lontana tra lui e quei Pisano lì, ma attenzione “è interessante notare” – la polizia giudiziaria scrive proprio così – come una figlia del boss omonimo dimori nella stessa via in cui risiede il camionista: lei sta al civico 59 e lui al 68.
Il mistero di Bergamini: l'ombra del calcioscommesse e il derby perso con il Catanzaro. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 13 settembre 2021. Che il calcio scommesse non c’entri nulla con la morte di Donato Bergamini, sembra chiaro già dal 1989, ma la stessa pista è battuta senza esito tra il 2011 e il 2014, all’epoca della prima inchiesta di Giacomantonio. Anche i suoi successori, però, vogliono togliersi lo scrupolo e consacrano al totonero una parte non trascurabile del loro sforzo investigativo. Non si tratta di una novità dal momento che, già trent’anni addietro, anche il pm Ottavio Abate si incammina in questa direzione stimolato da una lettera anonima – una delle tante fiorite in quel periodo – che azzarda un collegamento tra la morte di Denis le scommesse clandestine gestite dalla camorra. Abbate, dunque, prende carta e penna e il 6 dicembre del 1989 chiede alla Procura di Napoli se stia indagando o meno su vicende di totonero e se vi siano collegamenti con la squadra del Cosenza. Chiede risposte “urgenti” il pubblico ministero, e sarà accontentato. Sei giorni più tardi, sulla sua scrivania arriva un fascicolo della Criminalpol napoletana nel quale spicca dialogo fra due presunti camorristi, Sasà e Patrizio, che l’otto aprile precedente – si era di sabato – intercettati su una linea fissa commentano la domenica calcistica ormai alle porte. Sasà sostiene di avere “due risultati sicuri”: uno è la partita Brescia-Genoa, presente in schedina e terminata in pareggio; l’altro è riferito alla partita Catanzaro-Cosenza che, in seguito, finirà con la vittoria per 3 a 0 delle aquile giallorosse. L’intercettato non rivela al telefono i pronostici vincenti, ma sostiene di aver avuto l’imbeccata da “Giovanni Di Marzio”, l’allenatore che un anno prima ha trascinato il Cosenza dalla serie C alla B e che ora ha assunto la guida del Catanzaro a campionato in corso con l’obiettivo di raddrizzare una classifica deficitaria. Con riferimento a quell’intercettazione, il nome dell’allenatore sarà inserito in un rapporto giudiziario insieme a quelli di altre trentacinque persone denunciate per associazione di stampo camorristico, traffico di stupefacenti, ricettazione di ori e preziosi, vendita di posti di lavoro in ospedale e per quanto riguarda Di Marzio “totonero”, sospetto che aleggerà su di lui per un po’ di tempo prima che la sua posizione venga archiviata. Anche Abate, dal canto suo, opera gli accertamenti di rito, va a caccia di riscontri, ma non ne trova neanche uno in grado di mettere in collegamento quella sconfitta nel derby con i fatti tragici di Roseto. Bergamini, peraltro, rientra in squadra proprio a Catanzaro dopo un lungo infortunio e resterà in campo solo un’ora prima di essere sostituito. Perché allora, trent’anni dopo Facciolla decide di esplorare ancora una volta quel tema specifico? Per vedere l’effetto che fa. In quel momento, il procuratore di Castrovillari ha sotto controllo quasi i tutti i telefoni dei calciatori che hanno giocato con Denis e ritiene che notizie giornalistiche di questo tipo possano essere da loro ampiamente commentate. E così, a maggio del 2017, lancia l’esca di un finto scoop regalato a un giornalista della Rai che, in alcuni servizi televisivi, annuncia una svolta nelle indagini: niente più movente passionale, ora si segue la pista delle partite truccate con il possibile coinvolgimento del clan di Michele Zaza, pezzo da novanta della “Nuova Famiglia”. Facciolla non si sbaglia. La notizia coglie nel segno, ma la strategia di rimestare nel passato non apporterà nulla di concreto alle indagini in corso, se non risvegliare qualche fantasma di cui si ignorava l’esistenza. Quel 1989 è l’anno in cui il Cosenza si produce nella straordinaria cavalcata che lo porterà a un passo dalla serie A poi sfumata solo per colpa della classifica avulsa. Il ricordo di quell’impresa mancata al fotofinish è ancora vivido nella memoria dei protagonisti dell’epoca, da Luigi Simoni a Claudio Lombardo, passando per Maurizio Lucchetti e fino a Michele Padovano. È proprio quest’ultimo a commentare le notizie più fresche con Simoni che esprime rammarico per quel sogno infranto all’ultima giornata, ma insieme all’amico parla pure di qualche compagno di squadra – non Bergamini – che avrebbe avuto il vizio di “vendersi le partite”. Su una in particolare s’incentra la conversazione: il match casalingo contro l’Empoli, disputato a maggio di quell’anno, mentre la lotta per la promozione è nel suo momento più caldo. Il Cosenza vince per 2 a 0 con una doppietta di Bruno Caneo subentrato a partita in corso, ma al fischio finale succede qualcosa di inaspettato. Simoni racconta di un giocatore toscano che si scaglia contro Alberto Urban, attaccante cosentino, rimproverando a lui e ai suoi compagni di non aver rispettato l’accordo iniziale, ovvero quello di dividere la posta in palio. “Ma quale accordo – gli avrebbe risposto Urban cadendo dalle nuvole – noi dobbiamo andare in serie A”. Chi aveva stabilito, dal versante rossoblù, che quella partita dovesse finire in pareggio? Simoni e Padovano mostrano di conoscere l’identità di una persona che secondo loro era a conoscenza di quel patto illecito e gli affibbiano anche qualche epiteto. Non si tratta di un calciatore e il suo nome è l’unica omissione che ci concediamo in questo lungo racconto, i lettori ci perdonino. Perché parliamo di un uomo che non c’è più, che a Cosenza ha lasciato una traccia importante, un vero gentiluomo che come tale merita di essere ricordato al netto di chiacchiere in libertà che, probabilmente, non meritavano neanche di essere trascritte. Eppure adesso stanno lì, negli atti dell’inchiesta, e ignorarle non è più possibile. C’è di peggio però. Nel faldone c’è pure un interrogatorio richiesto da Padovano ai magistrati per parlare proprio di calcioscommesse e dintorni. Si tratta di un colloquio durante il quale il futuro attaccante della Juventus certifica come, a suo dire, quella stagione epica dal punto di vista sportivo per un’intera città sia stata condizionata da almeno una partita truccata: una sconfitta per 2 a 0 nel mese di marzo, contro una squadra di bassa classifica – il Barletta – che sulla carta i Lupi avrebbero dovuto domare con facilità. Quel giorno Bergamini non è in campo perché ancora infortunato, ma anche lui marca visita per lo stesso motivo e sostiene di essere venuto a conoscenza di quel retroscena scabroso solo a distanza di anni. L’ex attaccante aggiunge di averlo appreso da più fonti dirette pur senza indicarne una con precisione. Tuttavia, si dice certo di quanto afferma: «Noi più giovani non ci accorgemmo di nulla all’epoca, ma venirlo a sapere dopo tanti anni… ehm… ha fatto molto male». Sì, ha fatto male pure a noi.
Detto e non detto dei pentiti della mala cosentina sulla morte di Denis Bergamini. Marco Cribari Il Quotidiano del Sud il 14 settembre 2021. Franco Pino, Francesco Garofalo, Giuseppe Vitelli e Nicola Belmonte sono quattro ex ‘ndranghetisti cosentini con differenti ruoli e meriti criminali, che da quasi trent’anni collaborano con la giustizia. Nessun magistrato ha mai chiesto loro informazioni a proposito del delitto Bergamini, né i diretti interessati hanno mai riferito in modo spontaneo di sapere qualcosa di quella vicenda. Facciolla li ha arruolati nell’inchiesta perché considera la loro ignoranza in materia funzionale alla dimostrazione della sua teoria: posto che quello di Bergamini è un omicidio – lo dice la scienza – se la malavita non ne sa nulla, allora vuol dire che è stato pianificato ed eseguito in ambito privato. Il loro silenzio, dunque, è letto in chiave abrogativa di qualsiasi altro movente che possa allontanare i sospetti da Isabella e dalla sua famiglia. Partiamo da Vitelli, esponente del clan Perna-Pranno e campione olimpionico di omicidi – neanche lui ricorda quanti ne ha commessi – che collabora con la giustizia fin dal 1995 dopo essere stato tra i protagonisti più oscuri della guerra di mafia combattuta in città dal 1977 al 1985. Nonostante sia un sicario professionista, ostenta un profilo mondano in qualità di contitolare di una delle poche discoteche dell’epoca, l’Akropolis di Rende, un posto in cui andare a divertirsi senza imbattersi in ubriachi e molestatori. Del resto, chi oserebbe arrecare disturbo nel locale di Peppino? Ogni tanto però qualcosa va storto. Stando a diverse testimonianze, infatti, è durante una di queste serate danzanti che l’allora giovanissimo Michele Padovano forse un po’ su di giri, avrebbe fatto qualche apprezzamento di troppo alla persona più sbagliata della discoteca: la moglie del proprietario. In passato, c’è chi ha perso la vita per essersi avvicinato troppo alle donne di Vitelli, ma quella volta non accade nulla di spiacevole: a garantire per l’incauto calciatore ci penserà Antonio Paese, un altro big della sua stessa cosca che finirà poi ucciso davanti al suo bar, nel centro di Cosenza, il 9 luglio del 1991. Paese era uomo ben inserito nell’ambiente del Cosenza calcio e dei suoi tesserati. Uno dei suoi circoli ricreativi di via Panebianco, il suo feudo, era luogo di ritrovo abituale per molti di loro. Dopo la promozione in B, sempre lui organizzerà nel suo quartiere una festa con tanto di partitella celebrativa ala quale prenderà parte tutta la squadra dei Lupi su un campetto in terra battuta allestito per l’occasione. Con queste informazioni di cronaca già note e con l’episodio inedito della discoteca riferito da Garofalo e dallo stesso Vitelli, la Procura di Castrovillari pone le basi per avviare il suo ragionamento: Paese esercitava un ruolo “protettivo” nei confronti dei calciatori e non avrebbe mai consentito che a qualcuno di loro capitasse qualcosa di brutto. La malavita allora non c’entra, tant’è che dopo la tragedia è proprio il clan Perna-Pranno ad avviare un’inchiesta parallela a quella della magistratura per far luce sull’accaduto. Così almeno sostiene Garofalo che del gruppo era il Numero due, secondo solo ai boss titolari. Sarebbe stato uno di loro, Mario Pranno, ad affidargli il compito di indagare sui fatti di Roseto, ma alla fine “la cosa andò scemando” perché neanche lui riuscirà a trovare elementi per mettere in crisi la versione di Isabella. Nessuno, all’interno dei gruppi criminali sapeva nulla di quella vicenda, ritornello ribadito anche da un uomo molto vicino a Paese come Nicola Belmonte. Tutti loro, però, ci tengono a precisare di non aver mai creduto alla storia del suicidio di Denis. La musica non cambia quando si passa al dominus dell’altra cosca, Franco Pino, ma con qualche considerazione a margine. Durante l’interrogatorio del 30 ottobre del 2018, il superboss afferma di aver ritenuto strano che nessuno della società del Cosenza si fosse rivolto a lui per chiedergli di indagare sulla morte di Bergamini visto che, a suo dire, i suoi rapporti con alcuni di quei dirigenti erano molto saldi. A suo avviso, ciò sarebbe avvenuto perché la società temeva che un’indagine seria potesse scoperchiare altri pentoloni maleodoranti come quello delle partite truccate. “Mi ero convinto che nessuno avesse interesse ad accertare la verità”. Opinioni in libertà a parte, una possibile svolta sembra annunciarla la richiesta di colloquio pervenuta sulla scrivania del procuratore a febbraio del 2018. A scrivergli dal carcere di Teramo è il detenuto Pietro Pugliese che dice di essere a conoscenza di particolari importanti sul caso Bergamini e di volerne parlare “solo con Facciolla”. E così, il 2 marzo del 2018, Pugliese viene portato a Castrovillari e messo al cospetto del magistrato e dei suoi due detective. Non è un detenuto qualunque. Negli anni Novanta è stato il grande accusatore di Diego Armando Maradona, da lui additato come terminale di un import-export di cocaina sulla rotta Napoli-Buenos Aires. Pugliese comincia a parlare di questa vicenda per la quale l’allora Pibe de oro fu processato e poi assolto. Ne discetta a lungo con i suoi interlocutori che cercano più volte di riportarlo sull’argomento del giorno, ma con scarsa fortuna. Alla fine, spiega il contesto nel quale sarebbero maturate le sue conoscenze in materia: una riunione tra calciatori del Napoli avvenuta a novembre del 1989 durante la quale, in sua presenza, si sarebbe parlato di un traffico di droga dal capoluogo campano verso la città dei bruzi. Bergamini non era coinvolto in alcun modo nell’affare, ma i convenuti avrebbero azzardato l’ipotesi che fosse stato eliminato in quanto testimone scomodo dell’accaduto. Congetture insomma, alle quali Pugliese aggiunge un incontro che sostiene di aver avuto, proprio a Castrovillari, con un dirigente del Cosenza, durante un periodo di semilibertà. Il suo sedicente interlocutore gli avrebbe confermato che Denis era stato ucciso, rinviandolo però a un nuovo meeting per tutti i dettagli del caso, ma il colloquio programmato per il giorno successivo sarebbe poi saltato. A quel punto la sua audizione è durata già un’ora e venti minuti. “Per il momento possiamo chiudere qua – gli comunica Facciolla – poi vediamo quello che succede, però per il momento si chiude qui, okay?”.
La morte di Bergamini: Le lettere d'amore di Isabella e Denis e il ruolo di Gigi Simoni. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 15 settembre 2021. “A Denis non importava nulla di Isabella, era solo una delle tante”. “Non l’avrebbe mai sposata”, anzi “stava per sposare un’altra donna”. E ancora: “Era gelosa, con lui era come l’attack”. I familiari di Bergamini e molti dei suoi ex compagni di squadra si pronunciano in questi termini a partire dal 2011, all’epoca della prima inchiesta e, interpellati sul punto negli anni successivi, ribadiscono il concetto con maggior veemenza. “Era ossessiva, lo pedinava e annusava i suoi vestiti” giusto per citare una delle psicosi attribuite più di recente alla Internò. Compagni e affini, però, non la pensano così sul finire del 1989, a ridosso della tragedia, quando a colloquio con i magistrati dell’epoca si esprimono in modo tutt’altro che netto sui rapporti che intercorrono tra il calciatore e la sua ex. “Lui era ancora molto preso da lei” ammettono alcuni calciatori. Soffriva di gelosia restrospettiva e “l’aveva lasciata per questo motivo”.
Parlò dei suoi sentimenti due mesi prima di morire diventando “come paonazzo” e durante il suo ultimo ritiro precampionato, “in stanza sul comodino aveva una foto di Isabella”. Anche se voleva sposare un’altra. Agli atti ci sono le lettere che Isabella gli scrive all’inizio del loro rapporto, tra il 1986 e l’87, e che la famiglia Bergamini ha consegnato solo ora agli investigatori. Quest’ultimi ne hanno estrapolato alcuni spunti a supporto della tesi dell’ossessione omicida della ragazza: “Spero che quel brutto, ma brutto giorno, che tu dovresti abbandonarmi non arrivi mai”, è ad esempio uno dei passaggi ritenuti interessanti, laddove di incriminante però sembra essersi solo la prosa adolescenziale. In realtà, dalla lettura completa della corrispondenza, traspare come la ragazza scriva a Bergamini quasi sempre in momenti di tristezza, subito dopo una discussione avuta con lui al telefono o dopo aver ricevuto una sua lettera che l’amareggia. “Voglio solo dirti che amo te e che degli altri me ne infischio”. Oppure: “Mi stai facendo leggere cose bruttissime, ma io voglio dirtene una bellissima. Ti voglio bene (…) non sprecare il tuo tempo in inutili dubbi”. E ancora: “Seguirò i tuoi consigli (…) roba di quel genere non succederà più. Non ho più 15 anni e anche allora ho sbagliato”. Sembra che cerchi di tranquillizzarlo, di rincuorarlo. “Pensi che faccio la stupidina, ma non è vero”, gli scrive prima di descrivere la sua giornata tipo in villeggiatura: poche ore in spiaggia con la famiglia, una passeggiata con le amiche. “Ecco come passo l’estate: non è affatto come pensi tu”. Nel fascicolo c’è una sola lettera a firma di Denis, probabilmente una bozza dell’originale poi spedita a Isabella che si conclude così: “Ti dico una cosa per ricordarti chi sono: se vengo a sapere qualcosa su di te, e sai cosa intendo, con me hai chiuso per sempre e questa volta non perdono”. Nell’estate del 1989 il destino gli offre una chance importante: lo cerca il Parma, società di serie B che sogna – e di lì a poco ci riuscirà – la scalata nel calcio che conta. Per lui tutto questo si traduce in un ingaggio principesco e nella possibilità di tornare a casa, nella sua Emilia Romagna. La trattativa è conclusa, c’è già la firma sul contratto, ma all’ultimo secondo il trasferimento sfuma per volontà dello stesso calciatore. Cosa lo spinge a rimanere in Calabria gettando così alle ortiche la possibilità di far decollare la propria carriera? La “riconoscenza” nei confronti della società del Cosenza che lo aveva aiutato a guarire da un brutto infortunio è la giustificazione addotta ai suoi genitori, ovviamente contrariati per quel dietrofront improvviso. Certo è che se davvero avesse avuto paura di qualcosa – nella fattispecie degli Internò e del loro onore ferito – quale migliore occasione di quella per mettere le distanze tra sé e un pericolo mortale? Tra novembre e dicembre del 2017 l’argomento è oggetto di discussione telefonica tra Bruno Carpeggiani, il suo procuratore dell’epoca, e il già portiere del Cosenza Luigi Simoni. È l’amico del cuore di Bergamini nonché suo conterraneo, ma si trasferisce al Pisa nell’estate del 1989, dunque non vive da vicino la tragedia del novembre successivo. Negli ultimi anni si è proposto come uno dei sostenitori più intransigenti della tesi omicidiaria, teoria da lui ribadita attraverso i social, interviste e partecipazioni a trasmissioni tv. Davanti alle telecamere ha rappresentato più volte, con tono di certezza, che Bergamini aveva ormai lasciato Isabella che “continuava a ossessionarlo anche se lui non voleva più saperne”. Intercettato una prima volta al telefono con Carpeggiani, però, il portiere rievoca il gran rifiuto opposto dal suo amico al Parma e ragiona con l’interlocutore sulle possibili motivazioni di quella scelta. “Io ho una mia idea – spiega – e l’ho detto anche alla sorella che dice che non può essere così, ma secondo me lui è rimasto giù per lei eh”. Lei sta per Isabella Internò del cui rapporto con Denis, nel prosieguo della conversazione, Simoni ammette di conoscere poco o nulla perché “lui era un mistero per tutti, non parlava”. I due tornano sull’argomento dopo circa un mese: “C’era qualcosa che lo attirava là” riflette Carpeggiani. E Simoni ribadisce: “Sì, sì, per me era legato sempre a lei, era legato a lei…”.
Omicidio Bergamini, l’ordine di (mastro) Franchino Internò: “Tutti al funerale!”. Da Iacchite il 28 Settembre 2021. La sera del 18/11/1989, Francesco INTERNÒ detto mastro Franchino, capofamiglia indiscusso degli Internò, si farà accompagnare dal nipote Roberto INTERNÒ a Roseto Capo Spulico, presso la locale caserma dei Carabinieri, per riprendere la figlia, dopo la tragedia occorsa a Donato BERGAMINI: “…mio zio Franco mi disse che avrei dovuto accompagnarlo a Roseto per andare a prendere Isabella perché c’era stato un incidente…” afferma Roberto INTERNÒ. In occasione del funerale di Donato BERGAMINI, Francesco INTERNÒ chiederà – ma forse sarebbe meglio dire ordinerà – ai nipoti di sangue ma anche a quelli acquisiti, come Francesco ARCURI – all’epoca fidanzato con la nipote Giuliana Anna INTERNÒ – di presenziare alle esequie per proteggere la figlia, facendole da scorta, temendo gesti inconsulti e violenti da parte dei tifosi nei confronti della giovane, così almeno asseriscono Dino Pippo e Roberto INTERNÒ nonché Francesco ARCURI…“…Sono andato al funerale perché me lo ha chiesto mio zio Franco, e lo stesso per i miei cugini, perché lui ci disse di stare vicini alla figlia in quel momento… circa il fatto che siamo tutti presenti intorno a Isabella come a farle da scorta, ma posso dire che ciò è stato perché si temeva qualche reazione dei tifosi…” afferma, ma forse sarebbe meglio dire “grugnisce” – con una faccia di bronzo senza precedenti visti i fatti – Dino Pippo INTERNÒ;§ “…il giorno dei funerali sono andato in chiesa con mio zio Franco Internò perché fu lui a chiedermelo in quanto era preoccupato che i tifosi potessero fare qualcosa contro Isabella, e non avendo figli maschi chiese appunto a me di accompagnarlo… anche gli altri miei cugini hanno partecipato al funerale, ritengo per lo stesso motivo, e cioè per evitare che qualcuno potesse in qualche modo scagliarsi contro mia cugina…non so in particolare perché mio zio si preoccupasse di ciò…” afferma invece Francesco ARCURI, che è l’unico a porsi il… problema di cosa cacchio dovessero andare a fare tutti ‘sti delinquenti al funerale di un uomo che avevano ammazzato poche ore prima…§ “….mio fratello Pippo andò al funerale con i miei zii perché fu zio Franco a chiamare i cugini per stare intorno ad Isabella visto che i tifosi la stavano contestando e già avevano cominciato a inveire contro di lei…” dice ancora Roberto Internò asserendo smaccatamente il falso perché MAI nessun tifoso aveva inveito contro di lei …Nella tarda mattinata di lunedì 20 novembre 1989 oltre diecimila persone partecipano al funerale di Denis Bergamini nella chiesa della Madonna di Loreto. Isabella Internò è presente ed è accompagnata dai “soliti” cugini. Oggi finalmente sappiamo anche chi sono. Alfredo Internò, detto Pippo o Dino, aspirante guardia giurata (lo diventerà successivamente all’omicidio di Bergamini), cugino di primo grado di Isabella, in pratica la “scorta” in ogni momento della celebrazione. Il fratello Roberto invece non c’è. Vicino a lui c’è un’altra faccia di bronzo che è tutto un programma, tale Pietro Casciaro…con impermeabile bianco…L’altro poi è il marito della cugina, che crede di mimetizzarsi con un paio di occhiali scuri. In realtà quegli occhiali non faranno altro che metterlo ancora di più in evidenza. Si chiama Francesco Arcuri. Sono esattamente i due cugini che Tiziana Rota, la moglie di Lucchetti, vede vicino a Isabella quando la incontra a Rende una decina di giorni prima della morte di Bergamini e che sono ritenuti capaci di “ammazzare” Denis se soltanto sapessero come sono andate le cose. E poi ci sono le donne della famiglia che danno vita alla “sceneggiata” del dolore: oltre alla principessa mantide Isabella, ci sono la madre, la sorella e anche un’altra cugina che si chiama Loredana Internò. Il particolare colpisce molti cosentini presenti al funerale e si sparge la voce che Isabella sia “scortata” da poliziotti in borghese per proteggerla da eventuali “malavitosi” travestiti da tifosi malintenzionati ma è soltanto una leggenda urbana. In realtà, sono lì per evitare che Isabella parli con qualcuno al quale non deve mai rivelare quello che è realmente accaduto solo qualche ora prima. Una sorta di grottesca marcatura “ad uomo” messa in scena dagli stessi autori del delitto… Ora lo sappiamo tutti e lo sanno anche gli assassini che quello è stato l’errore più grave che hanno commesso perché se oggi possiamo vedere le loro facce di merda è stato proprio perché, senza alcun ritegno e senza alcun pudore, hanno avuto la faccia tosta di partecipare al funerale del ragazzo che avevano appena assassinato. Ma la Giustizia prima o poi arriva, anche per chi si crede al di sopra della Legge.
Omicidio Bergamini, l’incidente probatorio smaschera gli assassini: “Chiari segnali di asfissia dai prelievi sulla laringe”. Da Iacchite il 13 Settembre 2021. Il 29 novembre 2017, si è tenuta presso il Tribunale di Castrovillari udienza di incidente probatorio nel corso della quale i periti Dott. Antonello CRISCI, dottoressa Carmela BUONOMO, dottoressa Maria PIERI, Tenente Colonnello Andrea BERTI e maresciallo Marco SANTACROCE hanno esposto l’esito delle indagini medico-legali conferite loro dal G.I.P. Dott.ssa Teresa Reggio. Nel corso dell’udienza, grazie al contraddittorio tra le parti, alcuni aspetti della perizia sono stati chiariti di modo tale da non poter ingenerare dubbi o perplessità sulle cause che hanno portato alla morte Donato BERGAMINI. Il professore Antonello CRISCI dà una spiegazione del termine corificato, condizione nella quale è stato trovato il cadavere di Donato BERGAMINI: “la salma è stata trovata in quello stato che viene definito dal punto di vista medico legale di corificazione. La corificazione, dal termine stesso, significa che la pelle ed i tessuti diventano come il cuoio conciato, e sono casi che non sono molto frequenti, Soprattutto a distanza di 28 anni. Infatti noi pensavamo di trovare assolutamente solo lo scheletro del soggetto. Abbiamo invece avuto da una parte questo aspetto così fortunato… di trovare la salma del signor Bergamini in questo stato in cui erano ancora presenti gli occhi, era ancora presente cute, erano presenti i muscoli, erano ancora presenti tutta una serie di parti del corpo che non erano andate in putrefazione. Questo è verosimile e possibile in quali casi? Quando il cadavere di un soggetto è stato sottoposto ad una autopsia, e di fatti lui era stato sottoposto 50 giorni dopo il decesso ad un’autopsia…” A questo punto interviene la dottoressa BUONOMO precisando di aver provveduto a prelevare anche gli organi del collo e di aver effettuato un totale di 101 prelievi a fronte dei 17 effettuati nel corso della precedente autopsia: “…abbiamo ritrovato nel marasma naturalmente dell’autopsia precedente…a livello addominale abbiamo trovato, oltre il piastrone sternale, anche gli organi del collo, che erano stati esaminati, aperti, gli organi cosiddetti del collo sarebbero dalla laringe, epiglottide fino alla carena bronchiale, con tutto quello che c’è intorno… quindi noi abbiamo comunque prelevato – in accordo con tutti – anche gli organi del collo e li abbiamo messi nei contenitori che sono poi stati trasportati presso il laboratorio di anatomia patologica che io dirigo…Abbiamo – naturalmente – considerato e verificato il piastrone sternale, abbiamo verificato tutti i possibili organi che potevano, residui organi, perché naturalmente oltre la corificazione dei tegumenti, muscoli e cute, noi abbiamo trovato all’interno degli organi avvolti da pezze… abbiamo fatto anche i prelievi su questo… perché sono ben 101 prelievi a fronte dei 17 che erano stati fatti dalla precedente perizia…. sono 23 prelievi fatti sulla struttura ossea fratturata del bacino… la laringe 14 vetrini, perché poi la laringe rivestiva anche un significato molto particolare e che doveva essere indagata perché rivedendo – mi permette di dire – anche le precedenti perizie, tutte molto accurate, però sulla laringe non era stato fatto benché nulla… Per la parte posteriore del cadavere, spiega il professore Antonello CRISCI risulta l’assenza di lesività legata ad un possibile incidente. Il professore inoltre mette in evidenza la differenza tra la tipologia di investimento che si sarebbe verificato qualora il corpo si fosse trovato in posizione supina e quella realmente verificatasi, perché ricavato tale dato dalle odierne indagini tanatologiche, radiologiche, che vede il corpo del calciatore collocato in posizione prona. Inoltre in termini medico-legali spiega perché possiamo dire che il camion ha solo parzialmente sormontato il corpo: “…Nel corso dell’esame sia esterno della salma, sia nel corso poi dell’indagine autoptica successiva che abbiamo eseguito…anche lì [parte posteriore della salma n.d.a.] risulta la totale assenza di lesività legata ad un possibile incidente, relativa a cranio, torace, arti inferiori, arti superiori. La lesività è localizzata a carico del bacino, e in particolare dell’emibacino di sinistra, fino a raggiungere solo una piccola discontinuazione dell’ala sacroiliaca destra… la visione del corpo del signor Bergamini sull’asfalto, vicino al camion, fa vedere un soggetto prono, con la testa verso la mezzeria della strada, ed i piedi invece verso la parte… diciamo così, il guard-rail… tutte le precedenti perizie ipotizzano che invece il soggetto fosse supino. Nel caso di soggetto supino la ruota del camion sarebbe entrata prima nell’emilato destro, frantumandolo appunto, e poi sarebbe penetrata nell’addome, sarebbe arrivata fino a toccare l’ala iliaca sinistra e poi il camion avrebbe fatto marcia indietro. In questa marcia indietro avrebbe trascinato e rotolato il corpo, fino a farlo trovare nella posizione in cui lo hanno trovato i carabinieri e tutte le persone, e in cui lo hanno fotografato. In base invece alle nostre indagini tanatologiche, radiologiche, perché è documentato con TAC… abbiamo trovato invece tutte le lesioni, la lesività causalmente connessa all’incidente, la diastasi della sinfisi pubica. La sinfisi pubica è quella parte anteriore del bacino, situato appunto nella zona pubica, che serve ad unire anteriormente i due emibacini. Questa diastasi che cosa significa, che si è aperta questa sinfisi pubica, si è appunto diastasata, no, come viene detto. Chiaramente meccanismo da compressione. A sinistra che cosa abbiamo ancora trovato? Questa frattura pluriframmentata dell’ala iliaca… poi abbiamo trovato la frattura, sempre questo a sinistra, dell’articolazione coxofemorale. Che cos’è l’articolazione coxofemorale? Quell’articolazione che unisce il bacino, e perciò la regione coxale, l’anca praticamente, insieme con le testa del femore… poi a sinistra abbiamo trovato questa frattura dei processi trasversi. Ecco io questo cercavo, di L3 ed L4. L3 ed L4 è la terza e la quarta vertebra lombare, dopo c’è solo L5 e poi viene S1- il sacro, no -… perché non si è fratturata tutta la colonna vertebrale? Perché non si sono fratturati i due corpi vertebrali, che sono grossi, insomma? Soprattutto sotto la spinta di tonnellate, insomma. E si è fratturato solo a sinistra? È perché evidentemente il camion non ha sormontato totalmente il corpo, ma solo parzialmente. Si è fermato a metà della colonna vertebrale, a metà del bacino, in quella zona centrale ed è tornato indietro… chiaramente esercitando il suo meccanismo di pressione e perciò portando anteriormente allo scoppio dei visceri… noi parliamo di parziale sormontamento. L’ha sormontato, ed è l’unica fase dell’investimento che abbiamo trovato, perché tutte le altre fasi, l’urto, l’abbattimento, il caricamento, la proiezione in avanti, il trascinamento… mancano…A destra cosa abbiamo trovato? Solo questa diastasi dell’articolazione sacro iliaca di destra… allora la diastasi di questa articolazione, cioè a destra si è solo aperta lievemente, ma la testa femorale è in situ, era dentro… conclusione: la posizione del cadavere chiedeva lei. Era, con criterio di certezza tecnica, in posizione prona. La ruota del camion ha sormontato parzialmente l’emibacino di sinistra con il soggetto messo prono, è arrivata sicuramente fino alle apofisi trasverse di L3 e L4, cioè metà della colonna vertebrale, e poi è ritornato indietro… perfettamente integri, nessun segno di frattura, nessun segno di lesione [gli arti inferiori e superiori]…”. La dottoressa Carmela BUONOMO illustra la metodologia impiegata per verificare la vitalità della lesione, quindi illustra i risultati rilevati applicando al prelievo dei polmoni dell’anticorpo <apoproteina A>: “…in concordanza con tutti i presenti abbiamo prelevato laddove ci sembrava più significativo il tessuto da esaminare….abbiamo elaborato dei vetrini che sono stati colorati con <ematossilina eosina>, che è una colorazione base che ci permette con un contrasto diciamo nucleare e citoplasmatico di verificare la forma e il tessuto, è una coartazione, diciamo che è un artefatto scientifico per poter vedere ciò che è invisibile, perché le cellule non hanno colore. Allora noi le coloriamo per fare in modo di vedere e quindi di identificarle e di verificarle… questo è quello che noi abbiamo fatto, e l’abbiamo fatto per quanto riguarda i prelievi che noi abbiamo campionato, facendo quindi ematossilina eosina e glicoforina, poiché rispondendo ai quesiti noi dovevamo in effetti dire circa… esprimerci circa la vitalità…La glicoforina è un anticorpo mono…o meglio, l’antiglicoforina è l’anticorpo monoclonale che permette di rilevare… abbiamo detto che gli anticorpi monoclonali sono dei rilevatori… l’antiglicoforina è un anticorpo che ci permette di riconoscere le cellule del sangue, e prevalentemente globuli rossi e residui dei globuli rossi…. perché la letteratura internazionale ci propone questo anticorpo come fra i più significativi dal punto di vista statistico-analitico per quanto riguarda le situazioni di vitalità? Perché il gemizio ematico fa fronte ad un fatto vitale: spiega il fatto vitale. Il gemizio ematico, quindi residuo del globulo rosso su margine fratturato, la sua presenza o la sua assenza ci dice, secondo il trend di letteratura internazionale, che è molto significativo dal punto di vista statistico e analitico per quanto riguarda la vitalità. Se è presente, se è rilevato il sangue o il residuo di sangue. Questa è la glicoforina… per quanto riguarda invece gli altri organi, noi abbiamo avuto i preziosissimi vetrini della prima autopsia. Questi sono estremamente importanti, vetrini e relative inclusioni…. avevamo prelievi… di polmoni, e su quelli noi abbiamo potuto, giacché in effetti lo stato di conservazione era ottimale, tagliare delle sezioni in bianco su cui abbiamo fatto – secondo il trend internazionale di letteratura che ci suggerisce l’applicazione di determinati anticorpi – la <apoproteina A>, che è il più significativo di tutti per quanto riguarda il respiratorio, per la verifica del film surfactante endoalveolare che è presente nella nostra fisiologia…Però viene presa come situazione significativa, laddove il surfactante si accumula in maniera disordinata all’interno dello spazio endoalveolare, perdendo la linearità dell’avvolgimento della sacca alveolare, che è l’ultima unità respiratoria del polmone, ma non è normale – e questo si verifica nelle asfissie meccaniche che degeneri in maniera granulare all’interno dello spazio endoalveolare. Questo è un segno molto significativo di asfissia… allora il tessuto polmonare, in accordo sia con le perizie di Avato che con le perizie di Bolino-Testi, aveva una iperdistensione degli alveoli, una rottura anche pluriframmentata dei setti, cosa diciamo piuttosto strana, come dicono anche le altre consulenze, in un ragazzo così giovane e così atletico…Congestione settale, rottura dei setti, sovra distensione alveolare… soltanto morfologicamente questa cosa depone, per un anatomopatologo, per un enfisema acuto. L’aggiunta delle indagini istochimiche, quali la apoproteina-A, significative nel trend di letteratura statistica e analitica, in cui vede l’accumulo del surfactante a livello endoalveolare che propende ancora per un fibroenfisema acuto, l’aggiunta del CD68, ulteriore anticorpo monoclonale, rilevabile a livello interstiziale, che è il colorante dei macrofagi, che è cellula tissutale che interviene nel momento in cui c’è un inizio asfittico, perché noi possiamo dire che in effetti il CD68 interviene a livello interstiziale nella sua conta in situazioni legate ad una sofferenza di ipossia, quindi un aumento di anidride carbonica…”. Il professore Antonello CRISCI spiega dal punto di vista scientifico il termine di enfisema acuto, riscontrato applicando l’anticorpo <apoproteina A> sui prelievi istologici del polmone: “…Se parliamo di enfisema polmonare acuto diciamo un quadro clinico dovuto a rottura massima dei setti interalveolari legati ad un fenomeno acuto. Allora, fenomeno acuto non può essere una malattia generica… non può essere una patologia cronica, non può essere una bronchite, non può essere un fumatore, perché sarebbe un enfisema polmonare cronico. D’accordo?!…scientificamente… nel termine <enfisema polmonare acuto> per acuto noi intendiamo qualcosa che avviene nel giro di pochissimo tempo, altrimenti parleremmo di subacuto, altrimenti parleremmo di cronico. Perciò è qualcosa di acuto, e che l’acuto fa escludere il cronico… ovviamente una pregressa patologia, un pregresso stato, una pregressa condizione parafisiologica come il fumo tabagico, no, oppure il lavorare in determinate miniere o in determinati luoghi, ci dà praticamente un quadro di enfisema polmonare, sì, ma cronico…”. A questo punto, su domanda del Procuratore Capo dott. Eugenio FACCIOLLA, la dottoressa BUONOMO spiega che a livello di laringe e di base della lingua, i prelievi sono risultati positivi al test della glicoforina a significare che c’erano stati dei stravasi ematici, laddove i prelievi effettuati sul margine fratturativo sono negativi alla glicoforina: “…cioè tranne il naso abbiamo preso tutto quello che in effetti ci portava ai bronchi…e abbiamo verificato che anche a livello della base lingua c’erano delle situazioni legate a stravasi, glicoforine positivi… significa che c’erano delle situazioni legate a stravasi ematici incredibilmente conservate… allora abbiamo verificato che sia a livello della base lingua che a livello della regione… della laringe c’erano questi stravasi. Congestione vasale e stravasi di materiale glicoforino positivo… il margine fratturativo, non abbiamo trovato materiale glicoforinopositivo… noi non abbiamo trovato sul margine del bacino che abbiamo campionato in maniera mirata, non abbiamo trovato materiale glicoforino positivo… perché non era vitale il margine fratturativo”. Alla domanda del Procuratore Capo dott. Eugenio FACCIOLLA se ciò volesse dire che probabilmente la frattura era successiva alla morte di Donato BERGAMINI, la dottoressa Carmela BUONOMO risponde di sì.
Omicidio Bergamini. Ecco come ha “parlato” il corpo di Denis grazie alla glicoforina. Da Iacchite il 12 Settembre 2021. Nel corso delle operazioni peritali, il 10 luglio 2017, personale della Sezione di P.G. presso la Procura di Castrovillari, procedeva alla consegna alla dott.ssa Carmela BUONOMO dei reperti istologici presi in carico dal Dott. Stefano TARAGLIO, Direttore di anatomia patologica dell’ospedale “San Giovanni Bosco” ASL TORINO2, dove si trovavano custoditi. Il 31 luglio 2017 in Caserta presso l’U.O.C. di Anatomia Patologica A.O.R.N. Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, i periti prof. Antonello CRISCI e la dott.ssa Carmela BUONOMO davano prosecuzione alle operazioni peritali alle quali erano presenti i consulenti delle parti offese e del Pubblico Ministero, mentre erano assenti i CTP di Isabella INTERNÒ, ovvero il prof. Franco INTRONA e la Dott.ssa Liliana INNAMORATO. Le operazioni peritali riprendevano il 25 settembre 2017 e questa volta, oltre che ai consulenti di parte civile che del Pubblico Ministero era presente anche la Dott.ssa Liliana INNAMORATO, CTP di Isabella INTERNÒ. In questa fase si è arrivati a dei risultati che costituiranno la base della relazione di perizia e che sarebbero stati poi ampiamente discussi nel corso dell’udienza di incidente probatorio del 27 novembre 2017. Tali evidenze delle indagini anatomo-patologiche si baseranno sull’utilizzo della <glicoforina> e <<dell’apoproterina-A>>. A conclusione delle operazioni, i periti e i consulenti presenti firmavano all’unanimità, senza interventi od osservazioni, il relativo verbale attestante ciò che era stato visionato. Le operazioni riprendevano il 9 ottobre 2017; a conclusione delle operazioni i periti e i consulenti presenti – ivi compreso il CTP di Isabella INTERNÒ – firmavano all’unanimità, senza interventi od osservazioni, il relativo verbale attestante ciò che era stato visionato. Dagli esami istopatologici si evince che:
· Le sezioni seriate della laringe hanno evidenziato in sede paramediana destra (LR8) plurime aree di stravaso ematico interstiziale comprovate dalla positività alla glicoforina. Ectasie e congestione vascolare come in tutte le altre sezioni;
· 3 vetrini con prelievo a livello dello psoas: plurime aree di stravasi ematici interstiziali comprovati dalla positività alla glicoforina;
· Le sezioni denominate “Bergamini 2011” del 2011 riferite alle sezioni di polmone evidenziavano tessuto polmonare sede di iperdistensione delle cavità alveolari con rottura dei setti, congesti, con marcate ectasie vascolari con sludging ed edema acuto siero proteinaceo. Il reperto immunoistochimico evidenziava una positività prevalente interstiziale del CD 68 ed una positività per CD 15 di tipo secondario e una positività discontinua per l’Apoproteina-A;
· Le sezioni relative al tessuto osseo topograficamente in sede iliaca sinistra dopo trattamento decalcificante non rilevavano positività alla glicoforina; parimenti alla sezione destra dell’ala;
· Le sezioni seriate che comprendevano la linea mediana comprovate dalla presenza dell’epiglottide (base e corpo) evidenziavano, nell’ambito di una congestione marcata della rete vascolare ectasica, aree caratterizzate da slargamento con assottigliamento della parete vascolare fino a parziale discontinuità con passaggio nell’interstizio di materiale glicoforino-positivo.
L’aspetto interessante è l’individuazione di una lesività, mediante le indagini radiologiche non localizzata sull’emisoma destro – come argomentato dal prof. AVATO in sede di relazione di perizia (infatti si è riscontrato a sinistra frattura pluriframmentata dell’ala iliaca con porzione laterale dislocata lateralmente; frattura dell’articolazione coxo-femorale di sinistra, della branca ileo-pubica, ischio-pubica e della testa e del collo del femore, con femore destro integro), combaciando invece con altre affermazioni presenti nella stessa perizia del prof. AVATO (la cresta iliaca a destra mostrava frattura parcellare con ancoraggio mediale del frammento…). Pertanto, le lesioni obiettivate possono essere compatibili con uno schiacciamento da parte di mezzo pesante e la corrispondenza topografica tra il modo in cui giaceva il cadavere ed i reperti obiettivati è asseribile, in quanto al ritrovamento sull’asfalto l’emisoma rivolto verso il mezzo pesante era il sinistro e il primo lato a poter essere verosimilmente schiacciato era proprio quello di sinistra, ipotizzando un sormontamento parziale da parte della ruota destra del camion, dotato di moto lento. Effettivamente si appura come anche e soprattutto l’emisoma sinistro fosse coinvolto, tuttavia i dati a disposizione, così come quelli a disposizione dei precedenti consulenti non permettono di asserire un trascinamento a causa proprio della localizzazione delle lesioni sulla regione inferiore dell’addome ed a livello della pelvi e l’assenza di segni di trascinamento per quanto si possa evincere dall’esame dei dati a disposizione.
Altro elemento risulta interessante. Le sezioni relative al tessuto osseo topograficamente in sede iliaca sinistra dopo trattamento decalcificante non rilevavano positività alla glicoforina; parimenti alla sezione destra dell’ala; conoscendo la letteratura circa l’uso della glicoforina in merito alla vitalità delle lesioni, letteratura che partendo dalla cute oggi riguarda anche l’analisi dei traumi del tessuto osseo, risulta alquanto strano che un investimento “intra vitam” non abbia comportato nell’osso, e parimenti a destra quanto a sinistra, i segni di una reazione vitale. Argomentano i periti che a livello polmonare, la positività dei vetrini alla apoproteina-A, nonché al CD68 e al CD15 lascia ritenere che “l’insulto asfittico” (ovvero il soffocamento, ndr) possa essersi concretamente verificato. Inoltre, l’esame autoptico effettuato dal professore AVATO già ebbe ad evidenziare la <<paucità>>di reperti toracici compatibili con un trauma da compressione nella regione dei campi polmonari. Continuano ancora i periti: alla luce degli elementi emersi risultano condivisibili (fatta eccezione per l’erronea collocazione delle lesioni fratturative e vasali: destra anziché sinistra) le considerazioni del professore Giorgio BOLINO nella prima (2011) e nella seconda consulenza redatta con il dott. Roberto TESTI (2013) in cui affermava: “è chiaro, peraltro, come l’esame autoptico abbia rilevato una lesività del tutto sufficiente a definire la causa mortis, rappresentata da una ‘emorragia iperacuta connessa alla lesione vasale’ dell’arteria iliaca comune destra…Nulla osta, tuttavia, che il complesso lesivo possa essere intervenuto su un soggetto, sdraiato sul manto stradale, in limine vitae per altra causa (asfittica? Ovvero comunque tramortito mediante l’uso di tossici volatili o altre sostanze xenobiotiche)… Le caratteristiche…portano a ritenere maggiormente plausibile che al momento dell’investimento Bergamini Donato fosse già deceduto o in condizioni di assai ridotta vitalità… Il sormontamento da parte dell’autocarro non può aver provocato – di per sé solo – le caratteristiche morfologiche macroscopiche ed istologiche riscontrate in sede polmonare...”.
Dinamica del sormontamento alla luce dei nuovi dati emersi dalla radiologia: la prima parte del corpo ad essere schiacciata sarebbe stata l’emisoma sinistro.
Esami chimico-tossicologici negativi, non esclusa tuttavia l’utilizzo di sostanze volatili. Alla luce degli attuali accertamenti e dalla disamina di quelli precedenti, nell’esame degli elementi utili alla ricostruzione degli eventi lesivi che hanno condotto alla morte di Bergamini, possono ribadirsi alcuni aspetti salienti. Già nel corso dell’esame post-esumazione praticato nel 1990 dal prof. Francesco Maria AVATO venivano infatti evidenziati, come poi confermato dal prof. Giorgio BOLINO prima e dai prof. BOLINO-TESTI poi, elementi macroscopici e microscopici prevalentemente polmonari suggestivi di una condizione asfittica, non imputabile all’ipovolemia né a preesistenze patologiche stante la giovane età e le condizioni di salute della vittima sottoposta a continui controlli medici per l’attività di calciatore professionista. Infatti, sono state riscontrate, macroscopicamente ed istopatologicamente, aree di sofferenza del parenchima polmonare che, in assenza di lesività diretta, sono compatibili con asfissia acuta.
Le caratteristiche macroscopiche e microscopiche dei tessuti lesi, con rilievo di assenza di stravasi ematici (macro e microscopici) ai margini delle lesioni depongono, concordemente con quanto sostenuto dal professore BOLINO, per una “…incerta vitalità del complesso lesivo…”, compatibili con uno stato di “…limine vitae…” al momento delle medesime. Gli esami istopatologici attuali hanno confermato, a distanza di anni, gli elementi di congestione a carico del polmone, con particolare, precedentemente non rilevato, interessamento della laringe con stravasi ematici interstiziali. In merito, già il Prof. AVATO aveva evidenziato “…una certa qual sofferenza polmonare (aspetti congestizi e di edema, di enfisema acuto…”, con “…frequenti rotture dei setti alveolari oltre a modesto edema alveolare e interstiziale, discreta congestione vasale…”ed il prof. Giorgio BOLINO aveva argomentato che “…le superficie alveolari, a ben guardare, si caratterizzavano per una discreta dilatazione…I polmoni avrebbero, invece, dovuto essere schiacciati e quindi atelettasici, privi di aria, almeno alle basi… Soprattutto le frequenti rotture dei setti alveolari non sono spiegabili in un soggetto giovane ed evidentemente in buona salute, sottoposto a rigidi controlli sanitari in quanto sportivo professionista…”. Gli attuali e più sofisticati accertamenti isto-immuno-patologici hanno confermato il dato dei precedenti consulenti a carico del parenchima polmonare, con rilievo di “…tessuto polmonare sede di iperdistensione delle cavità alveolari con rottura dei setti, congesti, con marcate ectasie vascolari, con sludging ed edema acuto siero-proteinaceo. Il reperto immunoistochimico evidenzia una positività prevalente interstiziale del CD68 ed una positività per CD15 di tipo secondario e una positività discontinua per l’Apoproteina-A…”, e lo hanno ampliato evidenziando a carico della laringe, precedentemente non esaminata, stravasi ematici e congestione, rilevando “…in sede paramediana destra plurime aree di stravaso ematico interstiziale comprovate dalla positività alla glicoforina. Ectasie e congestione vascolare come in tutte le altre sezioni…”. Tali aspetti avvalorano le precedenti valutazioni di segni asfittici autoptici ed istopatologici, dipanando i dubbi espressi dai professori BOLINO-TESTI, laddove questi ultimi specificano che “…le alterazioni polmonari possono….aver almeno in parte risentito del lungo lasso di tempo (circa 50 giorni) intercorso tra il decesso e l’esecuzione dell’indagine autoptica…” e che il “…quadro polmonare…” è “…compatibile con una morte avvenuta per asfissia meccanica…”, smentendo l’affermazione del prof. AVATO secondo cui la “…sofferenza polmonare (aspetti congestizi e di edema, di enfisema acuto)…” e la “…sofferenza miocardica…” sono aspecificamente“…di entità tale da poter essere valutati come fattori concorrenti ma non certo di per sé sufficienti in una sequenza fenomenologica letifera…”. Infatti, pur non essendo indubbiamente “…sufficienti in una sequenza fenomenologica letifera…” per i motivi appresso specificati, non potevano all’epoca non essere considerati in una ricostruzione dell’epicrisi del decesso (la dottoressa Carmela BUONOMO nel corso dell’udienza di incidente probatorio, specifica che l’epicrisi è la ricostruzione di tutto ciò che ha portato la persona alla fine della sua vita, considerando tutti gli aspetti fisiopatologici, quindi poi patologici che poi hanno portato all’exitus). Aspetti istopatologici che oggi sono ampiamente confermati dalle moderne tecniche immuno-istologiche, che con aggiunta di un nuovo dato di una laringe caratterizzata da “…plurime aree di stravaso ematico interstiziale comprovate dalla positività alla glicoforina. Ectasie e congestione vascolare…”, e sono riconducibili ad un fenomeno asfittico e, certamente, non ad una condizione di shock ipovolemico da discontinuazione vasale. Tutto ciò permette una diversa e più significativa valutazione delle lesioni polmonari precedentemente evidenziate aumentando nettamente la probabilità rispetto alle mere possibilità definite dal professore Giorgio BOLINO di “…ritenere possibile che al momento dell’investimento il Bergamini fosse magari ancora vivo ma in condizioni per così dire di ridotta vitalità ovvero in limine vitae…” La dinamica più verosimile è quella che vede il corpo del BERGAMINI steso sul manto stradale in posizione prona accostato e parzialmente sormontato dalla ruota anteriore destra del camion. Dinamica ampiamente avvalorata dagli esami radiologici effettuati in questa sede che hanno consentito di evidenziare, con certezza, tutte le lesioni ossee localizzate all’emilato sinistro e non a quello destro, come affermato dal prof. AVATO. Detti attuali esami di imaging hanno confermato l’esclusivo traumatismo osteo-articolare a livello addomino-pelvico, del rachide lombare, con lussazione e diastasi delle articolazioni sacro-iliache e frattura dei segmenti ossei prevalentemente a sinistra. Dette lesioni ossee all’emilato sinistro del bacino dimostrano che lo schiacciamento del corpo è avvenuto a livello dell’emilato sinistro, deponendo per un sostanziale parziale sormontamento del corpo di Donato BERGAMINI. In base alla dinamica ricostruita, le lesioni addomino-pelviche sono state da scoppio, compatibili con lo schiacciamento da parte di una ruota di un pesante automezzo, in termini di accostamento e soprattutto di parziale sormontamento. Sono risultate altresì assenti lesioni al volto, al capo, al tronco e agli arti superiori riconducibili all’impatto dell’autocarro con un pedone, date anche le caratteristiche proprie del mezzo investitore. Sono altresì assenti segni di trascinamento del corpo sull’asfalto, sia a livello cutaneo che a carico degli indumenti, così come si evince dall’analisi dei meri rilievi fotografici. Quindi, assente è stato il riscontro, a carico dei tegumenti e dell’apparato scheletrico, di lesioni da urto tra veicolo e corpo, da proiezione e abbattimento al suolo del corpo, nonché da trascinamento, per attrito (anche sugli abiti) del corpo, e si può pertanto escludere categoricamente ogni altra dinamica che avrebbe comportato l’impatto del corpo del BERGAMINI contro il frontale del mezzo investitore e/o contro il manto stradale, essendoci invece stato solo l’interessamento, come già detto, della ruota anteriore destra. Del resto, nessun segno di impatto, comprese tracce ematiche, è stato riscontrato sull’autocarro in oggetto, nè sul frontale di questo ma neanche sulla superficie laterale del pneumatico anteriore destro e su quello immediatamente successivo (l’autocarro aveva due assi anteriori). All’atto del sormontamento il corpo era steso, in posizione prona, sul manto stradale, con il capo volto verso la linea di mezzeria e gli arti inferiori verso il margine della strada, perpendicolarmente alla traiettoria del mezzo investitore. È proprio questa posizione, sola, che permette di spiegare le lesioni unicamente trasversali e focali evidenziate sul corpo del Bergamini. In conclusione, la dinamica lesiva che emerge da tali rilievi è fortemente a favore di una genesi delle lesioni determinatesi per impatto tra la ruota, nello specifico la destra, di un autocarro ed il corpo di Donato BERGAMINI già posto prono al suolo, da cui l’estrinsecarsi delle lesioni in termini unicamente di accostamento e sormontamento parziale, provocate da un mezzo pesante che procedeva con moto lento. Invero alcuni elementi istopatologici ed immunoistochimici ci fanno propendere per un decesso avvenuto prima dell’investimento quali ad esempio l’assenza di materiale positivo alla glicoforina sul bacino frantumato. Ipotesi questa che trova ragione anche nella “…mancanza di segni di vitalità…” in tutti i preparati istologici della cute allestiti dal prof. AVATO, anche in quello “…dell’area sopraclaveare…” non interessata dal trauma da schiacciamento, e rivalutati dai prof. BOLINO-TESTI.
Omicidio Bergamini, la drammatica testimonianza del camionista: “C’erano due uomini con la ragazza”. Da Iacchite il 10 Settembre 2021. Il 23 novembre del 2018 a Quarto Grado è andata in onda nella sua interezza la drammatica testimonianza del camionista che aveva telefonato a Donata Bergamini ricostruendo quanto era avvenuto fin dal ritrovamento del cadavere di Denis. La ricostruzione è accurata e dettagliata, chiarisce ancora una volta che il corpo di Denis si trovava già sull’asfalto quando è arrivato il camion e rivela la presenza sul luogo del delitto di due uomini che erano con Isabella ovvero gli assassini di Denis Bergamini. Ma ecco il testo integrale, che oggi torna di grande attualità dopo le indiscrezioni riguardanti la chiusura delle indagini con connesse anticipazioni di sviluppi clamorosi nella direzione dell’accusa. Quella sera di tanti anni fa io ero poco più di un ragazzo e mi trovavo per circostanze di lavoro anche io dietro a quel camion io mi ero fermato poco prima perché poco prima di quel maledetto posto c’è un rifornimento di sigarette, mi sono fermato a prendere le sigarette, il tempo di comprarle ed è passato questo camion… se non mi fossi fermato forse in quell’episodio sarei rimasto coinvolto io, questo è sempre stato il mio dubbio… Comunque io sono partito dietro di lui questo camion frena improvvisamente e io dietro di lui mi fermo pure…Piovigginava quella sera se non voglio sbagliare era pure un sabato sera… questo camion si ferma, io dietro di lui mi fermo poi non ripartiva… ma perché non riparte, ch’è successo? Scendo e vado dal lato destro… guardi me lo ricordo perfettamente, vado dal lato destro perché passavano le macchine a sinistra, mi metto a camminare vicino al guard rail… era buio e camminando inciampo e purtroppo inciampo nelle gambe…Vado poco più avanti, sono rimasto scioccato, l’autista era ancora nel camion, scioccato anche lui, io apro lo sportello e dico ma cos’è successo? E lui diceva ma non c’era non c’era io non l’ho visto non l’ho colpito era già per terra, era per terra… io non convinto ho guardato la cabina del camion e non vedo ammaccature, l’ho proprio guardata bene e le dico di più – sono due giorni che guardo le foto – ho riguardato tutto il camion… se avesse travolto una persona, portava sotto gli scalini davanti… le pedaliere… se l’avesse colpito, la pedaliera sarebbe stata storta… da un lato o dall’altro e invece dalle foto si vede benissimo che non sono storte… Perciò, la cabina non ha nessun segno di ammaccature… ve lo dico io perché c’ero…Lui non l’ha colpito, l’ha trovato di colpo, piovigginava e se l’è trovato davanti e lì ha frenato anche quel poveretto lì… ha frenato, ma con la prima ruota … il corpo era fermo tra una ruota e l’altra… a metà… dal lato destro Quindi lei non ha visto se il camion è andato indietro, se ha fatto retromarcia? Dalle foto io questo ho visto, che il camion è andato indietro… Cioé dico ma come mai? Io pensavo che l’avessero fatto spostare i carabinieri… ma è possibile che nessuno dei carabinieri abbia visto che questo camion non ha nessun segno? E come faceva a buttarsi a pesce come dicono loro se dal guard rail non c’è lo spazio per buttarsi? Dal lato di là, dalla piazzola mi sono accorto che c’erano tre persone, tra cui una donna e una macchina nera… questa donna urlava veramente disperata che io non riuscivo a capire… perché poi io ero lì in questo momento concitato… non riuscivo a capire… Io attraverso la strada, vado dal lato di là, c’erano due uomini e io domando: “Scusate, ma è un vostro parente?”. Le dico di più, vista la situazione io ho preso il mio mezzo e sono passato avanti perché per esperienza sapevo che se arrivavano i carabinieri bloccavano la strada e non potevo più passare… allora prendo il mio mezzo passo davanti o meglio parcheggio più avanti sempre sulla strada e nel frattempo comunque c’erano altre persone lì, non ero io solo, ce n’erano tante nel frattempo, saranno passati 10-15 minuti, le macchine hanno cominciato a fermarsi, quelli dietro di me sono scesi pure, comunque c’erano altre persone. Io mi ricordo che comunque le tre persone c’erano, c’erano due uomini e questa donna, con cui ho parlato… questi due uomini la prendono, aprono lo sportello, la infilano in macchina di forza…
Ma questi due uomini non hanno detto niente?
No, no, no, mi hanno risposto, uno mi ha detto: “No! No! No! No!” con una voce grossa… sono andato lì e ho parlato con la donna, cioè… hanno sentito anche loro perché la tenevano praticamente, tutt’e due la trattenevano… e ho detto: “Scusate ma è un vostro parente?” perché sentendo urlare mi viene spontaneo di dire perché sta urlando, era disperata… E allora questo qui risponde “No! No!” e la prendono e la infilano in macchina, questo lo ricordo perfettamente, l’hanno spinta di forza in macchina e sono partiti…
E mi ricordo che uno di questi ha risposto in un modo brutale: “No! No! No!” ha detto… Erano giovani, erano alti…
Morte del calciatore Bergamini nel 1989, chiesto il processo per l'ex fidanzata. Le Iene News il 21 aprile 2021. Chiesto il rinvio a giudizio, dopo 32 anni, per omicidio per l’ex fidanzata del calciatore del Cosenza Donato "Denis" Bergamini, trovato morto a 27 anni in circostanze misteriose il 18 novembre 1989. Di questo caso vi abbiamo parlato con Alessandro Politi. Si riapre dopo oltre trent’anni il caso della morte a 27 anni del calciatore del Cosenza Donato "Denis" Bergamini il 18 novembre 1989 di cui vi abbiamo parlato con Alessandro Politi nel servizio che vedete qui sopra. La Procura della Repubblica di Castrovillari ha chiesto il rinvio a giudizio per la sua ex fidanzata Isabella con l’ipotesi di reato di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti e futili. L'udienza davanti al gup è fissata per il 2 settembre. Secondo i pm "in concorso con altre persone rimaste ignote", avrebbe narcotizzato Denis prima di "asfissiarlo meccanicamente con uno strumento soft" e di "adagiarlo, già morto, sulla statale allo scopo di farlo investire da uno dei mezzi in transito". Sulla statale 106 poi "effettivamente veniva investito da un autocarro condotto da Raffaele Pisano". Pisano è il camionista già giudicato e assolto in passato dall'accusa di omicidio colposo. In un primo tempo si era pensato che il calciatore si fosse suicidato buttandosi sotto l’automezzo. L’inchiesta era stata riaperta sei anni fa dalla procura di Castrovillari (Cosenza). Archiviata la posizione del marito di Isabella, inizialmente indagato per favoreggiamento in relazione alle dichiarazioni della moglie. La famiglia di Denis si è sempre battuta credendo che si sia trattato di un omicidio. In prima linea c’è sempre stato papà Domizio Bergamini: è morto un anno fa e non potrà vedere questi nuovi sviluppi. Con Alessandro Politi, come vedete qui sopra, abbiamo ricostruito cosa potrebbe essere successo quel 18 novembre 1989. Denis riceve due telefonate che lo inquietano. Quella sera, sempre secondo la prima ricostruzione, scompare dal cinema dove andava come abitudine prima di una partita, con lui quel giorno nel cinema c’era dopo tanto tempo Isabella. Verrà trovato morto tre ore dopo. Secondo l’ex fidanzata il ragazzo le aveva detto di voler scappare dall’Italia e dal calcio. Sarebbe poi sceso dall’auto all’improvviso buttandosi sotto un camion. Anche il camionista dà la stessa versione. Il suo orologio però funziona ancora dopo la morte, nelle scarpe di Denis non ci sono segni del fango che ricopriva la strada, il volto è intatto. Tutte circostanze che sembrano incompatibili con l’incidente. I suoi vestiti, chiesti dalla famiglia, vengono bruciati, dicono. Mimmo Lino, ex dirigente del Cosenza, sorprende i familiari: “Ve li porto io i vestiti e vi racconto tutto”. Non ce la farà, viene ucciso anche lui assieme a un collega da un camion. Venticinque anni dopo la sorella Donata Bergamini riceve una telefonata: parla l’autista del camion che si trovava dietro a quello che avrebbe colpito Denis. Secondo il suo racconto l’altro camion si era fermato prima: Denis era morto prima? Dall’altro lato della strada, dice, c’erano tre persone, tra cui una donna che urlava disperata. Poi l’uomo ritratterà quanto detto in questa telefonata. Familiari ed ex compagni avevano dubbi proprio sull’ex fidanzata Isabella, che sarebbe stata molto morbosa e che voleva a ogni costo tornare con lui. Compaiono anche le figure di due cugini che, se avessero saputo che Denis l’aveva lasciata, l’avrebbero ammazzato per il “disonore”. Si è arrivati così alla riesumazione del cadavere nel luglio 2017 e poi all’autopsia. Per l’avvocato Fabio Anselmo “c’è la certezza che si è trattato di omicidio”. Chi l’avrebbe ucciso? Alessandro Politi aveva provato a chiederlo a Isabella, che non ha risposto.
Carlo Macrì per corriere.it il 20 aprile 2021. Trentuno anni dopo il decesso del calciatore del Cosenza Denis Bergamini un giudice dovrà decidere se la sua fidanzata, Isabella Internò, è responsabile della sua morte. La procura della Repubblica di Castrovillari ha infatti chiesto il rinvio a giudizio della donna con l'accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione. L'udienza davanti al giudice dell'udienza preliminare si terrà il prossimo 2 settembre.
Bergamini, anni di misteri e bugie. Tutti i punti dubbi sulla sua morte. Il corpo di Denis Bergamini venne trovato la sera del 18 novembre del 1989 sulla ex statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico. Secondo la ricostruzione fatta dai magistrati di Castrovillari Isabella Internò «in concorso con altre persone rimaste ignote», avrebbe prima narcotizzato Bergamini, poi soffocato, forse con una busta di plastica e quindi adagiato il corpo sull'asfalto con lo scopo di farlo investire da un mezzo in transito. «Effettivamente il calciatore veniva investito da un autocarro», scrivono i magistrati, condotto da Raffaele Pisano. L'uomo è stato giudicato in passato e assolto. In un primo tempo il decesso di Bergamini era stato classificato come un suicidio. Un'ipotesi cui la famiglia del giocatore del Cosenza non ha mai creduto. La sorella Donata e la madre Maria Zerbini dal primo momento hanno pensato che il loro congiunto fosse caduto in una trappola e poi ucciso. Sei anni fa l'allora procuratore della Repubblica di Castrovillari decise di riaprire il caso. Il magistrato ha affidato una serie di perizie ai professori Antonello Crisci, Carmela Buonomo e Maria Pieri che, in effetti, hanno accertato che Denis è stato soffocato. Secondo la tesi dell'accusa Isabella Internò avrebbe ucciso Denis perché lui aveva deciso di lasciarla.
Morte di Denis Bergamini, chiesto il rinvio a giudizio di Isabella Internò. Il Quotidiano del Sud il 19 aprile 2021. La Procura della Repubblica di Castrovillari ha chiesto il rinvio a giudizio di Isabella Internò, accusata dell’omicidio dell’ex fidanzato, il calciatore del Cosenza Donato “Denis” Bergamini, morto il 18 novembre 1989 sulla statale 106 all’altezza di Roseto Capo Spulico. L’udienza davanti al gup è stata fissata per il 2 settembre prossimo. La Internò è accusata di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti e futili. Secondo la ricostruzione dell’accusa, dunque, Isabella Internò avrebbe, «in concorso con altre persone rimaste ignote», narcotizzato Bergamini poi asfissiato meccanicamente con uno strumento soft e quindi adagiato, già morto, sulla statale allo scopo di farlo investire da uno dei mezzi in transito. E sulla strada, è scritto nel capo d’imputazione, «effettivamente veniva investito da un autocarro condotto da Raffaele Pisano». Quest’ultimo era stato giudicato, e assolto, in passato dall’accusa di omicidio colposo. In una prima fase, infatti, la morte di Bergamini fu attribuita ad un suicidio. L’inchiesta era stata riaperta sei anni fa dall’ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla – dopo una richiesta in tal senso di Donata Bergamini e Maria Zerbini, sorella e madre del calciatore – assistite dall’avv. Fabio Anselmo – e poi proseguita e chiusa dal pm Luca Primicerio. In questa nuova inchiesta la posizioni dell’autista del Tir è stata archiviata così come quella del marito della donna, che inizialmente risultava indagato per favoreggiamento in relazione alle dichiarazioni fornite dalla moglie in fase di escussione come teste. Secondo l’accusa, Isabella Internò avrebbe ucciso Bergamini perché non accettava la decisione presa dal calciatore di interrompere la relazione con lei.
Niccolò Zancan per “la Stampa” il 19 marzo 2021. Lei scriveva lettere d'amore. «Ho sempre voglia di te e quando mi dici che magari non puoi venire, sto tutto il pomeriggio a pensarti». Lei era gelosa, possessiva, ossessionata. «Ricorreva a forme di controllo continue e asfissianti, tipo quella di nascondersi per spiare Denis quando rientrava a casa, di annusare i vestiti per accertarsi di eventuali profumi di altre donne, di sottoporlo a perquisizioni». Sognava di sposarlo, ma Isabella Internò era stata lasciata. L'amore era finito. Per questo sarebbe stato ucciso Denis Bergamini, il centrocampista biondo, il ragazzo gentile, il giocatore del Cosenza trovato morto la sera del 18 novembre 1989 sotto le ruote di un camion al km 401 della Statale 106 all'altezza di Roseto Capo Spulico. Non un suicidio, nemmeno un incidente stradale. Non c'entravano il totonero, lo spaccio di droga e l'acquisto di una Maserati. Secondo la polizia giudiziaria di Castrovillari, che ha ripercorso l'intera vicenda con un'informativa di 1700 pagine, è stato un omicidio. Dopo 31 anni, una sola persona è iscritta nel registro degli indagati: l'ex fidanzata del calciatore, Isabella Internò. Ma l'inchiesta lascia intendere che sarebbe stato un omicidio deciso in famiglia, anche alla luce di un aborto che l'aveva «disonorata». Bergamini attirato in una trappola, proprio con la scusa di parlare di quell'argomento. Bergamini soffocato con un sacchetto di nylon. Bergamini steso a bordo strada per inscenare il suicidio, lì dove è stato trovato dal camionista che l'ha investito. «Si ritiene che i genitori della Internò fossero a conoscenza del piano criminoso della figlia, ma la loro partecipazione non può essere ritenuta una mera connivenza passiva. Per quel che riguarda gli altri complici, ovvero i due giovani visti sulla scena del crimine subito dopo la commissione del reato, si ritiene che essi siano da ricercare sempre nella famiglia più stretta della Internò, ma i dati raccolti non consentono di addivenire all'individuazione di costoro». Dopo tre inchieste archiviate, ora una persona è accusata di omicidio volontario in concorso con ignoti. Il gup dovrà decidere se rinviare a giudizio Isabella Internò. L'ex fidanzata di Denis Bergamini non ha mai commentato le indagini e anche il suo avvocato, Angelo Pugliese, adesso preferisce non rilasciare dichiarazioni. Resta questa montagna di carte, intercettazioni e verbali. Il compagno di squadra Sergio Galeazzi: «Denis era a una persona pulita, cioè un ragazzo che non fumava, non beveva. Quando si usciva bisognava litigare per pagare, perché voleva essere lui a farlo». L'allenatore Gianni Di Marzio: «Personalmente ho sempre manifestato la mia idea completamente differente dall'ipotesi del suicidio di Denis». Denis Bergamini, nato a Argenta nel 1962, in provincia di Ferrara, era arrivato in Calabria nell'estate del 1985. Aveva conosciuto Isabella Internò grazie al portiere Luigi Simoni. Lei era minorenne, lui aveva ventitré anni. La lettera del 20 novembre 1986: «Spero che tu mi voglia ancora bene, perché sai benissimo che io per te vado matta». Si erano lasciati tante volte. Litigi, ancora tentativi. Ad aprile del 1989 lui cercava di chiudere. C'è un biglietto: «Ciao Isa, vorrei che tu passassi delle feste in maniera più serena, comunque vadano le cose rimarrai sempre nel mio cuore. Forse non potrai mai comprendere la mia amarezza per questa avventura finita male, ma a quella decisione ci ho pensato tante volte e non ce l'ho proprio fatta. Un bacione amicone del cuore. Denis». Pagina 106 dell'informativa: «La gelosia ossessiva di Isabella Internò». Lei che non rivolge parola alle potenziali rivali, lei che ferma al semaforo dice «puttana» a un'amica di Bergamini. Aveva capito che non lo avrebbe più riconquistato. Scrivono gli investigatori: «Avrebbe preferito vederlo morto piuttosto che saperlo di un'altra». Erano i tempi raccontati da Michele Padovano, l'ultimo compagno di casa di Denis Bergamini: «Eravamo dei ragazzi, giovani, famosi, ricchi... Ci trovavamo i bigliettini sulla macchina. A lui, a Bergamini, molti più di me, lui era un sex symbol proprio». La sorella, Donata Bergamini, ha sempre combattuto per la verità: «Siamo stati talmente ingannati, presi in giro. È stato faticoso arrivare qui. Eppure tutto era chiaro fin dall'inizio». Nell'ultima intervista a Tele3 Denis Bergamini disse: «Prendo quello che viene. Mi piace vivere!». Non voleva suicidarsi. Non si è tuffato sotto a quel camion. Aveva cominciato un'altra storia d'amore. Per questa ragione, secondo la procura di Castrovillari, fu ucciso il mediano dai modi gentili.
Caso Bergamini, atto secondo: chiesto il rinvio a giudizio per Isabella Internò. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 17 settembre 2021. Caso Bergamini, secondo atto dell’udienza preliminare. Come da previsioni della vigilia, la Procura di Castrovillari ha ribadito la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Isabella Internò, 52 anni da Cosenza, sospettata di essere responsabile dell’omicidio del calciatore, investito da un camion il 18 novembre del 1989 all’altezza di Roseto Capo Spulico. Nel corso di una requisitoria durata circa un’ora e mezzo, il pm Luca Primicerio ha ripercorso la concatenazione di ipotesi su cui si fonda l’accusa: Isabella, all’epoca diciannovenne, avrebbe deciso di punire l’ex fidanzato, ai suoi occhi reo di averla lasciata e per questo motivo avrebbe coinvolto i suoi familiari in una cospirazione: il calciatore, quindi, sarebbe stato attirato in un tranello in quel di Roseto e dopo averlo narcotizzato e soffocato con uno strumento soft -. s’ipotizza un cuscino – i sicari avrebbero esposto il suo corpo al passaggio degli automezzi in transito, simulandone così il suicidio. Gli investigatori ci sono arrivati per esclusione: vagliate e scartate altre piste quali totonero, droga e criminalità organizzata, non restava che quella passionale riconducibile a Isabella e a persone a lei affini. Prima ancora di operare una possibile ricostruzione dei fatti, però, hanno fatto proprie le conclusioni di una perizia medica in cui si afferma che il povero Bergamini fu effettivamente soffocato e che la ferita provocata dal camion fu inferta a un corpo ormai privo di vita. In sintesi, era già morto prima di essere investito, considerazioni già operate in precedenza da altri specialisti del settore che si esprimevano però in termini di “compatibilità” e non di certezza scientifica. In questo caso, però, due medici legali come il defunto Antonello Crisci e, soprattutto, l’anatomopatologa Carmela Buonomo, hanno riproposto le stesse conclusioni in termini di “alta probabilità” e poi di “certezza tecnica”. Dopo Primicerio ha preso la parola il patrono di parte civile, Fabio Anselmo, che dopo aver rappresentato l’ansia di “giustizia e di verità” da parte della famiglia Bergamini, da lui rappresentata in aula, ha puntato il dito contro l’attuale imputata che ha sempre sostenuto la tesi del suicidio ma che a suo avviso, mente da più trent’anni. I lavori riprenderanno lunedì con l’arringa dell’avvocato difensore Angelo Pugliese. A quel punto spetterà poi al giudice per l’udienza preliminare Lelio Festa stabilire se sussistono o meno gli elementi per processare Isabella Internò con l’accusa di omicidio volontario. La decisione del giudice potrebbe arrivare nel corso della stessa giornata.
Il tentativo di trasformare il processo in un circo mediatico che non può essere accettato. A margine dell’udienza preliminare, davanti a microfoni e telecamere ancora Anselmo ha definito “formidabile” la requisitoria di Primicerio. “Il pm ci crede” ha aggiunto, mostrando di aver così dissipato i suoi dubbi della vigilia. Tra le varie dichiarazioni che ha reso c’è anche questa: “Il processo mediatico lo fa anche la difesa, lo fa anche il signor Cribari, giornalista che esprime correttamente il suo punto di vista, magari partecipa un po’ troppo alla vicenda visto le intercettazioni che lo riguardano, con consulenti che… ne danno un ruolo un po’ diverso da quello del giornalista almeno a mio personale, personalissimo avviso”. Stimo l’avvocato Anselmo per alcune difficili cause che ha sostenuto in passato, ma il noto penalista non può trasformare il diritto di cronaca in processo mediatico a suo favore. Invece di stare ai fatti l’avvocato preferisce sbattere, senza contraddittorio, il nostro cronista Cribari, sulla prima pagina degli altri. Un cronista al telefono dissimula, raccoglie notizie, fa il suo mestiere con fonti di ogni tipo, come l’avvocato ben sa. La prova regina sono gli articoli che si scrivono. Quelli di Marco Cribari sono ineccepibili per documentazione degli atti e dei fatti. Per dirla con Sciascia, a ciascuno il suo egregio avvocato Anselmo. PARIDE LEPORACE
Caso Denis Bergamini, l’importanza di essere Pisano. La posizione del camionista rosarnese è stata archiviata non senza ambiguità. Ecco perché senza di lui la teoria del complotto omicidiario rischia di indebolirsi. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 5 marzo 2021. L’uscita di scena di Raffaele Pisano dall’inchiesta sulla morte di Donato Bergamini fa calare il sipario investigativo su un personaggio che è sempre stato considerato a torto comprimario di un dramma che, invece, ha in Isabella Internò la protagonista unica e indiscussa. Non è così, perché nei tragici eventi del 18 novembre 1989, il camionista rosarnese gioca un ruolo forse ancora più importante dell’ex fidanzata del calciatore, oggi indagata in solitario per il suo presunto omicidio. Anche lui, all’epoca dei fatti cinquantenne e oggi ottuagenario, dal 2010 in poi ha condiviso lo stesso destino giudiziario, sospettato di essere un ingranaggio di quel complotto ordito proprio dalla Internò in concorso con ignoti. Tutto questo ha fatto sì che per oltre un decennio, si sia proposta la tesi di un Bergamini ucciso o ridotto all’impotenza e poi adagiato sull’asfalto in attesa che il camion di Pisano, con moto lento e assassino, arrivasse a completare l’opera. La chiusura delle indagini preliminari decretata tre giorni fa revisiona questa ricostruzione dei fatti. La posizione di Pisano, infatti, è stata archiviata e per escluderlo dall’inchiesta gli inquirenti hanno utilizzato una formula ambigua. Da un lato, infatti, si ammicca al principio del ne bis in idem – nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso reato – evidenziando come, con riferimento alla stessa vicenda, l’uomo sia stato già processato nel 1990 e assolto dall’accusa di omicidio colposo. Diverse sentenze di Cassazione escludono la possibilità che una modifica dell’imputazione – in questo caso si passa all’omicidio volontario – renda nuovamente processabile chicchessia, ma se la Procura fosse convinta della sua colpevolezza, una rinuncia preventiva al tentativo di incriminazione appare, da parte sua, quantomeno insolita. Possibile, ma comunque insolita. Al tempo stesso, però, nel capo d’accusa formulato contro la Internò si evidenzia come gli assassini abbiano posizionato il corpo di Denis sul manto stradale della Ss 106 jonica per «esporlo» al passaggio dei mezzi in transito, lasciando intendere dunque che contassero sul contributo casuale e non volontario di qualche automobilista di passaggio. Non si comprende, insomma, se per gli inquirenti Raffaele Pisano sia un colpevole che l’ha fatta franca o solo un ignaro passante rimasto invischiato suo malgrado in una vicenda più grande di lui, ed è un dilemma che, evidentemente, si è ritenuto di poter risolvere depennando il suo nome dall’elenco degli indagati. La sua figura, però, non può essere accantonata ex abrupto perché intimamente connessa dal punto di vista giudiziario a quella della Internò di cui, volente o nolente, appare come il principale testimone difensivo. Per undici lunghi anni gli investigatori hanno frugato nelle loro vite private in cerca di un indizio che potesse metterli in relazione, ma non è emerso davvero nulla per adombrare, anche solo lontanamente, la benché minima conoscenza pregressa tra un autotrasportatore di cinquant’anni residente nel Reggino e una studentessa di Ragioneria diciannovenne e originaria di Cosenza. Insomma, prima che i loro destini si incrocino al km 401 della Statale jonica, Isabella e il camionista sono due perfetti sconosciuti, e che quel giorno lui sia solo uno che passa di lì per caso, sembra dimostrarlo la testimonianza di un altro camionista che il 18 novembre a sera percorre la stessa strada. Poco prima, Francesco Forte si è fermato a comprare le sigarette ed esita a reimmettersi sulla Ss 107 perché vede un altro automezzo sopraggiungere da lontano. È proprio il Fiat Iveco di Pisano e Forte decide di farlo passare, «così se più avanti ci sono i carabinieri fermano lui e non me», pensa. Si mette in scia di quel camion, ma dopo qualche minuto si accorge che lo stesso frena all’improvviso per poi arrestare la marcia. Si avvicina all’abitacolo e vede il conducente in stato di choc, mentre sotto la sua ruota anteriore destra giace un corpo: è quello del povero Bergamini. «Avrei potuto investirlo io» aggiungerà in seguito Forte, manifestando un pensiero che, a suo dire, lo tormenta da anni. Tutto per una precedenza data nei pressi di una stazione di servizio, porta girevole scelta dal destino per inguaiare qualcuno e salvare qualcun altro. Con queste premesse allora, anche per il più colpevolista degli investigatori diventa arduo ipotizzare che Pisano abbia fatto parte di una cospirazione omicida, ma considerarlo estraneo ai fatti rischia di essere per certi versi ancora più controproducente. «Si è buttato come un fulmine», il camionista ha sempre descritto così la condotta di Bergamini in quell’istante fatale, assumendosi la responsabilità di aver investito una persona in posizione eretta, non distesa sul manto stradale perché già morta o priva di sensi. Se lui è innocente, allora non si dovrebbe dubitare neanche della sua parola; e se davvero, come dice, Bergamini era ancora in piedi un attimo prima del passaggio del camion, la teoria del complotto omicidiario si ritrova davanti a uno scoglio forse insormontabile. Del resto, quale ragione avrebbe avuto per mentire? All’epoca si guadagnava da vivere rifornendo di verdura e agrumi i mercati ortofrutticoli. Lunghi viaggi, partendo ogni volta da Rosarno e poi su e giù per l’Italia a pieno carico. Quel giorno era diretto a Rimini e ne trasportava uno di mandarini. Il peggio che potesse capitargli in quel momento, dunque, era di vedersi ritirare la patente, epilogo che lo avrebbe affossato in termini lavorativi. Per lui, allora, sarebbe stato molto più conveniente sostenere la tesi del corpo già coricato sull’asfalto, circostanza che lo avrebbe messo al riparo da conseguenze penali che, invece, ha scelto di affrontare fino in fondo. Non a caso, nel 1990 Raffaele Pisano ha subito un processo durante il quale, da imputato, ha reso in aula una lunga testimonianza rallentata a più riprese da lacrime e singhiozzi, a riprova della pena interiore che quella vicenda gli aveva lasciato in eredità. In quel caso, decisiva per la sua assoluzione sarà proprio la Internò, ferma nel proporre la tesi di Denis che si tuffa volontariamente sotto al camion. Il pretore dell’epoca giudica il suo racconto credibile perché «impopolare», passibile di riprovazione da parte di chi, da quel momento in poi, l’avrebbe additata quale responsabile morale di quel suicidio. Una piccola pietra piovuta sulla sua testa trent’anni fa, ben poca cosa rispetto alla sassaiola dell’ultimo decennio.
Caso Denis Bergamini, il complotto dei “soliti ignoti”. I possibili punti deboli nelle accuse formulate contro l’ex fidanzata del calciatore. Gli inquirenti ripropongono lo schema già scartato nel 2014. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 3 marzo 2021. La chiusura delle indagini sul caso Bergamini dopo sei anni di gestazione ci consegna quella che, secondo la Procura di Castrovillari, è la versione definitiva dei fatti verificatisi il 18 novembre del 1989 a Roseto Capo Spulico (Cs). La sintesi, come di consueto, è affidata al capo d’imputazione formulato per Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore, all’epoca diciannovenne e oggi unica indagata con l’accusa di omicidio volontario. Quel giorno, dunque, proprio lei dopo aver «ottenuto un appuntamento» con Bergamini lo avrebbe «narcotizzato in concorso con ignoti» per ridurne le capacità di difesa e cagionarne poi la morte, «asfissiandolo meccanicamente mediante uno strumento soft». Dopodiché, con Denis già morto o comunque «in limine vitae», con l’aiuto dei suoi complici avrebbe disteso il corpo sull’asfalto per farlo investire da un automezzo a coronamento della messinscena. La ragazza avrebbe raggiunto tale determinazione perché non si rassegnava alla decisione assunta da Bergamini di troncare la loro relazione sentimentale.
TUTTE LE NOTIZIE SUL CASO BERGAMINI. Non è una ricostruzione inedita, dal momento che è identica a quella che si era fatta largo durante la prima inchiesta, salvo poi essere bocciata dagli stessi inquirenti all’epoca guidati dal procuratore Franco Giacomantonio. I suoi successori hanno deciso di riproporla negli stessi termini e, a questo punto, probabilmente con gli stessi limiti di allora.
L’APPUNTAMENTO. La prima indagine ha già dimostrato che è avvenuto esattamente il contrario. Quel giorno è Denis che contatta la ragazza dal cinema “Garden” dove si è recato insieme a tutti i suoi compagni di squadra. Un testimone lo vede dirigersi per ben due volte alla cabina ubicata di fianco alla cassa e, in effetti, come spiegato dalla Internò nell’immediatezza, la prima chiamata era andata a vuoto dato che lei in quel momento non si trovava in casa. Per anni poi si è favoleggiato su sedicenti “ombre” che avrebbero atteso e poi prelevato Bergamini fuori dal cinema, ma altrettanti testimoni interpellati tra il 2010 e il 2014, smentiscono anche questa circostanza: il calciatore uscì da solo, sfruttando peraltro l’assenza del suo allenatore Gigi Simoni; diversamente per lui sarebbe stato impossibile lasciare quella sala.
IL NARCOTICO. Dall’autopsia eseguita un mese dopo la morte e da quella replicata nel 2017 non sono emerse tracce di droghe o sonniferi, solo alcol in quantità definita «trascurabile» dal medico legale. Al riguardo, dunque, non c’è neanche un elemento concreto, ma dato che è impossibile immaginare un Bergamini che si fa adagiare sull’asfalto senza abbozzare una reazione, va da sé che debba essere stato stordito in qualche modo. Come? Non v’è traccia neanche di ferite da colpi contundenti, ragion per cui non resta che ipotizzare l’utilizzo di un narcotico.
L’ASFISSIA. Era una soluzione proposta già dai consulenti di Giacomantonio attraverso una tecnica di medicina sperimentale applicata all’osservazione dei vetrini della prima autopsia. Il procuratore dell’epoca, però, ha un’intuizione lungimirante: far lavorare i suoi specialisti separatamente e non in modo collegiale. Lo fa a garanzia degli indagati e, non a caso, quelle perizie risulteranno così contraddittorie da annullarsi a vicenda. Proprio in quel contesto emerge la teoria del soffocamento soft, anche in questo caso per esclusione: è impensabile che lo abbiano strangolato con le mani o con una corda, data l’assenza di lesioni che in caso contrario sarebbero state evidenti; si propende, quindi, per l’utilizzo di un sacchetto di plastica o di un cuscino che qualche segno, però, lo avrebbero pure lasciato. Per aggirare anche quest’ultimo ostacolo, si arriva a immaginare lo strangolamento leggero, delicato. Soft per l’appunto.
LA MORTE. Altro tema sul quale si sono espressi fior di periti senza però arrivare a nulla di concreto. Che Bergamini fosse morto prima di essere investito dal camion, si è provato a dimostrarlo scomodando ancora la medicina sperimentale, prima attraverso l’analisi del sangue e della sua colorazione e buon ultimo con la glicoforina. Tutti gli specialisti interpellati sulle cause del decesso, però, sono approdati alla stessa conclusione: a ucciderlo è stata la ruota del camion di Pisano. Una contraddizione in termini, dunque, alla quale si è tentato di opporre l’ennesima congettura riparatoria, e cioè che al passaggio dell’automezzo lo sfortunato atleta non fosse morto, bensì in fin di vita.
E L’AMORE. E così si procede per contrarietà e sul filo delle deduzioni. Il movente prospettato non fa eccezione alla regola e anzi, a quello si arriva addirittura per sfinimento. Una volta scartate piste rivelatesi inconcludenti come la droga, il totonero e la ‘ndrangheta, si opta per quella passionale alla quale, a partire dal 2010, finiscono per aggrapparsi un po’ tutti. Sia i familiari di Bergamini che molti compagni di squadra propongono compatti un’immagine di Isabella appiccicosa «come l’attack», che stava addosso a Denis in modo asfissiante e non voleva saperne di rassegnarsi alla fine del loro rapporto, a differenza del suo ex che, dopo averla lasciata, aveva già in mente di sposare un’altra donna. Sembrerebbe un riscontro, ma il problema è che le stesse persone, nell’immediatezza dei fatti, rappresentavano una realtà diametralmente opposta. Nel 1989, infatti, colleghi e affini sono concordi nell’affermare che il calciatore fosse ancora molto preso da Isabella. Era stato lui a lasciarla, ma solo a causa di una gelosia retroattiva che lo tormentava. Soffriva ancora per quella ragazza, come dimostrato anche dalla foto di lei che teneva di fianco al letto durante il ritiro estivo. Solo quattro mesi prima di dire addio al mondo.
I COMPLICI. Cosa è cambiato allora rispetto al 2014? Qual è il valore aggiunto in termini di conoscenze che la nuova inchiesta ha apportato al caso? Lo scopriremo una volta visionati gli atti d’indagine, anche se dall’analisi sommaria del capo d’imputazione il tempo sembra essersi fermato proprio a sette anni fa. Nessun progresso – e anche di questo c’è da esserne certi – si è registrato sul fronte dell’identità dei presunti complici, le persone che avrebbero fatto parte della cospirazione insieme a Isabella. La soluzione offerta dalla Procura, infatti, è quella che fa da cornice a ogni mistero che si rispetti: gli ignoti, i soliti ignoti.
LE RISPOSTE. Un quadro d’accusa che sembra seguire, quindi, un percorso diverso rispetto a quello delle indagini tradizionali, con i fatti che non sono messi insieme per verificare se Bergamini sia stato realmente ucciso oppure no, ma solo per cercare una spiegazione – possibilmente logica – all’omicidio inteso come assunto da dimostrare. A rendere il tutto ancora più complicato e scivoloso ci sono poi quegli elementi, ben più concreti, che offrono invece una chiave di lettura diversa della tragedia di Roseto e che all’epoca hanno spinto il gip Annamaria Grimaldi ad affermare con tono di certezza che quello del 18 novembre 1989, al km 401 della Strada statale 107 jonica «non fu un omicidio». Questa, però, è un’altra storia e ormai non è più tempo di domande, bensì di spiegazioni. Donata Bergamini ne attende una da trentadue anni. Le hanno detto che la glicoforina dimostra in modo evidente che suo fratello è stato ucciso. È davvero così? In caso contrario, qualcuno dovrà assumersene la responsabilità. Anche Isabella Internò merita più d’una risposta. Da 11 anni è indagata per omicidio, un record poco invidiabile che da allora l’ha esposta a un linciaggio da social network senza precedenti, con insulti e maledizioni che le si riversano addosso dai pulpiti virtuali ogni qual volta l’argomento in questione torna d’attualità. La sua vita e quella dei suoi familiari è stata rovinata, forse in modo irrimediabile, così come la reputazione di magistrati, carabinieri, semplici testimoni associati di volta in volta a suggestioni complottiste ieri più dilatate ma ora ridotte all’osso. Tutti attendono una spiegazione.
Morte di Bergamini nel 1989: indagata l'ex per l'omicidio del calciatore. Le Iene News il 02 marzo 2021. Denis Bergamini non sarebbe morto perché investito da un camion nel 1989 ma sarebbe stato soffocato prima con una busta di plastica. È l’ipotesi per cui risulta oggi indagata per concorso in omicidio l’ex fidanzata Isabella dopo 32 anni. Noi de Le Iene con Alessandro Politi avevamo ricostruito la morte del giovane calciatore del Cosenza di 27 anni sottolineando i tanti dubbi sull’ipotesi che si fosse buttato volontariamente sotto l’autocarro. Trentadue anni dopo c’è una svolta sulla morte misteriosa di Denis Bergamini, di cui vi abbiamo parlato nel servizio di Alessandro Politi che vedete qui sopra. C’è una indagata, la sua ex fidanzata Isabella, per concorso in omicidio: il calciatore del Cosenza sarebbe stato soffocato con una busta di plastica e non sarebbe morto perché investito da un camion. Ieri, lunedì, le è arrivato l’avviso di chiusura indagini. I magistrati hanno prosciolto invece il marito della donna il poliziotto Luciano Conte, accusato di favoreggiamento, e l’autista dell’autocarro Raffaele Pisano, che quel pomeriggio del 18 novembre 1989 percorrendo sulla statale ionica nei pressi di Roseto Capo Spulico avrebbe travolto Denis, disteso sulla carreggiata (si era pensato che Bergamini si fosse suicidato buttandosi sotto il mezzo). Il ragazzo sarebbe stato soffocato “verosimilmente con una busta di plastica” secondo una perizia sul corpo effettuata 28 anni dopo la sua morte e poi “adagiato sull’asfalto a pancia in su”. L’inchiesta è stata aperta sei anni fa, entro un mese si attende la decisione del gip sul rinvio a giudizio. La famiglia ha sempre sostenuto che il giovane calciatore di 27 anni è stato ucciso. Per questa tesi si era sempre battuto in prima linea Domizio Bergamini, il papà di Denis: è morto un anno fa e non potrà vedere questi nuovi sviluppi dopo oltre 30 anni. Con Alessandro Politi, come vedete qui sopra, abbiamo ricostruito cosa potrebbe essere successo quel 18 novembre 1989. Denis riceve due telefonate che lo inquietano. Quella sera scompare dal cinema dove andava come abitudine prima di una partita. Verrà trovato morto tre ore dopo. Con lui quel giorno c’era dopo tanto tempo Isabella. Secondo l’ex fidanzata, lui le diceva di voler scappare dall’Italia e dal calcio. Sarebbe poi sceso dall’auto all’improvviso buttandosi sotto un camion. Anche il camionista dà la stessa versione. Il suo orologio però funziona ancora dopo la morte, nelle scarpe di Denis non ci sono segni del fango che ricopriva la strada, il volto è intatto. Tutte circostanze che sembrano incompatibili con l’incidente. I suoi vestiti, chiesti dalla famiglia, vengono bruciati, dicono. Mimmo Lino, ex dirigente del Cosenza, sorprende la famiglia: “Ve li porto io i vestiti e vi racconto tutto”. Non ce la farà, viene ucciso anche lui assieme a un collega da un camion. Venticinque anni dopo la sorella Donata Bergamini riceve una telefonata: parla l’autista del camion che si trovava dietro a quello che avrebbe colpito Denis. Secondo il suo racconto l’altro camion si era fermato prima, Denis era morto prima? Dall’altro lato della strada, dice, c’erano tre persone, tra cui una donna che urlava disperata. Poi l’uomo ritratterà quanto detto in questa telefonata. Tra le ipotesi c’è quella di un omicidio legato al Totonero, al calcio scommesse che travolse il calcio negli anni ’80 e quella di un omicidio legato a droga e ’ndrangheta. Familiari ed ex compagni avevano dubbi proprio sull’ex fidanzata Isabella, che sarebbe stata molto morbosa e che voleva a ogni costo tornare con lui. Compaiono anche le figure di due cugini che, se avessero saputo che Denis l’aveva lasciata, l’avrebbero ammazzato per il “disonore”. Si è arrivati così alla riesumazione del cadavere nel luglio 2017 e poi all’autopsia. Per l’avvocato Fabio Anselmo “c’è la certezza che si è trattato di omicidio”. Chi l’avrebbe ucciso? Alessandro Politi ha provato a chiederlo a Isabella, che non ha risposto.
Denis Bergamini, sconvolgente svolta a 32 anni dalla morte del calciatore del Cosenza: "Chi è indagato". Libero Quotidiano l'01 marzo 2021. A più di 30 anni dalla morte dell’ex giocatore del Cosenza Denis Bergamini, risulta indagata per la sua uccisione l’ex fidanzata. Il calciatore ha perso la vita il 18 novembre del 1989 sulla strada statale 106 Jonica, nei pressi di Roseto Capo Spulico, sulla costa ionica calabrese. L’accusa per l’ex fidanzata della vittima è di concorso in omicidio, come scrive la Gazzetta dello Sport. Isabella Internò, l’indagata che ora ha 51 anni, ha venti giorni di tempo per presentare una memoria difensiva o chiedere di essere interrogata. L’ipotesi è che Bergamini sia stato prima narcotizzato e asfissiato e messo poi, già cadavere o già in fin di vita, sull’asfalto stradale allo scopo di farlo investire. Il movente sarebbe collegato alla fine della relazione tra i due, per volontà del calciatore. E infatti alla Internò, che all'epoca dei fatti aveva 19 anni, sarebbero contestate anche aggravanti come la premeditazione e motivi abietti e futili. L’inchiesta è stata aperta sei anni fa dall'ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, poi è stata chiusa dal pm Luca Primicerio. Sono state archiviate, invece, le posizioni di Luciano Conte, poliziotto e marito della Internò, all'inizio accusato di favoreggiamento, e quella dell'oggi ottantenne Raffaele Pisano, autista di Rosarno, sospettato di concorso in omicidio.
Morte Denis Bergamini: dopo 31 anni indagata l’ex fidanzata per concorso in omicidio. Carlo Macrì su Il Corriere della Sera l'1 marzo 2021. Il calciatore del Cosenza venne trovato morto il 18 novembre 1989. Un mistero mai risolto. Prosciolto invece l’autista dell’autocarro che investì il giocatore. Per l’accusa la vittima fu soffocata e poi buttata in mezzo alla strada per simulare un investimento. Trentuno anni dopo la morte del calciatore del Cosenza Denis Bergamini, c’è oggi l’unica indagata per quella morte, avvenuta per soffocamento. E’ l’ex fidanzata Isabella Internò che lunedì ha ricevuto l’avviso di conclusione indagini da parte della procura di Castrovillari che le contesta il concorso per l’omicidio del suo ex. I magistrati hanno prosciolto il marito della donna il poliziotto Luciano Conte, inizialmente accusato di favoreggiamento e l’autista dell’autocarro Raffaele Pisano, sospettato di concorso nel delitto, che quel pomeriggio del 18 novembre del 1989 percorrendo la statale ionica, nei pressi di Roseto Capo Spulico, avrebbe schiacciato con il suo mezzo il corpo del calciatore che si trovava disteso sulla carreggiata. In un primo momento si era pensato che Bergamini si fosse tolto la vita, buttandosi sotto il camion.
Soffocato «verosimilmente con una busta di plastica». La perizia sul corpo effettuata 28 anni dopo dai professori Antonello Crisci, Carmela Buonomo e Maria Pieri ha però accertato che Denis Bergamini sarebbe stato prima soffocato «verosimilmente con una busta di plastica» e poi «adagiato sull’asfalto a pancia in su». L’avvocato Fabio Anselmi, legale della famiglia Bergamini raggiunto telefonicamente per un commento sulle decisioni della procura si è meravigliato del fatto la notizia non è stata comunicata alla famiglia. «Faremo immediatamente la richiesta di accesso agli atti per capire come si è mossa la procura e per conoscere le ragioni che hanno spinto i pubblici ministeri ad archiviare le posizioni di Pisano e Conte» — ha detto il legale. L’inchiesta sulla morte del calciatore è stata aperta sei anni fa all’ex procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla.
I familiari: «Denis venne ucciso». Nella relazione che i periti hanno recapitato in procura è descritto in modo netto che solo la parte sinistra dell’addome di Bergamini è «scoppiato», sotto il peso della ruota destra del camion. Poi il mezzo è come se avesse fatto retromarcia, lasciando intatte le altre parti del corpo testa, arti superiori e inferiori. La famiglia di Bergamini ha sempre sostenuto che il giovane calciatore è stata ucciso. Adesso Isabella Internò ha venti giorni di tempo per chiedere di essere interrogata e spiegare le sue ragioni sulla vicenda. Dopodiché il giudice delle indagini preliminari dovrà decidere sul suo rinvio a giudizio.
Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 2 marzo 2021. Il calciatore del Cosenza Denis Bergamini non si è suicidato. Trentuno anni dopo la sua scomparsa la Procura di Castrovillari ha chiuso le indagini e ha iscritto nel registro degli indagati, con l' accusa di concorso in omicidio, l' ex fidanzata del calciatore Isabella Internò, 54 anni, di Cosenza. Escono di scena, perché prosciolti, il marito della donna il poliziotto Luciano Conte, in un primo momento accusato di favoreggiamento e Raffaele Pisano l' autista del camion sospettato di concorso nel delitto. Pisano quella sera del 18 novembre del 1989 raccontò di aver investito Denis perché non era riuscito a frenare e di averlo trascinato «per una cinquantina di metri». Il camionista disse inoltre che quell' uomo si era buttato volontariamente sotto le ruote del suo camion. Le indagini sulla morte di Bergamini riaperte sei anni fa dall' ex procuratore della Repubblica Eugenio Facciolla, hanno smentito la tesi del suicidio. Le perizie affidate ai professori Antonello Crisci, Carmela Buonomo e Maria Pieri hanno invece accertato che il calciatore sarebbe stato prima soffocato «verosimilmente con una busta di plastica» e poi «adagiato sull' asfalto a pancia in su». Nella loro relazione i periti hanno spiegato in modo netto che solo la parte sinistra dell' addome di Bergamini è «scoppiata» sotto il peso della ruota destra del camion. Poi il mezzo è come se avesse fatto retromarcia, lasciando intatte le altre parti del corpo. Della decisione della Procura la famiglia Bergamini non è stata avvisata. «Faremo immediatamente la richiesta di accesso agli atti per capire come si sono mossi i magistrati e comprendere le ragioni che hanno spinto i pubblici ministeri ad archiviare le posizioni di Conte e Pisano» ha detto il legale Fabio Anselmo. I familiari del giovane calciatore in questi decenni si sono battuti per conoscere la verità sulla morte del proprio congiunto. E sono stati sempre convinti che Denis non avesse nessun motivo per suicidarsi. Donata Bergamini, sorella del calciatore, ha ripetuto in ogni occasione che il fratello è stato ucciso prima di essere gettato sotto il camion. Ma le due precedenti inchieste non sono bastate per risolvere il giallo. Isabella Internò sarebbe stata l' ultima persona a vedere Denis. All' epoca si parlò di un litigio tra i due che spinse il calciatore a buttarsi sotto il camion. Questa ipotesi non ha mai convinto non solo i familiari, ma neanche la Procura di Castrovillari che ha persino ipotizzato che dietro la morte di Bergamini si potessero nascondere scenari criminali. Secondo la famiglia, poi, il corpo di Denis non presenterebbe traumi da schiacciamento e, soprattutto, l' orologio e la catenina che aveva al collo avrebbero dovuto frantumarsi con l' impatto sull' asfalto. Invece sono rimasti intatti. Altri oggetti che portava addosso non hanno subito danni come accertarono le perizie del tempo. Le relazioni all' epoca stabilirono anche che Denis Bergamini era stato schiacciato dalle ruote del camion. La nuova inchiesta parla invece di omicidio. Il calciatore è morto soffocato.
Bergamini, 25 anni di misteri e bugie. Tutti i punti dubbi sulla sua morte. Angela Geraci su Il Corriere della Sera il 17 novembre 2014 Denis, calciatore del Cosenza, fu trovato morto davanti a un camion il 18 novembre del 1989. Suicidio, si disse per anni. Ora sta per chiudersi la nuova inchiesta: per omicidio. C’è un orologio che continua a ticchettare in una casa di Boccaleone di Argenta (Ferrara) da venticinque anni. È in perfette condizioni: la cassa dorata lucida, il quadrante senza un graffio, il cinturino in pelle marrone liscio e intatto. Le lancette girano, imperterrite, dentro il cassetto di Donata e scandiscono il tempo che passa senza giustizia per suo fratello Donato, Denis come lo chiamavano tutti. Quell’orologio, infatti, racconta la storia di una morte mai spiegata, lasciata – per scelta, interesse e incuria di qualcuno – senza spiegazioni. Anzi, sepolta da una montagna di bugie. Denis Bergamini ce l’aveva al polso la sera piovosa del 18 novembre del 1989 quando venne trovato morto sul ciglio della Statale Jonica 106 al chilometro 401 vicino a Roseto Capo Spulico, a 100 chilometri da Cosenza. Il corpo del ragazzo, centrocampista del Cosenza di 27 anni, era a pancia in giù sull’asfalto, davanti alle ruote di un camion carico di mandarini che pesava 138 quintali. L’autista, Raffaele Pisano, raccontò subito di aver investito Denis, di non essere riuscito a frenare e di averlo trascinato «per quasi una cinquantina di metri» sotto il suo gigantesco mezzo. Per 59 metri, precisarono e misero a verbale i carabinieri arrivati sul posto. Denis, disse immediatamente il camionista, si era buttato volontariamente tra le ruote del suo Fiat Iveco 180 e c’era un’altra persona che lo aveva visto e poteva testimoniare: Isabella Internò, la ex fidanzata del ragazzo che era insieme a lui proprio in quel momento. «Si è voluto suicidare», furono le prime parole che la 20enne rivolse all’autista del camion. «Si è buttato sotto le ruote tuffandosi nella stessa posa che si usa quando si fanno i tuffi in piscina: le braccia protese in avanti, la testa leggermente reclinata in avanti, il corpo teso orizzontalmente», dichiarò poi davanti al sostituto procuratore Ottavio Abbate. Nessuno, venticinque anni fa, si volle soffermare sul fatto che sul corpo del calciatore non ci fosse alcun segno compatibile con la dinamica raccontata. Un corpo stritolato per metri tra l’asfalto e la mole di un mezzo così pesante sarebbe dovuto essere maciullato, con i vestiti quantomeno stracciati in qualche punto. Invece quelle mani «protese in avanti» non avevano un graffio. Così come i piedi, le gambe, le spalle, il volto di Denis (su cui c’era solo una piccola abrasione sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli sul lato sinistro). I suoi vestiti erano intatti: il gilet di raso, la camicia, i pantaloni, le scarpe di pelle, i calzini a losanghe ancora perfettamente tirati su sul polpaccio. E quell’orologio da polso integro e funzionante. L’unica ferita, grave, era all’altezza del bacino. Denis Bergamini di certo non è stato investito e trascinato come hanno raccontato i testimoni e come è stato avallato dai carabinieri e dai due gradi di giudizio che nei primi anni Novanta hanno assolto il camionista dall’accusa di omicidio colposo. Quella sera di venticinque anni fa le cose non sono andate così come sono state ricostruite. Adesso si sta per chiudere l’inchiesta riaperta nel 2011 dalla procura di Castrovillari, grazie alla tenacia della famiglia Bergamini e al lavoro del loro avvocato Eugenio Gallerani: l’ipotesi di reato, questa volta, è omicidio volontario. Ci sono almeno due indagati: Isabella, per concorso in omicidio, e l’autista del camion per false dichiarazioni ai pm. Ecco, punto per punto, i principali elementi che non tornano in questa vicenda resa difficile dalle menzogne e dal passare degli anni, ma che complicata, in fondo, non doveva essere.
1. La macchina di Denis. La Maserati bianca. Il rapporto scritto dal brigadiere Francesco Barbuscio, il comandante della stazione dei carabinieri di Roseto Capo Spulico arrivato sul luogo dell’“incidente” alle 19,30, contiene una macroscopica incongruenza a proposito della macchina di Bergamini, una Maserati bianca. Nel testo del militare si legge che «sul luogo del sinistro […] l’autocarro era preceduto dall’auto». Quell’auto che, precisa il carabiniere, lui stesso aveva fermato a un posto di blocco due ore prima: a bordo c’erano un ragazzo e una ragazza. Non vedendo la giovane, il brigadiere chiede al camionista dove sia finita e gli viene detto che «con un automobilista di passaggio si era recata a Roseto forse per avvertire i congiunti». Allora Barbuscio scrive di essere andato in paese e di aver trovato vicino a un bar «la ragazza che prendeva posto sulla Maserati di cui sopra». In poche righe la macchina della vittima cambia di posto e si trova contemporaneamente in due luoghi diversi. Ma nessuno ci fa caso. E c’è di più: dagli ordini di servizio in cui i carabinieri registrano tutte le loro attività è sparita proprio la nota, allegato B, con l’elenco delle auto fermate dalle 17 in poi di quel pomeriggio al posto di blocco. C’è poi un altro punto oscuro: Barbuscio scrive di essere stato avvisato che «c’era un morto in mezzo alla strada» dai carabinieri di Rocca Imperiale, un paese vicino, per telefono. Ma chi ha avvisato i carabinieri? Finora non si è mai saputo. Si sa invece che più volte, dopo la morte di Denis, Isabella ha telefonato ai suoi familiari chiedendo che le fosse data la Maserati che Bergamini aveva comprato poco prima da un parente di un dirigente del Cosenza: «Lui me l’aveva promessa in eredità», sosteneva.
2. L’accompagnatore misterioso. Isabella era insieme a Denis quel pomeriggio, anche se (dopo una storia complicata durata quattro anni tra alti e bassi) non stavano più insieme da un paio mesi, ed è la testimone numero uno di quanto accaduto. Al sostituto procuratore dice di aver «chiesto a un ragazzo che si era fermato e aveva una macchina bianca di accompagnarmi a telefonare per chiedere aiuto». Arrivati al bar del paese lei telefona alla madre (e anche alla società del Cosenza e a un giocatore, Marino) mentre «il ragazzo che mi aveva accompagnato telefonò ai carabinieri». Ma i militari sono già sul posto visto che, come dice il brigadiere, sono stati avvisati dai colleghi e Isabella sulla Statale 106 non c’è. Il proprietario del bar, Mario Infantino, dichiara invece che la ragazza arriva nel suo locale insieme a un signore e che, mentre lei parla al telefono, questa persona gli dice di aver lasciato la sua auto sul luogo dell’incidente con dentro la moglie incinta. Per accompagnare Isabella il signore ha usato la Maserati di Denis e poi sempre con quella, dichiara il barista, è tornato dalla moglie lasciando la ragazza nel bar. Come è arrivata davvero Isabella al bar? E come mai l’accompagnatore non si è mai fatto avanti, allora e in tutti questi anni (né lui né l’ipotetica moglie incinta)? Adesso sembra che l’uomo sia stato identificato e ascoltato dagli inquirenti.
3. In viaggio da Taranto. Isabella ha raccontato che quel giorno Denis la passa a prendere in auto sotto casa intorno alle 16. Iniziano a dirigersi verso Taranto e alle 17,30 vengono fermati al posto di blocco dei carabinieri di Roseto. Rimarranno due ore a discutere nella piazzola di sosta vicino a dove sarà trovato il calciatore. Di cosa? Lui voleva lasciare il mondo del calcio e partire per l’estero, Amazzonia o Hawaii. Strano visto che non aveva con sé denaro a sufficienza per una fuga né valigie né passaporto o carta di identità. E poi dal porto di Taranto non ci si imbarca per nessuna destinazione: partono solo merci. Ma quindi, dunque, aveva deciso di scappare o voleva suicidarsi? E se voleva uccidersi perché farlo a 100 chilometri da Cosenza e davanti a una ex fidanzata? Oltretutto il giorno prima di un’importante partita che lui ci teneva a giocare? La domenica il suo Cosenza, salito in serie B l’anno prima e in cui lui stava da quattro anni, doveva affrontare il Messina: Bergamini si era allenato sabato mattina ed era in ritiro con la squadra. «Il calcio era la sua vita – racconta la sorella Donata – e non era mai mancato a un allenamento, anche quando giocava nelle serie minori». Che Bergamini fosse un professionista serio e preciso è stato sempre confermato da tutti: dalla società sportiva, dai suoi compagni di squadra, dall’allenatore.
4. I segni sul corpo
Che Denis non sia stato investito e trascinato per 59 metri dal camion lo capiscono subito sia i tifosi del Cosenza che si precipitano all’obitorio di Trebisacce non appena si diffonde la notizia, sia la famiglia del calciatore che riesce a vedere il corpo la mattina successiva, dopo una notte di viaggio in macchina da Ferrara alla città calabrese. Ai parenti del calciatore, il brigadiere Barbuscio dice che il ragazzo è inguardabile, «distrutto». «Mi ero preparata a vederlo “ammaccato” – ricorda oggi la sorella – ma quando lo vidi in faccia rimasi stordita e scioccata: sembrava che dormisse, notai solo una piccola macchia rotonda grigio-azzurra sulla fronte». L’autopsia non viene fatta subito. Ci sono i funerali a Cosenza (a cui partecipano 8mila persone), poi Denis viene riportato ad Argenta per un’altra funzione religiosa e per essere sepolto. Due mesi dopo, nel gennaio del 1990, viene riesumato e finalmente si fa l’autopsia: 25 pagine in cui il professor Francesco Maria Avato riporta quello che vede (LEGGI LA PERIZIA IN PDF). Risultano «indenni le cosce, le ginocchia, le gambe, i piedi», «gli arti superiori» sono anch’essi «indenni da lesioni», «la teca cranica appare integra». Intorno al collo, «indenne» pure quello, non c’è alcun segno eppure Denis indossava una collanina d’oro (restituita alla sorella dai carabinieri insieme all’orologio e al portafoglio) che avrebbe dovuto lasciare qualche traccia nel trascinamento. Il professore spiega anche che nei casi di investimenti ci sono cinque fasi contraddistinte da lesioni tipiche ma su Bergamini non ci sono tutti questi traumi: c’è solo una «lesività di tipo addominale», gli è stato schiacciato il fianco sul lato destro. Cioè il lato opposto a quello che, stando alla ricostruzione, sarebbe dovuto essere stato colpito dal camion. È verosimile dunque, si legge poi nell’autopsia, «l’ipotesi di schiacciamento da parte di un unico pneumatico del corpo disteso al suolo», un «arrotamento parziale» connesso a un «mezzo pesante dotato di moto “lento”» che ha causato «lesioni da scoppio». Denis è morto in poche decine di secondi per l’emorragia, schiacciato da un camion che gli è salito in parte sul fianco mentre lui era steso a pancia in su. Questo dicono quelle 25 pagine messe da parte e dimenticate per anni. Il professore Avato non è stato mai ascoltato durante il processo all’autista.
5. Il camion. Il camion viene sottoposto a un tipo di sequestro particolare: è lasciato in uso al signor Pisano che quindi risale a bordo e se ne va. Nessuno esaminò quindi il mezzo che aveva investito un uomo. E nessuno controllò bene neppure il cronotachigrafo del quattro assi. Sul dischetto di carta che a quei tempi i camionisti erano obbligati a compilare e inserire nel cruscotto – era una sorta di scatola nera – c’era scritto che Pisano era partito da Rosarno, un paese in provincia di Reggio Calabria, e aveva percorso circa 160 chilometri in quattro ore prima di investire Denis, come scrissero i carabinieri. Ma i conti non tornano: tra Rosarno e Roseto Capo Spulico ci sono circa 230 chilometri. E poi se il camion era andato in media a 40 km orari come era stato possibile che non fosse riuscito a frenare in tempo dato che, con i fari accesi nel buio, un ragazzo che indossava vestiti chiari al bordo della strada doveva essere visibile?
6. Il mistero dei vestiti spariti. Sarebbe stato utile anche poter sottoporre a perizia, appunto, i vestiti che il calciatore indossava quando è morto ma qualcuno pensò bene di fare sparire quelle prove importanti per capire cosa fosse davvero accaduto. Finiti nell’inceneritore, disse un infermiere ai familiari. Le foto scattate dai carabinieri però restano: gli indumenti di Denis sono sani, integri, le scarpe allacciate, i calzini perfettamente tirati su. Non è pensabile che siano gli abiti trovati addosso a una persona vittima di un incidente stradale come quello raccontato. Mesi dopo al signor Bergamini furono fatte recapitare le scarpe del figlio, scampate al “raid” per fare scomparire gli oggetti. Gliele diede il direttore sportivo del Cosenza, Roberto Ranzani, che le aveva avute da uno dei factotum della squadra insieme a un messaggio da portare: a fine campionato quella persona sarebbe andata dai genitori di Denis e avrebbe raccontato quello che sapeva sulla sua morte. Tornando in Calabria dopo l’ultima partita di quella stagione, a Trieste, i due factotum del Cosenza però morirono in un incidente stradale sulla Statale Jonica, a pochi chilometri da dove era stato ritrovato il corpo del giocatore. Negli ultimi anni i familiari sono stati chiari e hanno detto che non vogliono che i nomi dei loro cari vengano associati al caso Bergamini.
7. Le indagini del 1994. Cinque anni dopo la morte di Bergamini qualcuno della questura di Cosenza inizia a fare delle indagini, delle ricerche. Vengono anche messe sotto controllo alcune utenze telefoniche ma poi si ferma tutto. Alcuni funzionari vengono trasferiti ad altri uffici e i risultati di quella inchiesta non ufficiale rimasta incompleta finiscono in qualche cassettiera.
La tesi del suicidio e i progetti per il futuro. Tutti quelli che l’hanno conosciuto, hanno sempre ritenuto impossibile che Denis Bergamini si sia suicidato. Lo ripete da 25 anni la sorella: «Ricordo la sua felicità dell’ultimo periodo – dice Donata - stava raggiungendo tutto ciò che desiderava: l’anno dopo avrebbe giocato in serie A, pensava di costruire la sua casa ed era andato già a vedere dei terreni qui vicino da noi, perché cercava un azienda agricola. Giorni dopo la sua morte sapemmo anche che aveva una ragazza che voleva sposare... Non l’avevo mai visto così felice, era l’anno dei grandi progetti per lui». La fidanzata di Denis si chiamava Roberta, era delle sue parti, si conoscevano da anni e a Cosenza ancora non era mai stata. «Quando ci dissero che era morto e che con lui c’era Isabella – continua Donata - noi cademmo dalle nuvole: perché c’era lei? A 100 chilometri da Cosenza? Abbiamo capito male?». Ma al suicidio non hanno creduto mai neppure i compagni di squadra di Denis, i ragazzi che passavano con lui tutti i giorni. Lo hanno detto da subito: era allegro come sempre, professionale in campo, faceva i suoi soliti scherzi nello spogliatoio, era stranissimo che avesse abbandonato il ritiro sapendo che per punizione poi non avrebbe potuto giocare la partita contro il Messina. Nessuno di loro però, in tutti questi anni, ha saputo o voluto dire di più degli ultimi giorni di vita del calciatore. Neppure Michele Padovano, il compagno amico fraterno con cui Denis divideva la casa e le camere d’albergo durante le trasferte (Padovano poi giocò anche nella Juventus e nel 2011 è stato condannato in primo grado a 8 anni e otto mesi per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga). Nei giorni e nei mesi prima che Bergamini morisse nessuno ha notato nulla di diverso in lui, nessuno ha raccolto qualche sua confidenza? Eppure la vita dei giocatori di una squadra di calcio è cameratesca, soprattutto se ci si trova a vivere in una piccola città come Cosenza, lontani dalle proprie case.
Il Totonero e la droga. Le voci, le ipotesi, le chiacchiere e le congetture intorno alla morte di Bergamini sono nate presto. Si disse che il calciatore fosse stato ucciso perché implicato nel Totonero, la compravendita di partite fatta in quegli anni da alcuni calciatori. Il direttore sportivo Ranzani ripete da anni che non ci ha mai creduto: chi avesse voluto corrompere un giocatore – ha ragionato più di una volta - avrebbe scelto un difensore o un portiere o un attaccante, non certo un centrocampista. E poi si parlò di ‘ndrangheta e traffico di droga. Si diceva che la malavita usasse il pullman del Cosenza per portare la droga al nord; una misteriosa ragazza (che poi sparì nel nulla) telefonò più volte a casa Bergamini sostenendo che invece la droga veniva nascosta in scatole di cioccolatini che Denis inconsapevolmente doveva recapitare durante le trasferte. Ci fu chi disse che nella Maserati del calciatore ci fossero doppi fondi in cui venivano nascosti, sempre a sua insaputa, gli stupefacenti. Ma la macchina di Bergamini è stata analizzata dal Ris e risulta esattamente uguale a come uscì dalla fabbrica, senza vani segreti e nascosti. Striscione su un balcone di Cosenza, nel 2009 (Ansa) «Qui a Cosenza c’è stata per molto tempo un’atmosfera pesante creata ad arte per fare paura alle persone e spingerle al stare zitte - spiega Marco De Marco, nel direttivo dell’associazione “Verità per Denis” – La curva, con i suoi striscioni allo stadio, è stata l’unico spicchio della città a rivendicare la verità su quello che era successo a Bergamini». «Quando si parlava di lui – continua De Marco - vedevi sui volti dei tifosi un misto di vergogna e timore». L’associazione, per i 20 anni dalla morte del calciatore, ha organizzato una grande manifestazione che è partita dal tribunale per finire allo stadio San Vito. «Non abbiamo mai ricevuto minacce per quello che facciamo, nessuno è venuto a spaventarci o intimidirci – conclude De Marco – e da pochi mesi è stata aperta anche una scuola calcio intitolata a Denis». La verità allora forse va cercata altrove, nella sfera dei rapporti personali del calciatore. Forse qualcuno voleva punirlo per qualcosa che Bergamini aveva fatto o detto, oppure doveva essere solo una dimostrazione di forza andata troppo oltre. Poi c’è stata la maldestra messa in scena del suicidio, rimasta incredibilmente in piedi per così tanto tempo.
La nuova inchiesta. La procura di Castrovillari da tre anni sta cercando di mettere ordine nei pezzi di questa storia. Isabella Internò oggi è una donna di 45 anni, sposata con un uomo che appartiene alle forze dell’ordine e madre di due figlie. «Si è chiusa in un mutismo assoluto» ha detto il suo legale quando, nel 2013, la donna è stata iscritta nel registro degli indagati. L’autista Raffaele Pisano ha più di 75 anni e anche lui si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il brigadiere Barbuscio è morto pochi anni dopo Bergamini. Gli atti della nuova inchiesta sono secretati ma, intervistati dal Quotidiano della Calabria già un paio di anni fa, i medici legali incaricati di esaminare i reperti biologici del calciatore avevano parlato chiaramente: «Non abbiamo scoperto la luna, era già tutto scritto nella perizia di Avato», ha detto Roberto Testi; «allora nessuno l’ha mai letta bene», ha ribadito Franco Bolino.
La mancanza del diritto alla verità. «Quando penso a mio fratello la prima immagine che mi viene in mente è il suo sorriso, la sua voglia di vivere», confida Donata. Tra lei e Denis c’erano solo 16 mesi di differenza, oltre che fratello e sorella erano amici. «Siamo cresciuti insieme, dormivamo nella stessa camera, la sera da piccoli dopo il telegiornale facevamo degli spettacoli casalinghi per i nostri genitori e i nostri nonni: imitavamo i cantanti, loro ridevano», ricorda. Ai suoi figli che da bambini le chiedevano come fosse morto lo zio e perché, Donata all’inizio non sapeva rispondere. Poi per anni ha ripetuto loro: «Stiamo cercando la verità, noi eravamo lontani quando è successo». «Il dolore per una morte è un conto, essere privati di un diritto un altro – conclude oggi –. Messe insieme le due cose rendono la vita invivibile, un inferno». Intanto l’orologio senza graffi di Denis continua a ticchettare.
· Il Mistero di Simonetta Cesaroni.
Il tagliacarte, il sangue, il Dna: "Vi svelo chi ha ucciso Simonetta". Rosa Scognamiglio il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nuovi dettagli sul killer di Simonetta Cesaroni: "L'ha colpita per 29 volte con la mano sinistra", racconta a ilGiornale.it il criminologo Lavorino. Il tagliacarte, il telefono insanguinato e quei residui di saliva sul reggiseno della vittima. Sono le tracce lasciate nella stanza numero 3 degli uffici Aiag, al quarto piano di una palazzina al civico 2 di via Carlo Poma, a Roma, dall'assassino di Simonetta Cesaroni. A pochi minuti dal truce delitto - la 21enne fu uccisa con 29 fendenti - un misterioso ragazzo, "alto 1,70-1,75, capelli corti, occhiali da vista, baffetti, aria baldanzosa, camicia e pantaloni jeans", fu visto allontanarsi in tutta fretta dall'esterno del condominio a bordo di Peugeot 505 grigia. Lo sconosciuto, più o meno sui 25 anni, fu ribattezzato dalla stampa come "Mister X": la sua identità non fu mai accertata. Il professor Carmelo Lavorino, criminologo e profiler che da trent'anni segue gli sviluppi del delitto di via Poma, è certo che il killer di Simonetta sia "un territoriale, che ha colpito la vittima con la mano sinistra", spiega alla redazione de IlGiornale.it. Ma c'è di più. L'esperto, coadiuvato dal un team di collaboratori, è riuscito a individuare il gruppo sanguigno dell'aggressore: "Il suo gruppo sanguigno è A DQAlfa 4/4", racconta nel suo ultimo libro "Via Poma - Inganno strutturale Tre".
Professor Lavorino, qual è l'identikit dell'assassino di Simonetta?
"È un soggetto impulsivo, con una fortissima autostima, non ammette di essere contraddetto e/o rifiutato. Si presenta come gentile e cordiale, ma è sempre vigile e attento, pronto alla iperdifesa e allo scontro. È privo di empatia, freddo, determinato e crudele. Ha messo in essere un comportamento del tipo disorganizzato, compulsivo ed espressivo di rabbia distruttiva sfociata nel colpire per ben 29 volte la povera Simonetta: questo rito appetitivo di traboccare nei colpi distruttivi si chiama 'over killing' (oltre la morte), ed è rappresentato dall'accanirsi contro la vittima per il gusto di farlo e per colpire inconsciamente le sue zone simboliche: volto, occhi, petto, cuore, ventre e zone sessuali".
Cosa può dirci a proposito dell'arma del delitto?
"È un tagliacarte, lo si deduce dalla forma bombata e particolare delle ferite che, a loro volta, sono state prodotte da una lama a doppio filo ma non tagliente, ed è proprio il tagliacarte rinvenuto dalla polizia nella stanza n° 3, sul tavolino di lavoro della dipendente Aiag Maria Luisa Sibilia. Questo tagliacarte la mattina del 7 agosto sino alle ore 15 era introvabile, poi è stato usato per uccidere Simonetta e, infine, dopo l’attività di lavaggio, è stato disposto sul tavolinetto della stanza di Maria Luisa Sibilia: è ovvio che solo il soggetto ignoto (l’assassino o il complice) poteva sapere che apparteneva a Maria Luisa Sibilia, ed è anche ovvio che tale soggetto non sapeva che la mattina tale tagliacarte era scomparso".
Con quale mano ha colpito Simonetta?
"L'assassino ha l’uso naturale ed efficiente della mano sinistra, ne ha tendenza all’uso, questo perché ha colpito Simonetta prima con uno schiaffo con la mano sinistra alla tempia destra, poi con 29 pugnalate inferte tutte con la mano sinistra".
Saprebbe descriverci l'ipotetica dinamica dell'aggressione?
"Innanzitutto è un omicidio non premeditato, bensì d'impeto, prodotto dalle circostanze, dallo stato psichico dell'assassino. Tutto nasce dalla situazione: l’assassino è pronto ad aggredire sessualmente Simonetta, questa reagisce, forse lo insulta, probabilmente per difendersi lo ferisce proprio col tagliacarte. La rabbia dell'uomo esplode, colpisce Simonetta alla tempia e la ragazza sviene. L'assassino la spoglia, tenta di qualche manovra sessuale che gli riesce e poi recupera la lucidità e pensa: 'Quando si riprenderà mi denuncerà e io non posso permettermelo'. Allora afferra il tagliacarte ed elimina la testimone del suo crimine, lo fa in modo brutale e selvaggio, cambiando posizione, come una danza della morte: prima si posiziona sopra la ragazza, le stringe i fianchi con le gambe e inizia a colpire. Poi si ferma, si sposta alla destra della vittima e poi alla sua sinistra".
Qual è stato il movente delittuoso?
"Si tratta di omicidio strumentale per tacitazione testimoniale in seguito alla perdita del controllo e per vendicarsi dell'insulto subito. Il contesto è nell'ambito dell'aggressione sessuale e del litigio".
Dunque ritiene possa essersi trattata di una persona vicina alla vittima?
"Aveva la disponibilità delle chiavi dell’Aiag (l'ufficio dove lavorava Simonetta) o l'accesso alle stesse per motivi propri, di occasionalità pregressa o per attività di qualche suo familiare o conoscente. Non ha alibi certo, oppure il suo alibi non è stato descritto e/o controllato a dovere. Giusto per chiarezza, l'assassino non è il portiere Pietrino Vanacore, né Raniero Busco il fidanzato di Simonetta, né Federico Valle il nipote dell'architetto".
Il killer di Simonetta ha avuto un complice?
"Sicuramente l'assassino ha avuto un complice, ed è la persona che ha pulito in modo professionale, che ha posato per pietà il top di pizzo sangallo sul ventre della ragazza almeno 45 minuti dopo l'omicidio, che ha pulito e messo a posto il tagliacarte (quindi ne conosceva l'ubicazione naturale)".
Qual è stato il suo ruolo?
"Questa persona ha alterato la scena del crimine, ha depistato le indagini proteggendo l'assassino. Ha preso i soldi, i gioielli e le chiavi della vittima per simulare un omicidio a scopo di rapina".
Perché lo avrebbe protetto?
"Si protegge un assassino per soldi o per legami fortissimi: il rischio è enorme e quando si deve proteggere una persona nonostante si veda la vittima nuda e massacrata e il sangue sgorgato sulla scena si ha la tendenza a 'farsi i fatti propri'. A meno che non ci sia uno dei motivi detti: soldi o legame fortissimo. Comunque nel giallo di Via Poma questa persona è stata chiamata immediatamente sulla scena, è intervenuta immediatamente e ha lasciato anche qualche traccia che è stata ben letta ma... male interpretata".
Sono stati commessi errori durante le indagini?
"Tanti errori e di diverso tipo".
Può elencarne qualcuno?
"Ne elenco i più letali per l'inchiesta: puntare solo sul portiere Pietrino Vanacore e lasciare stare le altre piste, il sopralluogo incompleto e inadeguato, le fotografie scattate in numero minimo e in modo dilettantesco, le leggerezze del medico legale - non prendere le temperature cadaveriche ed ambientali ogni dieci minuti, non comprendere che l'assassino avesse usato la mano sinistra, non analizzare il contenuto gastrico di Simonetta, non tamponare le ecchimosi e i graffi della vittima per la ricerca di saliva, non consegnare i reperti come calzini, reggiseno e top di pizzo sangallo della vittima alla polizia scientifica".
C'è qualche "errore" che, secondo lei, ha compromesso significativamente le indagini?
"Il computer su cui lavorava Simonetta fu messo sotto controllo tardivamente e l'appartamento dissequestrato dopo solo sei giorni. Poi c'è la non analisi e la scomparsa delle scarpe della vittima e della cartellina di lavoro della stessa. Infine la mancata individuazione e la non consapevolezza che il sangue sul telefono fosse gruppo A DQAlfa 4/4, quindi dell'assassino".
Il papà di Simonetta disse, al tempo, che "l'assassino è nelle carte". Aveva ragione?
"Certo, l'assassino è nelle carte, a meno che l'assassino non sia un soggetto non territoriale, che passava da lì per puro caso e che non è stato visto da nessuno. Però, scusi, se il soggetto ignoto fosse un 'assassino passante per caso', che bisogno aveva di chiamare il complice, fare pulire e imbastire tutto quell'insieme di depistaggi? A che pro rischiare così tanto per nulla? E se non fosse stato un territoriale, come avrebbe fatto a muoversi agevolmente per ore all'interno del condominio e dello stabile di Via Poma?".
Ci sono elementi validi per auspicare una riapertura del caso?
"Il caso può essere risolto se e solo se si evita di personalizzare l'indagine continuando a coprire chi ha sbagliato e/o barato: occorre essere umili, corretti, onesti e freddi. Ad esempio: indagare su chi presenta un profilo simile a quello da me indicato".
Nel suo libro "Via Poma - Inganno strutturale Tre" rivela il Dna dell'assassino.
"Ha il gruppo sanguigno A col sottogruppo DQAlfa 4/4".
Un'indicazione da non sottovalutare...
"Lo sa che nel 1990 le persone mancine erano il 16% della popolazione e che solo il 5% aveva il gruppo sanguigno A col sottogruppo DQAlfa 4/4, quindi 5% x 16% = 80/10000, cioè otto su mille e circa uno su cento?".
Un'ultima domanda. Se può, mi dia una risposta secca: l'assassino di Simonetta è "Mister X"?
"Questo 'Mister X' sicuramente non ha nulla a che vedere con l'omicidio ma sicuramente potrebbe fornire notizie utili alle indagini".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due
«Il nome dell’assassino di Simonetta Cesaroni è nelle carte». Il professore Carmelo Lavorino ha scritto un libro sul delitto di Simonetta Cesaroni ed è convinto che il nome dell’assassino sia nelle carte processuali. Valentina Stella su Il Dubbio il 18 agosto 2021. Il 7 agosto 1990 la giovane Simonetta Cesaroni veniva uccisa in un appartamento al terzo piano del complesso di via Carlo Poma n. 2 a Roma. Il caso rimane irrisolto. Oltre trent’anni sono trascorsi da quel giorno: diverse piste, nessun colpevole, un mistero italiano forse secondo solo a quello del mostro di Firenze. Da qualche giorno è uscito un nuovo libro sul caso: Via Poma – Inganno Strutturale tre, scritto dal criminologo Carmelo Lavorino, edito dal CESCRIN (Centro Studi Investigazione Criminale). Il professore si è interessato professionalmente ad oltre duecento casi d’omicidio, fra cui appunto il delitto di Via Poma, come consulente dell’indagato Federico Valle e dell’imputato Raniero Busco.
Professor Lavorino come mai a tanti anni di distanza un nuovo libro sul delitto di via Poma?
Ho scritto il libro per diversi motivi. Innanzitutto come contributo all’individuazione del colpevole e per fare chiarezza sul marasma di notizie imprecise che girano attorno al caso. Ecco perché invito il lettore a infilarsi anima, mente, occhi e spirito critico nel fatto criminoso- giudiziario, per analizzare, indagare, comprendere e collaborare alla soluzione del caso con idee, suggerimenti, quesiti e ipotesi serie. Sicuramente l’ho scritto per definire il punto della situazione e lo stato dell’arte, per confutare i metodi di soluzione del caso adottati sinora e che hanno portato a ben poco, per esporre e riproporre il metodo di analisi investigativa criminale sistemica e di soluzione dei casi basato sull’interconnessione, l’armonia e l’interazione delle scienze criminologiche, criminalistiche, investigative e di intelligence. Il titolo è “Inganno strutturale tre” perché è la terza volta che mi immergo nel labirinto enigmatico di Via Poma dove ho individuato l’errore- inganno a tre facce battezzato “Inganno strutturale. Tale definizione nel nostro caso significa “L’induzione in errore di chi cerca la verità ottenuta tramite l’inserimento, all’interno della struttura dell’enigma e degli elementi che la compongono, di falsi indizi, di falsi elementi, di falsi indicatori del crimine”. L’inganno strutturale è stato gestito abilmente da “qualcuno” non per coprire il colpevole, ma per salvare l’immagine e i segreti di qualche dipendente dell’AIAG ( Associazione italiana alberghi gioventù) dove lavorava saltuariamente dal 20 giugno 1990 Simonetta Cesaroni. Anzi, questo “qualcuno” era superconvinto che l’assassino fosse proprio il portiere Pietrino Vanacore.
Chi è questo qualcuno?
Non è certamente l’assassino e non protegge l’assassino. Nel libro ne parlo in modo esaustivo. È un gruppo di specialisti che ha surclassato e depistato anche i vertici della Polizia, un gruppo coordinato che indico come “Burattinaio Invisibile + Manina Manigolda”, una combinazione che ha creato e fatto prosperare l’inganno strutturale e depistato anche il Pm. In seguito il Pm, incanalato nell’alveo scavato e forte del proprio potere di coordinamento delle indagini e decisionale, ha commesso una serie di errori, sino a puntare l’innocente Federico Valle e non comprendere che il sangue sul telefono fosse proprio dell’assassino e non della vittima, che l’orario della morte di Simonetta poteva essere anticipato alle ore 16: 30- 17, che la questione delle telefonate fra una donna che diceva di essere Simonetta con altre persone era oscura e ingarbugliata.
È ancora possibile risolvere il caso di via Poma? E se sì, come?
Il caso può essere risolto se e solo se: si seguono le indicazioni investigative che fornisco nel libro; si evita di personalizzare l’indagine continuando a coprire chi ha sbagliato e/ o barato. Occorre essere umili, corretti, onesti e freddi.
Parlerei di tre profili, perché in Via Poma vi sono stati tre comportamenti criminali: I) quello dell’assassino, un comportamento del tipo disorganizzato, compulsivo ed espressivo di distruttività, rabbia e over killing; II) quello della combinazione pulitrice complice dell’assassino, mirato ad alterare la scena, a depistare, a fuorviare i sospetti, a cancellare le tracce e fare sparire le prove se non, addirittura, il cadavere; III) quello della combinazione (alias “qualcuno”) che ha coperto i segreti, le attività, la posizione e la figura di alcuni soggetti dell’Aiag e che aveva il convincimento che l’assassino fosse proprio il portiere. Il combinato disposto di questi tre comportamenti ha impedito la soluzione del caso. L’assassino ha prodotto le ecchimosi, le ferite, la morte, le macchie di sangue sul pavimento, sul corpo, sulla porta e sul telefono; il complice ha cancellato molte tracce con l’opera di pulizia; un gruppo di specialisti ha poi nascosto, omesso, fuorviato e inquinato. Comunque, il profilo dell’assassino è il seguente: ha l’uso naturale ed efficiente della mano sinistra, ne ha tendenza all’uso; è un impulsivo, con una fortissima autostima, non ammette di essere contraddetto e/ o rifiutato; si presenta come gentile e cordiale, ma è sempre vigile e attento, pronto alla iperdifesa ed allo scontro; aveva le chiavi dell’AIAG per motivi propri, di occasionalità pregressa o per attività di qualche suo familiare o conoscente; non ha alibi fra le 16: 00 e le 17: 00, oppure il suo alibi non è stato descritto e/ o controllato a dovere; è privo di empatia; ha goduto di complicità e di copertura; il suo gruppo sanguigno è A DQAlfa 4/ 4, si è ferito ( molto probabilmente è stato ferito da Simonetta proprio col tagliacarte che poi diviene l’arma del delitto), ha sporcato di sangue il telefono della stanza n° 3. Giusto per chiarezza, l’assassino non è il portiere Pietrino Vanacore.
Potrebbe avere ucciso altre volte?
Chi uccide una volta per perdita del controllo in un contesto di aggressione sessuale può avere la c. d. “coazione a ripetere”. Quindi, è probabile che abbia ucciso qualche prostituta, ma con un altro modus operandi.
Invece qual è il profilo della vittima?
Era una ragazza a basso rischio, intelligente, cordiale, bella, che era molto osservata dagli uomini. Conosceva la vittima? In che rapporti era con Lei? Sicuramente l’assassino godeva della fiducia della vittima per una serie di motivi che ho enunciato nel libro.
Qual è il movente dell’omicidio?
Tutto nasce dalla situazione: l’assassino è di fronte a Simonetta, pronto all’aggressione sessuale. Simonetta resiste, si oppone, molto probabilmente afferra il tagliacarte e ferisce l’aggressore, oppure, col suo comportamento e con le sue parole ferisce l’uomo in modo profondo, umiliante e devastante: la rabbia del soggetto ignoto sale da zero a mille. La colpisce alla tempia con uno schiaffo inferto con la mano sinistra, Simonetta sviene. L’assassino la spoglia, poi il suo pensiero va al peggio: quando la ragazza si riprenderà lo denuncerà e lui non può permetterselo. Si scopriranno troppi altarini: avrebbe troppo da rimetterci. Esplode il suo Es, selvaggio ed arcaico, contenitore delle sue pulsioni indicibili: autoconservazione e istinto di sopravvivenza, egoismo, punizione e volontà distruttiva. È sull’orlo del precipizio, sulla via del non ritorno. Prende il tagliacarte e dà il via al rito appetitivo della 29 pugnalate, cambiando zona di appoggio e zone del corpo. Si tratta quindi di omicidio strumentale per tacitazione testimoniale e per vendicarsi dell’insulto subito. Il contesto è nell’ambito dell’aggressione sessuale e del litigio.
Qual è l’arma del delitto?
È un tagliacarte, ed è il tagliacarte rinvenuto dalla Polizia nella stanza n° 3, sul tavolino di lavoro della dipendente AIAG Maria Luisa Sibilia. Questo tagliacarte la mattina del 7 agosto, sino alle ore 15 era introvabile, poi è stato usato per uccidere Simonetta e, infine, dopo l’attività di lavaggio è stato disposto sul tavolinetto della stanza di Maria Luisa Sibilia: è ovvio che solo il soggetto ignoto ( l’assassino o il rassettatore) ha potuto disporre il tagliacarte sul tavolinetto della Sibilia: questo significa che sapeva che era di Maria Luisa Sibilia ma non che la mattina era stato cercato dalla proprietaria e non trovato.
L’assassino è ancora vivo secondo Lei? Fu interrogato ai tempi del delitto?
Il nome dell’assassino è nelle carte.
Aveva un complice?
Come ho già detto il complice è il soggetto pulitore-rassettatore, colui il quale ha pulito l’ambiente ed ha lavato il tagliacarte per poi rimetterlo a posto, sul tavolino di lavoro della dipendente AIAG Maria Luisa Sibilia.
Quali sono stati i maggiori errori investigativi?
Tanti. Ne elenco alcuni: puntare solo sul portiere; il sopralluogo incompleto, inadeguato e arruffato; le fotografie scattate in numero minimo e nessuna documentazione per ogni stanza; il computer su cui lavorava Simonetta messo sotto controllo tardivamente; le sviste e le omissioni del medico legale (non prendere le temperature cadaveriche ed ambientali ogni dieci minuti; non comprendere che l’assassino avesse usato la mano sinistra; non analizzare il contenuto gastrico; non tamponare le ecchimosi e i graffi della vittima per la ricerca di saliva; non consegnare i reperti “calzini, reggiseno e top di pizzo sangallo della vittima alla Polizia scientifica); l’appartamento dissequestrato dopo solo sei giorni; la scomparsa delle scarpe della vittima non analizzate e della cartellina di lavoro della stessa; la mancata individuazione e la non consapevolezza che il sangue sul telefono fosse gruppo A DQAlfa 4/ 4, quindi dell’assassino; non valutare che l’orario del delitto potesse essere prima delle ore 17 e che la famosa telefonata delle ore 17: 05 di Simonetta alla Berrettini poteva essere stata fatta un’ora prima e/ o che fosse un bluff magistrale.
Senza questi errori quindi forse sarebbe stato catturato?
Sicuramente sì!
Molto mistero ruota ancora intorno alla morte di Peppino Vanacore. Lei che idea si è fatto di quest’uomo, della sua condotta dopo il delitto e della sua morte?
Non ritengo che sia l’assassino, sicuramente sapeva qualcosa e, come disse il capo della squadra mobile Nicola Cavalire “Di dritto o di rovescio doveva entrarci”. Vanacore si è suicidato, può essere suicidio per depressione, per perdita dei meccanismi di autodifesa, per protesta; per una specie di sindrome di Beck allargata: sfiducia nel futuro, in se stesso, negli altri, nel mondo e nella giustizia. Può essere suicidio per autotacitazione testimoniale, quindi a favore delle persone che in via ipotetica avrebbe potuto danneggiare con le proprie rivelazioni; per rimorso se avesse egli taciuto in parte o totalmente la terribile verità di cui era custode geloso, così impedendo l’accertamento dei fatti e quindi l’individuazione del colpevole. La logica induce a ritenere che Vanacore si sia assunto responsabilità altrui e che abbia voluto pagare per tutti.
· Il Mistero di Serena Mollicone.
Omicidio Mollicone, sospetti sulle microspie scoperte dagli imputati. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. Il sospetto che qualcuno avvisasse gli imputati per l’omicidio di Serena Mollicone delle indagini a loro carico aleggia sull’udienza di ieri in Corte d’Assise a Cassino, quando il maresciallo Massimo Polletta, uno dei militari dell’Arma che ha contribuito alla riapertura del caso nel 2016, rievoca i vani tentativi di intercettare l’ex comandante della stazione di Arce, Franco Mottola, e il suo sottoposto Vincenzo Quatrale (rispondono di omicidio con la moglie e il figlio di Mottola). Polletta ripercorre la genesi dell’informativa su cui si fonda l’accusa del pm e rivela due episodi che andranno approfonditi anche nel controesame alla sua testimonianza. Il primo riguarda Mottola, convocato per delle notifiche in caserma a Teano per avere a disposizione la sua vettura. Senza apparente motivo il maresciallo esce dagli uffici e quasi coglie sul fatto i colleghi intenti a montare la microspia, mandando così a monte il tentativo. Ancora più inspiegabile il ritrovamento da parte di Quatrale del microfono nascosto sulla sua auto, scoperto «in diretta» mentre parlava con un soggetto rimasto ignoto. Altro materiale da valutare riguardo all’ipotesi dei depistaggi.
Vincenzo Caramadre per "il Messaggero" il 6 dicembre 2021. La domanda, se Serena Mollicone il primo giugno 2001 è entrata in caserma ad Arce, dove sarebbe stata uccisa e poi abbandonata in un bosco, è tornata di attualità. La stretta attualità dell'interrogativo viaggia di pari passo con le dichiarazioni rese venerdì scorso - al processo dinanzi alla corte d'assise di Cassino - dalla teste chiave Rosa Mirarchi, la donna che per dieci anni, fino al 2005, ha svolto le pulizie nella caserma. Il giorno della scomparsa di Serena, la donna delle pulizie per gli investigatori era in caserma per il suo turno di lavoro. La donna più volte ascoltata, proprio sulla presenza di Serena in caserma, nel 2016 nell'ambito delle indagini che hanno portato a processo Franco, Marco, Anna Maria Mottola, Vincenzo Quattrale e Francesco Suprano, dichiarò: «Non sono in grado di affermare con assoluta certezza che la ragazza vista nella sala d'attesa della caserma, fosse Serena, ma nemmeno lo posso smentire». Nel corso della testimonianza di venerdì scorso, nel rispondere alle domande dei pm Siravo e Fusco, ha fornito gli stessi elementi, come la presenza di una ragazza in caserma, la porta rotta collocata nell'alloggio della famiglia Mottola e l'incontro con il maresciallo Mottola. Ma non ha saputo collegare gli eventi al giorno preciso. Proprio come fatto nel corso delle sommarie informazioni rese ad inquirenti e investigatori nel 2016, ma anche nel 2008 e nel 2007. Ieri la famiglia della 18enne, tramite Antonio Mollicone, fratello di Guglielmo scomparso nel 2020 e zio di Serena, ha rotto il silenzio. Ha chiarito la posizione della famiglia rispetto alla testimonianza. Ma non solo le dichiarazioni della Mirarchi: la famiglia ha parlato anche delle rivelazioni choc fatte da Santino Tuzi nel 2008, prima del suicidio. Proprio il brigadiere in servizio ad Arce, il 9 aprile 2008 disse di aver visto la ragazza in caserma la mattina della scomparsa.
Antonio Mollicone, cosa ne pensa della testimonianza della donna delle pulizie, Rosa Mirarchi?
«Credo che la verità, soprattutto in questo processo che arriva a vent' anni dal fatto, si debba affiancare alla logica. Se un teste descrive una ragazza con particolari importanti come ha fatto la signora Mirarchi tanto da sembrare l'identikit di Serena, se dice di aver incontrato il maresciallo sulle scale e se colloca la porta nell'alloggio della famiglia Mottolo, ci dice cose importanti. Importantissime. Non dimentichiamo poi che la signora ha firmato al piantone l'uscita dal lavoro, per cui lei quel giorno era in caserma. Le dichiarazioni rese in aula venerdì scorso vanno apprezzate e ricollegate. Come famiglia ci sentiamo perfettamente soddisfatti della testimonianza, non la consideriamo affatto una ritrattazione. Ciò può essere considerata solo da chi non conosce l'andamento della vicenda legata alla morte di mia nipote».
A suo giudizio come sta andando il processo?
«Siamo vicini alla verità. Tanti aspetti stanno emergendo. Basta saper fare i giusti collegamenti. Le difese fanno il proprio lavoro ed è giusto così. Ma questo non è un processo a Serena o ai suoi familiari, questo è il processo per Serena».
Altro segmento chiave del processo sono le dichiarazioni di Santino Tuzi. Ha ascoltato la registrazione dell'interrogatorio del 2008?
«Chi è chiamato a difendersi vuole dimostrare che Santino era fuori dalla caserma. Ma Santino dice la verità e questo è emerso dalla testimonianza del maresciallo Evangelista e del colonnello Imbratta. Il povero Santino era terrorizzato, il terrore è tipico di chi si sente pressato da agenti esterni, che è cosa diversa dall'ansia che è un fatto intimo. Santino ha avuto il coraggio di dire la verità. Questa è la grande novità».
Lei ha raccolto l'eredità di suo fratello Guglielmo nel portare avanti la battaglia per Serena.
«Tutta la famiglia ha raccolto questa eredità di mio fratello che per anni si è battuto, ha lottato per Serena. Tutti siamo addolorati e arrabbiati per la tragica morte di Serena. Non molliamo. Andiamo avanti per Serena, per Guglielmo e per tutti coloro i quali credono nella giustizia».
La prossima udienza è in calendario per venerdì prossimo, quando verranno ascoltati altri tre testi compresi nella lista dei pubblici ministeri.
Vincenzo Caramadre per "il Messaggero" il 5 dicembre 2021. Serena Mollicone, il primo giugno 2001, è entrata nella caserma dei carabinieri di Arce, prima di venire uccisa e abbandonata in un bosco del frusinate? La domanda, che si ripete da anni, è tornata prepotentemente al centro del processo sull'omicidio della ragazza, con la testimonianza di Rosa Mirarchi, la donna che per 10 anni, fino al 2005, è stata l'addetta alle pulizie della caserma. Sul banco degli imputati ci sono 5 persone: il maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, la moglie Anna Maria, il figlio Marco e il maresciallo Vincenzo Quatrale, accusati di omicidio, e il carabiniere Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento. La Mirarchi, oltre al brigadiere Santino Tuzi, morto suicida nel 2008 - per questo decesso Quatrale è accusato di istigazione al suicidio -, è l'unica persona che quel giorno avrebbe potuto incrociare in quelle stanze la diciottenne. La Procura la ritiene una teste fondamentale, non solo perché si trovava nella caserma la mattina in cui Serena è scomparsa, ma anche perché era amica della Mottola e avrebbe pulito l'appartamento dove, secondo l'accusa, sarebbe avvenuto l'omicidio.
UNA RAGAZZA IN CASERMA Venerdì, davanti alla Corte d'assise di Cassino, la Mirarchi ha detto di non avere visto Serena nella caserma, contraddicendo, secondo l'accusa, vecchie dichiarazioni. In realtà, le sue parole su questo punto non sono mai state circostanziate. La donna è stata ascoltata diverse volte tra il 2007 e il 2016 nell'ambito delle indagini. Nel 2008, dopo le confessioni choc del brigadiere Tuzi, che aveva dichiarato di avere visto la ragazza nella caserma, la Mirarchi ricorda pure lei una giovane e ne parla con l'appuntato Ernesto Venticinque. Ascoltata a sommarie informazioni, dichiara però di «non essere in grado di determinare la data», sebbene fornisca una descrizione che, secondo gli investigatori, sarebbe corrispondente a quella di Serena. Nel 2016 la Mirachi ribadisce le proprie incertezze: «Non sono in grado di affermare con assoluta certezza che la ragazza vista nella sala d'attesa fosse Serena, ma allo stesso tempo non lo posso escludere». Nel corso delle indagini, alla memoria della Mirarchi affiorano altri dettagli: l'aver incrociato il maresciallo Franco Mottola sulle scale e aver bussato all'alloggio dei Mottola senza ricevere risposta, pur avendo udito provenire dall'interno dei rumori, un tonfo. Il ricordo, aveva raccontato la Mirarchi agli investigatori, era riaffiorato dopo le confessioni di Tuzi, ma la donna non è stata mai in grado di collocarlo temporalmente nella stessa giornata. Circostanza ribadita in aula a Cassino venerdì scorso.
LA PORTA ROTTA Poi c'è la questione della porta rotta contro cui, secondo l'accusa, Serena avrebbe sbattuto la testa perdendo conoscenza. La porta, stando alla ricostruzione della Procura, era situata nell'alloggio in uso ai Mottola, il luogo in cui sarebbe avvenuto l'omicidio. La Mirarchi, invece, colloca la porta in un altro punto. Ne parla per la prima volta nel 2007, ripetendo anche successivamente sempre la stessa versione: «Mi trovavo nell'alloggio dei Mottola e mi apprestavo a prendere l'asse da stiro riposta dietro la porta della camera da letto dei due figli maschi. La signora Anna Mottola mi aveva riferito che quella porta era stata rotta durante un litigio tra il marito e suo figlio Marco». Anche in questo caso la Mirarchi non ha mai saputo dare una collocazione temporale all'episodio.
LA PULIZIA CON L'ACIDO Infine, c'è la questione dell'acido muriatico, su cui il presidente della Corte, il giudice Capurso, ha preteso spiegazioni e ha chiesto l'acquisizione dei vecchi verbali. La donna, sentita dagli investigatori, disse che, su indicazione di Anna Maria Mottola, utilizzò l'acido per pulire il pavimento dell'alloggio, perché dovevano organizzare una festa. Venerdì scorso, in aula, la donna ha detto: «Ho utilizzato l'acido solo per pulire la vasca da bagno dove c'era la ruggine. Per il pavimento, dove ai lati c'erano tracce di cemento, ho utilizzato il disincrostante che mi forniva la ditta delle pulizie».
Serena Mollicone, «spariti alcuni organi prelevati alla ragazza». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2021. La testimonianza del colonnello dei carabinieri Fabio Imbratta, l’ufficiale che nel 2016 ha riaperto le indagini. «Una volta riesumata la salma della povera Serena avevamo necessità di analizzare anche gli organi che erano stati prelevati nel corso dell’autopsia effettuata qualche giorno dopo il ritrovamento del corpo. Reperti custoditi dal medico legale D’Aloja e che sono misteriosamente spariti. All’appello mancano oltre che la parte inguinale della giovane anche il sopracciglio che, secondo la ricostruzione, avrebbe sbattuto con violenza contro la porta della caserma». Al processo per l’omicidio di Serena Mollicone, parla il colonnello dei carabinieri Fabio Imbratta, l’ufficiale che nel 2016, insieme al maresciallo Gaetano Evangelista, ha riaperto le indagini sulla 18enne uccisa l’1 giugno 20o1 nei pressi di Arce. L’episodio, già noto e forse spiegabile con una errata conservazione dei resti della vittima dopo averli esaminati una prima volta, riporta comunque l’attenzione della corte d’Assise di Cassino, che parallelamente alle presunte responsabilità dell’allora comandate della stazione dei Carabinieri, Franco Mottola, accusato del delitto assieme alla moglie, al figlio e un militare della stessa caserma (un altro risponde di favoreggiamento), deve valutare le supposte manovre per depistare le indagini da parte dello stesso maresciallo. L’episodio dei resti spariti è come detto già contenuto nell’informativa finale fornita al pm Beatrice Siravo. La scoperta degli organi mancanti avvenne al momento di riesumare la salma per sottoporla a una nuova perizia da parte della anatomopatologa Cristina Cattaneo che sarà presente in aula alla prossima udienza. A mancare sono anche i referti dell’epoca relativi agli esami effettuati per stabilire se Serena avesse subito violenza sessuale. A rinforzare l’ipotesi di una sparizione «volontaria» dei reperti autoptici ci sono altre circostanze legale al delitto. È sparito ad esempio anche il registro che doveva annotare l’ingresso di Serena nella caserma di Arce la mattina in cui sparì. Come pure sono già emerse nel processo in corso le testimonianze lacunose, se non apertamente reticenti, di molti soggetti chiamati in questi anni a ripercorre i fatti di quel week-end e i rapporti e tra la 18enne e il figlio di Mottola. La prima indagine, hanno accertato i carabinieri, fu condotta omettendo o cambiando dettagli potenzialmente decisivi, come ad esempio il modello e il colore della macchina sulla quale un teste riferì di aver visto Serena (la macchina di Marco Mottola). «Se quei reperti sono spariti, un motivo ci sarà», commentò sibillino due anni fa il padre di Serena , Guglielmo, che più di tutti ha contribuito ad arrivare a questo nuovo processo, sostenendo con forza l’ipotesi del depistaggio per nascondere l’omicidio avvenuto in caserma.
Fulvio Fiano per il "Corriere della Sera" il 22 novembre 2021. «Una volta riesumata la salma della povera Serena, avevamo necessità di analizzare anche gli organi che erano stati prelevati nel corso dell'autopsia effettuata qualche giorno dopo il ritrovamento del corpo. Reperti custoditi dal medico legale D'Aloja e che sono misteriosamente spariti. All'appello mancano oltre che la parte inguinale della giovane anche il sopracciglio che, secondo la ricostruzione, avrebbe sbattuto con violenza contro la porta della caserma (ritenuta "l'arma" del delitto, ndr )». Al processo per l'omicidio di Serena Mollicone, parla il colonnello dei carabinieri Fabio Imbratta, l'ufficiale che nel 2016, insieme al maresciallo Gaetano Evangelista, ha riaperto le indagini sulla 18enne trovata morta l'1 giugno 2001 in una frazione vicino ad Arce. L'episodio, già noto e forse spiegabile con una errata conservazione dei resti della vittima dopo averli esaminati una prima volta, riporta comunque l'attenzione della corte d'Assise di Cassino sul clima nel quale sono naufragate le precedenti indagini e i relativi processi. Parallelamente alle presunte responsabilità dell'allora comandate della stazione dei Carabinieri, Franco Mottola, accusato del delitto assieme alla moglie Anna, al figlio Marco e a un militare della stessa caserma (un altro risponde di favoreggiamento), i giudici devono valutare infatti le supposte manovre per depistare le indagini da parte dello stesso maresciallo. L'episodio dei resti spariti è come detto già contenuto nell'informativa finale fornita al pm Beatrice Siravo. La scoperta degli organi mancanti avvenne al momento di riesumare la salma per sottoporla a una nuova perizia da parte della anatomopatologa Cristina Cattaneo che sarà presente in aula in una delle prossime udienze. A mancare sono anche i referti dell'epoca relativi agli esami effettuati per stabilire se Serena avesse subito violenza sessuale. E a rinforzare i sospetti ci sono altre circostanze legate al delitto. È sparito ad esempio anche il registro che doveva eventualmente annotare l'ingresso di Serena nella caserma di Arce, la mattina in cui non tornò più a casa. Come pure sono emerse nel processo in corso le testimonianze lacunose, se non apertamente reticenti, di molti soggetti chiamati in questi anni a ripercorre i giorni delle ricerche e i rapporti tra la 18enne e la famiglia Mottola (il delitto, secondo l'accusa, sarebbe nato dalla volontà di Serena di denunciare Marco Mottola per spaccio). La prima indagine, hanno accertato i carabinieri, fu condotta omettendo o cambiando dettagli potenzialmente decisivi, come ad esempio il modello e il colore della macchina sulla quale un teste riferì di aver visto Serena (la vettura di Marco Mottola), o trascurando di depositare agli atti una testimonianza che avrebbe portato l'atenione verso la caserma. Tanto che in una delle precedenti udienze la Corte ha ipotizzato la falsa testimonianza, inviando gli atti in procura, di un amico di Marco Mottola. Il teste, Davide Bove, che con Mottola apparteneva all'autoproclamato «Gruppo fantastico» di amici dedito al consumo di hashish (custodito in caserma perché ritenuto «un nascondiglio sicuro») e a piccoli furti, dopo aver opposto per quasi vent' anni il «non ricordo» alle domande degli inquirenti, aveva assicurato che: «La mattina dell'1 giugno Marco era ai giardinetti con me». «Risalta maggiormente il comportamento del padre Franco nei confronti del figlio Marco», scrivono a proposito dei presunti depistaggi i militari del Nucleo investigativo, definendo quello dell'ex comandante «un crescendo di coperture». Mottola nega nei suoi rapporti che il figlio frequenti Serena e che lei andasse a trovarlo in caserma; omette di denunciare Marco per le molestie telefoniche in danno di un'insegnante; non registra una segnalazione per droga del figlio, incappato in un controllo. In questa «escalation di protezione paterna» rientrerebbe anche lo spostamento della porta incriminata dall'alloggio della famiglia a quello del carabiniere indagato per favoreggiamento. «Nulla di oggettivo è emerso finora, si tratta di supposizioni», dice l'avvocato dei Mottola, Francesco Maria Germani.
Stasera lo Speciale sull'omicidio di Serena Mollicone: un mistero lungo vent'anni. Le Iene News il 15 novembre 2021. Le testimonianze, le indagini, i segreti e le ricostruzioni di uno dei casi irrisolti più oscuri d'Italia. Stasera su Italia1 lo Speciale Le Iene con Veronica Ruggeri. "È una domenica di giugno. Un ragazzo cammina lungo una strada provinciale, circondata da boschi. Ha in mano un volantino, con la foto di una ragazza che si chiama Serena. Da 48 ore si sono perse le sue tracce, in paese la conoscono tutti, una brava ragazza, la studentessa modello. Il volontario fa una curva, e nota che in una piccola piazzola ci sono i soliti televisori abbandonati, vicino a quei rifiuti però c’è qualcosa di strano. Il ragazzo si avvicina piano piano. Ormai riesce a vedere, sono dei piedi, legati con dello scotch, una canottiera a fiorellini, la stessa che dovrebbe indossare la ragazza che cerca ma non riesce a capire se è lei. Ha la testa coperta da un sacchetto di plastica. Ha le mani legate con del fil di ferro. Così, quella ragazzina benvoluta da tutti, si trasforma nella protagonista di uno dei casi irrisolti più oscuri d’Italia”. Con queste parole di Veronica Ruggeri si apre stasera, in prima serata su Italia1, lo Speciale Le Iene “L’omicidio di Serena Mollicone: un mistero lungo 20 anni”, una puntata interamente dedicata alla tragica vicenda che ruota intorno alla morte dell’adolescente di Arce, un paese di poco meno di 6.000 abitanti in provincia di Frosinone. Con contenuti inediti, testimonianze di tutti i principali protagonisti, indagini e ricostruzioni, si ripercorre dal 2001 a oggi una storia che sembra ancora essere completamente avvolta dal mistero. Lo speciale, scritto da Alessia Rafanelli, è una dedica alla vita della ragazza e a quella di suo padre Guglielmo, scomparso dopo sette mesi di ricovero all’ospedale di Frosinone, che non hai smesso di cercare la verità.
I fatti
Nel giugno del 2001 Serena Mollicone viene trovata morta in un bosco. Secondo l’accusa il giorno prima era entrata nella caserma dei carabinieri, e non ne era più uscita in vita. Ma la ragazza non è l’unica vittima di questa storia. L’11 aprile del 2008 in un posto isolato viene ritrovata una macchina con tutte le portiere aperte. Sull’erba intorno c’è del sangue. Un brutto segno. Dentro la macchina infatti giace il cadavere di Santino Tuzi, un brigadiere che ha indagato proprio sul caso di Serena. Dopo le prime analisi arriva una risposta dolorosa: si tratta di un suicidio a causa di una presunta depressione. Eppure, quella scena appare strana. Dalla pistola di Santino mancano due colpi, ma nel corpo ne viene trovato solo uno. Dov’è finito il secondo proiettile? E ancora, perché su quella pistola non ci sono impronte? Nonostante questi interrogativi il caso viene chiuso in fretta.
Il processo
Iniziato pochi mesi fa e tutt’ora in corso vede rinviati a giudizio l’ex maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, ai tempi dell’omicidio comandante della stazione di Arce, la moglie Annamaria, il figlio Marco, Vincenzo Quatrale, all’epoca sottufficiale, e l’appuntato Francesco Suprano. I tre componenti della famiglia Mottola e Vincenzo Quatrale sono accusati di concorso in omicidio, quest’ultimo anche di istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi. Francesco Suprano è accusato di favoreggiamento. L’ipotesi del pubblico ministero, Beatrice Siravo, è che la ragazza sia stata aggredita nei locali della caserma dei carabinieri di Arce e poi assassinata in un altro luogo. Tutti gli imputati respingono le accuse. Negli anni le indagini sulla morte di Serena e su quella del brigadiere Tuzi sono state chiuse e riaperte più volte. Sono stati interrogati più di 300 testimoni, prelevati i campioni di Dna di praticamente tutta la popolazione di Arce e dintorni per compararli a quello presente sullo scotch che legava Serena. Ma non c’è mai stato nessun riscontro, neanche sugli accusati. Per adesso si tratta di soggetti ignoti.
Omicidio di Serena Mollicone, nuove ombre sulla droga in caserma. Le Iene News il 13 settembre 2021. Nuova udienza per il processo sull’omicidio di Serena Mollicone. Parla in aula un’amica della ragazza uccisa appena 18enne nel 2001. Secondo la sua testimonianza si sarebbe consumata droga anche in ambienti della caserma. Con Veronica Ruggeri abbiamo provato a ricostruire i tanti misteri attorno al giallo di Arce. Si torna a parlare della droga e di quel possibile legame con gli ambienti della caserma di Arce. Nuovo tassello nel processo per la morte di Serena Mollicone. A oltre 20 anni dalla sua uccisione ancora non c’è il nome del colpevole. Durante l’ultima udienza sono stati ascoltati alcuni amici della ragazza uccisa appena 18enne. Una di loro avrebbe parlato dei giri di droga nel paese in provincia di Frosinone. Ma alla testimonianza avrebbe aggiunto particolari che getterebbero nuove ombre su chi viveva e lavorava nella caserma del paese in quegli anni. Secondo la testimone il figlio del maresciallo in servizio nel 2001 avrebbe consumato cocaina anche negli ambienti della caserma. Al momento non ha alcuna conferma né è chiaro se fossero luoghi di lavoro o se invece si trattasse delle abitazioni private. Sembrerebbe che nessuno dei militari in servizio in quegli anni agli ordini del padre del ragazzo avesse approfondito questo aspetto. Questa ulteriore testimonianza getta ombre su Marco Mottola che assieme a suo padre Franco Mottola e la rispettiva moglie assieme a due militari in servizio nel 2001 sono a processo per l’omicidio di Serena Mollicone. Con Veronica Ruggeri vi abbiamo raccontato i tanti misteri di questa vicenda. Ci siamo messi anche sulle tracce di un carabiniere, oggi in pensione, che lavorava come appuntato nella caserma di Arce. “Io mi sono dimenticato tutto, ci sono volte che noi perdiamo la memoria”, ci dice l’ex militare. “Mi spiace perché proprio non c’ero… Perché se c’ero questa storia sarebbe finita già da tanto”. Una frase molto forte detta da un carabiniere: che cosa avrebbe potuto fare dopo la morte di Serena? “Ho dato vari spunti a livello investigativo. Poi è successa una guerra fra noi”. Questi spunti avrebbero creato tensioni tra i colleghi? Che cos’è successo a quei carabinieri dopo l’omicidio? Possibile che il brigadiere Tuzi sia una vittima di quella guerra? Si torna in aula il prossimo il 24 settembre.
Delitto Mollicone, l’alibi confermato solo 20 anni dopo, i giudici: «Falsa testimonianza». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2021. In corte d’Assise Davide Bove, amico dell’imputato Marco Mottola, ha cambiato versione in corte d’Assise: ora ricordo, era con me. In tre diversi verbali invece aveva ripetuto «non ricordo». La corte ha inviato gli atti in procura per falsa testimonianza. In tre diversi verbali, nell’arco di vent’anni, ripete «non ricordo». Poi, venerdì, Davide Bove recupera in aula la memoria: «La mattina dell’1 giugno Marco Mottola era ai giardinetti con me». Fornendo, almeno nelle intenzioni, un alibi all’amico accusato del delitto di Serena Mollicone assieme al padre, il maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, e alla mamma Anna Maria. Succede in corte d’Assise a Cassino, dove già altri testi si erano esposti alle contestazioni dei giudici con dichiarazioni ondivaghe. Questa volta, però, forse anche come monito futuro, la corte formalizza l’invio degli atti in Procura per la falsa testimonianza.
Le telefonate in caserma. Quando Bove offre il suo ricordo ai giudici, il presidente gli chiede come mai stia cambiando versione e se sia stato «avvicinato» da qualcuno con indicazioni in tal senso. Bove fa allora un generico riferimento ad altre testimonianze che lo avrebbero aiutato a ricordare. Il pm Beatrice Siravo esclude però di avergli mai sottoposto queste dichiarazioni, né Bove sa attribuire quelle parole. Soprattutto, a smentire la sua dichiarazione ci sono i tabulati telefonici di quella mattina: dall’utenza fissa dell’alloggio dei Mottola in caserma parte una telefonata a casa Bove, un minuto e mezzo alle 11.34, seguita sei minuti dopo da una chiamata di analoga durata da casa Bove sul cellulare di Marco Mottola. «Dal fisso di casa mia — aveva verbalizzato in passato Bove — l’unico che poteva contattare il cellulare di Marco ero io; e dal fisso dei Mottola l’unico a poter chiamare casa mia era Marco, nessun altro conosceva il numero». Questo non solo colloca Marco Mottola in caserma quando, secondo altre testimonianze, vi ha già fatto ingresso Serena, ma sembra anche smentire il suo incontro con Bove in piazza. L’informativa finale dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone, che hanno condotto le indagini, aggiungono altri dettagli sull’amicizia tra Bove e Mottola. Con altri due coetanei si soprannominavano il «gruppo fantastico», facevano largo uso di stupefacenti anche negli appartamenti della caserma («un deposito sicuro per l’hashish») e, come confermato in passato ancora da Bove, aumentavano la propria disponibilità economica vendendo oggetti d’oro prelevati nelle proprie abitazioni e in quella di una orefice di Arce.
I verbali mancanti. Molto altro dice ancora l’informativa dei carabinieri sul clima di coperture e depistaggi che caratterizzavano la gestione della caserma e le prime indagini condotte dal maresciallo Mottola: «Risalta maggiormente il comportamento del padre Franco nei confronti del figlio Marco», scrivono i militari del Nucleo investigativo, definendolo «un crescendo di coperture». Mottola nega che il figlio frequenti Serena e che lei andasse a trovarlo in caserma; omette di denunciare Marco per le molestie telefoniche in danno di un’insegnante che gliene chiede conto; non registra una segnalazione per droga del figlio, incappato in un controllo. In questa «escalation di protezione paterna», un episodio rivive in aula grazie a una domanda dell’avvocato Federica Nardoni alla teste Marica Arcese, che nei giorni in cui si cercava ancora il corpo andò in caserma a riferire circostanze rilevanti. Il maresciallo Mottola non formalizzò mai il verbale, dopo aver già, secondo l’accusa, «condizionato» Simonetta Bianchi, la donna che disse di aver visto Marco e Serena in un bar quella mattina. Mottola modifica nella sua segnalazione il modello d’auto da cercare, sottopone la teste a un inusuale riconoscimento fotografico in presenza del figlio e solo dopo 20 giorni deposita il verbale. In aula Bianchi ha opposto una lunga serie di «non ricordo».
La poesia. Il quadro che emerge a compendio delle indagini, in attesa delle necessarie conferme nel processo, è che molti ad Arce sapessero o sospettassero ma non hanno mai parlato e forse continuano a non farlo. A un’altra ragazza della comitiva di Serena e Marco Mottola viene chiesto il significato di una poesia lasciata sulla tomba della 18enne: Piccola vita spezzata/forse da una mano amica/ forse da un gesto involontario. Parole che oggi sembrano una pista o un messaggio ma che, assicura la teste ai giudici, «furono scelte a caso dal libro di scuola».
Da fanpage.it il 17 luglio 2021. "Il figlio del maresciallo Mottola si fa le canne e spaccia, bell'esempio per Arce. Prima o poi lo vado a denunciare". Lo avrebbe detto Serena Mollicone, la ragazza uccisa e trovata cadavere nel bosco di Arce nel 2001, al fidanzato. A riportarlo è stato proprio il ragazzo oggi nell'aula del Tribunale di Cassino, dove a distanza di vent'anni si sta celebrando il processo per l'omicidio della giovane. Secondo quanto dichiarato dal ragazzo, Serena Mollicone avrebbe espresso la volontà di denunciare il figlio del maresciallo Mottola una settimana prima della sparizione. Presenti in aula i cinque imputati: sono l'ex comandante della stazione di Arce, la moglie Anna Maria, il figlio Marco, l'ex vice comandante Vincenzo Quatrale e l'appuntato Francesco Suprano. I primi quattro sono accusati di concorso in omicidio, Quatrale deve rispondere anche di istigazione al suicidio per la morte del brigadiere Santino Tuzi, mentre Suprano è accusato di favoreggiamento. Serena Mollicone è scomparsa all'età di 18 anni il primo giugno 2001. Per tre giorni non si sono avute notizie della giovane, fino a quando il suo corpo è stato trovato senza vita nel bosco di Arce, con mani e piedi legati con delle fascette e una busta di plastica in testa. Inizialmente i sospetti degli investigatori sono ricaduti sul padre Guglielmo, indagato e portato via dai carabinieri durante i funerali della figlia, ma nel 2006 la Cassazione lo ha prosciolto da ogni accusa. Una seconda indagine ha collocato il momento del suo omicidio nella caserma di Arce. Secondo l'accusa Serena Mollicone era andata nella caserma dei carabinieri, dove avrebbe avuto una discussione con Marco Mottola, e lì sarebbe stata aggredita, battendo la testa contro una porta e cadendo a terra svenuta. I Mottola, credendola morta, l'avrebbero poi portata in un boschetto e soffocata con un sacchetto di plastica.
Serena Mollicone, 20 anni fa il delitto: tutte le date e le tappe di un giallo infinito. Il Corriere della Sera il 31 maggio 2021. La 18enne sparì il 1 giugno 2001 e tre giorni dopo fu ritrovato il cadavere. Dal primo processo al carrozziere, alle nuove accuse ai carabinieri. Di mezzo una morte sospetta e la sofferenza di una famiglia (che ha dato l'addio al padre).
Vent’anni fa. Venti anni fa veniva uccisa Serena Mollicone, un omicidio su cui non è ancora stata fatta piena luce. Cosa accadde la mattina del 1 giugno del 2001? Chi incontrò Serena? Chi la uccise e trasportò il corpo nel boschetto dell'Anitrella, a pochi chilometri da Arce, dove la 18enne viveva con il padre? Sarà la verità processuale a dover rispondere a tutti questi quesiti, attraverso le oltre 200 testimonianze previste in aula e l'analisi delle prove che si formeranno in dibattimento. La prima udienza del processo si è celebrata il 19 marzo, giorno della festa del papà, un data simbolica, interpretata da molti come un omaggio a Guglielmo Mollicone, quel padre che ha passato la vita a lottare per la verità ma è morto prima dell'inizio del processo. La prima udienza si è svolta a porte chiuse nel Tribunale di Cassino, davanti alla Corte d'Assise, mentre le altre si sono tenute in un'aula dell'università.
La sparizione. Tutto nasce da qui. È il 1 giugno 2001. Serena Mollicone esce di casa la mattina presto. Una giornata come tante, fino a quel momento, per la diciottenne di Arce, che dopo aver preparato la colazione al padre, con cui vive sola dalla morte della mamma, va all'ospedale di Sora dove ha un appuntamento fissato da qualche giorno per un piccolo intervento. Da quel momento però non farà più ritorno a casa e le ultime ore della sua vita restano un mistero. All'ora di pranzo il padre, Guglielmo Mollicone, maestro elementare e titolare di una cartoleria di Arce, inizia a preoccuparsi per l'assenza della figlia e nel pomeriggio ne denuncia la scomparsa ai carabinieri. Cominciano le ricerche: forze dell'ordine e volontari setacciano i paesi del circondario con una foto di Serena nella speranza di rintracciarla.
Il ritrovamento. Due giorni dopo la sparizione, il 3 giugno 2001, due volontari della Protezione Civile trovano il cadavere di Serena. Il corpo viene rinvenuto vicino a un mucchio di rifiuti e seminascosto da una lavatrice, abbandonato sull'erba in un boschetto all'Anitrella. Serena viene trovata con mani e piedi legati da nastro adesivo e fil di ferro e un sacchetto del supermercato in testa. Iniziano le indagini, coordinate dal procuratore della Repubblica di Cassino, Gianfranco Izzo e dai sostituti procuratori Maurizio Arcuri e Carlo Morra. Ma subito si mostrano in salita.
L'arresto. Ci vogliono due anni, infatti, per arrivare alla prima svolta. Il 6 febbraio 2003 viene arrestato il carrozziere Carmine Belli, che entra nella caserma dei carabinieri con l'aria innocua e spaventata. Continua a ripetere di non essere lui il colpevole e di non sapere assolutamente nulla di quell'orribile delitto. Ma nessuno gli crede e tre mesi dopo, a fine maggio 2003, la Procura di Cassino chiude le indagini e chiede il processo con l'accusa di omicidio volontario. Il 37enne viene rinviato a giudizio ma i suoi legali gli avvocati Romano Misserville e Silvana Cristoforo continuano a professare la sua innocenza e chiedono ufficialmente in una conferenza stampa, che si indaghi in ambienti più vicini alla famiglia di Serena.
Il processo al carrozziere. Passa un altro anno e il 14 gennaio del 2004 si apre il processo a Carmine Belli davanti alla Corte d'Assise di Cassino. Il carrozziere è accusato di aver ucciso e poi occultato il corpo di Serena Mollicone. La pubblica accusa chiama a testimoniare 57 persone; 150, invece, i testimoni chiamati in causa dai legali della difesa. Per la conclusione ci vogliono sei mesi: il 7 luglio 2004 la Corte d'Assise, presieduta dal giudice Biagio Magliocca, scomparso da qualche anno, si chiude in Camera di Consiglio e, alle ore 18, esce con la sua sentenza: assolto.
Appello e Cassazione. Il processo d'appello a carico di Carmine Belli ha inizio il 29 settembre 2005, quattro anni dopo il delitto di Serena. Secondo il procuratore generale, che chiede 23 anni di carcere, la sentenza di primo grado era illogica e contraddittoria. Il 31 gennaio 2006, però, per Belli arriva un'altra assoluzione: a decretarla, dopo meno di due ore di camera di consiglio, il presidente della Corte d'Assise d'Appello di Roma, Antonio Cappello, secondo cui le prove a carico di Belli sono insufficienti. I familiari della studentessa uccisa vengono condannati al pagamento delle spese processuali. Nove mesi dopo, ad ottobre 2006, anche la Cassazione si esprime per Belli, respingendo definitivamente tutti i ricorsi. Il carrozziere di Arce, per i giudici, non è l'assassino di Serena. È solo il primo dei colpi di scena.
La testimonianza del brigadiere. Due anni dopo la sentenza di Cassazione, che aveva assolto definitivamente il carrozziere ecco un'altra, clamorosa svolta. Il 28 marzo 2008 il brigadiere Santino Tuzi rende alcune dichiarazioni su Serena Mollicone e racconta di averla vista entrare nella caserma dei carabinieri proprio il 1 giugno 2001, il giorno in cui era sparita; ma di non averla vista uscire.
Il brigadiere viene trovato morto. Non passa nemmeno un mese da quelle confessioni, e Santino Tuzi l'11 aprile 2008 viene trovato morto nella sua auto in un bosco, ucciso da un colpo di pistola al petto. L'ipotesi è di suicidio. Ma molti rimangono turbati e increduli. In primis la figlia, che si dirà convinta del legame tra la morte del padre e «la verità sul caso di Serena Mollicone». «Sono certa che mio padre sapesse qualcosa e che era stato minacciato di ritorsioni nei confronti della famiglia», dice Maria Tuzi.
La lettera a «Chi l'ha visto?». Un altro colpo di scena. Il 1 luglio 2009, a 8 anni di distanza dall'assassinio di Serena Mollicone, spunta un nuovo testimone. Una lettera con due fotografie viene recapitata alla redazione della trasmissione televisiva di RaiTre Chi l'ha visto?. Nella missiva, rigorosamente anonima, una persona in due pagine scritte a mano riferisce alcuni momenti salienti che precedono la scomparsa della 18enne di Arce. L'anonimo testimone allega anche due fotografie.
I nuovi indagati. E si arriva così al 27 giugno 2011. La procura di Cassino iscrive infatti alcune persone nel registro degli indagati in relazione all'omicidio di Serena Mollicone. Si tratta di quattro uomini e una donna, che dovranno essere sottoposti al test del dna: l'ex fidanzato di Serena, Michele Fioretti e la madre Rosina Partigianoni (le cui posizioni vengono poi archiviate), l'ex maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, il figlio Marco e un altro carabiniere, Francesco Suprano.
«Guardate dentro la Caserma». Dopo quattro anni di indagini — nei quali vengono fatte una serie di accertamenti, sia di tipo genetico/biologico, sia dattiloscopico ed in materia botanica — la procura di Cassino richiede l'archiviazione del procedimento. La famiglia però non ci sta e il 13 gennaio 2016, in seguito all'opposizione dei familiari della vittima, il gup del Tribunale di Cassino, Angelo Valerio Lanna, dispone il proseguimento delle indagini, indicando quale «tema di approfondimento l'ipotesi investigativa dell'evento omicidiario all'interno della stazione dei carabinieri di Arce».
La morte del padre. Il 26 novembre 2019 però, Guglielmo Mollicone, il padre di Serena, che per anni aveva combattuto una battaglia di verità e di giustizia per la figlia, viene colpito da un infarto e ricoverato all'ospedale Spaziani di Frosinone. Muore il 31 maggio 2020 in una struttura di lunga degenza a Veroli, in provincia di Frosinone.
Il nuovo rinvio a giudizio. E così, dopo nuove indagini, il 30 luglio 2019 la procura chiede il rinvio a giudizio per cinque persone: si tratta del maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, della moglie Anna Maria, del figlio Marco e del maresciallo Vincenzo Quatrale, che sono accusati di concorso nell'omicidio. Quatrale, inoltre, è accusato di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi. Infine l'appuntato Francesco Suprano è accusato di favoreggiamento. La prima udienza davanti al gup si tiene il 13 novembre 2019: si costituiscono parte civile contro gli indagati i carabinieri, la figlia del brigadiere Santino Tuzi, Maria, il padre e la sorella di Serena Mollicone e altri familiari della 18enne.
Omicidio Mollicone, ascoltato chi ha ritrovato il corpo di Serena: “Sembrava una messinscena”. Le Iene News il 22 maggio 2021. Si è tenuta un’altra udienza del processo per l’omicidio di Serena Mollicone. è stato sentito il primo testimone che ha ritrovato il corpo della ragazza appena 20enne. Era il 3 giugno del 2001, da allora sono passati quasi 20 anni. Sono 5 gli imputati a vario titolo. Con Veronica Ruggeri abbiamo provato a fare luce su questo mistero. “Mi fu subito chiaro che Serena non era stata uccisa lì e quelle caviglie così strette mi sembrarono una messinscena”. A parlare davanti ai giudici è Gabriele Tersigni. Fu il primo a vedere il cadavere di Serena Mollicone quel maledetto 3 giugno del 2001, a due giorni dalla scomparsa della ragazza appena 20enne. Con Veronica Ruggeri ci stiamo occupando di questa vicenda in cui secondo gli inquirenti ci sarebbero misteri e depistaggi. Tersigni, oggi in pensione, è stato ascoltato durante le udienze del processo iniziato da poche settimane. “Si facevano tante ipotesi inverosimili dal satanismo al suicidio per depressione, ma quando andai da Mottola proponendo di indagare con decisione nella cerchia dei conoscenti, lui fu sorpreso, quasi indignato: ‘Che cosa vuoi dire con questo?’, mi rispose”, ha riferito. Franco Mottola era l’allora comandante della stazione dei carabinieri di Arce (Frosinone). Lui con sua moglie e suo figlio Marco assieme a due militari in servizio nel 2001 sono a processo per l’omicidio di Serena Mollicone. In questa vicenda che dura da 20 anni c’è un’altra morte non ancora chiarita: quella del brigadiere Santino Tuzi. Lui avrebbe riferito di essere stato tra le ultime persone ad aver visto in vita Serena nelle ore della sua scomparsa. Proprio quella mattina del 1 giugno 2001, la ragazza sarebbe stata vista in caserma ad Arce. Pochi giorni fa sua figlia Maria ha sentito le registrazioni delle dichiarazioni del padre. "Ho capito che aveva paura. La sua voce non era quella di sempre, piena di vita, di coraggio. Mio padre era spaventato", ha scritto sui social. L’uomo è morto misteriosamente nel 2008 pochi giorni dopo aver parlato ai magistrati proprio sulla morte di Serena. Per molti si è trattato di un gesto volontario, ma questa ricostruzione non convince pienamente chi lo conosceva bene. "La seconda registrazione parla del successivo interrogatorio, quello a cui viene sottoposto a distanza di qualche giorno dal primo. Ho sentito mio padre preoccupato, distaccato e che inspiegabilmente ritratta tutto". Il sottufficiale dell'Arma quindi prova a negare che Serena Mollicone possa essere entrata nella caserma di Arce quel venerdì di inizio estate del 2001. Con Veronica Ruggeri vi abbiamo raccontato i tanti misteri di questa vicenda. Ci siamo messi anche sulle tracce di un carabiniere, oggi in pensione, che lavorava come appuntato nella caserma di Arce. “Io mi sono dimenticato tutto, ci sono volte che noi perdiamo la memoria”, ci dice l’ex militare. “Mi spiace perché proprio non c’ero… Perché se c’ero questa storia sarebbe finita già da tanto”. Una frase molto forte detta da un carabiniere: che cosa avrebbe potuto fare dopo la morte di Serena? “Ho dato vari spunti a livello investigativo. Poi è successa una guerra fra noi”. Questi spunti avrebbero creato tensioni tra i colleghi? Che cos’è successo a quei carabinieri dopo l’omicidio? Possibile che il brigadiere Tuzi sia una vittima di quella guerra?
Tiziana La Pelosa per "Libero Quotidiano" il 20 marzo 2021. Vent' anni. E chissà quanti ne passeranno ancora prima che sia fatta giustizia sul delitto di Arce, che ormai fa parte della memoria collettiva: il corpo senza vita di Serena Mollicone, 19 anni, venne ritrovato in un boschetto del comune in provincia di Frosinone. Era il 3 giugno del 2001. La sua morte non ha ancora dei colpevoli assicurati alla giustizia. Soltanto degli imputati, ai quali si è arrivati grazie alla caparbietà dell' avvocato dei Mollicone e del papà di Serena, che per tutta la vita si è speso alla ricerca della verità fino a morirne, lo scorso anno, senza vedere i frutti della sola cosa che lo teneva in vita. Ieri c' è stata la prima udienza del processo, ma è stata «velocissima» e rinviata al prossimo 16 aprile, in un' aula dell' Università di Cassino per permettere alla stampa di seguire il processo con le misure anti-Covid. La Corte, nel frattempo, «dovrà decidere l' ammissibilità della richiesta di costituirsi parte civile da parte del comune di Arce», ci spiega l' avvocato, Dario De Santis. Richiesta che va ad unirsi a quelle già ammesse, dell' Arma dei Carabinieri e dei familiari di Santino Tuzi, il brigadiere morto suicida a 59 anni. L' 11 aprile del 2008 il suo corpo venne trovato con il petto squarciato da un colpo sparato con la sua pistola d' ordinanza, a bordo della sua auto, una Fiat Marea. Più avanti avrebbe dovuto ripetere in aula quello che pochi giorni prima aveva riferito in procura, e cioè che il 1 giugno di sette anni prima, aveva visto Serena Mollicone entrare nella caserma di Arce a metà mattina, intorno alle 11, e che alle 14.30, orario in cui lasciò la caserma, quella ragazza era ancora lì, non era affatto uscita. Una testimonianza chiave, la sua. Forse scomoda. Ma bisogna fare un passo indietro per capire il perché.
ORRORE. La mattina del 1 giugno del 2001, la liceale Serena con un posto nella banda del paese a suonare il clarinetto, esce dalla sua casa ad Arce, seimila abitanti in provincia di Frosinone, per andare all' ospedale di Isola del Liri a dieci chilometri di distanza. Serena sa come si sta al mondo, sa sbrigarsela da sola. Del resto aveva appena sei anni quando la mamma, maestra elementare, morì per un male incurabile. Ha una sorella di quasi dieci anni più grande che però vive lontano, un padre, Guglielmo, che ha una cartoleria in paese. Terminata la visita, Serena torna ad Arce, compra quattro porzioni di pizza e quattro cornetti nei pressi della stazione e viene vista per l' ultima volta nella piazza principale di Arce, piazza Umberto I. Poi il nulla. Una squadra della Protezione civile troverà il suo corpo in un boschetto ad otto chilometri da Arce, dove il giorno prima erano passati anche i carabinieri senza tuttavia scorgere il cadavere. Il corpo supino, nascosto dietro un contenitore metallico, è coperto di foglie e rami, mani e piedi legati da fil di ferro e nastro adesivo, la testa con un occhio vistosamente ferito è coperto da un sacchetto di plastica, il naso e la bocca coperti con diversi giri di nastro adesivo.
CALVARIO. Mai il padre, la sorella e lo zio avrebbero immaginato che a distanza di venti anni giustizia ancora non fosse fatta. «Il padre Guglielmo si è consumato in questa attesa», dice il legale De Santis, «si è speso, battuto e quando poteva vedere in lontananza questo inizio del processo, il destino ha voluto che si spegnesse». Guglielmo Mollicone, infatti, è morto lo scorso 31 gennaio dopo un coma conseguenza di un infarto. «Si tratta di un caso drammatico, c' è profonda amarezza, ma è la fiducia nella giustizia l' elemento che ha dato la forza ai familiari di andare avanti». Per ben due volte, infatti, le indagini sono naufragate. Un primo processo vide imputato un carrozziere di Rocca Carmine Belli, sulla base del contenuto di un biglietto dal quale si evinceva che avrebbe dovuto incontrare Serena, che all' epoca frequentava un ragazzo di 26 anni. La giustizia lo riterrà del tutto estraneo, con sentenza passata in giudicato, nel 2004. Le indagini proseguono, ma per ben due volte, nel 2012 e nel 2014, viene chiesta l' archiviazione del caso «ritenendo che fossero state fatte tutte le indagini con l' impossibilità di trovare degli indagati». Ma non era affatto così. «Se le indagini sono proseguite è grazie alle nostre opposizioni», dice De Santis, che per ben due volte si è opposto alle decisioni di archiviazione. «La cosa che colpisce», spiega oggi, «è che dopo la riapertura del caso sono state fatte una montagna di nuove indagini che hanno portato allo sviluppo attuale». Che significa cinque persone che nel 2019 sono state rinviate a giudizio. A fare luce è l' esito di un nuovo esame sul corpo della vittima eseguito dal medico legale Cristina Cattaneo, gli esami del Ris che confermano che l' omicidio avvenne nella caserma di Arce e la testimonianza del carabiniere suicida. Serena, dice l' accusa, fu uccisa in caserma battendo violentemente la testa contro una porta. Credendola morta, fu portata nel boschetto e finita perché ancora respirava. Gli imputati sono: l' ex maresciallo della caserma di Arce, Franco Mottola, sua moglie Anna Maria e suo figlio Marco. L' accusa: omicidio aggravato e occultamento di cadavere; l' appuntato scelto Francesco Suprano (unico imputato ieri presente in aula) accusato di favoreggiamento personale in omicidio volontario; il luogotenente Vincenzo Quatrale per concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi. Sono passati 20 anni «ma oggi (ieri, ndr) è solo l' inizio», assicura De Santis.
"Serena Mollicone denunciò lo spaccio di droga". Quel padre morto senza la verità. Il prossimo 19 marzo prenderà via il processo contro i 5 imputati per l'omicidio di Serena Mollicone. A 20 anni dalla sua morte, il colpevole è ancora sconosciuto. Francesca Bernasconi - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale. Una morte che, a distanza di 20 anni, non ha ancora un colpevole. Il prossimo 19 marzo partirà il processo per l'omicidio di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce scomparsa nel 2001. Ma numerosi sono ancora i punti oscuri, i dubbi e le perplessità che aleggiano intorno a una vicenda che rimane uno dei più profondi misteri della cronaca nera italiana.
La scomparsa di Serena Mollicone. Il 1° giugno 2001 la studentessa Serena Mollicone uscì dalla sua casa di Arce (in provincia di Frosinone) per andare a fare una visita dentistica in ospedale, che si concluse intorno alle 9.30 della mattina. Alcuni testimoni avrebbero affermato poi di averla vista in una panetteria nei pressi della stazione e successivamente nella piazza del paese. Poi scomparve. E all'ora di cena Serena non era ancora rientrata a casa: così il padre Guglielmo ne denunciò la scomparsa. A quei tempi Serena frequentava l'ultimo anno del liceo socio-psico-pedagogico di Sora e suonava il clarinetto nella banda del paese. La madre era morta quando lei era ancora piccola, mentre il padre lavorava come insegnante delle scuole elementari e gestiva una cartolibreria in paese. La studentessa aveva anche una sorella, Consuelo di 28 anni, che non viveva più ad Arce. Due giorni dopo, domenica 3 giugno 2001, il corpo senza vita della studentessa venne ritrovato nel bosco di Fontecupa, a 8 chilometri da Arce: la testa, con un'evidente ferita vicino all'occhio sinistro, era stata avvolta in un sacchetto di plastica, mentre mani e pieni erano state legati con nastro adesivo e fil di ferro. Diversi giri di nastro adesivo erano serviti anche ad avvolgere il naso e la bocca della ragazza.
Le indagini. Tra i primi indagati per l'omicidio di Serena ci fu Carmine Belli, un ex carrozziere che, come riferiva LaPresse, venne arrestato con l'accusa di essere l'assassino della studentessa di Arce. Ma nel luglio del 2004, dopo aver trascorso quasi un anno e mezzo di reclusione, l'uomo venne assolto, nonostante il pm avesse chiesto per lui una pena a 23 anni di reclusione. La sentenza di assoluzione venne confermata nel dicembre 2006 dalla Corte di Cassazione, secondo cui gli elementi indiziari a carico dell'imputato non erano sufficientemente consistenti. Tra le motivazioni che portarono alla decisione, la Cassazione indicò l'impossibilità di arrivare a una condanna "oltre ogni ragionevole dubbio" per diversi motivi, tra cui l'approssimazione delle indicazioni medico-legali e l'esito negativo degli accertamenti sulle impronte digitali su "oggetti certamente maneggiati dall'autore del delitto". Negativo anche l'esame del Dna. Per questo la Corte ha rigettato i ricordi presentati contro l'assoluzione di Belli. Così, dopo oltre 4 anni, il killer di Serena Mollicone è rimasto senza un nome. Due anni dopo, nell'aprile del 2008, il brigadiere Santino Tuzi si tolse la vita, sparandosi al petto. L'uomo era stato interrogato nel corso delle indagini per l'omicidio Mollicone e aveva rivelato di aver visto la studentessa nei pressi della caserma di Arce nel pomeriggio di quel venerdì 1° giugno 2001, giorno della scomparsa. Così, nel 2011, vennero iscritti nel registro degli indagati l'ex maresciallo Franco Mottola, allora in servizio alla caserma di Arce, la moglie e il figlio Marco. Per anni si susseguirono verifiche, esami e ipotesi, senza che le indagini facessero significativi passi avanti. Fino alla perizia svolta dalla professoressa Cristina Cattaneo, dopo la riesumazione del corpo di Serena, nel 2016.
La svolta. La nuova perizia svolta dal medico legale indicò la possibilità che Serena fosse stata picchiata e poi soffocata con un sacchetto. Non solo: le lesioni presenti sulla testa sarebbero state anche "compatibili" con l'urto rinvenuto su una porta che si trovava nella caserma dei carabinieri di Arce. "Stabilito che in via di elevata probabilità le lesioni contusive e le fratture al capo - si legge, secondo quanto aveva riportato all'epoca il Giornale - sono la conseguenza di un urto del versante sinistro del capo contro una superficie piana e ottusa compatibile con la porta in giudiziale sequestro, va ricordato che la morte non è comunque da ricondursi a questo trauma". Per questo l'ipotesi principale era quella di una morte per "asfissia meccanica", seguita a "un trauma cranico, molto probabilmente produttivo di una perdita di coscienza".
Serena Mollicone, perizia: "Picchiata e poi soffocata con un sacchetto". L'anno dopo arrivò anche la perizia dei Ris che, dopo 17 anni, sembrò segnare una svolta importante, sposando l'ipotesi secondo cui Serena venne uccisa all'interno della caserma. Secondo l'accusa, la ragazza venne spinta contro la porta collocata in caserma, data la compatibilità tra i microframmenti rinvenuti sul nastro adesivo trovato sul corpo della vittima e il legno della porta. Poi sul capo della Mollicone sarebbe stato applicato un sacchetto di plastica, che la avrebbe fatta morire soffocata. "Chi uccise mia figlia aveva paura di Serena perchè lei ebbe il coraggio di andare nella caserma dell'Arma per denunciare l'enorme spaccio di droga che all'epoca c'era ad Arce, terzo polo dello spaccio di stupefacenti dopo Roma e Napoli. Spaccio controllato da un boss camorrista capo degli Scissionisti", aveva dichiarato allora Guglielmo Mollicone a Radio Cusano Campus. Non solo. Secondo il padre della studentessa, "furono in tanti a depistare le indagini".
Gli ultimi sviluppi. A seguito del nuovo filone di indagini, l'accusa chiese il rinvio a giudizio di 5 persone, tra cui tre carabinieri. Si trattava del maresciallo Mottola, della moglie e del figlio Marco, tutti accusati di omicidio, del sottufficiale Vincenzo Quatrale, accusato di concorso in omicidio e istigazione al suicidio di Tuzi, e del carabiniere Francesco Suprano, per favoreggiamento. Stando alla ricostruzione del delitto, effettuata da parte dell'accusa, Serena sarebbe stata colpita mentre si trovava in caserma, forse a seguito di un litigio con Marco, che l'avrebbe portata a sbattere la testa contro la porta. La ragazza poi sarebbe stata legata e sarebbe morta soffocata per in nastro adesivo che le copriva la bocca e il sacchetto di plastica con cui le venne coperto il capo. La difesa dei Mottola non è d'accordo con l'ipotesi accusatoria: si mette in dubbio in particolare che il segno sulla porta della caserma corrisponda al colpo subito dalla studentessa, e si evidenziano le differenti altezze tra la ferita sul volto della ragazza e quella sulla porta.
Delitto Mollicone, l'Arma si costituisce parte civile. Il 24 luglio 2020 il giudice dell'udienza preliminare decise, dopo una fase preliminare durata diversi mesi, di rinviare a giudizio i 3 carabinieri e i parenti dell'ex maresciallo, "con l'accusa a vario titolo di concorso in omicidio volontario, occultamento di cadavere, istigazione al suicidio e favoreggiamento", come riportato da LaPresse. "È un piccolo passo importante, e vale l'uno e l'altro aggettivo. Perché il percorso da fare è lungo, ma senza questo passaggio fondamentale si sarebbe fermato tutto oggi", aveva commentato il legale della famiglia Mollicone, Dario De Santis, alla notizia del rinvio a giudizio. L'inizio del procedimento davanti alla Corte d'Assise per la morte di Serena Mollicone era previsto per lo scorso 15 gennaio, ma è stato rinviato a causa di una carenza di giudici al tribunale di Cassino. Ora la prima udienza è fissata per il prossimo 19 marzo. La speranza è quella di fare luce su un delitto ancora oscuro e per il quale non c'è ancora un colpevole certo. In tutti questi anni si è sempre battuto per la verità il padre di Serena, Guglielmo Mollicone, venuto a mancare lo scorso 31 maggio, senza aver visto la giustizia che sperava di donare alla figlia.
· Il Mistero di Teodosio Losito.
Marco Maffettone per "ANSA" il 18 giugno 2021. C'è un primo indagato nella indagine della Procura di Roma relativa alla morte del produttore e sceneggiatore tv, Teodosio Losito. I magistrati di piazzale Clodio hanno proceduto all'iscrizione del produttore Alberto Tarallo, fondatore della società di produzione Ares per la quale Losito ha sfornato numerose fiction per il piccolo schermo. L'accelerazione nel procedimento è coincisa anche con l'acquisizione avvenuta a Zagarolo, presso l'abitazione di Tarallo (in passato legato da una lunga amicizia con Losito), di materiale documentale nella sua disponibilità. Nell'indagine, coordinata dal sostituto procuratore Carlo Villani, si procede per istigazione al suicidio e gira intorno alle dichiarazioni di due concorrenti del Grande Fratello che nel corso di una edizione del reality facendo riferimento alla morte di Losito tirarono in ballo l'esistenza di una presunta setta segreta. Nelle scorse settimane a piazzale Clodio sono stati ascoltati numerosi attori e vip della scuderia Ares. L'ultima in ordine di convocazione è stata Manuela Arcuri il 22 maggio scorso sentita come persona informata sui fatti. L'attrice conosceva Losito e in passato ha lavorato con la casa di produzione. L'uomo fu trovato morto nella sua abitazione romana, nel gennaio del 2019. Nel dialogo carpito nel corso del reality Grande Fratello i due concorrenti Adua Del Vesco e Massimiliano Morra avevano parlato della vicenda Losito sostenendo l'esistenza di una sorta di struttura segreta. Parole, espresse nel corso di un dialogo "notturno" al Gf, che hanno spinto i familiari a depositare un esposto ai magistrati chiedendo di fare chiarezza soprattutto alla luce del tragico gesto dello sceneggiatore autore di numerose fiction di successo. Il pm, in un fitto calendario di audizioni, ha ascoltato nelle scorse settimane anche gli attori Gabriel Garko, Teresa De Sio e Nancy Brilli oltre alla conduttrice tv Barbara D'Urso che nel corso delle sue trasmissioni ha affrontato il cosiddetto Ares Gate. Al centro dei colloqui con gli inquirenti proprio il tipo di rapporto di lavoro che si era instaurato con la società di produzione. Nelle scorse settimane lo stesso Tarallo, tramite il suo avvocato, aveva chiesto di essere convocato dai pm per essere ascoltato. Un atto istruttorio che potrebbe avvenire nelle prossime settimane e al quale il produttore tv comparirà ora in veste di indagato.
Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 6 luglio 2021. Accusato di essere un padre padrone, tiranno con i suoi attori, indagato per l’istigazione al suicidio del suo compagno, lo sceneggiatore Teodosio Losito, Alberto Tarallo, produttore della Ares Film («L’onore e il rispetto», «Il bello delle donne»), è entrato ora dal pubblico ministero Carlo Villani in compagnia del suo avvocato, la penalista Daria Pesce. Con sé ha le mail e le lettere di Losito nelle quali quest’ultimo si assume l’unica responsabilità di conti disastrati e progetti dissolti della casa di produzione. Tarallo ha sempre sostenuto di poter spiegare ogni cosa e respinge qualunque addebito, incluso quello della sua grande accusatrice, l’attrice Adua Del Vesco (nome d’arte di Rosalinda Cannavò) che gli attribuisce metodi più adatti a una setta che ad una casa di produzione. L’inchiesta della Procura di Roma sta cercando di appurare le circostanze della morte di Losito trovato impiccato a un termosifone della villa di Zagarolo l’8 gennaio 2019. Sullo sfondo ci sarebbe anche una polizza sulla vita (valore: 300mila euro) contesa tra il fratello Giuseppe Losito e lo stesso Tarallo, l’uno e l’altro sarebbero in grado di dimostrare di essere i veri intestatari della somma. Intanto i finanzieri del nucleo economico finanziario hanno acquisito la relazione del curatore fallimentare della Ares che ha subito un crac del valore di circa un milione e mezzo di euro. Per approfondire i metodi utilizzati dai vertici della società di produzione il pm ha ascoltato divi e personaggi dello spettacolo fra cui Gabriel Garko, la stessa Adua Del Vesco, Eva Grimaldi, Nancy Brilli, Giuliana De Sio e Barbara D’Urso che da conduttrice del Grande Fratello Vip aveva ospitato gli sfoghi di alcuni protagonisti delle fiction Ares.
Da "il Messaggero" il 7 luglio 2021. In sette ore, negli uffici della Procura di Roma, ha ripercorso la storia d' amore e di lavoro che per anni lo ha legato al compagno Teodosio Losito, lo sceneggiatore tv morto suicida nel gennaio 2019. Alberto Tarallo, produttore, fondatore della Ares, la società che ha lanciato decine di fiction sul piccolo schermo e che ora è fallita, è finito sotto inchiesta per quella morte, dopo le dichiarazioni fatte da due concorrenti del Grande Fratello Vip, Adua Del Vesco, alias Rosalinda Cannavò, e Massimiliano Morra. I due, parlando tra loro in diretta tv, hanno fatto riferimento al decesso di Losito tirando in ballo l'esistenza di una presunta setta collegata alla Ares e manovrata da un uomo da loro soprannominato Lucifero. La Cannavò, sentita in Procura, avrebbe ribadito le sue dichiarazioni. Tarallo, ascoltato dal pm Carlo Villani, che da qualche settimana lo ha iscritto nel registro degli indagati, ha firmato con Losito numerosi successi per il piccolo schermo e ha lanciato divi del calibro di Gabriel Garko e Nancy Brilli, entrambi ascoltati dagli inquirenti come testimoni. Anche la Cannavò ha lavorato con la Ares e Tarallo sostiene che le accuse che la donna muove nei suoi confronti siano invenzioni, fatte per danneggiarlo. Nei giorni scorsi, gli inquirenti hanno proceduto all' acquisizione di documenti nella villa di Zagarolo, quartier generale della Ares, dove vive Tarallo e dove abitava anche Losito: sono finite agli atti dell'inchiesta le lettere di addio che lo sceneggiatore ha scritto al compagno prima di togliersi la vita. Verranno fatti anche accertamenti sul cellulare di Losito, che è stato sequestrato. Le lettere che ora verranno analizzate dalla Procura sono tre. La terza è stata scritta il giorno del suicidio. «Me le ha fatte trovare in una busta - ha raccontato Tarallo l' 8 giugno scorso nel corso di una puntata della trasmissione Non è l' Arena - Nell' ultima lettera mi scrisse: Caro Alberto il 18 dicembre il caso ha voluto che mi fermasse un semplice sms proprio nel momento in cui stavo per compiere l' atto. Ho passato questi giorni assaporando un po' di vita, un po' di normalità, ma ero conscio che sarei arrivato a questo momento. Perdonami se potrai, ti ho sempre amato e sempre ti amerò». L' interrogatorio di Tarallo è l'ultimo atto di un'inchiesta che va avanti da mesi. Nelle scorse settimane a piazzale Clodio sono stati ascoltati numerosi attori e vip della scuderia Ares. L' ultima in ordine di convocazione è stata Manuela Arcuri, sentita come persona informata sui fatti il 22 maggio. Prima era stato il turno di Gabriel Garko, Teresa De Sio, Nancy Brilli e Barbara D' Urso.
Morte Losito, Alberto Tarallo indagato per istigazione al suicidio. Francesca Galici il 18 Giugno 2021 su Il Giornale. La procura di Roma ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio nei confronti di Alberto Tarallo, indagato per la morte di Teodosio Losito. Il produttore televisivo Alberto Tarallo è stato indagato dalla procura di Roma per istigazione al suicidio nei confronti del produttore e sceneggiatore Teodosio Losito. Nei confronti del fondatore della società Ares Film, in base a quanto si apprende, i magistrati hanno disposto alcune acquisizioni documentali effettuate dalla Guardia di finanza. L'indagine è coordinata dal pm Carlo Villani. L'indagine è iniziata dopo le dichiarazioni di Rosalinda Cannavò durante l'ultima edizione del Grande fratello Vip. La concorrente, confidandosi con l'attore Massimiliano Morra, si era lasciata sfuggire alcune frasi significative in merito alla morte di Teodosio Losito, che si è tolto la vita nel gennaio 2019. In quell'occasione i due attori, che in passato erano entrambi stati parte della società Ares, hanno parlato di una "setta". Rosalinda Cannavò espresse dubbi sul suicidio dell'amico Losito e così, partendo da quelle parole, la famiglia dello sceneggiatore ha deciso di sporgere denuncia. Sono tanti i volti noti dello spettacolo che negli ultimi mesi sono stati chiamati dal pm di piazzale Clodio a deporre la loro testimonianza in merito a questa vicenda. Ora che la procura ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, i finanzieri del nucleo della polizia economico finanziaria si sono presentati alla porta della villa di Zagarolo in cui Alberto Tarallo ha vissuto per lunghi anni con Teodosio Losito e dove si sono spesso intrecciate le vicende della Ares Film. Come riferito dal Corriere della sera, il produttore per il momento ha preferito non commentare la sua iscrizione nel registro degli indagati ma ha sottolineato come sia impaziente di essere convocato dal pm Carlo Villani. Si è molto parlato in questi mesi delle rigide regole di comportamento che gli attori della Ares dovevano rispettare. Tra queste una delle più eclatanti ha riguardato il segreto sul proprio orientamento sessuale. Gabriel Garko, uno degli attori di punta dell'Ares Film, solo di recente (e dopo le dichiarazioni di Rosalinda Cannavò) ha fatto coming out. Dal canto suo, però, Alberto Tarallo ha sempre respinto ogni accusa, portando a suo supporto i documenti che attesterebbero gli ottimi rapporti tra lui e Teodosio Losito. Parallela all'indagine per istigazione al suicidio c'è anche una questione economica non risolta relativa a una polizza sulla vita stipulata da Losito e ora contesa tra suo fratello Giuseppe e proprio Alberto Tarallo. Questo è un filone che viene seguito dal tribunale civile di Milano, che nelle prossime settimane dovrà stabilire a chi spetta il premio di 300mila euro.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 19 giugno 2021. Davanti alle telecamere ha raccontato più volte l' amore che lo legava al compagno Teodosio Losito, lo sceneggiatore tv morto suicida nel gennaio 2019. Ha mostrato in televisione, a Non è l'Arena, le lettere che lui gli aveva scritto prima di togliersi la vita, e anche alcuni sms trovati sul suo cellulare. Adesso, Alberto Tarallo, fondatore della casa di produzione Ares, potrebbe dovere raccontare questa versione davanti ai magistrati. Il pm Carlo Villani lo ha iscritto sul registro degli indagati con l'accusa di istigazione al suicidio, proprio in relazione alla morte del compagno. Ieri i finanzieri del comando di polizia giudiziaria di piazzale Clodio si sono presentati nella villa di Zagarolo, quartier generale della Ares e dove Losito si è ucciso impiccandosi a un termosifone. I militari hanno acquisito tre lettere scritte dallo sceneggiatore e hanno cercato anche il suo cellulare. L' obiettivo degli inquirenti è ricostruire la dinamica dietro quel tragico gesto. L' accelerazione nell' indagine arriva dopo mesi di audizioni serrate, con un piccolo esercito di divi del piccolo schermo che hanno lavorato con la Ares - che ha prodotto alcune tra le serie di punta della tv italiana - e che hanno sfilato in Procura per raccontare la storia di Losito e Tarallo. A fare scattare l'inchiesta, le dichiarazioni fatte nella casa del Grande fratello vip da Adua Del Vesco, alias Rosalinda Cannavò, e Massimiliano Morra. I due, parlando tra loro, hanno fatto riferimento alla morte di Losito tirando in ballo l'esistenza di una presunta setta manovrata da un uomo da loro soprannominato Lucifero. Ma ci sono anche altri punti da chiarire: in un'inchiesta parallela il pm Villani indaga sul fallimento della Ares, con la Finanza che sta analizzando carte e libri contabili dell'azienda. Un fallimento al quale Losito fa riferimento in una delle lettere inviate a Tarallo prima di togliersi la vita, dicendo di sentirsi responsabile e di essere stato abbandonato dalle persone che un tempo gli erano vicine. Ma c' è altro. Il magistrato ha ascoltato anche il fratello di Losito. Ed è emersa l'esistenza di una polizza vita da 300mila euro, su cui pende una causa civile. Da un lato, Tarallo sarebbe il beneficiario dell'eredità di Losito e anche l'intestatario della polizza vita del defunto compagno. Mentre il fratello dello sceneggiatore, Giuseppe, sostiene di essere lui il titolare dell'assicurazione: «L' aveva promessa alla nipote», ha detto, raccontando anche alcune stranezze legate al suicidio, come il fatto che il cadavere fosse stato spostato. Una circostanza spiegata dai presenti con il tentativo di rianimare il corpo senza vita. Dopo il dialogo notturno ripreso dalle telecamere del Gf vip, i familiari di Losito hanno chiesto agli inquirenti di fare chiarezza su quelle dichiarazioni. In procura, oltre alla Cannavò e a Morra, sono stati convocati anche gli attori Gabriel Garko, Teresa De Sio e Nancy Brilli, oltre alla conduttrice tv Barbara D' Urso che nel corso delle sue trasmissioni ha affrontato il cosiddetto Ares Gate.
Morto Teodosio Losito lo sceneggiatore delle fiction Mediaset. E' scomparso all'età di 53 anni uno dei più importanti sceneggiatori delle fiction Mediaset. Roberta Damiata - Mar, 08/01/2019 - su Il Giornale. Teodosio Losito se n’è andato togliendosi la vita ieri notte all’età di 53 anni. Forse il nome non vi dirà molto, ma basta ricordare quello di alcuni dei suoi lavori come “Il bello delle donne”, “L’onore e il rispetto”, “Il peccato e la vergogna” per farvi capire che parliamo di uno dei sceneggiatori più importanti delle fiction di Mediaset. Tipo estremamente riservato tanto che molti pensavano, visto il nome particolare, si trattasse dello pseudonimo di uno sceneggiatore che non voleva mostrarsi. Teodosio da oltre vent’anni aveva istaurato un grande sodalizio con Alberto Tarallo, fondando con lui la Ares Film e scoprendo attori come Gabriel Garko. Aveva iniziato la carriera facendo un po’ di tutto un ex modello, un ex ortolano, muratore e anche ragioniere. Tentò anche la carriera di cantante partecipando come giovane proposta ad un Sanremo del 1988. Poi l’incontro con Tarallo e la brillante carriera di sceneggiatore amato dal pubblico ma attaccato dalla critica, storica è la lettera che scrisse ad una critica di Aldo Grasso. Se n’è andato così come nessuno avrebbe immaginato vista la sua proverbiale ironia. Il suo ultimo lavoro è stato lo sceneggiato “Furore 2”.
(ANSA l'11 marzo 2021) - I pm di Roma indagano per istigazione al suicidio in relazione alla morte del produttore e sceneggiatore Teodosio Losito, trovato privo di vita nella sua abitazione a Roma l'8 gennaio del 2019. Oggi i magistrati di piazzale Clodio hanno ascoltato come persone informata sui fatti l'attrice Adua Del Vesco che nel corso della trasmissione Grande Fratello, parlando con un altro concorrente Massimiliano Morra, hanno fatto riferimento ad una presunta setta di cui entrambi avrebbero fatto parte e facendo riferimento anche al produttore scomparso.
Da "oggi.it" il 31 marzo 2021. Daria Pesce, avvocato di Alberto Tarallo, finito sotto i riflettori per il suicidio del suo compagno di affari e di vita Teodosio Losito, ha voluto fornire alcuni chiarimenti sull’intricata vicenda a OGGI, in edicola da domani, dopo la notizia diffusa dal settimanale dell’esistenza di una casa a Milano dove Losito avrebbe voluto trasferirsi. «Sì, Teo aveva preso una casa a Milano e l’aveva sistemata, ma non è vero che volesse andarsene da Roma o che volesse mettere fine alla storia con Tarallo. La loro era una relazione solidissima, andava avanti da vent’anni e sarebbe continuata ancora a lungo se non ci fosse stato il fallimento Ares». E continua: «Avevo consigliato a Tarallo di rinunciare all’eredità del compagno in quanto onerosa. In lui è però prevalsa la volontà di sistemare le cose. Il fallimento non è ancora chiuso e non esiste ancora una dimensione definitiva dei debiti dell’Ares. Il mio cliente ha già dovuto versare 850 mila euro per chiudere a saldo e stralcio una fidejussione bancaria da circa un milione e mezzo». Nell’articolo OGGI rivela però che Losito a Milano aveva già trasferito la residenza.
Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 31 marzo 2021. «Dov' è Teo? Qualcuno lo ha visto? No? Strano, è quasi mezzogiorno. Possibile che dorma ancora? Vado a chiamarlo». Alberto Tarallo scende al piano terra di Villa Dafne, sui colli ombrosi di Zagarolo. Bussa, nessuna risposta. Apre la porta della stanza di Teodosio Losito, suo ex compagno per quasi vent' anni. Lo trova. Penzola dal termosifone, uno di quelli alti, impiccato con la sciarpa della mamma annodata intorno al collo. Non respira più. È l'8 gennaio del 2019. Tarallo lancia un urlo disperato, dalla cucina accorrono le due cameriere, la cuoca, arriva trafelato anche Andrea Marras, in arte Nitto Flores, uno degli ultimi divi lanciati dalla Ares Film già avviata verso il declino, che vive lì con loro. Prima di recitare faceva il bagnino, perciò ha preso un brevetto di primo soccorso. Nella concitazione di quei momenti, tra grida e singhiozzi, prova a fare un ultimo tentativo di salvare Teo. Con l'aiuto degli altri, sposta il corpo sul letto e tenta di rianimarlo. Respirazione bocca a bocca, massaggio cardiaco. Niente da fare. Teo è morto. Questi sono stati i suoi ultimi istanti. O almeno così ha provato a ricostruirli l'avvocato Daria Pesce, che assiste il produttore (e parla sempre per lui, Tarallo tace), con una serie di indagini difensive utili per quando arriverà la convocazione (richiesta dal suo assistito) del pm Carlo Villani, che sta indagando contro ignoti per istigazione al suicidio, dopo le confessioni notturne di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra al Grande Fratello Vip. In cui veniva evocata l'esistenza di un malefico «Lucifero», signore del Male, che imperava sulla loro vita e sulla loro carriera. E che avrebbe indotto il povero Losito a togliersi la vita. Provato dalla vergogna del fallimento, dall'onta dei debiti e dalla morte della mamma. E da un altro grande dolore del passato, quando, racconta chi lo incontrò sulle passerelle, faceva ancora il modello e si chiamava Theo: il suo fidanzato di allora, un dentista newyorkese, morì all'improvviso nel sonno, nel letto accanto a lui. Il racconto di chi si trovava alla villa, quella mattina, ovvero le due collaboratrici domestiche, la cuoca, e Marras/Flores, è più o meno lo stesso, spiega l'avvocato Pesce. Tutti avrebbero confermato che, fallito il tentativo di rianimare Losito, furono chiamati i soccorsi. Per questo gli operatori del 118 trovarono il corpo spostato. Una circostanza che invece aveva insospettito Giuseppe Losito, il fratello di Teo, pentito di aver dato il proprio consenso alla cremazione. E che ora rivendica sia l'assicurazione sulla vita da 300 mila euro che l'eredità, convinto che esista un secondo testamento. Le indagini difensive avrebbero anche chiarito il giallo dell'anello di Teo (con modesto zircone, secondo Tarallo, con un grosso rubino, secondo Pino Losito, che reclama pure un Rolex), scomparso dalla sua mano. Sarebbe stato proprio lui a sfilarselo il 7 gennaio, il giorno prima di uccidersi, per regalarlo a Nitto Flores, che lo aveva al dito durante il funerale. Intanto in Procura ieri è stato il giorno di Nancy Brilli. Tailleur nero, camicia bianca e nera a motivi geometrici, l'attrice, anche lei un tempo nel glorioso listino della Ares Film, è rimasta a colloquio con il pm per quasi due ore. Ripercorrendo, si suppone, la storia di un sodalizio fortunato con il duo Tarallo-Losito, ma bruscamente interrotto. Come già spiegò a Verissimo pochi mesi fa: «Con loro ho fatto dei bellissimi lavori di successo, però, a un certo punto si deve essere rotto qualcosa. Di colpo ho smesso di lavorare, senza sapere il perché. Una sera mi è arrivato un fax: "Siccome lei non ha accettato, non farà il prossimo film con noi", c'era scritto. Non ho mai capito cos' era che non avevo accettato. Mi hanno fatto fuori e basta. Ci ho sofferto tanto, ma oggi me ne sono fatta una ragione».
Andrea Ossino Francesco Salvatore per "la Repubblica - Edizione Roma" il 31 marzo 2021. La mattina del suicidio di Teodosio Losito, l'8 gennaio 2019, c'erano sei persone a villa Daphne, la residenza a cinque stelle di Zagarolo che lo sceneggiatore della Ares condivideva con il compagno e produttore Alberto Tarallo. Oltre a loro due, due colf, la cuoca e l'attore Andrea Marras, in arte Nitto Flores, che ha provato a rianimare Losito: «Solo la sera prima mi aveva regalato il suo anello con zircone», ha spiegato l'attore che proprio nel giorno del funerale di Losito lo aveva indossato, non passando inosservato. I quattro testimoni diretti sono stati sentiti dall'avvocato Daria Pesce, difensore di Alberto Tarallo. Il produttore, che non è indagato nel fascicolo per istigazione al suicidio aperto dalla procura ha dato mandato al suo legale di delimitare il perimetro della vicenda ascoltandoli in indagini difensive: «Non c'è nessuna istigazione al suicidio - ha spiegato l'avvocato Pesce - Losito si è suicidato perché si sentiva un fallito e la Ares stava fallendo: pensava di aver deluso tutta la gente che credeva in lui». Le testimonianze, che hanno piena valenza e che saranno depositate agli atti, fanno chiarezza proprio su quelle drammatiche ore. Stando ai racconti, quando Losito è stato trovato con il foulard al collo attaccato ad un termosifone, fissato ad alcuni metri dal pavimento, è stato spostato sul letto e poi, in due, hanno provato a rianimarlo. In particolare proprio Flores, che in passato aveva fatto un corso di rianimazione- salvataggio da bagnino. Quando sono arrivati i carabinieri hanno trovato il cadavere sul letto. Non ci sarebbe nessun arcano, dunque, stando alla difesa di Tarallo: in più, a descrivere la condizione di fragilità psicologica in cui versava Losito, ci sarebbero anche 5 lettere d'addio lasciate dallo sceneggiatore. Su un binario diverso, intanto, l'indagine del pubblico ministero Carlo Villani va spedita. Ieri è stata ascoltata in procura come persona informata sui fatti Nancy Brilli, che in passato ha lavorato nelle produzioni Ares: «Da un giorno all'altro sono stata eliminata dalla produzione - aveva detto l'attrice romana in un'intervista - Non era gente cui con avessi particolarmente passione a lavorare. C'erano persone che non mi piacevano, la gestione non era chiara. So che fino al giorno prima lavoravo e il giorno dopo non lavoravo più». L'attrice è solo l'ultima di una serie di volti - da Gabriel Garko ad Eva Grimaldi passando per Francesco Testi, Giuliana De Sio - che hanno sfilato in procura dall'apertura del procedimento in seguito al colloquio di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra all'interno della casa del Grande fratello Vip a settembre: «Io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l'artefice di tutto questo schifo», la frase di Del Vesco immortalata dalle telecamere. I due avevano ipotizzato che qualcuno avesse spinto lo sceneggiatore ad uccidersi, insinuando sospetti proprio sulla figura di Tarallo, definito "Lucifero". In più avevano dipinto la Ares come una presunta setta in cui sarebbero stati fortemente controllati gli aspetti della vita privata degli attori.
Anticipazione stampa di OGGI il 24 marzo 2021. A fine 2018, pochi mesi prima di morire, lo sceneggiatore Teodosio Losito era pronto ad andarsene da Roma, tornare nella sua città d’origine a Milano e iniziare una nuova vita. L’indiscrezione, circolata in ambienti vicini alla casa di produzione Ares di cui Losito era amministratore, viene pubblicata sul numero domani in edicola del settimanale Oggi, ed è confermata dal fatto che Losito nel 2016 aveva comperato il terzo e quarto piano di una casa di ringhiera nel capoluogo lombardo col progetto di farne la propria abitazione. OGGI ne pubblica le foto. Aveva sostenuto i costi di una radicale ristrutturazione e dopo due anni di lavori era pronto a trasferirsi nello scintillante loft di oltre 300 metri quadri, a due passi dal naviglio della Martesana e non lontano dagli studi Mediaset di Cologno Monzese. Un progetto che non si è potuto realizzare in quanto l’8 gennaio 2019 Losito venne trovato strangolato da una sciarpa fissata al calorifero e stretta attorno al collo, nella camera da letto della villa di Zagarolo (Roma) dove conviveva col suo partner e socio di lavoro Alberto Tarallo. Il pubblico ministero di Roma Carlo Villani, che ha aperto un fascicolo sulla morte di Losito, ipotizzando il reato di istigazione al suicidio, nel corso degli interrogatori avvenuti in questi giorni con attori e attrici della Ares è già stato informato dell’esistenza di una casa Milanese di Losito e del suo progetto di trasferirsi nel capoluogo lombardo. La casa nel frattempo è passata ad Alberto Tarallo, che Losito aveva indicato in un testamento olografo come suo erede universale. Il loft però è già stato messo in vendita attraverso un’agenzia immobiliare di Milano al prezzo di 780 mila euro.
Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2021. Il diavolo si è scocciato. «Lucifero non esiste, non è mai esistito. E di certo non sono io», sibila Alberto Tarallo e vorrebbe dire molto di più. Ma il suo avvocato, la penalista Daria Pesce, vigila su ogni sillaba, perché c' è il pm Carlo Villani che da un momento all' altro lo convocherà in Procura, nel fitto carnet di persone informate sui fatti, tra vip e controvip, che ha consegnato al cancelliere (ieri toccava a Patrizia Marrocco, onorevole di Forza Italia ed ex manager della Ares Film, che poi lasciò al suo destino). Per chiarire se davvero qualcuno abbia spinto al suicidio Teodosio Losito - lo sceneggiatore di fiction e suo compagno per quasi vent' anni - che quell' 8 gennaio del 2019 si impiccò con la sciarpa della mamma stretta al collo, nella villa di Zagarolo di cui, passati i fasti della Ares Film, gli era rimasta soltanto la nuda proprietà. Come insinuato dalle confessioni notturne, avventate o premeditate, di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, che al Grande Fratello Vip evocarono l' ombra di un «Innominabile» e fosco individuo che controllava con il forcone le loro vite dentro e fuori dal set e da Villa Dafne, e in cambio si era preso la loro anima: «Lui è il Male». Sospetti e congetture portarono a Tarallo, presunto Produttore-Tiranno, che le liquida con immutato disprezzo: «La vendetta miserabile di attorucoli senza né arte né parte, che dopo di noi non hanno mai più lavorato». Ce n' è per tutti. Adua è «una sventurata che non sa quel che dice», Massimiliano «quello che poi, uscito dalla Casa, ha cambiato idea e mi ha chiesto scusa». Su Gabriel Garko, vera star degli sceneggiati di quei tempi d' oro e di ascolti record su Mediaset, lascia perfidamente che parli una lettera di Teo (che ci legge, ma tiene per sé) indirizzata proprio al divo de «L' Onore e il Rispetto», in cui rievoca gli inizi difficili: « Caro Gabriel... ai provini ti schifavano, non interessavi, non bastava essere il più bello d' Italia. Non ti voleva nessuno, noi per te abbiamo messo a rischio il nostro lavoro. Alberto ti ha mascolinizzato. Sei un arido, hai saputo mettere le persone una contro l' altra, con i tuoi comportamenti da mign...». Le regole di comportamento, ribadisce Tarallo, erano necessarie: «Nessuna costrizione, soltanto una certa disciplina, la giusta contropartita per compensi stellari. Anche a me piacerebbe guadagnare centinaia di migliaia di euro senza fare sacrifici o rinunce, però nello spettacolo non funziona così. Garko e la Grimaldi avrebbero voluto rendere pubblico il proprio vero orientamento sessuale, in contrasto con i personaggi che interpretavano. Ma il pubblico delle fiction non glielo avrebbe mai perdonato, lo sapevano benissimo». E adesso che Giuseppe Losito, fratello di Teo, non soltanto gli contende l' assicurazione sulla vita da 300 mila euro, sostenendo di esserne il legittimo beneficiario ma - convinto che esista un secondo e più recente testamento - si prepara a chiedere una perizia grafologica su quello del 2007, scritto a mano, che nomina il produttore come erede universale di un patrimonio che potrebbe valere 7 milioni di euro ma anche zero, dipende dalle interpretazioni, Tarallo si veste da angelo e racconta che «pur sconsigliato, ho accettato l' eredità sebbene ci fossero più debiti che soldi, per occuparmi di lui anche dopo la sua morte, il mio ultimo gesto d' amore per Teo».
Andrea Ossino e Francesco Salvatore per “la Repubblica – ed. Roma” il 27 marzo 2021. «Ho detto a Teo la verità, che avevo letto la lettera d' amore e d' addio ad Alberto Tarallo, e gli ho chiesto cosa stesse combinando. Mi ero veramente spaventata». Così aveva raccontato in un' intervista la deputata di Forza Italia Patrizia Marrocco, ieri ascoltata per oltre 4 ore dai magistrati che si occupano dell' inchiesta sulla morte dello sceneggiatore Teodosio Losito, suicidatosi l' 8 gennaio del 2019. Marrocco non è solo stata una dei fondatori nel 2006 della Ares Film, la casa di produzione su cui indaga il pm Carlo Villani. La deputata infatti era molto legata a Losito. È a lei, infatti, che lo sceneggiatore aveva affidato una lettera da conservare e poi da consegnare ad Alberto Tarallo, il compagno di vita e di lavoro dello sceneggiatore, finito nell' occhio del ciclone per i sospetti di un' istigazione al suicidio insinuati, al Grande Fratello Vip, dai due ex attori Ares Adua Del Vesco e Massimiliano Morra. «Teo venne a casa mia e mi disse: "Saprai tu quando darla ad Alberto" ha rivelato nelle scorse settimane la deputata - Non c' ho pensato due volte a leggerla e a quel punto sono corsa subito a casa loro, ho citofonato e lui mi ha detto: "Che ci fai qui?". Io gli ho detto la verità, che avevo letto la lettera e gli ho chiesto cosa stesse combinando», ha spiegato Marrocco durante la trasmissione televisiva "Non è l' Arena". Poi ha aggiunto: «Anche in quell' occasione lui parlò con Christian, che gli disse di pregare molto, che la vita è meravigliosa e che non avevamo il diritto di togliercela ». Marrocco si riferisce a Christian Del Vecchio, un uomo che si autodefinisce 'messaggero della Vergine', ed è a capo di un' associazione religiosa che si chiama Amarlis, Associazione mariana accoglienza refugium lilium inter spinas. In un video sulla pagina Facebook si parla di un olio miracoloso originato da una foto della Madonna capace di guarire i malati. La donna lo avrebbe frequentato proprio come Losito ed Adua Del Vesco. «Ogni tanto ci sentiamo, ma io non ho conosciuto un santone dell' olio - ha detto la deputata - ho conosciuto un ragazzo che stava studiando per diventare parroco». Stando alla lettera d' addio che ha fatto preoccupare Marrocco, Losito avrebbe cercato di proteggere Tarallo assumendosi le responsabilità della crisi della Ares che non garantiva più i milioni di ascolti delle prime serie de "L' onore e il rispetto". La donna ha lasciato la Ares Film quando il fallimento dell' azienda era quasi all' orizzonte; viveva a Zagarolo ed aveva un rapporto stretto con Losito. Gli avrebbe suggerito anche un percorso psicologico. Losito, in un primo momento, era seguito da uno psicologo parente di Tarallo. La deputata ha avuto anche un legame sentimentale con Paolo Berlusconi. E Mediaset, con Rti, possedeva il 5 per cento delle quote societarie dell' Ares. Per gli inquirenti che indagano sulla morte dello sceneggiatore e sui bilanci della società cinematografica la Marrocco è una testimone chiave.
Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 24 marzo 2021. Prima che da quella sciarpa stretta intorno al collo, Teodosio Losito è stato strangolato dai debiti. Accumulati l'uno dopo l'altro, in una spirale perpetua di cambiali, prestiti e pagherò. Da cui Alberto Tarallo, l'ex compagno e produttore delle fiction melo-pop sfornate per Mediaset sotto la bandiera della Ares Film, ammainata per fallimento nel 2020, aveva cercato di salvarlo sborsando oltre 1 milione e 600 mila euro, più angelo che diavolo. Così almeno spiega lui, attraverso l'avvocato Daria Pesce, raccontando la sua verità sulla morte di Teo. O quel poco che può svelare, mentre aspetta la convocazione (da lui richiesta) del pm Carlo Villani (ieri è toccato a Barbara D'Urso, come persona informata sui fatti), che indaga sul suicidio dello sceneggiatore, che si impiccò a un termosifone a villa Dafne, Zagarolo, l'8 gennaio del 2019. Per capire se qualcuno lo abbia spinto, come suggerito dalle confidenze dell'ex musa Adua Del Vesco, in diretta dal GF Vip, su un innominabile «Lucifero» che li teneva soggiogati. «Teo prelevava e spendeva soldi da un conto corrente cointestato, fino a prosciugarlo». Tarallo lo avrebbe soccorso due volte. Con un bonifico da 800 mila euro, poi con una fideiussione bancaria da 850 mila, per saldare altre pendenze. Mentre la sua eredità (che esistano uno o due testamenti), al netto dei debiti, sarebbe poca cosa, non i 7 milioni che furono: la vendita dell' appartamento di New York ne fruttò soltanto uno. Il tracollo sarebbe cominciato nel 2018, con la fiction Donne d' onore , costata 400 mila euro e mai andata in onda. Teo provò a rilanciarsi in Portogallo, ma l' avventura professionale fu breve e sfortunata. «Era già avvitato nella sua depressione». Schiacciato dai sensi di colpa, come appare da una mail al cugino Enzo, che Tarallo conserva: «Ho ingannato Alberto, ho sbagliato in modo inqualificabile, mi porto dentro un dolore acuto per come l' ho trattato... è come se, una volta scivolato, continuassi a rotolare». Quanto alle rigide regole di comportamento, anche sentimentali, che la Ares avrebbe imposto ai suoi attori, il produttore minimizza: «Se Gabriel Garko impersonava un mafioso sciupafemmine, gli sconsigliavo di dichiararsi gay, perché avrebbe danneggiato la fiction, nessuna costrizione, soltanto suggerimenti di buon senso».
Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 23 marzo 2021. E adesso si aggiunge pure il mistero del testamento scomparso. Non il primo, scritto a mano nel lontano 2007, con cui Teodosio Losito - lo sceneggiatore della Ares Film che si è impiccato a un termosifone nel bagno della villa di Zagarolo l' 8 gennaio del 2019 - lasciava ogni suo bene al compagno (poi ex, dopo 20 anni d' amore), il produttore Alberto Tarallo, e niente ai familiari. Ma un secondo, più recente e di contenuto diverso, che però non si trova. Forse smarrito in qualche cassetto. Oppure nascosto, come sospetta il fratello di Teo, Giuseppe Losito detto Pino, maestro di arti marziali a Milano, che - assistito dall' avvocato Stefano De Cesare - cerca il prezioso documento n.2, che potrebbe decretarlo erede universale. Già, perché a quanto pare, nonostante le traversie creative ed economiche che tanto lo angustiavano, il patrimonio dello sceneggiatore di fiction kolossal per Mediaset si aggirava attorno ai 7 milioni di euro. E comprendeva la nuda proprietà di Villa Xanadu, ai Castelli Romani, e un appartamento a New York. Oltre alla polizza assicurativa sulla vita a favore di Pino e destinata a pagare gli studi alla nipote, ma sulla quale è in corso una battaglia legale in sede civile proprio con Tarallo, che sostiene di esserne l' unico legittimo beneficiario, in cambio di un prestito concesso a Teo in un momento di difficoltà. Un passaggio di denaro di cui resta traccia sui conti correnti, ma che l' avvocato De Cesare non si spiega: perché mai, ragiona, con la disponibilità di quei beni immobili, Losito avrebbe dovuto chiedere soldi ad altri? C'è un'ulteriore strana circostanza che il legale ha riferito al pm Carlo Villani (che indaga sulla morte di Losito per istigazione al suicidio, dopo le confessioni notturne di Adua Del Vesco al GF Vip su un perfido «Lucifero»). Anima fragile e sofferente, Teodosio si sarebbe convinto ad affidarsi a uno psicologo, dietro insistenza di Tarallo. Ma il luminare sarebbe il fratello dell'ex compagno, una vicinanza affettiva sconsigliata. Si vedrà. Intanto, per questa e altre affermazioni ritenute false e diffamatorie, l' avvocato Daria Pesce, che assiste Alberto Tarallo (in attesa di essere convocato dal pm per raccontare la sua verità), oggi sporgerà denuncia per calunnia nei confronti di Giuseppe Losito.Ieri invece il pm ha sentito Giuliana De Sio, altra star delle produzioni Tarallo-Losito. «Una piacevole chiacchierata, però non è che avessi molto da dire», racconta lei. «Con questa gente ci ho lavorato, non li frequentavo, alla villa di Zagarolo sarò stata a pranzo due volte». E forse sarà pure passata davanti alla grande statua della fertilità che - così si narra tra chi sa, ma ogni voce qui va presa con triple pinze - ornava il giardino di Villa Xanadu a Zagarolo. Davanti alla quale dovevano inchinarsi devote le attrici della Ares Film, invocando la grazia contraria, ovvero di non restare incinte, pena la cancellazione del ricco contratto.
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 23 marzo 2021. Sullo sfondo c'è l' indagine della procura di Roma per istigazione al suicidio. Com' è morto l' 8 gennaio 2019 il produttore cinematografico Teodosio Losito? Tuttavia in prima linea la battaglia ruota intorno al patrimonio e alla polizza vita da 300 mila euro, su cui pende una causa civile. Da un lato l'ex compagno di Teodosio, il manager Alberto Tarallo sarebbe il beneficiario della milionaria eredità e l'intestatario - avrebbe prodotto a tal fine una mail per dimostrarlo - della polizza vita del defunto compagno. Tuttavia il fratello di quest'ultimo, Giuseppe, sostiene di essere lui il titolare dell'assicurazione. In più i Losito fanno sapere che Teodosio era affezionatissimo alla nipote adolescente. E avrebbe, in più occasioni, promesso di provvedere economicamente ai suoi studi fino all' università, salvo poi non lasciare niente di intestato alla giovane.
LA PROCURA. Ieri, intanto, in procura è stata la volta dell'attrice Giuliana De Sio. L'artista è stata ascoltata dal pm Carlo Villani come persona informata sui fatti nell'indagine sul suicidio di Losito, morto nella villa di Zagarolo in cui conviveva con il compagno di vita e di lavoro Tarallo. Nel frattempo il manager ha annunciato una denuncia per calunnia contro il fratello della vittima, Giuseppe. Secondo Tarallo lo avrebbe accusato ingiustamente di essere stato lui ad aver spinto al suicidio il fratello. È opportuno precisare che Tarallo non è iscritto nel registro degli indagati e il fascicolo per istigazione al suicidio è a carico di ignoti. «È una questione di pubblicità fatta da persone che non hanno un lavoro ha spiegato l'avvocato Daria Pesce, che assiste Tarallo in riferimento agli attori Adua Del Vesco e Massimiliano Morra Quanto a Giuseppe Losito, è animato da livore perché non è stato inserito nel testamento del fratello Teodosio». Il legale di Giuseppe Losito, Stefano De Cesare, spiega di «non aver denunciato o fatto il nome di nessuno. Abbiamo detto quello che sapevamo al pm e chiesto chiarezza su quanto detto da Adua».
IL SUICIDIO. Due versioni a confronto. Parole messe a verbale e che ora i pm di Roma dovranno valutare per cercare di chiarire se davvero la morte del produttore e sceneggiatore tv, Teodosio Losito, nasconda un giallo denso di misteri. Continua l'attività istruttoria del pm Carlo Villani che indaga per istigazione al suicidio dopo una denuncia presentata nei mesi scorsi dai familiari di Losito, trovato senza vita nel gennaio del 2019 nella propria abitazione. Ieri negli uffici di piazzale Clodio è stata ascoltata per oltre tre ore l' attrice Giuliana De Sio. Martedì scorso era stata la volta dell' attore Massimiliano Morra, convocato alla luce di alcune dichiarazioni fatte nel corso del reality Grande Fratello Vip. Morra, parlando con l'attrice Adua Del Vesco, fece riferimento ad una presunta setta che avrebbe spinto Teodosio a togliersi la vita. La ricostruzione fornita da Morra è stata messa a confronto con quanto raccontato pochi giorni prima agli investigatori dalla Del Vesco. Ad oggi l' attività degli inquirenti si fonda soprattutto sulle testimonianze dei due concorrenti del Grande Fratello che verranno adesso valutate. È possibile che a breve vengano di nuovo riascoltati.
(ANSA il 30 marzo 2021) L'attrice Nancy Brilli è stata ascoltata come persona informata sui fatti nell'ambito dell'indagine sulla morte del produttore tv Teodosio Losito. Nel fascicolo di indagine si ipotizza il reato di istigazione al suicidio. Nelle scorse settimane il pm Carlo Villani ha ascoltato attori che hanno lavorato per Ares, tra cui Gabriel Garko, Giuliana De Sio, Adua Del Vesco e Massimiliano Morra. Sentite come testimoni anche la conduttrice Barbara D'Urso e l'attrice Giuliana De Sio. Continua la sfilata di vip e volti noti in Procura, a Roma, nell'ambito dell'indagine avviata alcuni mesi fa dopo la denuncia presentata dai familiari di Teodosio Losito, il produttore tv che si e' tolto la vita impiccandosi in casa nel gennaio del 2019. Oggi e' stata la volta dell'attrice Nancy Brilli, ascoltata come persona informata sui fatti dal pm Carlo Villani, titolare del fascicolo, ancora contro ignoti, in cui si ipotizza il reato di istigazione al suicidio. Come per le altre persone convocate a piazzale Clodio, l'atto istruttorio, durato alcune ore, si è concentrato sul rapporto di lavoro che Brilli ha avuto con la casa di produzione, ora fallita, Ares per la quale Losito ha firmato numerose sceneggiature per film andati in onda sul piccolo schermo. In particolare per la società fondata da Alberto Tarallo, Brilli ha lavorato in passato comparendo in titoli di successo come "Il Bello delle Donne", "Donne Sbagliate", "Caterina e le sue figlie". Al termine dell'audizione l'attrice non ha rilasciato dichiarazioni ma in passato, su alcuni organi di stampa, era intervenuta commentando la tragica fine di Losito. La Brilli aveva fatto riferimento al suo rapporto con Tarallo affermando di non avere più rapporti con lui da tempo. "Da un giorno all'altro sono stata eliminata dalle produzione - ha raccontato in passato l'attrice romana -. Non era gente cui con avessi particolarmente passione a lavorare. C'erano persone che non mi piacevano, la gestione non era chiara. So che fino al giorno prima lavoravo e il giorno dopo non lavoravo più". Nelle scorse settimane gli inquirenti hanno ascoltato molti attori della scuderia Ares, a cominciare dagli attori Adua Del Vesco e Massiliano Morra. Proprio loro due, concorrenti in una edizione del Grande Fratello Vip, avevano parlato nel corso del reality della morte di Losito tirando in ballo l'esistenza di una sorta di setta segreta. Parole, carpite nel corso di un dialogo "notturno" al Gf, che hanno spinto i familiari a depositare un esposto ai magistrati chiedendo di fare chiarezza soprattutto alla luce del tragico gesto di Losito. Il pm, in un fitto calendario di audizioni, ha ascoltato anche gli attori Gabriel Garko e Teresa De Sio oltre alla conduttrice tv Barbara D'Urso che nel corso delle sue trasmissioni ha affrontato il caso Ares Gate. Non e' escluso che nei prossimi giorni possa essere convocato lo stesso Tarallo, legato da lunga amicizia con Losito, che ha chiesto tramite il suo legale di essere ascoltato dagli inquirenti per raccontare la sua "verità".
Andrea Ossino e Francesco Salvatore per “la Repubblica” il 21 marzo 2021. Tre lettere d'addio scritte a mano dallo sceneggiatore e produttore Teodosio Losito e un testamento, altrettanto manoscritto, dove nomina erede universale il compagno Alberto Tarallo. Questi gli elementi dietro ai quali potrebbe nascondersi la verità sulla morte dell'amministratore unico della Ares Film, il cui corpo è stato trovato l'8 gennaio del 2019 nella villa di Zagarolo dove viveva con Tarallo, vero patron della casa di produzione, e incasellato come suicidio. Gli inquirenti potrebbero acquisire i manoscritti e sottoporli a una perizia calligrafica, un esame capace di rivelare se sia stato realmente Losito a stilarli. In questo modo potrebbero essere portate alla luce eventuali incongruenze e aggiungere elementi per definire se il suo suicidio sia stato veramente indotto. È proprio questa, istigazione al suicidio, l'ipotesi di reato su cui il pubblico ministero Carlo Villani ha aperto l'inchiesta, al momento senza indagati. A dare il via agli accertamenti sono state le rivelazioni fatte lo scorso settembre nella casa del Grande Fratello Vip da Rosalinda Cannavò, in arte Adua Del Vesco, e Massimiliano Morra, entrambi volti della Ares. I due, durante una conversazione notturna immortalata dalle telecamere, avevano ipotizzato che qualcuno avesse spinto lo sceneggiatore ad uccidersi, insinuando sospetti sulla figura di Tarallo. In più avevano dipinto la Ares come una presunta setta in cui erano fortemente controllati gli aspetti della vita privata degli attori. Proprio sul punto sono stati sentiti come persone informate sui fatti cinque attori con un passato Ares: oltre a Del Vesco e Morra anche Gabriel Garko, Eva Grimaldi e Francesco Testi. Ai volti tv è stato chiesto del loro rapporto con la casa di produzione, per verificare eventuali ingerenze. L'inchiesta però è legata a doppio filo all'aspetto economico: la Ares, infatti, è fallita un anno dopo il suicidio di Losito, nel febbraio 2020. Un crac da circa un milione e mezzo di euro su cui la guardia di finanza sta facendo accertamenti per capire se sia stato dovuto ad una congiuntura di mercato o se ci siano state distrazioni volontarie. In una delle lettere che Losito ha scritto a Tarallo, lo sceneggiatore ha raccontato di un suo disagio interiore proprio a causa dei conti in rosso della Ares. Una circostanza che lo avrebbe spinto al suicidio. Se lo scritto sarà passato al setaccio per accertarne la veridicità, lo stesso discorso potrebbe essere fatto anche per il testamento della vittima. Lo sceneggiatore lo avrebbe redatto a mano nel 2007. Poche pagine in cui ha nominato erede universale Tarallo, la persona con cui per 19 anni aveva condiviso la vita e l'attività professionale: tra i beni, la villa di Zagarolo ( intestata a Losito, dunque), un appartamento a Trastevere e anche una casa a Milano. Un tesoretto da circa 7 milioni di euro. E, secondo il dominus della Ares, la vittima avrebbe devoluto a lui anche una polizza sulla vita da 300 mila euro. In realtà il fratello di Losito, Giuseppe, risulta esserne il beneficiario. La vicenda è stata portata al Tribunale civile dalla compagnia assicurativa, dove è stata depositata anche la lettera d'addio che lo sceneggiatore ha scritto al compagno.
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2021. «Alberto, sono corroso dai sensi di colpa, ieri ti ho mentito. Forse il rifiuto della realtà, la paura di ciò che è diventato ingestibile, il non volerti dare un pugno nello stomaco. La verità è che la banca ha assorbito tutti i soldi del conto Ares attraverso le rate vecchie in sospeso», si tormenta Teo Losito. La lettera, scritta a mano su due fogli, è datata 18 dicembre 2018, una ventina di giorni prima che lo sceneggiatore fosse trovato morto, impiccato nella villa di Zagarolo del produttore ed ex compagno Alberto Tarallo, a cui si rivolge lo scritto. Il documento, comparso nella causa civile sulla polizza assicurativa da 300 mila euro contesa tra Tarallo e Giuseppe Losito, fratello di Teodosio - ciascuno convinto di esserne l' unico legittimo beneficiario - conferma le preoccupazioni per il dissesto economico della Ares Film, poi fallita. Il pm Carlo Villani, che indaga per istigazione al suicidio, dopo le rivelazioni di Adua Del Vesco al GF Vip, potrebbe acquisirlo tra gli atti dell' inchiesta sulla morte di Losito, che si intreccia alle verifiche sul crac da un milione e mezzo di euro della società. La lettera potrebbe essere sottoposta a perizia calligrafica. Giuseppe Losito infatti sarebbe convinto che la scrittura non sia quella del fratello, ma che sia stata imitata. «Lunedì scorso ho provato a togliermi la vita, ma sono stato fermato, troverai i segni sul mio braccio destro», scrive ancora Teodosio. «Dentro però ho sentito come se fosse stato un rimandare, mi vergogno troppo per sopravvivere a questa disfatta. Ti chiedo perdono per questa mia scelta, non hai colpe. Ricorda di me ciò che abbiamo condiviso, il mio amore, il nostro amore, è lì che dimora la mia verità. Teo».
Suicidio Teodosio Losito, la lettera segreta e l'ombra dei debiti. Andrea Ossino, Francesco Salvatore su La Repubblica il 19 marzo 2021. Anche lo spettro del fallimento della Ares dietro la morte dello sceneggiatore e produttore. Ma tra i documenti depositati al tribunale ci sono due pagine che poco hanno a che fare con il burocratico linguaggio degli atti. "Ho difficoltà ad affrontare la tua delusione, il tuo dolore, il tuo smarrimento, le tue reazioni, è come distruggere ciò che hai/abbiamo costruito con le mie mani, è come doverti infilzare un coltello nel petto". Tra i documenti depositati al tribunale civile nell'ambito del processo sulla polizza vita da 300 mila euro lasciata dallo sceneggiatore suicida Teodosio Losito, ci sono due pagine che poco hanno a che fare con il burocratico linguaggio degli atti. In quei fogli ci sono le toccanti parole che lo sceneggiatore e amministratore della Ares Film, morto l'8 gennaio del 2019, scrive al compagno di vita e di lavoro, dominus di una delle case cinematografiche più produttive di Mediaset, Alberto Tarallo. La missiva risale al 18 dicembre 2018, 21 giorni prima che Losito si uccidesse impiccandosi al termosifone del bagno con il foulard della madre. Sono venti righe in cui "Teo" racconta quel malessere interiore, legato al fallimento societario, che gli ha fatto credere di non aver altra via d'uscita: "Mi vergogno troppo per sopravvivere a questa disfatta", scrive. La lettera racconta "del rifiuto della realtà, la paura di qualcosa che è diventata ingestibile". Losito dice al compagno di aver già provato a suicidarsi diverse volte, "ci sono i segni sui polsi". La sua verità "è che la banca ha già assorbito tutti i soldi del conto Ares attraverso le rate vecchie in sospeso". La società cinematografica aveva dimezzato quei 7 milioni di telespettatori racimolati ai tempi degli esordi della fiction "L'onore e il rispetto". L'estetica dei protagonisti delle produzioni Ares (Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Giuliana De Sio, Virna Lisi) non ipnotizzava più gli spettatori. Le casse erano vuote. Il crac dell'azienda è avvenuto nel febbraio 2020. Un milione e mezzo il buco lasciato un anno dopo la sua morte. Ma sul movente economico che avrebbe spinto lo sceneggiatore ad uccidersi gli inquirenti hanno molti dubbi. La lettera potrebbe essere sottoposta a una perizia grafologica. A Roma, infatti, c'è un indagine in cui il sostituto Procuratore Carlo Villani ipotizza il reato di istigazione al suicidio. L'inchiesta è partita in seguito alle rivelazioni fatte nella casa del Grande Fratello Vip da Rosalinda Cannavò, in arte Adua Del Vesco, e Massimiliano Morra, entrambi volti della Ares. I due, durante una conversazione notturna immortalata dalle telecamere, hanno insinuato sospetti sulla figura di Alberto Tarallo: "Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Tu non immagini cosa ho passato! Ero veramente sola, con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei più qui... che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l'artefice di tutto questo schifo...", dice l'attrice, mentre Morra parla di un certo "Lucifero". Terminato il Grande Fratello Vip gli attori Adua Del Vesco, Gabriel Garko, Massimiliano Morra, Eva Grimaldi e Francesco Testi, tutti della scuderia Ares, sono stati ascoltati come persone informate sui fatti. La Procura indaga anche sul fallimento della Ares e sulle interferenze nella vita privata degli attori contrattualizzati (cambiare il nome, cancellare l'età e annullare ogni rapporto con la famiglia e l'esterno: le tre leggi non scritte ma da rispettare). Mentre nella testa di Tarallo risuonano le parole del suo compagno Teo: "Ricorda di me ciò che abbiamo condiviso, il mio amore, il nostro amore, è lì che dimora la mia verità, la mia autenticità, il resto rappresenta la mia debolezza, le mie incertezze, le mie paure".
Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 22 marzo 2021. «Alberto è una grandissima persona, con un cuore enorme, a me e a tutti gli attori che hanno lavorato con lui ha dato tanto, ci consigliava per il nostro bene, non ci imponeva niente, io ho sempre avuto i fidanzati che volevo», ricorda Manuela Arcuri, star di molte fiction su Mediaset targate Ares Film, la casa di produzione di Alberto Tarallo, fallita nel 2020, al centro dell' inchiesta del pm Carlo Villani, che indaga per istigazione al suicidio sulla morte dello sceneggiatore Teodosio Losito, ex compagno del produttore, trovato impiccato nella villa di Zagarolo. Intervistata da Massimo Giletti a «Non è l'Arena» su La7, l'eroina de «Il Peccato e la Vergogna » non crede affatto che il produttore sia il perfido «Lucifero» evocato da Adua Del Vesco e Massimiliano Morra al GF Vip. «Tra Alberto e Teo c' era un vero amore, l' uno era complementare all' altro, lavoravano e vivevano insieme, erano una cosa sola. Come posso pensare anche lontanamente che lo abbia indotto a togliersi la vita?» E sulle rigide regole di comportamento spiega: «Se ci avesse rinchiuso come raccontano, sarebbe stato sequestro di persona e qualcuno lo avrebbe denunciato, no?»
Da liberoquotidiano.it il 23 marzo 2021. A Non è l'Arena si parla ancora di Ares-gate e in studio da Massimo Giletti c'è Manuela Arcuri, attrice che del mondo di Alberto Tarallo è stata un pilastro: protagonista di tante fiction di successo Mediaset, molto vicina anche a Teo Losito, e soprattutto fidanzata di Gabriel Garko, il divo che ammettendo dopo anni la sua chiacchieratissima omosessualità ha fatto cadere il velo di finzione intorno all'immaginario creato proprio da Ares e Tarallo. Giletti provoca: "Ma è normale in fondo che i grandi gruppi creino storie anche finte per vendere un prodotto, no?". Risponde Alessandro Cecchi Paone, tirando in ballo il mitico Enrico Lucherini, il "mago" delle finzioni a mezzo stampa applicate allo showbusiness: "Ha insegnato il mestiere a tutti i press agent, ma nelle sue storie c'era sempre una chiave umoristica, allegra, fresca. Non è mai successo nulla di morboso né conseguenze come queste. Qua invece mi pare che tutti i giovani che hanno avuto successo con la Ares erano omosessuali da coprire, e questo se è vero non è un bel sistema". "Non è vero - replica la Arcuri -, solo due". "Ci sono due storie, Garko e Massimiliano Morra - conferma Giletti, che incalzato da una Roberta Bruzzone un po' spiazzata chiarisce -, peraltro Morra ha querelato assolutamente". Ma Cecchi Paone non molla sulla Arcuri: "Venivate indotti a nascondere le vostre vere propensioni sessuali e fingere di avere storie con persone con cui non potevate stare. Garko è stato un tuo finto fidanzato, Eva Grimaldi oggi si è sposata con una donna e prima nascondeva fidanzati che non aveva".
Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2021. Siccome il diavolo spesso si nasconde tra fatture e scritture contabili, il pm Carlo Villani - che indaga sul suicidio dello sceneggiatore Teodosio Losito, per capire se vi sia stato spinto dal misterioso Lucifero evocato nelle conversazioni notturne al GF Vip tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra - ha incaricato gli esperti del nucleo di polizia economico finanziaria del palazzo di Giustizia di studiare i bilanci della Ares Film, la casa di produzione di Alberto Tarallo, che sfornava fiction su fiction per Mediaset, fallita nel 2020, dopo anni di onorato e remunerativo servizio. Un crac da un milione e mezzo di euro. Visura alla mano, la società risulta costituita nel 2007, con Losito in qualità di amministratore unico e tre componenti: Tarallo al 65 per cento, la Rti Spa (ovvero Mediaset) al 5 e la Armonia S.a.s. di Floriana Fiaschetti al 30. Sulla scrivania del pubblico ministero c'è la relazione del curatore fallimentare, che ragguaglia sui debiti con erario e fornitori. E i finanzieri stanno ricostruendo l'organigramma societario, per definire le mansioni di ciascuno, in questa storia complicata come e più di un teleromanzo a puntate. E in cui ieri ha fatto la prima apparizione Eva Grimaldi. Cappotto smeraldo, Ray-ban a specchio, jeans neri, una delle eroine predilette di Losito & Tarallo ai tempi d'oro, si è trattenuta per cinque ore dal pm. Ne aveva da raccontare, lei che spesso si è lamentata delle rigide regole di comportamento imposte dall'alto. Trapela anche che Rosalinda Cannavò, alias Adua Del Vesco, anziché ritrattare quanto ammesso, per imprudenza o calcolo, in quella diretta tv, avrebbe grosso modo confermato la sostanza delle sue dichiarazioni, che lasciavano supporre l'esistenza di una sorta di setta agli ordini di un malefico Innominato (si fa per dire, era chiaro che parlavano di Tarallo), alloggiata nella villa di Zagarolo in cui il povero Teo Losito si impiccò al termosifone. E in cui vivevano, come in collegio, alcuni degli attori della Ares Film. Oltre ai tre comandamenti principali (cambierai il tuo nome, cancellerai la tua età, annullerai ogni rapporto con l'esterno, compresa la tua famiglia) i «prescelti» (lo scrive Gabriele Parpiglia su Giornalettismo ) dovevano rispettarne un quarto: ricordati di santificare le feste con noi. Tarallo pretendeva (pare) che trascorressero la vigilia di Natale con lui fino a mezzanotte, quando scattava la breve libera uscita: all'alba del 26 dovevano ripresentarsi al portone. Eva correva a Verona, Gabriel Garko a Torino. E sempre loro, i fidanzati per forza, a volte scappavano di notte, spingendo la macchina in folle e a motore spento, per non svegliare il padrone di casa.
Marco Carta Valentina Errante per “il Messaggero” il 19 marzo 2021. Adua del Vesco ha confermato al pm le pressioni subite dagli attori della Ares, da parte della società di produzione, e il ruolo centrale di Alberto Tarallo. Ma l'inchiesta sulla morte di Teodosio Losito, il produttore e sceneggiatore che si è impiccato a un termosifone, nella sua villa di Zagarolo, nel 2019, adesso sembra sempre più complessa e potrebbe intrecciarsi anche con il fallimento della società. La procura di Roma, che coordina le indagini per istigazione al suicidio, punta a fare chiarezza sulla gestione della società che, a dicembre 2020, è stata oggetto della sentenza del Tribunale fallimentare. Debiti per un milione e mezzo, pretesi dai creditori. Una cifra relativamente bassa, a fronte del giro di soldi che gestito dalla società amministrata proprio da Losito, che, però, non deteneva quote. È un altro filone rispetto a quello che riguarda le presunte pressioni su attori e attrici della scuderia da parte della casa di produzione di Tarallo, socio di maggioranza e compagno di Losito. Nei giorni scorsi Adua Del Vesco, sentita in procura come testimone, ha confermato al pm di avere subito pesanti ingerenze e pressioni dalla casa di produzione che l'ha lanciata, ieri è stata la volta dell'attrice Eva Grimaldi, convocata dal pm Carlo Villani come persona informata sui fatti, per rispondere alle domande su ingerenze e pressioni che condizionavano la vita privata di chi era sotto contratto. Un atto istruttorio iniziato intorno alle 11 di mattina ed è terminato solo nelle prime ore del pomeriggio. Due giorni fa la prima ad essere convocata in procura è stata Adua Del Vesco, al secolo Rosalinda Cannavò. E l'attrice davanti al pm ha confermato quanto detto pubblicamente durante quella chiacchierata mandata in diretta dal Grande Fratello vip in una conversazione con l'altro ospite della casa, Massimiliano Morra. I due parlavano proprio della morte di Losito e la soubrette aveva affermato «Non vivevo più, se non fossi fuggita avrei fatto una brutta fine», sostenendo che Losito fosse stato indotto al suicidio. In quella circostanza la Del Vesco faceva riferimento alla figura di Tarallo e al suo ruolo di manipolatore. Nella chiacchierata «notturna» i due affrontato l'episodio del suicidio del produttore facendo riferimento a una sorta di setta. Tarallo veniva definito l'innominabile portatore del male e dell'energia negativa. Parole che sono costate all'attrice una querela per diffamazione da parte dei legali del produttore, ma che avrebbe ripetuto anche in procura. Al pm, infatti, avrebbe riferito della sua sofferenza e di come si sentisse controllata da Tarallo, delle pressioni subite e delle regole rigide da seguire, pena smettere di lavorare. Di regole rigidissime aveva parlato anche l'attore Francesco Testi, sentito due giorni in procura, e fino al 2015 attore della scuderia Ares. Testi, in alcune interviste, ha raccontato che chi accettava di lavorare con la società di produzione doveva rinunciare ad «avere legami affettivi stabili» chiarendo, però, che si trattava di una scelta «consapevole» , nessun tipo di imposizione. Eva Grimaldi, così come le persone ascoltate nei giorni scorsi è stata legata alla casa di produzione Ares, per molti anni, a seguirla erano Losito e Tarallo, fin dai primissimi anni della sua carriera. In alcune interviste aveva raccontato le regole rigide che doveva rispettare, anche dal punto di vista alimentare. Un sistema di lavoro in cui nulla era lasciato al caso, anche le comparsate tv. La Ares, società controllata al 65 per cento da Tarallo, al 30 da Armonia di Floriana Fiaschetti e al 5 per cento da Rti (Reti televisive italiane spa), società del gruppo Mediaset, è stata dichiarata fallita per un milione e mezzo di debiti pretesi da tre creditori in tutto. Una cifra molto bassa a fronte della compagine sociale e del giro di soldi che circolano intorno alle produzioni. È vero che dal 2016 gli affari non andavano più bene e la società non produceva più fiction di successo, ma non è stata semplicemente liquidata. All'esame della Guardia di Finanza adesso ci sono i conti e i bilanci. E ai testimoni viene chiesto anche se Losito subisse pressioni nella gestione della Ares che, di fatto amministrava, o se fossero a conoscenza di problemi economici. Il sospetto è che quella del fallimento sia stata una scelta.
Altri dettagli sulla morte di Losito: spunta una polizza da 300mila euro. Parallela all'indagine per istigazione al suicidio di Teodosio Losito c'è una causa per una polizza sulla vita da 300mila euro. Francesca Galici - Mar, 16/03/2021 - su Il Giornale. Le parole di Rosalinda Cannavò, entrata Adua Del Vesco al Gf Vip, durante le prime settimane di permanenza nella Casa hanno dato il via alla procura di Roma per l'apertura di un fascicolo per istigazione al suicidio nei confronti di Teodosio Losito. L'attrice ed ex gieffina è stata ascoltata pochi giorni fa dai giudici di piazzale Clodio, così come è stato chiamato anche Gabriel Garko, anche lui parte della società di produzione Ares al centro dell'indagine. L'indagine è stata aperta a seguito della denuncia dei familiari di Teodosio Losito e mira ad accertare se ci siano state davvero pressioni tali da portare lo sceneggiatore al gesto estremo, compiuto nel gennaio 2019. Come spesso accade, però, nel corso delle indagini sono entrati in gioco anche altri elementi. Il Corriere della sera riporta di una causa civile parallela per una polizza sulla vita del valore di 300mila euro stipulata da Losito in favore di suo fratello Giuseppe. Questa causa civile vede contrapposti Giuseppe Losito e Alberto Tarallo, ex compagno dello sceneggiatore per quasi 20 anni, nonché produttore cinematografico e titolare della società Ares. Dalle ricostruzioni pare che pochi mesi prima di morire, Teodosio Losito avesse qualche problema finanziario e avrebbe, quindi, chiesto sostegno proprio a Tarallo, promettendogli di renderlo beneficiario dell'assicurazione. A riprova del suo diritto di rivalsa sulla polizza, il produttore ha mostrato ai giudici una mail di Teodosio, nella quale lo sceneggiatore gli prometteva l'intestazione della polizza. La famiglia di Losito si è opposta ed è iniziata la disfida legale per stabilire di chi sia il beneficio dei 300mila euro di premio assicurativo. Intanto i giudici di piazzale Clodio proseguono anche l'ascolto delle persone che potrebbero dare un importante contributo alla risoluzione del caso di suicidio di Teodosio Losito. Dopo Rosalinda Cannavò e Gabriel Garko, infatti, è stato sentito Massimiliano Morra. L'attore è stato una delle star delle fiction Ares, nonché uno dei concorrenti del Gf Vip appena concluso, lo stesso in cui era presente anche la Cannavò. Ed è proprio da un discorso tra i due che sono emersi i dettagli che hanno poi portato i familiari di Losito a sporgere denuncia. L'obiettivo degli inquirenti è quello di mettere a confronto le versioni delle persone che in quegli anni frequentavano la villa di Zagarolo, centro operativo dell'Ares. Il dubbio degli inquirenti, supportato dal dialogo mai esplicito di Rosalinda Cannavò con Massimiliano Morra, è che dietro ci possa essere una sorta di setta.
Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 18 marzo 2021. Tre lettere d'addio. Le ha lasciate Teodosio Losito prima di impiccarsi a quel termosifone con la sciarpa della mamma, nella villa di Zagarolo in cui ha vissuto fino al suo ultimo giorno, anche dopo aver perso sia l'amore che l'ispirazione con cui sfornava fiction melodrammatiche a ripetizione per la Ares Film, poi tristemente fallita. Una era per l'ex compagno produttore Alberto Tarallo, che lo scorso ottobre la lesse a «Non è l'Arena» da Massimo Giletti su La7: «È una mia scelta, tu non hai colpe, sono io che ho rimorsi e rimpianti... quelli a cui abbiamo dato tutto ci hanno sputato in faccia, che pena». Le altre due restano ancora segrete, nel contenuto e nel destinatario. Chi le ha, le tiene nascoste. Le cerca Giuseppe Losito, fratello dello sceneggiatore trovato morto l' 8 gennaio del 2019 - suicidio tanto scenografico quanto misterioso - che non ha ricevuto nemmeno una riga, eppure «con Teo ci sentivamo quasi tutti i giorni, siamo sempre stati molto uniti, mi sembra impossibile che mi abbia lasciato così», si è confidato con il suo avvocato, Stefano De Cesare. Convinto che la verità non sia quella che gli è stata raccontata. Tant' è che - dopo aver ascoltato le confidenze notturne di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra nella Casa del GF Vip, che evocavano un perfido Lucifero padrone delle loro vite e anima nera dietro il tragico gesto di Teodosio - si è rivolto alla magistratura. Di qui l'inchiesta (contro ignoti) per istigazione al suicidio, condotta dal pm Carlo Villani, che sta convocando una dopo l'altra le «persone informate sui fatti», ovvero tanti degli attori lanciati dal duo Tarallo-Losito. Dopo Adua Del Vesco, Gabriel Garko e Massimiliano Morra, ieri è toccato a Francesco Testi. Jeans, pull grigio e sneaker, l'eroe di «Sangue Caldo» è uscito dopo tre ore, sorridente ma muto. Seguiranno altri interpreti, non in ordine alfabetico. «Beh, quando Adua e Massimiliano parlavano di Lucifero, è chiaro che intendessero lui, Alberto, non c'è dubbio», conferma, perplesso ma lieve, Enrico Lucherini, il Signore degli Uffici Stampa, che per anni ha curato la comunicazione della (fu) Ares Film, prima del tracollo. «Però lo conosco da almeno trent'anni e non ho mai notato niente di satanico in lui. Generoso, carino, divertentissimo, alla villa di Zagarolo passavano ore a chiacchierare di vecchi film hollywoodiani, di Gloria Swanson e di Greta Garbo, che la ragazzina, Adua, non sapeva nemmeno chi fosse». Fu lui a sceglierle il nome d'arte: «Rosalinda Cannavò non suonava bene, pensammo ad Adua, dal film di Pietrangeli, e poi ci si aggiunse Del Vesco, boh, Alberto si era fissato e in effetti non suonava male, anche se i primi tempi capivano tutti Del Vescovo o peggio Del Mestolo». Di colei da cui tutto ha avuto inizio («Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Con il suo gesto Teo ha liberato anche me...che poi non ci credo che sia stato un suicidio, tanto sappiamo bene chi è l'artefice di questo schifo...») dice: «Prendevamo il sole in giardino e si parlava di tutto e niente, mangiando gelato, non mi pareva né sofferente né plagiata, aveva le chiavi di casa, poteva andarsene quando voleva».
Mic. All. per "il Messaggero" il 18 marzo 2021. Poco controllo sulla propria vita privata, estrema dedizione al lavoro. Erano questi i patti per fare parte della scuderia della Ares Produzioni, fondata da Alberto Tarallo e dallo sceneggiatore tv Teodosio Losito, morto suicida nel gennaio 2019. Ieri, in Procura a Roma, il pm Carlo Villani ha sentito l'attore Francesco Testi, l'ultimo dei vip convocati dal magistrato per ricostruire il clima all'interno della casa di produzione che ha lanciato alcune delle fiction più famose di Mediaset. L'inchiesta è quella sulla morte di Losito: il reato ipotizzato è istigazione al suicidio. Testi è stato convocato per chiarire alcune dichiarazioni rilasciate subito dopo l'esplosione dello scandalo Ares gate, scaturito dalle parole di due concorrenti del Gf Vip. Rosalinda Cannavò, alias Adua Del Vesco, parlando con Massimiliano Morra, aveva detto che Losito sarebbe stato indotto a uccidersi ed entrambi avevano fatto riferimento a una presunta setta, governata da un certo «Lucifero». Per molti il riferimento era alla Ares. Testi, che ha lavorato fino al 2015 per la casa di produzione, ha ripercorso la sua esperienza: chi era ingaggiato dalla Ares doveva garantire «assoluta dedizione al lavoro» e non poteva avere legami affettivi stabili, anche se si trattava di una scelta «consapevole». A suo dire c'era il divieto di avere «relazioni fisse perché distraggono dal lavoro». I problemi erano iniziati quando si era innamorato di una collega. Motivo che lo aveva convinto a lasciare l'agenzia. Nei giorni scorsi in Procura sono stati ascoltati la Cannavò, Morra e Garko, oltre al fratello di Losito.
Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 17 marzo 2021. Un rubino grosso e tondo come una biglia, incastonato in oro massiccio. Un pegno d'amore che Teodosio Losito non si toglieva mai, nemmeno quando la storia quasi ventennale con Alberto Tarallo era finita, assieme ai fasti cinematografici della Ares Film. Dopo la sua morte però l'anello è sparito. Come il prezioso Rolex che qualcuno gli ha sfilato dal polso subito prima che il corpo fosse cremato con una certa qual premura. Li cerca ancora Giuseppe Losito, fratello dello sceneggiatore di fiction tv trovato cadavere l' 8 gennaio del 2019 nella villa di Zagarolo, impiccato al termosifone con la sciarpa della mamma. Non è convinto che Teo si sia davvero tolto la vita. «Il suo corpo è stato spostato sul letto, anziché lasciarlo dov' era», ha raccontato al pm Carlo Villani che sta indagando per istigazione al suicidio, dopo che nella Casa del GF Vip i due coinquilini ed ex finti amanti per contratto, Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, hanno lasciato intendere che il misterioso e fosco «Lucifero» che controllava le loro vite potrebbe averlo spinto al gesto fatale. Assistito dall' avvocato Stefano De Cesare, Giuseppe ha spiegato di aver acconsentito alla cremazione sull'onda emotiva, pressato al telefono da Tarallo, che ora gli contende la liquidazione dell'assicurazione sulla vita da 300 mila euro di cui entrambi si proclamano beneficiari. «Alberto mi giurava che quella era la volontà di mio fratello e mi ha convinto, ora però ho dei dubbi», ha dichiarato al magistrato. Se potesse tornare indietro, chiederebbe l'autopsia. «In quei giorni Teo era sereno, perché avrebbe dovuto uccidersi?». E per non farci mancare proprio niente, in questo teleromanzo sempre più noir, ci sarebbero poi gli «strani incidenti» occorsi a Gabriel Garko e Massimiliano Morra, entrambi nel listino della Ares Film. Ne scrive Gabriele Parpiglia, autore Mediaset, nella seconda puntata del reportage su Giornalettismo. Ricordando quando, nel 2016, dieci giorni prima di salire sul palco di Sanremo come co-conduttore-valletto di Carlo Conti, Garko per poco non ci lasciò le penne nell' esplosione della villa presa in affitto in Riviera, risvegliandosi sotto le macerie. Riportò choc, trauma cranico e una ferita sulla schiena che insanguinò la camicia di seta messa per la prima serata del Festival, sotto la giacca. Nel 2018 sarebbe stato Morra a vedere la morte troppo da vicino. Tornando a casa sulla sua 500, per evitare un' auto sulla corsia opposta, lanciata verso di lui, fu costretto a sterzare di colpo, schiantandosi contro un muretto.
«Sono un miracolato», dichiarò allora, ringraziando il cielo e di certo non Lucifero.
Michela Allegri per "il Messaggero" il 17 marzo 2021. Una polizza da 300mila euro, un cadavere prima spostato e poi cremato e una serie di conti che non tornano. È stato Giuseppe Losito, fratello dello sceneggiatore Teodosio Losito, morto suicida nel gennaio 2019, a raccontare in Procura a Roma le anomalie legate a quel decesso. Una su tutte: Losito si sarebbe impiccato al termosifone in una delle stanza della villa di Zagarolo, la ZagarHollywood dove viveva con il compagno produttore Alberto Tarallo, ma all' arrivo dei paramedici il corpo era stato spostato. I sanitari lo avrebbero trovato su un letto. L' inchiesta era stata rapidamente archiviata come suicidio e il corpo era stato cremato, con il consenso della famiglia. «Non è stata svolta nessuna autopsia e adesso non sarà possibile nemmeno riesumare il cadavere», ha spiegato l' avvocato Stefano De Cesare, che assiste il fratello dello sceneggiatore. Tutte queste circostanza sono state riportate al pm Carlo Villani, che ha aperto una nuova indagine ipotizzando l'istigazione al suicidio. Giuseppe Losito ha anche sottolineato che sentiva il fratello con cadenza quasi quotidiana e nulla gli aveva fatto sospettare che si sarebbe potuto togliere la vita. Poi ha raccontato di un contenzioso civile pendente tra lui e Tarallo, che riguarda una polizza vita da 300mila euro stipulata dallo sceneggiatore: è intestata a Giuseppe Losito, ma Tarallo sostiene che, via mail, il compagno gli avesse detto che avrebbe reso lui beneficiario come risarcimento per un prestito. «Ma ai familiari non risultava che Teodosio avesse problemi di soldi», ha aggiunto l' avvocato De Cesare. L'ipotesi dell' istigazione al suicidio è emersa durante una conversazione tra gli attori Rosalinda Cannavò, alias Adua Del Vesco, e Massimiliano Morra nella casa del Gf Vip. I due hanno fatto riferimento a una presunta setta e il suo capo è stato soprannominato «Lucifero». La Cannavò ha detto di credere che Losito possa essere stato indotto a togliersi la vita: «Se fossi rimasta lì avrei fatto la sua stessa fine», ha aggiunto. Da queste dichiarazioni si è scatenato lo scandalo mediatico Ares gate, perché in molti hanno letto in quelle parole un riferimento alla Ares Produzioni, fondata da Losito e da Tarallo. La Cannavò e Morra sono stati sono già stati sentiti in Procura come persone informate sui fatti e oggi il pm Villani sentirà nuovi testimoni. Nei giorni scorsi è stato ascoltato anche Gabriel Garko, a lungo volto di punta della Ares.
Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 16 marzo 2021. E come in ogni storia si finisce sempre lì: ai soldi. Mentre la Procura di Roma indaga sul tragico suicidio dello sceneggiatore Teodosio Losito - un copione intricato come manco quelli che scriveva lui per la «Ares Film», tra amori, rancori, vendette incrociate, maldicenze, santoni, sette e demoni - l'inchiesta, che mira a accertare se qualcuno (forse il misterioso «Lucifero», evocato in diretta tv al GF Vip dai coinquilini della Casa ed ex finti fidanzati Adua Del Vesco e Massimiliano Morra) lo abbia tormentato e indotto al gesto estremo, entra in scena, da una parallela causa civile, una polizza sulla vita da 300 mila euro della Zurigo Assicurazioni. Stipulata da Losito in favore del fratello Giuseppe. Almeno in un primo momento. Perché a quanto pare, poco prima di morire, trovandosi a corto di soldi, Teo avrebbe chiesto un prestito a Alberto Tarallo, produttore e suo compagno di vita per quasi 20 anni, promettendogli di nominarlo nuovo beneficiario. Attorno a questa polizza si è quindi accesa una nuova disfida legale tra Tarallo - che, portando come prova un messaggio di posta elettronica del defunto, si è presentato a riscuotere negli uffici della Zurigo, supportato dalla legale Daria Pesce - e la famiglia Losito, assistita dall' avvocato Stefano De Cesare, per stabilire a chi spetti l' indennizzo conteso. Ieri intanto il pm Carlo Villani, ha ascoltato - sempre e solo come persona informata sui fatti - il bruno Massimiliano Morra, altro attore della scuderia Ares, dopo Adua Del Vesco alias Rosalinda Cannavò (che, secondo una dettagliata ricostruzione a Non è l' Arena di Massimo Giletti su La7 sarebbe una seguace del sedicente santone di Ascoli Christian Del Vecchio, che la portava a Lourdes) e Gabriel Garko alias Dario Gabriel Oliviero. Cappotto grigio scuro, pull bianco a collo alto e mocassini senza calze, Morra (che in realtà si chiama Gabriele, in questo teleromanzo nessuno ha il suo vero nome e forse nemmeno è quello che mostra) è entrato alle undici e ci è rimasto tre ore e mezza. «Ho raccontato la verità, però non posso parlarne». Per essere ammessi alla corte-factory di Tarallo, in quel di Zagarolo, ovvero Villa Dafne, parco, tre piscine, cineteca, sala d'incisione, orto, fontane, una statua gigante della fertilità, oltre i muri di cinta muniti di telecamere, gli aspiranti attori dovevano impegnarsi a obbedire ai tre comandamenti della Ares: cambierai il tuo nome, cancellerai la tua età, annullerai ogni rapporto con la tua famiglia. Così si legge nel reportage su Giornalettismo di Gabriele Parpiglia,autore Mediaset e grande conoscitore del Deep Gossip , che descrive l'ultima scena della vita di Teo Losito, morto impiccato al termosifone con la sciarpa della mamma al collo, accanto ai pesi da palestra, con l' accappatoio, ma senza l' anello che portava sempre, regalo dell' ex, ricomparso, pare, al dito di un altro. Il corpo è stato cremato. Ragioniere poi ortolano poi modello e infine sceneggiatore, pugliese emigrato a Milano, Teodosio (come lo zio), che partecipò tra le Nuove Proposte a Sanremo 1987, dopo il fallimento della Ares era tornato alla musica. L' ultima composizione si intitolava « Sei, sei, sei » e anche qui c' è chi ci ha visto un' allusione al satanico 666, in realtà è dedicata alla mamma.
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 16 marzo 2021. Attorno alla morte dello sceneggiatore Teodosio Losito non c' è solo un' inchiesta della procura di Roma per accertarne le cause e gli eventuali responsabili. C' è un' indagine per istigazione al suicidio. Un' altra battaglia giudiziaria si combatte, infatti, al civile. Una guerra da centinaia di migliaia di euro che vede fronteggiarsi da un lato il fratello del defunto, Giuseppe Losito, e dall' altra quello che è stato il compagno di Teodosio, il produttore cinematografico Alberto Tarallo. Il primo sarebbe l' intestatario di una polizza vita della Zurigo Assicurazioni del valore di 300 mila euro. Tuttavia Tarallo si considera l' unico legittimato ad incassare la somma. Per questo motivo ha dato il via alla causa civile. Il produttore, ai magistrati chiamati a giudicare sul caso, ha presentato una mail in cui Teodosio gli comunicava che sarebbe divenuto il beneficiario della sua polizza vita come pagamento di una somma che gli aveva prestato. Intanto ieri in procura a Roma è stato ascoltato per tre ore l' attore Massimiliano Morra, custode di alcuni segreti relativi alla morte di Losito. Due versioni a confronto. Parole messe a verbale e che ora i pm di Roma dovranno valutare per cercare di chiarire se davvero la morte del produttore e sceneggiatore tv, Teodosio Losito, nasconda un giallo denso di misteri. Continua l'attività istruttoria del pm Carlo Villani che indaga per istigazione al suicidio dopo una denuncia presentata nei mesi scorsi dai familiari di Losito, trovato senza vita nel gennaio del 2019 nella propria abitazione romana. Ieri negli uffici di piazzale Clodio è stato ascoltato per oltre tre ore l'attore Massimiliano Morra, convocato alla luce di alcune dichiarazioni da lui fatte nel corso del reality Grande Fratello Vip. Morra, parlando con l'attrice Adua Del Vesco, fece riferimento ad una presunta setta accostandola al produttore, compagno di Alberto Tarallo, a capo della Ares Produzioni, la società che ha sfornato per Mediaset moltissime fiction di successo, che si è tolto la vita impiccandosi ad un termosifone. La ricostruzione fornita da Morra sarà ora messa a confronto con quanto raccontato la settimana scorsa dalla Del Vesco. Gli inquirenti hanno, quindi, raccolto le testimonianze dei due concorrenti del Grande Fratello che verranno adesso valutate. Gli investigatori vogliono capire se ci sono discordanze nelle versioni fornite e se gli elementi in loro possesso sono sufficienti a sgombrare qualsiasi dubbio sull' estremo gesto del produttore. Nell' audio carpito nel corso della trasmissione, e finito agli atti dell' indagine, Del Vesco, parlando con il collega, afferma: «Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Tu non immagini cosa ho passato! Ero veramente sola, con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei più qui... che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l' artefice di tutto questo schifo...». In risposta Morra fa riferimento alla setta e ad un «Lucifero». Non è escluso che proprio su questa figura evocata dall' attore si sia concentrata l' audizione del magistrato che nei prossimi giorni continuerà ad ascoltare testimoni collegati sempre al mondo dello spettacolo. Tra le persone che potrebbero essere convocate anche la conduttrice Barbara D' Urso che in passato si è occupata del suicidio di Losito. Nei giorni scorsi i magistrati hanno sentito l' attore Gabriel Garko.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 14 marzo 2021. Suggerimenti e consigli troppo insistenti, che potrebbero essersi trasformati in vere e proprie pressioni. Per esempio per fingere relazioni con colleghi e colleghe, in modo da pubblicizzare film e serie in uscita, a volte anche mentendo per anni sul proprio orientamento sessuale. Dopo le dichiarazioni dei due concorrenti del Grande Fratello Vip, Rosalinda Cannavò, alias Adua Del Vesco, e Massimiliano Morra, e del divo del piccolo schermo Gabriel Garko, l' inchiesta per istigazione al suicidio sulla morte dello sceneggiatore tv Teodosio Losito, trovato impiccato nella sua casa di Roma nel gennaio 2019, potrebbe estendersi ad altri fronti. Uno riguarderebbe il clima all'interno della Ares Produzioni, la società fondata da Losito e dal compagno Alberto Tarallo, che ha lanciato alcune delle serie più famose di Mediaset, come Caterina e le sue figlie, L'onore e il rispetto, Furore. Il tema è emerso durante una chiacchierata notturna all' interno della casa del Gf. E adesso le registrazioni integrali potrebbero finire in Procura. A parlare, lo scorso settembre, sono stati la Cannavò e Morra. Lei aveva ipotizzato che Losito fosse stato indotto a uccidersi e aveva ricordato il periodo in cui lavorava nella stessa casa di produzione di Morra, descrivendo un clima praticamente da setta: «Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Tu non immagini cosa ho passato! Ero veramente sola, con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei più qui... che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l' artefice di tutto questo schifo», aveva detto lei. E Morra aveva replicato: «Lui è Lucifero». Il nome di Tarallo non era mai stato fatto espressamente, ma il riferimento sembrava chiaro, tanto che nei giorni successivi a quelle dichiarazioni è esploso lo scandalo mediatico Ares gate. Il produttore, assistito dall' avvocato Daria Pesce, ha denunciato i due attori per diffamazione e sul caso indaga la Procura di Monza, ma i familiari di Losito hanno presentato un esposto ai pm romani chiedendo di fare chiarezza. Intanto Tarallo, tramite il suo legale, ha anche chiesto al pm Carlo Villani - titolare del fascicolo sulla morte del compagno - di essere ascoltato per raccontare la sua versione dei fatti. Ed è pronto a mostrare agli inquirenti gli ultimi messaggi e le lettere che lo sceneggiatore gli ha scritto nel corso degli anni, compresa quella di commiato, buttata giù poco prima di togliersi la vita. Una lettera che, in ottobre, Tarallo ha già letto durante un' intervista a Non è l' Arena, e dalla quale sembrano emergere tutto il malessere e la depressione di Losito. Ora il pm Villani potrebbe acquisire gli audio originali registrati all' interno della casa più famosa della televisione, per cercare altri dettagli non andati in onda. Intanto il magistrato ha già ascoltato come persone informate sui fatti la Cannavò e Garko. I due erano stati fidanzati a lungo, ma in diretta tv, poco tempo fa, sempre dalla casa del Grande Fratello, l' attore ha rivelato che si trattava di «una favola finta». Ha poi ricordato le sofferenze provocate da chi gli aveva suggerito per anni di non rivelare la sua età e, soprattutto, di fingere di avere una relazione con diverse colleghe per nascondere quello che lui ha definito «il segreto di Pulcinella». Il prossimo ad essere sentito dal pm Villani dovrebbe essere Morra. L' attore, dopo la conversazione notturna dentro alla casa del Gf vip, in un' intervista televisiva successiva al reality, aveva ritrattato le affermazioni più pesanti. Anche lui era stato protagonista di un finto fidanzamento, sempre con la Cannavò. «Nessuno mi ha mai obbligato - ha però specificato - Il sistema mi ha consigliato di costruire una finta storia per promuovere la fiction in cui ero protagonista. Ero giovane e avevo solo un obiettivo: diventare attore. Non avevo neanche altre relazioni stabili perché non volevo distrarmi dal mio lavoro». In merito alle confidenze tra lui e la Cannavò ha aggiunto: «Tante cose sono arrivate in maniera distorta. Devo tutto alla Ares. Sono persone che mi hanno creato dal nulla. Ho reagito così perché da un momento all' altro sono stato allontanato e non ho più lavorato senza conoscere i motivi. Questo mi ha portato a un malessere interiore che mi ha provocato depressione e attacchi di panico».
Andrea Ossino e Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 marzo 2021. «Gabriel Garko è nel periodo giusto della sua vita, ora ha forza di potersi permettere di dire la verità. E lo ha fatto parlando con la procura». Gabriele Rossi conosce le dinamiche che ruotano intorno alla Ares Film. Ha lavorato con la casa di produzione un tempo gestita dal duo Alberto Tarallo - Teodosio Losito: «Era la mia seconda serie, "L' onore e il rispetto" - dice - poi mi è stato proposto di firmare il loro tipico contratto, ma mia madre mi ha fatto aprire gli occhi. La libertà rispetto alle scelte lavorative era deviata dalle esclusive che mi chiedevano. Non ho accettato e al mio personaggio è stata tagliata la testa». L' attore da poco è stato paparazzato in compagnia del responsabile comunicazione del Movimento 5 Stelle, Rocco Casalino. Gli scatti che immortalano i due mentre passeggiano tra le vie di Roma sono stati pubblicati nella copertina di "Chi" e hanno dato il via al gossip. Ma Rossi è anche noto per essere stato il compagno dell' attore Gabriel Garko. Ed è proprio a quest' ultimo che il sostituto procuratore Carlo Villani (che indaga sulla morte di Losito) ha chiesto cosa accadeva tra i corridoi della casa di produzione. Garko potrebbe conoscere la verità. E probabilmente anche Rossi: «Ho opinioni chiare, ma non le espongo», risponde. Se si tratta di fatti penalmente rilevanti lo decideranno i magistrati. Ma intanto sono diversi gli attori che criticano le modalità con cui l'azienda cinematografica, fallita nel febbraio del 2020, sarebbe intervenuta anche nella sfera privata delle star contrattualizzate. «Non so cosa accadeva alla Ares, con Teo ho avuto un breve rapporto lavorativo e poi ci siamo persi di vista - dice Vladimir Luxuria - Nel nostro ambiente sappiamo molte cose, io ho scelto di agevolare il coming out ma di non dire mai gli orientamenti sessuali altrui. Nel mondo dello spettacolo esistono unioni di copertura. C' è ancora chi pensa che se tu dici di essere gay perdi una fetta di fan o potresti avere problemi sul lavoro». L'indagine appurerà se le dinamiche interne all' azienda possano avere a che fare con il suicidio di Teodosio Losito, il cui corpo è stato ritrovato il 9 gennaio 2019 dai carabinieri, nella casa di Zagarolo dove lo sceneggiatore viveva con il produttore Alberto Tarallo. Sicuramente Losito al momento della sua morte affrontava un periodo difficile. La casa di produzione più prolifica di Mediaset aveva dimezzato quei 7 milioni di telespettatori racimolati ai tempi degli esordi della fiction " L' onore e il rispetto". La quinta stagione era stata deludente. Il tocco vincente, capace di coniugare l' estetica e la bellezza dei protagonisti delle produzioni Ares ( Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Giuliana De Sio, Virna Lisi) con tematiche forti, immagini talvolta eccessive e personaggi caricaturali dalla moralità contrastante non ipnotizzava più gli spettatori. I critici contestavano " l'estetica queer". E Losito disprezzava « lo snobismo dei critici che in passato hanno ucciso il cinema e ora ci provano con la televisione». Gli incassi diminuivano. Il format non funzionava più. Gli attori si ribellavano. E quel giorno di gennaio, con una sciarpa della madre appesa al termosifone del bagno, la fine di Losito è sostanzialmente coincisa con quella di una delle case di produzioni più importanti d' Italia.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 13 marzo 2021. Pressioni psicologiche, flirt inventati, vita personale messa sotto stretto controllo, un clima «da setta» che potrebbe in qualche modo essere collegato al suicidio di una persona: lo sceneggiatore tv Teodosio Losito, trovato impiccato nella sua casa di Roma nel gennaio del 2019. Dai salotti della tv, il divo del piccolo schermo Gabriel Garko è arrivato ieri in Procura a Roma per raccontare, in qualità di testimone, la sua versione dei fatti sulla Ares Produzioni, la società fondata da Losito e dal compagno Alberto Tarallo, che ha lanciato molte fiction di successo, come Il bello delle donne e Caterina e le sue figlie. L'attore nei mesi scorsi aveva lasciato intendere in diretta tv di avere dovuto fingere per anni relazioni in realtà inesistenti. Due giorni fa il pm Carlo Villani, che indaga per istigazione al suicidio, ha ascoltato anche l'attrice Rosalinda Cannavò, alias Adua Del Vesco, ex fidanzata - fasulla - di Garko. Era stata proprio lei, con le parole sussurrate in una conversazione notturna all'interno della casa del Grande Fratello Vip, ad alzare il polverone sulla Ares. In settembre, parlando con l' attore Massimiliano Morra, ha ricordato il periodo - descritto come difficilissimo e terribile - in cui entrambi lavoravano per la stessa casa di produzione, che in tanti hanno identificato nella Ares di Tarallo. Parlando della morte di Losito, la Cannavò ha detto: «Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Tu non immagini cosa ho passato! Ero veramente sola, con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei qui... che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l'artefice di tutto questo schifo». Insieme a Morra ha poi descritto un clima da «setta» e ha fatto riferimento al capo, soprannominato dai due «Lucifero». Dopo queste parole i familiari di Losito hanno presentato un esposto in Procura chiedendo ai pm di fare chiarezza. Da qui le audizioni di questi giorni. Garko è stato convocato perché le sue dichiarazioni all' interno della casa del Gf Vip erano state considerate rilevanti. Ex fidanzato della Cannavò, aveva detto in diretta di essere stato protagonista di una «favola finta», parlando poi della sua sofferenza per il suggerimento che gli sarebbe stato dato per anni di accompagnarsi a diverse donne pur di non rivelare quello che lui ha definito «il segreto di Pulcinella». Ieri Garko, protagonista delle fiction più famose lanciate dalla Ares, è stato ascoltato dal pm per circa quattro ore. Uscendo dal tribunale non ha voluto fare commenti: «Non posso dire nulla». La prossima settimana, negli uffici di piazzale Clodio proseguirà la sfilata di vip. Il prossimo ad essere convocato potrebbe essere Massimiliano Morra, protagonista insieme alla Cannavò della conversazione notturna. Poi potrebbe essere il turno di Tarallo che, lo scorso ottobre, era intervenuto sullo scandalo durante un' intervista a Non è l' Arena, su La7. «Le rivelazioni di Adua Del Vesco e la storia della setta? Credo che qualcuno abbia architettato questa cosa contro di me», aveva detto. E ancora: «Al massimo organizzavamo dei pranzi e ci veniva Ursula Andress. Le fiction duravano diversi mesi e ci sono stati momenti in cui quattro interpreti, i più giovani e deboli nella recitazione, vivevano nelle dependance della mia villa a Zagarolo: c' era un insegnante di recitazione, studiavano inglese, io la sera vedevo quello che avevano fatto. Ma non c' è mai stata alcuna costrizione». Poi ha parlato del suo amore, durato vent' anni, con Losito e ha letto in studio la lettera d'addio dello sceneggiatore: «È un anno che lottiamo contro i mulini a vento, ci hanno preso per il c..., hanno usato una cattiveria più estrema per farmi e farci del male e ancora non riesco a capirne il motivo. Come da prassi si è creato il vuoto intorno a me, a noi. Il carro non è più quello dei vincenti. A chi abbiamo dato tutto di noi stessi ci ha sputato in faccia e oggi giudica che siamo dei rami secchi».
Estratto dell’articolo di Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 13 marzo 2021. «[…] Se c' è una denuncia è giusto che la magistratura faccia il suo corso, ma mi sembra strano che non sia venuto tutto fuori prima». Così l' attivista Imma Battaglia, da 11 anni compagna e da due moglie dell' attrice Eva Grimaldi - a lungo sotto contratto per la Ares Film - ha commentato ieri gli sviluppi del caso Ares gate. […]
Che idea si è fatta della vicenda?
«Penso che le dichiarazioni rilasciate durante il Grande Fratello siano molto forti, anche troppo. […] Anche io, al posto della famiglia di Teodosio Losito, avrei chiesto e preteso l' intervento della magistratura. […]».
Pensa che non siano vere?
«[…] nutro dubbi sul tempismo. […] Mi viene il dubbio della spettacolarizzazione: se ne parla adesso solo perché adesso fa effetto.»
Come sta Grimaldi?
«[…] è sconvolta, perché ha avuto con Tarallo e Teodosio Losito dei rapporti: sono cresciuti insieme, era una bambina quando li frequentava. È anche molto riconoscente. Alberto lo ha vissuto come un uomo-guida. […]».
È vero che Losito si era opposto alla vostra relazione?
«Sì, ero molto delusa e arrabbiata. […]».
Qual era il problema?
«Dicevano che se Eva avesse continuato a frequentare le lesbiche poi si sarebbe detto che era lesbica, e non avrebbe mai più lavorato. Cose di un' altra epoca».
La Ares era una setta?
«Questo non l' ho mai detto. È un discorso diverso. Nel caso di Eva c' era sicuramente un' attenzione direi maniacale ai suoi momenti di esposizione pubblica». […]
Chiara Rai per “il Messaggero” il 13 marzo 2021. «Fort Knox? È a Collelungo». A Zagarolo conoscono tutti la villa ribattezzata Zagarholliwood, quella dello scandalo Ares Gate, l' inchiesta sul decesso dello sceneggiatore di Teodosio Losito trovato morto nella sua casa a Roma l' 8 gennaio del 2019. Ares è il nome della società fondata da Alberto Tarallo e dal compagno Losito, nomi che hanno lanciato fiction di successo da Caterina e le sue figlie a Il Bello delle donne. Tra i personaggi di punta Manuela Arcuri e Gabriel Garko, diversi vip del Grande Fratello. «Nella enorme villa - dicono alcuni residenti della zona - la fabbrica del gossip come la chiamiamo noi, vivevano gli attori, uscivano ed entravano con auto dai vetri spesso oscurati». Non si può non riconoscere quello che appare come un fortino con tre cancelli, telecamere ad ogni angolo, citofoni con il codice di riconoscimento, mura di cinta alte. Una sorta di enorme villone impenetrabile. Quanti strilli non uditi, quante litigate rimaste tra quelle mura blindate. «Quando cala la luce del giorno quel posto mette i brividi», dicono alcune signore in giro per negozi oltre quella zona d' ombra. Ci sono le luci che illuminano lunghi e alti muri, recinzioni metalliche e occhi elettronici che sembrano spiare tutto. È lì che si sarebbe ambientato lo scenario che avrebbe istigato al suicidio Losito? A Zagarolo la villa hollywoodiana è conosciuta anche come covo di veleni, storielle più o meno vere. Lo sceneggiatore è stato definito da Rosolina Cannavò una vittima del sistema. Un sistema che sembra oscuro e misterioso come la strada privata e sterrata che porta a Fort Knox. «Durante la villeggiatura, gli attori dovevano sostenere dei ritmi serrati e stressanti - raccontano delle persone del posto - sveglia prima dell' alba, trucco e via con le riprese, i set, i baci, i comunicati stampa. Al rientro dal set gli attori andavano anche a scuola seguivano dei corsi di recitazioni e di lingua inglese». Tarallo era il controllore, guidava Zagarholliwood come fosse il comandante di una nave, onnipresente. Insomma, non era forse una setta ma un mondo certamente paradossale. E oltre a Tarallo c'era probabilmente chi confezionava le notizie, un secondo personaggio, Enrico Lucherini, capo ufficio stampa della Ares. Non lontano, dalle parti del grande centro commerciale Oasi, c'è la villa di Garko. Grandissima e anche questa con il citofono con i codici. Uno scenario simile ma che racconta altre storie. Anche Garko, fidanzato di facciata della Cannavò, è finito in un gossip costruito ad arte, definito finto come ha detto l' attore stesso in TV.
Morte Teodosio Losito, sentita attrice del GF: "Fu vittima di una setta nata in casa di produzione tv". Andrea Ossino, Francesco Salvatore su La Repubblica l'11 marzo 2021. Aperto un fascicolo per istigazione al suicidio dopo le rivelazioni di Rosalinda Cannavò. Che durante il reality avrebbe raccontato che lo sceneggiatore sarebbe stato soggiogato fino a togliersi la vita. Dalla casa del Grande Fratello Vip ai corridoi della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio. La concorrente del reality Rosalinda Cannavò conosciuta come Adua Del Vesco è stata sentita come testimone in procura per oltre due ore nell'ambito di un'indagine sul suicidio del produttore televisivo Teodosio Losito, avvenuto nel 2019 a Roma. L'attrice negli scorsi mesi, durante una conversazione notturna con il concorrente Massimiliano Morra, all'interno della casa del Grande Fratello, ha parlato di alcuni trascorsi condivisi e della conoscenza di Losito. Il dialogo ha portato alla luce l'esistenza di una presunta setta legata al contesto della casa di produzione Ares Film, di cui era titolare il compagno di Losito. Stando a quanto raccontato davanti alle telecamere del Gf, diversi artisti collegati alla casa di produzione sarebbero stati soggiogati e obbligati a frequentare quegli ambienti, ritenuti una sorta di setta. Nella chiacchierata è stato toccato proprio il suicidio di Losito. Da qui l'apertura dell'inchiesta per istigazione al suicidio. Il fascicolo è sul tavolo del pubblico ministero Carlo Villani. A sporgere denuncia sono stati i familiari della vittima. In particolare tra sussurri e frasi dette a mezza bocca l’attrice ha raccontato, all’interno della casa del Gf, del ruolo ricoperto da un personaggio soprannominato “Lucifero”. Quanto a Losito, Cannavò ha ricordato a Morra proprio il giorno dopo la sua morte, nel gennaio 2019: “Quella cosa brutta (il suicidio ndr) l’ho scoperta il giorno dopo alle 7 del mattino. Lui mi mandò un messaggio. Io gli volevo bene e so che anche tu ne volevi a lui. Ho subito fatto il suo numero e purtroppo non mi rispondeva, ovviamente. Io se rimanevo facevo la sua fine. Tu non sai cosa ho passato! Ero veramente sola e avrei fatto quella fine lì. Tanto sappiamo chi è l‘artefice di tutto questo”.
La morte Teodosio Losito, le voci di una «setta» dietro Ares, le parole di Adua Del Vesco: indagine sul «suicidio» del produttore di fiction. Adua Del Vesco sentita dai pm di Roma nell’ambito dell’inchiesta per la morte di «Teo» Losito. Alberto Tarallo sarà il prossimo. Le ipotesi intorno alla Ares Produzioni. Giovanna Cavalli e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2021. «Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Tu non immagini cosa ho passato! Ero veramente sola, con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei più qui... che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l’artefice di tutto questo schifo...». Così mormorava la bruna Adua Del Vesco, attrice ed ex fidanzata (per finta) di Gabriel Garko (prima dell’outing), confidando il suo tormento — tra pause, omissis e grandi alzate di sopracciglio — a Massimiliano Morra, coinquilino e collega di fiction melodrammatiche per Canale 5 (nonché altro suo ex, di facciata pure lui, per amor di gossip e rotocalchi), che evocava sibillino la presenza di un perfido e demoniaco «innominabile» a capo di una setta che li teneva soggiogati: «Lui è Lucifero...», sussurrava tenebroso sul divanetto del Grande Fratello Vip, in una notte fonda di fine settembre 2020, mentre gli altri concorrenti dormivano, non però le migliaia di telespettatori del reality di Mediaset ancora ben svegli e ricettivi.
La morte di Teodosio Losito nel 2019. I due spiatissimi «reclusi» alludevano alla tragica morte di Teodosio Losito, ex cantante e poi sceneggiatore dei feuilleton campioni di ascolti che la Ares Produzioni del compagno Alberto Tarallo confezionava senza sosta per Mediaset (un catalogo infinito, il loro: «L’onore e il rispetto», «Viso d’angelo», «Il sangue e la rosa», «Il bello delle donne»), trovato morto nella sua casa romana l’8 gennaio del 2019, impiccato a un termosifone alto con la sciarpa della mamma stretta al collo. Un caso su cui nessuno indagò, catalogato come un gesto estremo e disperato. Fino a quella notte di confidenze in diretta tv di Adua e Massimiliano. Dopo la denuncia dei parenti di Losito, la Procura di Roma ha invece aperto un’inchiesta. Ipotesi di reato: istigazione al suicidio. Qualcuno dunque potrebbe avere spinto «Teo» Losito a uccidersi.
Adua Del Vesco alias Rosalinda Cannavò. La prima a essere sentita, come persona informata sui fatti, è stata proprio Adua Del Vesco, che nel frattempo però — uscita dalla Casa di Cinecittà, non vincitrice ma con un fidanzato nuovo al braccio (il timido Andrea Zenga, figlio di Walter, portiere di Inter e Nazionale) — ha ripudiato il nome d’arte per riprendersi quello vero, Rosalinda Cannavò da Messina. Cappotto verde acqua e completo nero, Adua/Rosalinda, giovedì si è presentata da sola negli uffici della Procura. «Sono molto tranquilla». Due ore e mezzo nella stanza del pubblico ministero e poi di corsa a riprendere il treno per Milano. «La verità scavalcherà ogni segnale di omertà», scriveva immaginifica su Instagram durante il tragitto.
Il ruolo di Alberto Tarallo. Ora però il pm Carlo Villani sta cercando di capire se le conversazioni del GF siano state manipolate o tagliate, valutando nuove ipotesi di reato. Subito dopo la puntata delle rivelazioni notturne infatti, scoppiò lo scandalo, prontamente ribattezzato Ares-gate. Facendo due più due, parecchi hanno ipotizzato che il «perfido Lucifero» evocato fosse Alberto Tarallo, ex visagista e parrucchiere, espertissimo di cinema («Un mostro di conoscenza filmica», lo elogiò Enrico Vanzina) diventato produttore della Ares Film — ormai fallita un anno fa — con studi di registrazione in quel di Zagarolo, Castelli Romani, annessi alla villa con mega-piscina, suite con fontane e orto, dove venivano girate le fiction.
Ares e l’ipotesi della «setta». E nella quale, dando retta alle illazioni da prendere forzatamente con le pinze, la setta avrebbe recluso i suoi adepti, decidendo della loro vita, di come vestirsi e di chi frequentare, allontanandoli dagli affetti più cari. Dopo aver diffidato il GF Vip, concorrenti e autori, e chiunque si occupasse della vicenda (vedi Barbara D’Urso), Tarallo, ospite di Massimo Giletti su La7, contrattaccò così: «Credo ci sia rancore da parte di Massimiliano e Adua, perché dopo la Ares non hanno lavorato molto. Credo che qualcuno li sfrutti per colpire me». E il prossimo a parlare davanti al pm sarà proprio lui, ma non è più fiction.
Da liberoquotidiano.it il 26 settembre 2020. “Ma ormai sono diventati tutti froci”. La battuta a bassa voce di Patrizia De Blanck non è sfuggita agli attenti osservatori del live del Grande Fratello Vip, seguito più che mai per questa quinta edizione che è partita decisamente con il botto. Nell’ultima puntata c’è stato il coming out di Gabriel Garko, che ha deciso finalmente di svelare il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito. La sua scelta di uscire allo scoperto proprio dalla casa del reality di Canale 5 non è casuale, dato che negli scorsi giorni era scoppiato il cosiddetto Ares Gate che lo riguardava da vicino, dato che a parlarne sono stati Adua Del Vesco (sua ex accreditata) e Massimiliano Morra, due con i quali condivideva un’agenzia collegata ad una casa di produzione nominata (non esplicitamente) al GF Vip. Ma torniamo alla De Blanck, che stavolta l'ha fatta fuori dal vaso: si è lasciata sfuggire una battuta di dubbio gusto, anche se forse il suo intento era quello di sdrammatizzare, dato che il momento con Garko e Adua è stato particolarmente toccante un po' per tutto.
"Sono diventati tutti fr...". Insulti contro Garko dopo il coming out. Dopo aver svelato il suo segreto con Adua Del Vesco, in diretta su Canale5, Gabriel Garko è stato preso in giro dagli altri concorrenti della Casa. Francesca Galici, Sabato 26/09/2020 su Il Giornale. Con una lettera scandita tra lacrime e sospiri, Gabriel Garko ha leggermente sollevato il velo di omertà che da anni copre la vita privata del sex symbol della fiction italiana. Al Grande Fratello Vip, l'attore e modello ha deciso di fare mezzo passo avanti e di svelarsi, ritrovando Dario, il bambino che per troppi anni ha tenuto nascosto e che ora ha la forza e il coraggio di mostrare. Ha fatto il primo passo al Grande Fratello Vip, davanti ad Adua Del Vesco, che fino a ieri è stata considerata la sua ex fidanzata, prima che lui apostrofasse la loro relazione come una "bellissima favola". Nel dopo puntata, ovviamente le parole di Garko sono state tra i principali argomenti di discussione all'interno della Casa e non sono mancati i commenti ineleganti, che hanno fatto chiacchierare i social. Tra le prime a esprimersi su quanto detto da Gabriel Garko durante la puntata, la contessa Patrizia De Blanck già durante la diretta ha detto che quanto fatto capire da Garko non è statat una novità, visto che nell'ambiente "sapevano tutti". Lo stesso attore, per giunta, lo ha definito "segreto di Pulcinella" nella sua lettera. Con il linguaggio politicamente scorretto che distingue il suo personaggio, e che l'ha portata nella Casa come personaggio di rottura, la contessa si è però fatta sfuggire una frase che gli attenti osservatori del Grande Fratello Vip sono riusciti a cogliere, anche se pronunciata a bassa voce: "Ma ormai sono diventati tutti fr...". Caustica e lapidaria come nel suo stile, dalla contessa De Blanck un'esternazione simile ce la si può anche aspettare, considerando il personaggio e i precedenti, anche se stavolta, per molti, ha superato eccessivamente il limite. Da chi non ci si aspetterebbe mai un commento fuori luogo sulle parole di Gabriel Garko è Tommaso Zorzi. Il giovane influencer conosce molto bene le tematiche che Gabriel Garko ha cercato esporre, seppur con imbarazzo e pudore. "Adua Del Vesco e Gabriel Garko... Chi dei due porta la gonna?", ha detto Zorzi dopo la puntata, facendo il verso ai lanci del momento "ascensore" di Live - Non è la d'Urso, camminando sui suoi eleganti tacchi alti arancioni. Parole che non sono piaciute ai social, che le hanno trovate sconsiderate e irrispettose. Una mancanza di rispetto nei confronti dell'uomo, ormai quasi cinquantenne, che dopo tanti anni è riuscito finalmente a levare una maschera, sia nei confronti di un professionista affermato che non merita di essere deriso da un giovanissimo concorrente.
Gabriel Garko fa coming out. Vladimir Luxuria: "Tanti attori costretti a fingersi etero". La rivelazione dell'attore nella casa del Grande Fratello Vip ha scatenato un'ondata d'urto sul web e sono molti i personaggi noti che hanno deciso di commentare pubblicamente l'outing di Garko. Novella Toloni, Sabato 26/09/2020 su Il Giornale. Emozioni forti al Grande Fratello Vip. Alfonso Signorini lo aveva annunciato e Gabriel Garko non ha tradito le aspettative. "Sentirete delle cose che non vorreste sentire. Per me sarà dura ma sarà la verità", e così è stato. Gabriel Garko è entrato nella casa del Gf Vip per rivelare quello che per anni è stato - come lo ha definito lui stesso - il "segreto di Pulcinella". Per annunciare al mondo la sua omosessualità ha scelto la sua ex, Adua Del Vesco, alla quale ha dedicato una toccate e rivelatrice lettera. Tra sospiri e lacrime i telespettatori hano assistito a una rivelazione ancora più potente di quanto ci si potesse immaginare. Senza mai dirlo chiaramente, tra le righe, Gabriel Garko ha fatto coming out e le sue parole in diretta televisiva, dopo anni di pettegolezzi e indiscrezioni, sono riecheggiate sul web come una bomba. Il popolo social si è scatenato e molti personaggi famosi hanno pubblicamente detto la loro su una situazione che tutti conoscevano ma sul quale tutti tacevano. A mettere nero su bianco quello che Garko ha detto tra le righe è stato Vladimir Luxuria attraverso un tweet: "Gabriel Garko fa coming out: quanti attori sono costretti ancora a fingersi etero perché il loro agente li vuole sex symbol per donne minacciando altrimenti di non farli più lavorare? Meglio recitare su un set che nella vita prendendo in giro gli altri e se stessi". Un'affermazione che promette di essere come il vaso di Pandora. L'attore ha promesso di parlare apertamente nell'intervista aVerissimo (in onda sabato 3 ottobre) ma nell'attesa l'attenzione mediatica e social è tutta sulle sue dichiarazioni. Gabriel Garko ha definito una favola finta la relazione con Adua Del Vesco. Un "tendenza a ingannare il pubblico" come l'ha definita Francesca Barra, che su Twitter ha applaudito il coraggio dell'attore: "Mi dispiace per Garko perché non deve essere stato facile soffocare la verità per tanto tempo e sono felice per la sua “liberazione”! Ma spero sia la fine di una tendenza a ingannare il pubblico, magari prendendo gettoni o soldi per servizi finti".
Daniela Secli per tv.fanpage.it il 26 settembre 2020. Gabriel Garko è stato ospite del Grande Fratello Vip 2020. L'attore ed ex fidanzato di Adua del Vesco ha presenziato alla quarta puntata del reality condotto da Alfonso Signorini, trasmessa venerdì 25 settembre. C'era grande attesa da parte degli spettatori per ascoltare le sue parole. In molti si sono chiesti se Garko sarebbe intervenuto solo per salutare la gieffina, per fare delle rivelazioni sulla sua vita lavorativa o privata oppure per dire la sua versione dei fatti circa alcune confidenze tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, in cui i due attori parlavano di una presunta limitazione della loro libertà che avrebbero subito in passato. Non appena è entrato in studio Garko ha spiegato: "Sarà una serata non facile. Ho preparato una lettera molto lunga per Adua. Ci siamo visti un mese fa l'ultima volta. Siamo rimasti molto amici. Non penso di potermi permettere, nonostante il lavoro che faccio, di gestire determinate cose per questo ho preferito scrivere una lettera. Ci sono momenti in cui ho vissuto e momenti in cui sono sopravvissuto. Ma tutto ciò mi ha reso molto forte". Qualche ora prima di entrare nella casa del Grande Fratello Vip 2020, Gabriel Garko ha pubblicato un post su Instagram. Sebbene non svelando la natura delle dichiarazioni che avrebbe rilasciato nella casa né gli argomenti che avrebbe trattato, l'attore ha assicurato che avrebbe detto tutta la verità: "Sono sicuro che sentirete delle cose che non vorreste sentire. Sono sicuro che molta gente giudicherà. Sono sicuro che tante persone non capiranno e sono sicuro che per me sarà dura, molto dura…Ma l’unica cosa che posso promettervi e che da me avrete solo la verità". In merito a questo post, Garko ha precisato: "Questo messaggio non è riferito solo a oggi e solo a stasera, sotto alcuni punti di vista non sarà possibile. L'ultima frase la voglio mantenere ma in futuro". Nel giardino, dove poco prima Adua Del Vesco aveva incontrato il suo fidanzato Giuliano, la gieffina ha incontrato Gabriel Garko. Lo ha ringraziato per essere stato accanto a lei nel momento più buio della sua vita. L'attore le ha fatto sapere di aver scritto una lettera e ha cominciato a leggerla con la voce tremante per l'emozione, fino a sciogliersi in lacrime: "Adua, Rosalinda, tu non mi hai mai chiamato Dario. Dario è un ragazzo che ho ucciso e che voglio riportare in vita. Lo so che alcune cose che sto per dirti saranno una sorpresa per te, non perché non le sapessi ma perché lo farò qui e ora. Noi due insieme abbiamo vissuto una bellissima favola, bella ma una favola. Nelle favole c'è chi le scrive e chi le interpreta e non so chi si diverte di più. Tu ti sei divertita? Neanche io. Ti voglio dire una cosa che ho fatto anche io. Devi prenderti cura della bambina che è dentro di te e capire in quale momento della vita l'hai persa. Io ho ritrovato il bambino dentro di me, il momento in cui l'ho abbandonato e gli ho fatto percorrere mano nella mano tutta la mia vita fino a oggi. Ti dico la verità. Io al bambino, i momenti brutti non glieli ho fatti vedere. Gli ho coperto gli occhi. Non farli vedere nemmeno tu alla tua bambina. Il mio bambino si è accorto che non ero felice. Ti ricordi quando a Sanremo ti ho detto che volevo fare di testa mia, lì ho iniziato a vivere, ho detto la mia vera età, ho ritrovato il bambino dentro di me. Da allora non sono più riuscito a indossare una maschera. Qui avete avuto una sirena, la sirena canta, ti ammalia e poi non ti lascia respirare più. Il mio bambino mi ha tolto la catena, lascia che anche la tua bambina la tolga a te. Abbiamo vissuto una bella favola e la vivrei mille volte. Ma era una favola. Ora però vorrei vivere la mia vita. Con te come amica, come è sempre stato. Esiste un'altra favola che ho vissuto da solo e che tanti chiamano il segreto di pulcinella. Il problema non è svelare il segreto perché ormai è il segreto di pulcinella. Ma vorrei avere la possibilità di svelare perché è stato un segreto. E ti dico l'ultima cosa. La verità scavalcherà ogni segnale di omertà". Adua Del Vesco e Gabriel Garko si sono abbracciati in lacrime. Signorini lo ha ringraziato: "Grazie perché credo non sia facile dopo tanti anni in cui tu hai costruito una favola di carta, che non aveva un riscontro nella tua vita e nella tua realtà. Ti sono grato. Non mi sono sentito di fermare quell'abbraccio per le distanze sociali. Voi avete vissuto una favola falsa, ma da oggi inizierete a vivere una favola vera". Garko ha concluso: "Da oggi Adua sarà nella mia vita in un altro modo e non ci perderemo più. Qual è il segreto? Devo spiegarlo a te Signorini? Credo che nel 2020 questa cosa non vada né capita, né discussa". Massimiliano Morra è intervenuto e si è complimentato con Garko per il suo coraggio. Patrizia De Blanck ha spiegato che in effetti nell'ambiente lo sapevano tutti. Il 3 ottobre, l'attore sarà ospite di Silvia Toffanin dove si racconterà.
Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2020. Il suo bambino interiore non ce la faceva più a sopportare la menzogna, a vivere intrappolato in quel «segreto di Pulcinella», a simulare finte storie d'amore, favole. Adesso il suo bambino interiore è felice: la verità è stata detta ed è stata pure conveniente, 60mila euro per un coming out studiatissimo e a puntate. La prima si è consumata venerdì sera al Grande Fratello Vip di Alfonso Signorini, su Canale 5, che ha fatto il colpaccio: ha convinto Gabriel Garko a entrare nella casa per confessare il suo segreto all'ex fidanzata, Adua Del Vesco, concorrente del gioco. Senza mai dire la parola gay o omosessuale, Garko era un fascio di nervi, emozionatissimo perché stava finalmente per rivelare al mondo la verità. «Il problema non è svelare il segreto, perché è un segreto di Pulcinella, ma vorrei avere la possibilità di dire perché è stato un segreto». La sua sofferenza era palpabile. L'attore di tante fiction Mediaset ha letto una lettera davanti alla ex compagna in lacrime: «Ho ritrovato il bambino dentro di me, gli ho fatto ripercorrere tutta la mia vita fino ad oggi. Il mio bambino nonostante tutto si è accorto che non ero felice. Dopo anni mi sento libero, ho voglia di vivere la mia vita con te come amica. La verità scavalcherà ogni segnale di omertà». L'attore spiega quale è stato il momento di svolta: «Ti ricordi quando a Sanremo ti ho detto che volevo iniziare a vivere? Ecco l'ho fatto. Ho detto la mia vera età, ho iniziato a vivere. Oggi non riesco più a trovare una maschera che mi stia bene...». Garko, 48 anni, da tempo lontano dalle fiction e dai ruoli da sex symbol, forse ha pensato che questo è il momento giusto. Anche perché il compenso non era da buttare via: secondo Selvaggia Lucarelli, 30mila euro per il mezzo coming out. Mezzo perché la seconda parte, quella esplicita, arriverà presto sempre su Canale 5. Meglio dividere e capitalizzare. Quando Signorini, in diretta, lo incalza per scucirgli parole più chiare, Garko lo stoppa: «Lo devo spiegare proprio a te? Non mi sembra il luogo adatto». Infatti. Alfonso spiega subito che il luogo adatto sarà lo studio di Silvia Toffanin, Verissimo, esattamente il giorno 3 ottobre. Ovviamente non gratis: altri trentamila euro - pare - per raccontare che, dietro l'immagine dello sciupafemmine, Garko ha vissuto tutta una altra storia. La Toffanin spera che l'affare Garko sia più redditizio di quanto sia stato per il Grande Fratello Vip, che nonostante il colpo e l'attesa delle ore precedenti, non ha vinto la battaglia degli ascolti contro Raiuno e Tale e quale show. Un risultato che ha stupito non poco visto l'entusiasmo con cui, ad esempio su Twitter, è stato vissuto l'evento. Vip, persone comuni, amici di Gabriel erano incontenibili. Gabriele Rossi, l'attore indicato come «amico speciale» di Garko, con cui è stato paparazzato varie volte, ha pubblicato un'immagine criptica: un burattino a cui vengono tagliati i fili e tre parole: «pace, bene, amore». Molti ritengono che simboleggi la libertà conquistata da Garko. reazioni Eva Grimaldi, storica ex fidanzata dell'attore è felice: «Evviva la libertà». Vladimir Luxuria spiega cosa c'è dietro il clamoroso gesto: «Gabriel Garko fa coming out: quanti attori sono costretti ancora a fingersi etero perché il loro agente li vuole sex symbol per donne minacciando altrimenti di non farli più lavorare?». Signorini, dopo l'intervento di Garko, ha colto l'occasione per raccontare il suo coming out. Aveva 39 anni. «Una domenica a casa dai miei a pranzo c'era anche mia zia e come piatto una gallina bollita. Ho rotto silenzio: sono innamorato. Mia madre: "Faccela conoscere". Io: "È un uomo". Mio padre, vero saggio, smorzò i toni: "L'ho sempre saputo"».
Verissimo, Eva Grimaldi: "Mi disse subito che era gay. E a letto...". Esplosiva rivelazione sulla storia con Gabriel Garko. Libero Quotidiano il 18 ottobre 2020. Tutta la verità di Eva Grimaldi, a Verissimo di Silvia Toffanin su Canale 5. Nella puntata di 17 ottobre, infatti, l'attrice si è sbottonata sulla storia con Gabriel Garko, storia costruita a tavolino, si è scoperto dopo il coming-out dell'attore. Ma davvero i due hanno solo finto? Non proprio: "Lo ho amato subito, il mio amore. Noi ci siamo amati. Due persone non devono andare a letto per avere l’amore perfetto", ha spiegato la Grimaldi. E ancora: "Io ho accettato che lui fosse il mio fidanzato". Insomma, la storia era nata a tavolino, circostanza che la Grimaldi assicura essere stata molto comune nello spettacolo soprattutto nell'epoca pre-social, "si chiama star-system", ha spiegato. Storia costruita, dove però, ribadisce la Grimaldi, c'era del sentimento vero. Tanto che riferendosi alla vicenda di Adua Del Vesco, ha aggiunto: "C’è una differenza tra le storie di Adua e Gabriel, di Adua e Morra. Io con Gabriel ci vivevo, mangiavamo nello stesso piatto". La Grimaldi, comunque, aggiunge: "Ho saputo fin da subito che era gay, me lo disse". I due, oggi, sono rimasti grandi amici.
Eva Grimaldi, la rivelazione di Lele Mora: "Ha avuto una storia con me. Tanti rapporti completi..."Roberto Alessi su Libero Quotidiano il18 ottobre 2020. Ciak si gira. Manca pochissimo e tra poco partiranno le riprese di una nuova serie Netflix. Sarà una sorta di Biopic, come si chiamano ora le serie biografiche, dedicate alla vita di personaggi noti, importanti. Un po' come quelle sulla Regina Elisabetta, Pier Paolo Pasolini e Maradona. Ciascuno nel suo settore un big. A breve, nell'elenco dei "big" dei Biopic Netflix rientrerà pure Lele Mora, così almeno racconta lui. Simpatico o antipatico, corretto o non corretto, non importa, di certo un "numero uno" come agente dei Vip. «Avevo scritto un libro sulla mia vita», ci dice Mora, «era pronto per essere pubblicato, racconta tutti i miei quarant' anni di carriera come agente. La mia storia, ricca di colpi di scena, è diventata interessante anche per una casa di produzione come Netflix. Loro mi hanno chiamato per saperne in più. Mi hanno chiesto: "Possiamo leggerlo?". "No", ho risposto. Vi mando delle bobine in cui ascoltare una voce narrante che racconta tutti gli episodi, gli intrecci della mia vita». Alla fine Netflix cosa ha risposto? «Ha detto: "Compriamo noi il libro, che però non uscirà. Ne faremo una fiction"», dice Mora. Così ora si attende una serie, in cinque stagioni, da mandare in onda nel giro di cinque anni. Sarebbero in corso i casting. Ma l'attore protagonista, quello che interpreterà Lele Mora adulto, pare essere già scelto: sarebbe nientedimeno che Anthony Hopkins, Oscar nel '92 come psichiatra cannibale del «Silenzio degli innocenti». «Meraviglioso», commenta Mora, «sono molto amico di Anthony, l'ho portato io a casa di Roberto Cavalli quando fu fatto un film che lo riguardava su Firenze, c'erano pure Ridley Scott con la moglie Giannina Facio». E chi sarà Fabrizio Corona? Col fotografo dei Vip, Mora ha sempre avuto un rapporto molto forte. Comunque in pole position per il ruolo di Corona ci sarebbe Michele Morrone, sex symbol esploso col film erotico polacco «365 giorni», distribuito sempre da Netflix. Sogno? Realtà? Vedremo. Ci saranno molti riferimenti a famosi di oggi, compresa Eva Grimaldi, di cui ora si parla in quando finta-fidanzata di Gabriel Garko. «Eva e Garko si son voluti molto bene», ci dice Mora, «ma non hanno avuto un rapporto completo, Eva però ha avuto tanti rapporti completi con me. Abbiamo avuto una vera storia, magari non d'amore, ma siamo stati insieme per un annetto. Imma ha detto che non ne sapeva niente, ma è così». Imma è Imma Battaglia, ora moglie della Grimaldi, e storica attivista Lgbt. Ce n'è quindi per tutti.
Vittorio Sgarbi a Live-Non è la d'Urso, confessione inaspettata su Gabriel Garko: “Eva Grimaldi mi ha tradito per lui”. Libero Quotidiano il 28 settembre 2020. “Se ho un aneddoto su Gabriel Garko? Ne ho diversi”. Vittorio Sgarbi ha spiazzato Barbara d’Urso, facendo rivelazioni destinate a fare scalpore per quanto riguarda il coming out del noto attore. Al Live della domenica di Canale 5, Sgarbi ha raccontato di essere stato fidanzato con Eva Grimaldi: “Era la fine degli anni ’80, l’inizio di quelli ’90 e lei era innamorata di me finché non mi tradì con Garko. Io presi atto di questa cosa, ma mi infastidiva che lei venisse da me per parlare di lui”. Poi il critico d’arte ha spiegato di essersi irritato per il fatto che la Grimaldi preferisse uno più giovane a lui: “Allora un giorno andammo da Costanzo, Garko fece vedere un calendario in cui era nudo e io dissi che era un calendario per uomini. Lui reagì con una certa irritazione, forse gli avevo rivelato una cosa che all’epoca neanche a lui era chiara”. Insomma, con una buona dose di esagerazione Sgarbi ha dichiarato di aver intuito l’omosessualità dell’attore già all’epoca, ma alla d’Urso interessava un altro tipo di scoop: “Quindi sei stato tradito dalla Grimaldi per Garko?”.
Barbara d'Urso su Gabriel Garko e Eva Grimaldi: “Abitavamo nello stesso palazzo, c'era anche Tarallo”. Libero Quotidiano il 28 settembre 2020. Barbara d’Urso ha parlato del coming out di Gabriel Garko al Live di Canale 5. Il noto attore ha deciso che a 48 anni era arrivato il momento giusto per rivelare il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito al Grande Fratello Vip. Conversando in studio con Vittorio Sgarbi, che circa 30 anni fa è stato fidanzato con Eva Grimaldi prima che questa lo lasciasse per Garko, è venuto fuori un aneddoto sul passato della d’Urso: “A quel tempo Eva, Gabriel e Alberto Tarallo abitavano nel mio stesso palazzo, ci incontravamo continuamente”. Quindi la conduttrice di Mediaset ha citato il nome che era emerso in relazione all’Ares Gate, ma senza fare alcun tipo di riferimento al caso scatenato da alcune conversazioni tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra al GF Vip.
Roberto Alessi, Direttore Novella 2000, per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2020. Noi lo conoscevamo bene. Lui è Alberto Tarallo, il grande produttore, quello che ora indicano, a mio parere a sproposito, Lucifero, quello della setta (setta?) di Zagarolo, indicato così dai media dopo le confidenze tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, al Grande Fratello Vip e un tempo star della scuderia Tarallo, che ha prodotto le fiction più amate di Mediaset come "Il bello delle donne" e "Pupetta Maresca". Adua con Tarallo ha fatto sette fiction, Morra altrettante, entrambi non hanno lavorato per nessun altro produttore. E oggi al GfVip lo accusano e vanno giù pesanti. Sì, noi lo conoscevamo bene Tarallo, mi dicono in tanti senza problemi, e alla fine, anche se ne parlano con i dovuti "ma" e "sebbene", non ne parlano certo come del capo di una setta satanica: anche se tutto può essere, non dormivamo a casa sua. E "noi" sono il mitico ufficio stampa Enrico Lucherini, che ha lavorato per la casa di produzioni di Tarallo, la Ares. Donatella Rettore, mito della musica pop italiana, amica di Tarallo da 40 anni, lo considera «un fratellone anche se ci siano persi da tanto». L'attore Francesco Testi, che mi dice che ha chiuso con lui dal 2015 perché si opponeva al suo amore per l'attrice, da anni sua compagna, bella e per bene, Reda Lapaite. Il fotografo Marco Rossi, che mi confessa che non lo incontra da decenni per scelta, ma che gli riconosce di aver lavorato tanto e bene con lui. L'elenco continua con Giovanni Ciacci («È un orrore che tutti si scaglino ora contro di lui, quando in fondo senza di lui oggi non sarebbero nessuno») e la lista continua anche con un nome mitico come Virna Lisi, che ho intervistato prima che morisse: «Ho lavorato bene, ruoli che mi sono piaciuti e che mi hanno fatta crescere, perché nel mio lavoro si cresce sempre se si fa con la mia passione», mi diceva dopo aver interpretato "Caterina e le sue figlie" e "Baciamo le mani" della Ares, fiction entrambe scritte da Teo Losito, compagno di Tarallo, morto suicida nel 2015. L'elenco dei "noi lo conoscevamo bene" si conclude con il mio nome, Roberto Alessi. Sì, perché, pur non dovendogli niente (ho sempre fatto solo il giornalista) pure io l'ho conosciuto bene, tanti anni fa, ma all'inizio degli anni Novanta l'avevo perso. Poi l'ho rivisto chiamato da lui per una proposta che non si fece mai. Presi da lui anche qualche servizio fotografico proprio con Gabriel Garko (superstar della sua scuderia, ora super ospite al GfVip) e la Del Vesco, sempre "sua", pubblicati poi da Novella 2000 con la mediazione di Enrico Lucherini, che seguiva gli artisti della Ares. Alberto Tarallo era considerato un grande produttore di fiction come "La signora della città", tratto da un romanzo firmato da Silvana Giacobini, e "L'onore e il rispetto". Ora si lega il nome di Tarallo alla parola setta (scritto dai giornali), si dice Lucifero (detto da Massimiliano Morra al Gf). Si adombra l'idea che tutto questo portò al suicidio (scritto da più parti) per Losito, ragazzo geniale, un tempo cantante, andato anche a Sanremo, poi sceneggiatore di grande successo, che ha scelto di andarsene nel modo peggiore, nel gennaio del 2019, sconfitto dal male di vivere. Tarallo lo adorava, anche se era lontano da smancerie ostentate. Eppure Morra e Del Vesco insinuano che gli atteggiamenti di Tarallo, che lo ha amato per 19 anni, abbiano inciso. Morra e la Del Vesco, entrati nella casa del Grande Fratello Vip come nemici per la pelle (erano stati insieme, poi lui s' era dato e lei lo aveva umiliano al loro primo incontro dentro alla Casa), poi, a poche ore dall'odio e dalle lacrime, improvvisamente amici, e parlando davanti alle telecamere del loro passato, hanno descritto quel mostro del loro scopritore, Tarallo, appunto, vuotando il sacco. Con Tarallo erano diventate star in tanti. Era successo a Gabriel Garko, a Pamela Prati, scoperta quando faceva la commessa, a Tinì Cansino, che aveva una figlia da mantenere e lui ne ha fatto la stella di Drive In, a Eva Grimaldi che lavava i bicchieri in un bar, e lui ne fece una celebrità, pure lei fuggita dalla scuderia di Tarallo dove la carriera era messa prima di tutto. Setta? Lucifero? Istigazione al suicidio? «Un'assurdità», mi dice Lucherini, «Andavo spesso da loro, non vivevo da loro, certo, ma possibile che non mi sia accorto di nulla?». «Ma puoi immaginare? Tarallo alle prese con le messe nere? Me lo ricordo, era un fratellone, buono, affettuoso», mi dice la Rettore. «Mi ricordo che l'ho conosciuto proprio con lei a Verona, al Festivalbar. Lui era il suo truccatore... Da truccatore era passato ad agente di Dalila Di Lazzaro. Poi un giorno mi ha parlato di "La signora della città", dal libro di Silvana Giacobini, che diventò una fiction di successo. Aveva conosciuto Losito che divenne il suo compagno e lo sarebbe rimasto per 19 anni, fino al suicidio di Teo». Con Losito Alberto creò la Ares «Tutto ciò è una vergogna», mi dice Ciacci, che prima di diventare un personaggio popolare in tv, è stato costumista e stylist, che ha conosciuto tutto "il giro" di Tarallo. «Probabilmente sarà stato tremendo lavorare con lui, pretendeva da quei ragazzi e ragazze che trovava in giro, il massimo, proibendo loro di vivere come erano abituati, e tentava di trasformarli in attori professionisti». Eva Grimaldi per ora preferisce il silenzio, che per alcuni è un assenso. Ripeto, non lo sentivo più dall'inizio degli anni Novanta... Sarà cambiato, certo, ed eravamo ormai più che scollati, visto che non ha mai voluto parlare con me (l'ho chiamato e gli ho scritto) nemmeno del suicidio di Teo... ma è possibile che quello che mi sembrava un uomo perennemente impegnato, perfino triste, quotidianamente alle prese con diete sempre traditrici, che si era creato un suo gruppo di lavoro ristrettissimo, una sorta di famiglia in cui nessuno era ammesso, sia diventato una sorta di Lucifero a capo di una setta? Magari mi ricrederò, ma ricordo che ci vuole poco per distruggere un uomo, soprattutto se è stato magari anche ingiusto come capo, e che ora conta molto meno per attori che ancora professionisti sono solo sempre meno giovani promesse.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 26 settembre 2020. Penso che Gabriel Garko sia una brava persona e che abbia parecchie cose da risolvere, ma che la prima cosa da risolvere non sia dirci che è gay, perché lo sappiamo e non ce ne frega niente. Il fatto che sia convinto che per qualcuno la sua storia d’amore con Adua Del Vesco sia stata una favola è un problema, al limite, ma anche qui siamo nella sfera delle questioni laterali. Il problema è che Gabriel Garko ha quasi 50 anni e ieri sera ha dimostrato di non aver capito ancora nulla di come gestire la sua vita. Sembra avere il problema – ricorrente – di chi è stato manipolato per anni e quando torna “libero” trova nuovi manipolatori che sostituiscono i precedenti. Magari meno evidenti, ma più subdoli e altrettanto invischianti. Non so bene chi l’abbia convinto a mettere in piedi quel teatrino al Grande fratello ieri sera e non so chi l’abbia convinto a fissare la seconda puntata a Verissimo – sebbene lo sospetti fortemente e sono giri da cui le persone sane stanno alla larga – ma forse è il caso che quello che qualcuno ha definito come il “coraggioso”, “eroico” Garko capisca una volta per tutte che lui è ancora parte dello stesso sistema che vorrebbe denunciare. Se è vero quello che si è raccontato, ovvero che in questa agenzia Ares di cui lui faceva parte accadevano cose terribili al momento narrate con una certa vaghezza, è anche vero che al vaso di Pandora è stato immediatamente messo il coperchio da qualcuno che decide cosa va in onda nella tv che ospitava Garko ieri sera. Sembra infatti che lui avesse chiuso un accordo per parlare al Gf di quello che accadeva nella Ares ma che sia stato silenziato come Signorini, la D’Urso e tutti gli altri a Mediaset. Ora, chi decide a Mediaset non penso occorra specificarlo. Al massimo, bisogna capire quale personaggio della famiglia sia intervenuto. Di sicuro, chi ha fatto pressioni su Mediaset ha un suo peso specifico e Ares, del resto, come scriveva ieri Giuseppe Candela, era una partecipata Mediaset. Ma torniamo a Garko. Alla luce di questa premessa, la decisione di raccontare in un programma Mediaset il presunto sistema Ares faceva già abbastanza ridere. A Signorini, poi, che è uno dei principali volti Mediaset, che dirige il settimanale della famiglia Berlusconi, che vanta amicizia con i Berlusconi. Ares è esibita perché parte di un sistema, perché era una società di Mediaset, perché Mediaset mandava in onda quei prodotti per la maggior parte agghiaccianti, con quegli attori agghiaccianti e certe sceneggiature agghiaccianti. Dunque, se proprio Garko ci voleva raccontare la sua terribile verità, quello era già il posto sbagliato. E lo era ancor di più alla luce della censura subita. Avrebbe dovuto dire: “Mi censurate? Allora sto a casa”. Invece, ieri sera ha detto: “La verità scavalcherà ogni segnale di omertà” ed era nella tv che gli ha impedito di dire la verità. E ci è andato facendosi pagare da quell’editore e da quella tv. Perché sia chiaro, Garko avrà pure voglia di liberarsi, ma lo ha fatto, secondo le mie fonti, alla modica somma di 30mila euro al Gf e 30mila a Verissimo. Poteva dimostrarci di non voler più far parte di quell’ingranaggio e di avere uno slancio onesto, senza alcun ritorno, se non quello della verità. Dice poi che il suo coming out lo farà in un programma “più consono” e già l’appuntamento in tv per svelare il segreto di Pulcinella fa abbastanza pietà. Ma che il programma più consono sia quello della TOFFANIN, è ancora più esilarante. Poteva andare in Rai o la 7, gratis. Magari dopo aver fatto una denuncia dettagliata in questura. E invece, va da chi lo zittisce. Che poi, diciamolo. Non è che Garko abbia scoperchiato qualcosa. Néè lui, né nessun altro. Adua ha detto quelle cose al Gf davanti alle telecamere senza alcuna consapevolezza di quello che stava scatenando, un po’ come Scrat quando toglie la ghianda dal ghiaccio. Il pentolone si è scoperchiato per caso, Garko se ne è sempre stato ben zitto, nonostante abbia un’età in cui un po’ di coraggio si potrebbe cominciare ad averlo. E se ne è stato zitto – assieme a tutti quelli che ora balbettano mezze verità- anche quando si è suicidato il suo amatissimo sceneggiatore Teodosio Losito. Aggiungo una cosa che ieri sera è scivolata così, senza che nessuno ci facesse caso, ma che è un messaggio gravissimo: dopo aver lasciato intendere che lui e Adua sarebbero stati manipolati e convinti a recitare un ruolo, Garko ha detto, appunto, che per rivelare “il segreto di Pulcinella” (ovvero che è gay) il Gf non è un luogo consono. E Signorini col sorriso ha annuito. Ora, non so se ci rendiamo conto: dire “sono gay” richiederebbe chissà quale contesto rigoroso manco dovesse dire “ho rifondato le Br” (ribadisco, chi se ne frega se è gay o se gli piace vedere le allodole che fanno sesso sui rami), in compenso l’eventuale esistenza di un sistema che manipolava, occultava, provocava anoressia, disagi psichici e dipendenze psicologiche, era una cosetta da reality in prima serata? Ha detto che andrà a denunciare, Garko, quindi ritiene che siano stati commessi dei reati. In che modo questo tema sarebbe da Gf mentre il suo coming out da contesti sobri? Io davvero mi domando se questo quasi cinquantenne si renda conto di essere ancora una volta mal consigliato e mal indirizzato, e che sia ora di crescere, di smettere di vivere la sua vita come fosse una fiction e di tentare finalmente di raccontare qualcosa di vero, nella maniera più coerente, meno recitata e meno paracula possibile. Perché è chiaro che della verità nella sua sofferenza c’è, ma è altrettanto chiaro che sta scegliendo la strada sbagliata – ancora una volta- per raccontarla. Infine, voglio dire un’ultima cosa. Finché Ares continuava a produrre fiction, a creare attori mediocri dal nulla a cui le Virna Lisi e Stefania Sandrelli davano credibilità, il sistema in fondo è andato bene a tutti. Ed era un sistema che viziava i suoi attori, con assistenti personali, autisti, copertine, narrazioni da grandi star. Stuoli di personaggi di serie b si facevano plasmare come soldatini di terracotta, sbiancature dei denti, chirurgia plastica, zigomo appuntito, nasi piallati. Basta vedere i volti dei Garko, di Adua, dei Morra e di altri. Si facevano cambiare i nomi, si lasciavano convincere perché ambiziosi o perché manipolati o entrambe le cose, questo non lo so. Certo è che fino al 2015/2016 quando la Ares ha iniziato la corsa verso il fallimento, questo sistema di terribili manipolazioni era qualcosa di cui non ci si riusciva a liberare. Finite le macchine con gli autisti, tutti hanno avuto un improvviso slancio di libertà. Adesso, se per Garko ed altri è venuto davvero il momento dell’Onore e il rispetto, bisogna che Garko dimostri di essere altro, rispetto al sistema. Di voler denunciare non con la letterina retorica in tv e il bambino per mano che gli tiene la busta col cachet, ma con una denuncia articolata e cazzuta alle autorità competenti, con un racconto fatto non agli stessi che gli mettono il bavaglio e che hanno foraggiato Ares per anni, ma sui suoi social o a giornalisti seri, con una narrazione asciutta, senza spettacolarizzazioni e senza un nuovo codazzo intorno di gente che ancora una volta gli dice dove, come e a quanto vendere la sua pelle. Perché in fondo chi ti usa chiedendoti di fingere una storia d’amore, non è così diverso da chi ti usa per alzare lo share. Forse è ora che Garko torni a essere di Garko. E che ci dica cosa è successo, non di chi si innamora.
Giuseppe Candela per Dagospia il 28 settembre 2020. "Sono stata in silenzio perché volevo capire fino a che punto arrivasse questa follia. Non ho mai sentito in vita mia tante falsità come in questi giorni", Manuela Arcuri rompe il silenzio. Quotidiani, settimanali, programmi televisivi l'hanno inseguita. Cosa pensa e cosa ha da dire l'attrice simbolo della Ares Film sul Tarallo-Gate? Parla per la prima volta in esclusiva a Dagospia.
Si aspettava le confessioni di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra al Grande Fratello Vip?
"Sta scherzando? Io non posso neanche pensare che le persone non abbiano riconoscenza nella vita. Essere riconoscenti è un dovere. È una questione di rispetto, quando una persona ti dà tanto non puoi voltargli le spalle così."
Le accuse sono precise, qualcuno arriva a parlare quasi di una setta.
"Una setta? Hanno detto cose pesantissime. Le ripeto, sono senza parole."
Si è mai trovata in situazioni imbarazzanti che l'hanno fatta sentire a disagio?
"Mai, mai, mai. Per quindici anni ho lavorato con Tarallo e non ho visto queste cose."
Aveva un contratto blindato che le poneva molti limiti?
"Assolutamente no, guardi io ho solo visto tanta generosità di Alberto Tarallo. Un grandissimo produttore che ha creato attori totalmente sconosciuti che venivano dal nulla. Li ha creati, formati, gli ha dato un nome e li ha fatti lavorare."
Se le dico Lucifero.
"Ma dai Lucifero, io sono allibita."
Anche a lei hanno chiesto di mentire sulla sua età?
"No, non mi è mai stato chiesto. Anche perché ci vuole poco a scoprire la vera età di una persona."
La sua vita privata è stata condizionata, le vietavano relazioni?
"No, assolutamente. Mai. Al massimo mi davano dei consigli, come può fare qualsiasi persona con cui lavori e cerca di proteggerti. Alberto è sempre stato un uomo molto protettivo, ti voleva aiutare sotto tutti questi aspetti. Non ha mai puntato una pistola alla tempia a nessuno."
Immagino lei sia stata spesso nella villa di Zagarolo.
"Ci sono stata tante volte, non dormivo lì ma a casa mia. Io non ho mai visto nulla di strano. Alberto è stato un grandissimo produttore, ha realizzato serie con ascolti record e grazie a Dio c'ero anch'io."
Come sono i vostri rapporti oggi?
"Sono una sua grande amica perché nella vita sono una donna riconoscente, anche se non lavoriamo più insieme perché non produce più. Questa bellissima collaborazione purtroppo è finita, perché le cose finiscono una mica può reagire così male?".
Il suo rapporto con Losito?
"Bellissimo. Giuro che ascoltare istigazione al suicidio (frase pronunciata dalla Del Vesco, ndr) mi infastidisce."
Ha mai avuto dubbi in merito?
"Quello tra Alberto e Teo era un grande amore, era un'unione totale nella vita e nel lavoro. Una fusione di due persone che portavano avanti il loro lavoro con amore. Teodosio per Alberto era intoccabile."
Brilli, De Sio, Grimaldi, Testi in qualche modo hanno preso le distanze.
"Non so come sono terminati i loro rapporti, alcuni sono andati via. Non tutti lavoravano con continuità."
Brilli e De Sio hanno però ammesso che si fingevano flirt.
"Io non ho mai finto un flirt e non mi è stato chiesto."
Neanche la relazione con Garko era finta?
"Ho avuto una relazione con Gabriel durata pochissimo ma era vera. Parliamo di tanti anni fa."
Al Grande Fratello Vip, dietro cachet, ha fatto coming out. Lo ha visto?
"Sono contenta che ora sia un uomo più felice. Sono contenta se si sente più libero, magari lo avesse fatto prima."
Adua ha sofferto di anoressia, molti altri di depressione.
"E la colpa è di Tarallo? Ma guarda un po' quindi è un mostro."
Magari non è successo a lei, può escludere che qualcosa sia successo ad altri?
"Io non vivevo lì, quello che è successo tra di loro lo sapranno solo loro. Posso però dire che Alberto non è come l'hanno descritto, ma quali pressioni psicologiche...".
Mi sembra molto provata.
"Si, è vero. Perché trovo assurdo quello che sta succedendo, non volevo parlare ma non posso più stare zitta."
Lorenzo Crespi dice che Adua andrebbe protetta perché in pericolo.
"Non parlo degli altri. Rischia la vita? Mi fa ridere."
Lei che ricordi ha di quegli anni?
"Lavorativamente parlando sono stati gli anni più belli della mia vita. Alberto Tarallo mi garantiva quasi due fiction l'anno da protagonista, di storie belle che mi hanno messo alla prova e mi hanno fatto crescere come attrice. Mi hanno insegnato tanto. È stato generoso, un grande cuore. Alberto si preoccupava di farti studiare l'inglese, a sue spese sue, di farti studiare recitazione, si metteva con te a leggere il copione. Teo, il perno della sua vita, scriveva ma lui produceva e gli attori li trattava come figli. Questo sarebbe Lucifero?".
Che rapporti aveva con Patrizia Marrocco e Luna Berlusconi?
"Patrizia stava in produzione, la incontravo quando andavo lì. Rapporti normali. Luna l'ho vista pochissimo, ha lavorato alla Ares per un breve periodo. Posso aggiungere una cosa."
Dica.
"Finché c'era il lavoro era tutto rose e fiori, c'erano i soldi. Crollato lui è facile voltargli le spalle."
C'erano relazioni tra gli attori e il produttore?
"Io non ero in quella casa, non posso escludere nulla. Dico che le persone in questione sono maggiorenni, libere di scegliere. Sono grandi, grossi e vaccinati. Le dico che in qualsiasi ambiente c'è qualcuno che fa delle avances".
A lei è capitato, non alla Ares, nella sua carriera?
"Produttori, registi. Certo, è la normalità. Sta a me mettere la persona al proprio posto. Se mi vuoi io lavoro altrimenti se vuoi una relazione io me ne vado a casa. Ognuno sceglie cosa fare, se uno accetta è consapevole. Non ci nascondiamo. E non mi piace chi prima accetta delle cose e dopo anni ci ripensa."
In questi giorni ha sentito Tarallo?
"Certo, io sto facendo questa intervista solo per lui. Difendo Alberto, non si fa così. Non si gioca con la vita delle persone. Mi sembra più di una gogna. Qui non parliamo di un matrimonio inventato, qua si gioca con la vita della gente. Parliamo di un grande produttore, di una tragedia che è successa un anno e mezzo fa, una cosa delicatissima. Al funerale di Teodosio c'erano tutti. Piangevano, capisce. Sembra un film."
Sembra una fiction Ares.
"Ho detto ad Alberto che questa è la fiction più assurda che abbia mai potuto girare, ha sorriso anche lui."
Fabiano Minacci per biccy.it il 28 settembre 2020. Adua Del Vesco nel 2016 ha scritto un post contro Manuela Arcuri, ma ora ci sono dei dubbi. Il vaso di Pandora sulla Ares Film è stato scoperchiato e nonostante Mediaset abbia deciso di non trattarlo, sul web l’argomento è ancora caldo. Il portale BlogTivvu ha infatti riesumato e portato online un vecchio post pubblicato da Adua Del Vesco su Instagram nel 2016 in cui, in modo piuttosto scurrile e volgare, ha offeso una sua collega senza mai nominarla. La destinataria del post, secondo la ricostruzione che ha fatto Selvaggia Lucarelli, è Manuela Arcuri: “Cara Collega, che ti nascondi dietro un profilo falso per gettare fango su di me e sull’uomo che amo, sei stata sgamata. Dopo decine di insulti, di menzogne schifose, di cattiverie, ho deciso di reagire: ho dato mandato agli avvocati di procedere legalmente nei tuoi confronti. So che stai attraversando un periodo buio: dopo le tue ultime apparizioni televisive, la tua carriera è alla frutta. Eri penosa, grassa e cellulitica. Strano. Il tuo BOY-FRIEND non è un PERSONAL TRAINER? Magari nella sua professione non vale niente, proprio come te! Cara collega, uscita dal giro fortunato delle FICTION, non ti rimangono che i REALITY per sfruttare quel briciolo di popolarità che ti è rimasto. Hai superato i trenta già da un po’, la gelosia ti divora perché a parte ‘L’isola dei morti di fama’ non ricevi altre proposte. Il consiglio che ti do: cerca la tua felicità altrove, non invidiare quella degli altri! Un’ultima cosa: hai trovato un rimedio per il tuo alito puzzolente? Trovalo, altrimenti continueranno a chiamarti bocca di merda. A presto in tribunale, Adua”. Un post che, alla luce di quanto visto al Grande Fratello Vip, sembrerebbe essere molto distante dal linguaggio e dal carattere di Adua Del Vesco. All’epoca Selvaggia Lucarelli ha commentato così: La nuova fidanzata (ahahahah) di Garko, l’attrice Adua Del Vesco, ha scritto un post su instagram di quelli indimenticabili. La destinataria è palesemente la Arcuri, che apprendiamo essere grassa, vecchia, cellulitica e pure col fiato di un grizzly. Amo queste diatribe di alto livello, specie quando un’attrice ventunenne che si dichiara “fidanzata di Garko” accusa un’altra collega di essere falsa. Una battaglia per la verità commovente. Oggi il post firmato Adua Del Vesco contro Manuela Arcuri è tornato online e Selvaggia – a posteriori – ha così commentato: “Chissà se qualcuno la obbligava a scrivere anche questo…” Ed il dubbio, effettivamente, c’è. Il profilo Instagram di Adua Del Vesco ora si chiama semplicemente così, ma fino ad aprile il nickname è stato quello del post sull’Arcuri.
Roberta Dalmata per ilgiornale.it il 28 settembre 2020. A Live Non è la d’Urso, viene mostrato il video in cui Gabriel Garko chiese la mano di Adua Del Vesco attuale concorrente del Grande Fratello Vip. La cosa avvenne durante una delle trasmissioni di Piero Chiambretti che organizzò la cosa per gioco durante un’intervista ad Adua coinvolgendo quello che allora tutti pensavano fosse il suo fidanzato. “Alla luce di quello che è successo ora, la storia assume tutto un altro significato”, racconta Barbara ricordando anche l’intervista all’attore fatta scorso anno, “Quando già c’era nell’aria un cambiamento in lui, cosa su cui io ovviamente non ho indagato, ma lui già stava facendo il percorso che poi lo ha portato a prendere la decisione durante la puntata del Grande Fratello Vip a fare coming out”. Una rivelazione che ha commosso molti telespettatori, anche se la notizia della sua omosessualità, come lui stesso ha detto chiamandolo “il segreto di Pulcinella” circolava negli ambienti del mondo dello spettacolo ormai da anni. Proprio su questa cosa è Vittorio Sgarbi, presente in studio, a raccontare un particolare inedito di molti anni prima. Sgarbi, dando un’ulteriore “notizia choc”, rivela di essere stato fidanzato con Eva Grimaldi. Ma che questa, una volta conosciuto Gabriel Garko, se ne invaghì tanto da lasciare il critico d’arte per correre nelle braccia del bellissimo attore. “La cosa - racconta - mi ferì moltissimo, perché lei mi aveva preferito ad un uomo più giovane e più bello di me”. Poco tempo dopo, Sgarbi e Garko si incontrarono sul palco del Maurizio Costanzo Show, dove Gabriel era andato a presentare un suo sexy calendario. “Quando lo vidi, dissi subito che era un calendario fatto più per gli uomini che per le donne. Lui aveva un corpo statuario, plastico era proprio una cosa lampante. La cosa che mi stupì però fu la reazione di Garko che forse in quel momento non sapeva o non era ancora pronto e questa mia dichiarazione lo infastidì molto”, dice il critico d'arte. Intanto all’interno della casa del Grande Fratello, Adua del Vesco, quella che per anni è stata la finta fidanzata di Garko, dopo il coming out dell’attore ha in qualche modo “subito” una serie di domande da parte di tutti gli abitanti della Casa curiosi di sapere i retroscena di quello che è successo. Ma lei, ogni volta che l’argomento viene preso cerca di tagliare corto creando anche il disappunto di molti come ad esempio Fulvio Abate che al suo tagliar corto ha abbandonato la discussione alzandosi e andandosene.
Lettera di Ursula Andress a Dagospia il 28 settembre 2020. Da tempo non rilascio interviste e non mi espongo pubblicamente ma questa volta sento che devo parlare. Voglio parlare di un amico, un gentiluomo. Conosco da molti anni il signor Alberto Tarallo e conoscevo anche il suo compagno di una vita, Teodosio Losito: una coppia esemplare. Ho frequentato assiduamente la loro casa. La prassi era una buona cena e poi tutti insieme a guardare un film. Durante quelle serate ho avuto modo di conoscere anche Morra e la Del Vesco che, insieme ad altri, mi sembravano completamente a loro agio in quella situazione. Trovo ripugnante che pensando di restare sulla cresta dell'onda, certi personaggi inventino storie assurde come quelle di una setta dedita a Lucifero e altro ancora. E' ignobile che certe trasmissioni possano infangare la reputazione di una persona come Tarallo solo per ragioni di audience, ma sono sicura, anzi so per certo, che i fatti gli daranno ragione.
Da "blitzquotidiano.it" il 28 settembre 2020. Franceska Pepe ha svelato alcuni particolari del suo flirt con Vittorio Sgarbi ai coinquilini del Grande Fratello Vip, sottolineando che fra loro non c’era stato in realtà nulla. “Eravamo a Sanremo ad una mostra… A quel punto una giornalista gli ha chiesto “che bella, ma è la tua fidanzata?” e Sgarbi ha risposto “vorrei che lo fosse, comunque sì è la mia fidanzata”. “E’ stata una cosa montata ad hoc, un servizio di gossip come tanti altri – ha ribadito la modella -. Io non so neanche come si sia creato tutto questo. Era una battuta”. Ospite a Live Non è la D’Urso, Sgarbi ha però dato un’altra versione dei fatti: “Nulla di organizzato a tavolino. Venne verso di me una donna molto bella e fu totalmente libera nell’amarmi. Mi nascosi dietro un angolo con lei e la cosa diventò una parentesi affettuosa che durò fino alle sette del mattino”. “Io le chiesi di venire a dormire da me ma lei disse di no. Finì tutto lì, la incontrai nuovamente su un aereo tempo dopo, ma non ci fu nulla” ha continuato Sgarbi. “Era un’intimità così stretta che sembrava un fidanzamento – ha aggiunto il critico -. Poi ci ha incontrato una giornalista e le abbiamo detto che eravamo fidanzati. Un colpo di fulmine non legato alla mia notorietà. Lei poi mi chiese di far rimuovere quell’articolo che parlava di noi, ma alla fine le è servito per entrare al Grande Fratello…”.
Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 30 settembre 2020. "In virtù di quell'istinto depravato che ci fa talvolta mettere il naso sotto le coperte per sentire l'odore di un peto" (Gustave Flaubert), l’Italia social-televisiva non si è persa la puntata del “Grande Fratello” dove due Vip (per mancanza di prove), Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, si sono lasciati andare a dei racconti shock sui loro esordi in cui entrambi sono stati ‘’soggiogati’’ da una persona cattiva (“Lucifero in persona” dice Morra) che li ha convinti a staccarsi da ogni tipo di affetto, motivo per il quale i due poverini hanno dovuto affrontare poi un percorso di psicanalisi, zen e teologia. Morra ha proseguito: “Tu non hai idea della cattiveria di quella persona“. E la Del Vesco replica: “Io ce l’ho idea perché l’ho vissuta sulla mia pelle, ma tante cose forse il mio cervello manco ci arriva… Per questo io mi incazzo, perché vorrei… io vorrei giustizia, vorrei giustizia“. Il “Lucifero” dietro tali sibilline confessioni si chiama Alberto Tarallo, a partire dalla seconda metà degli anni ’90 uno dei più famosi manager e produttori di fiction televisive ("Il bello delle donne’’, "L’onore e il rispetto’’, "Il sangue e la rosa’’, tanto per citarne solo alcune), tutte interpretate (con una sola espressione) dalla sua scoperta e amante Gabriel Garko. Grande seguace dello star-system di Hollywood, dove i Rock Hudson e le Greta Garbo nascondevano nell’armadio la loro omosessualità e convolavano a nozze e la lesbica Katherine Hepburn e il gay Spencer Tracy facevano coppietta felice, Tarallo si inventò la mascolinità di Garko facendolo accoppiare (nei servizi fotografici per rotocalchi familiari) prima con Eva Grimaldi, poi con Manuela Arcuri, infine con Adua Del Vesco. Naturalmente tutti personaggi che facevano parte della sua casa di produzione Ares Film, che oggi Adua liquida come “setta”. La verità è un’altra, molto più amara: il cosiddetto “Lucifero” aveva la fila di fanciulle e bonazzi davanti alla porta di Ares Film, tutti affamati come lupi della steppa di acchiappare una comparsata, di apparire in un articolo, di farsi fotografare con le tette all’aria, divorati dalla libidine di diventare famosi. Una Babilonia di scosciate stelline e di tartarugati stalloni che, davanti alle inventive ‘’sceneggiature’’ dell’Alberta (come veniva chiamato nello show-biz Tarallo) non ha mai innalzato nessuna resistenza morale, pronti a tutto pur di scardinare la porta del successo. Se qualche anima pia osservava che non si può recitare con una semi-paresi facciale, o ballare con il girello o cantare con effetto lavabo ingorgato, rispondevano: “Esticazzi! Se ce l'ha fatta lei, ce la farò anch'io!". Così, per ben tre anni la signorina sicula Adua Del Vesco, che oggi frigna di “setta”, era ben consapevole e strafelice di “recitare” il ruolo della ‘’fidanzata felice’’ del gay Gabriel Garko. Ma salvo rare eccezioni, il termine celebrità ha sempre più la durata del chewing-gum. Quando poi svanisce il sapore zuccherino, la gente lo sputa. Avanti un altro. Fallita un anno fa la società Ares Film di Tarallo, suicidatosi il suo socio e grande sceneggiatore Teo Losito, la scuderia dei Garko, Morra, Adue etc. è sparita in un cono d’ombra, come in un dopoguerra. Certo che è dura, durissima, dopo salamelecchi e aggettivi lecca-lecca, dopo fiumi di inchiostro versati, dopo infuocati entusiasmi, diventare una gallina lessa, sbattuta in un "carrello di bolliti misti", tra pollastrelle del varietà, showgirl-cotechino, soubrette che dalla zampata sono passati allo zampone di Modena. E oggi, ripescati dal luciferino Signorini, questi “celebro-lesi” balbuzienti sputano sul piatto dove hanno mangiato a quattro ganasce solo grazie al talento da Zanuck della mutua dell’Alberta, con Garko con il cappello in mano a racimolare l’ultimo sostanzioso cachet televisivo confessando che la storia con Adua era solo “una favola”. Tarallo torna, tutto è perdonato.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 30 settembre 2020. Francesco Testi ha lavorato con Alberto Tarallo e la Ares Film dal 2010 fino al 2015, recitando in alcune fiction di successo quali “Caterina e le sue figlie”, “Il peccato e la vergogna”, “L’onore e il rispetto 3”, “Furore”. Era destinato, secondo molti, a diventare l’erede di Gabriel Garko e ha avuto il suo momento di notorietà, poi qualcosa è andato storto. Eppure, nonostante la frattura con Tarallo ci sia stata e con qualche rancore, accetta di rispondere alle domande sul ciclone che ha travolto il suo ex agente con un certo distacco, un italiano invidiabile e senza giudizi emotivi.
Cosa c’è di vero in quello che Adua ha detto nella casa del Grande Fratello Vip e che Garko ha lasciato intendere?
«Premetto una cosa: parlo della mia esperienza, quindi quello che vale per me può non essere stato lo stesso per tutti: quasi niente».
Allora partiamo dall’inizio: tu quando sei arrivato in Ares?
«Intanto precisiamo: la Ares era una casa di produzione, poi c’era la “Numero chiuso Agency”, che ne era una sorta di costola, un’agenzia che metteva sotto contratto gli attori che recitavano nelle produzioni Ares. Io sono arrivato nel 2010».
Adua e Morra mi dicono vivessero in una dependance nella villa di Tarallo a Zagarolo, tu?
«Mi sono trasferito da Roma a Zagarolo per risparmiare sull’affitto e stare lì dove c’era la gente con cui lavoravo, ma ho affittato una mia casa e stavo per i fatti miei. Un paio di anni sono stato nella ex casa di Eva Grimaldi, che è di fianco alla villa di Tarallo. Poi mi sono comprato casa a Zagarolo».
Ma vi trasferivate tutti a Zagarolo? Descritta così, questa cittadina sembra una specie di Neverland, di parco giochi di Tarallo.
«Garko viveva lì, in una villa. Anche Ursula Andress, Rossella Falk, Angelo Frontoni. E so che la Arcuri lì aveva comprato un terreno…»
Era davvero una setta?
«Solo a sentire la parola mi viene da ridere, è una cosa ridicola».
E allora perché Adua lo ha detto e Garko ha lasciato intendere che ci fosse una forte manipolazione psicologica, ha parlato della loro storia finta come di una violenza imposta?
«Credo che la ragione vada ricercata nella loro testa. Negli anni in cui io sono stato lì a me è stato chiesto di inscenare solo una cosa, e cioè la finta scazzotatta con Morra per gelosia, cosa di cui mi vergognavo pure».
Chi l’aveva ideata?
«Lucherini, che era l’ufficio stampa di Ares Film e, come risaputo, un amante del cinema di una volta, delle paparazzate, delle storie create a tavolino. Mi sono turato il naso e l’ho fatto, ma nulla di così terribile. Era un po’ una vecchia roba alla Rock Hudson. Tarallo e Lucherini hanno sempre avuto quel riferimento lì delle produzioni americane, nella gestione degli attori e delle loro vite».
A te nessuno diceva come gestire la tua vita?
«Non ho mai subito pressioni e con me non c’era bisogno di mettere in piedi delle recite, non ne avevo bisogno. Forse, e dico forse, ha fatto comodo anche a Garko fingere di essere altro, perché ora siamo nel 2020 e ragioniamo da progressisti, che uno sia etero o gay non ce ne frega nulla. Quindici anni fa un attore bellissimo come lui, amato dalle donne, forse raccontando tutto non avrebbe avuto la stessa carriera. Forse è stata una scelta condivisa e una tutela della sua professione».
Però qualcosa deve esser successo, se Adua è diventata anoressica, no?
«Le lacrime non possono essere finte. Sarebbe interessante parlarle, perché , che io sappia, è l’unica ad aver avuto problemi così gravi, quindi qualcosa nella sua testa è scattato sicuramente. Il punto è anche capire da dove arrivava, cosa c’era a monte. Il suo percorso io non l’ho vissuto perché lei è entrata lì quando io stavo andando via. Così come del suicidio di Losito non posso dire nulla perché non lo vedevo dal 2015».
Perché Morra non ha detto ad Adua: “cosa stai dicendo? Quale Lucifero?"
«Penso che Massimiliano Morra possa avere dei semplici rancori nei confronti di Alberto Tarallo, tutto qui, ma se è per questo li ho anche io».
Perché?
«Ho cominciato ad avere problemi lì quando sono venuto meno alla regola che potevi scoparti chi volevi ma non dovevi avere relazioni fisse perché distraggono dal lavoro. Una cosa che può essere moralmente contestabile, ma a me all’inizio non ha pesato più di tanto».
In che senso?
«Perché all’inizio era quello che volevo anche io, mille donne ma mai una storia seria, quindi non l’ho mai sentita come un’imposizione. Questo finché non mi sono innamorato di Reda, la mia fidanzata. Lì è nato il problema. Il rancore ce l’ho perché, dopo che ho fatto il protagonista del primo “Furore”, non mi avrebbero proposto di fare la seguente stagione morendo la prima puntata, se non mi fossi fidanzato seriamente».
Be’, non è bello.
«Sì, d’accordo, infatti posso avere del rancore, ma non butto merda addosso perché in quel piatto io ho mangiato.
Ok, però un’agenzia non ti dovrebbe dire come devi vivere fuori dal lavoro la tua vita. Così suona come un ricatto emotivo.
«Vero, ma se non ti andava bene te ne andavi, non è che ti pressassero o ti obbligassero. Magari Adua era più fragile, io sono più freddo, sono quadrato, può essere che su alcune personalità un certo metodo abbia attecchito in modo diverso. Io non mi sono mai disperato perché non lavoravo più con loro».
Quando te ne sei andato da lì, come vi siete lasciati con Tarallo?
«Ciao e arrivederci. Ripeto, io ero uno quadrato, non mi sono mai fatto neppure scrivere le risposte alle interviste come altri, facevo di testa mia».
In agenzia ti facevano delle avances?
«Assolutamente no».
Qualcuno ha collegato la presunta storia della setta a vicende di macchine sabotate, della villa saltata in aria durante il Sanremo di Garko. Supposizioni molto azzardate.
«Se ti bevi la storia della setta, allora tutte le cose che sono accadute in quegli anni possono diventare inquietanti, ma è tutta una forzatura. Per dirti, qualcuno ha tirato fuori la storia della mia depressione associandola “alla setta” perché rilasciai un’intervista a Dipiù sul tema. Ma io mi riferivo alla mia depressione adolescenziale! Non c’entra nulla col periodo in Ares».
Tarallo ti ha contattato in questi giorni?
«No. L’ho chiamato io per chiedergli cosa stesse accadendo, lui mi ha ringraziato per le cose che abbiamo scritto io e Reda. Per difenderlo si è scomodata perfino Ursula Andress, che non parla da anni».
Avrà chiamato a raccolta gli amici perché lo difendano, nulla di male.
«Può essere. Però ti dico una cosa: quando si apre una fogna ci si trovano tante cose, spesso non attinenti all’origine della questione, che in questo caso mi pare sia “la favola” di Garko e Adua. Su quello non mi esprimo, però ad esempio lei ha detto che non vedeva più la famiglia, che l’avevano allontanata. Io quando ero con Tarallo salivo di più a casa a Verona che ora. Mia madre venne a trovarmi anche a Zagarolo».
Qualcuno insinua che chi non parla, non parla perché potrebbero esserci dei ricatti. Tu sei ricattabile?
Ma figuriamoci. L’unica rottura di coglioni è che non voglio finire in quel calderone. Io sono andato via perché ero innamorato, e ho fatto bene. Reda è la cosa migliore che mi sia capitata. Anzi, ti dico un’altra cosa che la riguarda».
Cosa?
«Reda, la mia fidanzata, è la famosa attrice su cui Lory Del Santo ha ricamato in tv dicendo che era sparita dopo che lei le aveva fatto fare un provino, cosa che ha alimentato la storia della setta, facendo intendere chissà cosa. Ha detto anche che Reda avrebbe cambiato il numero di telefono, insinuando che fosse stata plagiata da chissà chi. Il motivo per cui Reda ha cambiato numero non lo posso dire, ma sono cose riservate che non hanno anche fare con Tarallo o l’agenzia. E non c’era nessun mistero, posso garantirlo».
Guadagnavate bene con Tarallo?
«Io per un certo periodo ho guadagnato discretamente, poi certo non sono arrivato a guadagnare le cifre di Garko. Se c’è uno che si è arricchito è lui. Gabriel è stato un esperimento clamorosamente riuscito, creato da quel sistema lì. Poi, sai, quando è nato lui c’erano solo i giornali, oggi i social hanno rovinato il mercato. Tarallo e i direttori creavano copertine finte o vere, si creava il mito del sex symbol, poi la gente che ne sapeva di cosa fosse vero o no. Anche cambiare i nomi e le età, prima si poteva fare, ora no, dopo 5 minuti tutti sanno tutto».
C’è chi parla di sesso in qualche villa, di cose estreme, racconti da setta insomma.
«Vomito solo a sentir parlare di ‘sta roba. Era una vita anche noiosa. E io non ho rinunciato a nulla, neanche al mio vero nome, ho vissuto la mia vita».
Se è tutto vero, allora perché Garko è finito al Grande Fratello Vip lasciando intendere altro?
«Non lo so, però la sua narrazione ha valore almeno quanto la mia, poi puoi scegliere a cosa credere. Se non mi espongo su Adua non è perché nasconda delle cose, è che davvero io non c’ero quando è arrivata. E io non vado a prendermi il gettone di 2/3.000 euro per andare in tv a raccontare cose che non ho visto o ad esprimere giudizi su altri dell’agenzia, mi fa schifo. Sto parlando ora di me, gratis».
Magari si sono incrociate persone fragili e persone con un forte ascendente, un mix tossico.
«Questo è plausibile, ma appunto forse i problemi c’erano a monte, magari c’era una forte emotività di base. Di sicuro per Adua ci sono cose sospese, vedo che piange sempre. Tarallo, dal canto suo, ha fatto le sue mosse legali e loro lì dentro non si rendono conto del vespaio che stanno provocando».
Cosa pensi di Garko e della sua scelta?
«Non mi riguarda».
Gli stanno dicendo di nuovo come deve gestire la vita?
«Temo che si riproponga la stessa modalità del passato, col fine del guadagno».
Mi dici cosa ti ha detto Tarallo davvero?
«Gli dispiace tutta questa situazione, di essere messo alla gogna. Dice: “Io ho le spalle larghe, sono incazzato nero ma ho un’età e mi difenderò”».
Dagospia il 6 ottobre 2020. Eva Grimaldi, in un'intervista esclusiva sul settimanale Chi in edicola da mercoledì 7 ottobre, svela tutta la verità sul suo rapporto con Gabriel Garko: «La nostra storia è stata creata a tavolino quattordici anni fa. Non c'è mai stato sesso, lui aveva bisogno di me e io l'ho sempre protetto. Ma c'è un amore profondo che ci lega, ancora oggi, e che va al di là della sfera fisica... lo avrei addirittura sposato o ci avrei fatto un figlio. I suoi pianti in tv di questi giorni? Sono solo il risultato delle sofferenze represse di una vita». E la Grimaldi sul suo di percorso di vita racconta: «Ho sempre desiderato fare l'attrice e ho fatto di tutto per realizzare il mio sogno. Ho iniziato a frequentare brutti giri a Roma e assumevo anfetamine per restare magra, non mangiavo e non dormivo praticamente più e mi sono rifatta il seno otto volte. Ero dislessica e un po' balbuziente, ma ero talmente bella che nessuno ci ha mai fatto troppo caso».
Da liberoquotidiano.it il 2 ottobre 2020. Gabriel Garko, dopo il suo intervento settimana scorsa al Grande Fratello Vip dove ha fatto comin-out sulla sua omosessualità, torna a parlare dell'argomento a Verissimo (in onda domani, sabato 3 ottobre, su Canale 5 e condotto da Silvia Toffanin). "Ho avuto la mia prima vera storia d’amore con un ragazzo di nome Riccardo. Sono stato con lui undici anni. Vivevamo insieme, ma era una situazione falsata. Quando venivano a cena gli amici, poi lui alla fine della serata faceva finta di andare via per poi tornare. Quando uscivamo o andavamo in vacanza eravamo sempre in gruppo”. La Toffanin gli chiede come mai abbia deciso di fare coming out solo adesso: “Sono stato talmente tanto sul set che alla fine mi sono messo addosso un personaggio. Se hai un certo orientamento sessuale non puoi fare questo mestiere, il sistema te lo impone e quindi devi far finta di averne un altro. All’inizio l’ho preso come un gioco, poi giocando mi sono trovato dentro una macchina che mi ha incastrato e il gioco non è poi più stato così divertente. Ma oggi mi sono tolto la maschera, anzi lo scafandro". Un segreto condiviso solo con la sua famiglia: “I miei genitori e le mie sorelle non mi hanno mai giudicato per le mie scelte, anzi mi hanno sempre protetto e coperto. Prima di iniziare a fare questo mestiere ho sempre vissuto bene la mia sessualità, in casa lo hanno sempre saputo. Oggi Garko è innamorato: “Mi sto frequentando con una persona, con cui mi trovo molto bene", conclude.
Fabiano Minacci per biccy.it il 2 ottobre 2020. A distanza di un po’ di giorni dal coming out di Gabriel Garko al Grande Fratello Vip, l’attore pochi minuti fa è stato immortalato per le vie di Milano (più precisamente in Via Manzoni) in compagnia di un misterioso ragazzo. Secondo il mio lettore che ha scattato le foto, Gabriel Garko e l’altro ragazzo stavano vedendo la vetrina di una gioielleria.
Gabriel Garko ha fatto coming out su consiglio di Alfonso Signorini. Alfonso Signorini – via Casa Chi – ha parlato del coming out di Garko. “Convincerlo ad aprirsi e fare coming out non è stato facile. Però credo che lui ne avesse molto bisogno. Soprattutto dopo aver visto quello che era successo dentro la casa ha voluto fare chiarezza e liberarsi anche di un peso. Lui non riusciva più a vivere bene, a stare dentro il personaggio che si era costruito in questi anni. Si è definito un bambino ed è vero. Piange sempre in questo momento, ha sbalzi d’umore improvvisi. Deve prendere confidenza con Dario. Però mi ha fatto molto piacere una cosa. L’altra mattina, subito dopo il coming out mi ha detto "in questo ultimo mese ho ricominciato a guardarmi allo specchio, prima non ci riuscivo". Infatti c’era la voce che lui non amava gli specchi ed era vero”.
Da iltempo.it il 5 ottobre 2020. Alberto Tarallo dice la sua verità sull'Ares-gate. Il capo dell'agenzia finita al centro della cronaca dopo le accuse arrivate durante il Grande Fratello Vip dopo le conversazioni tra i due concorrenti Adua Del Vesco e Massimiliano Morra ha deciso di intervenire a Non è l'Arena, il programma di Massimo Giletti su La7. Il re delle fiction, chiamato Lucifero dai due attori lanciati dalla sua scuderia, ha detto di voler parlare anche per difendere la memoria del suo compagno, Teodosio Losito, morto suicida, la cui scomparsa è stata tirata in ballo tra le accuse di gestire la Ares come una setta. Dietro alle accuse di Adua e Massimiliano "credo ci sia rancore perché dopo la Ares non hanno lavorato molto. Credo che qualcuno abbia lavorato su questo rancore per colpire me. Ho dei sospetti, ci stiamo lavorando anche insieme al mio avvocato", ha detto Tarallo. Al centro delle accuse anche la villa di Zagarolo di Tarallo, dove vivevano in due dependance i due attori, che hanno descritto un ambiente senza libertà parlando addirittura di una setta. "I ritmi di lavoro a volte erano pesanti ma qual era la setta? L’unica volta che mi sono arrabbiato con loro è quando gli ho dato da leggere Il giovane Holden e Il piccolo principe e mi hanno preso in giro perché mi hanno detto di sì ma poi non hanno letto niente". "Mi ha stupito sapere che erano fidanzati, La storia d'amore di Adua e Massimiliano era finta, inventata da me, Lucherini e Mayer", ha detto Tarallo. "Adua mi accusa di non averle fatto vedere la famiglia? Ma se ho prestato una casa alla madre per venirla a trovare", ricorda il produttore. Giletti allora chiede perché Adua lo accusa. "Credo sia stata manipolata". E ha continuato: "Poi stata lei a insistere con Teo perché mandassi via Massimiliano". Tarallo si commuove ricordando il compagno, una relazione durata più di vent'anni. Per le parole di Morra su Losito "provo schifo, ribrezzo, perché lui è stato cacciato per una cosa che non voglio rivelare, accuse gravi da parte di Adua". "Lucifero eccetera è folklore, posso perdonare, ma non posso tollerare quello che hanno detto su Teo", continua Tarallo. Ma cosa hanno detto Del Vesco e Morra del suicidio? Adua al GfVip ha parlato di "istigazione al suicidio". "Non posso tollerarlo. So chi c'è dietro queste parole. Vergognati, fai schifo", è l'accusa lanciata da Tarallo. Il re delle fiction si è poi commosso raccontando l'ultima volta che ha visto il suo compagno. E con la voce rotta dalle emozioni ha letto la lettera lasciata da Losito prima di togliersi la vita. Parole d'amore che fanno esclamare Tarallo: "E questa persona avrei istigato il suicidio?".
Estratto dall'articolo di Francesco Canino per ilfattoquotidiano.it il 5 ottobre 2020. “Al Grande Fratello si è parlato di istigazione al suicidio», gli ricorda Giletti. Un’accusa grave e infamante, che spinge il produttore ad aprirsi a una confessione intima e spiazzante, ripercorrendo gli ultimi giorni della vita di Losito. “Provo un senso di ribrezzo acuto e doloroso. Teo era depresso da un anno, ma il suicidio è stato un lampo a ciel sereno. La mattina in cui si è tolto la vita ci siamo visti e abbiamo lavorato, negli ultimi giorni era rilassato e sembrava che il peggio fosse finito. “Ricordati che io ti amo e ti amerò per sempre”, sono state le sue ultime parole. È stata la sua ultima dichiarazione d’amore”, rivela Tarallo. Che, a sorpresa, legge poi la lettera di addio di Losito, una missiva straziante in cui lo sceneggiatore spiega l’epilogo doloroso. “È una mia scelta e tu non hai colpe. Sono io che ha rimorsi e rimpianti. È un anno che lottiamo contro i mulini a vento, ci hanno preso per il culo, hanno usato una cattiveria più estrema per farmi e farci del male e ancora non riesco a capirne il motivo. Come da prassi si è creato il vuoto intorno a me, a noi. Il carro non è più quello dei vincenti. A chi abbiamo dato tutto di noi stessi ci ha sputato in faccia e oggi giudica e siamo dei rami secchi. Che pena. Sono stanco di vivere nello squallore degli altri e sentirmi fuori luogo in imbarazzo con te o per me stesso. È una vergogna insopportabile a volte ingestibile”.
Da ilmessaggero.it. Durante l'intervista con Massimo Giletti Alberto Tarallo ha svelato: «La storia di Adua e Massimiliano era finta e studiata a tavolino da me, Enrico Lucherini e dal compianto Sandro Mayer. Adua ci ha raccontato che si era lasciata con il suo compagno, poiché era manesco e voleva che diventasse testimone di Geova è stata Adua a volere fuori Massimiliano per un qualcosa che non voglio dire. Teo ha dato molto ascolto ad Adua, bisogna capire se ha detto la verità o una bugia. Adua lo accusava di certe cose. Io penso che Adua sia manipolata. Lui (Losito ndr) comunque l’ha aiutata quando ha combattuto l’anoressia. Le consigliai di andare in una clinica, che ho pagato 900 euro al giorno. Teo si voleva caricare anche di questo peso, ma io non sono suo padre. L’ho aiutata come ho potuto con medici, ma soprattutto Teo che aveva un grande affetto per lei. Mi fa schifo Io credo che alla base di tutto ci sia un rancore, ma penso che qualcuno abbia lavorato su questo rancore un po’ infantile per architettare qualcosa contro di me.
Federico Boni per gay.it il 9 ottobre 2020. Il cosiddetto Ares Gate è nato e apparentemente morto all’interno del Grande Fratello Vip. La scorsa settimana Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, ex volti dei film e fiction Ares, società di produzione recentemente fallita che per 20 anni ha sfornato prodotti Mediaset, hanno scatenato un putiferio, parlando di una sorta di “setta” gestita da un certo “Lucifero”, che ha creato non pochi problemi ad entrambi. Apriti cielo. Sui social è esploso questo Ares Gate che riguarderebbe proprio la società gestita dal produttore Alberto Tarallo, storico compagno di Teodosio Losito, sceneggiatore suicidatosi nel 2016, con Mediaset che ha immediatamente messo a tacere qualsiasi illazione, silenziando non solo Adua e Massimiliano ma anche le altre trasmissioni che avevano iniziato a parlarne. Anche Gabriel Garko, con il suo coming out di venerdì scorso, ha fatto intendere di misteriosi personaggi che l’avrebbero costretto a fingersi eterosessuale per 20 anni, costruendo false storie d’amore ad uso e consumo dei tabloid. Garko, neanche a dirlo, è una creatura della Ares, così come Eva Grimaldi, che non ha ancora proferito parola sull’argomento. In questo intrigo che lentamente sta prendendo sempre più forma si inserisce questa mattina Mario Adinolfi, che volteggia come uno sciacallo su qualsiasi argomento che possa riguardare la comunità LGBT, solo e soltanto per avventarsi senza vergogna alcuna sentenziando con la propria solita delicatezza. “C’è un produttore gay il cui compagno si suicida. Al Grande Fratello c’è chi parla di istigazione al suicidio, lo appella come Lucifero e apre il vaso di Pandora di attori gay con relazioni etero di copertura veicolate da Chi, diretto dal gay che conduce il GF. Tutto normale?” Questo si è domandato il leader del Popolo della Famiglia, che ha ovviamente riannodato i fili dell’intera vicenda, arrivando a conclusione per lui blindate e puntualmente orrendamente veicolate. Neanche fosse Jessica Fletcher. Un grande classico, per un uomo che vive unicamente per gettare odio e immondizia sul mondo LGBT nazionale. Nel dubbio Manuela Arcuri, altro storico volto Ares, ha oggi stroncato qualsiasi illazione nei confronti del produttore Tarallo, intervistata da Giuseppe Candela per Dagospia. “Sono stata in silenzio perché volevo capire fino a che punto arrivasse questa follia. Non ho mai sentito in vita mia tante falsità come in questi giorni. Una setta? Hanno detto cose pesantissime. Le ripeto, sono senza parole. Per quindici anni ho lavorato con Tarallo e non ho visto queste cose. Guardi io ho solo visto tanta generosità di Alberto Tarallo. Un grandissimo produttore che ha creato attori totalmente sconosciuti che venivano dal nulla. Li ha creati, formati, gli ha dato un nome e li ha fatti lavorare. Ma dai Lucifero, io sono allibita. Sono una sua grande amica perché nella vita sono una donna riconoscente, anche se non lavoriamo più insieme perché non produce più. Questa bellissima collaborazione purtroppo è finita, perché le cose finiscono una mica può reagire così male? Quello tra Alberto e Teo (Teodosio Losito, ndr, suicidatosi nel 2019) era un grande amore, era un’unione totale nella vita e nel lavoro. Una fusione di due persone che portavano avanti il loro lavoro con amore. Teodosio per Alberto era intoccabile. Difendo Alberto, non si fa così. Non si gioca con la vita delle persone. Mi sembra più di una gogna. Qui non parliamo di un matrimonio inventato, qua si gioca con la vita della gente. Parliamo di un grande produttore, di una tragedia che è successa un anno e mezzo fa, una cosa delicatissima. Al funerale di Teodosio c’erano tutti. Piangevano, capisce. Sembra un film”.
Andrea Ossino e Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 marzo 2021. «Basta veleni, vado a raccontare la mia verità al magistrato » . Il produttore tv Alberto Tarallo vuole parlare al pubblico ministero che indaga sul suicidio di Teodosio Losito, suo ex compagno di vita e di lavoro, coproduttore e sceneggiatore nella società di cui Tarallo era il dominus, la Ares Film. «Che nessuno scalfisca la memoria di Teo», il senso dell' istanza che ha fatto depositare in procura dal suo legale, l' avvocato Daria Pesce. Una mossa d' anticipo per mettere subito in chiaro la sua posizione e per evitare che sia additato come la persona ad aver spinto al suicidio Losito, suo compagno per 19 anni che si è ucciso nel gennaio 2019, come hanno detto tra le righe gli ex attori Ares Rosalinda Cannavò e Massimiliano Morra al Grande Fratello Vip. Dopo aver raccontato la sua versione agli inquirenti, se ci saranno gli estremi, si proseguirà con una «controdenuncia per calunnia verso chi lo accusa di tali falsità», spiega il legale. Tarallo, in un' intervista a Massimo Giletti, lo scorso ottobre, si era spinto oltre, ipotizzando una macchinazione dietro l' Ares Gate: «Non solo loro gli ideatori di tutto questo. Mi rivolgo alla persona che ha macchinato tutto questo, che ha fatto dire a qualcuno induzione al suicidio: io so chi sei e so perché lo hai fatto». Venerdì scorso il pm Carlo Villani aveva ascoltato per 3 ore e mezza l' attore Gabriel Garko, uno degli artisti di vertice della casa di produzione Ares. Il giorno prima era stato il turno di Rosalinda Cannavò, sentita per due ore, le cui rivelazioni hanno dato il via all' indagine per istigazione al suicidio, al momento contro ignoti. A denunciare sono stati i familiari di Losito, dopo che Cannavò lo scorso settembre, all' interno della casa del Grande Fratello Vip, quindi ripresa dalle telecamere, aveva raccontato che il contesto dell' Ares era una sorta di "setta". Al suo interlocutore, l' attore Massimiliano Morra, con cui aveva condiviso l' esperienza della Ares, aveva detto: «Con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei più qui. Che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l' artefice di tutto questo schifo» . In risposta Morra aveva parlato di un personaggio a capo di tutto, definito «Lucifero». Il riferimento era proprio a Tarallo, che durante le riprese delle fiction usava ospitare per giorni nella sua residenza a Zagarolo, una struttura con varie dependance, gli attori scritturati. Il produttore negli scorsi mesi ha smentito ogni ricostruzione fatta dagli attori: negando una presunta setta e l' istigazione al suicidio del compagno. Contro Rosalinda Cannavò e Massimiliano Morra, tra l' altro, ha già sporto due denunce per diffamazione, negli scorsi mesi, in seguito a quanto detto al Grande Fratello Vip. I due in passato erano stati considerati una coppia a tutti gli effetti: in realtà, però, il fidanzamento era stato architettato a tavolino da Tarallo per catalizzare l' attenzione del pubblico. Una pratica piuttosto comune nell' agenzia, che sommata all' indicazione di non frequentare altre persone esterne era mal digerita dagli stessi interpreti. Intanto l' indagine prosegue e probabilmente nei prossimi giorni non è escluso sia ascoltato dal pm anche Morra. Potrebbe essere valutata anche la testimonianza di Barbara D' Urso, che ha trattato nel suo programma il caso.
Non è l'arena, Rosalinda Cannavò sconvolgente: "Mi passava la mano sul corpo, il gelo nelle ossa". Testimonianza bomba. Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. A Non è l'Arena Massimo Giletti torna a parlare dell'Aresgate, dopo l'apertura di una inchiesta sulle dichiarazioni di Rosalinda Cannavò e Massimiliano Morra al Grande Fratello Vip su Alberto Tarallo. Il produttore di Fiction, uno dei "re" della tv italiana negli anni Duemila con decine di produzioni di successo e una scuderia di attori capitanata da Gabriel Garko ed Eva Grimaldi, oltre agli stessi Morra e Cannavò (in arte Adua Del Vesco) è stato definito "Lucifero" e accusaro di guidare una sorta di setta, capace di teleguidare i suoi affiliati e fare loro il lavaggio del cervello. Giletti manda in onda una testimonianza audio di Adua/Rosalinda, una confidenza sconcertante su un sogno che in contemporanea avevano fatto lei e la madre. "Tutte e due abbiamo sognato Alberto, io a Milano e lei giù. Io l'ho sognato che si sedeva accanto al mio letto, mi guardava e mi diceva 'Nella tua casetta ho distrutto tutto'. Io provavo tenerezza e rispondevo: 'Mi dispiace, io non stavo bene'. Lui mi guardava e mi rispondeva con lo sguardo cattivo: 'Eh, mi dispiace anche a me'. Poi mi passava la mano senza toccarmi dalla testa alla schiena fino ai piedi, sembrava vero, ho pianto non so quanto, mi sentivo il gelo dentro le ossa, sembrava che io ce l'avevo accanto seduto sul letto. Mi sono svegliata alle 7 e ho chiamato mia madre per raccontarle tutto". "Lei mi ha risposto: "Tu non hai capito, anche io l'ho sognato ora". Lui stava male, io le dicevo che dovevamo andare da lui e lei mi accompagnava. Lui all'inizio non mi calcolava, poi mi ha abbracciato. Mentre me ne vado mia madre lo sente ridere e dire “Tanto adesso gliela faccio pagare”. Io sono convinta che lui mi sta mandando qualcosa, non so se è suggestione. Quello di stamattina non era un sogno".
Rosalinda Cannavò, lo sceneggiatore morto "suicida"? Sentita in procura, pesantissimi dubbi su quella strana morte. Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. Rosalinda Cannavò finisce in Procura. L'ex concorrente del Grande Fratello Vip si è recata a palazzo di Giustizia a Roma come persona informata sui fatti. Il caso è quello della morte di Teodosio Losito, lo sceneggiatore di fiction campioni di ascolti su Mediaset. L'uomo, noto per L’onore e il rispetto, Pupetta e Il bello delle donne, è stato trovato privo di vita nella sua casa romana l'8 gennaio 2019. All'epoca dei fatti nessuno ritenne necessaria un'indagine, visto che l'accaduto fu classificato come suicidio. Qualcosa però è cambiato. È stata proprio l'attrice concorrente del programma di Alfonso Signorini a svelare un retroscena da brividi. Nella casa più spiata d'Italia Rosalinda aveva ammesso che dietro la morte dello sceneggiatore e produttore televisivo romano ci sarebbe una setta satanica. "Tu hai visto cosa è successo? - chiedeva Rosalinda a Massimiliano Morra, anche lui (secondo l'attrice) coinvolto nella setta -. Noi infatti ci siamo rivisti a quell’evento, tu eri in disparte dietro. Io da quel momento sono scappata da loro, di nascosto. Io non ero lì quando è successa quella cosa. Quella cosa brutta l’ho scoperta il giorno dopo alle 7 del mattino. Lui mi mandò un messaggio. Io gli volevo bene e so che anche tu ne volevi a lui. Ho subito fatto il suo numero e purtroppo non mi rispondeva, ovviamente. Io se rimanevo facevo la sua fine. Tu non sai cosa ho passato! Ero veramente sola e avrei fatto quella fine lì". Parole che hanno subito scatenato la polemica e sulle quali i familiari di Losito vogliono fare chiarezza. Così, ricevuta la denuncia, il pm Carlo Villani ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio e ascoltato Rosalinda per circa due ore e mezzo. Tra l'ex gieffina e lo sceneggiatore c'era infatti una forte amicizia, tanto che sono numerose le fiction di Losito che vedono Rosalinda recitare.
(ANSA il 12 marzo 2021) - Continuano le audizioni dei pm di Roma nell'ambito dell'indagine per istigazione al suicidio legata alla morte del produttore e sceneggiatore tv, Teodosio Losito, trovato privo di vita nella propria abitazione nel gennaio del 2019. Oggi è stato ascoltato l'attore Gabriel Garko come persone informata sui fatti. Al centro dell'indagine del pm Carlo Villani la presunta setta segreta a cui sarebbe stato legato Losito. Dell'esistenza della setta ne hanno parlato l'attrice Adua Del Vesco (sentita ieri a piazzale Clodio) e Massimiliano Morra, nel corso di un colloquio avvenuto tra i due al Grande Fratello.
Da "ilmessaggero.it" il 12 marzo 2021. E' stato sentito in procura a Roma l'attore Gabriel Garko come persona informata sui fatti nell'ambito del fascicolo sulla morte del produttore e sceneggiatore Teodosio Losito. A piazzale Clodio è stata aperta un'inchiesta per istigazione al suicidio dopo le dichiarazioni fatte nel settembre scorso dall'attrice Rosalinda Cannavò, in arte Adua del Vesco, e Massimiliano Morra, durante una puntata del Grande Fratello Vip, sull'esistenza di una setta di cui entrambi avrebbero fatto parte. Nel dialogo, Cannavò, parlando della setta fa un riferimento a Teodosio Losito, produttore e sceneggiatore, trovato morto nella sua casa a Roma l'8 gennaio 2019. Per fare luce sulla vicenda, il pm Carlo Villani, titolare delle indagini, ha sentito ieri del Vesco e oggi l'attore.
Cosa hanno detto. All'interno della casa del Gf Vip Adua e Massimiliano Morra avevano parlato della casa di produzione Ares Film, con cui entrambi hanno lavorato, fondata dal produttore Alberto Tarallo e dal compagno Losito. La Ares ha realizzato decine di fiction famose: L'onore e il rispetto, Il peccato e la vergogna, Caterina e le sue figlie, solo per citarne alcune. La Cannavò e Morra hanno usato parole pesanti, descrivendo un clima da setta, governata da colui che è stato definito da Adua «Lucifero». Si è parlato di plagio, vita privata e relazioni organizzate a tavolino, con storie d'amore finte create per alimentare il gossip. Un esempio sarebbe la relazione tra Gabriel Garko - che verrà sentito in procura come testimone - e la stessa Adua Del Vesco.
Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 12 marzo 2021. «Se fossi rimasta, avrei fatto la sua fine. Tu non immagini cosa ho passato! Ero veramente sola, con il suo gesto Teo ha liberato anche me, altrimenti oggi non sarei più qui... che poi io non ci credo che sia stato un suicidio, sai? Tanto sappiamo bene chi è l' artefice di tutto questo schifo...». Così mormorava la bruna Adua Del Vesco, attrice ed ex fidanzata (per finta) di Gabriel Garko (prima dell' outing), confidando il suo tormento - tra pause, omissis e grandi alzate di sopracciglio - a Massimiliano Morra, coinquilino e collega di fiction melodrammatiche per Canale 5 (nonché altro suo ex, di facciata pure lui, per amor di gossip e rotocalchi), che evocava sibillino la presenza di un perfido e demoniaco «innominabile» a capo di una setta che li teneva soggiogati: «Lui è Lucifero...», sussurrava tenebroso sul divanetto del Grande Fratello Vip , in una notte fonda di fine settembre 2020, mentre gli altri concorrenti dormivano, non però le migliaia di telespettatori del reality di Mediaset ancora ben svegli e ricettivi. I due spiatissimi «reclusi» alludevano alla tragica morte di Teodosio Losito, ex cantante e poi sceneggiatore dei feuilleton campioni di ascolti che la Ares Produzioni del compagno Alberto Tarallo confezionava senza sosta per Mediaset (un catalogo infinito, il loro: «L'onore e il rispetto», «Viso d' angelo», «Il sangue e la rosa», «Il bello delle donne»), trovato morto nella sua casa romana l' 8 gennaio del 2019, impiccato a un termosifone alto con la sciarpa della mamma stretta al collo. Un caso su cui nessuno indagò, catalogato come un gesto estremo e disperato. Fino a quella notte di confidenze in diretta tv di Adua e Massimiliano. Dopo la denuncia dei parenti di Losito, la Procura di Roma ha invece aperto un' inchiesta. Ipotesi di reato: istigazione al suicidio. Qualcuno dunque potrebbe avere spinto «Teo» Losito a uccidersi. La prima ad essere sentita, come persona informata sui fatti, è stata proprio Adua Del Vesco, che nel frattempo però - uscita dalla Casa di Cinecittà, non vincitrice ma con un fidanzato nuovo al braccio (il timido Andrea Zenga, figlio di Walter, portiere di Inter e Nazionale) - ha ripudiato il nome d' arte per riprendersi quello vero, Rosalinda Cannavò da Messina. Cappotto verde acqua e completo nero, Adua/Rosalinda, ieri si è presentata da sola negli uffici della Procura. «Sono molto tranquilla». Due ore e mezzo nella stanza del pubblico ministero e poi di corsa a riprendere il treno per Milano. «La verità scavalcherà ogni segnale di omertà», scriveva immaginifica su Instagram durante il tragitto. Ora però il pm Carlo Villani sta cercando di capire se le conversazioni del GF siano state manipolate o tagliate, valutando nuove ipotesi di reato. Subito dopo la puntata delle rivelazioni notturne infatti, scoppiò lo scandalo, prontamente ribattezzato Ares-gate. Facendo due più due, parecchi hanno ipotizzato che il «perfido Lucifero» evocato fosse Alberto Tarallo, ex visagista e parrucchiere, espertissimo di cinema («Un mostro di conoscenza filmica», lo elogiò Enrico Vanzina) diventato produttore della Ares Film - ormai fallita un anno fa - con studi di registrazione in quel di Zagarolo, Castelli Romani, annessi alla villa con mega-piscina, suite con fontane e orto, dove venivano girate le fiction. E nella quale, dando retta alle illazioni da prendere forzatamente con le pinze, la setta avrebbe recluso i suoi adepti, decidendo della loro vita, di come vestirsi e di chi frequentare, allontanandoli dagli affetti più cari. Dopo aver diffidato il GF Vip, concorrenti e autori, e chiunque si occupasse della vicenda (vedi Barbara D' Urso), Tarallo, ospite di Massimo Giletti su La7, contrattaccò così: «Credo ci sia rancore da parte di Massimiliano e Adua, perché dopo la Ares non hanno lavorato molto. Credo che qualcuno li sfrutti per colpire me». E il prossimo a parlare davanti al pm sarà proprio lui, ma non è più fiction.
GF Vip, pesantissime confessioni notturne tra Adua e Massimiliano. Si fa riferimento al suicidio di Teodosio Losito. Roberto Mallò per davidemaggio.it il 22 settembre 2020. Sembrerebbe esserci molto di più di una semplice rottura per incomprensioni caratteriali nel rapporto tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, attualmente reclusi nella casa del Grande Fratello Vip. Nel corso della notte, i due concorrenti si sono infatti lasciati andare a dalle dichiarazioni davvero shock sul loro passato, facendo riferimento ad un periodo in cui entrambi sono stati ’soggiogati’ da una persona cattiva (“Lucifero in persona” dice Morra) che li ha convinti a staccarsi da ogni tipo di affetto, motivo per il quale hanno dovuto affrontare poi un percorso di psicanalisi. Il sibillino discorso si è innescato quando Massimiliano, dopo averle chiesto scusa per non averla contattata nel periodo in cui soffriva di anoressia ("stavo morendo", ha detto la Del Vesco a Morra nel corso dell’ultima puntata del GF), ha parlato ad Adua in maniera enigmatica di una persona che conoscono: “Si devono raccontare ancora tante altre cose sugli inciuci dell’innominabile… mamma mia, che personaggio. (…) Io non rinnego nulla, è stata un’esperienza, molto negativa ma è stata un’esperienza e mi ha cambiato da molti punti di vista e ho raggiunto degli obiettivi lavorativi che ci (ai quali, ndDM) tenevo“. La Del Vesco si è quindi allacciata al discorso, lasciando intendere di essere stata costretta da qualcuno ad allontanarsi dai suoi cari: “Anch’io, però niente vale tutti gli anni che ho perso accanto ai miei genitori, tutti gli anni che potevo passare con il mio ragazzo, con il quale non sono potuta stare per suo volere. Niente, capito? Niente è paragonabile a tutti i successi lavorativi che ho avuto. Quegli anni, quei momenti, gli anni di vita che ho perso dei miei genitori non me li darà indietro più nessuno“. Morra ha così cercato di confortare la sua ex sulla strana questione: “Lo so. Però sai cos’è? Guarda la persona che sei, penso che tu sei (sia, ndDM) contenta della persona che sei oggi, no?! Lo devi a quello (…) Probabilmente se non avessi vissuto quello, oggi non studieresti teologia (…) “. Le confidenze sono diventate sempre più pesanti, tant’è che Adua ha detto: “Io a un certo punto non volevo più vivere. Non ce la facevo più“. La risposta di Massimiliano è stata sconcertante: “E’ stata una cosa atroce, veramente. Ma poi l’ultimo periodo è stato per me il peggiore. Era diventata una cosa improponibile ormai (…) Ho detto, mo che cazzo faccio? Ti ricordi quella sera che è successo? Quel mio gesto che (per il quale, ndDM) tu giustamente ti sei arrabbiata (…) Tutto è nato da lì, poi è stato tosto perché ricevevo delle telefonate, istigazioni (…) perché io ho detto chiudiamo il capitolo, perché ho detto basta (…) Ti ho detto la cosa del Rolex? Che tu eri stata a pensare che io… Te lo giuro su mia madre“. Interrogato dalla Del Vesco – “Ma da parte di lui?” - Morra ha proseguito: “Tu non hai idea della cattiveria di quella persona“. E la Del Vesco replica: “Io ce l’ho idea perché l’ho vissuta sulla mia pelle, ma tante cose forse il mio cervello manco ci arriva… Per questo io mi incazzo, perché vorrei… io vorrei giustizia, vorrei giustizia“. Qualcosa di più si capisce dopo, quando la Del Vesco fa riferimento – senza dirlo esplicitamente – al suicidio di Teodosio Leosito (regista con cui entrambi hanno lavorato): “Hai visto cosa è successo? (…) Io me ne sono scappata, io da lì poi di notte me ne sono scappata, di nascosto. Se rimanevo lì facevo la sua fine (…) Non lo sai quello che ho passato. Ero veramente sola. Con quella cosa che è successa, lui ha liberato me. Perché forse io ad oggi non stavo qua“. Si intuisce, mettendo insieme vari elementi tra cui la data del decesso, che il riferimento possa essere proprio al regista, quando Adua racconta di aver scoperto del suicidio il mattino dopo alle 7 da un messaggio di Vanessa Gravina. A quel punto avrebbe chiamato Losito e avrebbe risposto “lui” e quel lui – incrociando precedenti dichiarazioni di Adua al Fatto e analizzando il contesto descritto dai due – dovrebbe essere Alberto Tarallo, produttore Ares nonché compagno professionale e di vita di Losito. Sarà proprio lui la persona cattiva che avrebbe fatto del male ad Adua e a Massimiliano?
Adua Del Vesco e Morra, dettagli choc al GF Vip: parlano i fan e spunta “Lucifero”. Valentina Gambino per blogtivvu.com il 23 settembre 2020. Adua Del Vesco e Massimiliano Morra si sono chiariti nel cuore della notte. Tra una chiacchiera e l’altra, il racconto choc dell’attrice siciliana ha fatto ipotizzare della loro storia vissuta all’interno di un ambiente malsano e tossico, una sorta di “setta”. I fan, hanno fatto una minuziosa ricostruzione di ciò che hanno capito della spinosa faccenda, aggiungendo dei video interessanti che troverete alla fine del nostro articolo. Adua e Massimiliano erano in questa agenzia che creava un ambiente malsano per i suoi pupilli. Era una specie di setta dove li controllavano e gli facevano una fortissima pressione psicologica e manipolazione. Per conseguenza di questo ambiente malato non vivevano bene la loro storia perché mettevano in giro delle storie false sui due e si cercano malintesi. In particolare venivano manipolati da questa persona, Lucifero. Intanto Massimiliano ha fatto qualche tipo di sceneggiata che riguarda un telefono e che lei considera molto grave (le ha lanciato il telefono? Boh) e poi ha lasciato questo ambiente mentre lei è rimasta ancora dentro e ha sviluppato l’anoressia. Lui ha avuto un incidente stradale grave e lei avrebbe voluto riavvicinarsi a lui in quel momento, ma le è stato impedito da persone interne a questa setta che erano contrarie a una loro riappacificazione. Quando questo Lui è morto (sembra Teodosio Losito), Adua ha capito la gravità della situazione in cui si trovava e si è allontanata definitivamente anche perché, a detta sua, non era più utile, visto che era diventata così magra da non potersi alzare dal letto. Sono rimasti entrambi traumatizzati da questa storia, hanno spesso incubi al riguardo, non possono più sentire certe frasi, si sono avvicinati alla religione, lui soprattutto spirituale/buddhista e lei al cristianesimo e studiando teologia. La vera mastermind dietro tutto questo sembra questo Lucifero, Adua e Massimiliano dicono che vedendoli parlare così probabilmente si arrabbierà e che per lui vederli così felici e sereni è la punizione peggiore. Negli anni passati in quella setta non hanno potuto coltivare affetti esterni, si sono allontanati dai loro cari (Adua dice di aver disimparato a socializzare lì), hanno ripreso a vivere solo quando si sono finalmente allontanati, pur avendo avuto vantaggi professionali.
Eva Zuccari per "today.it" il 23 settembre 2020. Parole in codice, lacrime e confessioni sottovoce. Così ieri al Grande Fratello Vip Adua Del Vesco e Massimiliano Morra si sono confrontati su un inquietante episodio avvenuto nel loro passato. I due attori avrebbero trascorso un periodo turbolento alle prese con quella che sembra essere a tutti gli effetti una 'setta', manipolata da un tale indicato come “Lucifer” o l'Innominabile. E proprio sulla questione è tornata ieri pomeriggio Barbara d'Urso in occasione dell'ultima puntata di 'Pomeriggio 5', nel tentativo di fare chiarezza sull'accaduto. Nel dettaglio Barbara ha mostrato sul ledwall della trasmissione alcuni titoli di giornale che riportavano le confessioni di Morra e Adua. "Potrebbero essere stati coinvolti anche altri personaggi molto, ma molto famosi, attenzione", ha dichiarato "Questa è una cosa seria. Adua parla di una persona che si è suicidata e lei dice che questa persona faceva parte di questa sorta di setta come dicono i giornali. Lei fa capire che sarebbe potuto accadere anche a lei il suicidio. Io posso dire che c’è un’altra persona che io non dirò nemmeno sotto tortura, che mi ha raccontato la stessa cosa. Mi ha detto che era una situazione molto particolare, io lo tengo per me, non dirò altro. Però sono scioccata perché le cose di Adua e Morra sono le stesse. D'Urso, insomma, conferma ma non scende nel dettaglio e, soprattutto, lascia intendere che quanto avvenuto sia ben noto agli addetti ai lavori. "Io questa cosa la sapevo ma da un’altra persona molto famosa. Questa cosa qui è intrisa nel mondo dello spettacolo. Vi dico che però mi è stata raccontata nello stesso modo. Io sono sotto choc perché durante la pubblicità ho preso il mio telefono e mi stanno arrivando un sacco di messaggi da persone che conosco sul caso della ipotetica setta e sono incredula. Così tante persone non immaginavo. Secondo me usciranno tanti nomi". Se le indiscrezioni venissero confermate, si tratterebbe di un vero e proprio scoperchiamento del Vaso di Pandora nel mondo dello spettacolo. Le dichiarazioni di Adua e Massimiliano sono infatti molto pesanti. "Io ero succube di quella persona, sai di chi parlo vero? Ero una scema”, ha esordito ieri la 27enne siciliana in riferimento a un personaggio che li avrebbe manipolati. E lui le ha fatto eco: "Tu credi nell'energia negativa? Io sono convinto che lui sia Lucifero, è il Male supremo. Dopo questi avvenimenti l'ho percepito ancora di più", ha affermato Morra. Ma chi è l'innominabile? Al momento non è dato sapere, dato che i due si sono ben guardati dal fare esplicitamente nomi e cognomi delle persone coinvolte. L'unico nome tirato in ballo è, però, quello di un certo Teo, che è da ricondurre a Teodosio Losito, sceneggiatore delle fiction Ares (società di produzione fallita all'inizio dell'anno, che ha dato i natali a serie tv di successo come Il Bello delle Donne, L'onore e il rispetto, Il Peccato e la Vergogna, di cui gli stessi Adua e Morra erano protagonisti) morto suicida l'8 gennaio 2019. L'uomo, legato professionalmente e sentimentalmente al collega Alberto Tarallo, viene chiamato in causa da Adua in quanto unica persona che l'avrebbe aiutata ad uscire da quel momento difficile. Questa morte sarebbe stata la molla che l'avrebbe spinta ad uscire dall'anoressia: "Io non ero lì quando è successa quella cosa, l’ho scoperta il giorno dopo alle 7 del mattino. Lui mi mandò un messaggio. Io gli volevo bene e so che anche tu ne volevi a lui. Io se rimanevo facevo la sua fine. Ero veramente sola e avrei fatto quella fine lì. Lui è morto il 9 gennaio. A Natale mi accompagnò in aeroporto e mi abbracciò fortissimo, aveva bisogno di calore umano, non lo dimenticherò mai".
Giuseppe Candela per Dagospia il 23 settembre 2020. E' esploso l'AresGate sui social. Colpa o merito, dipende dai punti di vista, delle dichiarazioni di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra nella casa del Grande Fratello Vip. Ares, nome della società di produzione, ora fallita, che per anni ha realizzato le fiction trash-pop-cult in onda su Canale 5 con grandissimo successo. Accuse prima senza nomi e cognomi poi con riferimenti molto chiari. E il due più due più facile del mondo con l'incrocio di virgolettati e situazioni. "Istigazione al suicidio", ha aggiunto nel pomeriggio la Del Vesco parlando della morte di Losito. Ha raccontato della sua anoressia, di manovre psicologiche, voci false sul suo conto, amori ostacolati, età finte, rolex rubati e molto altro. Un racconto confermato in buona parte dall'ex fidanzato Morra. Così, per dover di cronaca, non si registrano al momento commenti da Alberto Tarallo che l'attrice nella casa definisce indirettamente Lucifero. Nessuna denuncia, a quanto ci risulta. Dagospia ha provato a capire qualcosa in più su quel mondo, finito improvvisamente al centro della scena, chiedendo un parere a chi per anni ci ha lavorato. "No comment", ci dice Eva Grimaldi. Ha un tono deciso ma provato, le domande aumentano ma l'attrice non sembra disposta concedere risposte: "Non voglio parlarne ore, sto molto male", aggiunge quando l'argomento si sposta sulla scomparsa di Teodosio Losito, morto suicida a gennaio 2019. Da "Il Bello delle Donne" a "Donne Sbagliate" a "Caterina e le sue figlie": fiction di successo di Canale 5 con il volto di Nancy Brilli e dietro le quinte il duo Losito-Tarallo. "Non so cosa è accaduto al Grande Fratello", precisa l'attrice. Non commenta, dunque, le parole pronunciate dai colleghi ma il mondo Ares lo ha conosciuto: "Non ho assolutamente rapporti con Alberto Tarallo. Sono stata eliminata da un giorno all'altro dalle produzioni, con loro ho realizzato solo successi. Improvvisamente ho capito che stava cambiando qualcosa, non abbiamo più lavorato insieme." La Brilli non si tira indietro: "Non era gente cui con avessi particolarmente passione a lavorare. C'erano persone che non mi piacevano, la gestione non era chiara. So che fino al giorno prima lavoravo e il giorno dopo non lavoravo più. La fiction era "Caterina e le sue figlie 2", il direttore di rete mi chiamò e mi ringraziò dicendomi che avevo alzato gli ascolti. Mai più lavorato con loro." Nessuna manovra psicologica ("Con me non è accaduto"), nemmeno imbarazzi nella villa di Zagarolo ("Ci sono stata ma quando c'ero io non c'era nulla di strano"). Qualche tentativo per un finto flirt invece la Brilli lo ha avvertito: "Mi è stato consigliato di fidanzarmi con un attore. Non mi è parso il caso". Un finto flirt tentato anche con Giuliana De Sio: "Una volta sul lancio di una fiction mi hanno chiesto di fingere un flirt, ho rifiutato e mi sono messo a ridere. Si sono anche offesi, ma ho detto: "Questo no, non ce la posso fare". Erano delle lucherinate, gli anni sessanta aleggiavano su di noi. Era tutto un modo di pensare a quel tipo comunicazione forse obsoleto." Attrice dal lungo curriculum diretta da registi di peso ma anche con titoli di successo proprio con la Ares: da "Il Bello delle Donne" a "L'Onore e il Rispetto", per citarne due. Anche lei non ha seguito gli sviluppi del Grande Fratello Vip ma su Tarallo e Losito si lascia andare: "Io non ho più lavorato con loro. Diciamo che è stata una scelta reciproca, eravamo corpi molto estranei. Il mio organismo espressivo, la mia provenienza artistica non aveva niente a che fare con quel mondo lì. C'era una distanza di visione." "Al funerale di Losito non ci sono stata perché ero in tournée altrimenti ci sarei andata. Con lui avevo un buon rapporto, non un grande rapporto perché era molto silenzioso. Ci conoscevamo da anni, come conoscevo gli altri. Ci lavoravo ma non li frequentavo. Nella loro villa ci sono stata due volte per parlare di lavoro, avevo una relazione professionale diversa, molti personaggi sono stati inventati da Alberto. Io era nata molto prima", aggiunge l'attrice. Le chiediamo se ha mai pensato che quello non fosse l'ambiente adatto: "Ho visto e pensato ma quello che ho pensato lo tengo per me. Era un mondo fatto di un linguaggio preciso che a me non apparteneva. Detto questo è anche un mondo in cui ho potuto fare anche qualche personaggio che mi ha estremamente divertito. Tripolina de L'Onore e il Rispetto, Annalisa Bottelli de Il Bello delle Donne mi divertivo a farle anche se venivano massacrate dalla critica. A me no fortunatamente. Mi assegnavano ruoli da attrice, tutto quello ruotava intorno sentivo che non mi apparteneva." Così sul finale, il discorso si allarga al suo lavoro e non all'AresGate: "Il giorno che potrò parlarne potrei scriverne un libro."
VITA, OPERE E MIRACOLI DELL’”ALBERTA”. Dagospia il 24 settembre 2020. Franco Grattarola (pubblicato in “Classix!” n°37, giugno-luglio 2013). Nonostante Alberto Tarallo sia, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’90, uno dei più famosi produttori di fiction televisive, è difficile, per non dire impossibile, reperire una sua foto recente. Le uniche sue immagini in circolazione, ricavate da antiche foto di scena o da frames di vecchie pellicole, lo ritraggono immancabilmente in abiti muliebri. Un alone di mistero, sicuramente alimentato dallo stesso Tarallo, rende le attuali fattezze di questo produttore più misteriose di quelle del regista Terence Malick o dello scrittore Thomas Pynchon. I lettori dei più sguaiati rotocalchi, ma anche quelli dei più paludati quotidiani, hanno avuto notizia dell'esistenza di questo sfuggente uomo di spettacolo grazie a uno scandaletto che, nell’estate 2012, ha coinvolto, oltre al nostro valente produttore, la diva Sabrina Ferilli e il neoattore Francesco Testi (ex giocatore di pallavolo e concorrente della settima edizione del Grande Fratello). Pettegolissimi gossip, fomentati peraltro da alcune incaute dichiarazioni della Sabrina nazionale, hanno addirittura favoleggiato di un triangolo tra lui (Testi), lei (la Ferilli) e l’altro (Tarallo), nato sul set della fiction Né con te né senza di te (2012), sulla cui veridicità, a causa di querele e controquerele, si pronunceranno i tribunali. Ma non è il gossip, questo novello oppio dei popoli, la chiave giusta per narrare la vita e le opere di Alberto Tarallo. Ripercorrere la sua biografia equivale, infatti, a ricostruire una parte rilevante della storia (non solo) della televisione italiana. Nato a Napoli il 23 settembre 1953, Tarallo esordisce sul grande schermo interpretando un piccolo ruolo (Bellachioma, un neghittoso modello che posa, insieme a Claudia Mori, per uno scultore) in una grande produzione come Rugantino (1973, Pasquale Festa Campanile). Ma è in virtù del sodalizio stretto con il principe attore Franco Caracciolo, figura mitologica della comunità gay capitolina ben introdotta a Cinecittà, che il futuro produttore intensifica le sue apparizioni cinematografiche. Tarallo, seguendo il solco tracciato dallo stesso Caracciolo e, prima ancora, dal “capovolto nazionale” Giò Stajano, si specializza nel ruolo del travestito. La sua filmografia en travesti annovera complessivamente sei titoli: L’uomo della strada fa giustizia (1975, Umberto Lenzi), in cui interpreta un travestito (soprannominato Liala) che aiuta un giustiziere della notte a scovare gli assassini della figlia, Labbra di lurido blu (1975, Giulio Petroni), in cui capeggia un terzetto di travestiti (gli altri due sono Caracciolo e Paolo Pazzaglia) che brutalizza la protagonista Lisa Gastoni. Un amore targato Forlì (1976, Riccardo Sesani), in cui stupisce un giovane provinciale per la sua disinibita minzione nel bagno degli uomini, Mimì Bluette fiore del mio giardino (1976, Carlo De Palma), in cui ricopre la parte di Doralice (al suo fianco il succitato Pazzaglia), La banda del gobbo (1977, Umberto Lenzi), in cui è un travestito da marciapiede (nome d’arte Ursula) costretto dal gibbuto antieroe a smerciare orologi di marca fasulli (tra i compagni di meretricio si riconosce Caracciolo), e Quel pomeriggio maledetto (1977, Mario Siciliano), in cui incarna il travestito malavitoso Mandy (suo braccio destro il solito Caracciolo). Tarallo appare inoltre in Maria R. e gli angeli di Trastevere (1975, Elfriede Gaeng), melodramma pasoliniano che lo relega nel ruolo del gay vicino di casa della protagonista (nel cast ancora una volta Caracciolo), e La verginella (1975, Mario Sequi), l’unico film che interpreta in abiti virili (un compagno di classe dell’eroina eponima). Le caratterizzazioni più rilevanti di Tarallo, fatta eccezione per L’uomo della strada fa giustizia (senza dubbio il suo ruolo più importante e la sua migliore interpretazione), sono tuttavia quelle che lo vedono parrucca a parrucca con il blasonato sodale. Più che sul grande schermo, il duo Tarallo & Caracciolo vive il suo momento di gloria sul palcoscenico dell’Alibi, storico locale gay capitolino, che per un lungo periodo è gestito con grande oculatezza proprio da Tarallo. Una cronaca coeva celebra, non senza ironia, la nascita del trasgressivo ritrovo: «Qui prima c’era un locale di travestiti, Chez Maurice. Ora, porta a porta, è sorto un locale grande e pretenzioso: si chiama «L’Alibi», è un teatro per omosessuali che funzionerà anche come ristorante, e ristorante d’un certo tipo, perché il programma già annuncia «pott flambées». L’Alibi è bianco e blu, ornato di piante finte e di animali di maiolica, ha una pista da ballo e due bar, per ora vi agisce un attore napoletano di occhio dolce ma di istinto prepotente, che si chiama Alberto Tarallo e ha al suo fianco un altro attore che chiamano principe, forse perché il suo cognome è Caracciolo»1. Non più attore, ma non ancora ufficialmente agente e produttore cinematografico, Tarallo nel 1978 prende parte, come sceneggiatore e costumista, alla realizzazione di Suor Omicidi, un thriller firmato da Giulio Berruti. Prodotto da Enzo Gallo, noto alle cronache più che altro come consorte della mancata Miss Italia Mirca Viola, il film tenta di rilanciare, con esiti sotto tutti i punti di vista disastrosi, una decaduta Anita Ekberg. Tarallo, che nel variegato cast (Alida Valli, Joe Dallesandro, Lou Castel) infila persino l’amico Caracciolo in abiti talari, durante le riprese si prodiga altresì come cicisbeo dell’ex musa felliniana (che, non a caso, sarà presente in molte sue produzioni). I goderecci e rutilanti anni ’80 non trovano impreparato l’ormai ex attore, che si ricicla con grande abilità nel campo dell’editoria per adulti. Il temuto settimanale “OP”, sulle cui colonne era apparsa una dettagliatissima inchiesta sui ricchi, ma non sempre limpidi, affari dei boss della stampa pornoerotica (che, secondo taluni, sarebbero da identificare nei mandanti dell’omicidio del direttore di “OP” Mino Pecorelli), dedica a Tarallo poche ma sarcastiche righe: «A dirigere “Playboy”, edizione italiana, ci sono tre personaggi: Gigi Reggi (direttore), Roberto Rocchi (fotografo) e Alberto Tarallo, vero art director della rivista (che gli amici chiamano simpaticamente l’Alberta). ALBERTO TARALLO
In questo giro favoloso c’è anche Mauro Mariani, tra i più noti agenti cinematografici della capitale, caro amico del Tarallo. Mariani e Tarallo sono famosi anche per le loro esibizioni esilaranti da tabarin nelle stanze della redazione di “Playboy”»2. La nuova attività editoriale non impedisce a Tarallo di associarsi con l’amico Mariani e il costruttore Defendente Marniga (fratello di un senatore socialista, successivamente coinvolto in varie tangentopoli) per produrre Cicciabomba (1982, Umberto Lenzi), un musicarello realizzato per sfruttare la fama della cantante Donatella Rettore (guest star Anita Ekberg). La lavorazione del film conosce alti e bassi, soprattutto a causa dei continui litigi tra Tarallo e Marniga, ambedue impegnati a sostenere i loro rispettivi pupilli Dario Caporaso e Gena Gas (un trans napoletano che ha anche intrapreso, senza fortuna, la carriera canora). Abbandonate momentaneamente le velleità da produttore, Tarallo trasmigra alla corte di Adelina Tattilo (grande amica del potente leader socialista Bettino Craxi), la quale edita sia periodici erotici patinati come “Playmen” sia, utilizzando prestanome e società costituite ad hoc, riviste genuinamente pornografiche. L’ex gestore dell’Alibi si occupa, in particolare, del periodico “Gin Fizz”, croce e delizia degli adolescenti anni ‘80, e di servizi fotografici destinati alla capofila “Playmen” e ad altre testate minori. Sotto le mani di Tarallo passano foto osé di attricette di sicuro avvenire, ma non solo. In un àmbito immediatamente contiguo, l’agente cinematografico Pino Pellegrino, pornosceneggiatore per Aristide Massaccesi nonché amico e collaboratore di Tarallo, convince artiste sul viale del tramonto (Lilli Carati, Karin Schubert, Paola Senatore, Marisa Mell, Tina Aumont, Patty Pravo, Gloria Piedimonte) a esibirsi in ben retribuiti servizi fotografici erotici, quando non tout court pornografici, per “Le Ore” e “Men”. Pronubo sempre Pellegrino, la Carati e la Schubert debutteranno nel genere hard, dietro adeguato compenso, sotto l’egida della E.P.P. (società controllata dalla Tattilo e dal suo ex marito Saro Balsamo). Alla fine degli anni ’80, intuendo prima di altri l’inarrestabile declino dell’editoria a luci rosa e rosse, Tarallo ritorna al suo antico amore, il cinema, come agente e produttore. Socio di Giannandrea Pecorelli (nessuna parentela con il menzionato giornalista) e Gianluca Arcopinto nella cooperativa Immaginazione, contribuisce all’ideazione di una sequela di valide opere dirette, tra gli altri, da Franco Piavoli (Nostos: Il Ritorno, 1989) e Felice Farina (Condominio, 1991). Tramite l’Europe Film, e grazie a un sostanzioso contributo statale, Tarallo produce in proprio Cattive ragazze (1992), debutto dietro la macchina da presa della presenzialista (e all’epoca craxiana di ferro) Marina Ripa di Meana (ma, secondo testimonianze attendibili, il film è stato in realtà diretto da Tarallo e dal direttore della fotografia Sergio Rubini). La pellicola, che si rivela un flop memorabile malgrado il buon cast artistico e tecnico (non mancano, ovviamente, la Ekberg e, in veste di scenografo e costumista, l’amico Paolo Pazzaglia), attira l’interesse della magistratura per i finanziamenti statali ottenuti. Schivati i rigori della legge, Tarallo nel 1996 passa al servizio di Silvio Berlusconi (antico sodale di Craxi) come produttore televisivo. Oltre a lavorare per conto di società organiche all’impero televisivo berlusconiano, quali Video 3 e Mediatrade, il vulcanico uomo di spettacolo opera in prima persona, attraverso la Ares Film (amministratore unico Teodosio Losito, sceneggiatore di fiducia e compagno di Tarallo) e la Janus International, producendo per Canale 5 una nutrita serie di fiction di successo (Il bello delle donne, L’onore e il rispetto, Il sangue e la rosa, tanto per citarne solo alcune), tutte interpretate dalla sua scoperta Gabriel Garko. Nel 2012, la factory di Tarallo approda in Rai con la già citata Né con te né senza di te, una brutta fiction premiata da grandi ascolti. Ma la storia di Alberto Tarallo, uomo invero intelligente e spregiudicato, non finisce certo qui.
DAGONEWS il 25 settembre 2020. Fermi tutti! Dagospia può svelare che Alberto Tarallo ha diffidato diffida Mediaset e promette querele. Primo effetto: la D’Urso imbavagliata. Ieri Barbarie a Pomeriggio5 non ha più nominato l’Ares-Gate dopo che aveva annunciato sviluppi e indagini dei giornalisti di Videonews. Che succede ora? Endemol avrà già informato Adua Del Vesco e Massimiliano Morra della diffida? A Mediaset calerà il silenzio sulla “setta di Lucifero”? Stasera al GFVIP Alfonsina la Pazza sfiderà gli avvocati di Tarallo o si farà un nodo alla lingua dopo aver annunciato “sviluppi clamorosi”? Ormai fiction e realtà si fondono: benvenuti a “Il disonore e il dispetto”!
Giuseppe Candela per Dagospia il 25 settembre 2020. Come Dagoanticipato Alberto Tarallo ha diffidato Mediaset e promette querele. Il caso è l'ormai noto Ares-Gate. Esploso dopo le dichiarazioni, di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra che hanno descritto quell'ambiente, solo accennando nomi ma con riferimenti chiari, come una setta, pur non pronunciando mai questa parola. Un caso esploso con forza sui social che hanno commentato a Dagospia Giuliana De Sio, Nancy Brilli ed Eva Grimaldi. Non parole precise sui racconti dei due attori ma una presa di distanza, diretta o indiretta, dalla figura di Tarallo, più che da Losito, morto suicida a gennaio 2019. A loro si è aggiunto Francesco Testi che con spirito da equilibrista ha confermato l'esistenza di un contratto che vietava, per esempio, affetti stabili, una sorta di "isolamento" dal mondo. L'argomento sembra scottare come si nota dalle reazioni di Barbara D'Urso e Federica Panicucci a Pomeriggio 5 e Mattino 5. Frenate, misurate, senza nomi e cognomi, quasi intimorite. In un solo colpo l'Ares-Gate è scomparso dai contenitori del daytime. E così proviamo oggi ad aggiungere un nuovo tassello: i rapporti tra Ares, Mediaset e la famiglia Berlusconi. La società era nata dalle ceneri della Janus International e nel 2009 Mediaset ne aveva acquistato il 30%, con produzioni di grandi successo in onda su Canale 5. Società fallita quest'anno e scomparsa da circa tre dagli schermi del Biscione. Rapporti solidi, dicevamo, tanto che nel febbraio 2018 Dagospia aveva svelato la presenza nelle liste di Forza Italia, nella circoscrizione Lazio 2, di Patrizia Marrocco. Il nome non vi dice nulla? La Marrocco è tra i soci fondatori della Ares Film, per tre anni ha ricoperto anche il ruolo di amministratore delegato. Così nel 2018, quando la società aveva ormai perso potere e appeal, è stata eletta deputata. Lei che era stata la compagna di Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, leader del partito. Alla Ares ha lavorato anche Luna Berlusconi, figlia di Paolo, come responsabile casting della società. E nelle fiction hanno recitato volti stimati professionalmente da Silvio Berlusconi: da Sonia Grey a Elena Russo, da Camilla Ferranti oltre a Manuela Arcuri. Trova spazio per esempio anche Alessandra Barzaghi, figlia di Rosanna Mani, responsabile relazioni area spettacolo di Tv Sorrisi e Canzoni. E proprio Mediaset scoperchia un mondo che sta destando attenzione. Una casualità o una manovra ad hoc? Adua e Massimiliano avevano accennato prima del reality a questo malessere? Quando la Del Vesco ai provini ha parlato dell'anoressia ha svelato a Signorini e agli autori i motivi che l'hanno portata a tutto questo? Dopo il suicidio ("Istigazione al suicidio", ha detto la Del Vesco nella casa) dello sceneggiatore Teodosio Losito, compagno di Tarallo, quest'ultimo ha mollato la Ares. Che fine ha fatto? Su Youtube spunta un video che lo vede impegnato a Malta, si descrive affascinato dal posto. E le agenzie a inizio 2020 annunciano il suo coinvolgimento in una serie thriller con Dario Argento, coprodotto dalla casa di produzione maltese Talulah, di cui Tarallo fa parte. La storia continua...
Dall'articolo di Francesco Canino per ilfattoquotidiano.it il 24 settembre 2020. (…) Nel frattempo sul caso #AresGate, com’è stato ribattezzato sui social, è intervenuto anche il conduttore del GFVip, Alfonso Signorini, che nel corso della diretta Instagram del format Casa Chi, ha detto: “Sono cose che non si sanno. Adua e Massimiliano hanno avuto un confronto veritiero, molto diretto. Stanno praticamente scoprendo un sistema, che è poi un sistema collaudato, che porterà degli sviluppi direi clamorosi. Io di più per adesso non mi sento di dire, però certamente da quello che ho sentito ieri sera si preannuncia un nuovo caso mediatico davvero importante e, lasciatemi dire, per tanti aspetti inquietante”.(…)
Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 24 settembre 2020. L’AresGate, scoppiato nella casa del Grande Fratello Vip con le pesanti confessioni di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, si aggiorna di continuo. Questa volta, è una voce esterna al reality a confermare quanto rivelato dai due concorrenti. L’attore Lorenzo Crespi tuona contro un mondo marcio che coinvolgerebbe non solo la Ares e che avrebbe radici ben lontane, già dagli anni ‘80: “La storia di Adua è una storia triste, orrenda, vera, che inizia verso la fine degli anni 80 inizio anni 90, coinvolge tutti, trent’anni di Mediaset, fiction, spettacoli, uomini potentissimi, politici…” scrive l’attore in un post su Instagram. Parole pesanti, condite da un allarme; Crespi auspica che la Del Vesco – una volta fuori dal reality di Canale 5 – venga aiutata e soprattutto protetta perché colui che lei ha chiamato Lucifero (chi sarà?) lo conosce bene e sa di cosa sarebbe capace: “l’unica cosa che vi chiedo è gentilmente se iniziate ad indagare fate sì che questa ragazza quando esce dal GF VIP venga messa subito sotto protezione, perché potrebbe essere in pericolo, questo signor Lucifero ne ha fatte di tutti colori ma era coperto dalla solita famiglia… la sua produzione era una lavatrice“.
Dagospia il 24 settembre 2020. Francesco Testi su Instagram. Cerco di dare il mio punto di vista su una questione che ormai ha preso piede, per cui non posso esimermi dal farlo. È il mio punto di vista proprio perché fa riferimento alla mia esperienza personale. Avere un contratto con Ares Film aveva come conditio sine qua non quella di lasciare la vecchia agenzia e di tagliare i ponti con il proprio agente, questo perché la produzione aveva una propria agenzia di riferimento. Il paradigma su cui si fondava il progetto lavorativo era l’assoluta dedizione al lavoro e l’impossibilità di avere legami affettivi stabili (visti come potenziale distrazione dal progetto). Il tutto era perfettamente chiaro e diventava una scelta consapevole (nessuno mi ha mai puntato una pistola alla tempia). La vita però, si sa, è imprevedibile. Quando ho preso una “sbandata” per una donna, sono venuto meno al paradigma: ciò che prima non mi pesava, diventava improvvisamente un’imposizione. Ne sono scaturite forti divergenze di opinione e un diradamento costante dei rapporti personali con i produttori. Come avevo accettato consapevolmente di salire sulla nave, altrettanto consapevolmente ho deciso di abbandonarla nel 2015, prima ancora che andasse in onda “L’onore e il rispetto 4”, che è stato il mio ultimo lavoro con loro. Reda, la mia compagna, ha abbandonato la nave insieme a me ed ho la fortuna di averla accanto ancora oggi. Da allora non ho più visto né sentito nessuno, fatta eccezione per l’8 gennaio 2019, quando ho portato le mie condoglianze ad Alberto il giorno del funerale di Teo. Mi sono pentito di non essere riuscito a mantenere i rapporti personali e mi chiedo tutt’oggi se, nel caso lo avessi fatto, avrei potuto accorgermi di strani segnali e fare qualcosa per aiutarlo,. Resterà sempre un mio cruccio. In questi giorni ho sentito parole forti su questo tragico evento e non solo, parole che a mio avviso andrebbero approfondite in un contesto che di certo non può essere individuato in un palinsesto televisivo. In età adolescenziale ho sofferto di una grave forma di depressione e so bene quali effetti devastanti possa avere sulla mente di una persona. Per questo mi auguro che Adua superi questo momento e possa riuscire a stare bene.
Mattia Carzaniga per rollingstone.it il 25 settembre 2020. Non guardo il Grande Fratello dai tempi della sciarpona di Katia Pedrotti, figuriamoci adesso che siamo abituati allo streaming di ogni cosa e invece lui ancora ti costringe ai tempi e alle pause pubblicitarie della tv del Novecento (ma con la durata fluviale della tv degli anni duemila, dove i programmi di prima serata raccattano punticini di share perché vanno avanti fino alle tre del mattino). Non lo guarderò nemmeno ora che è scoppiato il caso Alberto Tarallo, e non ho guardato la puntata in cui il caso è scoppiato. Meglio: ho visto solo i fotogrammi incriminati in cui Adua Del Vesco e Massimiliano Morra (li avete scoperti solo ora? Molto male) facevano appunto esplodere il merdone, ma anche quelli erano inutili. (Questo è invece un problema dei giornali degli anni duemila: spacciano per “video choc” momenti del tutto irrilevanti.) In generale, non guardo la tv da anni, e non per pose del tipo “non ce l’ho” (anche se è vero: non ce l’ho), ma appunto per quel discorso di prima dei tempi che son cambiati, e della fruizione, e del medium, ma mi fermo subito, non siamo mica a una lezione di Scienze della comunicazione. Ho guardato però a tempo debito tutte le fiction e i film prodotti da Tarallo, cioè L’onore e il rispetto, Il peccato e la vergogna, Sangue caldo, So che ritornerai (uno dei miei preferiti, chi mi conosce lo sa), eccetera. Era una stagione di kitsch generalista oggi per forza di cose tramontata: nell’epoca corrente Gabriel Garko e Manuela Arcuri non avrebbero più senso, il kitsch è certificato prodotto d’autore, i critici che demolivano le produzioni di Tarallo danno cinque stellette alle serie di Ryan Murphy (su Ryan Murphy ci torneremo). Alberto Tarallo è oggi accusato dai vip-gieffini (o almeno i commentatori credono che essi si riferiscano a lui, quando parlano di tale “Lucifero”) non tanto d’essere l’Harvey Weinstein italiano, come molti giornali hanno scioccamente titolato, bensì il produttore che costringeva i suoi attori a nascondersi quand’erano gay, e li ricattava, inventava servizi patinati su affaire inesistenti, li teneva sotto scacco in cambio di soldi, fama, sceneggiati di successo: insomma, il produttore che faceva il produttore. Questo detto in estrema sintesi. La Ares Film, da lui guidata e definitivamente sbaraccata per bancarotta poco prima del lockdown, aveva il suo parco-celebs di riferimento (appunto Garko e Arcuri, e Del Vesco e Morra, e Sabrina Ferilli, Giuliana De Sio, Francesco Testi, Alessandra Martines, Valeria Milillo, Vincent Spano, Cosima Coppola, pure revenant come Anita Ekberg e Bo Derek), e soprattutto lo sceneggiatore (una volta la parola showrunner non si usava) che era il vero architetto di quelle magnifiche impalcature narrative: Teodosio Losito, ex modello e cantante per molti compagno dello stesso Tarallo, morto suicida un anno fa. Sarebbe una saga strabordante e straziante a sé, tanto che pure prima, negli anni d’oro della Ares Film, tutti si sono concentrati su Losito, imprendibile, misterioso, pochissime foto in giro se non nessuna, e nessuna intervista. Ma Tarallo era ancora più Salinger di lui, nemmeno una pagina Wikipedia ad attestarne trascorsi e percorsi, solo la vulgata del sottobosco romano, una specie di storia omerica, ma con Pamela Prati al posto di Calipso. Era stato – riportano le cronache dal generone – attore (quasi sempre en travesti) in film scollacciati anni settanta, e poi gestore di locali per omo costretti a vivere nel buio (uno con un nome bellissimo: L’Alibi), e simpatizzante craxiano, editore pornosoft, produttore di cinema geneticamente stracult (Cattive ragazze, primo e – purtroppo – unico film da regista di Marina Ripa di Meana: il sottobosco vuole che però a dirigerlo sia stato lo stesso Tarallo), fino all’onore e al rispetto guadagnati con L’onore e il rispetto (pardon), e tutti gli altri successi Mediaset. Il caso Tarallo andrà avanti, e io non guarderò nulla, non leggerò nulla, non seguirò nulla. Vorrei invece vedere una serie kitsch di Ryan Murphy su questa storia, come la sua Hollywood che politically-correttamente riscriveva la Golden Age. Ma questa sarà una fiction all’italiana, si chiamerà Quarticciolowood, che è il quartiere dove aveva sede la Ares Film, ci saranno anche qui agenti che costringono gli attori a non fare coming out (Cristopher Leoni – andate a googlare – al posto di Jim Parsons: va bene uguale?) e dive appassite che diventano registe di successo (vada per Ángela Molina, altra habituée). E finirà benissimo: una coppia d’attori gay fugge dal set ed entra nella casa del GF ovviamente Vippissimo, e vince insieme quell’edizione, e io – con la sciarpona di Katia Pedrotti al collo – sarò sul divano a dire che sì, è tutto bellissimo, va tutto benissimo, ma com’era bello il Novecento, quando non c’era nessun Lucifero, quando avevamo l’illusione che ogni peccato e ogni vergogna fossero veri.
Il giovane sparito il 4 ottobre scorso. La madre: "La camorra me lo deve ridare vivo o morto". Scomparsa Antonio Natale, è del 22enne il cadavere trovato nelle campagne in provincia di Napoli. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Ottobre 2021. E’ di Antonio Natale il cadavere ritrovato nelle campagne di Caivano, comune a nord di Napoli, al confine con Acerra ed Afragola. A confermare tutto è la procura di Napoli nord. L’area è presidiata dalle 17 di lunedì 18 ottobre dai carabinieri e sul posto è a lavoro la Scientifica, l’autorità giudiziaria e il medico legale. Sulla vicenda viene mantenuto al momento il più stretto riserbo. Il 22enne di Caivano era scomparso allo scorso 4 ottobre. Una denuncia è stata presentata nelle scorse settimane ai militari dell’Arma che hanno lavorato sottotraccia. Nell’ultimo weekend è arrivata l’accelerata decisiva alle indagini grazie a nuove testimonianze, tra cui quella di una donna del Parco Verde, acquisite dai carabinieri della Tenenza di Caivano. Il giovane sarebbe stato ucciso e poi seppellito in una zona di campagna. Sarà ora l’autopsia a fornire ulteriori dettagli agli investigatori che avrebbero già stretto il cerchio sui presunti esecutori del macabro omicidio. Da una settimana sono quotidiane le iniziative per mantenere alta l’attenzione sul caso del giovane pizzaiolo scomparso in circostanze misteriose. Antonio ha vissuto fino a meno di un anno fa in Germania, dove lavorava come pizzaiolo, poi dopo il ritorno a Caivano avrebbe iniziato a frequentare amicizie pericolose dedite, secondo il racconto della madre, della sorella e del fratello, allo spaccio di droga in una zona, come quella del Parco Verde, tristemente nota perché considerata un market della droga h24. Adesso temono per la sua vita perché “Antonio aveva litigato con loro tre giorni prima perché era sparito qualcosa dalla piazza di spaccio”. Il 22enne è alto un metro e 80 centimetri, capelli e occhi castani. L’ultima volta che la madre l’ha visto uscire di casa (le 16 del 4 ottobre scorso) indossava una tuta nera e rossa. Una denuncia è stata presentata ai carabinieri che indagano a 360 gradi sull’accaduto. In questi giorni sono numerosi gli appelli lanciati da familiari e amici, alcuni di loro, spontaneamente hanno avviato ricerche spontanee nella zona e nei pressi dei regi lagni. Sull’episodio è intervenuto anche don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano e punto di riferimento dell’intera comunità. Il sacerdote ha lanciato un appello sui social: “Antonio è un giovane della mia parrocchia. Non vogliamo pensare la peggio. Preghiamo perché possa ritornare a casa sano e salvo. Chi sa qualcosa parli”.
La ricostruzione dei familiari di Antonio Natale
Ma ad alimentare dubbi sulla scomparsa di Antonio, è il fratello Giuseppe e la sorella Filomena. Entrambi vivono lontano da Napoli, uno a Milano, l’altra in Germania, e nel corso della trasmissione La Radiazza, in onda su Radio Marte e condotta da Gianni Simioli, i due ricostruiscono gli ultimi istanti di Antonio prima della scomparsa. A parlare è la sorella: “Antonio è uscito di casa insieme a un amico, Domenico. Disse che andava a Napoli a comprare dei vestiti. L’ultima volta che mia madre l’ha sentito era intorno alle 19 del 4 ottobre. Lui spiegò che si trovava sempre con Domenico ma il tono della voce, secondo mia madre, era preoccupante”.
Due persone irreperibili dopo la scomparsa di Antonio
Con l’amico Domenico c’erano, sempre secondo a quanto ricostruito dai familiari, anche lo zio e il cugino (che si chiamano Francesco ed Emanuele). Entrambi sono al momento irreperibili dopo la denuncia presentata ai carabinieri della madre di Antonio Natale. L’unico ad essere ascoltato dai militari dell’Arma è Domenico. Accertamenti in corso anche sul cellulare di quest’ultimo. “Erano andati a Napoli da Gucci per comprare dei vestiti e ci sono le telecamere che lo documentano. Poi al ritorno Domenico ha raccontato di aver lasciato Antonio nel Bronx di Caivano, una zona fatiscente e buia” spiega Filomena. “Mio fratello da quando era tornato a Caivano frequentava queste persone e aveva iniziato a spendere molti soldi per l’abbigliamento”. “Mia mamma già due mesi fa voleva denunciare mio fratello per le cattive frequentazioni che aveva, persone legate allo spaccio di droga” prosegue la sorella. Giuseppe, che vive a Milano, aggiunge altri dettagli: “L’auto di Domenico, una Smart di proprietà della madre, era danneggiata su una fiancata quando è tornata al Parco Verde. Stesso la sera è andato da un carrozziere e l’ha fatta aggiustare. Io volevo portarlo a Milano a lavorare con me in una pizzeria. Anticipai la cosa due settimane fa” racconta Giuseppe che poi rivela: “Volevo comprare 20-30 pezzi di droga, metterglieli in tasca e chiamare la polizia per farlo arrestare. Perché era meglio che stava in carcere che fuori“.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
Era sparito il 4 ottobre scorso. La madre aveva detto: "La camorra me lo deve ridare vivo o morto". Il caso di Antonio Natale, dal pestaggio alla scomparsa: poi il ritrovamento grazie a una cartomante. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. Da subito parenti e emici hanno temuto per il peggio. Antonio Natale, 22 anni del Parco Verde di Caivano è scomparso il 4 ottobre. Alle 19 l’ultima telefonata con la mamma, poi nulla più. Ma Antonio era troppo legato alla mamma e ai fratelli per non dare nessuna notizia di se. E da qui il drammatico dubbio che qualcosa di veramente brutto gli fosse accaduto. Ieri sera il ritrovamento del corpo ha confermato questa ipotesi.
Gli ultimi momenti prima della scomparsa
Antonio viveva in Germania dove lavorava come pizzaiolo. Da qualche mese a causa della pandemia era tornato a Napoli da sua mamma. L’allarme per la sua scomparsa è scattato quando la famiglia non lo ha più visto rientrare a casa i 4 ottobre. A raccontare gli ultimi istanti di Antonio prima della scomparsa sono stati i due fratelli, Filomena e Giuseppe alla Radiazza su Radio Marte: “Antonio è uscito di casa insieme a un amico, Domenico. Disse che andava a Napoli a comprare dei vestiti. L’ultima volta che mia madre l’ha sentito era intorno alle 19 del 4 ottobre. Lui spiegò che si trovava sempre con Domenico ma il tono della voce, secondo mia madre, era preoccupante”. Con l’amico Domenico c’erano, sempre secondo a quanto ricostruito dai familiari, altri due amici che attualmente risultano irreperibili. “Erano andati a Napoli da Gucci per comprare dei vestiti e ci sono le telecamere che lo documentano. Poi al ritorno Domenico ha raccontato di aver lasciato Antonio nel Bronx di Caivano, una zona fatiscente e buia” ha spiegato Filomena. “Mio fratello da quando era tornato a Caivano frequentava queste persone e aveva iniziato a spendere molti soldi per l’abbigliamento”. “Mia mamma già due mesi fa voleva denunciare mio fratello per le cattive frequentazioni che aveva, persone legate allo spaccio di droga” ha continuato la sorella. Giuseppe, che vive a Milano, ha aggiunto altri dettagli: “L’auto di Domenico, una Smart di proprietà della madre, era danneggiata su una fiancata quando è tornata al Parco Verde. Stesso la sera è andato da un carrozziere e l’ha fatta aggiustare. Io volevo portarlo a Milano a lavorare con me in una pizzeria. Anticipai la cosa due settimane fa” racconta Giuseppe che poi ha rivelato: “Volevo comprare 20-30 pezzi di droga, metterglieli in tasca e chiamare la polizia per farlo arrestare. Perché era meglio che stava in carcere che fuori“.
La scomparsa di Antonio Natale e la denuncia della mamma
La mamma di Antonio aveva denunciato la scomparsa dai carabinieri e poi a Chi L’ha visto aveva gridato il suo dolore: “La camorra mi deve ridare mio figlio, vivo o morto. Ho denunciato tutti, ho fatto i nomi di tutti. Non mi fermo qui“. Poi nei giorni successivi la famiglia aveva iniziato a scende per le strade di Caivano tutte le sere gridando “Chi sa parli”. Camminavano e gridavano attraverso il Parco Verde cercando di convincere qualcuno che sapesse qualcosa a parlare. La famiglia intervistata dal Riformista aveva anche più volte ribadito la totale estraneità della famiglia all’ambiente malavitoso. Poi il 18 ottobre nel pomeriggio si è sparsa la voce che un corpo era stato trovato nelle campagne tra Caivano e Afragola. Infine in serata la drammatica conferma: quel corpo rinvenuto nelle campagne di via Cinquevie tra Afragola e Caivano alle spalle del campo rom, era di Antonio. Il cadavere è stato trovato ain evidente stato di decomposizione. Un tatuaggio avrebbe reso possibile il riconoscimento in breve tempo. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, sul corpo sarebbero stati trovati fori compatibili con colpi d’arma da fuoco.
Il ritrovamento grazie alla cartomante
Per il ritrovamento sarebbe stato fondamentale il contributo di una donna, una cartomante. La sera del ritrovamento, Maurizio Cerbone, direttore di Nano TV, sul posto in diretta aveva raccontato che nuovi dettagli sulla scomparsa di Antonio erano stati rivelati ai carabinieri da una chiromante. Il Mattino aggiunge altro al ruolo di questa donna nella vicenda. Nei giorni scorsi una donna vicina a un giovane boss di Caivano si sarebbe rivolta a lei online per sapere dalle carte se ci fossero per lei guai in arrivo. La cartomante le avrebbe risposto affermativamente. A quel punto tra la donna e la cartomante sarebbe partito un lungo scambio di messaggi che avrebbe ricalcato la drammatica storia di Antonio. Gli screenshot sono poi finiti nelle mani dei carabinieri che già lunedì notte avrebbero ascoltato alcuni testimoni. Intanto la famiglia di Antonio era sul punto di partire per Roma per partecipare alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto” ma sono stati bloccati per essere disponibili per il riconoscimento. Le indagini continuano per capire cosa possa essere successo al giovane. Sulle indagini c’è ancora massimo riserbo. Secondo la ricostruzione fatta dal Mattino nel quartiere si vociferano già i nomi dei responsabili di quella drammatica morte. Si tratterebbe di due fratelli, uno dei quali appena 21enne ma già responsabile di una grande piazza di spaccio.
Il pestaggio e l’ipotesi del movente
Secondo il Corriere della Sera, dalle indagini è emerso che potrebbe esserci un movente legato a un ammanco di soldi, non è chiaro quanti fossero. Per quei soldi prima di sparire, lo scorso 4 ottobre, era stato anche pestato. Tornò a casa con il viso gonfio e gli occhi lividi. Secondo quanto riportato dal Mattino , Antonio Natale sarebbe stato “colpevole” di aver “rubato” decine di migliaia di euro dalla cassa comune della piazza di spaccio, di aver fatto sparire un carico d’armi, di aver partecipato senza “permesso” a quella ciurma di ragazzi che diede il via alla mega stesa di fine luglio nel Parco Verde, quando una trentina di ragazzi a bordo di moto di grossa cilindrata, in pieno giorno, esplosero centinaia di colpi di Kalashnikov terrorizzando il quartiere. Un’azione che costrinse don Maurizio Patriciello a sospendere il campo estivo in parrocchia per salvaguardare l’incolumità dei ragazzini.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
La scomparsa e il ritrovamento. “Antonio Natale crivellato di colpi”, il retroscena sull’omicidio del 22enne di Caivano. Vito Califano su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. Il corpo di Antonio Natale è stato trovato “orrendamente martoriato” e “crivellato di colpi d’arma da fuoco”. A scriverlo è Teleclub Italia. Il cadavere del 22enne di Caivano rinvenuto, in avanzato stato di decomposizione, ieri nelle campagne al confine con i comuni di Acerra e Caivano, provincia di Napoli. Il ritrovamento nel pomeriggio dopo una testimonianza ancora dai contorni opachi se non grotteschi. I carabinieri che si sono recati sul posto hanno trovato subito il corpo dopo la segnalazione. Così straziato che il riconoscimento è stato possibile solo attraverso i tatuaggi. Che il cadavere avesse presentato fori compatibili con proiettili da colpi d’arma da fuoco lo aveva scritto anche Il Corriere del Mezzogiorno. L’autopsia verrà effettuata nel giro di cinque giorni. “La camorra mi deve restituire mio figlio. Io sono una morta che cammina, farò i nomi”, l’appello della madre che dal giorno del 22enne che dal giorno della scomparsa aveva sempre sospettato qualcosa di tragico. Le tracce del ragazzo erano state perse lo scorso 4 ottobre.
La scomparsa di Antonio Natale
Natale era tornato a Caivano dopo un periodo passato in Germania, dove aveva lavorato come pizzaiolo. Al ritorno, a causa della pandemia, avrebbe cominciato a frequentare persone dedite, secondo quanto detto dagli stessi familiari, allo spaccio di droga nella zona. Il Parco Verde, già in passato al centro di episodi di cronaca nera che hanno avuto risalto nazionale, è considerato tra le più grandi piazze di spaccio a cielo aperto di Europa. L’ultima telefonata alla madre alle 23:00. Poi più nulla. “Antonio aveva litigato con loro tre giorni prima perché era sparito qualcosa dalla piazza di spaccio”, dicevano i familiari. Al momento della scomparsa indossava una tuta nera e rossa. I fratelli Giuseppe e Filomena nel corso della trasmissione La Radiazza, in onda su Radio Marte e condotta da Gianni Simioli avevano ricostruito gli ultimi istanti di Antonio prima della scomparsa. “Antonio è uscito di casa insieme a un amico, Domenico. Disse che andava a Napoli a comprare dei vestiti. L’ultima volta che mia madre l’ha sentito era intorno alle 19:00 del 4 ottobre. Lui spiegò che si trovava sempre con Domenico ma il tono della voce, secondo mia madre, era preoccupante”. Secondo quanto raccontato con Domenico c’erano anche lo zio e il cugino (che si chiamano Francesco ed Emanuele). Entrambi irreperibili dopo la denuncia presentata ai carabinieri della madre di Natale. L’unico ad essere ascoltato dai militari dell’Arma è Domenico. “Erano andati a Napoli da Gucci per comprare dei vestiti e ci sono le telecamere che lo documentano. Poi al ritorno Domenico ha raccontato di aver lasciato Antonio nel Bronx di Caivano, una zona fatiscente e buia”, spiega Filomena. “Mio fratello da quando era tornato a Caivano frequentava queste persone e aveva iniziato a spendere molti soldi per l’abbigliamento”. “Mia mamma già due mesi fa voleva denunciare mio fratello per le cattive frequentazioni che aveva, persone legate allo spaccio di droga”, diceva ancora la sorella. Giuseppe, che vive a Milano, aggiungeva: “L’auto di Domenico, una Smart di proprietà della madre, era danneggiata su una fiancata quando è tornata al Parco Verde. Stesso la sera è andato da un carrozziere e l’ha fatta aggiustare. Io volevo portarlo a Milano a lavorare con me in una pizzeria. Anticipai la cosa due settimane fa – ha aggiunto – Volevo comprare 20-30 pezzi di droga, metterglieli in tasca e chiamare la polizia per farlo arrestare. Perché era meglio che stava in carcere che fuori”.
Il giallo della chiromante
Sulle indagini vige comunque ancora massimo riserbo. Secondo la ricostruzione del quotidiano Il Mattino tra i sospettati ci sarebbero due fratelli, uno dei quali appena 21enne, ma già responsabile di una grande piazza di spaccio. Il movente sarebbe la sottrazione decine di migliaia di euro da parte di Antonio Natale, “colpevole” di aver “rubato” una grossa somma dalla cassa comune della piazza di spaccio, oltre ad aver fatto sparire un carico d’armi, e di aver partecipato senza “permesso” a una stesa di fine luglio nel Parco Verde, quando una trentina di ragazzi a bordo di moto di grossa cilindrata, in pieno giorno, esplosero centinaia di colpi di kalashnikov terrorizzando il quartiere. Perfino una cartomante avrebbe avuto un ruolo in tutta la vicenda, e in particolare nel ritrovamento. Maurizio Cervone, direttore di Nano Tv, media locale, ha raccontato in una diretta dal posto che i dettagli sulla scomparsa erano stati rivelati ai carabinieri da una chiromante. Una donna vicina, a uno dei giovani boss di Caivano di cui sopra, si sarebbe rivolta a lei online per sapere dalle carte se ci fossero per lei guai in arrivo: “Vedo guai grossi, sangue, carcere e guardie”, la risposta della chiromante. Alla risposta affermativa sarebbe partita quindi una corrispondenza fitta, messaggi che avrebbero ricalcato la drammatica storia di Antonio. Gli screenshot sono poi finiti nelle mani dei carabinieri che già lunedì notte avrebbero ascoltato alcuni testimoni. La famiglia di Antonio era sul punto di partire per Roma per partecipare alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, che le scorse settimane aveva dedicato spazio alla storia, ma sono stati bloccati per essere disponibili per il riconoscimento. Tutte da confermare e chiarire le dinamiche dei fatti emerse finora.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Il corpo del 22enne sarebbe stato ritrovato nelle campagne grazie alla segnalazione di una cartomante. Antonio Natale trovato morto nelle campagne, riconosciuto per un tatuaggio: i sospetti su due fratelli. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. Le ultime ore sono state decisive per rompere lo stallo sulla scomparsa di Antonio Natale, il 22 enne svanito nel nulla il 4 ottobre dal Parco Verde di Caivano. Nel pomeriggio di lunedì 18 ottobre le notizie sul ritrovamento di un cadavere non meglio identificato è saltata di bocca in bocca. Poi in serata la drammatica conferma della Procura di Napoli: quel corpo, rinvenuto nelle campagne di via Cinquevie tra Afragola e Caivano alle spalle del campo rom, è di Antonio. Il cadavere era in evidente stato di decomposizione ma un tatuaggio avrebbe reso possibile il riconoscimento in breve tempo. Sulle indagini c’è ancora massimo riserbo. Secondo la ricostruzione fatta dal Mattino nel quartiere si vociferano già i nomi dei responsabili di quella drammatica morte. Si tratterebbe di due fratelli, uno dei quali appena 21enne ma già responsabile di una grande piazza di spaccio. Sarebbe stato individuato anche il movente per l’omicidio. Secondo quanto riportato dal Mattino , Antonio Natale sarebbe stato “colpevole” di aver “rubato” decine di migliaia di euro dalla cassa comune della piazza di spaccio, di aver fatto sparire un carico d’armi, di aver partecipato senza “permesso” a quella ciurma di ragazzi che diede il via alla mega stesa di fine luglio nel Parco Verde, quando una trentina di ragazzi a bordo di moto di grossa cilindrata, in pieno giorno, esplosero centinaia di colpi di Kalashnikov terrorizzando il quartiere. Un’azione che costrinse don Maurizio Patriciello a sospendere il campo estivo in parrocchia per salvaguardare l’incolumità dei ragazzini. A questo si aggiunge l’inquietante particolare del ruolo che avrebbe avuto una cartomante nelle indagini. La sera del ritrovamento, Maurizio Cerbone, direttore di Nano TV, sul posto in diretta aveva raccontato che nuovi dettagli sulla scomparsa di Antonio erano stati rivelati ai carabinieri da una chiromante. Il Mattino aggiunge nuovi dettagli al ruolo di questa donna nella vicenda. Nei giorni scorsi una donna vicina al giovane boss di Caivano si sarebbe rivolta a lei online per sapere dalle carte se ci fossero per lei guai in arrivo. La cartomante le avrebbe risposto affermativamente. A quel punto tra la donna e la cartomante sarebbe partito un lungo scambio di messaggi che avrebbe ricalcato la drammatica storia di Antonio. Gli screenshot sono poi finiti nelle mani dei carabinieri che già lunedì notte avrebbero ascoltato alcuni testimoni. Intanto la famiglia di Antonio era sul punto di partire per Roma per partecipare alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto” ma sono stati bloccati per essere disponibili per il riconoscimento. Le indagini continuano per capire cosa possa essere successo al giovane. La famiglia da subito ha temuto il peggio: “Mio fratello è troppo legato alla mamma, l’avrebbe telefonata, avrebbe dato notizie”, aveva detto la sorella Filomena ai microfoni del Riformista. Antonio era tornato dalla Germania in conseguenza del lockdown. Faceva il pizzaiolo ma poi per la pandemia aveva deciso di tornare a casa nel Parco Verde di Caivano. Poi il 4 ottobre la scomparsa nel nulla. Ultima telefonata alla mamma alle 23 e poi più nulla.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Giornalisti senza regole e investigatori che spesso negano l'evidenza. Antonio Natale, foto dei presunti assassini con figli e compagne: lo sciacallaggio sui social e il silenzio imbarazzante della Procura. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Ottobre 2021. Da una parte il silenzio inspiegabile degli investigatori, diventato da anni una triste routine. Dall’altra lo show mediatico con tanto di foto pubblicate dei presunti assassini (insieme a compagne e figli, esposti senza motivo alla gogna social) che, indispettiti, si presentano poco dopo all’esterno della Tenenza dei carabinieri di Caivano in segno di protesta. Le indagini sull’omicidio e l’occultamento del cadavere di Antonio Natale, il 22enne scomparso il 4 ottobre scorso e ritrovato senza vita due settimane dopo nelle campagne al confine tra Caivano e Afragola, nel Napoletano, vanno avanti nel silenzio più assordante, alimentando giorno dopo giorno tensioni ‘grazie’ a giornalisti (si, sono iscritti all’Ordine) che si improvvisano investigatori e, grazie alle informazioni arrivate da una cartomante, provano a risolvere il caso facendo nomi e cognomi e pubblicando le fotografie di persone al momento né irreperibili né indagate. Il tutto senza rispettare alcuna regola che la deontologia professionale impone. L’importante è definirli “presunti assassini”, poco importa se poi si pubblicano le loro foto senza nemmeno oscurare compagne e figli. Saranno le indagini a far luce e a chiarire se la famiglia esposta alla gogna social è coinvolta o meno nell’orribile fine del giovane 22enne. Ma ad oggi quello che sta accadendo è raccapricciante. La Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, guidata dal procuratore Giovanni Melillo, e la procura di Napoli Nord, guidata da poche settimane da Maria Antonietta Troncone, mantengono il più stretto riserbo su quanto accaduto. Una linea che, come detto, va avanti da anni, arrivando talvolta a negare anche l’evidenza, e che finisce con il penalizzare il lavoro di chi dovrebbe fare informazione, alimentando così inciuci, ricostruzioni sempre più fantasiose e, spesso, fake news. Stesso discorso vale anche per i carabinieri del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna che non hanno fornito alcuna informazione. Una situazione di anarchia totale che porta alcuni giornalisti (che bisogna definirli così perché sono iscritti a un Ordine professionale che, almeno si spera, non riesce a controllare tutto quello che accade) a trasformarsi in veri e propri eroi dello sciacallaggio. Colleghi protagonisti già in passato di dirette sui social con alle spalle una donna deceduta e distesa su un letto oppure, come accaduto qualche giorno fa, di veri e propri blitz contro una ladra tossicodipendente ripresa nel quartiere napoletano di Pianura mentre dormiva e data in pasto al mondo dei social.
Cosa sappiamo di Antonio Natale?
Il giovane pizzaiolo rientrato dalla Germania all’inizio del 2021, era scomparso la sera del 4 ottobre scorso dopo aver detto alla madre Anna di andare a Napoli con l’amico Domenico in un negozio di abbigliamento. Stando al racconto dei familiari, Antonio era finito nel vortice delle piazze di spaccio del famigerato Parco Verde di Caivano, una zona che dopo la guerra che lo Stato ha combattuto contro i supermercati a cielo aperto della droga a Scampia e Secondigliano, è diventata una dei principali punti di riferimento (insieme al Rione Traiano a Napoli e al Rione Salicelle di Afragola) per i tossici di tutta la Campania. Sempre secondo il racconto della famiglia, tre giorni prima della scomparsa sarebbe stato vittima di un brutale pestaggio. “La camorra me lo deve ridare vivo o morto” ha urlato la madre prima del tragico epilogo del 18 ottobre quando nel pomeriggio i carabinieri – stando alla versione ufficiale – vengono allertati da un agricoltore della zona dopo il rinvenimento di un cadavere. Nessuna accelerazione dunque dovuta alle rivelazioni di una cartomante che avrebbe ricevuto informazione dalla compagna di uno dei presunti killer di Natale. Su quest’ultimo aspetto sono in corso indagini e, al momento, qualsiasi ipotesi sarebbe prematura. Sarà l’autopsia a fornire ulteriori informazioni sull’orario del decesso di Antonio, il cui corpo è stato riconosciuto dai tatuaggi perché già in stato di decomposizione. Il giovane sarebbe stato ucciso nelle ore successiva alla scomparsa con diversi colpi d’arma da fuoco e poi sotterrato in un terreno nelle campagne di Casola, frazione di Caivano. Dopo essersi ritrovati coinvolti nella gogna social ed essere andati a protestare all’esterno della Tenenza dei carabinieri di Caivano, uno dei quattro protagonisti ha così commentato: “Per iniziare condoglianze a tutta la famiglia Natale, a noi dispiace moltissimo. Noi famiglia abbiamo sbagliato e anche pagato, non siamo santi ma neanche assassini e non potete darci già la colpa senza prove e – proseguono – pubblicare foto senza conferma con le indagini ancora in corso”. “Le forze dell’ordine stanno facendo il loro dovere e dal primo momento, quando hanno dichiarato che eravamo latitanti, siamo andati in caserma a testa alta… E non è nemmeno il caso di infangarci, così state giudicando senza conoscerci e senza sapere le cose come stanno realmente”. Poi ancora: “Mettendo le nostre foto ci avete fatto fare il giro d’ Italia senza prove, senza sapere. E se poi noi siamo innocenti, ci avete infangati per senza niente? Lo ripeto – ribadisce – non siamo santi ma come si dice tempo al tempo verrà la condanna per tutti e noi vogliamo pagare ma dalla legge non da voi”.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
· Il Mistero di Barbara Corvi.
L'inferno di Barbara Corvi, scomparsa nel 2009: "Tutti hanno taciuto, compresi i figli". Alessia Candito, Antioco Fois su La Repubblica il 4 aprile 2021. Le carte che accusano il marito Roberto Lo Giudice di averla uccisa e poi distrutto il corpo. Le violenze verso la donna, i tentativi di depistaggio e l'aiuto della 'ndrangheta: in 23 pagine i segreti del caso. Vittima di un marito cresciuto in una famiglia di 'ndrangheta in cui la violenza è l’ortografia dei rapporti, di un paese che è rimasto a guardare senza voler capire, di silenzi e omertà. Barbara Corvi, la trentacinquenne scomparsa nel nulla da Montecampano di Amelia, il 27 ottobre del 2009, era una donna sola che ha pagato con la vita il tentativo di disporre del proprio destino e delle proprie finanze. È questo il ritratto che viene fuori dalle ventitré pagine con cui il giudice di Terni ha ordinato il carcere per Roberto Lo Giudice, accusato di averla uccisa per poi nasconderne e distruggere il corpo. Una verità, hanno svelato le indagini coordinate dal procuratore Alberto Liguori, nota a tutti in famiglia. Probabilmente persino al figlio, Salvatore Lo Giudice. È sua la frase, anticipata giorni fa da Repubblica, che gli inquirenti considerano forse la “prova regina”, quella decisiva per confermare il percorso investigativo costruito fino a quel momento anche grazie ai collaboratori della famiglia Lo Giudice, Nino “Il Nano”, il cugino e per lungo tempo braccio destro, Consolato Villani e Federico Greve, ex soldato della cosca ed ex marito dell’attuale compagna di Roberto Lo Giudice. I carabinieri la captano nel 2020. All’epoca, le indagini sono state formalmente riaperte e i familiari di Barbara sono tutti monitorati perché l’ipotesi è che la verità sulla scomparsa della donna sia da cercare nella cerchia dei suoi rapporti più stretti, inquinati dall’ombra della 'ndrangheta. Il figlio della donna, Salvatore parla con la sua fidanzata dell’epoca e gli investigatori ascoltano. “Mia madre - rivela - dentro una cosa di acido è finita. Sì, sì senza tracce... e non ce ne saranno mai... come non saprò mai la verità amo’... cioè come i mie... come il cugino mio”. Lo stesso che nel novembre 2009, a pochi giorni dalla scomparsa della madre gli rivela “mia madre, come la tua, è morta". Anche lui si chiama Salvatore e anche lui è orfano di una madre, Angela Costantino, svanita nel nulla. Uccisa, hanno stabilito i processi a decenni dalla sua scomparsa, da quella famiglia che nel ’94 non le ha perdonato la gravidanza ingiustificabile per la “vedova bianca” di un marito da troppo tempo in galera per poter essere il padre. Il figlio di Barbara racconta tutto nel giugno 2020, quando viene convocato come “persona informata sui fatti”. Ai magistrati racconta di aver interpretato quelle parole “nel senso che entrambe le donne, dato che avevano tradito, non dovevano più essere considerate membri della famiglia anche se, successivamente, aveva dato un significato diverso, ma di cui – si legge nelle carte - non intendeva parlare”. Si lascia solo scappare: “Sono convinto che mamma sia morta il giorno stesso della sua scomparsa perché, all’epoca, non avrebbe fatto passare un’ora senza sentirmi o cercarmi immediatamente”. Se sospetti qualcosa o di qualcuno però non lo dice. E in tanti sembrano non aver voluto parlare dei problemi di Barbara quando ancora era in vita. Quando si presentava con ginocchi gonfi e lividi sul collo dal suo amante dell’epoca, che alla fine accettava il suo ostinato rifiuto a presentarsi in pronto soccorso perché il marito “l’aveva minacciata dicendole che le avrebbe restituito il figlio Salvatore a pezzi”. Quando le amiche notavano “ematomi ed escoriazioni sul suo corpo” ma forse si accontentavano delle versioni sugli incidenti domestici che la donna inventava per giustificarli o la ascoltavano confessare “di essere stata più volte picchiata dal marito per motivi di gelosia”. Quando i vicini sentivano “non solo frequenti litigi tra i coniugi, ma anche vere e proprie urla di dolore da parte di Barbara e del figlio Salvatore”. Che Roberto Lo Giudice fosse un violento oggi lo raccontano in molti. “Tutti hanno taciuto – si legge nelle carte - compresi i figli, a dimostrazione del clima di omertà e di intimidazione in cui essi vivono”. Ma la pericolosità dell’uomo risulta “in modo pacifico”, per il gip Simona Tordelli, che anche per questo ha accolto nei giorni scorsi la richiesta di arresto in carcere avanzata dalla procura. “Nulla esclude che egli possa tornare a compiere atti lesivi della incolumità altrui – scrive il magistrato - se i figli o l'attuale compagna, in qualsiasi modo, decidano di ribellarsi - così come aveva fatto la povera moglie - in un'ottica criminale, cui egli è evidentemente inserito, caratterizzata dalla volontà di procedere alla eliminazione fisica degli ostacoli, godendo dell'appoggio del clan di appartenenza”. Ma soprattutto, sottolinea il gip, nulla esclude che l’uomo possa tornare a inquinare le prove e costruire false piste. La scomparsa di Barbara Corvi per anni è stata offuscata dalla cortina fumogena di depistaggi e grottesche messe in scena, dalle finte cartoline da Firenze vergate con una grafia mai vista dai figli e sconfessata dalle perizie, allo svuotamento dei conti bancari per inscenare una fuga della 35enne madre di famiglia. Un tentativo di sviare le indagini che in realtà nasconde uno dei moventi: spogliare Barbara dei propri averi. L’altro sarebbe stato la vendetta per quella relazione extraconiugale che Roberto Lo Giudice avrebbe letto come plateale umiliazione. Motivi sufficienti per decidere che Barbara dovesse scomparire. Una decisione di famiglia, discussa forse pochi mesi prima della scomparsa della donna, quando i fratelli Maurizio, Giovanni e Roberto si ritrovano a Taormina con le rispettive consorti. Così almeno l’ha interpretata e poi raccontata agli inquirenti l’altro fratello Lo Giudice, Nino “Il Nano”, a cui il fratello Roberto in persona con un cenno del capo avrebbe confermato di essere coinvolto nella sparizione di Barbara. E che la cosa fosse affare di famiglia lo conferma anche l’ex fedelissimo del “Nano”, Consolato Villani. A pochi giorni dalla scomparsa della 35enne - riferisce al procuratore Liguori - un altro componente del clan, Giuseppe Reliquato, cognato di Nino, lo informa che “era scomparsa un’altra donna della cosca Lo Giudice, facendo riferimento alla moglie di Roberto Lo Giudice, e cioè Barbara Corvi, facendo altresì riferimento - ha dichiarato - anche ad Angela Costantino perché io capissi, in termini di 'ndrangheta, che anche Barbara aveva fatto la stessa fine”. Mezze parole, accenni, allusioni. A chi respira ‘ndrangheta fin dalla culla basta poco per capire, ancor meno per decidere di tacere. Un silenzio che ha tentato di condannare Barbara non solo alla morte, ma anche all’oblio.
Nicoletta Gigli Corso Viola di Campalto per "il Messaggero" il 31 marzo 2021. Barbara Corvi, la mamma di 35 anni scomparsa dalla sua abitazione ad Amelia il 27 ottobre del 2009, sarebbe stata fatta sparire in modo orribile come la cognata Angela Costantini 15 anni prima: sciolta nell'acido, dopo essere stata uccisa per gelosia ma anche per motivi economici. Di questo è convinta la procura di Terni che ha chiesto e ottenuto l'arresto ad Amelia del marito della donna e padre dei suoi due figli, Roberto Lo Giudice. Pesantissime le accuse nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Terni: omicidio volontario premeditato, occultamento o soppressione di cadavere. Stesse accuse per il fratello di Roberto, Maurizio Lo Giudice, che lo avrebbe affiancato nel progetto criminale e che è indagato a piede libero.
NESSUNA TRACCIA. Un delitto apparentemente perfetto, senza lasciare tracce né a casa e neppure nell'auto di lui, Roberto Lo Giudice, calabrese trapiantato ad Amelia. La svolta nelle indagini è il frutto di quel puzzle che è stato smontato pezzo per pezzo dagli investigatori dell'arma, guidati da Alberto Liguori. La rilettura delle carte messe insieme quasi dodici anni fa porterà alla luce i vari depistaggi ad opera del marito sul giallo di Barbara Corvi, inghiottita dal nulla. Viene dato valore soprattutto ad un interrogatorio dell'epoca, quando un testimone invitò il carabiniere a «non perdere tempo» perché Barbara «ha fatto la stessa fine di Angela, sciolta nell'acido». Il resto per inchiodare il marito di Barbara, che dopo la scomparsa verrà sentito più volte dagli investigatori raccontando le sue verità, emergerà grazie a quello che Liguori definisce «il contributo offerto da plurimi collaboratori di giustizia un tempo facenti parte del clan Lo Giudice, per intenderci quelli delle bombe ai giudici di Reggio Calabria del 2010». Il procuratore, che due anni fa ha riaperto le indagini tirando fuori dai cassetti le carte ingiallite dal tempo, parla del «grave quadro indiziario dell'indagato Roberto Lo Giudice che, pur non appartenendo al clan mafioso di riferimento, nella vicenda in esame sembra averne condiviso la mentalità: il tradimento deve essere lavato con il sangue». A Barbara, per gli investigatori coordinati dal maggiore Elisabetta Spoti, è stato riservato lo stesso destino di sua cognata, Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, che nel 1994 pagò con la vita il tradimento al marito. Due donne uccise e fatte sparire nel nulla per aver violato il codice d'onore della ndrangheta.
I DEPISTAGGI. Liguori parla dei depistaggi dell'epoca che ora sono stati smontati dalle indagini: la versione dell'allontanamento volontario di Barbara, scappata con i soldi che aveva in banca per cambiare vita, le intrusioni sul suo computer ad opera del marito e del cognato, quel presunto chiarimento tra moglie e marito del 27 ottobre sulla relazione extraconiugale di lei davanti ai genitori della donna, le cartoline mandate ai figli da Firenze che Barbara non ha mai spedito. E poi i veri motivi della presenza di Roberto a Reggio Calabria, 18 giorni dopo la scomparsa della moglie. E' lì che il marito di Barbara, dopo aver svuotato i conti di famiglia, incontra la sua nuova compagna, Caterina, che presenterà ai figli che sono in ansia per le sorti della loro mamma. Un puzzle che si ricompone grazie a tre collaboratori di giustizia, parenti dei Lo Giudice, che Liguori andrà a sentire per chiudere il cerchio. Sarà uno dei tre a riferire che Roberto Lo Giudice gli ha confessato di essere direttamente coinvolto nella scomparsa della moglie. «Le chiamate in reità da parte di attuali collaboratori di giustizia - precisa Liguori - hanno consentito una lettura ragionata e coerente dei vari contributi istruttori raccolti prima dell'archiviazione dell'inchiesta e soprattutto dopo la riapertura delle indagini. Durante le quali ci siamo dovuti confrontare con reticenze dettate dalla paura di ritorsioni». Roberto Lo Giudice, ora in una cella del carcere di Terni, potrebbe tenere la stessa linea di luglio quando, convocato come indagato dal procuratore, si era avvalso della facoltà di non rispondere.
· Il Mistero di Roberta Ragusa.
Roberta Ragusa ora è morta anche per l’anagrafe, via libera all’eredità per i figli. Angela Marino su Fanpage il 27 agosto 2020. “Uccisa il 14 gennaio 2012 sul territorio di San Giuliano”. Roberta Ragusa ora è morta anche per l’anagrafe: è stato firmato dal Tribunale il decreto con cui si accerta il decesso dell’imprenditrice toscana. La questione del mancato aggiornamento dello stato civile della Ragusa era stato portato all’attenzione dei media dai figli Alessia e Daniele Logli, ai quali risultava impossibile accedere ai beni della madre. Via libera, con il decreto, alla successione. "Uccisa il 14 gennaio 2012 sul territorio di San Giuliano". Roberta Ragusa ora è morta anche per l'anagrafe: è stato firmato dal Tribunale il decreto con cui si accerta il decesso dell'imprenditrice toscana avvenuto otto anni fa, per omicidio, per mano del marito Antonio Logli, oggi in carcere con una condanna a 20 anni sulle spalle. Erano stati i figli Alessia e Daniele Logli a sollevare il problema della discrepanza tra quanto affermato in sede civile e penale, sulle sorti della madre. I due figli di Roberta avevano portato la questione all'attenzione dei media, con un articolo apparso su il Terreno, in merito alla questione del mancato riconoscimento della morte della madre, per il quale gli era impossibile accedere alla successione dei beni. Roberta era proprietaria di due immobili e del cinquanta per cento un appartamento a Capoliveri e di un fondo patrimoniale. "Malgrado la sentenza a tutti nota, né la Procura né il Tribunale civile hanno autorizzato l'aggiornamento dello stato civile della signora Ragusa", aveva detto l'avvocato Linda Sozzi, legale dei ragazzi Logli, lo scorso 12 agosto. Dal carcere, intanto, l'ex marito della defunta Roberta condannato in via definitiva il 10 luglio di un anno fa per l'assassinio della moglie, sta lavorando alla stesura di un libro in cui racconta la sua versione del caso Ragusa. Logli, 57 anni, compagno di Sara Calzolaio, ha sempre sostenuto che sua moglie se ne fosse andata spontaneamente, ribadendo di non averle mai fatto del male. Versione accolta da entrambi i figli, Daniele e Alessia, che si dicono convinti dell'innocenza del padre. Logli ha in programma la richiesta di revisione della sentenza di condanna e un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.
13 gennaio 2012 veniva uccisa Roberta Ragusa: “Un dolore che dura da nove anni”. Angela Marino su Fanpage il 13 gennaio 2021. Il 13 gennaio di nove anni fa veniva uccisa Roberta Ragusa. Da allora, il marito Antonio Logli, è stato ritenuto colpevole di omicidio e occultamento di cadavere in tre gradi di giudizio tre e condannato a 20 anni di carcere. Sara Calzolaio, l’ex amica di Roberta con cui Logli aveva una relazione sta oggi per diventare la sua seconda moglie. Il 13 gennaio di nove anni fa veniva uccisa Roberta Ragusa. Ora che una sentenza confermata in Cassazione ha condannato a 20 anni l'allora marito, Antonio Logli, anche il Tribunale civile ha riconosciuto la morte dell'imprenditrice e mamma di due figli, dando il via libera alla successione dei beni in favore di Daniele e Alessia Logli. Nonostante tre gradi di giudizio abbiano posto sulla vicenda una pietra tombale, Logli non intende rinunciare a proporre una richiesta di revisione del processo. "Non ho fatto del male a Roberta, spero che torni" ha sempre ripetuto. Il corpo della 45enne non è mai stato ritrovato. Nel giorno del nono anniversario del delitto, Maria Ragusa, cugina di Roberta, ha voluto ricordarla con un post FB: "Un dolore che dura da nove anni". I fatti risalgono al 2012. All'alba di un freddo venerdì di gennaio, Antonio Logli, elettricista, andò a denunciare la scomparsa della moglie Roberta. Secondo la versione fornita alle autorità, Roberta si era allontanata nella notte senza lasciare traccia, in pigiama, da sola e senza portare nulla con sé. Le ricerche cominciarono quella mattina stessa, estendendosi nei giorni successivi anche fuori dai confini del comune di San Giuliano Terme (Pisa), dove Roberta gestiva l'autoscuola di famiglia, a pochi passi da casa. Le indagini svelarono presto un interessante retroscena privato nella vicenda Logli-Ragusa. Da molti anni il marito di Roberta aveva una relazione sentimentale con l'allora assistente della autoscuola, Sara Calzolaio. La lunga corrispondenza telematica tra Sara e Antonio sarà la prova schiacciante della relazione e il primo tassello dell'indagine per omicidio. La crisi matrimoniale e la presenza sempre più ingombrante di Sara, per gli inquirenti, saranno l'ipotetico movente di un delitto. A incastrare Antonio, però, sarà una testimonianza schiacciante risalente alla notte del delitto. Qualcuno, infatti, aveva visto Roberta nella sua fuga disperata per le strade deserte di Gello, ma non da sola. Con lei, anzi, ad aspettarla seduto in auto c'era il marito, Antonio Logli, che qualcuno aveva poi visto discutere animatamente con Roberta. Il testimone è Loris Gozi, giostraio, lo stesso contro cui oggi la difesa di Logli si scaglia contestando la veridicità del suo racconto. Ci vorranno sette anni perché il Tribunale condanni per omicidio e occultamento di cadavere Antonio Logli. Nel mezzo, inizierà la convivenza con Sara Calzolaio, che dopo la scomparsa di Roberta ne prenderà il posto al fianco di Antonio e nell'accudimento dei figli. La scorsa estate Sara e Antonio hanno annunciato le loro future nozze in carcere.
Roberta Ragusa, il diario segreto: “Ho perso un figlio, Antonio non mi dice neanche ciao”. Angela Marino su Fanpage il 3 febbraio 2021. “Ho perso un figlio e Antonio non mi dice neanche ciao”. “Ho paura di stancare chi mi sta intorno con i miei continui pianti, specialmente mio marito “. Sono alcuni drammatici passaggi – pubblicati dal settimanale Giallo – del diario personale di Roberta Ragusa, vittima di femminicidio. Dalle pagine emerge l’episodio di un aborto, sinora sconosciuto. "Ho perso un figlio e Antonio non mi dice neanche ciao". "Ho paura di stancare chi mi sta intorno con i miei continui pianti, specialmente mio marito ". Sono alcuni drammatici passaggi – pubblicati dal settimanale Giallo – del diario personale di Roberta Ragusa, vittima di femminicidio. "Il mio bambino è morto, me l'hanno dovuto ammazzare. Piango molto. Non riesco a fare niente. Mi sento così sola". Dalle pagine, scritte a mano, emerge un episodio rimasto sconosciuto fino a ora, quello di un aborto, esperienza durissima della quale Roberta denuncia la sofferenza e il senso di solitudine. Parole drammatiche, quelle contenute nel diario, ma non sono nuove. Già in passato, una lettera scritta da Roberta Ragusae diffusa da "Chi l'ha visto", l'imprenditrice raccontava tutto il dolore e la solitudine della sua vita. "Non ti ricordi mai nulla – al scriveva rivolta al marito Antonio Logli, oggi in carcere per omicidio – non un fiore, neanche quando è nato il primo figlio e sarebbe stato così anche alla nascita della bambina, se non te lo avesse suggerito un'altra persona. Anche oggi per esempio, non ti sei ricordato il nostro anniversario. L'ennesima delusione. Non importa, non più". Antonio Logli, il marito condannato per omicidio, non sembra aver rinunciato all'idea di chiedere la revisione del processo. Intanto, ha annunciato il matrimonio con Sara Clazolaio, la donna con cui ha iniziato una relazione extraconiugale mentre era sposato e diventata dopo la morte della Ragusa la sua nuova compagna. Logli è stato condannato con sentenza definitiva nel luglio del 2019. Per tre gradi di giudizio è stato ritenuto l'assassino di Roberta Ragusa, uccisa a San Giuliano Terme la notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012.
Roberta Ragusa, il supertestimone Loris Gozi contro Antonio Logli: “Ora basta, lo querelo”. Angela Marino su Fanpage il 13 novembre 2020. “La situazione è diventata insostenibile, non ce la faccio più”. Loris Gozi ha annunciato querela nei confronti di Antonio Logli, l’uomo che la sua testimonianza ha contribuito a mandare in carcere per l’omicidio di Roberta Ragusa. Antonio Logli, infatti, ha sostenuto recentemente che la testimonianza di Gozi sia ‘falsa’. La notte del delitto lo dive litigare in auto con la moglie Roberta. "La situazione è diventata insostenibile, non ce la faccio più". Loris Gozi ha annunciato querela nei confronti di Antonio Logli, l'uomo che la sua testimonianza ha contribuito a mandare in carcere per l'omicidio di Roberta Ragusa. Da mesi, in linea con la una richiesta di revisione della sentenza di condanna a 20 anni di carcere che intende presentare, l'ex elettricista di San Giuliano afferma, dal carcere, che la testimonianza di Gozi sia ‘falsa'. La notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, la sera dell'omicidio, Gozi vide Antonio Logli in auto con Roberta Ragusa, a pochi passi da casa loro, mentre litigavano. Proprio questa scena è ritenuta, nella ricostruzione processuale, l'anticamera del delitto. "Dopo nove anni viene ancora detto che io sono un testimone falso – dice il supertestimone a ‘Storie italiane' – quella sera io ho visto il signor Logli fermo in macchina a fari spenti, non faceva niente, era fermo in macchina. Poi sono uscito col cane un’altra volta dieci-quindici minuti e ho visto un uomo e una donna (per la sentenza di condanna, Roberta Ragusa, ndr) che litigavano, sentito più che visto". "È stato in silenzio per molto tempo – dice Antonio Cozza, legale di Gozi – negli ultimi giorni c’è stato l’ultimo attacco. La denuncia è stata fatta perché non si può attaccare una persona che ha compiuto un dovere civico". Antonio Logli, 57 anni, è stato condannato con sentenza definitiva nel luglio del 2019 per l'omicidio e la distruzione del cadavere della moglie Roberta Ragusa omicidio e la distruzione del cadavere della moglie Roberta Ragusa. Secondo la ricostruzione processuale, Logli avrebbe ucciso Roberta al culmine nella notte tra il 13 e il 14 gennaio, verosimilmente, per il conflitto scoppiato nella coppia a causa della relazione di Logli con la babysitter Sara Calzolaio, sua attuale compagna. Nel corso degli ultimi anni, mentre il processo a suo carico andava avanti i figli di Logli, Daniele e Alessia, si sono esposti pubblicamente in suo favore, usando anche salotti televisivi per testimoniare la loro convinzione che il padre non sia l'assassino della madre, Roberta Ragusa.
Roberta Ragusa già nel 2008 Sara parlava a Logli di matrimonio: “I nostri parenti verranno?” Angela Marino su Fanpage l'1 ottobre 2020. Già nel 2008, quando Roberta Ragusa era viva ed era la moglie di Antonio Logli, Sara Calzolaio parlava di matrimonio e figli con Antonio Logli. È tutto documentato dalle email che gli amanti si scambiano all’insaputa di Roberta Ragusa. Ora che la morte di Roberta è stata riconosciuta anche in sede civile Logli e Calzolaio potranno unirsi in matrimonio. Già nel 2008, quando Roberta Ragusa era viva ed era la moglie di Antonio Logli, Sara Calzolaio parlava di matrimonio e figli con Antonio Logli. Lo documenta un servizio andato in onda a Chi l'ha visto, nella puntata del 30 settembre, dove, alla luce dell'annuncio delle nozze tra Calzolaio e Logli, sono state mostrate le mail inviate dalla donna all'amante dodici anni fa. L'allora segretaria parlava di matrimonio, di figli, si domandava se Antonio avrebbe mai lasciato Roberta per stare con lei.
"Mi viene il vomito al pensiero che mi scambi per lei". Non riesco a immaginare la vita senza di te. So però che affronteremo dei periodi brutti per colpa di questo amore folle, ti confesso che questo mi terrorizza, ma con te a fianco ce la farò. Sono spaventata da tante cose, dal fantasma di Lei che mi porterò appresso qualunque cosa farò. E poi, verranno i nostri parenti al matrimonio? Riuscirò a prendermi cura di te come una buona moglie sa fare? Io non ho mai comprato pantaloni per un uomo. E se sbaglio e non ti piace quello che faccio? È arrivato il momento di costruirmi qualcosa. Voglio diventare madre, ma con un uomo che faccia da padre ai miei figli Ho pura che tu mi lascerai, ma quando eravamo laggiù (in una breve fuga all'isola d'Elba) mi è sembrato che tu mi scambiassi per lei e questo non deve accadere, perché io non voglio in alcun modo ricordarti lei mi viene il vomito al pensiero.
Alessia: "Felice che si sposino". Ora che Roberta Ragusa è stata dichiarata morta anche dal Tribunale Civile, i due figli Alessia e Daniele posso dare il via alla successione dei beni e incassare l'eredità. Antonio Logli, invece, sebbene recluso in carcere, può sposare Sara, decisione cui sarebbe stato spinto dalla nuova fede evangelica che lo avrebbe animato in questi anni. La notizia delle nozze ha fatto molto discutere, tanto che, per spegnere le polemiche, Alessia, 19enne secondogenita di Roberta e Antonio, è apparsa in tv per dirsi felice delle nozze e convinta, ancora una volta, dell'innocenza del padre. "Sono felice che si sposino. Mia madre? Spero che torni". Roberta Ragusa, per la Cassazione, è stata uccisa il 14 gennaio 2012, a San Giuliano (Pisa), dal marito da Antonio Logli.
Roberta Ragusa, la figlia Alessia sulle nozze di Antonio e Sara: “Felice che ci sposino”. Angela Marino su Fanpage il 28 settembre 2020. “Sono felice si sposino: se mio babbo è felice, io sono felice per lui”. Così a ‘Live – Non è la d’Urso’, Alessia Logli, la 19enne aspirante modella figlia di Roberta Ragusa e Antonio Logli. “Mi è stata vicina e avevo bisogno di una figura femminile – spiega – mancando mamma, ha cercato di aiutarmi come meglio poteva a crescere. Adesso le voglio bene”. Logli ha chiesto la mano di Sara Calcolaio dal carcere dove sconta la pena per l’omicidio della moglie. "Sono felice si sposino: se mio babbo è felice, io sono felice per lui". Così a ‘Live – Non è la d'Urso', Alessia Logli, la 19enne aspirante modella figlia di Roberta Ragusa e Antonio Logli. La ragazza, che vive attualmente con la compagna del padre, Sara Calzolaio, nella villetta da cui scomparve la madre, sette anni fa, ha commentato l'annunciato matrimonio del padre con Sara. Antonio Logli, in carcere dal luglio 2019 per l'omicidio della moglie Roberta Ragusa, ha chiesto la mano di Sara in videochiamata dalla struttura circondariale dove sconta la pena di 20 anni. La notizia delle nozze è stata resa pubblica alcuni giorni fa. "Inizialmente non è stato facile accettare la cosa – dice Alessia, parlando della relazione tra suo padre e Sara, già amanti quando Roberta era in vita – ma mi è stata vicina e avevo bisogno di una figura femminile: mancando mamma, ha cercato di aiutarmi come meglio poteva a crescere. Adesso le voglio bene. Sono felice si sposino: se mio babbo è felice, io sono felice per lui"."Credo ancora all'innocenza di mio padre – continua Alessia, che ha sempre sostenuto apertamente il padre contro i parenti di Roberta – credo sia stato un errore". "Finché non avrò la prova concreta del fatto che lei è morta – continua – crederò sempre nel mio cuore che lei è viva e che possa tornare un giorno da me". Solo poche settimana fa la morte di Roberta Ragusa è stata ufficializzata anche dal Tribunale Civile, proprio su richiesta dei legali di Alessia e Daniele Logli, per poter dar seguito alla successione dei beni. "Per fortuna ho un carattere forte – conclude Alessia – Ho avuto mille pensieri, se sapessi cosa è successo sarei già da mia madre. Ero molto legata a lei e spero sia ancora viva". Su Instagram, dove Alessia è molto popolare, alcuni mesi fa ha mostrato il suo primo tatuaggio con il nome di "Roberta".
Ragusa, Logli chiede la mano di Sara dal carcere: “Ci sposeremo e avremo un figlio”. Angela Marino su Fanpage il 24 settembre 2020. “Antonio mi ha chiesto di sposarlo in carcere. Io vorrei un figlio”. Sono le parole di Sara Calzolaio, compagna di Antonio Logli, 57 anni, recluso in carcere dal 10 luglio per l’omicidio della moglie Roberta Ragusa, avvenuto nel 2012 a San Giuliano Terme (Siena). “Abbiamo abbracciato da un paio d’anni la dottrina della Chiesa Evangelica, che non ammette la convivenza. Quindi oltre al forte sentimento che ci induce a fare quel passo, avvertiamo anche l’esigenza di regolarizzarci davanti a Dio”. "Antonio mi ha chiesto di sposarlo in carcere. Io vorrei un figlio". Sono le parole di Sara Calzolaio, compagna di Antonio Logli, 57 anni, recluso in carcere dal 10 luglio 2019 per l'omicidio della moglie Roberta Ragusa, avvenuto nel 2012 a San Giuliano Terme (Siena). Le dichiarazioni sulle novità sentimentali della vicenda che da otto anni fa discutere l'opinione pubblica, sono state riportate in esclusiva dal settimanale ‘Giallo' in un'intervista a firma di Gian Pietro Fiore, che racconta i particolari della richiesta di matrimonio. "Quando me lo ha domandato – dice Sara, 37 anni – si è presentato con un anellino di plastica, quello che ferma i tappi delle bottiglie. Si vergognava che l'anello fosse di plastica e non un vero anello". Ora che la morte di Roberta Ragusa è stata riconosciuta anche dall'Anagrafe del Comune di San Giuliano, non ci sono più ostacoli all'ufficializzazione di un'unione che dura ormai da sette anni. Sara e Antonio convivono dal 2013, anno successivo a quello della scomparsa di Roberta, nella villa dove la donna viveva con il marito e i due figli Alessia e Daniele, poi passati alle cure di Sara. All'epoca giovane dipendente dell'autoscuola della famiglia Logli -Ragusa, Sara è diventata la compagna di Logli, con cui aveva una relazione clandestina da molti anni. "Riconosco di aver fatto solo uno sbaglio – ammette – quello di non aver valutato la situazione di partenza di Antonio e quelle che sarebbero potute essere le conseguenze". Quanto alle imminenti nozze, spiega che da tempo, pur dicendosi entrambi convinti dell'esistenza in vita di Roberta, cardine della difesa processuale di Logli, nutrivano il desiderio di rendere ufficiale la loro relazione. "Sicuramente pensavamo già da tempo di consolidare la nostra unione". "Abbiamo abbracciato da un paio d'anni la dottrina della Chiesa Evangelica, che non ammette la convivenza. Quindi oltre al forte sentimento che ci induce a fare quel passo, avvertiamo anche l'esigenza di regolarizzarci davanti a Dio". "La domanda è arrivata prima della pandemia, ma l'ha rinnovata qualche domenica fa, in videochiamata, davanti ai figli della mia migliore amica, che per me è una sorella. Le dico solo che chiamano Antonio "zio", perché con lui sono cresciuti". Antonio Logli, che dal carcere sta scrivendo anche un'autobiografia, presto presenterà una richiesta di revisione della sentenza che lo ha condannato a 20 anni di carcere per l'omicidio della moglie Roberta Ragusa. "Roberta? – dice Sara – ho un bel ricordo di lei, le voglio bene e spero che stia bene". "Se tornasse non ho idea di cosa le direi".
Storia di Roberta, i misteri e il diario della donna sparita nel nulla. Luca Ricci su Il Corriere della Sera il 27 febbraio 2021.
Luca Ricci, 47 anni, è scrittore e drammaturgo, il suo ultimo libro è «Il nero abisso esistente tra noi» (2020).
Un matrimonio da tempo in crisi: lei è infelice da anni, lui ha una relazione con l’ex baby sitter dei figli. Nella notte nero pece del 13 gennaio 2012, Roberta Ragusa scompare e non sarà mai più ritrovata. Roberta Ragusa è sparita la notte del 13 gennaio 2012: aveva 45 anni, due figli ed era sposata con Antonio Logli, ora in carcere. Roberta Ragusa aveva un paio d’occhi azzurri che, già a cose normali, una volta visti sarebbe stato difficile non replicarne all’infinito, in una sorta di panteismo oculare. Com’è possibile che due occhi così possano sparire nel nulla in una fredda notte toscana? Per i giudici è dal marito Antonio Logli che dovrebbe arrivare la risposta. Lui invece si professa innocente, dal carcere delle Sughere di Livorno dove è stato portato dopo la condanna definitiva. Di certo, quella notte del 13 gennaio 2012 è avvenuto l’epilogo di un matrimonio che era in crisi da tempo, come emerge dalle pagine di diario di Roberta che sono state rese pubbliche di recente dal settimanale Giallo. All’epoca Roberta era ancora una ragazza di 28 anni, già sposata con Antonio. Racconta la perdita di un figlio per una malformazione congenita al quarto mese di gravidanza: «Il mio bambino è morto. Lo hanno dovuto ammazzare. Piango molto. Non riesco a fare niente. Mi sento così sola. Mi manca tanto il mio bambino. Adesso so che lui forse non mi poteva capire quando gli parlavo e forse quando si muoveva lo faceva per riflesso e non per volontà». E ancora: «Oggi è il nostro quarto anniversario di matrimonio... niente da festeggiare, per carità, Antonio se n’è andato senza neanche dirmi ciao». Sono pagine tenere e strazianti allo stesso tempo, che ci confermano due cose: la sensibilità di Roberta; Roberta era già ai ferri corti con Antonio, in quella guerra senza quartiere in cui si stava trasformando il loro rapporto.
Il mistero della villetta a Gello. Se il matrimonio è uno dei misteri più duraturi dell’umanità, allora i casi di cronaca nera che accadono all’interno del matrimonio sono dei rompicapi al quadrato, degli enigmi spesso insolubili. In quel notevole trattato sui sentimenti che è La storia di un matrimonio di Andrew Sean Gre er, lo scrittore statunitense getta subito all’inizio del racconto un’ombra lunga sulla natura delle nostre relazioni: «Crediamo tutti di conoscere le persone che amiamo…». Anche Roberta Ragusa e Antonio Logli probabilmente lo credevano, finché un giorno si sono resi conto che non era proprio così: a volte basta un’inezia, un’osservazione o un gesto incongruo rispetto all’immagine abituale che ci siamo costruiti dell’altro. I due sono sposati e vivono insieme in una villetta a Gello, una frazione di San Giuliano Terme in provincia di Pisa, un posto tranquillo, illuminato bene. Scoprire che un’esistenza rassicurante nasconde un lato oscuro può diventare intollerabile.
Cosa si vede nel buio della notte. Succede sempre così quando le brutte storie accadono in Toscana, terra apollinea, che conserva in sé la saggezza etrusca e lo splendore rinascimentale, lo spirito scientifico di Galileo Galilei, il buon senso del minimalismo delle crete senesi e l’arguzia scollacciata di Giovanni Boccaccio e di Cecco Angiolieri. Questa campagna non è la brughiera inglese del Mastino dei Baskerville, eppure può essere capace di nascondere delitti altrettanto efferati, se non di più, come nel caso del mostro di Firenze. Ma qui non ci sono serial killer in azione, c’è piuttosto un giallo senza soluzione, con una sentenza definitiva che ruota intorno a cosa si può vedere o non vedere nel buio di una notte invernale. La domanda è importante, in questa storia, e in base al peso che i giudici hanno dato ad alcune testimonianze si è arrivati a una condanna definitiva per «omicidio e distruzione del cadavere». Ma andiamo per gradi.
La baby sitter e i sospetti. Abbiamo lasciato Roberta e Antonio nella loro casetta di Gello, impegnati nel loro matrimonio. Nel corso degli anni arrivano due figli, e il lavoro di Antonio nell’autoscuola di cui è titolare va per il meglio. Per garantirsi un po’ di respiro, prendono una babysitter, Sara Calzolaio, che diventa una di casa. Negli anni il rapporto tra Roberta e Antonio si logora, solo per il fatto di vivere sotto lo stesso tetto, svegliarsi insieme e andare a dormire insieme. Il semplice scorrere del tempo può corrompere i sentimenti, inquinare le falde acquifere dell’entusiasmo, disperdere gli umori. Dopo la fine dell’amore, emerge un unico elemento, quasi darwiniano: la lotta per la sopravvivenza, il continuare a vivere nonostante l’altro. Antonio continua a vedere la babysitter, da solo. Inizia una relazione, segreta. Ecco, è questo il momento in cui come dice in modo perfetto August Strinberg nell’Arringa di un pazzo, parla del matrimonio come di un «inferno». Prima o poi arriva un momento fatale, in cui le fiamme di questo inferno possono cominciare a bruciare sul serio. E per Roberta e Antonio quel momento scocca nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012.
La versione del marito fedifrago. Antonio Logli è irremovibile nella sua versione dei fatti: verso le 23.30 lascia Roberta in cucina a compilare la lista della spesa e se ne va a letto. Il punto è che Roberta non lo raggiungerà mai, e sparirà nel nulla. Col passare dei giorni, e nonostante fiocchino decine di avvistamenti della donna, la pista dell’allontanamento volontario – sostenuta dal marito - perde di credibilità. Tanto più che amici e conoscenti di Roberta delineano un quadro psicologico convergente. La donna viene descritta come persona responsabile, con la testa sulle spalle, e che vive per i figli. Le indagini si concentrano su Antonio Logli, anche perché se il rosa diventa nero il principale sospettato non può che essere lui, il marito fedifrago. Alcuni particolati non tornano fin dall’inizio. Com’è possibile che Antonio Logli non si sia accorto che la moglie non aveva dormito con lui? Perché ha dichiarato di aver telefonato una sola volta all’amante se dai tabulati risultano almeno tre chiamate distinte?
La testimonianza del giostraio. A sorpresa arriva la testimonianza di Loris Gozi, di professione giostraio, abitante di Gello. Loris smentisce la versione di Antonio Logli. Quella sera dice di essere rincasato intorno a mezzanotte e mezzo e di aver visto Antonio in macchina che discuteva con una donna. Loris esce una seconda volta con i suoi cani intorno all’una di notte, e ancora vede Antonio con la donna. I due discutono, è come se lei non volesse seguire l’uomo e chiedesse aiuto. Loris dichiara che a un certo punto «sente un rumore forte, come di una botta in testa». Sono flash strappati al buio delle stradine di Gello, in grado però di cambiare radicalmente il corso delle indagini e l’iter processuale. Certo, manca la prova regina. Dov’è il corpo di Roberta Ragusa? Perché le ricerche non hanno dato esiti positivi? Antonio è stato particolarmente scaltro o solo fortunato? Rino Sciuto, il maresciallo dei ROS che ha lavorato alle indagini dal 2012 al 2016 ha dichiarato: «Credo che il Logli abbia agito in uno stato d’impeto, e preso dalla confusione, col corpo della moglie in macchina, potrebbe essersene disfatto a circa 700 metri dal luogo in cui li vide Loris Gozi, davanti alla scuola di paracadutismo militare dove c’era una fila di secchioni della spazzatura. Credo che possa essersi sbarazzato così del corpo di Roberta, gettandolo in un secchione, e che l’autocompattatore abbia fatto sparire le prove».
Racconti discordanti dei teste. Nel corso degli anni, mentre il processo arrivava in Cassazione, ci sono state altre testimonianze, anche divergenti rispetto a ciò che veniva visto e sentito. Una testimonianza parla di una donna in vestaglia che esce di casa e s’infila su un fuoristrada (un’automobile diversa da quella di Antonio). Di fatto, in mancanza di prove certe, i giudici danno credito e peso a un testimone oculare, e ad alcune incongruenze e bugie – anche vistose – nel racconto dell’accusato. Antonio Logli, 57 anni, è stato condannato in via definitiva a vent’anni di carcere per l’omicidio e l’occultamento della moglie Roberta Ragusa. Intanto in prigione l’uomo ha sposato la sua ex amante, Sara Calzolaio, mettendole al dito un anello di plastica. Quello che aveva Roberta Ragusa, sparita dai radar del mondo, nessuno sa dove sia. Sparito con il suo corpo, in quella notte del 2012.
La coincidenza che sa di maledizione. Ci sono notti più brutte di altre. E quella tra il 13 e il 14 gennaio del 2012 è senz’altro una di queste. Come se una maledizione avesse colpito la Toscana, soprattutto la sua fascia costiera. Poche ore prima del fattaccio di Gello, infatti, la nave da crociera Costa Concordia sperona una roccia al largo dell’Isola del Giglio, nel tentativo di fare una manovra denominata “inchino”, e nel tragico naufragio perdono la vita trentadue persone di varie nazionalità. Il comandante Francesco Schettino viene condannato a 16 anni di reclusione per omicidio plurimo colposo, lesioni colpose, naufragio colposo e abbandono della nave. Secondo Milan Kundera il compito dello scrittore è trovare un destino alla serie di coincidenze di cui è fatta la vita, dare un senso al caos, trovare un disegno di bellezza dentro il movimento impazzito delle cose e degli eventi. Ma di certe coincidenze si può restare solo allibiti e terrorizzati. Così, fissiamo soltanto l’immagine di questi due cadaveri, uno fin troppo visibile e l’altro scomparso, il relitto di una nave e il corpo di una donna, uno di fianco all’altro, nel nero pece della Toscana.
* Luca Ricci, 47 anni, è scrittore e drammaturgo, il suo ultimo libro è «Il nero abisso esistente tra noi» (2020)
· Il Mistero di Roberta Siragusa.
Lara Sirignano per "il Messaggero" il 27 maggio 2021. L'assassino che getta la benzina sul corpo della sua vittima e le dà fuoco. Lei, giovanissima, che cade a terra e si contorce tra dolori atroci. Cinque interminabili minuti di agonia ripresi dalle videocamere di un bar alla periferia di Caccamo, il paese in provincia di Palermo in cui Roberta Siragusa, poco più che 17enne, è stata assassinata a gennaio. Per gli inquirenti è la prova che mancava per chiudere il cerchio attorno a Pietro Morreale, fidanzato della vittima, in carcere per omicidio aggravato e occultamento di cadavere.
LA RICOSTRUZIONE È il tassello che smonta definitivamente l'inverosimile versione fornita dal ragazzo che ha raccontato di uno strampalato suicidio dopo una lite, con Roberta che sarebbe scesa dall'auto fuori di sé, si sarebbe data fuoco e sarebbe poi scivolata nel dirupo in cui il corpo è stato ritrovato. Che la ricostruzione di Pietro fosse falsa, i pm lo hanno sospettato da subito, da quando hanno trovato tracce di combustione nell'auto dell'indagato e oggetti della ragazza - un portachiavi e brandelli del reggiseno - accanto al campo sportivo del paese. Segno che il delitto era avvenuto lì e che il cadavere era stato portato successivamente sotto la scarpata in cui i carabinieri, con le indicazioni di Pietro, l'avevano trovato la mattina dopo la tragedia. Ora, la conferma dalle immagini che riprendono nitidamente un uomo - certamente Pietro, dicono i legali della famiglia Siragusa - che cosparge la fidanzata di benzina e le dà fuoco. La ragazza è a terra. Lui risale in auto e si allontana per parcheggiare qualche metro più in là. Prima di incendiarla Pietro l'avrebbe picchiata brutalmente con un oggetto: sul cadavere sono state trovate numerose ferite, aggiunge il medico legale. Il video, trasmesso durante l'incidente probatorio davanti al gip di Termini Imerese e ai genitori e al fratello della vittima fa ora parte degli atti del processo. «Il consulente tecnico d'ufficio ha spiegato che la morte della ragazza è stata determinata da arresto cardio-circolatorio e respiratorio conseguente al gravissimo stato di shock causato dalle estese e gravissime ustioni del capo e soprattutto del tronco e degli arti superiori, fino alla carbonizzazione di ampie parti della superficie corporea», spiegano al termine dell'incidente probatorio, riferendo le parole del medico legale, gli avvocati Sergio Burgio e Giuseppe Canzone, legali della famiglia Siragusa. «Quelle del video depositato dalla Procura - dicono i due avvocati - sono state immagini forti, mostrate alla presenza dei familiari, sempre presenti in aula. Si è trattato di un documento che ha spiazzato tutti i presenti e che dimostra in modo inconfutabile che Roberta è stata uccisa al campo sportivo, caricata in auto e gettata nel dirupo vicino al monte San Calogero».
LA GELOSIA Il castello di bugie messo su dall'indagato sembra ormai crollato. E la ricostruzione fatta subito dopo il delitto dagli inquirenti esclude ormai con certezza che si sia trattato di un suicidio. Dopo aver lasciato la comitiva con cui avevano trascorso la serata, la notte tra il 23 e il 24 gennaio, i due ragazzi, che avevano avuto una violenta discussione per la gelosia di Pietro, non nuovo a comportamenti violenti, sono andati al campo da calcio, zona in cui solitamente si appartano le coppiette. La discussione sarebbe proseguita e il ragazzo avrebbe picchiato la vittima, l'avrebbe bruciata, poi ne avrebbe caricato in macchina il corpo e sarebbe andato in campagna per disfarsene. Tornato a casa in piena notte, Pietro è andato a dormire. Al padre avrebbe detto quanto era accaduto solo il giorno dopo. Ma anche su questo aspetto gli inquirenti vogliono andare a fondo. Il ragazzo era solo mentre portava via il corpo di Roberta? O qualcuno lo ha aiutato a disfarsene? Le indagini non sono ancora concluse.
Le lacrime al funerale "Roberta, eri la bellezza". Il fidanzato brucia la cella. Commozione all'addio della 17enne uccisa Il 19enne sotto accusa ha tentato il suicidio. Valentina Raffa, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Ragusa. Il corteo, un lungo applauso e le campane. Ad attendere per l'ultimo saluto nella Chiesa della Santissima Annunziata a Caccamo (Palermo) il feretro bianco di Roberta Siragusa, la 17enne uccisa a Caccamo nella notte tra il 23 e il 24 gennaio secondo la procura di Palermo dal fidanzato Pietro Morreale, 19 anni, accusato anche di occultamento di cadavere, c'era un intero paese listato a lutto, tra saracinesche abbassate e manifesti funebri. «Non esiste separazione finché esiste il ricordo» campeggiava su un lenzuolo, perché non si può dimenticare una ragazza bella come Roberta «che aveva il compito di fare crescere la bellezza nel mondo», ha detto nell'omelia l'arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefice - né si può scordare l'atrocità con cui è stata strappata alla vita. «Una vita che ci è stata rubata ha detto il presule - Una vita distrutta e rubata troppo presto, in modo oltremodo crudele». E poi la domanda che oggi si pongono tutti: «Perché?». Per un amore che non è amore, altrimenti le «avrebbe rubato il cuore e non la vita», come era impresso su un altro lenzuolo. Per San Valentino Roberta avrebbe dovuto festeggiare l'amore, come tutte le adolescenti, e invece ci si auspica che le indagini possano, per allora, mettere punti fermi ricostruendo gli ultimi attimi della sua vita. L'autopsia, che è stata effettuata a Messina, non ha chiarito le cause della morte, ma ha escluso che Roberta sia stata strangolata, in quanto mancano segni evidenti sul collo, e poi data alle fiamme nel tentativo di cancellare ogni traccia. La lingua protrusa, di cui ha scritto il medico legale, fa pensare a una possibile morte per asfissia (tra fumo e fiamme). Questo vorrebbe dire che Roberta non era morta quando è stata investita dal fuoco, ma forse solo svenuta. Il suo volto è tumefatto: c'è una ferita al mento e anche l'occhio è malconcio, per cui si ipotizza che possa essere stata colpita o spinta e, una volta resa inerme, le sia stata gettata la benzina addosso e sia stato dato fuoco. «Un corpo dilaniato, come ha detto il gip. Siamo molto provati per quello che abbiamo visto», ha commentato l'avvocato Giuseppe Canzone, legale della famiglia, che ha assistito all'autopsia. E sul deturpamento del corpo ha insistito monsignor Lorefice: «Siamo qui, sconvolti. Senza parole. Dinnanzi al corpo martoriato. Vediamo come la violenza abbia distrutto la bellezza di Roberta. Un corpo che aveva il fuoco della vita e si apriva al fuoco dell'amore è davanti noi, sfigurato dalle fiamme della violenza». Fiamme che tornano ancora in questa orrenda storia: il fidanzato Pietro ha dato fuoco a un rotolo di carta igienica all'interno della sua cella al Pagliarelli. Secondo alcuni è stato un gesto dimostrativo, altri lo interpretano come un tentativo di darsi fuoco o inalare fumo. La direzione del penitenziario ha aumentato i controlli per impedire eventuali gesti autolesivi.
Felice Cavallaro per "il Corriere della Sera" il 26 gennaio 2021. La pena per la povera Roberta che non c’è più cala come una cappa su Caccamo, travolge questo paesone arroccato sui monti di Palermo e diventa dolore infinito in due case dove due madri intrecciano a distanza gli stessi interrogativi. Da una parte, la madre di Roberta, Mamma Iana, una povera donna addetta alle pulizie in ospedale, il marito disoccupato, smarrita sul divano pensando al ragazzo accusato di averle ucciso e bruciato la figlia di 17 anni, aggrappata all’avvocato «che ci aiuta a capire», Giuseppe Canzone: «Stava sempre con noi Pietro. Da un anno e mezzo, uno di famiglia. Spesso qui a tavola. Lo conoscevamo bene. E in paese ci conosciamo tutti, come ripeto all’avvocato, anche lui di Caccamo, chiedendogli se davvero abbiamo nutrito l’assassino della nostra bambina...». Dall’altra, la madre del presunto omicida, mamma Antonella, educatrice all’asilo, il marito all’Acquedotto, lo sguardo perso nell’orrore di un dirupo dove s’è fermato tutto: «Si sono fermate anche le nostre vite. Come mamma vorrei abbracciare Iana che conosco bene. Lo so che è difficile. Ma, se potessi, vorrei confortarla e prendermi tutto il suo dolore. Abbiamo il cuore spaccato. Cos’è successo a questi due ragazzi che stavano sempre insieme? Anche la domenica, qui a tavola. Più spesso era Pietro ad andare da loro, ma saperlo con Roberta era una gioia...».
I progetti insieme. E insieme facevano progetti, seppure con qualche litigio che mamma Iana minimizza senza aver dato peso a quel senso di appartenenza manifestato da Pietro: «Liti fisiologiche, cose compatibili per due ragazzi che dopo un quarto d’ora fanno pace e passa tutto. Chi avrebbe mai potuto pensare...». E non ci pensava certo mamma Antonella: «Parlano tutti di gelosia, ma non ce n’era. Tranne che fosse la stessa provata da me per mio marito quando, da fidanzati, mi pareva che tutte le donne lo guardassero. E scattavano liti sceme. Fra loro sarà stato così...». La drammatica svolta ha però annullato ogni progetto, soprattutto per Roberta e per mamma Iana che ne ricorda i sogni: «Quelli di una ragazza semplice. Decisa a riprendere gli studi. Al liceo Psicopedagogico. S’era fermata l’anno scorso. Ma voleva iscriversi di nuovo. Aveva capito che non bastava lo sport, la danza. Lo studio diventava di nuovo una ragione di vita».
Il futuro da riscrivere. Volevano riprendere insieme a studiare, conferma mamma Antonella: «Anche con le lezioni a distanza, Pietro a giugno doveva, dovrebbe prendere il diploma. E se non studiava lavorava con suo padre che, tornando dall’Acquedotto, lo impegnava. Tante piccole occupazioni. Per un mese a tagliare legna per il camino. Quando si raccoglievano le olive, settimane in campagna. Sempre pronto...». Si guarda intorno mamma Antonella, cercando buone notizie che non arrivano perché il suo avvocato, Giuseppe Di Cesare, non può dargliene. E si dispera: «Vaghiamo in questa casa dove era una festa vedere Pietro e Roberta vicini. Pure quando andammo tutti a prendere la macchina nuova. Con mia figlia Chiara e con Roberta più contenta di noi. La sera a festeggiare. Come una famiglia attraversata dall’amore...». Ecco l’immagine strappata via per sempre, da una casa all’altra. Con mamma Antonella che guarda in alto: «Non ci credo. Dovrebbe venire qualcuno dal Cielo a dirmelo, se fosse vero. Lui nega. Mamma non sono stato io, mi ha ripetuto il mio Pietro. Non ho fatto niente a Roberta, mi ha giurato. E gli ho creduto».
Da “leggo.it”. Un video potrebbe incastrare Pietro Morreale, il 19enne di Palermo accusato di avere ucciso la fidanzata Roberta Siragusa di soli 17 anni. Nelle immagini si vede la Fiat punto del ragazzo che transita nella zona in cui è stato ritrovato il cadavere dell'adolescente più volte in diversi orari.
Le immagini delle telecamere. Il primo passaggio, secondo i filmati raccolti dai carabinieri di Termini Imerese, è alle 2:37 poi si vede Morreale tornare indietro alle 2:43. Poi la stessa macchina passa alle 3:28 con rientro alle 3:40. Per ora il 19enne è in stato di fermo ed è accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere.
La ricostruzione dei fatti. Domenica scorsa lui stesso è andato dai carabinieri dicendo che la sua fidanzata era morta e ha portato gli agenti sul luogo in cui si trovava il cadavere. Da subito alcuni elementi sono sembrati strani agli inquirenti: la ragazza aveva i jeans bruciati, ma non c'erano altre tracce di incendio. Presumibilmente potrebbe essere stata uccisa in un luogo diverso da quello del ritrovamento. Il 19enne aveva dichiarato di essersi appartato con lei, poi Roberta sarebbe uscita e si sarebbe data fuoco sola, alla mamma aveva detto invece di averla riaccompagnata a casa intorno alle 2 del mattino. Intanto gli amici e i conoscenti della coppia confermano che più volte in passato Pietro avrebbe picchiato Roberta, facendole anche segni evidenti. Uno degli amici della 17enne le aveva più volte detto di lasciarlo, convinto che le violenze sarebbero potute degenerare prima o poi.
Il delitto di Roberta, in estate il fidanzato l'aveva aggredita: "Lei aveva un occhio nero". Pietro in silenzio davanti ai pm. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 25 gennaio 2021. Il drammatico racconto di un'amica. Interrogatorio nella notte, Pietro Morreale si è avvalso della facoltà di non rispondere. Nell'ultimo post della ragazza, sabato sera, un'immagine della festa con gli amici. La famiglia: "Vogliamo giustizia". Il procuratore Cartosio: "Immenso il dolore per una 17enne vittima di omicidio". L’ultimo video che ha postato su Instagram ritrae una tavola con cinque bicchierini, una bottiglia di Vodka e un mazzo di carte. L’ultimo momento di spensieratezza per la diciassettenne Roberta Siragusa, poco prima della mezzanotte di sabato. Poi, lei e il fidanzato diciannovenne sono andati via. E lui, Pietro Morreale, è ricomparso alle 9,30 del mattino, alla stazione dei carabinieri di Caccamo: "Roberta è morta – ha sussurrato – vi porto dove si trova il suo cadavere". E ha farfugliato parole confuse, contraddittorie. E' da ieri mattina sotto torchio nella caserma dei carabinieri di Termini Imerese. Per la procura diretta da Ambrogio Cartosio, resta lui il principale indiziato dell'omicidio di Roberta Siragusa. Ma lui è rimasto in silenzio. "Si è avvalso della facoltà di non rispondere", dice il suo legale, l'avvocato Giuseppe Di Cesare. L'ultima foto postata da Roberta su Instagram A Caccamo, raccontano che Morreale era sempre parecchio geloso nei confronti della fidanzata: "La scorsa estate era arrivato anche alle mani - sussurra un'amica della vittima - avevo visto Roberta con un occhio nero. I litigi erano proseguiti, poi di recente sembrava essere tornato il sereno". Fino a sabato sera, quando sarebbe avvenuta un'altra scenata nel corso della festa a casa di amici. "La ragazza sarebbe dovuta ritornare entro l'una, così aveva detto ai genitori - racconta l'avvocato Giuseppe Canzone, che assiste la famiglia Siragusa - ma non è mai rincasata. All'alba, i genitori hanno iniziato a preoccuparsi, sono andati a casa dei ragazzi dove i due fidanzati avevano trascorso la serata. Hanno poi iniziato a telefonare alla figlia e anche al fidanzato, senza ricevere risposte. Quindi sono andati dai carabinieri a presentare denuncia". "I genitori ed il fratello sono scioccati e increduli - dice ancora l'avvocato Canzone - chiedono giustizia e si affidano agli inquirenti, perché sia fatta giustizia, per un gesto così crudele e atroce. Ora è tanta la disperazione, ringraziamo i carabinieri di Palermo, che hanno messo a disposizione dei familiari uno psicologo". Intanto, per l'indagine è una corsa contro il tempo. Entro questa mattina, i magistrati dovranno prendere una decisione sulla posizione di Morreale, che non può essere trattenuto oltre in caserma. Un'indagine complessa, che ha toccato emotivamente anche gli inquirenti. Dice il procuratore Cartosio: "E' immenso il dolore per una ragazza di 17 anni che verosimilmente è stata vittima di un omicidio".
Caccamo, «Roberta Siragusa picchiata e minacciata». Pietro Morreale provava per lei «un sentimento morboso». C’è anche una foto agli atti dell’inchiesta sulla morte della 17enne; un’immagine acquisita da WhatsApp che immortala un ematoma al viso della ragazza. Salvo Toscano su Il Corriere della Sera il 27/1/2021. C’è anche una foto agli atti dell’inchiesta sulla morte di Roberta Siragusa, la diciassettenne trovata senza vita in un burrone a Caccamo (Palermo) su indicazione del fidanzato. Un’immagine acquisita da WhatsApp che immortala un ematoma al viso della ragazza. I fatti risalirebbero al giugno scorso e secondo gli amici ascoltati dai carabinieri quel segno sul viso sarebbe stato opera proprio di Pietro Morreale, il diciannovenne fermato con l’accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere. «Provava un sentimento morboso nei confronti della vittima». Così scrive il pm della Procura di Termini Imerese nel provvedimento di fermo a carico di Morreale, che si trova in carcere da lunedì. Il ragazzo ha fatto ritrovare il corpo senza vita della vittima domenica mattina ai carabinieri, in un burrone su Monte San Calogero. Morreale non ha confessato il delitto. Ma i carabinieri hanno raccolto le testimonianze di alcuni amici di Roberta, che raccontano di precedenti episodi di violenza fisica da parte del giovane appassionato di kickboxing ai danni della ragazza. E anche di minacce. Il giovanissimo accusato di femminicidio viene descritto dai testimoni come morbosamente ossessivo con la ragazza, al punto di «impedirle di frequentare le sue solite amicizie». Amici della cerchia dei due hanno riferito che Pietro le avrebbe detto che se avesse riferito delle violenze «avrebbe fatto del male a lei e alla sua famiglia». Secondo la Procura il ragazzo avrebbe una «personalità proclive al delitto e insensibile alla gravità dell’evento». Gli inquirenti, infatti, ritengono che Morreale abbia ucciso la ragazza e poi abbia cercato di sviare le indagini. Chi indaga sostiene che vi siano diverse incongruenze nel racconto del giovane, che non combaciano con quanto raccontato dai testimoni, e non solo. Morreale avrebbe detto, non nell’interrogatorio in cui si è avvalso della facoltà di non rispondere, che la ragazza si era bruciata da sola e si era buttata nel burrone. Una versione che non convince in alcun modo gli investigatori al cui vaglio ci sono anche i messaggi e le telefonate dei due ragazzi nella notte di sabato. Per la Procura guidata da Ambrogio Cartosio «le versioni discordanti rilasciate dall’indagato, il rilevante tempo trascorso dal momento dell’evento e la chiamata effettuata alle forze di polizia dimostrano l’intenzione di Pietro Morreale di crearsi artatamente una versione dei fatti verosimile e di rallentare i soccorsi». In particolare, nel provvedimento di fermo, su cui si pronuncerà oggi il giudice per le indagini preliminari, si fa notare che Pietro Morreale, che domenica mattina sapeva che il corpo di Roberta giaceva fra le sterpaglie in un luogo impervio, in precedenza per due volte ha detto di non sapere dove fosse la fidanzata. Lo ha fatto con la madre della ragazza, a cui avrebbe detto di avere accompagnato a casa Roberta, e con un amico, a cui domenica ha chiesto se avesse notizie della ragazza. Inoltre, una telecamera ha filmato due volte il passaggio della macchina del fermato lungo la strada che porta al luogo dove è stato trovato il cadavere. Morreale è passato da lì alle 2.37 ed è tornato indietro alle 2.43. Successivamente è arrivato alle 3.28 ed è andato via alle 3.40. Tutti indizi che dovranno essere vagliati dal gip, nell’attesa che l’autopsia fornisca maggiori dettagli sulle cause della morte. Al momento si sa solo che i segni sui poveri resti dell’adolescente, ricordata ieri sera nel suo paese con candele accese alle finestre, «non sono riconducibili alla morte per combustione».
Da “Ansa” il 25 gennaio 2021. La Procura di Termini Imerese ha disposto il fermo di Pietro Morreale, il 19enne indagato per la morte della fidanzata Roberta Siragusa. È stato Morreale, ieri mattina, a far ritrovare il corpo semi carbonizzato della ragazza in fondo a un dirupo nelle campagne di Caccamo. Morreale è accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere. L’interrogatorio era andato avanti per tutta la notte e si era concluso solo all'alba. Davanti al sostituto procuratore della Repubblica di Termini Imerese Giacoma Barbara, che coordina l'inchiesta, l'indiziato avrebbe continuato a negare di essere il responsabile della morte della fidanzata. Ieri sera l'avvocato Giuseppe Di Cesare, che assiste Morreale, aveva detto: "Il mio assistito non ha confessato nè al Pm nè ai carabinieri". Prima di Morreale il magistrato aveva voluto ascoltare una decina di giovani che aveva partecipato sabato sera, insieme alla coppia di fidanzati, a una festa in una villa nella zona di Monte San Calogero nelle campagne di Caccamo, a poca distanza dal luogo in cui è stato recuperato il cadavere della ragazza. I testimoni hanno parlato di un litigio per questioni di gelosia tra i due fidanzati, che si sarebbero allontanati intorno alla mezzanotte dalla casa di campagna. Roberta aveva infatti assicurato ai genitori che sarebbe rientrata entro l'una di notte. Quando domenica mattina i genitori si sono accorti che la figlia non era in casa e che non rispondeva al cellulare sono andati dai carabinieri, poco dopo si è presentato in caserma anche il fidanzato. Il giovane, assistito dagli avvocati Giuseppe Di Cesare e Angela Maria Barillaro, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Lara Sirignano per “il Messaggero” il 25 gennaio 2021. Il cadavere era in fondo a un burrone. Evidenti le tracce di bruciature. Aveva solo 17 anni Roberta Siragusa e amava la danza. I carabinieri l' hanno ritrovata distesa a terra, zuppa dopo una notte di pioggia. «Amati» c' è scritto in stampatello sulla sua pagina Facebook. Un selfie come foto del profilo e, sotto, le parole del fidanzato Pietro Morreale, due anni più grande, una passione per la kick boxing. «Amore mio, bedda», ha scritto tre giorni fa commentando l' ultimo scatto postato dalla ragazza.
CON IL PADRE. È stato lui a far trovare ai militari il cadavere. Alle 9 di ieri mattina, insieme al padre, è andato in caserma a Caccamo, un paese della provincia di Palermo in cui entrambi vivevano. È stato lui ad accompagnare gli investigatori a Monte San Calogero, una zona impervia, poco fuori il centro abitato, dove Roberta è stata ritrovata senza vita. Difficilmente, senza la guida di Pietro, i carabinieri sarebbero stati in grado di individuare il cadavere, nascosto tra rocce e boschi e coperto dal fango. I vigili del fuoco e i medici del 118 sono arrivati poco dopo insieme al medico legale.
L' AUTOPSIA. Roberta sarebbe morta nella notte tra sabato e domenica. L' autopsia, che verrà eseguita tra martedì all' istituto di Medicina legale del Policlinico di Palermo, dirà se sul cadavere ci sono segni di violenza e se la ragazza è sempre stata nel luogo del ritrovamento, o se è stata trascinata in fondo al dirupo ormai senza vita e lì bruciata.
L'INTERROGATORIO. Pietro, dopo il ritrovamento del corpo, è stato portato in caserma dove sarà interrogato dal pm della Procura di Termini Imerese, Giacomo Barbara. «Il mio cliente non ha mai ammesso alcuna responsabilità», dice il suo legale, l' avvocato Giuseppe Di Cesare, smentendo chi, a mezzora dal ritrovamento del cadavere, raccontava che il 19enne avesse già confessato il delitto. Le indagini, però, partono proprio da Pietro, al momento il maggior indiziato della morte di Roberta. I carabinieri stanno acquisendo le immagini delle videocamere piazzate vicino alle stazioni di rifornimento del carburante del paese per capire se, nella notte, abbia preso la benzina con cui è stato dato fuoco al corpo. E per tutto il pomeriggio di ieri sono stati sentiti gli amici della coppia.
LA FESTA. I due ragazzi, insieme a un gruppo di coetanei, sabato notte, avrebbero partecipato a una festa in una villetta non distante dal luogo in cui il corpo è stato trovato. A dispetto dei divieti imposti dall' emergenza sanitaria, la comitiva si sarebbe riunita e avrebbe organizzato una cena. Alcuni testimoni hanno raccontato che i due fidanzati avrebbero litigato e che Pietro avrebbe fatto una scenata di gelosia alla fidanzata. Poi, verso mezzanotte, si sarebbero allontanati insieme. Roberta a casa non è mai tornata. Tanto che i genitori, non vendendola rientrare, ne hanno denunciato la scomparsa ai carabinieri durante la notte. Davanti agli inquirenti Pietro avrebbe balbettato spiegazioni poco convincenti, anche se nulla è stato ancora formalizzato in un verbale di interrogatorio. Ma come sapeva dove si trovava il corpo della fidanzata?
LE IPOTESI. Due gli scenari a cui pensano gli inquirenti. I ragazzi, dopo aver lasciato la festa, potrebbero aver continuato a litigare. Pietro avrebbe ucciso Roberta, poi avrebbe cercato di disfarsi del corpo gettandolo nel dirupo e tentato di nascondere i segni della violenza dandogli fuoco. Oppure la ragazza potrebbe essere morta durante la discussione, colpita dal fidanzato che non avrebbe avuto però l' intenzione di ammazzarla. Preso dal panico, Pietro potrebbe aver deciso di nascondere il cadavere e bruciarlo. Qualcuno lo ha aiutato? Qualcuno l' ha poi convinto ad andare dai carabinieri per far ritrovare il corpo? Interrogativi che potrebbero sciogliersi nelle prossime ore.
La. Si. per “il Messaggero” il 25 gennaio 2021. Era al quarto anno di scuola superiore. Studiava Scienze Umane e aveva la passione per la danza. Era bella Roberta Siragusa, amata dalla sua famiglia. Era piena di amici e di sogni. «Non si può morire così. L' amore non deve fare male», scrive una delle sue amiche su Fb. Roberta voleva fare la ballerina, aveva 17 anni. «Senza limiti» si legge nel suo profilo social. È morta in fondo a un dirupo, il corpo carbonizzato. Bruciata, forse, dopo essere stata uccisa. Una famiglia normale la sua. I genitori dipendenti pubblici, un fratello minore. Gente perbene, dicono i vicini di casa in un paese, Caccamo, in provincia di Palermo, in cui si conoscono tutti.
IL FIDANZATO. Roberta si allenava duramente. Era una sportiva. Come il fidanzato, Pietro Morreale, 19 anni, il maggior sospettato della sua morte. Lui appassionato di kick boxing, faccia da bravo ragazzo. «Ho scelto il male perché il bene era banale», la frase della sua pagina Fb che ora suona sinistra. Solo tre giorni fa scriveva parole d' amore sotto la foto del profilo di Roberta. Gli amici raccontano, però, che Pietro era ossessivamente geloso, parlano di liti frequenti, accennano a reazioni aggressive. Sabato sera durante una festa la coppia ha litigato. Una discussione violenta a cui hanno assistito anche gli amici che poi hanno visto i giovani allontanarsi insieme. Roberta non è mai tornata a casa. All' alba, vendendo il letto vuoto, la famiglia chiamato Pietro. Nessuna risposta. I genitori, allarmati, hanno deciso di andare dai carabinieri. Qualche ora dopo, la svolta. Pietro va in caserma col padre e dice di sapere dov' è il corpo della fidanzata. Durante il ritrovamento del cadavere, riverso a terra in fondo a un burrone, tra Pietro e il padre ci sarebbero stati momenti di grande tensione. «La famiglia è scioccata e incredula. I genitori e il fratello di Roberta chiedono giustizia e si affidano agli inquirenti, perché si arrivi alla verità su un gesto così crudele e atroce. È tanta la disperazione, ringraziamo l' Arma che ha pure disposto un servizio di assistenza psicologica», dice il legale della famiglia di Roberta, l' avvocato Giuseppe Canzone. Pietro frequenta l' istituto Alberghiero. Oltre 3.000 amici su Fb, tanti selfie e sul profilo la foto insieme a Roberta scattata a Natale, a Palermo, con lo sfondo del teatro Massimo. Sotto, centinaia di commenti di chi gli augura la morte per il gesto che si sospetta possa aver compiuto. «Sono stato a casa della ragazza. Ho incontrato i genitori. Per Caccamo è un giorno tristissimo. Questa notizia ha sconvolto tutti. Conosco entrambe le famiglie. Sono tutte e due dedite al lavoro e i genitori hanno sacrificato tutta la loro vita per far crescere in modo onesto e leale i loro figli», commenta il sindaco Nicasio Di Cola, che proclamerà il lutto cittadino. «So che i due fino a ieri sera erano insieme e si trovavano con altri amici - dice - Non si capisce come si possa essere scatenata questa inspiegabile e assurda tragedia. Ma Roberta non sarà dimenticata».
"Roberta è morta, è nel burrone". Il ragazzo parla ma non confessa. Il fidanzato si presenta in caserma con padre e avvocato. Fa ritrovare il corpo della 17enne, ma non si accusa. Valentina Raffa, Lunedì 25/01/2021 su Il Giornale. «Il corpo della mia fidanzata è in fondo a un burrone». Pietro Morreale, viso pulito, che 19 anni non li dimostra affatto, si è presentato ieri mattina in caserma a Termini Imerese per fare questa dichiarazione. Lei, la 17enne Roberta Siragusa, mancava da casa dalla sera prima, e i genitori, non vedendola fare rientro, avevano sporto denuncia ai carabinieri e la procura per i minorenni era stata allertata. Era uscita con degli amici e con Pietro, malgrado la zona rossa, ed erano stati tutti insieme in una villetta nella zona Monte Rotondo a Monte San Calogero, a Caccamo (Palermo). Nulla faceva presagire l'immane tragedia che si era consumata, ma i genitori erano allarmati perché Roberta non li aveva contattati. Ieri mattina Pietro in caserma, accompagnato dal padre e da un avvocato, ha indicato senza dare spiegazioni il luogo in cui si trovava il cadavere di Roberta, con segni evidenti di strangolamento e bruciature. I carabinieri si sono recati sul posto per verificare le dichiarazioni del ragazzo che, comunque, non aveva confessato l'omicidio, e l'hanno ritrovata parzialmente bruciata ai piedi di un burrone nella zona di Monte San Calogero. Ci sono voluti i vigili del fuoco per recuperare il corpo, alla presenza dei militari delle investigazioni scientifiche del comando provinciale carabinieri di Palermo, che hanno effettuato i rilievi, e del medico legale che ha confermato il tentativo messo in atto dall'assassino di bruciare il corpo, forse nell'auspicio che si carbonizzasse e quindi non potesse essere ritrovato. Forse c'è la gelosia alla base dell'orrendo omicidio che ha piombato la cittadina palermitana nello choc e nel dolore per la scomparsa prematura di una ragazza bellissima, a cui arrideva il futuro. Stando a qualche indiscrezione Pietro avrebbe fatto una scenata di gelosia davanti agli amici, poi si sarebbe allontanato con Roberta. Era circa mezzanotte. Il ragazzo è stato messo sotto torchio dal sostituto procuratore di Termini Imerese Giacomo Barbara, che coordina le indagini. Si vuole ricostruire la dinamica dell'uccisione, sapere con certezza se i due erano da soli al momento dell'omicidio o se qualcuno ha assistito senza denunciare, e si vuole comprendere cosa sia scattato nella mente di Pietro. Si stanno analizzando i profili Facebook e di altri social della giovane coppia, ma osservandoli non sembra che i due li aggiornassero molto. Pietro si dice amante della kick boxing e ha postato più che altro selfie. Non si contano i commenti di odio per ciò che ha fatto, e tanti gli augurano il peggio. Sono poche le foto con suoi commenti: «Ho scelto il male perché il bene era banale», «Ho smesso di credere che più insegui più ottieni, come ho smesso di credere che più dai e più ricevi», «La bellezza rimane solo uno schizzo. È il carattere a rendere una persona un capolavoro». Roberta aveva aggiornato il profilo il 26 gennaio con una foto sotto la quale si trova il commento di Pietro: «Amore mio bedda!» e lei aveva risposto con un cuore. «Sono stato a casa della ragazza. Ho incontrato i genitori. Per Caccamo è un giorno tristissimo dice il sindaco Nicasio Di Cola che proclamerà il lutto cittadino - La notizia ha sconvolto tutti. Conosco entrambe le famiglie. Sono tutte e due dedite al lavoro e i genitori hanno sacrificato tutta la loro vita per far crescere in modo onesto e leale i loro figli».
Tragedia a Caccamo. “Il fidanzato non ha confessato”, la smentita nel caso della 17enne ritrovata in un dirupo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Gennaio 2021. “Il mio assistito non ha confessato, né ai carabinieri né al Pm. Non c’è al momento alcun provvedimento nei suoi confronti, perché io avrei dovuto saperlo”. Lo ha detto all’Ansa l’avvocato Giuseppe Di Cesare, che insieme ad Angela Maria Barillaro difende il fidanzato di Roberta Siragusa, 17enne trovata morta, e con profonde bruciature in un dirupo in zona Monte San Calogero, a Caccamo, in provincia di Palermo. Marcia indietro, dunque, rispetto alle notizie diffuse da agenzie e media locali su una spontanea confessione del 19enne Pietro Morreale. Il ragazzo stamattina si è recato alla stazione dei carabinieri di Caccamo con il padre e l’avvocato. Ha accompagnato i carabinieri presso il dirupo dov’è stato ritrovato il corpo della fidanzata 17enne. I genitori della vittima avevano presentato denuncia della scomparsa ieri. Morreale si trova nella caserma di Termini Imerese dove è in corso l’interrogatorio con Giacomo Barbara, il pm che coordina l’inchiesta. Sentiti anche i ragazzi che hanno partecipato a una sera, ieri, nei pressi della zona dove poi sarebbe stata ritrovata la ragazza. È ancora tutta da chiarire infatti la dinamica dei fatti. I ragazzi avevano trascorso una serata insieme ad amici in una villetta nella zona del ritrovamento. Non avrebbero potuto, visto che la Sicilia è Zona Rossa, quella con le maggiori restrizioni previste dalle misure anti-covid. Media hanno parlato di un litigio per gelosia, ma è ancora tutto da dimostrare. Si ipotizza comunque l’omicidio. Disposta l’autopsia sul corpo della vittima. Le indagini sono condotte dai carabinieri e coordinate dalla procura di Termini Imerese. Sul posto anche gli specialisti della Sis e i Vigili del Fuoco. La comunità di Caccamo, comune di appena ottomila abitanti, è sotto shock. Il sindaco Nicasio Dio Cola ha proclamato il lutto cittadino. “Non ci sono parole per commentare quanto accaduto, che ha scosso e sconvolto le coscienze dell’intera cittadinanza. Conosco entrambe le famiglie e mai e poi mai avrei potuto immaginare questa immane tragedia che lascerà per sempre il segno nella nostra Comunità. Sono stato a casa della famiglia della giovane ragazza, ci siamo abbracciati con il cuore e con gli occhi”.
Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 31 gennaio 2021. Come quei disegni che si formano unendo i puntini, uno dopo l’altro. Punto numero uno: Roberta che incontra Pietro, più di un anno fa. Punto che chiude il disegno: il corpo di lei in fondo al dirupo, «fra arbusti con spine» e «numerosi rifiuti». Il disegno era un femminicidio. I puntini per metterlo a fuoco erano il preteso dominio di lui, l’isolamento crescente di lei, i segnali sottovalutati dalle famiglie, la violenza scambiata per conflitto, il possesso scambiato per amore, quella «fortissima gelosia» di cui scrive il giudice per ricostruire i fatti. Un classico — diciamo così — delle storie di donne ammazzate che abbiamo raccontato tante, troppe volte. Roberta Siragusa aveva 17 anni. L’ultimo giorno di cui ha visto la luce è stato sabato 23 gennaio. E, quello stesso giorno è cominciata una narrazione del male che ha provato (inutilmente) a fare di lui — il suo fidanzato diciannovenne Pietro Morreale — un carnefice non troppo carnefice. Non la violenza come scelta, non il suo racconto ritenuto del tutto inverosimile, non gesti inqualificabili quei due ceffoni o quell’occhio nero di Roberta raccontati dai testimoni. No. Al posto di tutto questo — e purtroppo è ancora una volta un classico — ci sono (perfino adesso) il minimizzare e il giustificare comportamenti che dovevano essere sentinelle della sua «fortissima attitudine al delitto», come dice il giudice. Ci sono una madre e un padre che vogliono credere alla sua versione ad ogni costo. Ci sono le sue stesse parole: «Non sono stato io, è scesa dalla macchina, si è data fuoco e si è buttata di sotto». E poi i segnali non colti nemmeno dalla madre di lei, Iana, quando dice che sì, i due litigavano ogni tanto «ma erano liti fisiologiche».
I dettagli. Ecco. Così una settimana dopo quel «non sono stato io» il copione di questa storia dice il contrario. I dettagli raccontano di un ragazzo mosso «da un sentimento morboso» che fa il vuoto attorno a lei. Roberta comincia la relazione con lui e per «amor suo» lascia il liceo e la scuola di danza che tanto amava. Roberta si allontana dagli amici e li frequenta soltanto quando c’è anche lui. Roberta passa oltre l’occhio nero immortalato in una fotografia trovata sul suo profilo WhatsApp. Non reagisce ai due schiaffi che lui le dà perché lei gli sfila uno spinello dalla bocca e lo butta via. Roberta non ascolta gli amici che cercano di metterla in guardia dagli atteggiamenti aggressivi di lui. A volte i due litigano anche davanti ai genitori dell’uno e dell’altra ma nessuno prende sul serio quegli scontri. «Liti sceme», per dirla con la madre di lui, Antonella. Atteggiamenti violenti ritenuti di poco conto. Per esempio quella volta che lui reagì in malo modo perché «lei lo aveva stuzzicato con dei pizzicotti». La madre di Pietro dice che in quell’occasione ne aveva parlato anche con la mamma di Roberta: tutto chiarito, la ragazza aveva «ammesso» di aver «provocato» la reazione del figlio.
I fatti. In mezzo a tutto questo arriva il giorno in cui Roberta smette di sentirsi innamorata e comincia a sentirsi in trappola, sola. Gli amici raccontano oggi di più episodi di violenza. Certo è che lui (appassionato di kickboxing) sabato sera ha lasciato assieme a lei la compagnia mentre ancora litigavano. «Amore mio bedda» le aveva scritto su Facebook poche ore prima. Lei aveva risposto con il solito cuoricino ma negli ultimi tempi non era più amore quello che provava per lui; forse le batteva il cuore per un altro ragazzo, lo stesso con il quale si è scambiata qualche messaggio pochi minuti prima di morire. Nell’ultimo gli scriveva che Pietro voleva appartarsi con lei. A qualcuna delle amiche aveva confessato di non poterlo lasciare perché temeva le sue reazioni.
Il volto tumefatto. Ogni passaggio di questo racconto è uno di quei punticini che hanno disegnato l’omicidio. Manca la certezza su un dettaglio che, se confermato, racconterebbe molto della personalità di Pietro: Roberta aveva «il capo pressoché rasato e il volto tumefatto», dice la relazione del ritrovamento. Potrebbe essere l’effetto del fuoco, ma anche no. E se non fosse stato il fuoco sarebbe lo sfregio finale voluto dall’assassino, la cancellazione dell’identità e della bellezza, buttata via fra «arbusti con spine» e «numerosi rifiuti».
· Il Caso di Niccolò Ciatti.
Niccolò Ciatti, estradato il ceceno che lo uccise a calci e pugni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021. La Germania ha accolto la richiesta di estradizione dell’Italia ed è pronta consegnare all’Italia , il 26enne accusato dell’assassino di , l’italiano che il 13 agosto del 2017 fu ucciso in Spagna davanti a una discoteca a Lloret de Mar. «La Farnesina esprime grande soddisfazione per la decisione delle Autorità giudiziarie tedesche in merito alla consegna del cittadino russo di origine cecena», fa sapere la Farnesina in una nota. Il ceceno era stato arrestato in Germania il 3 agosto scorso «sulla base di un mandato di cattura europeo». In Spagna era stato invece scarcerato il 27 giugno per la scadenza dei termini massimi di detenzione preventiva. Bissoultanov sarebbe colui che avrebbe inferto il calcio fatale al ragazzo davanti a un locale di Lloret De Mar, in Costa Brava durante una serata passata in discoteca. Ciatti era intervenuto quella sera del 2017 per evitare una rissa tra i suoi amici e i 3 ceceni accusati del pestaggio. Fatale per Niccolò, 22 anni, fu un calcio alla testa. «È una buona notizia la sua estradizione. Non riesco a dire sono contento, la contentezza è un’altra cosa, non posso sentirla in mezzo a questa tragedia, però sì, l’estradizione in Italia di Bissoultanov è una buona notizia». Lo ha detto a Fanpage.it Luigi Ciatti, padre di Niccolò, commentando la notizia. L’autorizzazione alla consegna fa seguito a un mandato di arresto europeo, emesso dalla Procura della Repubblica di Roma nel 2020. «Se preferiamo l’Italia alla Spagna, o alla Germania? Vorremmo il luogo dove più a lungo possa rimanere in carcere, e pensiamo che questo luogo possa essere l’Italia. La Spagna si è dimostrata pessima, dopo quattro anni non hanno neanche iniziato il processo, e Bissoultanov alla prima occasione è infatti riuscito a fuggire», ha spiegato. «Noi speriamo in una condanna molto alta, noi vorremmo l’ergastolo. L’assassino non ha nessuna intenzione di riabilitarsi, ma di fuggire, lo ha già dimostrato. Non è pentito, e l’unico posto dove è giusto che stia è in carcere, anche come esempio per altri come lui», ha proseguito. «Non riesco a dimenticare le immagini del calcio che ha sferrato a Niccolò, già a terra. Ho davanti agli occhi mio figlio in terra, e lui che a quel punto gli sferra quel calcio dato per uccidere. Quel calcio ce l’ho davanti agli occhi, sempre, non se ne va. E sa un’ultima cosa? L’ho pensato tante volte: avessi potuto, avrei preso il posto di mio figlio», ha concluso.
· Il Caso del massacro del Circeo.
Il delitto del Circeo e quella verità che abbiamo voluto dimenticare. Jennifer Guerra su L'Espresso il 26 ottobre 2021. Il cadavere di Rosaria Lopez trovato nel cofano di un'auto in un'immagine d'archivio del 1975, dopo il massacro del Circeo. Il massacro fu uno spartiacque: lo stupro come reato contro la persona. Eppure, a distanza di 46 anni i femminicidi non smuovono né intellettuali né politici. E ancora si fatica ad accettare che ogni violenza privata abbia una dimensione pubblica. La prima volta che ho sentito parlare del massacro del Circeo avevo 10 anni. Angelo Izzo era stato messo in semilibertà e non appena uscito di prigione aveva ucciso a Ferrazzano Maria Carmela e Valentina Maiorano, madre e figlia. Non so cosa mi rimase impresso all’epoca: se la vicenda in sé, lo sguardo luciferino di Izzo o la fotografia di Donatella Colasanti che usciva insanguinata dal bagagliaio della Fiat 127, rimandata in onda da qualche telegiornale o talk show pomeridiano. Sta di fatto che quel nome, quel fatto, rimasero latenti da qualche parte nella mia testa di bambina, per poi ritornare nell’adolescenza, quando lessi il famoso articolo di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera dell’8 ottobre 1975. Allora lessi di quel massacro con il distacco dell’aneddoto storico, come se fosse possibile trattarlo allo stesso modo dei fatti di Valle Giulia o dell’uccisione di Aldo Moro, ma nemmeno quella interpretazione bastava a rendere il Circeo qualcosa che potessi riuscire a comprendere. In anni più recenti, anche grazie al mio percorso femminista, lo spettro del Circeo è tornato più volte a trovarmi. Nei libri che raccontano il femminismo storico degli anni Sessanta e Settanta, le sevizie inflitte a Donatella e Rosaria e la morte di quest’ultima sono sempre citate insieme ai fatti più importanti di quei decenni, quasi uno spartiacque tra una stagione radicale e l’inizio del suo declino. Nella sua efferatezza e spettacolarizzazione, per più di una generazione di donne di questo Paese è stato un trauma collettivo, qualcosa che sconvolgeva nel privato e andava discusso nelle assemblee e nei luoghi della cultura. D’altronde, era avvenuto in un anno particolarmente significativo per le lotte femminili: nel 1975 esplodeva il caso dell’aborto con l’arresto dei radicali del Cisa (Cenro Italiano Sterilizzazione e Aborto) di Firenze, veniva fondata la Libreria delle donne di Milano, si teneva il secondo grande convegno femminista a Pinarella di Cervia. Tra le tante questioni al centro del dibattito c’era anche quella dello stupro, all’epoca reato contro la morale pubblica e non contro la persona e, soprattutto, confinato nel rapporto uomo-donna: «Una violenza, quella dello stupro, che nessuno considera politica: politica è la violenza davanti alle scuole, sono gli attentati fascisti, gli agguati, i corpo a corpo, ma lo stupro no», si scriveva a giugno di quell’anno sulla rivista femminista Effe. Pochi mesi dopo sarebbero cambiati per sempre i codici per decifrare la realtà: al Circeo la violenza era anche e innegabilmente politica e di classe, come sottolineò quasi ogni commentatore dell’epoca. Il massacro che si era consumato era anche nato dallo scontrarsi di due mondi all’apparenza non comunicanti tra loro. Ma soprattutto, sebbene non fosse di certo il primo caso di cronaca a coinvolgere una violenza carnale, l’eufemismo lirico con cui si chiamava un tempo la violenza sessuale, fu il primo a mostrare che a violentare e uccidere non erano soltanto squilibrati o maniaci, ma anche ragazzi per bene e dalla faccia d’angelo, che non avrebbero fatto alcuna fatica a trovare una compagna. Per la prima volta, con l’evidenza testimoniale e scioccante delle immagini e delle parole di una sopravvissuta, per un breve momento apparve con chiarezza che il movente che si celava dietro la violenza non era il desiderio sessuale, ma il potere. Era il potere che aveva spinto Ghira, Guido e Izzo ad arrogarsi il diritto di disporre come volevano del corpo delle due ragazze; era il potere che li aveva convinti di poter restare impuniti; era il potere che aveva concesso loro di ridere e scherzare per le due morte nel bagagliaio. Ma questo fu, appunto, un breve momento. Le femministe che si erano formate nella mutualità del supporto alle vittime di violenza lo ripetevano da anni: lo stupro non era sesso, non era un’indecenza contro la morale pubblica, ma un crimine contro la persona che si radicava nel rapporto, prima di tutto politico, di sopraffazione dell’uomo sulla donna. Il delitto del Circeo sembrava la prova più incontrovertibile di questa ipotesi, che tuttavia a 46 anni di distanza dai fatti sembra ancora non essere stata accettata. Se così fosse, oggi nessuno parlerebbe di «raptus» o di «troppo amore» quando una donna viene uccisa dall’ex o dal partner attuale o cercherebbe segni di colpevolezza in una ragazza che «non si è difesa» o «è stata ingenua» e si è fatta stuprare. Lo stupro nel 1996 è diventato reato contro la persona e non più contro la morale, ma questo non è bastato a convincere l’opinione pubblica che ogni violenza sessuale, da quelle quotidiane che nessuno racconta alle più eclatanti, si consuma nell’abuso di potere. Oggi il tema della violenza non è più motivo di scandalo, ma è diventato una specie di rumore di fondo. Ho provato a pensare se la mia generazione abbia avuto un caso analogo al delitto del Circeo, ma non mi è venuto in mente nulla di simile. I casi di cronaca che hanno popolato la mia infanzia e che hanno per vittime giovani donne, dal delitto di Avetrana a quello di Garlasco, li ricordo solo come sequenze di immagini e video martellanti o ricostruzioni dettagliate e morbose in programmi televisivi spazzatura. I femminicidi che nel nostro Paese continuano ad avvenire uno ogni tre giorni e le violenze sessuali di cui è stata vittima almeno una donna su tre sono ormai qualcosa a cui ci siamo tristemente abituati: non ci scioccano né ci fanno discutere, non ci chiamano direttamente in causa e non smuovono gli intellettuali del Paese. L’unica analisi politica che viene fatta è quando a commettere la violenza è una persona non italiana o di origine straniera. Solo quando la notizia è strumentale alla propaganda di qualche partito si chiama in causa la dimensione pubblica che irrompe su quella privata. Ma come ha dimostrato il delitto del Circeo, ogni violenza di genere ha una valenza politica, perché politico è il rapporto tra i generi e politico è il modo in cui esso è stato plasmato. Per pochi mesi dopo il 30 settembre 1975 sembrava una verità incontrovertibile, mentre oggi passa inosservata tra i mille massacri di cui non c’è una fotografia iconica che ne dimostri l’efferatezza.
Silvia Mancinelli per adnkronos.com l'8 ottobre 2021. "Ho avuto modo di leggere con attenzione quel “mattone” del libro di Albinati “La scuola cattolica” (1.300 pagine!) e onestamente mi è sembrato il solito racconto pieno di banalità e luoghi comuni. Del resto se Albinati è stato studente del San Leone Magno, cosa di cui non ho memoria, certo non è stato mio amico e neanche mio conoscente, quindi non riesco a capire come possa 'pontificare' su di me, visto che non ci siamo mai neanche parlati”. Mentre oggi esce nelle sale cinematografiche il film tratto dal libro di Albinati ispirato alla strage del Circeo, Angelo Izzo, dal carcere, commenta con l’Adnkronos un’opera che lo vede suo malgrado protagonista. Il "mostro del Circeo" prende le distanze da chi vuole attribuire ai 'preti della scuola cattolica' responsabilità per quelle inaudite violenze che lo videro protagonista e che costarono la vita a una delle due ragazze da lui seviziate insieme ai suoi due sodali: "Vogliono farlo passare come un fatto storico. Fu una porcheria, punto e basta", ammette. Quando al film e alla serie che dovrebbe esserne tratta, “credo si tratterà di lavori che riproporranno la solita storia un po’ morbosa e parecchio noiosa. Un concentrato di falsità e luoghi comuni - dice -. Ovviamente per esigenze difensive io e i miei coimputati a suo tempo abbiamo messo a verbale le cose come ci faceva comodo. Per esempio non si è mai veramente accertata la presenza di altre persone, tra cui una donna, nella villa del Circeo. È incredibile che si voglia fare un racconto basato su una storia che è destituita di ogni fondamento, costruita su una serie di falsità che abbiamo in gran parte imbastito io e Gianni Guido coi nostri avvocati di fiducia, che ci hanno difeso al tempo del processo". "Si è tanto sproloquiato sul viaggio a Roma di Gianni Guido durante i fatti del Circeo, immaginando una famiglia così tanto severa che a vent'anni non permetteva a Gianni di cenare fuori casa. Ma lui si era recato a Roma per portare un amico alla villa del Circeo, dove si stavano svolgendo le violenze. Questo fatto fa il paio con la costola soprannumeraria, sempre di Gianni, una sciocchezza in quanto questa costola in più non c’è. E potrei continuare con decine e decine di cavolate divenute vere per i media e l’opinione pubblica".
"Ai pm raccontammo ciò che ci faceva comodo, mai accertata presenza donna". "Mi sono state attribuite negli anni dichiarazioni che non ho mai fatto, accuse a giornalisti mai neppure conosciuti, secondo certa stampa i miei verbali sarebbero finiti in mano ai sovietici. Avrei perfino rilasciato dichiarazioni insieme a Marco Pannella, che non ho mai visto di persona, sulla pessima qualità del metadone passato in carcere. Io, che in tanti anni di cella non ho mai preso neanche un sonnifero o un qualsiasi medicinale...", dice ancora Izzo. "Per il resto già da subito Pasolini, unico e solo, nella sua ultima 'lettera luterana' rispondendo in particolare ad Italo Calvino, ebbe a scrivere 'ho da ridire che tu crei dei capri espiatori che sono parte della borghesia, Roma, i neofascisti. (…) Ebbene i poveri delle borgate romane cioè i giovani del popolo possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) quello che hanno fatto i giovani dei Parioli, con lo stesso identico spirito che è oggetto della tua descrittività. I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge, le chiamano batterie, simili a quelle del Circeo'. Pasolini fu spiazzante e totalmente ignorato", sottolinea. "Ormai, a distanza di quasi mezzo secolo quanto scritto dal grande intellettuale destinato ad essere assassinato di lì a poche settimane, ha retto alla prova del tempo, mentre le astruse teorie che hanno fatto del delitto del Circeo un caso paradigmatico, si sono rivelate tutte più o meno delle bufale. Infatti, solo degli autori davvero a corto di idee possono riproporre le teorie che vuole responsabili dei giovani educati dalle scuole cattoliche e da famiglie assenti o loro stesse tarate, che se la presero con delle povere borgatare. Insomma, la solita storia che si è raccontata in questi decenni. C’è un aspetto perfino comico nei fiumi di parole che si sono spesi da parte della compagnia di giro mediatica visto che si basano su presupposti inventati".
"In libro e film mie atrocità, depistaggi per non parlare di violenza su donne". In realtà, "io penso che riproporre in certi termini le atrocità che ho commesso, è una specie di 'depistaggio' per evitare di fare i conti con la violenza contro le donne, per scaricare su dei 'mostri' la cattiva coscienza di tanti", dice il 'mostro' del Circeo, che cita sul punto un articolo di Dacia Maraini proprio sulla 'sua' strage e osserva: "Quello che nessuno ha detto è che la violenza sulle donne è un fatto quotidiano, comune, di massa. Nessun giornale ha parlato di questa violenza continuata, atroce, muta, ricattatoria, sottile, abituale, che viene compiuta sul corpo e sull’anima delle donne, una violenza che si consuma nelle famiglie, nei luoghi pubblici, nelle camere da letto, nelle strade, nei giardini pubblici. E non sempre e soltanto per opera di neofascisti, ricchi, viziati, ma per mano di padri, figli, fratelli, fidanzati e mariti appartenenti a tutti i ceti sociali, perché, purtroppo, la cultura patriarcale lungi dall’essere superata è ancora preminente nella nostra società e le donne sono ancora considerate da molti degli oggetti". "Mi ripugna nel 2021 si riaprano vecchie storie destinate a vellicare istinti forcaioli e la cattiva coscienza della 'gente', per guadagnare un po’ di denaro. Non si sente proprio il bisogno che si continui a mitizzare il delitto del Circeo trasformandolo in una specie di fatto storico, che non è. È stata una porcheria, punto e basta", incalza Izzo, che giudica "ripugnante cercare di attribuire ai preti della mia ex scuola San Leone Magno le mie colpe o quelle dei miei sodali". "Bisogna essere accecati da un pregiudizio anticattolico per affermare simili sciocchezze: i fratelli maristi li ricordo come ottime persone e non ne ho un ricordo negativo manco a sforzarmi", dice, ricordando che al San Leone hanno studiato anche altissime personalità. Quindi Izzo passa al contrattacco: "Ho dato mandato all’avvocato Rolando Iorio e ad altri miei legali qualora ne rilevassimo i termini, di muovere causa per danni contro la casa produttrice" del film, annuncia, e conclude: "Donerei l’eventuale rimborso in beneficenza per aiutare i bambini bisognosi dell’Africa".
Gianamarco Aimi per "mowmag.com" il 9 ottobre 2021. Che cos’è il male ancora non se lo sa spiegare G.P. – che preferisce rimanere anonimo -, nonostante se lo sia trovato di fronte per lungo tempo. Di certo, però, ne ha percepito la pericolosità, tanto da aver deciso di abbandonare un’attività intrapresa con grande entusiasmo, nella quale aveva profuso impegno e passione, ma che alla fine si è conclusa con quella che amaramente definisce “un fallimento”. Mentre è in uscita al cinema “La scuola cattolica”, trasposizione del libro dello scrittore Edoardo Albinati che racconta anche del massacro del Circeo compiuto insieme a Gianni Guido e Andrea Ghira - in cui perse la vita la 17enne Rosaria Lopez e si salvò fingendosi morta la 19enne Donatella Colasanti -, siamo riusciti a contattare l’operatore culturale che nel carcere di Campobasso ha lavorato con Angelo Izzo a un laboratorio teatrale e di scrittura. Da quegli incontri, tre pomeriggi alla settimana per tre anni, sarebbe dovuto nascere un libro scritto a quattro mani. C’era già anche il titolo: “The Mob, la banda dei pariolini”. Un racconto dettagliato di una lunga serie di episodi cruenti: 21 capitoli per 400 pagine fittissime, che descrivono un gruppo di ragazzotti dell’alta borghesia romana negli anni ’70 mentre si divertono con la violenza sessuale sulle “pischelle” (spesso minorenni), compiono rapine alle banche più per libidine che per soldi, si stordiscono di droga perché in fondo “l’eroina è bella”, il tutto coperto da una “batteria di avvocati da paura” strapagati dalle loro altolocate famiglie. L’operatore culturale che abbiamo intervistato, uno dei pochissimi ad aver letto quelle 400 pagine cariche di follia (“ma bisogna ammettere che aveva un talento letterario”) per le quali gli offrirono cifre da capogiro per pubblicarle (“una casa editrice mi disse: faccia lei il prezzo”), per la prima volta ha accettato di parlarne in modo più approfondito, così come del suo rapporto con Angelo Izzo (“che un giorno pensavo volesse uccidermi”) e del lassismo delle istituzioni carcerarie dell’epoca che portò a concedergli diversi permessi premio (“nonostante fosse evidente qualcosa di strano”) che il “mostro dei Circeo” utilizzò per compiere un nuovo massacro uccidendo Maria Carmela e Valentina Maiorano, moglie e figlia di Giovanni Maiorano, ex affiliato (poi pentito) della Sacra corona unita.
G.P. come ha conosciuto Angelo Izzo?
Mentre tenevo un corso teatrale e di scrittura in un reparto del carcere di Campobasso dove erano detenuti i collaboratori di giustizia, ma anche lui era in quella sezione. Alla fine di quel percorso avremmo dovuto scrivere un libro insieme e per tre anni abbiamo lavorato tre pomeriggi ogni settimana.
Qual è l’Angelo Izzo che ha conosciuto lei nell’ambito di quegli incontri?
Una personalità molto complessa. Prima di tutto emergeva molto rispetto agli altri nel gruppo. Era piuttosto colto. Dotato di uno spirito critico. Personalmente cercava in tutti i modi di avere un rapporto positivo con le persone che conosceva. Con me si instaurò un rapporto di amicizia fondato su posizioni paritarie, ma certamente avevo ben presente che fosse una persona della quale non ci si potesse fidare completamente.
C’è qualche dettaglio che l’ha colpita in particolare?
Devo ammettere che solo successivamente ho avuto una sorta di revisione totale sui nostri incontri e sul lavoro che abbiamo svolto, prima nell’ambito teatrale e poi quando abbiamo deciso di scrivere il libro. Lui aveva buttato giù una sorta di canovaccio e io mi occupavo della dimensione letteraria.
“The Mob, la banda dei pariolini”. Era praticamente la sua autobiografia giovanile.
Sì, era praticamente completato, poi ho consegnato tutto alle forze dell’ordine perché potevano esserci elementi utili alle indagini. Alcune parti sono state pubblicate da alcuni giornali dell’epoca, ma io non ho mai chiesto niente. Mi avevano offerto delle grosse somme, però non ho voluto speculare sulla vicenda, anche se potevo sfruttare il momento per fare dei soldi.
Quanto le hanno proposto?
Quando era finito abbiamo avuto dei contatti con delle case editrici importanti che sarebbero state disponibili. Una di queste mi disse: “Faccia lei il prezzo”. Persino lo stesso Izzo, in una lettera dopo il massacro di Ferrazzano, mi chiese di riprendere. Ma appena successe quel fatto chiusi con tutto. Anche perché io non avevo solo Izzo come allievo nel laboratorio, ma anche Maiorana a cui aveva ucciso moglie e figlia, per cui mi sono completamente ritirato da questo progetto.
In quelle 400 pagine c’erano dettagli che secondo lei erano particolarmente significativi?
Ai processi sono stato chiamato come testimone e ho riferito tutto alle forze dell’ordine rivisitando quel percorso. Molti episodi facevano parte della sua vita. Io non credevo a tutto, c’erano anche evidenti reminiscenze letterarie. Non credo fosse tutto autobiografico. Lui stendeva un capitolo e io cercavo di dargli una dimensione letteraria, però non tutti gli episodi venivano considerati. C’era questa banda che si muoveva nella Roma degli anni ’70, tra un reato e un altro, con il sogno di un’Italia “nera” viste le loro convinzioni politiche, il tutto nell’ambito della borghesia romana.
Izzo in quegli scritti ha mai dimostrato un pentimento?
Con me nel periodo di tre anni non ho mai avuto da parte sua un segno di ravvedimento. Questo, purtroppo, devo dire di no. Quando ne parlava, anche del massacro del Circeo, sembrava un fatto lontano, non completamente in grado da aver cambiato la sua indole. È sempre rimasto quell’Izzo degli anni ’70.
Dopo il massacro di Ferrazzano, arrivato durante i permessi fuori dal carcere anche grazie al lavoro svolto nel laboratorio di scrittura, lei come ha reagito?
Io facevo parte del gruppo messo in piedi dal giudice di sorveglianza per poter concedere i vari benefici o la semi libertà e quando gli concessero qualche giorno mi andò bene. Solo che i giorni successivi le sue richieste diventarono sempre maggiori, per cui diventai tra i più critici nel gruppo a concederglieli, perché partivo dal presupposto che dovesse guadagnarseli. “Stiamo attenti” continuavo a ripetere, ma non cambiò nulla.
Si era accolto di qualcosa di strano?
Quando venivano i suoi familiari mi sembrava un percorso giusto. Non era giusto, a un certo punto, che arrivasse in carcere anche qualche amico con il quale faceva cose che non mi convincevano. Izzo è una di quelle persone che se gli dai un giorno poi diventa una settimana. Poi l’albergo, poi le cene, poi i rapporti con dei ragazzi più giovani, che sono diventati successivamente suoi coimputati.
Non mi ha risposto di come lei reagì alla notizia dei nuovi delitti di Maria Carmela e Valentina Maiorano, moglie e figlia di Giovanni Maiorano.
Non me lo scorderò mai. Stavo presentando un libro e un amico mi disse cosa era successo. Però non rimasi sorpreso dal fatto in se, ma che fosse così eclatante. Ci rimasi male, fu davvero un delitto efferato. Ma non fu una sorpresa, in qualche modo me lo aspettavo. Mi accorgevo che c’era qualcosa di strano, non voglio dire in programma, ma quasi… Lui in quel periodo in cui usciva pensava, secondo me, di essere libero e, quindi, di poter tornare alle attività da svolgere che preferiva. Che, naturalmente, non erano normali come potremmo avere io e lei. In quell’ultimo periodo mi sembrò tutto molto strano.
Gli è stata concessa troppa fiducia da parte delle autorità carcerarie?
Diciamo intanto che lui è stato molto abile. Alcune cose le abbiamo capite meglio successivamente. Ma in quel momento sembrava una brava persona, si era pentito dei suoi crimini, aveva un atteggiamento di auto assolvimento e ritenevamo che le prospettive successive potessero essere buone per un reinserimento nella società. Anche perché era in grado di crearsi una rete intorno. Il tutto se lo era “venduto” molto bene. Certe perizie psicologiche erano favorevolissime. Per cui il giudice di fronte a queste perizie come poteva ipotizzare che ci fossero dei problemi?
Però qualcosa di strano lei lo aveva notato.
Tutto nasce da quell’associazione alla quale ha partecipato fuori dal carcere, “Città Futura”. In quell’ambiente è cambiato molto. Era frequentata solo da detenuti e in particolare dal gruppo di Izzo. Io sono andato un paio di volte a trovarli, ma dopo l’ultima decisi di non farlo più.
Come mai?
A un certo punto mi prese da parte, volle che gli consegnassi il mio cellulare e gli tolse la batteria. Eravamo al quinto piano di un palazzo e ho pensato: “Addio…”.
Ha pensato che volesse ucciderla?
Sì, tolse la batteria, forse per timore di essere intercettato. Dopo quell’episodio non ci ho messo più piede all’associazione. Dico la verità, in seguito uno degli ispettori mi ha detto: “Guardi che lei ha rischiato”. Ho avuto la certezza che potesse essere un momento problematico. Eravamo solo io e lui al quinto piano, che cosa ne sai come può andare? Liquidai tutto e me ne andai senza tornare più.
Non avvertì il giudice di sorveglianza?
No, solamente dopo gli omicidi di Ferrazzano, Ma cosa potevo riferire e a chi? Non puoi andare a dire una impressione… Oltre a questa avevo tante piccole sensazioni, che avevo espresso con cautela quando ero chiamato nell’ambito del tribunale di sorveglianza.
Torniamo al laboratorio di scrittura. Come si svolgevano i vostri incontri?
Nella biblioteca del carcere. Eravamo io e lui e basta. Si parlava, si scriveva, lavoravamo a questo progetto del libro. Anche in quei momenti ho avuto delle impressioni, certe cose le percepisci, uno sguardo, un gesto, però rimanevano lì perché non avevano avuto un seguito. Però le ho sentite maggiormente quando ha iniziato a uscire. In particolare, mi sembrava strano andasse in albergo, che invitasse gente a pranzo, lo vedevo al centro di questo cenacolo che mi faceva una certa impressione.
Aveva talento per la scrittura?
Una certa vena narrativa ce l’aveva, bisogna riconoscerglielo. Era un lettore forte, per cui sapeva sistemare e organizzare le proprie dimensioni narrative. Aveva un percorso chiaro del racconto.
Da forte lettore, quali erano i suoi riferimenti letterari?
Quello che lo affascinava di più era Jean-Claude Izzo, forse anche perché condividevano il cognome. Lo stesso Angelo si rifaceva a quelle atmosfere della Marsiglia nera raccontate dallo scrittore francese, ma senza la dimensione morale.
Quello che impressiona è che lui di quelle atmosfere “nere” e “amorali” le ha vissute da protagonista.
Alcune di certo le ha vissute, però non distinguere il reale dal fantasioso. Ricordo un episodio che raccontava negli scritti. Un giorno con la banda, tutti nomi di fantasia ma ben riconoscibili nella realtà, si ferma in uno dei banchi in cui vendevano meloni e angurie a bordo strada per prendere qualcosa. A un certo punto arriva un altro ragazzo e fa una sorta di “sgarbo” al gruppo facendogli notare di rispettare il turno della fila. Anche perché loro avevano un atteggiamento da padroni. Raccontava come in quel momento non risposero, per non creare problemi visto che c’era tanta gente, ma successivamente iniziarono a indagare per una ventina di giorni sull’identità del giovane che gli aveva fatto fare una brutta figura e si ripresentano in seguito da lui per sparargli alle gambe.
Una storia vera o di fantasia?
Io gli chiesi se fosse vera o se l’avesse inventata. Lui mi assicurò che era vera. Che lo fosse o meno, dimostra che aveva la personalità di uno che medita la vendetta anche venti giorni o un mese e poi arriva all’azione feroce.
Che esperienza è stata per lei quel laboratorio?
Una esperienza formativa, non solo per l’incontro con lui perché avevo un gruppo composto tutto da persone con vite altrettanto difficili, come qualche capo mafia. Andavo in carcere due-tre volte alla settimana, passando l’intero pomeriggio con questi soggetti. Per fortuna ho rimosso.
In che senso?
È stata una esperienza costellata da episodi come quello di Izzo che mi hanno portato a essere più critico. Dopo gli omicidi di Ferrazzano non sono più andato, ho interrotto tutti i rapporti. All’inizio ero entusiasta di quel lavoro, pensavo di aver fatto qualcosa di buono, solo che dopo mi sono chiesto se mi fossi potuto accorgere prima di qualcosa che non andava.
Ha dei sensi di colpa?
Ma certo, possibile che non mi sia accorto… però era una situazione complessa. Pensi che Izzo e Maiorana all’inizio nel carcere di Campobasso non andavano per niente d’accordo. Avevano gruppi diversi. Me ne ero accorto subito delle amicizie e delle antipatie. Non si prendevano per niente.
E poi?
Tutto cambia quando si ritrovano insieme in cella. Scatta l’amicizia e quello che è accaduto dopo. Del tutto imprevedibile al percorso che avevamo intrapreso. Li avevano messi insieme dopo che entrambi, in momenti diversi, erano usciti con i permessi e spariti per più del dovuto. Li ritrovarono entrambi in albergo. In quel momento cementarono una amicizia.
Dopo il massacro di Ferrazzano ha più sentito Angelo Izzo?
Qualche tempo dopo ricevetti una lettera da parte sua. Mi salutava, dicendo che purtroppo questo fatto ci aveva allontanato… Meditai se rispondergli e poi mi convinsi dicendogli che spiaceva anche a me che si fosse interrotto il cammino che avevamo intrapreso e anche perché aveva fatto quegli omicidi. Eri sempre stato attento all’utilità, qual è il movente? Gli chiesi.
Lui le rispose?
Mi inviò un’altra lettera, nella quale diceva “poi ti dirò…”, divagò, alla fine nella risposta non c’era niente, né scuse, né rammarico, quasi fosse stato costretto a compiere quei delitti senza una spiegazione precisa.
La banalità del male?
Penso non sapremo mai il perché.
Lei il male lo ha visto di persona, se ne rende conto?
All’inizio non me ne accorsi, in seguito sì. Prima ero fiducioso, con i familiari sembrava che ci fosse la possibilità di un futuro discretamente positivo per lui che era in carcere da quando aveva 22 anni.
Come mi ha detto prima, le chiese anche di ricominciare il progetto del libro.
Sì, mi chiese di riprenderlo per sfruttare il momento “positivo”, anche sapendo che gli editori offrivano molto denaro. Rinunciai, non me la sentivo di speculare e ripercorrere quelle esperienze. Non voglio più affrontare quel periodo. Non ho fatto niente di male, però sono profondamente amareggiato. Lo ritengo un fallimento. Avevo scelto di dare una mano ad alcune persone e poi in un attimo si è sbriciolato tutto.
Ha avuto problemi anche personali dopo quella vicenda?
Non ero mai stato in un tribunale prima e essere chiamato a testimoniare, inserito nel marasma dei media mi ha scombussolato. Mi chiamavano per i programmi televisivi. Mi cercavano tutti. Ero finito in una spirale. Mi trovavo davanti a casa delle persone per interviste varie. Sembrava quasi che fossi io a essere colpevole di qualcosa. Un circo che però non faceva per me.
Ecco i capitoli aghiaccianti del libro di Angelo Izzo finora divulgati: «Credo che lo stupro abbia a che fare con gli istinti primordiali dell'uomo. La caccia, l'inseguimento, la cattura, la preda calda, spaventata, tremante, il possesso. Ecco, questo il gioco, la mia eccitazione si fonda su questo subdolo e umiliante meccanismo: il possesso. Il sapere che lei è preda, alla tua totale mercé, debole e remissiva, schiava delle tue volontà. Il possesso totale. Sì, è vero, in uno stupro la soddisfazione sessuale è poca cosa, è il resto a farla da padrone. Il pieno controllo del corpo di lei, il senso di onnipotenza, lo sfogo sadico di un istinto malfermo, la tortura psicologica, la sua sofferenza, l'angoscia, la remissività. Tutto entra in un gioco perverso teso all'annullamento della sua volontà. La donna che è dominata, la schiavitù, la sottomissione, l'inseguimento del tuo solo piacere. (...) «Per noi è così, una volta rotti gli argini diventiamo degli stupratori seriali. Entra nelle nostre priorità quella di avere delle donne da violare, da ridurre a giocattoli sessuali (...). È il nostro divertimento, ormai, niente più ci allontana dal desiderio di sfogarci in questo modo aberrante, siamo schiavi della nostra malattia, ne siamo forse consapevoli a volte, ma non sappiamo più rinunciare». (Continua) «Ah, ho 16 anni e scopro la mia vera vocazione, sono nato per fare il rapinatore di banche. Eh sì, rapinatore di banche, altro che ingegnere come mio padre. Non so spiegarmelo, ma per me rapinare una banca è come essere toccato da una grande passione. Un'onda che mi invade, che mi arroventa il corpo e lo spirito. Una libidine profonda. Il tutto a prescindere dal bottino. Non me ne frega niente del bottino. È l'azione, il modo, i tempi, i meccanismi. Si entra, per due o tre minuti sei con le armi in pugno, sei padrone del mondo. Istanti implacabili. Forti, essenziali, speciali. Si prendono soldi liquidi, puliti, incontrollabili. Si va via. Durante la rapina, in quei pochi minuti sei tu che comandi, reggi il piccolo mondo, sono tutti ai tuoi piedi. Sono tutti nemici. Non solo gli sbirri, ma proprio tutti, compresi i passanti. Guai a loro se si mettono di mezzo. Nessun ostacolo al potere. Nessun ostacolo a noi». «La verità è una sola: l'eroina è bella, è una favola, rappresenta il più dolce dei viaggi. È il Paradiso e l'Inferno insieme, è vita e morte nel medesimo istante. Uno sballo da magia. Ma c'è un solo, piccolo, minuscolo particolare, l'eroina ti fotte la vita. Ti fa vivere in funzione di quel mezzo grammo di polvere bianca. «Tutto, ogni momento della tua esistenza ruota attorno al pensiero di quando puoi farti, di quando puoi cercare la vena e infilarci l'ago. Passaporto per la pace e la serenità. Lontano, lontano dalle brutture del giorno, da questi pensieri che affliggono e uccidono. La roba, solo la roba da procurarsi, con ogni mezzo, subito, subito, subito». (Continua) «Tra l'altro fu in quel periodo che ebbi il primo vero rapporto omosessuale. Accadde con un ragazzo francese del Panier, un quindicenne dall'aspetto femmineo e un sorriso incantevole. Lo desiderai appena lo vidi. Fu un desiderio molto confuso, ero inesperto e anche un po' intimorito dalla cosa. In realtà non sapevo bene circa il da farsi, ma ogni volta che lo incontravo avvertivo il desiderio farsi forte. Avevo voglia di quel corpo e mi innamoravo delle espressioni del suo musetto meraviglioso. «Feci così l'impossibile per corromperlo. Gli regalai denaro, fumo, eroina, ma un po' le circostanze, un po' le mie indecisioni e timidezze, non riuscivo proprio a concludere. Continuò così per un bel po', finché un pomeriggio praticamente lo violentai». «Cominciamo una campagna di attentati su Roma che neanche i più esperti tra i rossi sfegatati sono mai riusciti a fare. (...) Il passo successivo è la rivendicazione. Telefoniamo a un giornale: "Sveglia gente, siamo i Nuovi partigiani, li bruceremo tutti". Così tutti sanno che dietro gli attentati alle sezioni ci sono questi rossi che hanno dato vita a una nuova e più pericolosa organizzazione. Ogni apparato dello Stato inizia il percorso d'indagine ed è proprio quello che vogliamo. Ullalà, ce l'abbiamo fatta. I nostri attentati antifascisti si rivelano davvero efficaci (...). «Eh sì, perché noi ci sentiamo come un anello, forse l'ultimo, di una lunga e misteriosa catena che si può considerare come un esercito clandestino, per di più coperto da settori importanti dello Stato. Direttamente o indirettamente apprendiamo ogni movimento, i golpe in preparazione, le stragi, le bombe, i terroristi che si riforniscono direttamente dalle basi Nato, i rapporti diretti fra dirigenti neofascisti e alti gradi dell'Arma dei carabinieri, generali dell'Esercito che partecipano a riunioni eversive. Sì, cominciamo a sapere molte cose, ad apprendere di tutto e di tutti, siamo volenti e nolenti parte di un progetto sovversivo, di un percorso sconosciuto alla gran massa delle persone e che si fonda totalmente sulla paura e il terrore della gente per controllare le cose e non permettere una vittoria delle forze di sinistra. Pur nel livello di spicciola manovalanza veniamo continuamente a conoscenza di visite di emissari di Nixon, di riunioni di bombaroli nella villa di un grosso boss mafioso italoamericano, tal Frank "Tre dita", di ex partigiani della Valtellina spediti nello Yemen a combattere contro la guerriglia marxista, di omicidi mascherati da incidenti stradali o da suicidi. Veniamo a sapere perfino di un attentato che fa sei morti e che è spacciato per incidente ferroviario. (Continua)«Questo il modo in cui in Italia, negli anni 70, si fronteggia l'avanzata del Pci. (...) Andiamo con un aereo di linea fino a Barcellona. A riceverci è il principe Borghese. (...) Ci riceve in un appartamento che funge da ufficio. Siamo nei pressi delle Ramblas, al centro della città. Sulla parete l'immancabile bandiera della Decima Mas. Ci parla, ci parla molto. Ci dice che siamo dei patrioti, "siete dei fieri avversari di questa democrazia parlamentare, dei combattenti per l'Italia". Le sue parole ci inorgogliscono, di concerto gonfiamo i petti, mostrando tutta una fierezza insperata in noi. Ci sentiamo pieni di esaltazione e ci sembra abbiano voluto riconoscere il nostro valore, premiandoci con le parole di quel grand'uomo che è il principe Valerio Junio Borghese». «Il 29 settembre ero a piazza Euclide in compagnia di Virgilio. Avevamo a disposizione la 127 di sua madre. (...) Mentre si cazzeggiava eccoti arrivare il Giambi, in Maserati, con tre ragazzette mai viste prima. Giambi fece le presentazioni, dicendo che le aveva prese su mentre facevano l'autostop. (...) Le invitai a scendere dalla macchina, ci scherzai un po' e, strizzando l'occhio a Marzia, proposi loro di vederci, magari più tardi, per andare a fare una gita al mare. Naturalmente il pensiero era quello di portare le tre ragazze da qualche parte per divertirci un po' tutti insieme. Erano tre "bore", si capiva dai loro vestiti e da come parlavano, ma non erano male. Fatto è che, dopo aver loro offerto qualcosa, le ragazze accettarono di rivederci. (...) Mi venne l'idea: ci portiamo il Riccio, cazzo che idea. Dopo l'orgetta le facciamo fuori le pischelle (...). «In meno di un'ora fummo a Fregene, nella villa di famiglia di Cowboy. Una bella villa, posta su una scogliera a picco sul mare, circondata da un parco, per lo più con alberi di pino. Ci accomodammo nel salone. Un luogo molto bello, raffinato, con i suoi marmi, il legno pregiato e il cuoio. Mettemmo su un paio di dischi, musica di sottofondo per le nostre amabili chiacchiere. Ci ascoltammo quasi tutta la colonna sonora di Arancia meccanica e poi l'inno della Brigata Thaelmann, infine una roba forte delle Brigate internazionali comuniste della guerra civile spagnola. Preparammo da bere e le invitammo a tracannare un paio di whisky. A un certo punto la conversazione sembrò languire. Fu un attimo, uno sguardo con Virgilio e la violenza prese a materializzarsi tra noi (...). «Cowboy si rivestì. Mangiammo. Dopo ci mettemmo a pippare la coca. Passarono ore e ore e ci rivenne voglia di sesso... Arrivarono i carabinieri. Dalle cronache seppi che erano arrivati in gran numero. Subito si attivarono. Naturalmente grazie alla macchina non potevamo scamparla. Alle prime luci dell'alba piombarono a casa di Virgilio e lo arrestarono. Era quasi mattina. Mi presero, senza far fatica, nel portone del palazzo di Virgilio. I carabinieri della centrale operativa erano un po' confusi. Invece di timorosi giovincelli trovarono gente dal comportamento deciso e arrogante. Criminali incalliti, smaliziati al punto da non dire una sola parola, nessuna ammissione, solo la nomina di avvocati famosi. Mutismo completo. Cazzi loro! Fui portato in ospedale per il riconoscimento. Capii solo allora che c'era stato un errore, che tutto sarebbe venuto fuori, che ero nella merda, la merda più schifosa. Cazzo, ero fottuto!».
La storia del massacro del Circeo, il caso di cronaca nera raccontato dal film “La scuola cattolica”. Vito Califano su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. C’è questo foto scattata in un pomeriggio di fine settembre in via Pola a Roma, quartiere Trieste, che è diventata una delle più note e terribili della cronaca nera italiana. Era il 1975. Dal cofano forzato di una Fiat 127 veniva fuori una ragazza insanguinata che fino a poco prima chiedeva aiuto. Quella ragazza era Donatella Colasanti, vittima del cosiddetto “massacro del Circeo”, uno degli episodi più cruenti e violenti verificatosi in Italia che oggi arriva nei cinema nel film La scuola cattolica, diretto dal regista Stefano Mordini, e basato sull’omonimo romanzo di Edoardo Albinati che vinse Il Premio Strega. Colasanti in quel bagagliaio si trovava con Rosaria Lopez. Avevano 17 e 19 anni all’epoca dei fatti. Abitavano al quartiere della Montagnola e avevano conosciuto Gianni Guido e Angelo Izzo che avevano frequentato l’istituto privato San Leone Magno al quartiere Trieste. A presentare i due alle ragazze un terzo amico, Carlo. Guido e Izzo si definivano fascisti. Invitarono le ragazze ad andare con loro a Lavinio, in provincia di Roma, a una festa, proprio a casa di Carlo. Le ragazze accettarono ma si ritrovarono a San Felice Circeo.
Il sequestro e le violenze
Precisamente a Villa Moresca, di proprietà dei genitori di Andrea Ghira, 22enne figlio di un noto imprenditore romano, con precedenti per violenze di piazza e per rapina insieme a Izzo, che si fece trovare sul posto. “I due a un certo punto – ha raccontato Colasanti – si fermano a un bar per telefonare a Carlo, così dicono; quando Gianni ritorna in macchina dice che l’amico avrebbe gradito la nostra visita e che andassimo pure in villa che lui stava al mare. La villa era al Circeo e quel Carlo non arrivò mai. I due si svelano subito e ci chiedono di fare l’amore, rifiutiamo, insistono e ci promettono un milione ciascuna, rifiutiamo di nuovo. A questo punto Gianni tira fuori una pistola e dice: ‘Siamo della banda dei Marsigliesi, quindi vi conviene obbedire, quando arriverà Jacques Berenguer non avrete scampo, lui è un duro, è quello che ha rapito il gioielliere Bulgari’. Capiamo che era una trappola e scoppiamo a piangere”. Le ragazze vengono violentate e torturate. Ghira si prende il tempo per andare a pranzo dai genitori e poi tornare. Rosaria Lopez viene uccisa, annegata nella vasca da bagno. Colasanti viene pestata, picchiata, provano a strozzarla. “Questa non vuole proprio morire” e lei capisce che se ha una possibilità di salvarsi, quella è fingersi morta. È a quel punto che i due corpi vengono caricati nella 127 di Guido. “Shh, parliamo piano, dietro c’è gente che sta dormendo”, scherzano i ragazzi e mettono su la musica del film L’esorcista. Decidono di andare in un ristorante poco lontano da via Pola, dove parcheggiano. A salvare Colasanti è un passante che sente lamenti e rumori dal cofano dell’auto. “Centrale… c’è un gatto che miagola nel baule di una 127 in via Pola”, è la chiamata che arriva alle forze dell’ordine dopo le 22:50. Il fotografo di nera Antonio Monteforte scatta una delle foto più orribili di tutta la cronaca nera italiana quando il cofano viene forzato. Colasanti ha fratture, ferite e contusioni su tutto il corpo, il naso rotto. Poche ore dopo Izzo e Guido vengono arrestati. Izzo si fa fotografare sorridente in manette. Il processo comincia nella primavera del 1976. Colasanti è difesa da Tina Lagostena Bassi, celebre avvocata impegnata nella lotta per i diritti delle donne che compare anche nel celebre film documentario Processo per stupro. La famiglia Lopez rifiuta di costituirsi parte civile e accetta un risarcimento di 100 milioni di lire. Come succedeva spesso in quegli anni nei casi di stupro e violenza sulle donne la difesa prova a smontare la credibilità di Colasanti. Izzo, Guido e Ghira furono condannati all’ergastolo. Ghira infatti era sparito per nulla.
Le condanne
Dopo un avvistamento a Roma venne ricostruito che Ghira si era arruolato nel 1976 nella Legione Straniera Spagnola, con il nome di Massimo Testa de Andrés, dalla quale venne cacciato 18 anni dopo perché diventato tossicodipendente. L’esame del Dna provò che era morto il 2 settembre 1994 – ritrovato con una siringa nel braccio – a Melilla. Colasanti non ha mai creduto a quella versione: ha sempre sostenuto che Ghira fosse ancora vivo e a Roma. Guido si pentì e la sua pena venne ridotta a 30 anni. Fuggì dal carcere di San Gimignano nel 1980 e fu arrestato due anni dopo a Buenos Aires. Fuggì dall’ospedale militare dove era stato ricoverato per un’epatite e venne arrestato nuovamente a Panama e nel 1994 estradato in Italia. Ha finito di scontare la pena nel 2008 e vive a Roma. Izzo collaborò a numerose inchieste sulla galassia neofascista. Approfittando di un permesso premio, nel 1993, fuggì dall’Italia. Venne catturato a Parigi. Ottenne la semilibertà nel 2004, detenuto a Campobasso, per lavorare di giorno presso una cooperativa. Uccise Maria Carmela e Valentina Maiorano, moglie e figlia di Giovanni Maiorano, un pentito della Sacra Corona Unita che in carcere gli aveva chiesto di occuparsi delle due. Izzo disse che “la presenza di Maria Carmela, i progetti che faceva, l’idea di fuggire con me all’estero, forse perché pensava che io potessi darle una speranza di vita diversa: tutto questo per me era diventato oppressivo”. La figlia fu uccisa perché poteva essere una testimone. Izzo in seguitò sposò in carcere la giornalista de Il Giornale Donatella Papi, convinta della sua innocenza. Un matrimonio che durò un anno solo e finì nel 2011. Donatella Colasanti è morta di tumore nel dicembre del 2005. La villa del massacro è stata venduta nel 2005 dopo essere rimasta disabitata per tanti anni. Il film La scuola cattolica, presentato fuori concorso al Festival dell’Arte Cinematografica di Venezia, arriva oggi nelle sale. La sua visione è stata vietata i minori di 14 anni dalla Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche perché “presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti”. Una decisione che ha generato non poche polemiche.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
"La sadica violenza del branco": la vera storia della "Scuola Cattolica". Francesca Bernasconi il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel 1975 Rosaria Lopez e Donatella Colasanti vennero sequestrate in una villa del Circeo, dove tre aguzzini le picchiarono e violentarono per ore. La prima venne uccisa, la seconda si salvò solo fingendosi morta. "Un delitto premeditato, caratterizzato da una sadica violenza", ha commentato la criminologa Rosa Francesca Capozza. Un volto insanguinato sbuca dal bagagliaio di una Fiat 127 bianca. È l'immagine simbolo di uno dei crimini più efferati della storia italiana, che la mattina del 1° ottobre 1975 portò alla luce un massacro consumatosi in una villetta del Circeo. Botte, violenze e torture per le quali vennero condannati tre ragazzi della Roma bene, alcuni cosiddetti "Pariolini": Angelo Izzo, 20 anni, Gianni Guido, 19 anni e Andrea Ghira, 22 anni. Due finirono in carcere, mentre il terzo si rese latitante. Nel bagagliaio dell'auto c'erano due ragazze: Rosaria Lopez, 19 anni, uccisa dal gruppo, e Donatella Colasanti, 17 anni, che riuscì a sopravvivere alla furia omicida di quelle ore. Per farlo dovette fingersi morta. "Un delitto premeditato, caratterizzato da sadica violenza, menzogna abituale, mancanza totale di empatia, compassione e senso etico inesistente", ha commentato la criminologa Rosa Francesca Capozza, parlando del profilo psicologico di Angelo Izzo. Una vicenda di cronaca raccontata da libri e documentari e ora diventata un film che, dal prossimo 7 ottobre, verrà proiettato nelle sale italiane. Ma La Scuola Cattolica di Stefano Mordini, tratto dal libro omonimo di Edoardo Albinati, sarà vietato ai minori di 18 anni. Una scelta che ha lasciato "sorpresi" i famigliari delle due vittime del massacro che, come spiegato dal loro avvocato al Corriere della Sera, hanno "apprezzato la volontà di tramandare, anche in chiave di ammonimento per il futuro, la memoria della loro tragedia, soprattutto alle giovani generazioni".
La trappola della festa. Donatella e Rosaria avevano conosciuto Angelo Izzo e Gianni Guido qualche giorno prima. Il giovedì precedente alla vicenda Donatella si era recata al cinema con l'amica Nadia. Fu lei stessa a raccontare, in una testimonianza riportata da Misteri d'Italia (che cita il libro Tre bravi ragazzi di Federica Sciarelli), che quel giorno conobbero "un certo Carlo". Il ragazzo accompagnò le amiche a casa e "durante il tragitto ci propose di vederci nuovamente, insieme a un suo amico". Per questo Donatella diede a Carlo il numero di telefono, a cui il ragazzo la rintracciò il sabato successivo. Quel pomeriggio, si diedero appuntamento in un bar all'Eur. Lì, Donatella andò insieme a Rosaria, dato che "Nadia era con la sorella e due amiche al luna park", mentre Carlo si presentò insieme ad Angelo e Gianni. Nulla di strano nell'atteggiamento dei giovani fece insospettire le due amiche. Così, quando loro chiesero un nuovo appuntamento per il lunedì successivo, nulla spinse Donatella e Rosaria a rifiutare. "Ci dissero, visto che erano in tre, di portare un'amica", ma anche quella volta Nadia non aveva potuto aggiungersi alle amiche: "Così eravamo solo io e Rosaria - spiegò Donatella nella sua dichiarazione - Ma anche Carlo non si presentò". Alle 16 di lunedì 29 settembre 1975, davanti al cinema Ambassade, si incontrarono Donatella, Rosaria, Angelo e Gianni. I giovani proposero alle ragazze prima una passeggiata al mare a Lavinio, poi di andare a trovare Carlo nella sua villa dove si sarebbe tenuta una festa e mentre erano sulla strada si fermarono per fare una telefonata. "Prendemmo una strada laterale - ricordò Donatella - Sulla sinistra vi era un albergo con un'insegna rossa, e dopo l'albergo si saliva verso il paese, poi si procedeva oltre. Prendemmo una strada che non era del tutto asfaltata. Arrivammo davanti a una villa. Era bianca, a tre piani, all'entrata vi era una porta a vetri con infissi di legno marrone. Loro cercarono le chiavi, vicino al cancello". Erano circa le 18 quando i quattro arrivarono alla villa di San Felice Circeo. Quella casa, che le ragazze pensavano appartenesse a Carlo, era in realtà della famiglia di Andrea Ghira, il terzo ragazzo riconosciuto colpevole per le terribili violenze che si consumarono nell'abitazione del Circeo. Poco dopo il loro arrivo alla villa, Angelo e Gianni puntarono una pistola contro le ragazze: "Ecco la festa!" - dissero, come ricordò la Colasanti in un'intervista - Poi ci hanno chiuso in un bagno minuscolo, senz'aria".
Il massacro nella villa del Circeo. Per spaventare ancora di più le due amiche Angelo disse di appartenere, insieme a Guido, alla banda dei Marsigliesi e, come ricorda Donatella, "che doveva arrivare un certo Jacques (Jacques Berenguer, ndr) che era il loro capo, che era terribile, e che era stato lui a dare l'ordine di prendere due ragazze". Nel corso della notte tra il 29 e il 30 settembre 1975 gli aguzzini iniziarono a mettere in atto violenze e umiliazioni di ogni tipo. Le due ragazze rimasero per tutta la notte nude, all'interno di un bagno senza finestra, senza cibo né acqua, vennero picchiate, torturate e subirono abusi di tipo sessuale. Nel frattempo, stando a quanto riportò l'Unità del 2 ottobre 1975, "i genitori delle ragazze, non vedendole rientrare a casa, si erano allarmati ed avevano denunciato la loro scomparsa, ma tutte le ricerche, ovviamente, non hanno dato risultati". Così, i due giovani poterono continuare il massacro. Durante la serata, Guido si allontanò dalla villa del Circeo per una cena con la famiglia (per tornare qualche ora più tardi), mentre Angelo rimase nell'abitazione insieme alle ragazze. Le violenze andarono avanti per tutta la notte e continuarono anche il giorno seguente. A un certo punto, il lavandino del bagno in cui erano rinchiuse Donatella e Rosaria si ruppe e i due aguzzini si arrabbiarono, schiaffeggiarono le amiche e le trasferirono in un altro bagno.
Le ultime ore. Nel pomeriggio di martedì al Circeo arrivò anche Andrea Ghira e i tre, insieme e fortificati dalla loro unione, continuarono con le violenze, arrivando a compiere azioni ancora più terribili. "Il branco - ha spiegato a ilGiornale.it la criminologa Rosa Francesca Capozza - rappresenta un incentivo all’acting out, ovvero al passaggio all’atto di ideazioni delinquenziali, costituisce un fattore di ulteriore deresponsabilizzazione e dissipazione di remore e freni inibitori proprio per la percezione della diffusione di responsabilità che all’interno di un gruppo avviene, in special modo se composto da soggetti ben disposti verso la violenza e l’attuazione di condotte criminose". All'inizio, Ghira parlò a Rosaria e Donatella, rassicurandole sul loro ritorno a casa. Poi le ragazze vennero separate e il massacro continuò con vessazioni, torture e violenze di ogni tipo, fino alle ultime terribili ore passate nella villa. Rosaria venne portata in un bagno al piano superiore: "Da quel momento non l'ho più vista - ha raccontato Donatella nell'intervista - L'ho sentita, però, l'ho sentita che gridava. [...] Poi sentii aprire il rubinetto della vasca da bagno, e immediatamente dopo avvertii i suoni emessi da una persona la cui faccia è immersa nell'acqua, dei rantoli come di qualcuno che cerca di riprendere fiato". Infine, all'improvviso, il silenzio.
Rosaria, rivelò poi l'autopsia, come riportò l'Unità, morì "per asfissia da annegamento", dopo essere stata violentata e torturata dai ragazzi che le spinsero "ripetutamente la testa nella vasca da bagno piena d'acqua". Nel frattempo anche Donatella subiva ogni tipo di maltrattamento: i suoi aguzzini la trascinarono in giro per la casa con una cinghia legata al collo e quando, dopo un momento di distrazione, si accorsero che era riuscita a raggiungere il telefono per chiedere aiuto, la colpirono in testa con una spranga. Poi calci e tentativi di strangolamento: uno di loro, raccontò la Colasanti, "mi aveva fatto sdraiare per terra, mi aveva messo un piede sul petto e legato una cinghia attorno al collo. Ha tirato così forte che alla fine la fibbia si è rotta. Allora ha cominciato a infierire con la spranga e con i calci in testa. Ho capito che l'unica, minuscola, speranza che mi rimaneva era fingermi morta". Così, Donatella si pietrificò e smise di reagire, tanto che i tre ragazzi la considerarono morta e, presa una coperta, la caricarono nel bagagliaio dell'auto. Poco dopo caricarono anche il corpo di Rosaria e lasciarono la villa del Circeo. "L'allucinante massacro, secondo la ricostruzione degli inquirenti, si è concluso martedì sera", spiegò ai tempi il giornalista Sergio Criscuoli sull'Unità. Le ragazze restarono nelle mani dei loro aguzzini per oltre 24 ore. Poi, racconta ancora Criscuoli, "inspiegabilmente, i tre squadristi hanno deciso di tornare a Roma portando anche i corpi delle ragazze, che credevano entrambe morte. Li hanno pigiati nel portabagagli di una '127' e si sono diretti verso la Capitale". A quel punto parcheggiarono l'auto in via Pola, al Nomentano, e si allontanarono. Fu allora che Donatella, rimasta vigile anche durante il tragitto, cercò di attirare l'attenzione dei passanti per chiedere aiuto. Un metronotte sentì il richiamo di Donatella e avvisò immediatamente le forze dell'ordine. La comunicazione venne intercettata anche da un fotografo, che corse sul posto e riuscì a scattare la nota fotografia del volto di Donatella che sbuca dal bagagliaio.
I processi. In poco tempo, gli autori del massacro vennero identificati. Angelo Izzo e Gianni Guido vennero arrestati, accusati di omicidio volontario e altri reati tra cui "violenza carnale e sequestro di persona", come precisò l'Unità del 6 ottobre 1975. Andrea Ghira invece scomparve nel nulla rendendosi latitante. Ghira e Izzo non erano nomi sconosciuti alle forze dell'ordine: "Nel '73, le indagini per una rapina avvenuta in casa di un industriale, in via Panama, condussero la polizia proprio a Ghira e a Izzo - si leggeva sull'Unità del 2 ottobre - Il primo fini in galera, per riuscirne però ben presto e il secondo fu prosciolto dalle accuse visto che gli indizi contro di lui, secondo la magistratura, erano insufficienti. Bastarono invece a procurargli una condanna a due anni — mai scontata — quelli raccolti dalla mobile dopo la violenza carnale, ai danni di una minorenne". Il processo di primo grado si svolse nel luglio del 1976 e i giudici condannarono i tre imputati all'ergastolo. Nel 1980 i giudici dell'appello confermarono la condanna all'ergastolo per Ghira e Izzo, ma ridussero a 30 anni quella di Guido, perché gli vennero riconosciute le attenuanti generiche, grazie al risarcimento che la sua famiglia dispose in favore di quella della Lopez. L'anno successivo la Cassazione confermò le condanne. La vita in carcere di Guido fu caratterizzata da diversi tentativi di evasione: il primo, non riuscito, nel 1977, insieme a Izzo. Riuscì invece a fuggire nel 1981, rimanendo latitante fino al 1983, quando fu rintracciato a Buenos Aires e ricondotto in carcere, dopo un nuova evasione, avvenuta mentre era in attesa di estradizione. Nel 2009 Gianni Guido è uscito dal carcere. Anche Angelo Izzo tentò diverse volte l'evasione dal carcere, riuscendo a fuggire due volte: la prima nel 1994, mentre la seconda nel 2004. Andrea Ghira invece non venne mai catturato: solo nel 2005 si scoprì che si era arruolato nella Legione straniera e che sarebbe morto di overdose nel 1994 e seppellito nel cimitero di Melilla.
Angelo Izzo, da omicida a serial killer. Nel 2005 Angelo Izzo, evaso dal carcere, tornò a uccidere. Questa volta, le sue vittime furono una ragazzina di 14 anni e la madre, Valentina e Maria Carmela Maiorano, figlia e moglie di Giovanni Maiorano, un 49enne che aveva conosciuto in carcere. Izzo venne arrestato il 30 aprile 2005 vicino a Campobasso: uscito dal carcere per permessi premio, si trasformò da omicida in assassino seriale. "Angelo Izzo presenta chiaramente la personalità del serial killer", ha spiegato la criminologa Capozza, delineandone i principali tratti distintivi. Tra questi, "il sadismo, la totale anaffettività e il senso di inferiorità sessuale cui è correlato il bisogno di compensazione attraverso l’onnipotenza, ovvero il senso di totale dominio e possesso dell’altro". Il comportamento tenuto durante il massacro, le sue confessioni ed esternazioni permettono di inserire Angelo Izzo in due categorie di assassini seriali: "Edonistic, per la ricerca del proprio interesse o piacere - spiega l'esperta - e Power/Control -OrientedType, per il desiderio di uccidere per ricavare godimento dal potere assoluto esercitato sulla vittima". Ma la personalità di uno dei killer del Circeo appare molto più complessa. "Presenta una personalità infantile, immatura, poco evoluta, incapace di tollerare le frustrazioni, di comprendere e accettare la realtà in modo adulto e resistere alle pulsioni, con un'evidente sindrome di inadeguatezza e senso di inferiorità che spiega l’esigenza di compensazione ricercata nel sentirsi 'superuomo' (come lo stesso afferma in varie interviste) e sfogare il senso frustrante della propria percezione di debolezza in aggressività verso chi ritiene inferiore e incapace di difendersi". Un atteggiamento che deriverebbe da un "senso di sé incerto", che viene "compensato da un velleitario bisogno di protagonismo", che sfocia nella violenza cieca del massacro e dell'omicidio. "Assente - continua l'esperta - è il senso di colpa e la capacità di pentimento". Nonostante queste caratteristiche nel 2004 Izzo potè godere di permessi premio e successivamente della semilibertà, che lo portarono fuori dal carcere. A deciderlo furono i giudici, che si basarono sulla relazione di un esperto del carcere di Campobasso: "Ritengo che il superiore organo giudicante possa a questo punto prendere in esame senza timore l'ipotesi della concessione di un permesso premio di riapertura a questo detenuto", si leggeva sulla relazione dell'esperto, secondo quanto riportato al tempo dal Corriere della Sera. Ma come fece l'aguzzino del Circeo a convincere i medici del suo cambiamento? "L’Osservazione Scientifica della personalità che si intraprende nei confronti di ogni condannato - spiega la criminologa Capozza - è un processo molto complesso in cui ogni esperto deve attentamente valutare e giudicare sia il profilo di personalità del reo, che il percorso più o meno evolutivo realizzato. Sicuramente, al fine di effettuare una valutazione quanto più possibile attendibile, occorre integrare numerose fonti informative e in particolar modo tutto ciò che attiene anche la comunicazione non verbale, oltre che quella verbale del detenuto. Probabilmente qualche fonte informativa di questo tipo non è stata sufficientemente rilevata e approfondita con conseguenze purtroppo tragiche". Izzo infatti approfittò di quel momento per compiere un altro massacro, dopo quello del Circeo: due donne, madre e figlia, vennero uccise.
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
"Nessun divieto. E non solo per il mio "La scuola cattolica"". Pedro Armocida il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Girare un film su un doloroso fatto di cronaca, il massacro del Circeo, che ha avuto come vittime anche minorenni e vederselo vietare ai minori di 18 anni è una forma di censura?
Girare un film su un doloroso fatto di cronaca, il massacro del Circeo, che ha avuto come vittime anche minorenni e vederselo vietare ai minori di 18 anni è una forma di censura? Lo chiediamo a Stefano Mordini, regista di La scuola cattolica, ora in sala.
Mordini, Lei è l'unico regista italiano, con un film distribuito su tutto il territorio nazionale, ad avere avuto il fatidico V.M.18 negli ultimi quindici anni?
«Trovo assurdo che oggi si vieti ai ragazzi di vedere, attraverso un libero mezzo di espressione, quello che due ragazze come loro, anni fa, hanno subito. È un atto censorio priva una generazione di una presa di coscienza che potrebbe essere utile per difendersi da quella violenza».
Nella prima motivazione i commissari entrano nei contenuti dicendo che «presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice».
«Il film racconta l'esatto contrario e oltretutto ci sono degli errori formali che mi hanno spaventato per la leggerezza in un documento che diventa pubblico».
Mentre nella motivazione d'appello ci si limita a sottolineare come «un minore non abbia gli strumenti per elaborare e contestualizzare la crudezza di alcune scene».
«Su questo almeno mi posso confrontare. Oltretutto se fosse una critica cinematografica sarebbe bella perché parla della forza delle immagini, che ci deve essere, nel racconto di un fatto di cronaca come quello, anche se sono stato sempre molto attento a tenere la violenza finale fuori campo».
Il divieto V.M.18 crea anche un danno economico sia in sala sia in futuro perché La scuola cattolica non può essere trasmesso nelle tv generaliste.
«In effetti è un'avventura economica finanziare storie scomode come questa del Circeo. Questo divieto fa sì che continui la reticenza italiana nel rileggere alcuni passaggi che rendono paradigmatico il comportamento dell'uomo con la donna. Indubbiamente nel mio film ci sono elementi che disturbano, è una ferita aperta che produce reazioni di censura».
Oggi si parla molto di cancel culture. Un'altra forma di censura?
«Se guardiamo al cinema degli anni '70, poco dopo il periodo del massacro del Circeo, in sala c'era La banda del gobbo con Tomas Milian. Lì la violenza sulle donne è esplicita, vengono mostrate a seno nudo, picchiate, con l'uomo/il marito che veniva umiliato. Oggi sarebbe inimmaginabile ma così, anche vedendo cose scomode, capisci il contesto, la cultura di un popolo e un momento storico. Io non cancellerei nulla. Soprattutto perché è il segno di un percorso. Quella rappresentazione ci sta dicendo che la società si è evoluta».
C'è chi propone di mettere dei cartelli a inizio film per contestualizzare
«Farei un po' attenzione, è complesso trovare oggi un codice comune. Con lo streaming e con le piattaforme i nostri confini intellettuali sono soprannazionali. Le culture e le sensibilità sono diverse. E poi bisogna capire che società abbiamo di fronte, i sedicenni di oggi non sono quelli di prima. E se il mio film apre un dibattito anche su questo sono felice. Però sa alla fine che penso?».
No, mi dica.
«Che se esiste tutta questa attenzione e una censura che entra in questo modo a gamba tesa su un film, allora vuol dire che il cinema è ancora un grandissimo mezzo di espressione». Pedro Armocida
Gloria Satta per “il Messaggero” il 6 ottobre 2021. Vietato ai minori di 18 anni La scuola cattolica, il film di Stefano Mordini tratto dall'omonimo romanzo premio Strega di Edoardo Albinati (Rizzoli) sul massacro del Circeo. E scoppia la polemica contro la censura cinematografica che nell'aprile scorso il ministro Dario Franceschini aveva promesso di abolire, quantomeno di riformare. Il film, che ricostruisce l'atroce fatto di cronaca del 1975, vittime Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, uscirà in sala domani distribuito da Warner Bros dopo essere passato fuori concorso alla Mostra di Venezia, ma non potrà essere visto dai minorenni: lo ha deciso l'ufficio di Revisione Cinematografica del MiBac che nella ricostruzione dello stupro e dell'omicidio, commessi dai giovani-bene Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo, ha visto «una sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice». Per i commissari di due sezioni ministeriali congiunte, «i protagonisti della vicenda, pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti». La motivazione fa riferimento a una scena in cui un professore di teologia, interpretato da Fabrizio Gifuni, parla ai suoi allievi liceali del complesso rapporto tra bene e male ricorrendo a un paradosso filosofico: se al mondo c'è il bene, c'è anche il male. «È assurdo, quella sequenza dimostra semmai che è sempre possibile compiere una scelta etica e non deviare», insorge Mordini, 53, «tant' è vero che dopo la lezione due ragazzi rinunciano ad unirsi ai massacratori del Circeo. Questo atto censorio impedisce la presa di coscienza dei giovani sulla violenza contro le donne che ancora oggi è drammaticamente protagonista della cronaca». Si esprime anche Gifuni, 55: «Sono sconcertato, pensavo ad uno scherzo», commenta l'attore, in scena al Regio di Parma con lo spettacolo Letteralmente Verdi che racconta la genesi di Un ballo in maschera, tartassato dalla censura nel 1858. Albinati si definisce «sgomento perché è quanto meno singolare che a ragazzi e ragazze, purtroppo abituati a conoscere ogni genere di violenza, perversione e oscenità, venga proibito di conoscere la ricostruzione di una storia vera». Di «divieto arcaico che desta sorpresa e preoccupazione» parla il presidente dell'Anica Francesco Rutelli e altrettanto sorpresi si dicono i familiari di Donatella e Rosaria che avevano approvato il film. Barbara Salabè, presidente di Warner Bros Italia, si appella infine a Franceschini «perché mantenga la parola data di garantire la libertà di espressione agli artisti tanto più che il film è stato realizzato perché gli adolescenti lo vedessero». Dunque la censura esiste ancora? Come stanno le cose? La riforma Franceschini ha tolto all'anacronistica istituzione la possibilità di bloccare l'uscita dei film o imporre dei tagli: sul modello della Francia e altri Paesi, oggi spetta ai produttori autoregolamentarsi proponendo la visione per tutti o con eventuali limiti di età. La commissione ministeriale deve semplicemente verificare che la classificazione sia corretta. «Noi avevamo chiesto che La scuola cattolica fosse per tutti pronti però ad accettare il divieto ai minori di 14, lo stesso adottato a Venezia», spiega il produttore Roberto Sessa. Venerdì scorso, la commissione alza il divieto ai 18 e conferma la sua scelta lunedì sera dopo l'appello presentato dal produttore che oggi parla di «decisione oscurantista, un danno non solo economico per noi ma per la credibilità della cultura italiana». Ribatte Elda Turco Bulgherini, avvocato e docente universitaria, a capo della seconda commissione che ha imposto il divieto ai minorenni: «Abbiamo giudicato con una maggioranza più che solida al termine di un dibattito coinvolgente. Non siamo critici cinematografici chiamati a giudicare se un film è bello o brutto: a guidarci è stata l'esigenza di tutelare i minori».
Il ministero nega ci sia stata censura: "Niente tagli alla Scuola cattolica". Pedro Armocida il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Ma nella "nuova" legge sulla revisione cinematografica restano i divieti. A nulla sono valse le accorate difese dello stesso regista Stefano Mordini, del produttore Roberto Sessa, delle interpreti Valentina Cervi e Valeria Golino, e pure dell'autore del romanzo Edoardo Albinati, ascoltate dal vivo, come consente la legge, da ben due commissioni congiunte di revisione cinematografica della Direzione generale cinema e audiovisivo del ministero della Cultura. La mannaia del divieto ai minori di 18 anni per La scuola cattolica, film distribuito da oggi in sala da Warner, che potrà ricorrere solo al Tar, e tratto dall'omonimo romanzo di Albinati in cui viene messo in scena il tristemente noto massacro del Circeo, è calata decisa seppur a maggioranza. E pensare che il film era stato presentato, appena un mese fa, alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia con un divieto ai minori di 14 anni, una proposta fatta dal direttore artistico, Alberto Barbera, e accolta dal presidente della Biennale, Roberto Cicutto, proprio come la legge consente di fare solo ai festival. Ma niente, il divieto ai minori di 18 anni, dato dalla prima commissione, è stato confermato da altre due, seppure con una seconda motivazione meno attaccabile di quella che entrava nei contenuti dell'opera perché ora si è rilevato come un minore non abbia gli strumenti per elaborare la rappresentazione cruda e brutale di quella violenza. Un tipo di motivazione che in genere viene usata per gli horror come L'uomo nel buio - Man In The Dark, un altro film Warner, attualmente bloccato con un divieto ai minori di 18 anni in attesa dell'appello. Ed è curiosa questa recrudescenza dei fatidici V.M.18 - in sala c'è anche Titane - perché, negli ultimi dieci anni, si contano praticamente sulle dita di due mani. Su quanto accaduto si è giustamente acceso un vespaio di polemiche ma, a chi tira in ballo il Ministro Franceschini che, in aprile scorso, aveva annunciato l'abolizione della censura con la nuova legge sulla revisione cinematografica, risponde lo stesso ministero della Cultura, paradossalmente pure finanziatore del film, sottolineando come La scuola cattolica esca in sala, quindi senza censura e senza tagli, ma con uno dei divieti previsti anche dalla nuova normativa a tutela dei minori. Infatti le disposizioni, che entreranno in una fase di sperimentazione a breve, prevedono la responsabilità degli operatori, in genere i distributori, nell'indicare con 4 bollini le opere per tutti, le opere non adatte ai minori di anni 6, le opere vietate ai minori di anni 14 e le opere vietate ai minori di anni 18. Ma anche questa sorta di autoregolamentazione sarà sottoposta a verifica dal ministero con la nuova Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche guidata dal Presidente emerito del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, composta da quarantanove componenti, esattamente come oggi tanto che alcuni sono gli stessi. Aspettiamoci dunque anche in futuro un nuovo, ancora più anacronistico caso La scuola cattolica. Pedro Armocida
Da repubblica.it il 5 ottobre 2021. Il film di Stefano Mordini sul delitto del Circeo, dal romanzo di Edoardo Albinati, è stato vietato ai minori di 18 anni. La scuola cattolica, che arriva nelle sale giovedì, ha avuto l'indicazione dalla Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche incaricata dalla Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura di essere vietato ai minorenni. Questa la motivazione: "Il Film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti. Questa lettura che appare dalle immagini, assai violente negli ultimi venti minuti, viene preceduta nella prima parte del film, da una scena in cui un professore, soffermandosi su un dipinto in cui Cristo viene flagellato, fornisce assieme ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un’interpretazione in cui gli stessi, Gesù Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Per tutte le ragioni sopracitate la Commissione a maggioranza ritiene che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto". Un'interpretazione che il regista Mordini rigetta totalmente: "Non riesco a trovare delle ragioni valide per questa censura e se mi sforzo di trovarle, mi inquietano. Nella motivazione della commissione censura si lamenta il fatto che le vittime e i carnefici siano equiparati, con particolare riferimento a una lezione di un professore di religione, ma questo è esattamente il contrario di quello che racconta il film, e cioè che, provenendo dalla stessa cultura, è sempre possibile compiere una scelta e non deviare verso il male. Una delle due vittime, all'epoca, era minorenne e il nostro è un film di adolescenti interpretato da adolescenti. Trovo assurdo che oggi si vieti ai ragazzi anche solo di vedere, attraverso un libero mezzo di espressione, quello che due ragazze come loro anni fa hanno subito, questo atto censorio priva una generazione di una possibile presa di coscienza che potrebbe essere loro utile per difendersi da quella violenza spesso protagonista nella nostra cronaca. E questo perché alcune delle ragioni di quella tragedia sono purtroppo ancora attuali". Il film tratto dal romanzo Premio Strega di Edoardo Albinati che fu compagno di scuola degli assassini, ricostruisce i drammatici fatti del delitto del Circeo, quando nella notte tra il 29 e il 30 settembre del 1975 Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira violentarono per 36 ore Rosaria Lopez e Donatella Colasanti portando alla morte la prima e ad un trauma mai più risanabile la seconda, morta poi a 47 anni. "I miei assistiti sono, rispettivamente, sorella di Rosaria Lopez e fratello di Donatella Colasanti, e ne sono anche eredi mortis causa" dichiara l'avvocato Stefano Chiriatti. “Hanno visionato, unitamente al sottoscritto scrivente, il film La Scuola Cattolica. Il loro evidente coinvolgimento, personale e affettivo, nella vicenda narrata, per la parte che li riguarda, ha indotto in Letizia e Roberto il risvegliarsi di traumi e dolori profondi, legati a quanto patito nel 1975 e negli anni successivi. Malgrado l’enorme sacrificio, umano ed emotivo, legato alla rievocazione vivida, visiva e sonora, di quanto accaduto alle rispettive sorelle, hanno, tuttavia, apprezzato la volontà di tramandare, anche in chiave di ammonimento per il futuro, la memoria della loro tragedia, soprattutto alle giovani generazioni. Hanno, pertanto, appreso con grande sorpresa della decisione del Ministero della Cultura di vietare la visione del film ai minori degli anni diciotto". D'altronde il regista lo aveva detto a Venezia: "Noi ci auguriamo che questo film venga visto dai giovani, abbiamo scelto di parlare di una storia anni Settanta partendo da un libro per togliere l'argomento dalla responsabilità dalla cronaca e riportarlo il più possibile alla contemporaneità e a un certo tipo di deriva che forse il cinema può aiutare a osservare". L'attenzione del film si concentra oltre che sulla scuola sulle famiglie di questi ragazzi, al giovane cast composto da Benedetta Porcaroli, Giulio Pranno, Emanuele Maria Di Stefano, Giulio Fochetti, Leonardo Ragazzini, Alessandro Cantalini, Andrea Lintozzi, Guido Quaglione, Federica Torchetti, Luca Vergoni, Francesco Cavallo, Angelica Elli, si affiancano attori di esperienza come Fabrizio Gifuni, Fausto Russo Alesi, Valentina Cervi, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Jasmine Trinca che interpretano insegnanti e genitori. Lo scorso aprile il Ministro Dario Franceschini, alla firma del decreto che istituì la nuova Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche, commentò: "Abolita la censura cinematografica, definitivamente superato quel sistema di controlli e interventi che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti''.
La censura sale in cattedra e vieta ai minorenni il film sul massacro del Circeo. Stefano Giani il 6 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le motivazioni: "Equipara vittime e carnefici". Il regista Mordini: "È vero l'esatto contrario". La censura è morta. Evviva la censura. Dichiarata deceduta - o decaduta - non più tardi di sei mesi fa dal ministro della cultura Dario Franceschini torna in auge a furor di Direzione generale cinema del suddetto dicastero. Altro che sepolta, insomma. È viva, vivissima. E ieri ha battuto un colpo, sollevando un vespaio. La scure è caduta su La scuola cattolica, il film di Stefano Mordini, presentato fuori concorso a Venezia all'ultima Mostra, non senza qualche tirata d'orecchie da parte della critica. E proprio al Lido, non più tardi di un mesetto fa, era stato vietato ai minori di 14 anni. Niente affatto, ha pensato bene la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche. Il film, che tocca il delicatissimo tasto della strage del Circeo, va vietato ai 18. E così sarà, da domani, quando la tragedia di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti risorgerà indimenticata dalle coscienze italiane.
Nel '75 fu un dramma che sconvolse tutti, oggi fa perfino ribrezzo pensare che allora era stato catalogato come «reato contro la morale». E si è dovuto attendere fino al '96 per correggerlo in «crimine contro la persona». Tanto per inquadrare i risvolti sociali di quel delitto infame concepito dalla Roma bene dell'epoca. E forse proprio qui sta il punto, perché la mannaia della Direzione cinema ha alzato il tetto d'età proibita in considerazione del fatto che «la narrazione ha come punto centrale la sostanziale equiparazione di vittima e carnefice. I protagonisti, pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti». In buona sostanza, un'omogeneità incomprensibile visto che il fatto di cronaca ha rivoluzionato anche l'ordinamento giuridico. Nello specifico, una scena ha particolarmente irritato i censori. Nella prima parte un professore, soffermandosi su un dipinto della Flagellazione, fornisce ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un'interpretazione in cui gli stessi, Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Decisamente troppo in anni di femminicidi e #Metoo con rischi e pericoli annessi e connessi. Una valutazione messa in discussione però dal regista che ha puntualizzato quanto sia «esattamente il contrario di quello che racconta il film, e cioè che, provenendo dalla stessa cultura, è sempre possibile compiere una scelta e non deviare verso il male». E spiega di aver fatto un film di adolescenti interpretato da adolescenti come lo era allora una delle vittime. In fin dei conti, La scuola cattolica ha ricevuto anche l'ok di Letizia Lopez e Roberto Colasanti, sorella e fratello delle due ragazze scomparse, che per bocca del loro legale Stefano Chiriatti si sono sorpresi davanti al divieto ai minori di 18, interpretando quelle scene dolorose come un monito futuro per le nuove generazioni. «Non trovo ragioni valide per questa censura e, se mi sforzo di trovarle mi inquietano» ha chiosato il regista Mordini, ripreso dal presidente di Anica, Francesco Rutelli, in quello che sembra un pasticciaccio tutto interno al Pd. «C'è qualcosa che non va, se si pensa di far votare i sedicenni ma gli si impedisce di vedere un film, tratto dal romanzo di Edoardo Albinati che vinse il premio Strega» ha detto l'ex sindaco di Roma sottolineando come «gli annunci di abolizione della censura non hanno trovato riscontro in una procedura - spero per poche settimane - ancora in vigore». Su un aspetto sembra difficile dargli torto. Un divieto a giovanissimi, che hanno libero accesso sul web a contenuti violenti e spesso veramente indegni sia nel versante ludico sia in quello fin troppo spregiudicato del dibattito, sembra anacronistico e fuori dal tempo, ma tant'è l'italico costume. Uno scoglio che fa inciampare perfino lo stupore della Warner, casa produttrice del film. Le motivazioni del divieto, secondo l'azienda, sono inerenti all'impianto tematico e valutazioni artistico-espressive, entrambe al di fuori dell'ambito di competenza che la legge ammette in merito di revisione cinematografica. Il contrario di quanto Franceschini proclamò esultante in aprile: «Abolita la censura e quel sistema di controlli che consentiva allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti». Come non detto. Stefano Giani
"Carnefici e vittime equiparati": censurato il film sul delitto del Circeo. Erika Pomella il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. La scuola cattolica è il film che è stato presentato al festival di Venezia e che racconta il terribile delitto del Circeo: in queste ore la pellicola ha subito la censura che lo ha classificato come vietato ai minori di diciotto anni. La scuola cattolica è l'ultimo film di Stefano Mordini, presentato in anteprima mondiale allo scorso festival di Venezia e tratto dall'omonimo romanzo di Edoardo Albinati. La pellicola tratta della violenza perpetrata ai danni di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, in un caso di cronaca nera diventato famoso come il delitto del Circeo. La scuola cattolica vede tra i protagonisti attori come Riccardo Scamarcio e Valeria Golino e racconta il tremendo massacro avvenuto nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975 nel comune di San Felice Circeo, sul litorale pontino del Lazio. La storia raccontata da La scuola cattolica è anche la testimonianza di un crimine che ha avuto un forte peso sulla giurisdizione italiana, al punto da aprire le porte a un dibattito legale e politico che si sarebbe concluso solo nel 1996, quando secondo la legge italiana lo stupro e la violenza sessuale smisero di essere un reato contro la moralità e divennero crimini contro la persona. Durante la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia La scuola cattolica era stato classificato come vietato ai minori di quattordici anni. Ora, come riporta il comunicato ufficiale della Warner Bros. La scuola cattolica è stato vietato ai minori di diciotto anni. Una decisione che è stata ampiamente criticata, anche dalla casa di produzione del film: nel comunicato della Warner Bros, infatti, si legge come: "la censura viene operata su un film che racconta una storia vera, una storia di omicidio e di stupro". La Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche incaricata dalla Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura ha giustificato la decisione asserendo: "Il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice. In particolare i protagonisti della vicenda pur partendo da situazioni sociali diverse, finiscono per apparire tutti incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti. Questa lettura che appare dalle immagini, assai violente negli ultimi venti minuti, viene preceduta nella prima parte del film, da una scena in cui un professore, soffermandosi su un dipinto in cui Cristo viene flagellato, fornisce assieme ai ragazzi, tra i quali gli omicidi del Circeo, un’interpretazione in cui gli stessi, Gesù Cristo e i flagellanti vengono sostanzialmente messi sullo stesso piano. Per tutte le ragioni sopracitate la Commissione a maggioranza ritiene che il film non sia adatto ai minori di anni diciotto.” Tuttavia questa spiegazione ha lasciato ancora più interdetti, dal momento che la decisione ruota intorno agli standard artistici ed espressivi dell'opera e, in questo modo, limita la libertà d'espressione degli artisti. Una decisione, inoltre, che va anche contro quanto aveva affermato il ministro Franceschini, quando aveva abolito la censura in ambito cinematografico. Il regista del film, Stefano Mordini, ha commentato così la decisione della Commissione arrivata come il proverbiale fulmine a ciel sereno su La scuola cattolica: "Non riesco a trovare delle ragioni valide per questa censura e se mi sforzo di trovarle, mi inquietano. Nella motivazione della commissione censura si lamenta il fatto che le vittime e i carnefici siano equiparati, con particolare riferimento a una lezione di un professore di religione, ma questo è esattamente il contrario di quello che racconta il film, e cioè che, provenendo dalla stessa cultura, è sempre possibile compiere una scelta e non deviare verso il male. Una delle due vittime, all’epoca, era minorenne e il nostro è un film di adolescenti interpretato da adolescenti. Trovo assurdo che oggi si vieti ai ragazzi anche solo di vedere, attraverso un libero mezzo di espressione, quello che due ragazze come loro anni fa hanno subito, questo atto censorio priva una generazione di una possibile presa di coscienza che potrebbe essere loro utile per difendersi da quella violenza spesso protagonista nella nostra cronaca. E questo perché alcune delle ragioni di quella tragedia sono purtroppo ancora attuali." Sulla decisione è intervenuto anche l'avvocato Stefano Chiriatti, che rappresenta la sorella di Rosaria Lopez e il fratello di Donatella Colasanti, le vittime del massacro raccontato in La scuola cattolica, e ha riportato la reazione dei suoi clienti, che si sono mostrati a favore del film. L'avvocato ha infatti spiegato: "Hanno visionato, unitamente al sottoscritto scrivente, il film La Scuola Cattolica. Il loro evidente coinvolgimento, personale e affettivo, nella vicenda narrata, per la parte che li riguarda, ha indotto in Letizia e Roberto il risvegliarsi di traumi e dolori profondi, legati a quanto patito nel 1975 e negli anni successivi. Malgrado l’enorme sacrificio, umano ed emotivo, legato alla rievocazione vivida, visiva e sonora, di quanto accaduto alle rispettive sorelle, hanno, tuttavia, apprezzato la volontà di tramandare, anche in chiave di ammonimento per il futuro, la memoria della loro tragedia, soprattutto alle giovani generazioni. Hanno, pertanto, appreso con grande sorpresa della decisione del Ministero della Cultura di vietare la visione del film ai minori degli anni diciotto.” La notizia della censura su La scuola cattolica ha colto impreparato anche Francesco Rutelli, presidente dell'Anica che, secondo quanto riportato da Ciak, ha dichiarato: "Purtroppo gli annunci di abolizione della censura non hanno trovato riscontro in una procedura che – spero per poche settimane – è ancora in vigore. Mentre i nostri giovanissimi possono accedere attraverso il web a contenuti violenti e veramente indegni, opere dell’ingegno – in questo caso, un film importante tratto dal libro di Albinati che ha vinto il Premio Strega – vengono assoggettate a pareri occhiuti e fuori dal tempo. Qualcosa non funziona, se si pensa di far votare i sedicenni, ma gli si impedisce di vedere un film di qualità. Un film basato su fatti di cronaca, cui tutti hanno avuto liberamente accesso e che hanno profondamente interpellato la società italiana.”
Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per l’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese a Roma. Parlo fluentemente francese e, quando non lavoro, passo il mio tempo a leggere montagne di romanzi e ad organizzare viaggi
· Il Caso Antonio De Marco.
Da corriere.it il 21 gennaio 2021. «Se fossi all’esterno il mio impulso di uccidere sarebbe ritornato»; «Certe volte sento di essere un vero e proprio mostro e la cosa peggiore è che sento che ad una parte di me piace questa idea...». Sono alcune delle riflessioni che si leggono sui manoscritti sequestrati in carcere a fine ottobre ad Antonio De Marco, il 21enne di Casarano (Lecce) reo confesso di aver ucciso nel settembre scorso l’arbitro leccese Daniele De Santis e la sua fidanzata Eleonora Manta nell’abitazione a Lecce in cui si erano da poco trasferiti. La notizia è riportata in un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno. «Io ho ucciso Daniele ed Eleonora perché volevo vendicarmi - scrive -: perché la mia vita doveva essere così triste e quella degli altri così allegra?». E ancora: «E la cosa peggiore è che sento che se fossi all’esterno il mio impulso di uccidere sarebbe ritornato, sarei scoppiato a piangere, mi sarei arrabbiato, avrei fantasticato su come uccidere qualcuno e poi sarei andato all’Eurospin a comprare patatine e schifezze varie. È facile per me uccidere, magari non lo è stato da un punto di vista logistico, ma da un punto di vista emotivo è facile. Ma se uccidere non mi ha fatto ottenere nulla, allora probabilmente sentirei l’impulso di farlo ancora?».
La doppia personalità. Poi un riferimento all’omicidio: «Questo omicidio poi è la cosa che più mi spezza: una parte di me prova dispiacere (ma solo quello), un’altra è contenta....sì! È felice di aver dato 60 coltellate, poi c’è un’altra parte che avrebbe voluto fare una strage, come se fosse stata una partita a GTA... (Grand Theft Auto, videogioco molto violento)». Tra questi brani ce n’è uno in cui De Marco parla di un pentimento: «L’altro giorno è successa una cosa strana, mentre leggevo “Cime Tempestose” (romanzo di Emily Bronte, ndr)... ho ricordato quella sera, la sera dell’omicidio, ma non come faccio sempre, è stato molto più forte... E per la prima volta ho provato un vero dispiacere per quello che ho fatto, forse ero addirittura vicino a piangere. Però se ci penso adesso non sento le stesse cose, non sento niente e basta, ma forse mi sto avvicinando ad un vero pentimento».
Fidanzati uccisi a Lecce, il killer: «Se fossi libero avrei di nuovo l'impulso di uccidere». Il 21enne De Marco reo confesso «Ho ammazzato per vendetta. Perchè la mia vita doveva essere così triste e quella degli altri così allegra?» Linda Cappello il 21 Gennaio 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Una parte di me prova dispiacere, un’altra è contenta...per me dal punto di vista emotivo uccidere è facile». Sono questi alcuni dei pensieri più intimi di Antonio De Marco, il 21enne di Casarano reo confesso dell’omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta. Nel copioso carteggio degli atti di indagine emerge ora il contenuto di alcuni fogli, che gli agenti di polizia penitenziaria hanno sequestrato nella sua cella a fine ottobre. Parole che confermano, ancora una volta, quanto sia forte il suo dissidio interiore. E quanto il suo animo sia tormentato. Ritorna il tema dell’insoddisfazione personale, fino ad ora ritenuto il movente principale: « Io ho ucciso Daniele ed Eleonora perchè volevo vendicarmi - scrive - perchè la mia vita doveva essere così triste e quella degli altri così allegra?». E ancora: « E la cosa peggiore è che sento che se fossi all’esterno il mio impulso di uccidere sarebbe ritornato, sarei scoppiato a piangere, mi sarei arrabbiato, avrei fantasticato su come uccidere qualcuno e poi sarei andato all’Eurospin a comprare patatine e schifezze varie. È facile per me uccidere, magari non lo è stato da un punto di vista logistico, ma da un punto di vista emotivo è facile. Ma se uccidere non mi ha fatto ottenere nulla, allora probabilmente sentirei l’impulso di farlo ancora?». Ed ecco il riferimento all’omicidio: « Questo omicidio poi è la cosa che più mi spezza: una parte di me prova dispiacere (ma solo quello), un’altra è contenta....sì! È felice di aver dato 60 coltellate, poi c’è un’altra parte che avrebbe voluto fare una strage, come se fosse stata una partita a G.T.A. ...». «Certe volte - si legge ancora - sento di essere un vero e proprio mostro e la cosa peggiore è che sento che ad una parte di me piace questa idea...». A questi brani se ne aggiungono altri, in cui si affaccia un timido inizio di pentimento: « L’altro giorno è successa una cosa strana, mentre leggevo Cime Tempestose...ho ricordato quella sera, la sera dell’omicidio, ma non come faccio sempre, è stato molto più forte...E per la prima volta ho provato un vero dispiacere per quello che ho fatto, forse ero addirittura vicino a piangere. Però se ci penso adesso non sento le stesse cose, non sento niente e basta, ma forse mi sto avvicinando ad un vero pentimento».
Il pizzino choc dal carcere del killer dei fidanzati: "Sono contento di uccidere”. Sequestrati gli scritti in carcere di Antonio De Marco, killer dei fidanzatini leccesi: scrive di voler di uccidere ancora e al tempo stesso di pentimento. Elisabetta Esposito, Giovedì 21/01/2021 su Il Giornale. Antonio De Marco pentito o potenzialmente a rischio recidiva? È una domanda che l’opinione pubblica si pone da fine settembre, da quando cioè lo studente 21enne di Scienze Infermieristiche ha confessato l’omicidio di Daniele De Santis ed Eleonora Manta, una coppia di fidanzati con cui aveva condiviso un appartamento a Lecce. Ma spuntano ora delle testimonianze finora mai rese pubbliche. "Io ho ucciso Daniele ed Eleonora perché volevo vendicarmi perché la mia vita doveva essere così triste e quella degli altri così allegra?". Si tratta di parole che lo stesso De Marco ha annotato in alcuni fogli nella sua cella, fogli che gli agenti di polizia penitenziaria hanno sequestrato a fine ottobre, come riporta l’edizione salentina de La Gazzetta del Mezzogiorno. "E la cosa peggiore - imperversa lo studente nei suoi scritti - è che sento che se fossi all'esterno il mio impulso di uccidere sarebbe ritornato, sarei scoppiato a piangere, mi sarei arrabbiato, avrei fantasticato su come uccidere qualcuno e poi sarei andato all'Eurospin a comprare patatine e schifezze varie… È facile per me uccidere, magari non lo è stato da un punto di vista logistico, ma da un punto di vista emotivo è facile. Ma se uccidere non mi ha fatto ottenere nulla, allora probabilmente sentirei l'impulso di farlo ancora?". De Marco non si mostra monolitico, fermo sulla sua posizione, sul movente che l'avrebbe spinto a uccidere. "Quest’omicidio poi - si legge ancora nei fogli sequestrati - è la cosa che più mi spezza: una parte di me prova dispiacere (ma solo quello), un'altra è contenta… Sì! È felice di aver dato 60 coltellate, poi c'è un'altra parte che avrebbe voluto a fare una strage, come se fosse stata una partita a Gta". Ma non c’è solo questo nei documenti resi noti in questi giorni, in alcuni punti la tendenza al pentimento appare più evidente sebbene non completamente risolta. "Certe volte sento di essere un vero e proprio mostro e la cosa peggiore è che sento che ad una parte di me piace questa idea", scrive De Marco. E ancora: "L'altro giorno è successa una cosa strana mentre leggevo ‘Cime tempestose’… Ho ricordato quella sera, la sera dell'omicidio, ma non come faccio sempre, è stato molto più forte… E per la prima volta ho provato un vero dispiacere per quello che ho fatto, forse ero addirittura vicino a piangere… Però se ci penso adesso non sento le stesse cose, non sento niente e basta, ma forse mi sto avvicinando un vero pentimento". La magistratura si troverà di fronte a un puzzle composito e di difficile soluzione in vista del 18 febbraio, quando ci sarà la prima udienza alla Corte d’Assise di Lecce per il via al processo sul caso di duplice omicidio. Intanto per il giovane è stata respinta la richiesta di rito abbreviato.
· Il Giallo Mattarelli.
Anticipazione da "Oggi" il 20 gennaio 2021. Matteo Mattarelli, fratello del ragazzo trovato impiccato a Origgio (Varese) dopo essere sfuggito a un posto di blocco dei Carabinieri, rivela a OGGI tutte le perplessità della famiglia: «Non so come Simone abbia fatto a reggere un inseguimento di più pattuglie per oltre un’ora. Era consapevole di aver fatto un errore. Ha chiamato mio padre per dirgli tutto e avvisarlo che sarebbe andato da lui. Mio padre gli ha detto di fermarsi. “Non posso”, gli ha risposto, “li ho fatti troppo incazzare, se mi prendono mi ammazzano”. Mio padre ha sentito i colpi di pistola. Non uno, ma tanti. E se ho capito bene, anche quando Simone ha abbandonato l’auto sullo sterrato di Origgio ed è scappato nei campi hanno continuato a sparare. Si parla di otto colpi. Perché? Invece di sparare, non potevano inseguirlo a piedi, bloccarlo e portarlo in caserma?». Il corpo è stato trovato dentro una azienda. Dice ancora il fratello: «Non capisco perché quando ormai si era nascosto e poteva sentirsi al sicuro, possa aver deciso di farla finita. Non era una persona fragile, che crolla psicologicamente. Era uno in grado di reggere anche situazioni di stress pesante e aveva sempre la lucidità per trovare la soluzione giusta. Non so cosa sia successo, non dico nulla e non accuso nessuno. Ma vorrei un giorno sapere la verità».
· Il Giallo di Bolzano.
Da “il Giornale” l'11 dicembre 2021. È stato rinviato a giudizio Benno Neumair, il trentenne reo confesso dell'omicidio dei suoi genitori Laura e Peter, lo scorso 4 gennaio. Il gip di Bolzano Emilio Schonsberg ha fissato la prima udienza per il prossimo 4 marzo. Respinta la richiesta di rito abbreviato, che aveva presentato il suo avvocato difensore, Flavio Moccia. Benno, che ieri non era presente in aula durante l'udienza preliminare, si trova nel carcere di Bolzano. Ha confessato di aver ucciso i suoi genitori, Laura e Peter, strangolandoli con un cordino e gettando successivamente i loro cadaveri nel fiume Adige, dal ponte di Vadena. Lo scorso 4 gennaio, Laura Perselli, 68 anni, e il compagno Peter Neumair, di 63 anni, sparirono nel nulla. Un giallo che è durato cento giorni, il tempo impiegato per ritrovare i loro corpi gettati nell'Adige da Benno dopo la morte.
Chiuse le indagini su Benno: come ha ucciso i genitori. Angela Leucci il 29 Settembre 2021 su Il Giornale. La Procura di Bolzano ha stabilito che c'è stata premeditazione solo in uno dei due omicidi confessati da Benno Neumair, quello della madre. Si sono concluse le indagini su Benno Neumair: gli inquirenti hanno stabilito quanta possibile premeditazione ci sia stata o meno nel duplice omicidio dei genitori Peter Neumair e Laura Perselli. La notizia è stata annunciata nel corso di “Chi l’ha visto?”. In buona sostanza, la Procura di Bolzano pensa che Benno abbia ucciso di impeto il padre, mentre l’omicidio della madre fu premeditato. Secondo quanto specifica l’Agi, Benno uccise dopo aver avuto una lite con Peter nel pomeriggio, lite che avrebbe rappresentato un detonatore per il disturbo di personalità del giovane. L’omicidio del padre sarebbe scaturito quindi da quella discussione e non sarebbe stato organizzato. Organizzato sarebbe stato invece, quaranta minuti dopo, l’assassinio di Laura, strangolata e gettata nell’Adige, una triste sorte condivisa con il marito. Secondo i periti nominati dal Gip, Benno va pertanto riconosciuto “seminfermo di mente”, mentre i suoi legali affermano che il 30enne fosse incapace di intendere e di volere. “Quando ho ucciso mio padre prima e mia madre poi, era come se fossi uscito dalla realtà”, aveva detto Benno Neumair agli inquirenti. Ora spetterà all’iter della giustizia stabilire quale sia stata in effetti la dinamica che ha spinto Benno ad agire come ha fatto. Il 4 gennaio 2021, Benno ha ucciso i genitori, come ha confessato successivamente, gettando i loro corpi nell’Adige. Dapprima la coppia fu ritenuta scomparsa: lontana dalla loro casa di Bolzano, Laura fu trasportata dalle acque fino alla zona di Egna e fu trovata il 6 febbraio successivo, mentre Peter fu rinvenuto il 27 aprile nella zona di Trento. Le indagini si concentrarono immediatamente sul 30enne, sul quale la sorella Madè nutriva dubbi dalla primissima ora. Dubbi che si sono trasformati in certezza dopo la confessione del giovane, arrestato e tradotto nel carcere di Bolzano il 29 gennaio. “Il fatto che Benno abbia ucciso a sangue freddo la mia mamma il mio papà la sera del 4 gennaio - aveva scritto Madè tempo addietro - per me è stato violentemente e dolorosamente evidente fin dal primo pomeriggio del 5 gennaio, come sanno gli inquirenti e le persone a me più care”. Gli omicidi confessati da Benno vengono accostati di recenti ad altri casi di cronaca, in primis all’omicidio di Laura Ziliani, del quale sono attualmente accusati, dopo l’arresto dei giorni scorsi, le figlie, Silvia e Paola Zani, oltre al fidanzato della maggiore Mirto Milani. I tre accusati sono attualmente chiusi nel più completo silenzio.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Arriva la perizia: Benno può avere lo sconto di pena? Rosa Scognamiglio il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. Benno Neumair, il 30enne bolzanino accusato dell'omicidio dei genitori, era semi-infermo quando uccise il padre e lucido quando aggredì la madre. Benno Neumair era semi-infermo quando uccise il padre, lucido quando strangolò la mamma. È questo l'esito della perizia psichiatrica depositata in Procura a Bolzano, lo scorso venerdì, dai tre periti nominati dal giudice delle indagini preliminari, Carla Scheidle, e che sarà discussa nell'udienza del prossimo 20 luglio. I difensori del trentenne bolzanino, accusato dell'omicidio dei genitori, Laura Perselli e Peter Neumair, puntano ad evitare l'ergastolo mentre la parte civile sostiene la piena imputabilità per entrambi gli omicidi nonostante il riconoscimento del vizio parziale di mente.
La capacità di intendere e volere. Benno era capace di intendere e volere quando la sera del 4 gennaio scorso, nell'appartamento al civico 4 di via Castel Roncolo, a Bolzano, uccise i genitori? Si tratta di uno dei tre quesiti cardine del processo a cui dovranno rispondere tre big della psichiatria: Edoardo Mancioppi, psicologo trentino, Marco Samory, psicologo padovano e la criminologa Isabella Merzagora. Il gip ha chiesto loro di accertare se il 30enne fosse lucido in entrambe le fasi del delitto: quando ha strangolato i suoi e, successivamente, quando ha gettato i corpi dal ponte di Ischia Frizzi nel fiume Adige. Altro aspetto da chiarire riguarda la pericolosità sociale di Benno e, cioè, se c'è il rischio di reiterazione del reato. Da ultimo, bisognerà capire che ruolo abbiano giocato gli anabolizzanti sulla condotta aggressiva dell'imputato nel contesto della dinamica omicidiaria.
"Personalità narcisistica". Intanto, l'esito della perizia psichiatrica ha riconosciuto al giovane personal trainer un "disturbo narcisitico della personalità". Un'evidenza tutt'altro che irrilevante ai fini processuali e che, come ben spiega il Corriere della Sera, diventerà terreno di scontro tra i periti di entrambi le parti coinvolte. Ma c'è di più. La Procura contesta anche l'aggravante della premeditazione: Benno avrebbe provato a depistare le indagini dopo aver ucciso i genitori. Qualora venissero accolte le conclusioni dei periti del giudice, la difesa potrebbe giocarsi l'asso nella manica: la richiesta del rito abbreviato. Un espediente che consentirebbe di evitare la massima pena dal momento che i due omicidi sono accorpati in un unico reato e potrebbe valere la "carta jolly" della semi-infermità mentale.
Il racconto di Benno è attendibile? C’è però un ulteriore nodo da sbrogliare: l’attendibilità del racconto di Benno in merito al movente del delitto. Secondo le dichiarazioni rese dall'imputato, la furia omicida sarebbe scaturita dall’ennesima lite col padre per questioni di ordine economico. "In sé - spiega Carlo Bertacchi, avvocato di Madè Neumair al Corriere della Sera - la seminfermità non consente di parlare di non imputabilità. Ma nel caso particolare, al momento dell’omicidio del padre i periti del giudice sostengono che ci sia stato un elemento 'attivatore' di questo disturbo, in senso aggressivo. Elemento dato dal padre che, in base al racconto di Benno, lo avrebbe svegliato di soprassalto, incalzandolo e chiedendogli dei soldi. Ma questo, appunto, è quello che ha raccontato Benno, che in un’altra parte della perizia viene definito un mentitore seriale, una persona che vive nella menzogna, parte integrante del suo tratto narcisistico". Diametralmente opposta la lettura della difesa che sostiene invece che non ci sia motivo di non credere alle dichiarazioni di Benno (rilasciate ai carabinieri il giorno dopo il delitto), dal momento che tutti i test psicologici somministrati dai periti sarebbero stati superati senza la volontà di alterarne i risultati".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera
Rosa Scognamiglio per ilgiornale.it il 30 maggio 2021. "Quando ho ucciso mio padre è come se fossi uscito dalla realtà". A parlare è Benno Neumair, il trentenne bolzanino accusato di duplice omicidio e occultamento di cadavere dei genitori, Peter Neumair e Laura Perselli. Il giovane, recluso nel carcere di Bolzano dallo scorso 29 gennaio, ha rilasciato una lunga intervista ai taccuini dell'Adnkronos assistito dal legale Flavio Moccia. "Sono pentito. - confessa - Non mi spiego cosa sia successo quel giorno".
"Voglio dire la mia verità". Ripercorre quel drammatico pomeriggio di gennaio, Benno. Lo fa in punta in piedi ma con la consapevolezza di chi sa di aver causato la morte dei propri genitori: "Sono disperato, - dice - fatico a capire a capire perché ho fatto ciò che ho fatto". Il cordino, l'acqua ossigenata e poi la tappa al ponte di Ischia Frizzi da cui si è disfatto dei cadaveri: ora, ricorda tutto per filo e per segno. "Quando ho ucciso mio padre prima e mia madre poi, era come se fossi uscito dalla realtà", è la sua versione. "So bene che è difficile veder riconosciuta la totale incapacità di intendere e di volere. - continua - Che nulla, nemmeno il fortissimo pentimento che provo, mi risparmierà la pena lunga che ho appena iniziato a scontare. Ma è ora che si conosca anche la mia di verità".
"Ho dormito accanto al cadavere di mio padre". Il pomeriggio del 4 gennaio, aveva avuto una discussione accesa con il papà, una delle tante di quei giorni. "Sono stato risvegliato da mio padre in maniera energica, abbiamo avuto l'ennesima discussione per i soliti motivi. - racconta - Mi diceva che non valevo niente, al contrario di mia sorella che invece è tutto quello che un genitore può desiderare. Io soffro di un disturbo del sonno, il risveglio aggressivo, che mi rende nervoso, ci sono stati episodi anche con Madé, quando era adolescente. Non ci ho visto più e quando mio padre è entrato in camera con quella veemenza, ho preso un cordino che avevo a portata di mano in un cestino e con quello l'ho strangolato". Dopodiché, si è assopito accanto al cadavere del padre fino a quando non è stato risvegliato dalla telefonata di mamma Laura. "A svegliarmi il telefono, era mia madre che mi diceva che stava rientrando in casa. - dice - Ho sentito la chiave nella toppa, l'ho vista e con il cordino ancora in mano ho strangolato anche lei, senza che nemmeno facesse in tempo ad accorgersene. E' successo tutto in pochi minuti". "La mamma soprattutto è stata sempre pesantissima con Benno, molto spigolosa e sottile, era una cosa che andava avanti da anni.- spiega l'avvocato difensore, Flavio Moccia - Vero è che appena ha potuto, è andato a studiare a Innsbruck, in Austria, e dei suoi compagni di università era l'unico che non tornava mai".
"Mamma e papà li ho uccisi io" E adesso Benno confessa tutto. Benno racconta di essersi pentito, di essere cambiato. "Non faccio più attività fisica, pur avendone la possibilità qui. - spiega - Leggo molto, soprattutto romanzi di viaggi, come le avventure di Robinson Crusoe. Niente gialli. Come un pendolo oscillo alternando momenti di profonda tristezza a frammenti di vita normale, con i miei compagni di cella. C'è chi sta bene, tutto sommato, dietro le sbarre, io no. Io non sto affatto bene, sono disperato. Trovo conforto dai colloqui con lo psicologo, ma fatico ancora a capire perché io abbia fatto quello che ho fatto". Della spavalderia ostentata sui social prima della tragedia è rimasto ben poco. Ora, Benno sembra un'altra persona: "Tutto il clamore mediatico mi ha dato un gran fastidio. L'esercizio che faccio più spesso è quello di provare a cancellare dalla mia memoria il 4 gennaio - conclude - Quel giorno ho avuto un blackout, mai avevo pensato di uccidere qualcuno, tantomeno i miei genitori".
Gli altri Benno.Da liberoquotidiano.it il 26 aprile 2021. Si chiama Marco Eletti il principale sospettato della morte di Paolo, il padre 58enne trovato priva di vita nella sua casa a San Martino in Rio, Reggio Emilia. L'uomo è stato rinvenuto con il cranio fracassato a martellate. Poco lontano, su un divano, la moglie Sabrina. La donna invece aveva i polsi tagliati, incosciente, ma era ancora viva quando sono arrivati i soccorsi. Fermato il figlio della coppia 33enne noto a tutti per essere uno scrittore di thriller, nonché un ex concorrente de L’Eredità, programma di Rai 1 oggi condotto da Flavio Insinna. È stato proprio lui a rinvenire i corpi nella serata di sabato 24 aprile e lanciare l'allarme. Marco lavora in un’azienda di Rubiera, ma vive a Reggio Emilia con la compagna, che nel tardo pomeriggio ha chiamato i soccorsi, anche per un principio d’incendio che si stava sviluppando nel garage. Quando i carabinieri, coordinati dalla pm Piera Giannusa, sono arrivati sul posto, lo hanno trovato in stato di choc, ma i sospetti si sono concentrati subito su di lui. Per gli investigatori è poco probabile l’ipotesi di un omicidio seguito a un tentato suicidio. Il giovane, con alle spalle ben quattro libri pubblicato, è stato interrogato per tutta la notte. Troppe le versioni contraddittorie che ha fornito agli investigatori impegnati a ricostruire gli spostamenti del ragazzo e il drammatico accaduto. Secondo i carabinieri e la pm il movente sarebbe di questioni patrimoniali, relative a una porzione della casa, dai quali sarebbero poi scaturiti parecchi litigi. La madre di Marco, Sabrina, è ancora in gravissime condizioni, ricoverata in coma farmacologico indotto. Mentre Marco continua a negare, le indagini sperano in una svolta dopo l'autopsia sul corpo del padre. Marco aveva partecipato nel 2019 al programma della Rai: "Rivedermi in televisione mi ha fatto un certo effetto - erano le sue parole sul suo blog - e purtroppo la mia uscita continua a intristirmi ancora oggi. Sono sempre abbastanza severo con me stesso, e questo episodio non fa eccezione. Era più che un gioco, era una sfida bellissima che però avrebbe appagato per intero solo arrivando in finale".
Franco Giubilei per "la Stampa" il 26 aprile 2021. Poteva sembrare un omicidio-suicidio, ma ben presto lo scenario si è rivelato un altro, anche se altrettanto classico, nella dinamica del delitto familiare in cui un figlio uccide entrambi i genitori per soldi. A scatenare la furia di Marco Eletti, 33 anni, sarebbero non meglio precisati motivi economici ma il giovane, interrogato tutta la notte dai carabinieri, ha tenuto duro sulla propria estraneità al delitto, pur contraddicendosi rispetto alle risultanze delle prime indagini. Incongruenze che hanno convinto gli inquirenti a disporre il fermo di quello che, apparentemente, è un tranquillo impiegato tecnico di un'azienda ceramica del Reggiano, con una ragazza con cui convive a Reggio Emilia. L'omicidio del padre, Paolo Eletti, 58 anni, e il tentato omicidio della madre, Sabrina Guidetti, per le cause che li hanno determinati, in un primo tempo davano l'impressione di essere legati fra loro, anche se qualcosa non tornava: l'uomo infatti è stato ammazzato a martellate sul cranio - il martello era di fianco al cadavere -, mentre la donna, trovata su un divano in stato di semi-incoscienza, è stata ricoverata in gravi condizioni per dei tagli ai polsi ed è tuttora in coma farmacologico. Come se la moglie avesse ucciso il marito per poi suicidarsi, ricostruzione che non ha retto davanti ai riscontri portati dai carabinieri, che si sono avvalsi della Sezione rilievi del nucleo investigativo di Reggio Emilia nell'esame della scena del crimine. Il teatro di un delitto familiare che, da quanto è stato fatto capire dagli investigatori, sarebbe stato scatenato da questioni di soldi, all'origine di liti frequenti fra figlio e genitori, è un piccolo paese della Bassa reggiana, San Martino in Rio, coi suoi ottomila abitanti che si conoscono tutti e un'atmosfera tranquilla che davvero mal si accorda con la cruda brutalità di questo crimine. Qui i carabinieri della stazione locale conoscono davvero tutti e ovviamente conoscevano pure la coppia aggredita, e l'ultima cosa che si aspettavano era un'esplosione di violenza di questa portata, per cui non si erano mai manifestati segni premonitori. I vicini sono concordi nel giudizio: una famiglia normale in tutto e per tutto, senza tensioni di alcun genere se non quelle ordinarie di ogni consesso familiare. Invece la quiete di San Martino in Rio è andata in frantumi davanti a quella che gli inquirenti hanno inquadrato come la volontà omicida di un figlio deciso a eliminare i propri genitori. Era stato proprio lui a dare l'allarme, intorno alle cinque di sabato pomeriggio. Insieme alle forze dell'ordine erano intervenuti i vigili del fuoco, chiamati per spegnere un principio d'incendio divampato nel garage dell'abitazione in via Magnanini, nella zona artigianale del paese. Il giovane aveva la testa fra le mani ed era in stato di choc, i carabinieri lo hanno accompagnato al comando e interrogato lungamente alla presenza del suo legale, finché non è scattato il fermo in ragione delle incongruenze del suo racconto con gli indizi raccolti. La cautela fra gli investigatori tuttavia resta perché, pur cadendo in contraddizione durante l'interrogatorio, il figlio non ha ammesso alcun ruolo nell'azione delittuosa e dunque, pur avendo raccolto materiale probatorio tale da giustificare una misura cautelare a suo carico, i carabinieri devono tenere in considerazione anche altre ipotesi, anche se su un piano puramente teorico. La casa di San Martino intanto è stata messa sotto sequestro per ulteriori accertamenti tesi su quello che ha l'aria di essere un duplice delitto dal movente di natura patrimoniale. Niente di vitale, visto che il figlio lavorava e aveva una propria vita autonoma, ma sufficiente, nell'ipotesi degli inquirenti, ad armare la mano di qualcuno contro i propri genitori.
Parafilia /pa·ra·fi·lì·a/ sostantivo femminile. Anormalità psichica nella ricerca del piacere e della soddisfazione degli istinti, spec. sessuali.
Parafilia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.
La parafilia (dal greco para παρά = "presso", "accanto", "oltre" e filia φιλία = "amore", "affinità"), in ambito psichiatrico, psicologico e sessuologico, questo termine si riferisce a qualsiasi intenso e persistente interesse sessuale diverso dall’interesse sessuale per la stimolazione genitale o i preliminari sessuali con partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti (APA, 2013). Le parafilie sono state l’argomento centrale della sessuologia ottocentesca, il cui massimo esponente è stato Richard von Krafft-Ebing con il suo famoso trattato Psychopathia sexualis. L’autore, all’interno dell’elaborato, analizza con precisione tutte quelle situazioni che allora venivano definite “perversioni sessuali”.
Descrizione. La quinta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, a cura della American Psychiatric Association del 2013 ha introdotto un importante cambiamento in tema, facendo luce su quelle che venivano definite perversioni dovute a degenerazioni cerebrali. Oggi, l’attuale classificazione della quinta edizione del DSM distingue le parafilie dal disturbo parafilico.
Da qui vengono considerate parafilie tutti quei comportamenti sessuali atipici per i quali il soggetto sente una forte e persistente eccitazione erotico-sessuale. Tale condizione erotica è vissuta in perfetta egosintonia. Quando il comportamento parafilico diventa invece una forma di dipendenza e il soggetto accusa un certo disagio interpersonale (egodistonia), allora è utile introdurre il concetto di Disturbo Parafilico. Il Disturbo Parafilico è quindi una parafilia, ma il soggetto, oltre ad avere un intenso e persistente interesse sessuale per particolari attività erotico-sessuali, vive l'esperienza e i vissuti parafilici con disagio, tanto da arrecare danni a se stesso e/o agli altri.
Classificazione. Le parafilie possono essere classificate in base all'"atto" che sostituiscono o all'"oggetto" verso cui si indirizzano. Un'ulteriore suddivisione riguarda il canale sensoriale che viene sollecitato. Nella parte dell'atto vi è una sostituzione del coito o dell'attività sessuale, con pratiche di altro tipo.
Nella parte d'oggetto vi è una surrogazione dell'oggetto normativo o uno spostamento della meta:
l'oggetto normativo è costituito dal partner sessuale (eterosessuale od omosessuale).
la meta è rappresentata dal raggiungimento del piacere sessuale (orgasmo).
I canali sensoriali implicati nelle parafilie:
canale visivo, l'eccitazione sessuale viene ricercata nell'esibizione del corpo o parti di esso (esibizionismo), nell'osservazione di altri soggetti impegnati in attività sessuali (voyeurismo, mixoscopia) o di funzioni corporee fisiologiche (coprofilia, urofilia);
canale acustico/verbale, l'eccitazione è ottenuta mediante la pratica del turpiloquio, l'ascolto o il pronunciamento di parole scurrili o volgari attinenti alla sessualità (scatologia telefonica, coprolalia, pornolalia, mixacusi);
canale olfattivo, esistono collegamenti neurofisiologici tra l'organo vomero-nasale e determinate aree del cervello, come il sistema limbico (emozionale) e il nucleo BNST (nucleo della stria terminale); l'eccitazione sessuale è data dalla percezione di odori, anche sgradevoli, come l'urina, le feci, le flatulenze (flatulofilia), il sudore (ospressiofilia), ciò può essere connesso ai feromoni escreti con queste sostanze;
canale gustativo, l'eccitazione sessuale è perseguita tramite l'ingestione/irrorazione di escrezioni corporee (coprofagia, spermatofagia, pissing);
canale tattile, il piacere sessuale è dato dalla pratica di attività corporee inusuali: stuffing (penetrazione con oggetti), percossofilia, spanking (sculacciare con violenza), clismafilia (pratica del clistere), nasofilia, rinolagnia, uretrolagnia (stimolazione di parti del corpo non classicamente erogene, come le narici o l'uretra).
Forme clinicamente riconosciute. All’interno del manuale, sono descritte dettagliatamente le parafilie più comuni come il voyeurismo, l’esibizionismo o il feticismo.
Esibizionismo: eccitazione sessuale da fantasie, desideri o comportamenti relativi all’esporre i propri genitali a persone che non se l’aspettano
Feticismo: eccitazione sessuale da fantasie, desideri o comportamenti relativi a soggetti inanimati come vestiti, scarpe o parti del corpo a carattere non genitale
Voyeurismo: eccitazione sessuale da fantasie, desideri o comportamenti relativi all’osservazione, a sua insaputa, di una persona nuda o impegnata in attività sessuali
Tuttavia, esistono dalle 300 alle 500 parafilie che vengono categorizzate come “parafilia" e altri come "disturbo parafilico" come:
dacrifilia: eccitazione nel vedere qualcuno piangere
arpaxofilia: eccitazione sessuale nel venire derubati
efefilia: eccitazione nel toccare tessuti morbidi
somnofilia: eccitazione sessuale derivante dalla vista di partner addormentati
La nuova nomenclatura dei disturbi parafilici descritti dal DSM-5 (2013) si organizza all'interno di due differenti gruppi:
Evoluzione del concetto e delle definizioni. Nel 1974 l’omosessualità viene cancellata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) pubblicato dall'American Psychiatric Association (APA). Nella prima versione del 1952 risultava ancora una condizione psicopatologica tra i “Disturbi sociopatici di Personalità”. Nel 1968 era considerata una deviazione sessuale, come la pedofilia, catalogata tra i “Disturbi Mentali non Psicotici”. E ancora nel 1974 sui testi scientifici si parlava di ”omosessualità egodistonica”, ovvero quella condizione in cui una persona omosessuale non accetta il proprio orientamento sessuale e non lo vive con serenità. Questa teoria verrà superata nel 1987 per arrivare poi appunto al 1990, quando anche l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) decide di depennare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Ray Blanchard, un sessuologo americano-canadese noto per i suoi studi di ricerca sulla pedofilia (attrazione su minori sotto gli 11 anni di età) e l'ebefilia (attrazione su minori tra gli 11 e i 14 anni di età), ha affrontato (nella sua revisione della letteratura per il DSM-5) le obiezioni all'eccessiva inclusività e alla sottoinclusività del DSM-IV-TR, e ha proposto una soluzione generale applicabile a tutte le parafilie. Ciò significava cioè una distinzione tra parafilia e disturbo parafilico. Quest'ultimo termine è proposto per identificare il disturbo mentale diagnosticabile che soddisfa i criteri A e B, mentre un individuo che non soddisfa il criterio B può essere accertato ma non diagnosticato come affetto da parafilia. Blanchard e un certo numero di suoi colleghi hanno anche proposto che l'ebefilia diventi un disturbo mentale diagnosticabile nell'ambito del DSM-5 per risolvere la sovrapposizione dello sviluppo fisico tra pedofilia ed ebefilia combinando le categorie sotto disturbo pedofilo, ma con specificatori su quale fascia di età (o entrambi) è l'interesse principale. La proposta per l'ebefilia fu respinta dall'American Psychiatric Association, ma fu implementata la distinzione tra parafilia e disturbo parafilico.
Benno sex symbol social: "È una parafilia e può diventare ossessione". Da Pietro Maso a Benno Neumair: gli autori di reati efferati diventano l'idolo delle ragazzine sui social. "Bisogna denunciare", suggerisce la psicologa Silvia Bassi. Rosa Scognamiglio - Sab, 03/04/2021 - su Il Giornale. Ha confessato di aver strangolato i genitori, Laura Perselli e Peter Neumair, con una corda d'arrampicata e di averne poi gettato i corpi senza vita giù da un ponte, nel fiume Adige. Eppure Benno Neumair, il 30enne bolzanino accusato di duplice omicidio e occultamento di cadavere, rischia di diventare un "sex symbol": l'idolo delle adolescenti. Due settimane fa su Facebook è spuntata addirittura una fanpage - "Le bimbe di Benno" - che conta già più di 1000 iscritti. Il gruppo social pare sia amministrato da tre giovani ragazze - in realtà potrebbe trattarsi della stessa persona con molteplici profili fake - che condividono quotidianamente foto, talvolta ritoccate a regola d'arte, del presunto omicida. Le didascalie a corredo delle immagini si sprecano, tanto quanto la pioggia di like e commenti ai post. "Oggi tutto BENNissimo", esordisce un'iscritta di buon mattino. "Finché non lo condannano, sono garantista e innamorata", rilancia un'altra con tanto di emoji di un "cuoricino trafitto" sul finale. Per quanto l'iniziativa susciti profonda indignazione e sgomento, non è certo la prima volta che un assassino - presunto tale o accertato - raccolga consensi tra i giovanissimi o addirittura sia idolatrato alla stregua di una divinità. Basti pensare al caso Pietro Maso che, quando fu processato per aver ucciso i genitori (17 aprile 1991), poté contare sul supporto di un fanclub - il "Maso FanClub" - e di una nutrita schiera di sostenitori pronti a sfidare il buon senso comune con magliette inneggianti al suo nome. Prima di lui il criminale Renato Vallanzasca fece "innamorare" decine di ragazzine nonostante la condotta decisamente antieroica. Così tante furono le lettere che il pluriomicida ricevette dalle sue ammiratrici in carcere che la sua seconda moglie, Antonella D'Agostino, successivamente ha deciso di raccoglierle tutte in un libro intitolato "Lettera a Renato" (Telemaco Edizioni, 2007). La figura dell'antieroe (killer seriale o malavitoso) è stata inoltre riproposta in moltissime serie tv - basti pensare a Suburra (2017) o Romanzo Criminale (2008) - finendo al centro di un accesissimo dibattito mediatico circa la presunta mitizzazione di assassini efferati. Ma quali sono i rischi legati alla celebrazione degli autori di reati? "Si può sviluppare una vera e propria ossessione per questi criminali al punto da farne quasi una ragione di vita, specie se si è in età vulnerabile e non si è ancora sviluppata una consapevolezza morale rispetto a certi tipi di azione", spiega a IlGiornale.it Silvia Bassi, psicologa e direttore scientifico del Centro Studi Forensi di Firenze.
Dottoressa Bassi due settimane fa è stato aperto un gruppo Facebook dedicato a Benno Neumair che conta già centinaia di iscritti. Come lo spiega?
"Se ne parla poco ma accade spessissimo che nelle carceri arrivino centinaia di lettere indirizzate a chi ha commesso determinati tipi di crimine. Questo fenomeno ha un nome ben preciso in ambito psicologico, quello dell'ibristrofilia".
Cosa s'intende per "ibistrofilia"?
"Rientra tra le parafilie, ovvero quei comportamenti trasgressivi che vanno al di fuori delle norme sociali. L'ibistrofia porta a provare eccitazione nel sapere che la persona oggetto del desiderio ha commesso delle azioni illecite o reati efferati".
Quando diventa una condizione patologica?
"La parafilia diventa una condizione patologica quando il soggetto non può più fare a meno di mettere in atto questo tipo di comportamento 'trasgressivo'. A quel punto possiamo parlare di disturbo".
Quali sono le ragioni per cui una persona subisce "il fascino" di un criminale?
"Una motivazione fa capo al bisogno di proteggere e accudire un soggetto che ha delle difficoltà, dei disagi o che ha commesso dei reati. Un'altra ragione potrebbe essere il desiderio di cambiare una persona con un comportamento deviante - la famosa 'sindrome della crocerossina' - o la presunzione di poter redimere il criminale con il proprio amore. C'è poi un'altra motivazione, ovvero quella di finire al centro dell'attenzione mediatica riuscendo a stabilire una comunicazione epistolare con l'assassino. Il bisogno narcisistico di finire sotto i riflettori insomma. Ma ce ne sono anche altre che si basano sulla psicologia evolutiva. Il maschio violento, nella storia ancestrale, rappresenta il 'maschio alpha'. Dunque colui che protegge la propria donna e i figli a qualunque costo".
Riguarda di più le donne o gli uomini?
"La casistica ci dice che sono le donne a essere maggiormente attratte da questi personaggi devianti. Ma non mancano anche casi di uomini che subiscono il fascino della killer o presunta tale di sesso femminile. Mi viene in mente Amanda Knox che pare abbia ricevuto circa 40 lettere di ammiratori durante le prime settimane di carcere".
Quanto incide la mediatizzazione dei casi di cronaca e più in generale l'attenzione mediatica agli assassini?
"Negli ultimi anni davvero tanto. Se da un lato dobbiamo ringraziare i media che informano su certe vicende, e quindi consentono anche di fare una sorta di prevenzione per alcuni delitti, dall'altro hanno un effetto boomerang. L'attenzione a un presunto reo, che quindi non è stato ancora condannato, divide il pubblico tra colpevolisti e innocentisti. Ne consegue un interesse esasperato che può potenzialmente degenerare in ossessione".
Vale lo stesso discorso per le fiction o serie tv?
"Un conto sono le vecchie serie tv in cui si è cominciato a parlare di crime. Mi viene in mente, ad esempio, il caso di Csi in cui si fa attenzione alla prova scientifica, quella è stata una produzione televisiva davvero importante. Per le serie tv attuali invece il discorso cambia. Da un lato portano alla luce fenomeni sociali con cui non tutti sono a contatto e dunque questo è un aspetto positivo. Dall'altro però bisogna tenere conto che tra i telespettatori ci sono anche 'soggetti immaturi'. Per immaturi intendo quelle persone che, per una questione legata al processo evolutivo, non hanno ancora acquisito il senso delle conseguenze logiche di alcune azioni, non hanno ancora sviluppato in modo compiuto la morale".
Quali sono i rischi legati alla venerazione degli "antieroi"?
"Da sempre i criminali hanno attratto il pubblico femminile, soprattutto quelli 'affascinanti' a livello fisico. Basti pensare al caso di Ted Bundy, ad esempio, che si proponeva come seduttore, al punto poi da ottenere moltissimi consensi. Nel caso di Benno, bisogna tenere conto che avesse già un canale YouTube in cui esibiva il corpo. Questo aspetto riguardante la cultura e la cura del proprio corpo attrae molto le giovani generazioni. Il rischio è che l'attrazione evolva in ossessione, ovvero che l'infatuazione (reale o immaginaria) diventi un pensiero costante, un chiodo fisso".
Quando bisogna preoccuparsi?
"Bisogna sempre preoccuparsi perché sono fenomeni che deviano dai comportamenti socialmente accettabili. È necessario prenderne atto, subito. In questi gruppi ci sono anche ragazze molto giovani che, mediante la sovraesposizione sui social in un momento di accentuata vulnerabilità, possono diventare preda di adescamenti online da parte di eventuali malintenzionati o pedofili".
Cosa può fare un genitore quando si accorge che il figlio o la figlia sono iscritti a un gruppo come le "Bimbe di Benno"?
"È importante che il genitore possa trasmettere il messaggio di essere presente e che intende partecipare alla vita del figlio. Qualora ci si renda conto che la propria figlia - come nel caso della fanpage di Benno - è entrata in una sorta di circolo vizioso, che ha un'ossessione per il presunto autore di determinati tipi di crimine o ha sviluppato una dipendenza dal gruppo social, deve rivolgersi a un esperto. Altra cosa fondamentale è la denuncia. Questi gruppi devono essere segnalati alla Polizia Postale perché è al loro interno che si annida il pericolo. Bisogna denunciare".
Quanto hanno inciso e incentivato certi comportamenti antisociali le attuali restrizioni Covid?
"Io credo molto. Purtroppo i ragazzini sono più isolati e si riversano nel mondo digital".
Qual è il suo consiglio?
"Quello che consiglio è di posizionare il computer in una zona della casa in cui il genitore può passare e controllare cosa sta facendo il proprio figlio. Dunque evitare di lasciarlo da solo, in camera propria, davanti al monitor per molte ore. Ma non bisogna vietare l'uso di smartphone o tablet, basta educare a un uso corretto della tecnologia digitale. Il punto è fornire un corretto modello educativo, tutto lì".
Da ansa.it " il 27 aprile 2021. La salma trovata nell'Adige a Trento appartiene a Peter Neumair. Lo conferma l'avvocato Carlo Bertacchi, legale di Madè Neumair, sorella di Benno. L'identificazione sarebbe avvenuta tramite alcuni effetti personali trovati sul corpo, in particolare l'orologio. La conferma definitiva potrà arrivare comunque solo dall'esame del dna che la Procura di Bolzano intende disporre nelle prossime ore.
Marco Angelucci per Il Corriere della Sera il 28 aprile 2021. Sono passati quasi quattro mesi dalla notte del 4 gennaio in cui Benno Neumair strangolò i genitori e gettò i loro corpi nell'Adige dal ponte di Ischia Frizzi a Vadena. Ai primi di febbraio, nei pressi di Ora, era emerso il corpo della madre Laura Perselli, ieri il fiume ha restituito anche il cadavere del padre Peter. L'acqua lo aveva trascinato per oltre 60 chilometri, fino a Trento. Verso mezzogiorno, un giovane a spasso con il cane ha visto qualcosa che galleggiava nell'acqua e ha allertato i Vigili del fuoco che hanno intercettato il cadavere nei pressi del ponte di Ravina a sud di Trento. Dopo mesi passati in acqua, il corpo - senza vestiti - era ormai irriconoscibile, ma la statura e il sesso hanno subito fatto pensare a Peter Neumair. Decisivo per il riconoscimento è stato l'orologio che Peter aveva al polso, un Casio che la figlia Madè ha riconosciuto da una foto. I pm Igor Secco e Federica Iovene, titolari del caso, hanno comunque disposto l'autopsia e l'esame del Dna per avere la certezza che si tratti di Peter. «Nella tragedia, finalmente una bella notizia. Ho vissuto mesi di angoscia, ora sì, sono sollevato» ha detto dal carcere Benno parlando con il suo avvocato. «Sono stati mesi difficili, non capivo come non fosse stato ancora trovato - ha spiegato il giovane -. Ora mi auguro che attraverso l'indagine cadaverica siano confermate le circostanze sulle modalità che ho già espresso». E il suo legale Flavio Moccia aggiunge: «Questa è la prova che Benno ha detto la verità nel corso degli interrogatori». Benno aveva raccontato di aver strangolato prima il padre con una corda e poi la madre. A innescare la furia omicida l'ennesimo litigio in casa. Il fatto che il corpo del padre non fosse ancora riemerso aveva fatto pensare che Benno potesse averlo nascosto altrove, magari sul Renon dove si era recato la mattina dopo l'omicidio dei genitori. Nonostante le accurate ricerche - per ben due volte è stato svuotato il fiume sospendendo la produzione idroelettrica - il corpo non era saltato fuori. Per i familiari è la fine di un incubo. «Spero che il corpo di Peter dia le risposte che ancora mancano» dice lo zio di Benno, Gianni Ghirardini che con la moglie Carla Perselli si era rivolto anche a un sensitivo. Attualmente Benno si trova in cella a Bolzano con altri due coetanei accusati anche loro di omicidio. Presto dovrebbe arrivare l'esito della perizia psichiatrica a cui è stato sottoposto il giovane che in passato aveva avuto problemi psichici tanto che in Germania era stato sottoposto a un ricovero coatto dopo una serie di atti di autolesionismo. Se dovesse essere giudicato incapace di intendere e volere potrebbe cavarsela con una condanna mite. «Abbiamo paura che esca e che torni a fare del male» dice lo zio. Nel frattempo è stata scagionata la ragazza che aveva ospitato Benno la sera del delitto. Martina, commessa in un negozio del centro, aveva inizialmente nascosto i vestiti che Benno indossava la sera dell'omicidio ed era stata indagata per favoreggiamento. Poi però la giovane ha iniziato a collaborare con gli inquirenti e la Procura ha annunciato di voler chiedere l'archiviazione.
"Hanno trovato papà?". La reazione di Benno stupisce tutti. 27 Aprile 2021 su Il Giornale. Benno Neumair, accusato di duplice omicidio e occultamento di cadavere dei genitori, ha commentato la notizia del ritrovamento di papà Peter. "Un sollievo", avrebbe confidato al suo legale. "Nella tragedia, finalmente una bella notizia. Ho vissuto mesi di angoscia, ora sì, sono sollevato". Sarebbero state queste le dichiarazioni a caldo di Benno Neumair alla notizia del ritrovamento di papà Peter. Il trentenne bolzanino, in regime di detenzione carceraria dallo scorso 29 gennaio con l'accusa di duplice omicidio e occultamento di cadavere di genitori, si è detto "sollevato" dalla circostanza. Lo ho confermato il suo legale, Flavio Moccia, ai taccuini dell'Adnkronos. Intanto, la Procura di Bolzano è in attesa dell'informativa da parte dei carabinieri di Trento che confermi l'identità del cadavere rinvenuto in località Ravina, all'altezza del Muse, nel primo pomeriggio di martedì 27 aprile.
"Hanno trovato papà?". Dopo quattro mesi di ricerche affannose, il cadavere di Peter Neumair, padre di Benno, è affiorato in superficie dalla profondità delle acque del fiume Adige. L'indiscrezione è giunta, quasi nell'immediatezza dei fatti, anche al trentenne bolzanino, reo confesso del duplice omicidio dei genitori. Quando il legale è andato a fargli visita oggi, nel carcere di Bolzano, dove è recluso dallo scorso 29 gennaio, il giovane aveva già appreso la notizia dalla televisione. "Sono stati mesi difficili, non capivo come non fosse stato ancora trovato - avrebbe detto Benno durante l'incontro con il suo legale - Ora mi auguro che attraverso l'indagine cadaverica siano confermate le circostanze sulle modalità che ho già espresso. Nella tragedia, almeno, un fattore positivo". Poi ha concluso: "Nella tragedia, finalmente una bella notizia. Ho vissuto mesi di angoscia, ora sì, sono sollevato".
"Finalmente un po' di giustizia". Flavio Moccia, legale di Benno Neumair, ha commentato la notizia del ritrovamento alle pagine dell'Adnkronos. "Tanti commentatori inconsulti hanno anche ipotizzato addirittura che ci fosse una ulteriore menzogna del mio assistito anche su questa particolarità. - ha detto l'avvocato bolzanino - Per noi, dunque, finalmente un pò di sollievo contro queste prospettive davvero ingiuste e scorrette". Anche Carlo Bertacchi, legale di Madè, la sorella di Benno, non ha mancato di esprimere moderato sollievo per il rinvenimento della salma di Peter Neumair. "L'unica cosa positiva è che sia stato ritrovato il corpo di Peter perché questo, esauriti tutti gli esami autoptici di conferma con il dna, consentirà finalmente di celebrare i funerali, di avere una tomba dove andare a trovare conforto", ha spiegato Bertacchi. "Sicuramente la parte preponderante, considerati gli accertamenti, gli atti di indagini, le confessioni, è l'aspetto morale, il conforto se non altro di avere una bara piena e non una vuota da seppellire. Sicuramente verrà fatta l'autopsia e al medico legale verrà chiesto l'accertamento sulle cause di morte - ha continuato l'avvocato - ma non mi aspetto grandi novità dal punto di vista delle indagini, considerate le condizioni del corpo trovato a Trento e riconosciuto solo grazie a un orologio fotografato e mandato ai familiari di Laura Perselli, ancora a Bolzano, e a Madé a Monaco".
"Ha battuto la testa". La mossa di Benno per farla franca. Angela Leucci l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. La perizia psichiatrica, i vestiti e l'arma del delitto: i punti ancora oscuri su Benno Neumair all'indomani del ritrovamento del corpo di Peter nell'Adige. Benno Neumair punterà sull’infermità per la sua difesa? All’indomani del ritrovamento del corpo di Peter Neumair nell’Adige, a “Quarto Grado” si è parlato dei punti ancora oscuri relativi all’omicidio di Bolzano. Per Benno, figlio di Peter e Laura Perselli che ha confessato l’assassinio, è stata disposta una perizia psichiatrica. Il giovane è stato già sottoposto a diversi test come quello per il quoziente intellettivo e il test di Rorschach. Pare che Benno, mentre si allenava in passato, abbia battuto la testa in due occasioni: gli inquirenti cercheranno di capire se questo ha influito in ciò che è accaduto. Le prove neuropsichiatriche però, come detto in trasmissione, potrebbero avere un valore relativo: non lo ebbero nel caso di Annamaria Franzoni e neppure per il serial killer Gianfranco Stevanin. Tra i punti oscuri ancora da chiarire nella vicenda ci sono degli oggetti mai ritrovati e di cui benno ha parlato: la presunta arma del delitto e dei vestiti che avrebbe indossato in quel momento. In particolare gli inquirenti devono capire cosa sia accaduto dopo che Benno si è liberato dei corpi dei genitori. Il giovane afferma di essere stato due o tre ore sul Renon con il cane della nonna e di essersi fatto uno spinello: cosa è accaduto in quel tempo? Inoltre Benno ha dato alla sua conoscente Martina dei vestiti, chiedendo di levarglieli, dopo essersi fatto una doccia a casa di lei. Martina ha consegnato quegli abiti ai carabinieri dopo qualche giorno dopo il sopralluogo nella sua abitazione, e gli inquirenti hanno notato che emanavano un forte odore di detersivo, come fossero stati lavati a lungo o più volte: i vestiti sono oggi completamente puliti. Gli inquirenti sono portati a credere che Martina non sapesse che quegli abiti erano stati usati per il delitto, tanto che Benno ha parlato di altri vestiti: un gilet rosso in pile e dei pantaloni a scacchi blu o verdi. Il gilet è stato ritrovato, ma non i pantaloni. Inoltre perché far lavare a Martina dei vestiti non utilizzati per il delitto e poi rifiutarli due volte dopo che erano puliti e Martina cercava di restituirglieli? Per quanto riguarda l’arma del delitto, Benno ha parlato di una corda da arrampicata che avrebbe utilizzato per uccidere i genitori. La corda che gli inquirenti stanno analizzando contiene tracce di Dna con un profilo femminile: potrebbe essere quello di Laura, ma è troppo scarso dal punto di vista della quantità per permettere di capire se si sia davvero trattato dell’arma del delitto. Intanto c’è anche un mistero collaterale: un sensitivo tedesco, Michael Schneider, segnalò un mese fa e poi il giorno del ritrovamento il luogo in cui gli inquirenti avrebbero potuto trovare il corpo di Peter. Il sensitivo aveva indicato anche dove trovare il cadavere di Laura. Il 28 aprile, il giorno dopo il ritrovamento del padre, la figlia Madè ha scritto una lettera toccante, che esordisce con: “Sarebbe semplice dire che ieri si sia solo chiuso un cerchio”. Madè sembra quasi citare i primi versi de “I Sepolcri” di Ugo Foscolo, scrivendo che ora ci sarà un rito e una tomba in cui i genitori possano riposare in pace, e in cui si potrà recuperare “un po’ di quella spiritualità andata perduta sotto le macerie della violenza, delle indagini, dell’incertezza e della paura”. Madè immagina e ricorda il padre e la madre nei momenti di tenerezza e amore che si scambiavano, nelle loro abitudini, nel loro essere pieni di vita, ma accenna anche al fratello Benno. “Per chi sta dietro le sbarre - scrive - pare sia un sollievo sapere che una delle innumerevoli menzogne per una volta, quando ormai tutto è perduto, quando ormai tutto è scontato, risulti veritiera”.
Gianluigi Nuzzi per "La Stampa" il 31 marzo 2021. Benno Neumair ha ucciso i genitori. Ha buttato i loro corpi nell'Adige. Ha cancellato le macchie di sangue tra le piastrelle di casa con l'acqua ossigenata. Ha fatto lavare i suoi vestiti dalla compagna. Ha depistato l'indagine ovunque potesse, cercando fino all'ultimo l'impunità. Benno, schiacciato da prove e indizi e testimoni, ha confessato. Adesso saranno medici ed esperti a valutare la sua mente per capire se è capace di intendere e volere. E quindi o rimarrà in carcere a scontare una pena pesante o finirà in una struttura psichiatrica per almeno dieci anni. Come prevedibile, questa storia ha spaesato tutta l'Italia, attonita di fronte a un ragazzo che uccide chi l'ha messo al mondo. Non c'è nulla di più tragico di un figlio assassino o di una madre omicida. Questo, almeno, fino a qualche ora fa quando dal buco nero dell'idiozia o dell'umorismo macabro una coppia di ragazze ha fondato un gruppo su Facebook dal titolo che toglie spazio alla fantasia e, soprattutto, alla speranza: "Le bimbe di Benno". Ovvero una community privata composta da chi vede in questo assassino un idolo, un uomo da amare e chissà, magari un domani, nella discesa negli inferi della provocazione, un esempio da seguire. Per chi avesse ancora qualche dubbio nella pagina iniziale gli amministratori specificano che «il gruppo è dedito all'adorazione del mio amore Benno Neumair». Il gruppo sta crescendo con ormai oltre 600 iscritti. Chi entra per curiosità. Chi si scandalizza. Chi, evidentemente, perché aderisce all'obiettivo del gruppo, l'adorazione del narciso assassino (ex) palestrato. A qualsiasi ragionamento serve però una premessa: nel mondo virtuale tra fake, bot e surrogati non è dato sapere con certezza se l'apertura di questo gruppo sia figlia di una provocazione per far reagire la parte più oscura degli internauti, di una sfida o scommessa tra giovani annoiati, di uno scherzo o di ricerca di pubblicità. E, in realtà, qui nemmeno importa perché le intenzioni di chi pubblica non sempre, anzi quasi mai, corrispondono e rientrano nella percezione di chi legge. E quindi che si tratti o meno di una bravata o di un atto dimostrativo interesserà davvero poco, a iniziare da chi ha visto stravolta per sempre la propria esistenza dal duplice omicidio. Si pensi solo a come accoglierà questa notizia la sorella di Benno, Madé, la ragazza dal volto dolce che ha perso l'intera famiglia in una manciata di settimane con i genitori buttati nel fiume e il fratello reo confesso dietro le sbarre; ora Madé si trova dei gruppi che inneggiano a chi le ha polverizzato l'esistenza. Il gruppo ha vissuto sottotraccia per qualche giorno con le tre amministratrici dai nomi probabilmente di fantasia: Tara, Valerija (che dalle foto sembrano la stessa persona) e Ksenija. Sono loro tre che funambule con i loro post ondeggiano sul sottilissimo e scivoloso filo di una compiaciuta ironia o sarcasmo che sia. In particolare, Valerija alimenta l'indignazione pubblicando fotomontaggi con il giovane altoatesino e lei in improbabili fuoriporta al lago. Non mancano i titoli eloquenti, «Oggi sono andato a prenderlo in carcere, guardate com'è felice» e «Buongiorno a tutte, come state? Io BENNissimo», senza privarsi di qualche scivolone patetico: «Comunque ancora non è stato fatto nessun processo e voi lo giudicate colpevole, io sono garantista e innamorata». Del resto, cambiano gli strumenti ma la storia si ripete. È facile ipotizzare che Benno riceverà presto proposte di matrimonio e giuramenti di fedeltà eterna. Esattamente come nel passato è accaduto a boss del calibro di Totò Riina o ai serial killer americani. Ieri le missive oggi i social. Tra i post d'amore per Benno (sia etero che gay), non mancano quelli di chi impreca e offende il gruppo stesso, con frasi di gratuita violenza: «Auguro il femminicidio stile Canaro della Magliana a tutte voi cerebrolese». E c'è chi chiede l'immediata chiusura della pagina, avendola già segnalata a Facebook perché la cancelli. Ma non accade nulla, il gruppo è ancora vivo e vegeto perché, evidentemente, non viola i principi della community, né incita alla violenza. Poco importa quindi che offenda vittime innocenti - uccise e ancora in vita. L'assuefazione al degrado fa un passo avanti. Auguri.
Chiara Currò Dossi per il "Corriere della Sera" il 21 marzo 2021. «Papà mi rinfacciava che non valessi niente. Era uscito fuori il discorso delle mie responsabilità, e mia sorella... Mi sono sentito così alle strette, così senza una via d'uscita. Io mi rifugio in camera e vengo incalzato anche se voglio stare in pace. Volevo solo il silenzio. L'ho zittito, ho preso dalla bacinella di plastica dove ho gli attrezzi la prima corda di arrampicata che ho trovato». Inizia così il racconto dei 20 minuti di follia di Benno Neumair, il trentunenne che il pomeriggio del 4 gennaio ha ucciso i genitori in casa, caricato i corpi nel bagagliaio della macchina del padre per poi sbarazzarsene, gettandoli nell'Adige dal ponte di Ischia Frizzi, prima di raggiungere Martina, l'amica con cui ha trascorso la notte. Il racconto di Benno, in carcere dal 29 gennaio con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere, è riportato nei verbali dei due interrogatori desecretati negli scorsi giorni dalla Procura di Bolzano, e resi pubblici, venerdì sera, da Quarto Grado . Benno racconta di essere stato a casa insieme al padre Peter, il pomeriggio del 4 gennaio, e di aver litigato con lui a più riprese. Prima, per chi dovesse portare fuori il cane della nonna, che proprio quel giorno sarebbe uscita dall'ospedale. «Mi rimproverava che dovevo aiutare di più a casa. Sono andato in camera mia per non dover più discutere, come spesso accadeva». Accende il computer, e si addormenta. Poi entra il padre, e lo sveglia. «È scoppiata una discussione sui soldi: io ho sempre dato 350 euro per l'affitto ai miei genitori. Mio padre voleva che prendessi l'appartamento di sotto, altrimenti mi avrebbe chiesto 700 euro a partire da gennaio, ovvero un terzo dell'affitto perché siamo tre adulti. Io ho risposto che era ingiusto. Mio padre insisteva che dovevo uscire di casa, che mia sorella, invece, si pagava da sola un appartamento in Germania. Io mi sentivo male dentro». E lo aggredisce. «Eravamo in corridoio. Siamo cascati insieme per terra, non so se l'ho strozzato da dietro o da davanti. Ricordo solo che ho stretto molto forte. Poi sono rimasto seduto, o sdraiato in corridoio. In quel momento è suonato il mio cellulare, probabilmente ho risposto. Poi mi sono di nuovo agitato, sentendo il rumore del cellulare e, subito dopo, quello del chiavistello. Mi sono mosso verso la porta, è entrata la mamma, avevo ancora il cordino in mano e mi è venuto di fare la stessa roba, senza nemmeno salutarla». E ha strangolato anche lei. Il racconto prosegue. «Il cellulare della mamma era caduto per terra, ho avuto paura, mi sono messo i pantaloni, sono uscito col cellulare della mamma e con quello del papà che aveva lo schermo scheggiato. In bici, ho pedalato fino a ponte Roma. Ho lanciato i cellulari verso il fiume. Non so se vi siano finiti dentro o se siano caduti sull'argine». Tornato a casa, Benno si ritrova con «il corpo della mamma all'ingresso. Sono andato in bagno, ho acceso la stufa. Lì c'erano i miei pantaloni, con dentro il mio telefono. Ho telefonato alla mamma. Ero contento che il telefono squillasse, perché poteva significare che mi fossi sognato tutto». Una versione che si discosta dalla ricostruzione degli inquirenti, secondo i quali Benno avrebbe invece nascosto il telefono della madre lungo l'argine. Uno dei tanti tasselli del depistaggio. Tra i verbali resi noti da Quarto Grado , c'è anche quello di Martina che il 22 gennaio ha consegnato agli inquirenti i vestiti che Benno, quella sera, ha lasciato a casa sua chiedendole di lavarli. Nei giorni seguenti, racconta lei, «ho portato i vestiti nel negozio dove lavoro. Benno è venuto a trovarmi, ma non ha voluto prenderli, dicendomi che i carabinieri stavano controllando. Non volevo metterlo in ulteriori guai, e ho pensato che glieli avrei dati successivamente». Cosa che non farà. Quando lo incontra l'ultima volta Benno è già indagato. Lui si presenta in negozio. «Mi ha detto: "volevo solo dirti scusa". Gli ho augurato tutto il bene, ma gli ho detto che non volevo più vederlo. Non mi ha chiesto di riavere i vestiti».
Bolzano, coppia scomparsa, Benno Neumair ha confessato: ha ucciso i genitori. Paolo Berizzi su La Repubblica l'8 marzo 2021. Laura Perselli e Peter Neumair erano scomparsi il 4 gennaio scorso. Il figlio, 30 anni, aveva ammesso le sue responsabilità di fronte ai pm già un mese fa. Oltre due mesi di ricerche e colpi di scena, riflettori, luci e ombre, polemiche, sospetti, indizi, indizi diventate prove. Fino alla svolta finale: Benno Neumair ha confessato il duplice omicidio dei genitori Peter Neumair e Laura Perselli, uccisi a Bolzano e gettati nel fiume Adige lo scorso 4 gennaio. Lui, Benno: l'uomo intorno al quale, fin dal primo giorno, era ruotato il giallo ormai non più giallo; lui, il 30enne belloccio e misterioso, e spietato, l'istruttore di fitness che caricava i video su YouTube; il supplente di matematica tutto muscoli, amiche e foto da tronista. La notizia è arrivata nel primissimo pomeriggio direttamente dalla procura di Bolzano: una nota all'insegna del tecnicismo, dove il fulcro - clamoroso ma non inatteso - è nel secondo paragrafo. Come tra le righe. Si parla di "due interrogatori nel corso dei quali l'indagato, alla presenza dei difensori, ha ammesso le sue responsabilità". Il contenuto dei due verbali - precisa il comunicato - "è stato desegretato". Desegretato dalla stessa Procura contestualmente alla richiesta di un nuovo incidente probatorio finalizzato ad accertare le condizioni mentali di Benno, unico indagato e unico imputato per l'omicidio dei genitori. Ma restiamo alla svolta, e cioè alla confessione di Benno. I legali riferiscono che l'uomo ha ammesso le sue responsabilità di fronte ai pm già un mese fa, nel corso di due interrogatori ai quali è stato sottoposto nel carcere di Bolzano dove è detenuto dal 29 gennaio scorso. Una confessione arrivata subito dopo il ritrovamento del cadavere di sua madre Laura Perselli nel fiume Adige e - spiega l'avvocato Flavio Moccia - "dopo un forte e intenso crollo psicologico". Più volte Benno si era dichiarato innocente e estraneo alla scomparsa dei genitori. Sia direttamente sia attraverso i suoi legali (Moccia e Angelo Polo). La notizia della confessione non era mai trapelata perché la Procura aveva secretato l'interrogatorio. Ora, con la richiesta di incidente probatorio per stabilire la capacità di intendere e volere di Benno, è arrivato il "via libera" alla diffusione dell'epilogo della storia. Va ricordato che, durante l'interrogatorio di garanzia, il trentenne si era avvalso della facoltà di non rispondere: ma nei giorni scorsi, tramite i suoi legali, aveva invece manifestato la volontà di incontrare gli inquirenti. Proprio da uno di quegli incontri è arrivata la confessione del duplice omicidio. Secondo quanto da lui stesso dichiarato, Benno Neumair avrebbe prima strangolato papà Peter durante una colluttazione, mentre mamma Laura sarebbe stata uccisa in un secondo momento. Ripercorriamo ora la vicenda. Da subito, era il 5 gennaio, i sospetti degli investigatori si erano indirizzati sul figlio dei coniugi scomparsi. All'inizio dell'indagine sul duplice delitto di via Castel Roncolo si era ipotizzato che Neumair avesse ucciso i genitori nell'appartamentino a piano terra che avevano pensato di affittare per il figlio. Ma l'esame delle tracce di sangue, trovate invece nell'appartamento in cui Laura Perselli e Peter Neumair abitavano in via Castel Roncolo, ha poi portato gli inquirenti a conclusioni diverse. Il sangue apparterrebbe in particolare a Peter Neumair. E sempre al padre appartengono le tacce ematiche rinvenute sul ponte Ischia-Frizzi a sud di Bolzano. Che cosa è successo la sera del 4 gennaio lo hanno ricostruito i carabinieri: si pensa che Benno abbia strangolato prima il padre e poi la madre. I segni trovati sul collo di Laura Perselli sembrano confermare quest'ipotesi. Benno avrebbe poi portato i corpi dei genitori in spalla fino in macchina. Il corpo di Laura è stato trovato nell'Adige dopo diversi giorni mentre quello di Peter ancora non si trova. "Le ricerche proseguiranno ulteriormente", si legge sempre nella nota diffusa dalla procura di Bolzano, dove si precisa che, al momento, non possono essere divulgati particolari sugli atti inviati al gip.
Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 10 marzo 2021. Parole come lame di un coltello. Madè ha letto la confessione di suo fratello Benno ed è stato come vedere la scena, un fotogramma dopo l'altro. «La solita lite per i soldi, litigavamo su tutto. Mi sono trovato per le mani una corda e l'ho strangolato» ha detto Benno ai magistrati ammettendo di aver ucciso suo padre il pomeriggio del 4 gennaio. «Mia madre è arrivata che era appena successo, non le ho nemmeno dato il tempo di togliersi il cappotto e quando è entrata ho strangolato anche lei». Madè ha immaginato, si è arrabbiata quando ha letto bugie. Ha intercettato parole non scritte perché lei sa, lei conosce, lei ha condiviso anni di infelicità di sua madre e suo padre per quel figlio sempre in bilico fra ciò che era e ciò che fingeva di essere. Indietro non si può tornare ma che almeno adesso non sia lui a condurre il gioco: questo ha pensato Madè sedendosi davanti al computer per scrivere una lettera al mondo e dire la sua, finalmente. Che non provi anche stavolta a manipolare tutti, si è detta: la violenza l'ha scelta e mentre la sceglieva sapeva quel che stava facendo. Dalle dita che battevano sulla tastiera è nato un messaggio potente contro suo fratello, dettato dalle emozioni e dal ricordo di Peter a Laura, i suoi genitori. «L' indicibile fatto che Benno abbia ucciso a sangue freddo la mia Mamma e il mio Papà, per me è stato violentemente e dolorosamente evidente fin dal primo pomeriggio del 5 gennaio», scrive questa ragazza classe 1994, nata e cresciuta a Bolzano e oggi dottoressa in Germania. Ripensa alle prime settimane dopo la scomparsa dei suoi, alle ricerche dei loro corpi nell'Adige (il padre non è mai stato trovato), a Benno che era ancora libero, e dice che «stento a credere come io sia riuscita a mantenere la calma e la concentrazione nel trambusto e nel dolore più annientante, vivendo nella paura che la verità non venisse mai alla luce. Ho sentito i miei genitori vicinissimi ogni giorno, mi hanno dato la forza di rialzarmi ogni mattina. Vedevo in televisione un Benno dalla balaustra della terrazza dei miei genitori, scrutava con arroganza in basso verso giornalisti e carabinieri, si diceva nauseato di tutte quelle strane domande. Sentivo nelle varie interviste la sua voce gelida fabbricare teorie depistanti e palesi menzogne». Gli avvocati di Benno parlano di «pentimento» e dicono che lui ha negato e rimosso finché non è stato trovato il cadavere di sua madre. Madè ribatte: «Non credo al pentimento e ci vuole ben poco a capire che la sua confessione era dovuta, dopo il quadro indiziario raccolto contro di lui». Dice di più: «Negazione e rimozione mi paiono ben poco compatibili con la sua intensa attività per depistare e inquinare in maniera calcolata e lucida le prove a suo carico». La rabbia di Madè è arrivata fino a lui, in carcere. Flavio Moccia, uno dei suoi legali, è andato a trovarlo e gli ha raccontato della lettera «risparmiandogli i passaggi più duri», dice. E ai giornalisti che gli hanno chiesto cosa avesse detto lui, ha risposto che «Benno comprende la reazione violenta di Madè». Ha detto proprio così: «Reazione violenta di Madè». «Da non credere», commenta lei. «L' unica persona violenta in questa storia è lui». Nelle ultime parole della sua lettera c' è uno sguardo al futuro, alla «luce che riesco a vedere nonostante tutto nella mia vita», alla «"vita che vuole la vita", come diceva sempre mia mamma».
Omicidio Bolzano, la confessione di Benno apre alla pista della premeditazione. Chiara Nava su Notizie.it il 10/03/2021. La confessione di Benno Neumair, che ha ammesso di aver ucciso i suoi genitori Laura e Peter, apre la pista della premeditazione. L’indagine sull’omicidio di Bolzano continua senza sosta. La confessione di Benno Neumair ha aperto nuovi scenari sulla morte della coppia. I racconti del figlio 30enne hanno già aperto la pista della premeditazione. Diversi dettagli delle sue dichiarazioni non tornano. La confessione di Benno Neumair può essere divisa in due parti: la prima si può riassumere nell’ammissione di aver ucciso i genitori, mentre la seconda, arrivato a distanza di settimane, ha svelato tutti i dettagli della dinamica dell’omicidio. Dalla confessione sembrerebbe che Benno stia iniziando ad ammettere le sue colpe ma sempre cercando di nascondere qualcosa sul delitto. Il ragazzo ha parlato di una lite per soldi, come capitava spesso con il padre, poi ha descritto il momento dello strangolamento con una corda per scalare. Ha compiuto questo gesto per mettere a tacere Peter Neumair. La madre è tornata a casa qualche ora dopo e Benno ha spiegato di non averle neppure dato il tempo di togliersi il cappotto. Qualcosa, però, non torna. Il 30enne aveva dichiarato che la madre Laura era tornata a casa appena era avvenuto l’omicidio del padre. Questa dichiarazione non combacia con il cellulare di Peter, che si è spento molto prima rispetto a quello della moglie. Benno aveva detto all’amica dalla quale ha passato la notte che avrebbe raggiunto la sua casa in automobile. Questo dettaglio può sembrare futile, ma in realtà è estremamente importante, perché lui stesso aveva ammesso che i genitori non gli permettevano di utilizzare la macchina di famiglia. Gli avevano tolto le chiavi ed era un divieto assoluto. Eppure, Benno qualche ora prima sapeva che quella sera avrebbe potuto utilizzarla. Il ragazzo, inoltre, ha spiegato di aver gettato l’arma del delitto e anche il suo cellulare. Gli inquirenti si chiedono per quale motivo ha buttato il cellulare invece di lasciarlo a casa durante l’occultamento dei corpi dei genitori. Un altro dettaglio che va analizzato è la sua richiesta alla scuola in cui faceva supplenza per allungare le vacanze di Natale di quattro giorni. Tutti questi elementi potrebbero dimostrare la premeditazione del delitto. Una pista che si scontrerà con la richiesta di una perizia psichiatrica. I parenti di Benno lo hanno descritto come un uomo manipolatore ed egoista, con tratti molto infantili. Aveva spesso deliri persecutori, tanto da fingere un’aggressione quando viveva in Germania, dove gli era stata diagnosticata una schizofrenia paranoie, che in Italia si era trasformata in una diagnosi di bipolarismo leggero.
Chiara Nava. Nata a Genova, classe 1990, mamma con una grande passione per la scrittura e la lettura. Lavora nel mondo dell’editoria digitale da quasi dieci anni. Ha collaborato con Zenazone, con l’azienda Sorgente e con altri blog e testate giornalistiche. Attualmente scrive per MeteoWeek e per Notizie.it
Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" l'8 marzo 2021. Alla fine è andata come tutti si aspettavano che andasse. Benno Neumair ha confessato. Ha ucciso lui i suoi genitori, Laura Perselli, 68 anni, e Peter, 63. Li ha strangolati con una corda, li ha caricati in macchina ed è andato a gettare i cadaveri sul ponte di Ischia Frizzi, una località a sud di Bolzano. Tutto questo il 4 gennaio e per giorni e giorni - dopo - lui ha provato a raccontare al mondo di essere innocente. Lo ha ripetuto anche dal carcere, dov'è finito il 29 gennaio con l'accusa di duplice omicidio e occultamento di cadavere. Non tornava niente, del suo racconto. Gli orari dei suoi spostamenti, le azioni di quella sera e dei giorni successivi, le motivazioni date per aver fatto o non fatto qualcosa... La Procura diretta da Giancarlo Bramante ha trovato giorno dopo giorno i tasselli del puzzle che le indagini avevano delineato fin da subito. Punto di partenza fondamentale: la macchia di sangue ritrovata dai carabinieri nella neve, sul ponte dal quale Benno aveva buttato i corpi. I suoi avvocati, Angelo Polo e Flavio Moccia, ieri sera hanno fatto sapere che c'è stato un passaggio che ha convinto il loro assistito a confessare, e cioè il ritrovamento del corpo della madre, il 6 febbraio. Quel giorno avevano parlato di un uomo in lacrime inconsolabile davanti alla notizia, ieri sera hanno detto che il ritrovamento del cadavere ripescato nell'Adige (quello del padre ancora non si trova) ha prodotto «una dissoluzione di schianto, di tutte le difese di negazione e rimozione» di quella realtà «per chiunque indicibile e inaffrontabile». Forse è davvero così, forse Benno ha letto gli atti e ha capito di non avere scampo davanti all'accusa, o forse ha ascoltato la preghiera di suo zio Gianni, il cognato di sua madre, che in una lettera gli ha chiesto di confessare. E dopo la confessione, agli stessi suoi legali appare accettabile la valutazione psichiatrica (da loro mai caldeggiata) che la Procura ha chiesto al gip con un incidente probatorio per stabilire se Benno è capace di intendere e di volere (decisione che potrà contare molto sulla definizione della pena). A proposito delle condizioni psichiatriche di Benno, la sua famiglia - per prima la sorella Madè - fa sapere attraverso gli avvocati che non si accontenterà della «scorciatoia» della presunta follia. Perché se è vero che Benno abusava di farmaci e doveva spesso controllare la sua aggressività, è anche vero che per uccidere e far sparire i corpi è stato più che capace di intendere e di volere, come dimostrano i suoi svariati tentativi di costruirsi un alibi e di inquinare le prove. Per ora la Procura contesta l'omicidio premeditato soltanto per la madre (uccisa per seconda), l'omicidio d'impeto per il padre. Ma anche questo scenario potrebbe cambiare perché alcuni dettagli raccolti dalle indagini farebbero pensare a una pianificazione per entrambi.
Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" l'8 marzo 2021. «Avevamo litigato per i soliti motivi. Io volevo finirla lì ma lui continuava e allora...». Allora Benno racconta che gli è capitata per le mani una corda, una di quelle da arrampicata. «L'ho presa e gliel'ho stretta al collo. L'ho fatto per farlo stare zitto». Sta parlando di suo padre, di quel pomeriggio del 4 gennaio che è l'ultimo di cui Peter ha visto la luce. Il verbale che riassume le tre ore di interrogatorio videoregistrato racconta di un ragazzo che confessa, sì, ma che non dice una sola parola di pentimento. Nemmeno un «mi dispiace», non una lacrima, non un cenno di agitazione, di rimorso. Ha risposto alle domande, semplicemente. Racconta dello strangolamento di suo padre dopo una breve colluttazione, delle «solite litigate per i soldi, per tutto», descrive quella scena di morte come se fosse l'atto finale a cui - secondo la sua logica - è stato portato dall'esasperazione. Con freddezza dice che «mia madre è arrivata che era appena successo, non le ho nemmeno dato il tempo di togliersi il cappotto e quando è entrata ho strangolato anche lei». L'ha uccisa con lo stesso «cordino», come lo chiama lui, usato per suo padre. Domanda: dove ha messo poi la corda? «L'ho buttata via in un cassonetto». In un cassonetto non precisato dice di aver buttato via anche il suo telefonino, non quella sera. Gli chiedono di come si è disfatto dei cadaveri e lui fa mettere a verbale che «li ho caricati in spalla fino alla macchina parcheggiata davanti alla porta». Cortile buio, con cancello che chiude la vista dalla strada. Benno scende dal secondo piano prima con un corpo poi con l'altro senza incappare in nessuno dei vicini. Li carica nel bagagliaio della Volvo di famiglia, quella che loro non volevano che usasse mai e che era uno dei motivi frequenti di litigio. Alla ragazza dalla quale andava a dormire, quella sera, aveva detto «vengo in macchina» e non è un dettaglio da niente. Come poteva prevedere di disporre dell'auto che non gli lasciavano mai usare al punto da nasconderne le chiavi? A cosa le è servita l'acqua ossigenata comprata dopo il delitto? gli chiedono. E lui spiega che «dopo aver buttato via i corpi avevo già pulito casa ma volevo pulire meglio, volevo essere sicuro». Acqua ossigenata per cancellare le tracce eventualmente lasciate sul pavimento anche se i Ris di Parma hanno poi comunque prelevato da casa molti campioni biologici che però sono ancora da esaminare. Quella sera Benno carica i corpi in macchina e poi incontra un vicino di casa che lo vede trafelato, strano. «Ho finto di aver appena terminato di allenarmi» ha ricostruito nell'interrogatorio. La confessione è avvenuta in due parti, nell'arco di quasi un mese. La prima volta che ha incontrato i magistrati Benno ha semplicemente ammesso che «sì, è vero: li ho uccisi io e li ho buttati nell'Adige». Lui non è sceso nei dettagli e loro non hanno insistito con le domande, cosa che invece hanno fatto con il secondo interrogatorio. Solo che fra il primo e il secondo colloquio in carcere ha avuto tempo e modo di leggere le carte dell'inchiesta e quindi ci sono diversi passaggi, nella sua confessione, che suonano come un tentativo di ridurre al massimo i danni giudiziari. Sulla premeditazione dell'omicidio della madre, per esempio. Lui dice che lei è arrivata «quand'era appena successo», il che escluderebbe la premeditazione. Ma il punto non coincide con la ricostruzione dell'accusa. E non è detto che non si possa dimostrare la pianificazione del duplice delitto, sospetto che nasce se si mettono in fila alcuni dei particolari raccolti dalle indagini. Per cominciare la storia della Volvo che lui, stranamente, sapeva di poter usare quella sera. Ma anche il fatto che ha buttato via il suo cellulare. Perché? Cosa poteva rivelare? E ancora: come mai a scuola, dove faceva supplenze di matematica, aveva chiesto di allungare le vacanze di Natale di quattro giorni? Non è detto che le sue ammissioni siano il capitolo finale di questa storia.
Un mese di indagini e sospetti: Benno ha ucciso i suoi genitori? A cinque settimane dalla scomparsa dei coniugi Neumair, il giallo di Bolzano continua a riservare colpi di scena. Benno resta in carcere ma il corpo di Peter non è stato ancora ritrovato. Rosa Scognamiglio, Giovedì 11/02/2021 su Il Giornale. Una coppia di coniugi bolzanini, Peter Neumair e Laura Perselli, che scompare nel nulla il pomeriggio del 4 gennaio. Un ragazzo di trent'anni, Benno Neumair, in stato di fermo in carcere con l'accusa di aver ucciso, e poi gettato nell'Adige, i genitori. Tracce di sangue, sospetti e silenzi. Sono questi gli elementi fondanti del "Giallo di Bolzano", uno scenario delittuoso in cui si intrecciano irrisolti familiari ed eventi drammatici. A cinque settimane dall'inizio di uno dei casi di cronaca nera più complessi degli ultimi anni, le indagini sembrerebbero ad un punto di svolta. Sabato scorso, il fiume ha restituito il corpo di Laura Perselli, ora manca all'appello quello del marito Peter. La verità potrebbe essere ad un passo, custodita nel silenzio sospetto di Benno o negli elementi repertati dai Ris tra il ponte di Vadena e la villetta al civico 22 di via Castel Roncolo. Gli inquirenti navigano a vista ma il rebus s'infittisce: chi e perché ha ucciso la coppia?
La scomparsa dei coniugi Neumair. Pressappoco alle ore 22 del 5 gennaio 2021, Benno Neumair, supplente di matematica in una scuola media con la passione per il bodybuilding, si reca dai carabinieri di Bolzano per denunciare la scomparsa dei genitori. Si tratta di Laura Perselli, 68 anni, e il marito Peter Neumair, di anni 63. Il ragazzo racconta di non avere più notizie dei familiari dal giorno precedente seppur condivida con loro l'appartamento al civico 22 di via Castel Roncolo. Nella versione fornita ai militari dell'Arma racconta che li avrebbe visti, per l'ultima volta, nel tardo pomeriggio del 4 gennaio. Poi sarebbe uscito, dapprima per portare a spasso il cane e, verso le 21, per fare una passeggiata sull'altopiano del Renon. Successivamente, sarebbe andato a trovare l'amica Martina con la quale avrebbe trascorso la notte. Al mattino seguente, attorno alle ore 8, sarebbe rientrato a casa. La porta della camera da letto dei genitori era chiusa e dunque, supponendo che stessero ancora dormendo, sarebbe uscito nuovamente. L'allarme è scattato qualche ora più tardi, quando anche la sorella Madè, medico e scrittore di 26 anni che vive a Monaco di Baviera, si è insospettita dell'assenza prolungata dei genitori. Chiamate a vuoto al cellulare, nessun segnale di vita su WhatsApp. Il presagio, poi confermato dalla successione tragica degli eventi, che sia accaduto loro qualcosa di terribile.
I sospetti su Benno e le ricerche. A poche ore dalla denuncia della scomparsa, i vigili del fuoco di Bolzano mettono in moto la macchina dei soccorsi. Tra i pochi dettagli forniti agli inquirenti, Benno avrebbe riferito ai militari che i genitori erano soliti frequentare la zona del Talvera o il lago di Costalovara, dove pare avessero intenzione di andare a pattinare proprio il giorno della scomparsa. È lì che si concentrano le ricerche dei vigili del fuoco di Bolzano mentre un team di sommozzatori perlustra in lungo e in largo il fiume Isarco. A supporto delle squadre specializzate, anche l’elisoccorso dell’Alto Adige e l’elicottero della Guardia di Finanza. Ma dei coniugi Neumair neanche l'ombra: nessuno sa dove siano finiti e non vi è traccia del loro passaggio nelle località indicate dal giovane. L'ultima persona ad averli visti però, è proprio Benno. Gli inquirenti non escludono nessuna pista ma il giovane finisce nel mirino della procura di Bolzano. Un'inchiesta senza nomi certi ma fitta di ombre sul giallo. Il trentenne fornisce una versione dei fatti poco attendibile e, soprattutto, non convince il motivo per cui ha lanciato l'allarme 22 ore dopo la presunta scomparsa. Come mai ha aspettato così a lungo?
Tracce di sangue sul ponte e l'accusa di duplice omicidio. La svolta nelle indagini, coordinate dai pm Igor Secco e Federica Iovene, arriva quando i carabinieri del Ris di Parma confermano che le tracce di sangue rilevate sul ponte di Vadena, rilevate alla data del 10 gennaio, corrispondono al Dna di Peter Neumair. A fronte di un'evidenza così rilevante, le indagini cambiano direzione: ora si indaga per duplice omicidio e occultamento di cadevere. Il 19 gennaio del 2021 Benno finisce nel registro degli indagati. I militari dell'Arma, diretti dal tenente colonnello Alessandro Coassin, sospettano che il ragazzo abbia mentito. A supporto delle nuove ipotesi, ci sono le registrazioni delle telecamere di sorveglianza di un centro per smaltimento rifiuti, in località Ischia Frizzi, che avrebbero ripreso il trentenne a bordo della Volvo di famiglia proprio la sera del 4 gennaio. Le risultanze dei test eseguiti dai Ris, incrociate con i video e l'analisi dei dati nel cellulare di Benno, avvalorano i sospetti degli inquirenti. Ma c'è dell'altro. Durante una sosta all'autolavaggio, a circa una settimana dalla scomparsa della coppia, il ragazzo viene intercettato dai carabinieri. A bordo della vettura vengono repertati due flaconi di acqua ossigenata da quasi un litro. Il trenenne li avrebbe acquistati in un negozio di prodotti per la pulizia nella zona industriale di Bolzano. Per farci cosa, forse ripulire la scena del crimine? È la logica deduzione di chi indaga. Il 29 gennaio, Benno viene fermato con l'ipotesi di reato per duplice omicidio e occultamento di cadavere. Il giorno successivo, il gip del tribunale di Bolzano, Carla Scheidle, convalida il fermo: c'è il rischio di fuga e reiterazione del reato. Per il body-builder si spalancano le porte del carcere di via Dante, a Bolzano.
"Sono innocente". Al freddo di una cella d'isolamento in cui è recluso, Benno continua a professarsi innocente. "Non c'entro nulla - dice -e presto lo capiranno". Lo ripete con tono fermo ai suoi legali, Flavio Moccia e Angelo Polo, che difendono a spada tratta l'innocenza del loro assistito. Ma dal passato del giovane emergono dettagli non trascurabili: un ricovero in psichiatria durante il breve soggiorno in Germania e una lettera di allontamento dalla scuola presso cui ha insegnato per via di presunte minacce rivolte ad una collega. Poi, il rapporto conflittuale con i genitori, specie con papà Peter, e da ultimo l'abuso di anabolizzanti. Intanto, fuori dalle mura carcerarie si rincorrono voci, testimonianze e racconti sul passato turbolento del ragazzo. Una conoscente di Laura Perselli rivela che la donna avrebbe espresso preoccupazioni per la condotta violenta del figlio. A riprova dell'indiscrezione ci sarebbero alcuni messaggi audio che la mamma di Benno avrebbe inviato all'amica qualche giorno prima della scomparsa. Poi c'è la sorella Madè che, fin dai primi giorni, ha preso le distanze del fratello. "Vogliamo solo la verità", fa sapere la 26enne tramite il suo legale Carlo Bettacchi. E all'ipotesi di una scarcerazione dell'indagato, chiesta dal pool difensivo al tribunale del Riesame di Bolzano, risponde con una memoria in cui esplicita tutte le sue paure. "Temo per la mia incolumità", dice. E, a quanto pare, non è la sola.
Il ritrovamento del corpo di Laura Perselli. Nella mattinata del 6 febbraio, l'Adige ha restituito il corpo di Laura Perselli. Il cadavere della 63enne è stato recuperato verso le 9.50 in un’ansa del fiume, qualche centinaia di metri a nord del ponte di San Floriano, poco distante dall’abitato di Laghetti, nel comune di Egna. "I familiari – spiega la procura con una nota al 7 febbraio – hanno riconosciuto alcuni effetti personali rinvenuti come appartenenti a Laura Perselli. Nelle prossime ore verrà effettuato l’esame del Dna per avere un riscontro scientifico dell’identità della salma. Per accertare l’esatta causa della morte verrà anche effettuata l’autopsia. Ulteriori informazioni verranno date all’esito dell’esame autoptico”. Ora, non resta altro che rinvenire la salma di Peter. Nella giornata del 10 febbraio, un ecoscandaglio dei vigili del fuoco avrebbe identificato un sagoma umana al fondo del corso d'acqua, tra Vadena e Ora. L'indiscrezione manca ancora di conferme ufficiali: le ricerche sarebbero state interrotte per via delle condizioni di scarsa visibilità. La speranza è aggrappata all'ultimo scampolo di luce prima dell'ennesimo tramonto, prima che nuove ombre calino sul giallo di Bolzano.
Coppia scomparsa a Bolzano, Laura Perselli è morta per strangolamento. Jacopo Bongini su Notizie.it il 14/02/2021. Emergono nuovi dettagli dalle indagini sulla coppia scomparsa a Bolzano a gennaio. Secondo l'autopsia Laura Perselli sarebbe morta per strangolamento. Nuovi dettagli sono emersi, nella giornata del 13 febbraio, in merito al caso della coppia di coniugi scomparsa a Bolzano a inizio del mese di gennaio. Secondo i risultati dell’autopsia, giunti a pochi giorni dal ritrovamento del corpo nel fiume Adige, Laura Perselli sarebbe infatti morta per strangolamento. Un tassello importante nell’inchiesta che vede per il momento come unico imputato della scomparsa e della morte dei coniugi il figlio Benno Neumair, attualmente in carcere con l’accusa di duplice omicidio e occultamento di cadavere. L’esame autoptico sul corpo della donna 63enne è stato effettuato dal medico legale Dario Ragniero su incarico della procura, mentre per la difesa era presente l’anatomopatologo Eduard Egarter Vigl. I dettagli emersi dall’autopsia su Laura Perselli potrebbero essere fondamentali nel chiarire alcune fasi ancora oscure della scomparsa e della successiva morte della coppia. Al momento infatti l’unica fonte d’informazioni disponibile è il figlio Benno, che dal carcere continua a professarsi innocente. Nel frattempo non è stata trovata alcuna traccia del corpo di Peter Neumar, dopo che negli ultimi giorni sommozzatori, carabinieri e vigili del fuoco hanno scandagliato le acque del fiume Adige e i territori circostanti alla ricerca del cadavere. L’area di ricerca comprendeva l’alveo del corso d’acqua dalla confluenza con il fiume Isarco fino alla diga di Mori, ma purtroppo né gli elicotteri forniti dalle forze dell’ordine né i cani molecolari sono riusciti a individuare indizi che potessero portare ai resti dell’uomo.
Jacopo Bongini. Nato a Milano, classe 1993, è laureato in "Nuove Tecnologie dell’Arte" all’Accademia di Belle Arti di Brera. Prima di collaborare con Notizie.it ha scritto per Il Giornale.
Paolo Berizzi per "la Repubblica" il 10 febbraio 2021. In fondo al corridoio di ingresso della scuola "Josef von Aufschnaiter" c'è un grande quadro che raffigura un occhio azzurro all'interno di un triangolo posato in mezzo alle nuvole. Quando la mattina il supplente di matematica Benno Neumair arrivava vestito da tronista, e quanto dava fastidio, questa cosa, alla madre Laura, e glielo diceva senza giri di parole, ecco, una volta assicurata la mountain bike con la catena alla solita transenna davanti alla porta dell'istituto di via Leonardo da Vinci, tre minuti da casa, raccontano che prima di entrare in classe lui indugiasse su quell'occhio. Simbolo di perfezione. «Perfetti non si nasce, ma si può diventare. Io ci lavoro», diceva Benno, un po' scherzando e un po' no, agli amici storici. Non tantissimi. Ovviamente, ora, volatilizzati. Quello che era forte a hockey; l'altro che voleva andare a trovarlo a Ulma in Germania dove a giugno Benno punta un coltello contro l'ex fidanzata e finisce in psichiatria dopo un tso; un altro ancora, complice di conquiste femminili. Le ragazze agganciate su Tinder Neumair le bombardava di screen: foto dei bicipiti pompati, il petto scolpito e depilato, la barba 3 millimetri, le sopracciglia profilate, sguardo penetrante. Con mamma Laura Perselli erano (anche) discussioni così. «Benno, perché stai lì a perdere tempo con questa fissa per l'estetica? Potresti fare mille cose, guarda tua sorella». E lui giù, a muso duro. «Io faccio quel c... che voglio, capito? Basta, sennò mi incazzo». Sono testimonianze finite agli atti. La vicina della rampa a sinistra salendo nella casa di via Castel Roncolo. Zia Stefania. Madè, la sorella medico che scrive romanzi e sabato è andata a portare un cero sulla riva dell'Adige dove hanno trovato il cadavere di mamma. Lo zio paterno Günther Neumair. Ricordi verbalizzati. Che definiscono i contorni di una parabola discendente. Anni di rapporti tesi, sempre più attorcigliati. Le leve di una personalità complessa. Quante facce, Benno? Dove iniziano e dove finiscono i misteri del ragazzo ribelle, forse diventato killer, al centro di un giallo che diffonde le atmosfere livide de La ragazza del lago e del successivo La ragazza nella nebbia (ma qui c'è un fiume, l'Adige)? Non un lama tibetano, anche se a scuola il "prof" lanciava lo sguardo compiaciuto verso quel terzo occhio. Piuttosto, il ciuffo all'insù di un Pietro Maso qualunque. Che per «inseguire la perfezione», per mettersi in vetrina su YouTube aveva la scimmia delle "bombe". Integratori, anabolizzanti. Li comprava online. Costano. «Sono schifezze e ti spaccano il fegato», lo ammoniva il padre Peter Neumair. Niente. Lui, il trentenne "uomo Ferrari", rallentava i motori solo dopo le canne. Se ne faceva e forse non solo quelle, i genitori sapevano. Aveva «problemi di dipendenza da sostanze» ha registrato la Procura. Per Laura e Peter quel figlio palestrato e narcisista che si sfondava di pesi e di serie Netflix era diventato un «problema da gestire». La madre, soprattutto lei. Non ci stava più dentro. «Non puoi passare le giornate davanti alla televisione». «Perché, hai problemi? - rintuzzava lui - voi fate la vostra vita, io faccio la mia. Punto». Ora nerd indolente, ora acchittato versione millennial playboy, ora culturista macho. Sempre lì sul pezzo, gli attrezzi su cui si allenava in casa. «Quando vai di là e ti paghi un affitto?», gli chiedeva Laura Perselli. Benno lasciava cadere. Nell'alloggio accanto all'appartamento di famiglia avevano allacciato solo le utenze. Dormiva da Martina, quando aveva voglia. A prenderlo di petto - perché era sempre più aggressivo da quando a luglio era tornato «al domicilio dei miei genitori» (parole sue, in tv) a Bolzano, dopo Ulma -, era la madre. Lei, 68 anni, faceva la voce grossa. Babbo Peter, cinque in meno, si metteva in mezzo ma solo ogni tanto. «La macchina non la prendi: vai in bicicletta o a piedi». Non gli andava giù, a Peter, che Benno campasse sulla schiena loro, due ex insegnanti in pensione, e chiedesse continuamente. Dare, poco. Per Benno le due persone che lo hanno messo al mondo e volevano metterlo in riga erano diventate - sostengono gli inquirenti - «due nemici da eliminare». Ieri l'Adige ha mostrato una sagoma nera sul fondale: non ci sono ancora conferme, ma potrebbe essere il corpo del capo famiglia. Racconta Benno: «Mio padre era vestito con una giacca blu di Decathlon con interno arancione e aveva degli scarponcini grigi». Se - come pensano i magistrati - è la costruzione di una tela di inganni, troppe tracce non è riuscito a trattenere lungo la strada. «Io in questo momento sono la persona sbagliata alla quale chiedere». Diceva così, un good guy. Era due settimane prima dell'arresto.
Da ansa.it il 29 gennaio 2021. E' stato arrestato a Bolzano Benno Neumair, sospettato dell'uccisione dei genitori Peter Neumair e Laura Perselli e di averne poi nascosto i corpi. La coppia è scomparsa lo scorso 4 gennaio. Il ragazzo, di 30 anni, si sarebbe costituito nella notte, dopo aver avuto un contatto con la Procura. Benno Neumair si trova attualmente nel carcere in via Dante a Bolzano. "A seguito di alcuni recenti elementi acquisiti nel corso delle indagini" la Procura di Bolzano, nella tarda serata di ieri, ha fermato Neumair Benno, indiziato di duplice omicidio ed occultamento dei cadaveri dei genitori Neumair Peter e Perselli Laura. "Nei termini processuali previsti dall'art. 390 c.p.p. verrà richiesta la convalida del fermo al giudice per le indagini preliminari. A tutela delle indagini e del diritto di difesa allo stato non possono essere comunicate ulteriori informazioni", si legge nella nota della Procura.
Coppia scomparsa: Benno rimane in carcere dopo decisione gip. (ANSA il 30 gennaio 2021) Benno Neumair, il 30enne indagato dal 18 gennaio dalla Procura di Bolzano per il presunto omicidio e occultamento dei cadaveri dei genitori, Peter Neumair e Laura Perselli, scomparsi dal 4 gennaio scorso, rimane in carcere. Lo ha deciso la giudice per le indagini preliminari, Carla Scheidle, in seguito all'interrogatorio di convalida del fermo. Per il pm, Igor Secco, sussistono "tutte e tre le esigenze cautelari", quindi, oltre il pericolo di fuga, la reiterazione del reato e l'inquinamento probatorio. "La gravità del fatto, su cui anche il legislatore è intervenuto, non può mai essere posta a presupposto per il pericolo di fuga. Così come le mere conoscenze estere non consentono i presupposti per il pericolo di fuga", è il commento dell'avvocato difensore Angelo Polo. Benno si era presentato in Procura dopo il provvedimento emesso giovedì in tarda serata "a seguito di alcuni recenti elementi acquisiti nel corso delle indagini" - precisava una nota - ed era quindi stato portato nella casa circondariale di via Dante a Bolzano.
Coppia scomparsa a Bolzano, il corpo della donna trovato nell'Adige. Paolo Berizzi su La Repubblica il 6 febbraio 2021. Per cercare i cadaveri è stato abbassato il livello del fiume. Laura Perselli e Peter Neumair erano scomparsi il 4 gennaio scorso. Il figlio Benno è in carcere per omicidio e occultamento di cadavere. “Se non si abbassano le temperature dobbiamo abbassare il fiume”. Quarantotto ore fa, in una riunione operativa, gli investigatori e i coordinatori delle squadre che partecipano alle ricerche di Peter Neumair e di Laura Perselli hanno capito che per fare affiorare i corpi dei genitori di Benno bisognava ridurre il livello dell’Adige: lo hanno fatto, e le acque hanno restituito il primo cadavere. Quello della donna. I sommozzatori e i vigili del fuoco lo hanno ritrovato questa mattina tra San Floriano e Laghetti, a sud di Bolzano e segnatamente a Egna, paese subito dopo Ora. Un luogo, vedremo tra poco, che si incastra nel mosaico dell’inchiesta. Perché Benno Neumair, in carcere con l’accusa di avere ucciso e fatto sparire i due genitori scomparsi la sera del 4 gennaio scorso, la notte dei misteri la trascorre proprio a Ora: a casa dell’amica argentina Martina Alegre (indagata per favoreggiamento). Ma torniamo al ritrovamento di Laura Perselli. Arriva trentadue giorni dopo l’allarme che lo stesso Benno, e la zia Stefania, sorella di Laura, danno – è il 5 gennaio – ai carabinieri. Da subito le ricerche dei genitori di Benno, unico indagato e unico sospettato, si concentrano soprattutto sul fiume Adige: in particolare nei pressi del ponte di Vadena vicino alla discarica Ischia-Frizzi. Perché è lì, a ridosso del parapetto di ferro del ponte, che i carabinieri del Ris trovano una traccia di sangue. Sangue del padre Peter Neumair. Dopo giorni e giorni di ispezioni, con l’impiego di decine di uomini, cani molecolari, droni, mezzi acquatici alcuni dei quali dotati di ecoscandaglio, oggi è saltato fuori il corpo di Laura Perselli. La chiave di svolta nelle ricerche? Avere abbassato il livello del fiume. La società idroelettrica altoatesina Alperia, vista la programmazione della produzione degli impianti in seguito a delle manutenzioni programmate, ha ridotto il deflusso delle dighe di Glorenza, Naturno, Tel e Marlengo, Lana e Brunico. Risultato: tra giovedì e oggi il livello delle acque dell’Adige si è ridotto di una trentina di centimetri. I militari dell’Arma hanno recintato l'intera zona del ritrovamento e bloccato gli accessi al ponte sull'Adige. Mentre il cadavere della madre di Benno veniva trasportato all’obitorio dell’ospedale San Maurizio di Bolzano, i vigili del fuoco intensificato le ricerche in acqua nella zona del ritrovamento del corpo della donna. La speranza è quella di poter localizzare anche il corpo del marito Peter, magari prima che cali il buio. Se la ricostruzione della Procura verrà confermata – come pare – è andata così: la sera del 4 gennaio Benno uccide i genitori, probabilmente nella casa di via Castel Roncolo a Bolzano. Poi trasporta i corpi fino al ponte Ischia-Frizzi. L’incrocio tra gli orari “scritti” nelle celle telefoniche e le immagini delle telecamere lungo la strada statale che da Bolzano scende verso Sud rivela che c’è un buco di quaranta minuti nel viaggio di Benno dalla casa di famiglia fino all’appartamento dell’amica Martina a Ora: ed è proprio in quella finestra di tempo “mancante” che il 30enne istruttore di fitness e supplente di matematica avrebbe gettato nel fiume i corpi dei genitori. Da qui la doppia pesante accusa che lo ha fatto finire in carcere: duplice omicidio pluriaggravato e occultamento di cadavere. Il provvedimento di fermo era scattato dopo nuovi indizi emersi a carico di Benno: in primis il tentativo di contattare dei testimoni per sviare le indagini. La posizione dell’uomo si è progressivamente aggravata: e adesso il ritrovamento della madre a non molta distanza da Ora sembra chiudere ulteriormente il cerchio indiziario. “Voglio la verità, voglio sapere che cosa è successo quella sera”, ha detto a Repubblica Madè Neumair, sorella di Benno che, da subito, lei e anche gli altri parenti, non era apparsa sorpresa per l’avviso di garanzia comunicato al fratello. Va ricordato che la prima a preoccuparsi e a lanciare l'allarme è stata, nel pomeriggio del giorno successivo alla scomparsa, proprio Madè: non riusciva a contattare la mamma, con cui si sentiva tutti i giorni. Chiama il fratello e il fratello si presenta ai carabinieri. Benno ha riferito di non essersi accorto dell'assenza dei genitori perché aveva passato la serata e la notte di lunedì con un'amica. La ragazza ha confermato le dichiarazione del giovane. Mercoledì 6 gennaio mattina, scattano le ricerche sulle rive dell'Isarco e sul Renon, dove Laura e Peter vanno spesso per camminare e compiere escursioni. Ma i radar degli investigatori poi si dirigono sull’Adige, al ponte di Vadena a pochi metri dal Safety Park. E lì e giù a valle seguendo il corso d’acqua sono continuate e ancora continuano le ricerche. Intanto, sul fronte indagini: la giudice per le indagini preliminari Carla Scheidle ha deciso di incaricare come perito del caso Neumair il genetista Emiliano Giardina, dell'Università di Roma Tor Vergata, noto in tutta Italia per le sue perizie di ricerca e verifica di tracce biologiche in numerosi casi di cronaca, tra i quali gli omicidi di Yara Gambirasio e di Meredith Kercher.
Omicidio Bolzano, nella cella d’isolamento le lacrime di Benno Neumair: «Mia mamma non c’è più». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 7/2/2021. «La mia mamma...». L’avvocato Flavio Moccia dice che Benno «si è emozionato tantissimo», che «non è nemmeno riuscito a finire la frase e si è messo a piangere, perché in fondo ha sempre avuto la speranza che i suoi genitori fossero vivi». L’altro suo legale, Angelo Polo, racconta di essere andato a dirglielo per primo, ieri alle 13. «Avrà ripetuto mille volte: “La mia mamma non c’è più. L’hanno trovata, non c’è più”, e siamo stati per mezz’ora abbracciati, con lui che piangeva». Cronache dal carcere di Bolzano. Benno Neumair, 30 anni, è lì dentro dalla notte fra il 28 e il 29 gennaio con l’accusa di aver ucciso sua madre e suo padre e di aver buttato i loro corpi nell’Adige, la sera del 4 gennaio. Lui nega tutto, ripete fin dal primo giorno che «capiranno presto che io non c’entro nulla» ma, adesso più di sempre, la sua sorte è legata a quel che «dirà» il cadavere di sua madre ripescato dal fondo limaccioso dell’Adige. Anche se sono passati 32 giorni, il freddo dell’acqua ha protetto, per così dire, le condizioni del corpo di Laura Perselli, 68 anni, e sembra quindi non impossibile l’accertamento di un eventuale strangolamento, cioè la causa più probabile della morte secondo la ricostruzione della procura. E così mentre i vigili del fuoco cercano il cadavere di suo padre Peter, lui — Benno — incassa il colpo della madre ritrovata con un lungo pianto e, ancora una volta, con una dichiarazione d’innocenza, «Non sono stato io». Non è stato lui, ripete dall’isolamento della sua cella (non altri detenuti, niente televisione, niente giornali, niente visite di parenti) dalla quale per giorni non ha voluto uscire nemmeno per l’ora d’aria. Ha messo i piedi fuori da quell’angolo del suo nuovo mondo soltanto per andare nella stanza del fotosegnalamento. «Sono venuto bene nella foto?» ha chiesto agli agenti che lo riportavano in cella. «Se sono venuto bene potete anche pubblicarla». Chissà dove, poi, la immaginava pubblicata...«Io vedo un ragazzo incredulo per quello che gli sta capitando e che ha voglia di combattere», lo difende l’avvocato Polo. «Il ché è una reazione che tendenzialmente ho visto nelle persone innocenti». Dopo l’abbraccio e le lacrime, ieri, a lui Benno ha chiesto solo un favore: di portargli uno specchietto, la prossima volta, «che così posso radermi meglio». Probabile che in questo caso lo specchietto per la barba non c’entri nulla ma certo è che la vita di questo ragazzo tutto palestra è stata segnata dal narcisismo. Il culto della propria personalità passava per ore e ore di allenamenti quotidiani, di video da pubblicare su YouTube o sui social delle sue prodezze fisiche, compreso quello in cui lui parla con se stesso: da’ consigli al suo alter ego su come fare per avere «tutti sti’ muscoli» e chiude il filmato con un «che figo che sono» mentre si iniettata qualcosa nel braccio. Chi lo conosce racconta di un Benno che ha da anni familiarità con «le sostanze»: prima erano anabolizzanti, poi medicine per tenere a bada la fragilità psichica (di cui sua madre aveva parlato con qualche amica), farmaci di ogni tipo e forse anche droga. Il conflitto perenne con i genitori non era un segreto né per gli amici dei due né per i parenti, compresa sua sorella Madè, che fa il medico in Germania e che la sera della scomparsa ha cominciato a preoccuparsi e a sospettare di lui già dalle prime telefonate senza risposta. Un testimone ha raccontato alla trasmissione Mediaset Quarto Grado di un ricovero di Benno in psichiatria l’estate scorsa (in Germania), dopo una lite con la fidanzata. Quell’episodio avrebbe costretto Peter ad andare a prenderlo e riportarlo a casa in Italia. Gli amici della coppia raccontano da lì in poi di una «vita d’inferno». Un progetto di cure psichiatriche mai messo a punto, le bugie continue di lui, i soldi che non gli bastavano mai anche se faceva il supplente di matematica (è laureato in scienze motorie), le discussioni perché loro non volevano che usasse la Volvo di famiglia... Laura e Peter avevano perduto la serenità. Lui no, non l’ha perduta nemmeno dopo la loro scomparsa. In 32 giorni vissuti prima da testimone, poi da indagato in libertà e infine da detenuto, è rimasto il Benno di sempre, quello che «tanto prima o poi lo capiscono che io non c’entro niente».
Marco Angelucci per corriere.it il 9 febbraio 2021. Sarebbe di Peter Neumair il corpo ritrovato nell’Adige, all’altezza di Laimburg nella zona di Vadena a sud di Bolzano. I vigili del fuoco stanno verificando una parte del fondale del fiume. Le ricerche del 63enne erano riprese questa mattina — in particolare tra Vadena e Ora. Peter Neumair, insegnante in pensione bolzanino era scomparso la sera del 4 gennaio scorso unitamente alla moglie Laura Perselli, 68 anni. Il cadavere della donna è stato ripescato nel fiume Adige la scorsa settimana. Il figlio della coppia, il trentenne Benno, è accusato del duplice omicidio e dell’occultamento dei cadaveri dei due genitori e recluso nel carcere di Bolzano.
Benno Neumair, i coniugi di Bolzano uccisi in tempi diversi. Il telefono dell’uomo spento 4 ore prima. Le indagini sulla morte della coppia. Trovato un corpo nell’Adige, forse è Peter Neumair. Il 30enne è accusato di duplice omicidio. Marco Angelucci, Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2021. Peter Neumair e Laura Perselli uccisi in tempi diversi. La ricostruzione degli inquirenti segue la logica ma, soprattutto, segue riscontri precisi. E cioè i telefonini del padre e della madre di Benno, spenti in orari diversi: circa alle 17.30 quello di lui e attorno alle 21.30 l’apparecchio della moglie. Non a pochi minuti l’uno dall’altro ma in un arco di tempo — quattro ore — che suggerisce non soltanto l’azione dell’assassino divisa in due parti distinte ma anche il fatto che chi ha ucciso ha avuto tempo per pensare a come liberarsi dei due corpi, come portarli fino all’auto, come costruirsi un alibi possibile e come cancellare eventuali tracce dalla scena del delitto.
«Sono innocente». Lui, Benno, dalla sua cella del carcere di Bolzano ripete agli avvocati di essere innocente e davanti al giudice che ha convalidato il fermo (per duplice omicidio e occultamento di cadavere) ha scelto di non parlare. Ma qualunque sia la sua versione, se mai risponderà alle domande, dovrà tener conto di punti indiscutibili come gli orari delle attività telefoniche che risultano dai tabulati. Perché mai Peter, suo padre, avrebbe spento il cellulare verso le 17.30 mentre sua moglie Laura era fuori casa? Lo scenario che gli inquirenti stanno cercando di ricostruire prevede il fatto che a quell’ora Peter — con il quale Benno aveva un rapporto molto conflittuale — fosse probabilmente già morto (si pensa a uno strangolamento). Se davvero è andata così non è difficile immaginare il panico davanti all’arrivo di Laura che rientra a casa verso le 18.30. C’era stato troppo poco tempo per disfarsi del corpo del padre e Benno — ipotizzano gli investigatori — si ritrova davanti a sua madre e decide che l’unica soluzione per provare a farla franca è eliminare anche lei.
Il pranzo di Natale. Sempre che si possa parlare di «panico» e di decisione per «farla franca». Perché a sentire gli amici della famiglia questo ragazzo tutto palestra e narcisismo, aveva reazioni emotive non equilibrate e fragilità psicologiche note da tempo. Innescare la miccia del non-controllo era un attimo. Nel suo passato recente (estate 2020) c’è un ricovero psichiatrico in Germania dove ha vissuto per un breve periodo con la fidanzata, per esempio. Ma c’è anche la tendenza ad abusare di ogni tipo di farmaco e a usare droghe, dopo anni di anabolizzanti. Chi conosceva bene i Neumair racconta di una scenataccia in famiglia durante il pranzo di Natale dell’anno scorso. Madè (la sorella medico di Benno) che si alza da tavola e se ne va piangendo e i suoi genitori che percepiscono come non mai il rischio di avere accanto un figlio dall’equilibrio psicologico precario. Quel litigio era nato dal fatto che Benno rifiutava di farsi curare a Bolzano, come i suoi cercavano di fare da quando era rientrato dalla Germania.
I cellulari. Ma torniamo alla sera della scomparsa, il 4 gennaio. C’è Madè che vive in Germania e che chiama i suoi insistentemente senza risposta. Il cellulare del padre è staccato, la madre non risponde mai (ultimo WhatsApp visualizzato alle 18.46). Anche Benno chiama la mamma, alle 20. Ma secondo la tesi di chi indaga lo fa quando è ormai senza vita. Sarebbe parte del suo alibi: per dimostrare che l’aveva cercata non trovandola in casa dopo essere uscito — racconta lui — per un’oretta. Dice di non essersi preoccupato della sua non risposta. Più o meno alle 21 un vicino vede Benno in cortile: ha l’aria di «uno che ha appena finito di fare ginnastica». Secondo gli inquirenti ha appena caricato i corpi sulla Volvo. Si mette in macchina poco dopo. Le telecamere di ponte Roma, a ridosso del centro, inquadrano il suo passaggio. Alle 21,32 Benno spegne il suo cellulare e più o meno negli stessi minuti si spegne anche il segnale del telefonino di sua madre. Alle 21,57 ricompare lui: lo aggancia una cella vicina al ponte su cui sarà trovato il sangue di suo padre. Tutto è compiuto. L’Adige grosso di pioggia sta portando via i corpi. Lui va dalla ragazza che lo ospiterà per la notte. Il cadavere di sua madre è stato ripescato l’altro giorno. Ieri l’ecoscandaglio ha segnalato una sagoma che sembra un corpo umano. Forse è suo padre.
Coppia Bolzano uccisa in tempi diversi: cellulare Peter spento ore prima. Asia Angaroni su Notizie.it il 10/02/2021. Il cellulare di Peter Neumair risulta spento alle 17.30, quello della moglie Laura quattro ore dopo, intorno alle 21.30. Continuano le indagini sui coniugi di Bolzano: secondo le ultime ricerche, i due sarebbero stati uccisi in tempi diversi. Lo dimostrerebbero le celle telefoniche: i cellulari di Laura e Peter Neumair sono stati spenti in orari diversi. Quello dell’uomo ben 4 ore prima rispetto al telefonino della moglie. Il figlio Benno continua a essere l’unico indagato e resta in carcere. Intanto proseguono i lavori per recuperare quello che pare sia la sagoma di un cadavere fermo sul fondale del fiume Adige, a una decina di chilometri dal punto in cui è stato ritrovato il corpo senza vita di Laura Perselli. Dopo il ritrovamento degli scarponi di Peter, si teme che il presunto corpo individuato dai ricercatori sia proprio quello dell’uomo. Dalla ricostruzione degli inquirenti, sembrerebbe che i telefonini della coppia di Bolzano siano stati spenti in momenti differenti. Quello di Peter risulta spento dalle 17.30, quello di Laura dalle 21.30. Per quale motivo, se la moglie si trovava fuori casa, l’uomo avrebbe dovuto spegnere il cellulare in pieno pomeriggio? Dal nuovo risconto si suppone che i due siano stati uccisi in tempi diversi e non nello stesso momento. Nell’arco di quelle quattro ore, inoltre, l’assassino avrebbe avuto tutto il tempo necessario per liberarsi dei due corpi, pensando a come costruirsi un alibi e come cancellare eventuali tracce dalla scena del delitto. Dal carcere il figlio Benno ripete ai suoi avvocati di essere innocente. Davanti al giudice che ha convalidato il fermo, con l’accusa di duplice omicidio e occultamento di cadavere, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Dalle indagini condotte finora, sembra che Peter avesse un rapporto molto conflittuale con Benno. Secondo gli inquirenti, alle 17.30 l’uomo probabilmente era già morto (si pensa a uno strangolamento). Circa un’ora dopo, Laura sarebbe tornata a casa e davanti a lei il giovane sarebbe andato in panico. Per gli investigatori, Benno non ha avuto il tempo di far perdere le tracce del corpo del padre. Quindi, trovandosi davanti la madre appena rincasata, ha deciso che l’unica soluzione possibile fosse uccidere anche lei, per cercare di passare inosservato.
La sera del 4 gennaio. Quel 4 gennaio la figlia Madè, che vive in Germania, ha chiamato più volte i suoi genitori, senza ricevere risposta. Il cellulare del padre è staccato, la madre non risponde mai (ultima visualizzazione su WhatsApp era alle 18.46). Anche Benno chiama la mamma, alle 20, quando la donna probabilmente era già senza vita. Secondo gli inquirenti sarebbe parte del suo alibi. Più o meno alle 21 un vicino vede Benno in cortile e lo descrive come “uno che ha appena finito di fare ginnastica”. Secondo gli inquirenti aveva appena caricato i corpi sulla Volvo. Si mette in macchina poco dopo. Le telecamere di ponte Roma, a ridosso del centro, inquadrano il suo passaggio. Alle 21.32 Benno spegne il suo cellulare e più o meno negli stessi minuti si spegne anche il segnale del telefonino della madre Laura. Alle 21.57 ricompare anche il suo cellulare, che si aggancia a una cella vicina al ponte su cui poi è stato trovato il sangue di suo padre.
Asia Angaroni. Nata a Varese, classe 1996, è laureata in Comunicazione. Collabora con Notizie.it.
Giallo di Bolzano, ritrovato anche il corpo del padre di Benno. L'ecoscandaglio dei vigili del fuoco di Bolzano avrebbe individuato un corpo nelle acque del fiume Adige che molto probabilmente è quello di Peter Neumair. Rosa Scognamiglio, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale. Il corpo di Peter Neumair sarebbe stato ritrovato. Dopo circa un mese dall'inizio delle ricerche, il cadavere del 63enne, padre di Benno Neumair, potrebbe essere emerso dalle acque del fiume Adige, a Sud di Bolzano. Sabato scorso, i vigili del fuoco avevano recuperato anche quello di Laura Perselli, madre del trentenne che, ad oggi, è indagato per duplice omicidio e occultamento di cadavere dei genitori.
Il ritrovamento del cadavere. Stando a quanto riporta L'Adige.it, l'ecoscandaglio dei vigili del fuoco di Bolzano avrebbe avvistato il corpo del 63enne nella zona di Leimburg, a pochi chilometri da Vadena, a sud di Bolzano. In attesa di conferme ufficiali, indiscrezioni a vario titolo accerterebbero trattarsi di Peter Neumair, il papà di Benno. L'uomo era scomparso insieme alla moglie Laura Perselli, 68 anni, dallo scorso 4 gennaio. Il cadavere della donna è stato recuperato lo scorso sabato, nei pressi di Egna, e consegnato alle autorità per gli esami autoptici.
Recuperati anche gli scarponi di Peter Neumair. Nei giorni precedenti al drammatico ritrovamento dei corpi senza vita dei coniugi Neumair, il fiume aveva resituito gli scarponcini grigi di Peter. Proprio Benno avrebbe confermato agli investigatori che le calzature appartenessero al padre e che, verosimilmente, le avrebbe indossate il giorno della scomparsa. Un reperto non trascurabile in una vicenda fitta di incertezze. Intanto, proseguono i sopralluoghi nella villetta "Liberty" al civico 22 di Via Castel Roncolo. Secondo l'accusa, è lì che il trentenne avrebbe ucciso i genitori - probabilmente sarebbero stati avvelenati - salvo poi disfarsi dei cadaveri in prossimità del ponte di Ischia Frizzi gettandoli nell'Adige.
Benno resta in carcere. Proprio in queste ore, è in corso a Bolzano l'udienza davanti al tribunale del Riesame per dicutere il ricorso presentato dai legali di Benno contro il fermo di custodia cautelare in carcere. In attesa di conoscere l'esito del dibattimento, il giovane continua a protestarsi innocente dichiarandosi estraneo alla vicenda. Ma la mole indiziaria raccolta a suo carico diventa sempre più corposa e fitta. Inoltre, nuove testimonianze gettano ombre sul passato turbolento del trentenne, body-builder e supplente di matematica in una scuola media locale. Tra le più significative ci sarebbe il presunto ricovero in psichiatria durante un soggiorno in Germania.
Giallo di Bolzano, spuntano gli audio su Benno: è il movente dell'omidio? La mamma di Benno Neumair, Laura Perselli, avrebbe inviato due messaggi audio ad un'amica in cui si sarebbe lamentata del figlio. Rosa Scognamiglio, Lunedì 01/02/2021 su Il Giornale. Il giallo di Bolzano potrebbe essere ad un passo dalla svolta definitiva. Due audio della mamma di Benno Neumair, nei quali si sarebbe lamentata del figlio con un'amica, potrebbero sciogliere le poche riserve rimaste sulla presunta colpevolezza del trentenne. Per quanto le bocche degli inquirenti restino cucite, appare sempre più evidente che il movente dell'omicidio sottenda a dinamiche familiari piuttosto articolate. Ma per averne conferma, bisognerà attendere i risvolti successivi delle indagini. Intanto, i corpi di Laura Perselli e Peter Neumair sono ancora dispersi nel fiume Adige.
Gli audio incriminanti. I due audio della mamma di Benno sono stati sottoposti all'attenzione dei magistrati nel corso dell'udienza di convalida dell'arresto di Benno Neumair, in custodia cautelare con l'ipotesi di reato per omicidio volontario e occultamento di cadavere dei genitori. Stando a quanto riferisce il quotidiano L'Adige.it, si tratterebbe di due audiomessaggi che Laura Perselli avrebbe inviato ad un'amica in cui esprimerebbe preoccupazione di ogni sorta per il figlio. Non è chiaro, però se la donna abbia espresso una lamentela o manifestato uno sentimento di apprensione per la condotta del figlio. Fatto sta che Benno, barricato ormai da giorni dietro un muro di silenzio, si è detto "dispiaciuto" per le parole ascoltate in aula.
Gli indizi e i sospetti. Benno Neumair è stato arrestato lo scorso venerdì notte, a seguito dell'ordinanza di fermo emessa dalla procura di Bolzano. A rafforzare i sospetti degli inquirenti sulla presunta colpevolezza del giovane, sarebbero gli elementi indiziari raccolti nella villetta dei coniugi Neumair, in via Castel Roncolo. Reperti che se non assumono un valore probatorio, gettano ombre sempre più cupe sul trentenne. Rilevante, ai fini del fermo, è stato invece l'esito degli accertamenti dei Ris comprovante la compatibilità delle tracce ematiche rivenute sul ponte dell'Adige, all'altezza di Ischia Frizzi, con il Dna di Peter Neumair. Altre tracce sospette sarebbero poi state rinvenute all'interno della Volvo di famiglia con cui Benno si sarebbe spostato la notte del 4 gennaio per raggiungere l'amica Martina, la stessa che gli avrebbe lavato gli indumenti indossati quel giorno. Quanto basta per ipotizzare un coinvolgimento pieno del ragazzo nella drammatica vicenda e far scattare l'arresto. La procura e la difesa hanno chiesto al gip di disporre l'incidente probatorio relativo all'analisi scientifica di tutti i reperti rilevati dal Ris nell'appartamento e nella vettura, come anche la perizia sui dispositivi tecnici (telefono, pc e chiavette usp). Il giudice si è riservato di decidere in merito.
Le ricerche. Intanto procedono le ricerche dei coniugi Neumair, dispersi da qualche parte nell'Adige. Ad oggi, non ancora sono emersi elementi che possano indicare con assoluta certezza la presenza dei cadaveri di Laura e Peter nel corso d'acqua. Anche nella mattinata di lunedì 1 febbraio un gommone dei vigili del fuoco ha perlustrato il fiume a valle del ponte, però senza esito. Il giallo resta ancora senza soluzione.
Benno, fermo convalidato: rischio di inquinamento delle prove e fuga. Decisivo il sangue trovato sul ponte. Marco Angelucci su Il Corriere della Sera il 30/1/2021. L’udienza di convalida dell’arresto di Benno è stata fissata a tempo di record, ma per il verdetto la giudice per le indagini preliminari Carla Scheidle si è presa tutto il tempo necessario per riflettere e stilare il provvedimento che convalida il fermo di Benno Neumair. Dopo la prima notte in carcere, il trentenne insegnante di matematica con la passione per il fitness accusato di aver ucciso i genitori e buttato i loro cadaveri nell’Adige, è arrivato dopo una notte trascorsa in carcere. E in carcere è tornato dopo un’attesa di sei ore. Davanti al gip Benno si è avvalso della facoltà di non rispondere e i suoi avvocati Flavio Moccia e Angelo Polo hanno presentato richiesta di scarcerazione. «Non ci sono elementi che indicassero il pericolo di fuga o la possibilità di inquinare le prove. Il fatto di aver studiato a Innsbruck, fatto l’Erasmus a Granada e vissuto in Germania non è di per un motivo sufficiente. Non ci è stato nemmeno detto quali prove avrebbe potuto inquinare» ha sottolineato Angelo Polo. «Benno risponderà a delle contestazioni molto articolate fatte dalla Procura quando sarà preparato a farlo. La prossima settimana ci sarà l’interrogatorio» ha ribadito Moccia rivendicando il diritto di studiare nel dettaglio l’atto di accusa nei confronti del suo assistito che si è proclamato innocente. «È turbato, ovviamente» ha detto Moccia. Ma la gip con alle spalle una lunga carriera ha accolto le motivazioni presentate dai pm Igor Secco e Federica Iovene che avevano sollevato il pericolo di inquinamento prove, il rischio di fuga. Determinante l’indagine fatta dal Ris che ha riconosciuto il sangue di Peter sul ponte di Vadena. Questo dettaglio, unito a quelli delle celle telefoniche e delle telecamere che hanno rivelato la presenza di Benno in quella zona la sera della scomparsa di Laura Perselli e Peter Neumair, ha convinto la giudice Scheidle a convalidare il fermo.
Michela Allegri per “il Messaggero” il 30 gennaio 2021. Si è costituito, andando spontaneamente in procura quando ha saputo dai suoi avvocati che sarebbe stato fermato. Ma Benno Neumair, il figlio della coppia bolzanina scomparsa da quasi un mese, non ha confessato di avere ucciso i genitori. L'accusa che lo ha portato in carcere in attesa della convalida del fermo, comunque, è duplice omicidio aggravato e occultamento dei cadaveri, che non sono ancora stati trovati. La svolta nell'inchiesta è arrivata a 25 giorni di distanza dalla scomparsa di Peter Neumair e Laura Perselli e una decina di giorni dopo l'iscrizione di Benno nel registro degli indagati. Sono state fondamentali le analisi svolte nei laboratori del Ris. Le ultime sono state effettuate sui vestiti che il trentenne indossava il giorno del presunto omicidio che sono stati consegnati agli inquirenti dalla ragazza con cui aveva passato la notte e che è indagata - come atto dovuto - per favoreggiamento. Anche le sue dichiarazioni sono state importanti: «Veniva sempre con i mezzi, quel giorno aveva la macchina». Ma si tratta dell'ultimo tassello di un puzzle più ampio: agli atti ci sono i rilievi sulle tracce di sangue trovate sul ponte sull'Adige vicino alla discarica Ischia Frizzi, che appartengono a Peter Neumair, in un punto dove il figlio è stato visto al volante della Volvo dei genitori. Ci sono altre tracce trovate proprio sull'auto della coppia. E molto altro. Benno per il momento non è stato interrogato e non ha confessato, come chiariscono i suoi legali, gli avvocati Flavio Moccia e Angelo Polo. È nel carcere di Bolzano, in attesa dell'udienza che dovrebbe svolgersi lunedì davanti al gip Carla Scheidle. L'ipotesi di chi indaga è che Benno abbia gettato i corpi dei genitori nell'Adige. Ma per ricostruire le tappe del giallo di Bolzano bisogna tornare al 4 gennaio scorso, quando Peter Neumair e Laura Perselli, insegnanti in pensione, spariscono nel nulla. All'alba del 5 gennaio, Benno torna a casa dopo la notte trascorsa a casa di Martina, a Ora. Non si preoccupa non vedendo i genitori. «Pensavo dormissero», racconta. Ed è il primo elemento ritenuto sospetto. Il 5 gennaio, insieme alla zia, si presenta dai carabinieri per denunciare la scomparsa. A preoccuparsi è stata la sorella Madé, che vive a Monaco di Baviera. L'ipotesi degli inquirenti è che il trentenne abbia ucciso la madre e il padre e, dopo avere caricato i cadaveri in macchina, li abbia gettati nell'Adige da un ponte di Vadena, in prossimità della discarica Ischia-Frizzi. Un dettaglio è importante: il 22 gennaio, vicino al parapetto del ponte, i carabinieri trovano sulla neve una traccia di sangue. Le analisi dei Ris confermano che si tratta di quello di Peter Neumair. Un dato sembra certo: Benno è passato in quella zona in auto. I pm sono convinti che il giovane abbia lanciato nel fiume i cadaveri prima di andare da Martina. Una dichiarazione della ragazza viene considerata importante: «Veniva sempre con i mezzi, quella sera invece è venuto in macchina. Gli ho lavato i vestiti». Gli stessi abiti, consegnati agli investigatori, sono stati analizzati dal Ris in questi giorni. Un altro tassello: i cellulari della coppia vengono spenti verso le 21.30 del 4 gennaio. Una cella li aggancia per l'ultima volta al Ponte Roma, a sud di Bolzano, dove una telecamera riprende la Volvo guidata dal figlio. Benno - sostiene - stava andando da Martina. Il percorso da Bolzano a Ora durerebbe 25 minuti, ma lui ci mette un'ora. E alle 21.57 Benno spegne il suo cellulare per circa mezz' ora a poca distanza c'è il ponte di Vadena. Poi, la Volvo: sono state trovate tracce ematiche sulla portiera di guida. Ma in auto c'era anche una bottiglia da 800 cl di acqua ossigenata, acquistata da Benno in un emporio, forse per pulire le macchie. L'auto, inoltre, è stata sequestrata poco prima che il giovane la facesse lavare in un autolavaggio. E il movente? Si scava nella quotidianità della famiglia. Benno era tornato a Bolzano da un anno dopo avere vissuto in Germania e in Spagna. Appassionato di culturismo, era diventato dipendente dagli anabolizzanti. Le liti, hanno raccontato conoscenti e parenti, erano frequenti. Sembra che nell'ultimo periodo i genitori avessero chiesto la restituzione di parte della somma pagata per le tasse universitarie, visto che visto il figlio non si era laureato in Matematica, ma si era iscritto a Scienze motorie.
Benno non risponde al gip. Il legale: "Sotto shock, piange". Il giovane sospettato di aver ucciso i genitori e fatto sparire i corpi. Il giudice: "Deve rimanere in cella". Nino Materi, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. «Benno è tanto provato, piange, non per la situazione carceraria ma proprio per quanto accaduto» (parole dei suoi avvocati). Circostanza che può anche colpire su un piano della «mozione degli affetti», ma che non consente di fare alcun passo sul fronte giudiziario. Che poi - con tutto il rispetto umano per le lacrime dell'istruttore di fitness - è la sola cosa che interessa. In ballo c'è la sorte di due poveri cristi: i coniugi Neumair, entrambi insegnanti in pensione, genitori del 30enne palestrato Benno, i cui cadaveri dopo 26 giorni di ricerche non sono stati ancora trovati. Secondo l'accusa ad eliminare padre e madre facendone poi sparire i corpi sarebbe stato proprio il figlio. Per effetto di un raptus al culmine dell'ennesima lite? O in maniera studiata attraverso un progetto ben organizzato da tempo? La differenza non è da poco, considerato che, in caso di condanna, tra le due «fattispecie omicidiarie» la differenza è rilevante. Ma al momento il processo, pur se scontato, è ancora lontano dall'essere celebrato. Gli inquirenti infatti, per ora, hanno in mano solo una selva di indizi, ma nessuna prova schiacciante capace di incastrare del tutto il professor (non si è ancora capito bene se di Educazione fisica o Matematica) Benno Neumair. Mancano infatti i tre elementi decisivi per definire risolto il giallo dei «coniugi scomparsi» (sarebbe meglio dire ammazzati e fatti sparire): l'arma del duplice delitto (ma forse si è trattato di avvelenamento); i cadaveri delle vittime; la confessione del presunto killer. In assenza di questi tre pilastri, il castello accusatorio non rischia comunque di crollare ma sicuramente non ne viene rafforzato. E stante così le cose, non si vede perché Benno dovrebbe «dare una mano» agli inquirenti: collaborazione che lo porterebbe dritto all'ergastolo. A questo punto la strategia difensiva del silenzio è l'unica strada possibile. Almeno fino a quando i resti di Peter Neumair, 68 anni, e della moglie Laura Perselli, 63 anni, non torneranno alla luce dal buio in cui Brenno - sempre secondo l'accusa - li avrebbe scaraventati. E visto che dal fiume Adige non riemerge nulla, non si esclude che la dinamica finora più accreditata secondo cui il figlio avrebbe gettato in acqua dal Ponte di Vadena i cadaveri dei genitori possa addirittura essere un «depistaggio» per celare un occultamento dei due corpi compiuto con tempi e modalità diversi. Intanto difesa e accusa si sfidano in un sottile gioco psicologico: la difesa aspetta di «vedere le carte» realmente in mano all'accusa; l'accusa confida in un «passo falso» della difesa. Nell'attesa la parola d'ordine è: silenzio. Così ieri mattina nel corso dell'interrogatorio di garanzia in Tribunale a Bolzano, Benno si è avvalso della facoltà di non rispondere: «Abbiamo finito di stampare gli atti che ci hanno messo a disposizione per il fermo alle 11 di sera, non abbiamo avuto modo di confrontarci - spiegano gli avvocati del «sospettato numero uno» (o meglio, dell'unico sospettato) -. Faremo un interrogatorio davanti ai pm tra una decina giorni». Dieci giorni per mettere a punto le contromosse. Obiettivo: limitare i danni. Intanto il gip ha convalidato il fermo con la «piena sussistenza delle esigenze cautelari» (pericolo di fuga, inquinamento probatorio e reiterazione del reato). Neumair non la farà franca, ma la strategia di dichiararsi «estraneo ai fatti», adesso, sembra l'unica via percorribile, se pur strettissima. Tanto dal rivelarsi, forse, un vicolo cieco. Da giovedì Benno si trova in carcere, dopo che la Procura aveva emesso un'ordinanza di fermo. Il 30enne si era presentato in procura e successivamente era stato trasferito in carcere. Neumair è accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere dei genitori, scomparsi il 4 gennaio dalla loro abitazione in via Castel Roncolo 22 a Bolzano. Per i pm ad ammazzarli è stato lui. Il movente? Soldi e frustrazione. All'origine di quasi tutti gli omicidi. Compresi quelli dei propri genitori. Neanche un padre e una madre meritano pietà.
Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 26 gennaio 2021. Ventidue giorni di mistero. Laura Perselli, 68 anni, e suo marito Peter Neumair, 63, mancano dal pomeriggio del 4 gennaio. Telefonini staccati, nessun messaggio di addio, nessuno li ha più visti vivi. Li ha davvero uccisi il figlio Benno come pensa la Procura di Bolzano? E se fosse così allora dove sono finiti i cadaveri? Su un ponte a sud della città sono state trovate tracce del sangue di lui, Peter. L'assassino, quindi, si presume abbia buttato Peter e la moglie nella corrente dell'Adige proprio da quel punto. A meno che non sia un depistaggio, certo. Però non era per nulla scontato che i carabinieri arrivassero a quella macchia gialla sulla neve e al sangue che si era depositato al di sotto. Quindi è molto probabile che la coppia sia stata trascinata via dall'acqua che in quei giorni era tumultuosa per le piogge abbondanti. Possibile che nessuno dei due corpi o brandelli dei loro vestiti si siano impigliati da qualche parte per decine di chilometri? Dal ponte con le tracce di sangue alla diga dei Mori (dove una grata li avrebbe fermati) ci sono circa 80 chilometri lungo i quali è in corso da giorni una ricerca meticolosa, con la «pesca» di zainetti, giacche, scarpe, maglie. Niente che sia appartenuto a loro, finora. E Benno? È indagato - da libero - per omicidio volontario e occultamento di cadavere e da quando hanno sequestrato la casa dei suoi genitori è ospitato da amici, lontano da sua sorella Madè e dai suoi parenti che - va detto - nelle loro testimonianze sembra non lo abbiano difeso a spada tratta. Anche loro, come i pubblici ministeri Igor Secco e Federica Iovene, avrebbero molti dubbi sulla versione data da lui subito dopo la scomparsa. Sul suo comportamento, sulla sua mancata preoccupazione per la madre e il padre anche dopo molte ore dalla loro assenza. Lui sostiene di aver visto sua madre alle 18.30 del giorno 4, suo padre non era a casa con lei. Dice di essere uscito a fare un giro in bicicletta e di essere rientrato dopo circa un'ora, verso le 20. Loro non c'erano. Ha chiamato sua madre una sola volta, lei non ha risposto ed è finita lì. Perché non ha insistito? Come mai non si è preoccupato che né lei né lui lo richiamassero? Il suo racconto (da testimone) continua con la serata dall'amica a casa della quale ha poi dormito. Dice che dopo le 21 ha preso la Volvo dei suoi genitori ed è andato da lei. Non un'azione scontata, perché altri raccontano che l'auto non la prendeva quasi mai (i suoi non volevano) e spesso si muoveva invece con i mezzi pubblici. Al volante della Volvo percorre il ponte Roma in direzione sud e, pochi minuti dopo - alle 21.32 - il suo cellulare non dà più segni di vita. Spento. Per quale motivo? Quando lo riaccende sono le 21.57 e il segnale lo colloca a un paio di chilometri dal ponte con le tracce di sangue. «Sono andato a un laghetto di pescatori che sta da quelle parti» ha raccontato lui nella sua testimonianza della prima ora. Una specie di personale posto del cuore dove, avrebbe aggiunto poi, «mi sono fermato a fumare uno spinello prima di andare a casa della mia amica». Lei, indagata per favoreggiamento, è diventata una pedina dell'inchiesta soltanto l'altro giorno quando si è presentata in Procura con un avvocato e ha consegnato i vestiti che lui aveva addosso quella sera. Ha detto che aveva con sé il cambio e li aveva lasciati lì, e siccome erano sporchi di sudore lei li ha poi lavati (ora sono in mano ai Ris di Parma). E poi c'è l'acqua ossigenata che Benno ha comprato assieme a un'altra amica dopo il giorno 4: al negoziante ha chiesto un solvente «per togliere le macchie di sangue». Perché? Il giorno 5 sua sorella, disperata perché i genitori erano introvabili, è arrivata a Bolzano da Monaco di Baviera preoccupatissima. Benno giura di essere tornato a casa all'alba a prendere il cane ed essere andato a Renon, nella loro seconda casa. «La porta della stanza era chiusa, pensavo dormissero», ha detto alla sorella. Zero telefonate, zero preoccupazione. Come se tutta quell'assenza fosse normale.
«L’incubo di Benno: vittima del circo mediatico e senza notizie dei suoi». Valentina Stella su Il Dubbio il 22 gennaio 2021. Parla l’avvocato Flavio Moccia, difensore di Benno Neumair, il figlio della coppia sparita a Bolzano. Un nuovo misterioso caso sta riempendo le pagine della cronaca nera italiana: si tratta della scomparsa dei coniugi di Bolzano Peter Neumair e Laura Perselli, svaniti nel nulla tra il 4 e il 5 gennaio. Nel registro degli indagati è stato iscritto tre giorni fa il maggiore dei figli della coppia, il trentenne Benno Neumair per omicidio e occultamento di cadavere. Avrebbe prima cagionato la morte dei genitori e poi si sarebbe liberato dei corpi nel fiume Adige. In realtà spiega al Dubbio l’avvocato Flavio Moccia, che assiste il ragazzo insieme al collega Angelo Polo, «si tratta di un atto dovuto per eseguire tutti gli accertamenti. Non ci sono elementi gravi a carico del nostro assistito. Se ci fossero indizi gravi e concordanti la Procura avrebbe già emesso un fermo cautelare». A compiere gli accertamenti sono anche intervenuti i Ris di Parma. Siamo ovviamente in una fase embrionale delle indagini ma sembra essersi già messa in moto la macchina del processo mediatico. Il ragazzo è stato, tra l’altro, etichettato come ‘ l’insegnante con il culto dei muscoli’ e ai racconti sono seguiti immagini e video mentre fa palestra o esercizio fisico all’aperto. Si tratta del solito “effetto lombrosiano” dell’uomo nato per uccidere, per cui i comportamenti criminali sarebbero determinati da predisposizioni di natura fisiologica, i quali spesso si rivelano anche esteriormente. Accade spesso che nel racconto giornalistico ci si fissi su determinati dettagli per trarne chissà quale indizio di colpevolezza. Come dice sempre l’avvocato Moccia «il nostro cliente viene ormai da giorni massacrato dalla stampa. Stamattina (ieri, ndr) abbiamo sentito dire in una trasmissione che entro 15 giorni si avrà la confessione di Benno. Ma è scandaloso, come si fa a dire una cosa del genere? Per questo abbiamo deciso che questa è l’ultima intervista che concediamo e da domani (oggi, ndr) saremo in silenzio stampa perché stigmatizziamo fortemente quanto sta avvenendo». Finire nel tritacarne mediatico non è facile né per gli indagati né spesso per i loro avvocati, la partita è il più delle volte impari: «logicamente – prosegue l’avvocato Moccia – fa molto più scandalo il sospetto e il taglio colpevolista, che la descrizione oggettiva dei fatti. Purtroppo ad piccola circostanza caratteriale o fisica si fa derivare un aspetto negativo del ragazzo. Mi riferisco ad esempio al fatto che adesso pubblicano sempre questa foto di Benno come se fosse Maciste o lo giudicano troppo freddo. Invece tutto ha una giustificazione: lui faceva l’istruttore di fitness per mantenersi all’Università». Secondo alcuni fonti giornalistiche, proprio il mancato raggiungimento della laurea sarebbe il movente dell’omicidio perché i genitori avrebbero chiesto indietro al figlio i soldi delle rate visto che non avrebbe raggiunto l’obiettivo: «sciocchezza, il ragazzo è laureato. Ed è un ragazzo normale, che aveva normali conflittualità con i genitori, e che in questo momento sta vivendo un incubo. Non ha notizie dei genitori da oltre due settimane ed è sotto i riflettori. Noi gli abbiamo consigliato di non guardare la televisione o leggere i giornali, per non aumentare il suo turbamento. Lui è l’unico che conosce la verità e sentire congetture molto pesanti su di lui e la sua famiglia lo fa stare molto male». Dalla Procura non sarebbero filtrati elementi atti ad alimentare il circo mediatico: «abbiamo un Procuratore capo prosegue Moccia – molto sensibile e anche molto fermo nel non voler far trapelare nulla. Addirittura la Procura ha inviato alle testate giornalistiche un comunicato in cui precisa che non si è resa responsabile di fuoriuscite di notizie in merito all’indagine in corso».
I vestiti lavati, le tracce e i corpi dei due genitori mai trovati dal 4 gennaio: Benno Neumair, tra accuse e alibi. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 26/1/2021. Il racconto del 30enne indagato per omicidio. Il suo telefono che si spegne e il ruolo dell’amica indagata per favoreggiamento. Ventidue giorni di mistero. Laura Perselli, 68 anni, e suo marito Peter Neumair, 63, mancano dal pomeriggio del 4 gennaio. Telefonini staccati, nessun messaggio di addio, nessuno li ha più visti vivi. Li ha davvero uccisi il figlio Benno come pensa la Procura di Bolzano? E se fosse così allora dove sono finiti i cadaveri? Su un ponte a sud della città sono state trovate tracce del sangue di lui, Peter. L’assassino, quindi, si presume abbia buttato Peter e la moglie nella corrente dell’Adige proprio da quel punto. A meno che non sia un depistaggio, certo. Però non era per nulla scontato che i carabinieri arrivassero a quella macchia gialla sulla neve e al sangue che si era depositato al di sotto. Quindi è molto probabile che la coppia sia stata trascinata via dall’acqua che in quei giorni era tumultuosa per le piogge abbondanti. Possibile che nessuno dei due corpi o brandelli dei loro vestiti si siano impigliati da qualche parte per decine di chilometri? Dal ponte con le tracce di sangue alla diga dei Mori (dove una grata li avrebbe fermati) ci sono circa 80 chilometri lungo i quali è in corso da giorni una ricerca meticolosa, con la «pesca» di zainetti, giacche, scarpe, maglie. Niente che sia appartenuto a loro, finora. E Benno? È indagato — da libero — per omicidio volontario e occultamento di cadavere e da quando hanno sequestrato la casa dei suoi genitori è ospitato da amici, lontano da sua sorella Madè e dai suoi parenti che — va detto — nelle loro testimonianze sembra non lo abbiano difeso a spada tratta. Anche loro, come i pubblici ministeri Igor Secco e Federica Iovene, avrebbero molti dubbi sulla versione data da lui subito dopo la scomparsa. Sul suo comportamento, sulla sua mancata preoccupazione per la madre e il padre anche dopo molte ore dalla loro assenza. Lui sostiene di aver visto sua madre alle 18.30 del giorno 4, suo padre non era a casa con lei. Dice di essere uscito a fare un giro in bicicletta e di essere rientrato dopo circa un’ora, verso le 20. Loro non c’erano. Ha chiamato sua madre una sola volta, lei non ha risposto ed è finita lì. Perché non ha insistito? Come mai non si è preoccupato che né lei né lui lo richiamassero? Il suo racconto (da testimone) continua con la serata dall’amica a casa della quale ha poi dormito. Dice che dopo le 21 ha preso la Volvo dei suoi genitori ed è andato da lei. Non un’azione scontata, perché altri raccontano che l’auto non la prendeva quasi mai (i suoi non volevano) e spesso si muoveva invece con i mezzi pubblici. Al volante della Volvo percorre il ponte Roma in direzione sud e, pochi minuti dopo — alle 21.32 — il suo cellulare non dà più segni di vita. Spento. Per quale motivo? Quando lo riaccende sono le 21.57 e il segnale lo colloca a un paio di chilometri dal ponte con le tracce di sangue. «Sono andato a un laghetto di pescatori che sta da quelle parti» ha raccontato lui nella sua testimonianza della prima ora. Una specie di personale posto del cuore dove, avrebbe aggiunto poi, «mi sono fermato a fumare uno spinello prima di andare a casa della mia amica». Lei, indagata per favoreggiamento, è diventata una pedina dell’inchiesta soltanto l’altro giorno quando si è presentata in Procura con un avvocato e ha consegnato i vestiti che lui aveva addosso quella sera. Ha detto che aveva con sé il cambio e li aveva lasciati lì, e siccome erano sporchi di sudore lei li ha poi lavati (ora sono in mano ai Ris di Parma). E poi c’è l’acqua ossigenata che Benno ha comprato assieme a un’altra amica dopo il giorno 4: al negoziante ha chiesto un solvente «per togliere le macchie di sangue». Perché? Il giorno 5 sua sorella, disperata perché i genitori erano introvabili, è arrivata a Bolzano da Monaco di Baviera preoccupatissima. Benno giura di essere tornato a casa all’alba a prendere il cane ed essere andato a Renon, nella loro seconda casa. «La porta della stanza era chiusa, pensavo dormissero», ha detto alla sorella. Zero telefonate, zero preoccupazione. Come se tutta quell’assenza fosse normale.
Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2021. Mezz'ora di vuoto. Il telefono cellulare che risulta spento in una zona con buona copertura di rete. E poi il segnale che torna quando lui è a pochi chilometri dal ponte sul quale c'erano tracce del sangue di suo padre. Che cosa ha fatto Benno Neumair in quella mezz'ora di buco? E perché il telefonino risultava spento? Stiamo parlando della sera della scomparsa. Era il 4 gennaio. Sua madre Laura Perselli, 68 anni, e suo padre Peter, 63, mancavano già all'appello ma nessuno aveva ancora dato l'allarme. Lo avrebbe fatto lui stesso il pomeriggio successivo, dopo le insistenze di sua sorella Madè, preoccupata perché i genitori non erano rintracciabili da ore. Nel verbale che ha firmato come testimone lui, Benno - che oggi è indagato con l'accusa di aver ucciso i genitori e averne nascosto i corpi - ha raccontato di aver visto sua madre l'ultima volta verso le 18.30 e che suo padre a quell'ora non era in casa. Ha detto di essere poi uscito a fare un giro in bicicletta e di essere tornato a casa dopo circa un'ora, attorno alle 20, senza trovare nessuno dei due. Non si è preoccupato, ha giurato. Ha pensato fossero andati a fare una passeggiata. Tra le 20 e le 21 ha telefonato a sua mamma che non gli ha risposto e, ancora una volta, non si è allarmato. Verso le 21 un vicino di casa lo incrocia in cortile, Benno sembra trafelato, e siccome lui vive da sempre a pane e palestra la persona che lo vede pensa che abbia appena finito di fare esercizi ginnici. Le tracce successive che rilevano la sua presenza da qualche parte sono su Ponte Roma, a ridosso del centro di Bolzano. Le telecamere riprendono il passaggio della sua Volvo e la cella telefonica (la stessa che aveva agganciato la chiamata fatta alla madre pochi minuti prima) aggancia il suo telefono cellulare. Lui dice di essere uscito poco dopo le 21 per andare dalla ragazza da cui ha poi passato la notte, e l'orario del passaggio sul ponte in effetti coincide. Ma per raggiungere la casa della ragazza ci vuole meno di mezz'ora, soprattutto di sera e senza traffico. Lui invece impiega molto di più perché da lei arriva dopo le dieci. Ecco. È in quell'ora - fra le 21 e le 22 - che misteriosamente il telefonino di Benno Neumair non aggancia più nessuna cella per circa mezz'ora. Spento. Il segnale riappare alle 21.57 e stavolta la cella agganciata è quella di Ponte Resia, l'ultimo della città in direzione di Ora, il Comune dove vive la ragazza che Benno ha raggiunto dopo le 22. Quindi la domanda è obbligatoria: perché spegnere il telefonino? Perché andare «nei pressi» (come dicono le carte della Procura) del ponte sul quale è stato trovato il sangue di suo padre? Nella sua ricostruzione il motivo per arrivare da quelle parti è legato a una specie di veloce gita serale verso un laghetto per pescatori poco distante dal ponte su cui è stato trovato il sangue, un luogo molto isolato (specie di sera) e senza abitazioni nei dintorni. Con il passare dei giorni la situazione sembra complicarsi sempre più, per Benno. Che vive le sue giornate a casa di amici, vede soltanto pochissime persone (non la sua famiglia) e ripete ai suoi avvocati - Flavio Moccia e Angelo Polo - che «sono innocente» e «sono certo, presto capiranno che non c'entro niente». È avvilito - giura chi gli ha parlato - perché si pensa che il suo fisico allenatissimo possa averlo aiutato a sopraffare fisicamente sua madre e suo padre. Proprio lo sport, per lui quasi un motivo di vita, è diventato un tassello del puzzle degli inquirenti. I carabinieri del Ris di Parma hanno prelevato materiale da analizzare a casa delle due vittime (presunte, visto che non ci sono i corpi) e della ragazza da cui Benno ha passato la notte fra il 4 e il 5 gennaio. Che non è la stessa ragazza assieme alla quale è andato a comprare un flacone di acqua ossigenata chiedendo se fosse adatta a smacchiare il sangue. Lei, la ragazza del solvente, l'ha frequentata dopo averla conosciuta via Tinder, il sito per la ricerca di amicizie. Sulla portiera lato passeggero della Volvo il Ris ha isolato proprio tracce di acqua ossigenata e di sangue che potrebbe essere suo. Perché nei giorni dopo la scomparsa Benno aveva un taglio su un dito. «Me lo sono procurato - ha detto - maneggiando la bicicletta».
Giallo di Bolzano, spuntano i vestiti di Benno Neumair: un’amica li consegna alla Procura. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Gennaio 2021. Altra svolta nel giallo di Bolzano, quello dei due insegnanti scomparsi nel nulla da martedì 5 gennaio. Un’amica del figlio della coppia, Benno Neumair, indagato per duplice omicidio volontario e occultamento di cadavere, ha consegnato alla Procura i vestiti che quest’ultimo indossava la sera della scomparsa. A riferirlo sono i quotidiani Alto Adige e il Corriere dell’Alto Adige. La giovane donna è residente a Ora. La sera della scomparsa, a quanto ricostruito, il 30enne è andato a trovarla. Appena arrivato Benno Neumair si è fatto una doccia e lei, ha raccontato la donna, per fargli una cortesia ha messo i vestiti in lavatrice e poi li ha riposti in un armadio. La mattina dopo il 30enne ha indossato altri vestiti che si era portato da casa. I capi consegnati sono una t-shirt, una felpa, un paio di pantaloni e un paio di calzini. Il Ris analizzerà il materiale. L’amica, che Benno Neumair frequenterebbe da un paio di mesi, ha comunque riferito che non erano sporchi e non avevano macchie di sangue prima che li lavasse. La donna ora è indagata per favoreggiamento. Un atto dovuto, scrivono i giornali locali, mentre il suo legale Federico Fava spiega che se la sua assistita non li aveva mostrati durante la perquisizione del suo appartamento è stato “perché non le erano stati chiesti e lei in quel frangente non aveva preso l’iniziativa di consegnarli”. Il nuovo elemento – ancora da stabilire se sarà dirimente ai fini dell’indagine – è arrivato mentre proseguono le ricerche nella diga di Mori dei corpi dei Laura Perselli e Peter Neumair, 68 anni e 63 anni, spariti nel nulla lo scorso martedì 5 gennaio, quando è scattato l’allarme. La figlia Madè, che vive a Monaco di Baviera dove fa il medico, si era insospettita, non sentendo i genitori dal giorno prima. Le ricerche non hanno dato risultati. Le ipotesi prese in considerazione in un primo momento erano un incidente o un’aggressione. Esclusa da subito la pista del gesto estremo o del viaggio all’estero. Poi l’ipotesi, la principale, sulla quale si indaga: il duplice omicidio, i corpi buttati nel fiume. Il movente ipotizzato e rilanciato dai media è quello dei problemi economici, degli attriti tra genitori e figlio. Il padre avrebbe chiesto a Benno Neumair di restituire i soldi degli studi all’università, che il 30enne non ha portato a termine. E una convivenza sempre più difficile tra i tre. A indirizzare gli investigatori le macchie di sangue di Peter Neumair nei pressi del ponte di Vadena; il telefono spento e poi riapparso a pochi chilometri dal ponte del figlio, la sera della scomparsa; il ritrovamento di un piumino blu forse appartenuto all’uomo scomparso; il figlio fermato quando aveva portato l’auto a un autolavaggio. Avanzata perfino un’ipotesi di avvelenamento. Sequestrata la casa, i device della famiglia e la stessa auto di famiglia, sulla cui portiera sinistra sono state ritrovate delle macchie di sangue. Benno Neumair – che ha riferito di essersi ferito cadendo dalla bicicletta – si proclama estraneo ai fatti, innocente, ed è tranquillo secondo i suoi difensori che intanto hanno indetto il silenzio stampa. A tirare il freno su tutte le voci la sorella della donna scomparsa, Carla Perselli: “Sono stati giorni difficilissimi e adesso è arrivata questa ulteriore mazzata della svolta delle indagini – ha detto al Corriere della Sera – Per noi è stato un colpo durissimo che ci ha messo ko. Siamo stanchi, provati e sfiniti. Non è nemmeno corretto trattare un indagato come se fosse colpevole: ci vuole più calma e giudizio. Anche per aiutare la verità. Ora abbiamo bisogno di recuperare e non intendiamo mettere in piazza il nostro stato d’animo”.
Delitto di Bolzano, parla la fidanzata di Benno: "Non l'ho più visto. Non mi sento di giudicarlo". Paolo Berizzi su La Repubblica il 22 gennaio 2021. Il figlio di Peter e Laura Neumair, il principale indagato nel caso, ha dormito da lei la notte in cui la coppia è scomparsa. "Mi stanno cercando tutti e non so cosa fare, come comportarmi. Sono sconvolta. Chi poteva immaginare tutto questo casino?". Martina - per tutelarla omettiamo il cognome, al momento non è indagata, - è una bella ragazza di origini argentine: mora, capelli lunghi lisci, trucco leggero sotto la mascherina azzurra. Dietro il bancone del negozio dove lavora in centro a Bolzano indossa maglia e gonna nera e una collana con pendagli colorati. Età sulla trentina. Martina è stata una delle prime persone interrogate dai carabinieri che indagano sulla morte di Peter e Laura Neumair: e non poteva essere altrimenti, visto che, la notte del 4 gennaio, dopo che i due insegnanti bolzanini spariscono nel nulla, il figlio Benno - inquisito per duplice omicidio e occultamento di cadavere - passa la notte con lei. Nella casa di Martina a Ora, 4mila anime a 20 km a sud di Bolzano. Benno e Martina hanno una relazione, da un po' di tempo. Inutile indugiare sulle sfumature, superfluo stabilire se ha senso utilizzare la parola "fidanzata", o "amica", o "amica speciale" ("Benno è un ragazzo brillante e ha tante amiche, non una fidanzata fissa", dice Flavio Moccia, l'avvocato del trentenne culturista e supplente di matematica). Sta di fatto che lui, l'unico indagato per la scomparsa dei genitori dorme spesso a casa di Martina. Di solito Benno parte da Bolzano con i mezzi pubblici e rientra la mattina dopo nella casa di Castel Roncolo dove abitava coi genitori: il 4 gennaio invece - lo ha raccontato Martina, e lo conferma - "è venuto in macchina". È il viaggio dei misteri; dei 30 e passa minuti per percorrere una manciata di chilometri, della Volvo V70 nera guidata da Benno Neumair catturata dalle telecamere delle gallerie di Bolzano e di Laives e del "buco" in mezzo, con - ipotizzano gli inquirenti - una deviazione in una strada laterale e poi sul ponte di Vadena in prossimità della discarica "Ischia Frizzi", lì dove è stata trovata una macchia di sangue compatibile con il dna di papà Peter. E dove, è l'ipotesi degli inquirenti, il figlio potrebbe avere gettato nell'Adige i corpi dei genitori. Sono trascorsi 17 giorni da quella notte nel bilocale di Martina a Ora. Se le chiedi che idea si è fatta di questa brutta storia che vede il suo Benno in una posizione sempre più compromessa, risponde così: "Non so che cosa pensare e sinceramente non voglio dire nulla sulla vicenda. Mi capite? Sono ancora choccata per quello che è successo. Talmente sconvolta che per un paio di giorni non sono nemmeno venuta al lavoro, non ce la facevo proprio". Il lavoro è un negozio nel cuore di Bolzano, sono le colleghe e il titolare che in questi giorni delicati proteggono per quanto possono la ragazza dalla pressione dei cronisti e anche dalla curiosità morbosa di chi, nel giro degli happy hour, delle palestre, dei locali, era a conoscenza della storia tra lei e Benno. "Da quella mattina io non l'ho più visto né sentito", dice Martina riferendosi all'alba del 5 gennaio. Sembra sincera. Pure se non fosse così si può capire l'imbarazzo, il timore di pronunciare la parola sbagliata, strumentalizzabile. Rivolge lo sguardo verso una collega. Come se volesse cercare un supporto. Prova ad alleggerire, a sdrammatizzare. Probabilmente scherza. "Anche Barbara d'Urso mi cerca" - ironizza. Sa benissimo che questa storia andrà avanti, che ci saranno altri passaggi cruciali: quando troveranno Peter e Laura, quando - pochi si sentono di escluderlo - ci saranno sviluppi giudiziari che riguarderanno Benno. L'uomo che l'ha conquistata con la sua intraprendenza, il fisico scolpito, quell'immagine da influencer del fitness. "Non mi sento di giudicarlo, chi sono io per poterlo fare?" - ha confidato Martina agli amici più stretti. Aggiunge: "Ho letto le cose che avete scritto e sono rimasta impietrita". La ragazza coinvolta suo malgrado nel giallo di Bolzano riempie le sue pagine social di fotografie di lei con le amiche in maschera e costume di Carnevale. Immagini di lei e Benno, zero. Almeno sul profilo pubblico. Sono fotografie molto diverse da quelle postate da Neumair jr: che rivelano il suo egocentrismo e la sua vanità. Un uomo forse con due facce. C'è Benno che sorride con il cane, c'è Benno che fa la faccia da duro mostrando il petto glabro. C'è Benno che litiga coi genitori e alza la voce e c'è l'indagato che, su quella sera disgraziata, racconta ai carabinieri di essersi preso una "pausa" per "rilassarsi" vicino a un laghetto gestito dalla cooperativa di pescatori. Poi va da Martina, la "fidanzata" argentina.
Sangue, acqua ossigenata e l'auto pronta da lavare: quei sospetti su Benno. Il giallo di Bolzano: chi ha ucciso Peter Neumair e Laura Perselli? Indagato il figlio: ecco perché. Rosa Scognamiglio, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. Un flacone di acqua ossigenata potrebbe segnare la svolta nel delitto già noto alle cronache come "giallo di Bolzano". Il contenitore è stato rinvenuto all'interno dell'auto di Benno Neumair, unico indagato per l'assassinio di Peter Neumair e Laura Perselli. Secondo le ipotesi della Procura, il giovane avrebbe ucciso i genitori e gettato successivamente i corpi nel fiume Adige. Per questo motivo, circa una settimana fa, è stato iscritto nel registro degli indagati con l'accusa duplice omicidio e occultamento di cadavere.
Acqua ossigenata e sangue. Un flacone di acqua ossigenata, da circa 800 millilitri, ha inasprito la posizione di Benno Neumair agli occhi dei pm Igor Secco e Federica Iovene, a capo dell'inchiesta sul duplice omicidio di Bolzano. Il giovane, secondo l'accusa, potrebbe aver acquistato del perossido di idrogeno per eliminare eventuali tracce di sangue dall'auto (una Volvo) con cui avrebbe trasportato i corpi - già senza vita - dei genitori dall'appartamento di via Castel Roncolo 22 al ponte al ponte di Vadena, sul fiume Adige. Il contenitore sarebbe stato reperatato dai carabinieri all'interno della vettura, intestata al padre di Benno, quando hanno intercettato il sospetto assassino nei pressi di un autolavaggio. Verosimilmente, il giovane avrebbe tentato di lavar via eventuali tracce ematiche dagli interni dell'automobile nel tentativo di inquinare elementi probanti (forse) la sua ipotetica colpevolezza. In quel frangente, dunque, è scattato il fermo dei militari dell'Arma e la vettura è stata sottoposta a sequestro.
La sosta sospetta per acquistare acqua ossigenata. Non un comune flaconcino di acqua ossigenata ma un contenitore da quasi un litro. Una quantità indubbiamente sospetta per ipotizzare un utilizzo innocuo. Da una prima ricostruzione pare che Benno, prima di recarsi all'autolavaggio, abbia fatto sosta presso un negozio specializzato nella vendita all’ingrosso di prodotti per la pulizia. E lì avrebbe recuperato il grosso flacone. "Solitamente questi prodotti vengono utilizzati dai cacciatori per sbiancare le corna dei trofei di caccia o dai parrucchieri per tingere i capelli. Specialmente in tempo di Covid vendiamo parecchi prodotti di questo genere quindi non ci abbiamo trovato nulla di strano", ha spiegato il titolare dell'azienda alle pagine del Corriere della Sera. L'uomo è stato anche sentito dai carabinieri confermando la compravendita del detergente.
Tracce di sangue sulla vettura. Nell'attesa di ulteriori risvolti sulla vicenda, gli inquirenti hanno sottoposto la vettura incriminata a sequestro. Intanto, ieri, gli uomini dei Ris di Parma sono arrivati a Laives per procedere con gli accertamenti del caso. L’esame sarebbe durato diverse ore confermando la presenza di tracce biologiche a bordo dell'auto. Ma soprattutto i tecnici hanno rinvenuto tracce di sangue, anche queste da analizzare, e tracce di un prodotto che da una prima osservazione sembrerebbe essere acqua ossigenata. E, intanto, i sospetti su Benno Neumair diventano sempre più insistenti: la svolta del giallo potrebbe essere ad un passo.
Coppia di insegnanti scomparsa a Bolzano, indagato il figlio 30enne. La Repubblica il 19 gennaio 2021. Peter Neumair e Laura Perselli. I due docenti in pensione sono spariti nel nulla due settimane fa. Svolta nell'inchiesta sulla scomparsa di Peter Neumair e Laura Perselli, i due insegnanti bolzanini in pensione di 63 di 68 anni spariti nel nulla due settimane fa. La procura di Bolzano ha indagato il figlio Benno, di 30 anni. L'accusa per lui è di omicidio e occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti i corpi dei due ex docenti potrebbero essere stati seppelliti nel giardino di casa o gettati nelle acque del fiume Adige nella zona di Vadena.
Benno, il figlio della coppia Al momento Benno Neumair è a piede libero: non è stata adottata nessuna misura cautelare nei sui confronti. L'appartamento in via Castel Roncolo, nel quale i coniugi vivevano con il figlio, è stato posto sotto sequestro su ordine dei pm Igor Secco e Federica Iovene. Lì oggi sono tornati carabinieri del Ris di Parma, che hanno effettuato anche altri sopralluoghi nella zona a sud di Bolzano, in particolare tra Vadena e Laives. Sigilli anche a un altro appartamento, nella stessa palazzina, del quale i Neumair avevano la disponibilità, visto che la proprietaria attualmente non lo occupa e a una casa di famiglia sul Renon. L'attenzione dei Ris ora si concentra anche sulla vettura della famiglia, una Volvo. Stando al racconto di alcuni testimoni, tra il figlio, giovane insegnante e appassionato di culturismo, e i genitori i litigi erano frequenti. Ma il suo legale, l'avvocato bolzanino Flavio Moccia, un amico di famiglia, racconta: "Benno è devastato per la scomparsa dei suoi genitori. Le ultime due settimane sono state terribili, dovendo vivere nell'incertezza su cosa sia capitato ai sui genitori". Secondo il legale, che definisce "fantasiosa" la ricostruzione degli inquirenti, l'avviso di garanzia "è un atto dovuto a tutela del cittadino". Mentre proseguono le ricerche dei due coniugi, soprattutto lungo il corso dell'Adige a sud di Bolzano, sono vari i fronti sui quali si sta muovendo l'inchiesta. Il giardino della palazzina storica in via Castel Roncolo è stato setacciato ieri, senza però trovare elementi utili. Gli inquirenti mantengono massimo riserbo, ma la svolta sembra sia arrivata da una testimonianza. Qualche vicino parla di una convivenza non sempre facile, ma all'apparenza nulla di preoccupante. "Benno - racconta l'avvocato Moccia - in questi giorni non lavora, proprio per mettersi completamente a disposizione degli inquirenti che incontra tutti i giorni". Il mistero della fine dei suoi genitori è ancora da risolvere. A lanciare l'allarme era stata la figlia della coppia: Madè. Da Monaco di Baviera, dove vive, la giovane aveva provato più volte a contattare i genitori la mattina del 5 gennaio senza, però, ottenere risposta. Molto preoccupata, Madè aveva telefonato al fratello. E il pomeriggio del giorno stesso è stata formalizzata la denuncia di scomparsa.
Coppia scomparsa a Bolzano, il sangue trovato sul ponte potrebbe essere del papà di Benno. Paolo Berizzi su La Repubblica il 20 gennaio 2021. Si stringe il cerchio delle indagini sul giallo, la difesa del figlio è sempre più traballante. Uomini che entrano e escono dalla casa di via Castel Roncolo. Cameramen che inseguono Benno, rifugiatosi da amici. Sua sorella, Madè, rientrata dalla Germania e a casa con la zia. Una morsa che si stringe, e in mezzo lui: l'unico indagato (per omicidio e occultamento di cadavere), l'ultimo ad avere visto i genitori prima della loro scomparsa il 4 gennaio scorso in una notte densa di misteri. Misteri che, più passano i giorni e più le indagini provano a rischiarare. Disvelando indizi apparentemente concordanti e ritenuti "interessanti" dagli investigatori.
La svolta. Due settimane dopo la denuncia dell'improvvisa sparizione da casa di Peter Neumair e Laura Perselli, 63 e 68 anni, insegnanti in pensione, inseparabili, conosciuti, stimati, una vita tranquilla, lontana da ogni sospetto, al centro del giallo di Bolzano c'è ancora e sempre la figura del loro figlio maschio: Benno Neumair, 30enne culturista in cura per disintossicarsi dagli anabolizzanti. Insegnante di matematica, fisico scolpito, tutto social, palestra e donne. Che i sospetti degli inquirenti pendano su di lui è noto da giorni, ma l'iscrizione nel registro degli indagati - ventiquattro ore fa - ha impresso una svolta all'inchiesta. I legali di Benno continuano a ripetere che il loro assistito "non ha nessuna preoccupazione in merito all'inchiesta perché non ha nulla da nascondere" ed convinto che "l'indagine escluderà un suo coinvolgimento". Ma la posizione dell'indagato - anche da quanto si apprende da ambienti investigativi - appare sempre più traballante.
Troppe incongruenze. Al momento l'ipotesi degli inquirenti - i pm Igor Sacco e Federica Iovene, le indagini sono condotte dai carabinieri del nucleo operativo di Bolzano e al Ris di Parma - è che Benno, più volte interrogato in questi giorni, non sia affatto estraneo alla sparizione dei genitori: le incongruenze della sua ricostruzione su quanto accaduto tra il 4 e il 5 gennaio - giorno in cui insieme alla zia materna denuncia la scomparsa di papà Peter e mamma Laura - hanno portato gli investigatori a setacciare i "luoghi" ripercorrendo, a ritroso, la narrazione del body builder. In queste ore gli uomini del Ris di Parma , dopo avere esaminato ieri la Volvo rossa dei coniugi Perselli sulla quale è stata trovata una traccia di sangue (che verrà analizzata) e una boccetta di acqua ossigenata acquistata forse per cancellare le macchie ematiche, stanno passando al setaccio l'abitazione al civico 22 di via Castel Roncolo, zona residenziale di Bolzano. Qui abitava la coppia insieme al figlio, tornato a vivere coi suoi, tra dissidi frequenti, per curarsi dalla dipendenza dagli anabolizzanti per pompare i muscoli. Da qui il 4 gennaio si perdono le tracce dei Neumair. Le analisi scientifiche sono incominciate dall'appartamento e nelle prossime ore, probabilmente domani, si allargheranno a un alloggio attiguo, più piccolo, di un altro proprietario ma di cui Peter e Laura avevano le chiavi: e nel quale, forse, avrebbe dovuto trasferirsi Benno. I due insegnanti bolzanini il 4 gennaio è come se entrassero in un buco nero: nel senso che, stando al racconto del figlio, lui li vede all'ora di cena. Poi basta. I loro cellulari si "spengono" contemporaneamente. Benno ricorda perfettamente come erano vestiti i genitori, ma non sa dire dove e perché siano spariti. Riferisce solo che erano usciti per fare una passeggiata. "Sono andato da una mia amica a Ora" - ha raccontato l'indagato ai carabinieri -. "Quando sono rientrato a casa alle 5,30 ho visto la porta chiusa della camera dei miei: pensavo stessero dormendo. A quel punto sono uscito per portare fuori il cane e dopo sono andato a fare una passeggiata sul Renon". C'è, nel suo racconto, soprattutto una cosa che non torna: l'amica - o fidanzata che sia - abita a Ora. Una telecamera posizionata in località Vadena avrebbe catturato Benno. Vadena e Ora si trovano a Sud di Bolzano lungo l'Adige: ma una dalla parte opposta rispetto all'altra. Perché, se dice di esser andato a Ora, Benno passa da Vadena?
La macchia di sangue. E qui entra in gioco l'altro reperto "interessante" trovato dai carabinieri: una traccia di sangue in mezzo alla neve proprio sul ponte di Vadena. E' stata analizzata e potrebbe appartenere a Peter Neumair, il padre. I cui corpi non sono ancora stati trovati. Le ricerche continuano nelle valli intorno a Bolzano, fino a 80 km dalla città. Ma quella traccia di sangue "conduce" gli investigatori in un luogo significativo. Perché combacia con l'ombra di Benno entrata in una telecamera di Vadena.
C'è poi l'irritualità - ma chi conosce il tipo non si sorprende - dell'uscita col cane all'alba e della passeggiata subito dopo aver fatto ritorno a casa. Davvero Benno quella sera è uscito da solo in auto? Per fare cosa? Perché le telecamere intorno a casa non inquadrano mai i genitori, che, dice lui, sarebbero usciti per fare una passeggiata dopo cena? Chi e perché ha comprato l'acqua ossigenata per pulire i sedili della Volvo? Sono i tasselli che gli inquirenti stanno cercando di incastrare.
· Il Mistero di Luca Ventre.
L'appello al governo. Giustizia per Luca Ventre, ucciso come George Floyd. Angela Stella su Il Riformista il 23 Giugno 2021. Non si spengano i riflettori sulla morte di Luca Ventre, il giovane deceduto il primo gennaio 2021 in Uruguay, in circostanze drammatiche simili a quelle che hanno condotto alla morte George Floyd. A lanciare ieri l’appello è stato, durante una conferenza stampa, il professor Luigi Manconi, Presidente di A Buon diritto, insieme ad alcuni deputati e al fratello di Luca, Fabrizio che ha detto: «A sei mesi dai fatti chiediamo il diritto di avere giustizia. Ci hanno voluto far credere che mio fratello fosse morto per un malore, poi per un incidente stradale e invece per oltre 20 minuti un poliziotto locale ha tenuto il suo braccio intorno al suo collo». A rendere reale questa tragica sequenza ci sono i fotogrammi di un video che testimoniano quanto avvenuto all’interno dell’Ambasciata italiana: Luca aveva scavalcato il cancello d’ingresso e nel cortile era stato immobilizzato da un poliziotto uruguaiano. Chiedeva protezione. I video mostrano i 37 lunghissimi minuti dal momento in cui l’uomo viene bloccato a terra a quando viene caricato su un’auto che lo porterà all’ospedale, dove morirà poco dopo. Per circa metà di quel tempo il braccio dell’agente premerà sul suo collo, mentre lui con la voce soffocata cercherà di dire «No me muevo, no me muevo». «L’autopsia condotta da un medico legale uruguaiano – ha sottolineato Manconi – ha assolto il poliziotto da qualsiasi responsabilità. La Procura di Roma, titolare delle inchieste per i reati avvenuti all’estero ai danni di italiani, nella persona del Sostituto Sergio Colaiocco – lo stesso delle indagini sulla morte di Giulio Regeni – ha invece voluto vederci chiaro e ha incaricato il professor Giulio Sacchetti di una consulenza tecnica. Questa ha dato risultati straordinariamente importanti». L’autopsia eseguita in Uruguay è stata contestata punto per punto, fino a giungere ad un’altra conclusione: Luca sarebbe morto per una sindrome asfittica «riconducibile alle prolungate manovre costrittive esercitate con notevole forza sul collo del soggetto». Dunque una asfissia provocata come nel caso Floyd. Sulla base della nuova perizia, il procuratore Colaiocco ha disposto l’iscrizione del poliziotto uruguaiano nel registro degli indagati per il reato di omicidio preterintenzionale. Un altro passo importante è quello compiuto dalla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che due giorni fa ha firmato una richiesta di procedimento penale, nell’ambito del procedimento relativo al decesso di Luca Ventre. In pratica ha detto: continuate ad indagare. Ora verranno compiuti successivi atti che dovrebbero condurre all’interrogatorio del poliziotto uruguaiano ma affinché ciò accada, spiega Manconi, «è necessario che magistratura italiana, Ministero della Giustizia e Ministero degli Esteri – che non ha brillato neanche nel caso Regeni – collaborino tra di loro per poi cooperare con le Autorità uruguaiane. Mi auguro che il Governo di Montevideo non si sottragga alle sue responsabilità». Per l’onorevole del Pd Lia Quartapelle «l’iniziativa di oggi (ieri, ndr) è l’inizio di un percorso per celebrare un processo in Italia e arrivare alla verità». Erasmo Palazzotto, deputato LeU, ha fatto un appello affinché «la politica apra una seria riflessione su chi gestisce la sicurezza nelle nostre ambasciate». Gli ha fatto eco l’onorevole di +Europa Riccardo Magi: «Sarebbe doveroso, opportuno e necessario che all’interno delle nostre sedi diplomatiche nel mondo ci fossero forze armate o forze dell’ordine italiane, carabinieri ad esempio. Da subito andrebbe fatta questa richiesta alla Farnesina». E conclude: «come ha detto l’Ambasciatore italiano al padre di Luca, quello che ha subìto Luca è terrificante. Ed è tutto documentato nel video. Come componente della Commissione Regeni, sono consapevole che ottenere giustizia in questi casi dipende molto dall’attività diplomatica e politica che affianca quella giudiziaria. Questo è il motivo che ci porta qui: una richiesta di sostegno al nostro Governo ma anche una forma di vigilanza istituzionale e democratica». Angela Stella
Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 24 gennaio 2021. Entra vivo nell'ambasciata italiana a Montevideo. Dopo 37 minuti esce privo di sensi. Già «morto» per il fratello della vittima, trascinato da due poliziotti. Ufficialmente il decesso è registrato alle 8.30 in ospedale dove viene trasportato incosciente. È la storia di Luca Ventre. L'italiano di 35 anni che lo scorso primo gennaio scavalca il cancello della sede diplomatica perché vuole parlare con un funzionario, trova due vigilantes di guardia nel giardino della rappresentanza. Lo placcano, uno dei due gli cintura il collo e lo immobilizza a terra. Lo neutralizza. Lo tiene così per diverso tempo. Troppo. Fino a quando il corpo del ragazzo non si muove più. Poi viene trascinato via a peso morto, preso dalle ascelle, con la testa reclinata in avanti e i piedi che strisciano in terra. Adesso la procura di Roma vuole vederci chiaro. Già in settimana è possibile che il pm Sergio Colaiocco, magistrato titolare della delicata inchiesta sul caso Regeni, iscriva i vigilantes con l'accusa di omicidio preterintenzionale. Nel frattempo il fratello della vittima, Fabrizio Ventre urla il suo dolore: «Luca è stato ucciso dentro un'ambasciata italiana, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non si è degnato di dire una parola, di telefonarci, di chiedere di fare piena luce. Siamo stati letteralmente abbandonati dalle istituzioni».
LA VICENDA. Intorno alle sette e sette del mattino del primo gennaio Luca Ventre fa ingresso nell'ambasciata italiana a Montevideo. Non lo fa entrando convenzionalmente. Scavalca. Il ragazzo attraversa un momento particolare, da poco si è ripreso da un brutto incidente, saltuariamente fa uso di droghe. Lui vorrebbe essere rimpatriato, questa la motivazione che lo spinge al folle gesto. Appena mette piede a terra viene raggiunto da due uomini. La sicurezza. Luca rimane fermo, viene fatto inginocchiare. Le mani dietro la schiena. Poi lo scaraventano sul cemento, subito uno dei due lo afferra per il collo e gli sale sopra. Il 35enne è sopraffatto. Nel frattempo il sistema di video sorveglianza riprende tutto. In un fermo immagine si vede il viso di Luca sofferente mentre il braccio della guardia gli stritola il collo. Una presa che terrà ininterrottamente fino alle sette e trenta. A questo punto Luca non si muove, è disteso sul pavimento. Immobile. Un vigilantes è armato. Passano quasi altri 14 minuti. Si apre il cancello ed entrano due poliziotti, prendono il ragazzo, lo sollevano di peso. Il 35enne non si muove il corpo è completamente afflosciato. L'auto si dirige all'ospedale Hospital de Clinica. La distanza tra l'ambasciata e il nosocomio è di 4 chilometri. Secondo Google Maps servono 8-10 minuti in macchina. L'auto della polizia presumibilmente procede a maggiore velocità. Ipoteticamente ci mette 4 minuti. Arriva di fronte all'ingresso del pronto soccorso intorno alle sette e cinquantuno. Altre telecamere riprendono la scena grottesca. Luca non entra subito. Viene ricoverato dopo 14 minuti. Ecco cosa accade. I poliziotti prendono una carrozzella e sistemano il ragazzo sopra. Poi si dirigono verso l'ingresso. A questo punto c'è un nuovo fermo immagine che suggerisce come il ragazzo sia privo di sensi: il 35enne si ribalta all'indietro con l'intero busto, la testa gli ciondola su un lato. Quattro agenti fanno fatica a ricomporlo sulla sedia. Poi varcano l'ingresso. Qui non c'è più nessuna telecamera. Si sa che i medici tentato di rianimarlo più volte. L'esito è negativo. La morte ufficiale registrata nei documenti porta le 8.30. Per il fratello era già morto prima di entrare e comunque il decesso, sempre secondo i parenti, è una conseguenza del placcaggio avvenuto dentro il cortile dell'ambasciata italiana a Montevideo. Adesso la procura di Roma dovrà fare piena luce. Anche i magistrati uruguaiani indagano sul caso.
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 26 gennaio 2021. Una prima svolta nel caso di Luca Ventre. Adesso la procura di Roma richiede il disseppellimento del cadavere per effettuare un' autopsia in Italia. Esame medico legale che sarà fondamentale per chiarire le cause del decesso, quindi per individuare eventuali responsabili. Il 35enne è morto in Uruguay il primo gennaio a Montevideo. L' uomo era stato placcato energicamente da un vigilantes privato e da un poliziotto uruguaiano dopo che si era introdotto all' interno dell' ambasciata scavalcando il cancello. Era stato bloccato a terra per un totale di 37 minuti alle sette e sette del mattino: Venti minuti con il braccio dell' agente uruguaiano che gli cingeva il collo. Un presa che per i familiari del ragazzo ne ha determinato la morte per soffocamento. Gli altri 17 minuti esanime, disteso sul selciato senza muovere un muscolo. Alle sette e quarantaquattro viene prelevato da una volante della polizia. Viene tirato su di peso e portato in ospedale. Dai filmati sembra essere privo di sensi.
L'ARRIVO AL PRONTO SOCCORSO. Durante il tragitto, secondo gli agenti, in auto si sarebbe dimenato. L' ingresso al pronto soccorso sarebbe avvenuto intorno alla otto del mattino. Anche qui le immagini del sistema di videosorveglianza mostrano le condizioni precarie in cui versa Luca Ventre, adagiato sopra una sedia a rotelle, sorretto dagli agenti poiché sembra in ogni momento sul punto di cadere. Dai filmati pare che muova una gamba. Tuttavia è il momento in cui il 35enne varca la soglia il più drammatico: si ribalta con l' intero busto all' indietro con la testa che sfiora il pavimento. Ufficialmente Ventre muore all' Hospital de Clinicas alle 8.30 tra le mani dei medici che hanno cercato, inutilmente, di rianimarlo. Per adesso il pm Sergio Colaiocco, già titolare del caso dell' assassinio di Giulio Regeni, ha aperto un fascicolo per omicidio preterintenzionale. Un reato che punisce i responsabili di un' aggressione fisica che hanno cagionato la morte di una persona pur senza volerla. L' esempio classico è quello che ha riguardato Stefano Cucchi. Il geometra romano picchiato da due carabinieri. Il violento pestaggio ne determinerà la morte in ospedale dopo una settimana di agonia. Nel processo Cucchi si scatenò una guerra di perizie medico legali per stabilire il nesso di causa tra le percosse e il decesso. Per questo motivo l' autopsia in Italia a Luca Ventre sarà determinante per scoprire il motivo per cui è morto. I familiari del ragazzo temono che la fine del loro caro possa essere attribuita genericamente a un mix di farmaci che i medici avrebbero iniettato al ragazzo per cercare di rianimarlo. Una simile tragica fine solleverebbe da ogni responsabilità l' ambasciata italiana a Montevideo dove è avvenuto il violento placcaggio. Qualora invece dovesse emergere il soffocamento come causa, anche in concorso, della morte del 35enne le cose cambierebbero di molto. La posta in palio sulle eventuali responsabilità sarebbe molto elevata e tirerebbe in ballo la stessa sede diplomatica. Per questo motivo la famiglia non si fida del tutto della imparzialità delle autorità italiane di Montevideo.
L'APPELLO. Ecco allora che la madre di Luca Ventre, Palma Rosetti, lancia un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Nel giorno in cui si ricorda l' assassinio di Giulio Regeni e si critica l' Egitto per la poca trasparenza, mi auguro che le nostre autorità si comportino con il caso di mio figlio con il massimo rigore e mi appello al Capo dello Stato affinché monitori questa vicenda. Faccio presente - sottolinea la donna - che una serie di quesiti presentati alla nostra ambasciata a Montevideo sono rimasti inevasi: perché c' era un poliziotto uruguaiano all' interno dell' ambasciata? Siamo ancora in attesa che ci consegnino i 10 minuti di video che ancora mancano. Preciso che gli altri filmati li abbiamo avuti senza che ci venissero dati dalle autorità italiane. E infine come ha fatto l' ambasciata (emerge da il comunicato stampa del due gennaio) a dare per certo che il decesso di Luca sia avvenuto in ospedale, in mancanza di un' autopsia che ne accerti il momento e la causa? Io chiedo solo la verità», conclude la madre.
Clemente Pistilli per repubblica.it il 27 gennaio 2021. Qualcuno in Uruguay voleva rapire Luca Ventre. Questa a quanto pare la ragione per cui l'imprenditore, terrorizzato, voleva tornare subito in Italia e il giorno di Capodanno ha saltato il muro dell'ambasciata italiana a Montevideo chiedendo aiuto, ma è stato bloccato a terra per 22 minuti da un poliziotto uruguayano che gli ha tenuto un braccio premuto contro il collo ed è morto. Ignoti tra l'altro da almeno due mesi controllavano ogni mossa della vittima, sul cui cellulare era stata inserita un'applicazione spia. Sono questi gli ultimi particolari emersi su un caso su cui sta indagando la magistratura italiana e su cui ha aperto un'inchiesta anche la Procura della Repubblica di Roma, delegando le indagini ai carabinieri del Ros. Dopo aver trascorso otto anni in Uruguay e aver avviato diverse attività imprenditoriali, riuscendo a fare nel Paese latinoamericano una vita agiata, Luca Ventre voleva rientrare a Vicenza. Aveva parlato con la madre, tornata in Italia nel 2018, con il fratello Fabrizio e con il padre Mario, che è ancora in Uruguay. La relazione con una 49enne del posto, da cui sette mesi fa aveva avuto una figlia, non andava, non aveva amici in America Latina e voleva riunirsi alla sua famiglia. Progetti rallentati dall'emergenza Covid, ma tra il 29 e il 30 dicembre il 35enne aveva detto ai suoi familiari che rientrare era diventato per lui una necessità impellente perché era minacciato. Emerge ora che aveva parlato di qualcuno che voleva sequestrarlo e, come gli avevano consigliato i familiari, aveva anche presentato una denuncia contro ignoti alla polizia. Sarebbe stata questa la ragione che lo ha spinto, alle 7 dell'1 gennaio, a suonare al citofono dell'ambasciata italiana a Montevideo e, non ricevendo risposta e ignorando che nel giorno di festa gli uffici erano deserti, a saltare il muro di recinzione chiedendo aiuto. Lo stesso poliziotto che, come si nota dai video delle telecamere di sorveglianza, lo blocca a terra e gli tiene un braccio premuto sul collo fino a che l'imprenditore non si muove più, interrogato dagli inquirenti uruguayani ha detto: "Vale la pena ricordare che detto uomo si è presentato chiedendo aiuto e aggiungendo che lo avrebbero ucciso". Un italiano che rischiava la vita anziché ricevere aiuto dall'Ambasciata è stato dunque soffocato come George Floyd negli Usa e portato ormai privo di vita o comunque agonizzante in ospedale, dove meno di un'ora dopo i medici hanno constatato il decesso? I familiari di Luca Ventre pensano che le cose siano andate esattamente così e chiedono giustizia. A confermare il sospetto che effettivamente qualcuno intendesse fare del male al 35enne è poi stato scoperto che nel suo cellulare, a partire almeno da ottobre, era stata inserita un'App spia e un gran numero di dati venivano trasmessi ad alcuni numeri di telefono, a misteriose persone che sapevano in tal modo esattamente con chi avesse parlato l'imprenditore al telefono e cosa avesse scritto nei messaggi. "Abbiamo chiesto copia della denuncia presentata da Luca al commissariato in Uruguay e per quanto riguarda il telefono spiato attendiamo a breve tutto il materiale per poter far compiere una consulenza e scoprire così a chi arrivavano i dati di mio fratello", assicura Fabrizio Ventre. Un mistero sempre più fitto.
Da repubblica.it il 2 febbraio 2021. Luca Ventre, l'imprenditore di 35 anni morto il primo gennaio scorso a Montevideo, in Uruguay, era ancora vivo quando, dopo aver scavalcato il cancello dell'ambasciata italiana ed essere stato immobilizzato per più di venti minuti da un addetto alla vigilanza, fu portato in stato di incoscienza al pronto soccorso della capitale. La circostanza è stata resa nota dalle autorità della Fiscalìa di Montevideo al pm di Roma Sergio Colaiocco nel corso di un vertice organizzato ieri in videoconferenza per fare il punto della situazione. I magistrati uruguayani, che procedono ipotizzando a carico di ignoti una fattispecie di reato colposa, sostengono infatti di essere in possesso di altri video che proverebbero che Ventre fosse ancora in vita al momento di essere affidato ai medici. La salma di Ventre, che la procura di Roma vorrebbe a disposizione quanto prima per poter eseguire l'autopsia, non sarà per il momento consegnata al nostro Paese. La fiscalìa deve completare gli accertamenti medico-legali e tossicologici che richiedono altro tempo: il sospetto di chi indaga in Uruguay è che Ventre sia deceduto per un mix di cocaina (che avrebbe assunto in ingente quantità nei giorni che hanno preceduto la morte) e farmaci che gli sarebbero stati dati al pronto soccorso. A peggiorare il quadro - secondo le indagini svolte dalla magistratura uruguayana - anche le già precarie condizioni di salute dell'uomo che aveva problemi di natura cardiaca. La procura di Roma, che avrà un prossimo incontro a distanza con gli omologhi di Montevideo entro un paio di settimane, ha per ora ipotizzato il reato di omicidio preterintenzionale a carico di ignoti, affidando al Ros una serie di accertamenti. I video al momento a disposizione dei nostri investigatori riprendono Ventre saltare dopo le 7 del primo gennaio il muro della rappresentanza diplomatica italiana per parlare con un funzionario al quale chiedere aiuto per essere rimpatriato: temeva di essere sequestrato. L'uomo, come testimoniano i filmati delle telecamere di sorveglianza, viene immobilizzato da due della sicurezza e tenuto a terra per 22 minuti, in particolare, da un vigilante che gli preme un braccio contro il collo fino a quando Ventre sembra non muoversi più. Da lì a poco il trasferimento in ospedale, distante appena 4 chilometri, e la dichiarazione di avvenuto decesso alle 8.30. Per la famiglia, Ventre è morto in ambasciata come conseguenza del placcaggio. La Fiscalìa dice di no.
Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 3 febbraio 2021. Luca Ventre, 35 anni, sarebbe morto il primo gennaio per un mix di farmaci durante la rianimazione all'Hospital de Clinicas a Montevideo. Un decesso determinato da problemi cardiaci e dal fatto che l'uomo era un assuntore di cocaina. Questa la versione offerta dalla procura uruguaiana, che per adesso non autorizza il rilascio della salma alle autorità italiane perché venga realizzata a Roma una nuova autopsia. Nel frattempo gli inquirenti sudamericani sarebbero arrivati alle loro conclusioni in virtù dei risultati preliminari medico legali. L'indagine dei pm locali è per omicidio colposo, perciò verrebbero investiti, in parte, della responsabilità del decesso del 35enne gli stessi dottori che hanno cercato di salvargli la vita quando è arrivato in condizioni critiche al pronto soccorso. Un'altra quota di responsabilità sarebbe da attribuire al cuore malandato del giovane e all'abuso di sostanze. Una versione che non convince la famiglia Ventre. Il fratello Fabrizio chiede che la salma venga portata al più presto a Roma per essere sottoposta a un'autopsia in Italia. «A questo punto non ci fidiamo», accusa. «Scopriamo solo oggi che Luca aveva problemi cardiaci. Non lo sapevamo». Dai radar degli inquirenti sudamericani sembra quindi uscire il poliziotto che all'interno dell'ambasciata italiana aveva aggredito il 35enne. Diverso, per adesso, è l'impianto accusatorio del pm Sergio Colaiocco. Il magistrato della procura capitolina ha aperto un fascicolo per omicidio preterintenzionale, al momento contro ignoti. Un reato che punisce i responsabili di un'aggressione fisica che hanno cagionato la morte di una persona pur senza volerla. Una impostazione che lascia aperta la strada ad una eventuale accusa dell'agente sudamericano. Ovviamente gli inquirenti italiani attendono che il corpo sia sottoposto ad un'autopsia a Roma. «Per quanto ci riguarda - spiega il fratello - Luca è morto in ambasciata. Basta visionare i video del sistema di videosorveglianza: quando viene portato via dalla sede diplomatica, trascinato a peso morto e quando entra in ospedale. Inoltre chi ci dice che non sia deceduto in ospedale come conseguenza dell'aggressione? Spero che nessuno voglia insabbiare il caso. Combatteremo per ottenere verità e giustizia». Il 35enne è morto in Uruguay il primo gennaio a Montevideo. L'uomo era stato placcato energicamente da un vigilantes privato e da un poliziotto uruguaiano dopo che si era introdotto all'interno dell' ambasciata scavalcando il cancello. Era stato bloccato a terra per un totale di 37 minuti alle sette e sette del mattino: venti minuti con il braccio dell'agente uruguaiano che gli cingeva il collo. Una presa che per i familiari del ragazzo ne ha determinato la morte per soffocamento. Gli altri 17 minuti esanime, disteso sul selciato senza muovere un muscolo. Alle sette e quarantaquattro viene prelevato da una volante della polizia. Viene tirato su di peso e portato in ospedale. Dai filmati sembra essere privo di sensi. Durante il tragitto, secondo gli agenti, in auto si sarebbe dimenato. L'ingresso al pronto soccorso sarebbe avvenuto intorno alle otto del mattino. Anche qui le immagini del sistema di videosorveglianza mostrano le condizioni precarie in cui versa Luca Ventre, adagiato sopra una sedia a rotelle, sorretto dagli agenti poiché sembra in ogni momento sul punto di cadere. Dai filmati pare che muova una gamba. Tuttavia è il momento in cui il 35enne varca la soglia il più drammatico: si ribalta con l'intero busto all'indietro con la testa che sfiora il pavimento. Ufficialmente Ventre muore all'Hospital de Clinicas alle 8.30 tra le mani dei medici che hanno cercato, inutilmente, di rianimarlo.
I dubbi sulla morte Luca Ventre, il fratello non ha dubbi: "È stato ucciso in ambasciata". Prosegue il mistero sulla morte di Luca Ventre, il giovane immobilizzato dai vigilantes dell'ambasciata italiana di Montevideo e morto poco dopo in ospedale. La procura uruguaiana parla di problemi di salute, ma i familiari non si fidano. Mauro Indelicato, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. Il corpo di Luca Ventre, il giovane di 35 anni morto dopo essere stato fermato all'interno dell'ambasciata italiana di Montevideo, è ancora in Uruguay. La procura della capitale del Paese sudamericano infatti non ha ancora rilasciato le autorizzazioni per il trasferimento a Roma.
Questo perché i magistrati uruguaiani vorrebbero effettuare altri esami prima di permettere il rientro in Italia della salma. I binari dell'inchiesta attualmente in corso a Montevideo però, non coincidono con le convinzioni della famiglia. Cosa non torna? Luca Ventre trascinato privo di sensi fuori dall'ambasciata. Secondo la procura uruguaiana Luca Ventre era ancora vivo quando è arrivato in ospedale, secondo i familiari invece il ragazzo è rimasto vittima del placcaggio effettuato nei suoi confronti dai vigilantes. Il fatto è risalente al primo giorno dell'anno. Luca Ventre alle ore 7:07, così come riscontrabile dal video delle camere di sorveglianza, ha scavalcato il muro di cinta attorno l'ambasciata. Il suo obiettivo era parlare a tutti i costi con un funzionario in quanto avrebbe voluto essere rimpatriato in breve tempo a tutti i costi. Non appena entrato nel perimetro della nostra sede diplomatica, due vigilantes lo hanno subito bloccato. Luca Ventre è stato prima fatto inginocchiare, subito dopo immobilizzato con la faccia rivolta verso terra. Uno dei due guardiani dell'ambasciata lo ha anche afferrato per il collo, salendogli poi sopra. Una posizione che il vigilantes ha mantenuto, stando sempre all'orario delle telecamere, fino alle 7:40. Orari peraltro che a volte "saltano", alimentando maggior confusione nella ricostruzione: sia all'inizio e sia poco prima dell'apertura del cancello, il timer ha improvvisamente segnato orari diversi. Quando infatti Luca Ventre ha iniziato ad arrampicarsi sul muro dell'ambasciata, l'orologio è passato repentinamente dalle 7:04 alle 7:14, mentre alle 7:40 per alcuni secondi l'orario segnalato è quello delle 7:30. A quel punto, Luca Ventre è apparso privo di sensi. Alle 7:44 il cancello dell'ambasciata si è aperto per far entrare due poliziotti, i quali hanno portato via il ragazzo di peso in quanto impossibilitato da solo nel reggersi in piedi. Del resto, come risulta sempre dalle immagini, il trentacinquenne risultava immobile già dalle 7:18. L'Hospital de Clinica, distante appena 4 km dalla sede diplomatica italiana, è il nosocomio in cui Ventre è stato portato. Secondo i magistrati uruguaiani, in questa fase il ragazzo è ancora vivo. Le telecamere di sorveglianza dell'ospedale hanno mostrato il suo arrivo al Pronto Soccorso poco dopo le 8:00. Mezz'ora dopo, stando ai referti dei medici, Luca Ventre è deceduto dopo diversi tentativi di rianimazione.
Il mistero sui referti. I risultati delle prime indagini medico legali, avrebbero attribuito la morte a un problema cardiaco del ragazzo. Non solo: sembra che la vittima negli ultimi tempi assumesse frequentemente sostanze tossicodipendenti. Proprio il mix di cocaina con i farmaci somministrati in ospedale, sarebbe da considerare per gli inquirenti di Montevideo la prima causa per il decesso di Luca Ventre. Per questo la locale procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Con i fari puntati soprattutto sui medici che lo hanno visitato per primi: dal referto emerso dal Pronto Soccorso dell'Hospital de Clinica, a Luca Ventre sarebbero stati somministrati il midazolam e l'haloperidol. Si tratta di due farmaci che, su un soggetto debole, possono portare all'arresto cardiaco. Cosa poi ufficialmente avvenuta alle ore 8:30. Anche sui referti comunque non sembra esserci chiarezza: secondo quanto riportato da FanPage.it, ne sarebbero saltati fuori almeno tre.
I dubbi sul luogo della morte. Ma dall'Italia i familiari non ci stanno. Nessuno di loro, hanno fatto sapere a IlMessaggero, era a conoscenza di malattie cardiache. Inoltre, il nodo delle indagini sta tutto nei video registrati dalle telecamere in ospedale. Lì Luca Ventre sarebbe stato fatto entrare in sedia a rotelle. Il sospetto però è che in quell'istante il giovane fosse già privo di vita, in quanto per rimanere seduto sulla carrozzella deve essere sorretto dagli agenti. “Noi a questo punto non ci fidiamo – è lo sfogo del fratello Fabrizio rilasciato al giornalista Giuseppe Scarpa – Per quanto ci riguarda, Luca è morto in ambasciata”. A Roma la procura ha aperto un fascicolo seguito da Sergio Colaiocco, il magistrato che sta indagando tra le altre cose anche sul caso Regeni. L'inchiesta aperta dalla procura capitolina è per omicidio preterintenzionale, un reato perseguito contro chi ha attuato un'aggressione fisica in grado di cagionare la morte di una persona pur senza volerla. Al momento l'inchiesta è contro ignoti, ma ben si intuisce come la strada percorsa a Roma è ben diversa da quella dei magistrati di Montevideo. Decisivo sarà comunque il rientro della salma di Luca Ventre. In tal modo anche in Italia potranno essere fatti tutti gli esami e gli accertamenti del caso. Il rientro però per il momento è slittato. E non sembra esserci una data di riferimento in tal senso.
· Il mistero di Claudia Lepore, l’italiana uccisa ai Caraibi.
Da leggo.it il 3 febbraio 2021. «Nonostante le diffide e l'impegno di tutti, dalla famiglia della vittima ai legali, dall'Ambasciata Italiana a Santo Domingo fino all'agenzia Terracielo - incaricata delle esequie -, teso a preservare il corpo, in attesa del rientro in Italia per poter procedere a nuovo esame autoptico, il corpo già straziato di Claudia Lepore è stato imbalsamato». Lo rendono noto i legali della famiglia della 59enne barbaramente uccisa a Santo Domingo che si dicono «sgomenti». L'iniziativa - riferiscono - «è stata assunta da un'altra impresa incaricata della custodia del cadavere a Santo Domingo che aveva proceduto in tal senso subito dopo l'esame autoptico eseguito dalle autorità medico-legali dominicane». Le ragioni sarebbero da ricercare «in riferite norme di polizia mortuaria locale». Aimi e Giusti spiegano «di aver comunicato alla Procura della Repubblica di Roma come, a questo punto, risulterebbe assolutamente superfluo qualsiasi esame sulla salma. Il pm ha pertanto concesso l'autorizzazione alla cremazione, richiesta, a questo punto, proprio dai familiari». «Le ceneri di Claudia Lepore - concludono i due legali - rientreranno dunque al più presto in Italia, per poter celebrare le esequie».
Claudia, l’italiana uccisa ai Caraibi e messa in un frigo: il sicario (pagato 3 mila euro) accusa l’amica della vittima. Claudia Lepore, l’italiana uccisa a Santo Domingo: il sicario accusa l’amica della vittima. Valentina Lanzilli su Il Corriere della Sera il 24/1/2021. Modenese, 59 anni, trovata senza vita a Punta Cana, Repubblica Dominicana.La sorella: «Di recente al telefono mi aveva detto che qualcosa non andava e che non era tranquilla». «Stavo facendo fisioterapia quando mi è arrivata una chiamata, era un’amica di mia sorella che mi ha detto di tornare a casa il prima possibile perché mi voleva parlare di persona. In quel momento ho capito tutto». È sconvolta Anna Lepore, sorella di Claudia, trovata senza vita mercoledì mattina a Bavaro, nel distretto di Punta Cana, nella parte orientale della Repubblica Dominicana. Avrebbe compiuto 59 anni il prossimo 18 marzo invece è stata uccisa e ritrovata alcuni giorni dopo all’interno di un frigorifero. «Mentre l’amica di mia sorella mi parlava sentivo il cuore che si spezzava, avevo già capito tutto. Non meritava questa fine, io adesso voglio giustizia» racconta Anna, che in queste ore sta cercando con difficoltà di mettersi in contatto con l’ambasciata per avere notizie ufficiali sulle indagini e sul rientro della salma in Italia. Le informazioni al momento sono frammentarie e poco chiare. Per l’omicidio è stato arrestato un uomo e, secondo le indagini, come riportato dalla stampa domenicana, il movente sarebbe economico. L’uomo finito in carcere si chiama Antonio Lantigua, detto «El Chino» e ha 46 anni: sarebbe stato «assoldato» da qualcuno per compiere l’omicidio dietro il pagamento di 200 mila pesos (equivalente a poco meno di tremila euro). Sono state trattenute anche altre due persone, l’immobiliarista Jacopo Capasso, e Ilaria Benati, la donna modenese con la quale la vittima aveva avviato il Bed&Breakfast «Villa Corazon» nel 2009. Sarebbe stata proprio lei a denunciare la scomparsa dell’ex amica ed ex socia. Dopo alcuni screzi ed incomprensioni le due infatti avevano preso strade diverse e Claudia dopo aver lasciato l’albergo aveva acquistato un ristorante in riva al mare che poi aveva venduto. Pare però che nell’ultimo periodo le due, nonostante i dissapori, si fossero riavvicinate. Claudia era tornata a Carpi a giugno e aveva passato l’estate in Italia per poi rientrare nella città caraibica lo scorso settembre. Aveva comprato un terreno dove aveva costruito la sua casa, anche se nelle ultime settimane aveva detto di dover sistemare diverse cose. La sua intenzione era di rientrare definitivamente in Italia, anche per passare del tempo con la madre 81enne. «Su quel terreno stava costruendo una villetta» racconta la sorella. «Ci siamo sentite dieci giorni fa in videochiamata per il giorno del mio compleanno. Mentre parlavamo si era alzata e mi faceva vedere le varie stanze che pian piano prendevano forma, era felice. Diceva che era riuscita a trovare un pavimento uguale al mio e questo la faceva sentire a casa. Era una brava ragazza, sempre sorridente, cercava solo l’amore. In una delle ultime chiamate mi aveva detto che c’era qualcosa che non andava e che non era tranquilla. Diceva che non stava bene, ma non ho avuto il modo di approfondire purtroppo». Una vicenda terribile, con molti aspetti ancora da chiarire. In queste ore le autorità domenicane stanno ascoltando la versione dell’amica Ilaria Benati, che in un’intervista viene esplicitamente chiamata in causa dal presunto esecutore materiale dell’omicidio. Intanto a Carpi la comunità incredula si stringe alla famiglia di Claudia, che per anni aveva gestito un bar nella città dei Pio prima di venderlo per andare a cercare fortuna nella città caraibica, dove però ha trovato la morte.
Franco Giubilei per "La Stampa" il 24 gennaio 2021. Aveva paura Claudia Lepore, la donna di 59 anni violentata e assassinata a Santo Domingo, dove viveva da più di dieci anni dopo essersi trasferita da Carpi. Lo aveva riferito alla sorella Anna Lepore un'amica comune, che aveva parlato con la vittima sentendosi raccontare anche le discussioni che aveva con un'altra amica, ex socia di Claudia in un B&B avviato insiene nell'isola caraibica: «Ci siamo sentite lo scorso 10 gennaio - ha detto la sorella all'Ansa -. Una videochiamata di famiglia in occasione del mio compleanno. Ci ha fatto vedere la sua casa nuova, era contenta. Mi ero ripromessa di chiamarla, ma ormai è tardi». Era da un mese che la donna abitava da sola nella villetta che si era fatta costruire su un terreno acquistato appositamente: «Dopo averla sentita, un'amica comune mi ha detto che Claudia discuteva spesso con l'amica Ilaria Benati e che aveva paura». Un delitto, quello maturato nella zona residenziale di Bavaro, le cui certezze si limitano al suo autore, il 46enne Antonio Lantigua detto «El Chino», che ha confessatodi averla uccisa dopo essersi tradito in una chat in cui ammetteva la sua responsabilità e il movente: «L'ho uccisa per 200mila pesos (poco meno di tremila euro, ndr)». In un altro messaggio trovato dalla polizia dominicana nel cellulare dell'uomo, ci sono frasi minacciose rivolte stavolta a Ilaria Benati, l'altra titolare del bed and breakfast Villa Corazon aperto con la vittima all'inizio della loro permanenza a Santo Domingo: «Pagami i 200mila pesos Se non mi paghi ti succederà la stessa cosa, ti ammazzo». Parole che sembrano sollevare dubbi sul ruolo dell'amica nell'eliminazione della donna carpigiana, anche se la prima a rivolgersi alla polizia per denunciarne la scomparsa è stata proprio Benati, la quale sostiene però di essere stata incastrata dall'omicida. Secondo l'arrestato, ci sarebbe di mezzo anche un altro italiano, su ruolo e identità del quale sono in corso accertamenti da parte delle autorità locali. I particolari del ritrovamento del cadavere rendono la vicenda, già di per sé oscura, anche più sinistra: il corpo legato e imbavagliato era in un frigorifero, ma non finisce qui, perché stando a una prima ricostruzione la donna sarebbe stata ancora viva quando è stata rinchiusa. La morte, se fosse andata così, sarebbe sopraggiunta per assideramento, dopo che l'uomo l'aveva strangolata. L'assassino, che prima di ucciderla l'ha anche violentata, le avrebbe sottratto del denaro speso di lì a poco fra gioco d'azzardo, cibo e alcol. Sotto la lente degli inquirenti ci sono anche i rapporti fra la vittima e la sua ex socia nel B&B. Modenese pure lei, aveva avuto contrasti di natura economica con Lepore che avevano incrinato il loro legame durante il periodo di cogestione del bed and breakfast, tanto che Lepore aveva cominciato un'altra attività per conto proprio. Negli ultimi tempi, tuttavia, le due donne si sarebbero riavvicinate. Claudia Lepore era ben conosciuta a Carpi, dove aveva gestito il bar Bel Ami prima di cambiare vita e di tentare la fortuna Oltreoceano. L'isola ai Caraibi, nei progetti della donna, non doveva comunque essere la scelta definitiva: Claudia aveva trascorso gran parte del 2019 a Carpi e solo a gennaio dell'anno scorso era tornata a Santo Domingo, per sistemare gli ultimi affari e fare poi ritorno definitivamente in Italia. Lo strano delitto che ne ha spezzato i piani per il futuro e la vita stessa ha lati oscuri come l'ipotesi dell'omicidio su commissione, al prezzo di 200mila pesos - chi ha pagato e perché restano un mistero -, oltre alla questione di soldi che nel racconto del «Chino» ha scatenato la sua furia. L'idea dei suoi familiari è che la donna sia stata ammazzata perché aveva visto o sentito qualcosa per cui è stata messa a tacere per sempre.
Italiana uccisa ai Caraibi e nascosta nel frigorifero. Sull'amica l'ombra di un sms. Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 23 gennaio 2021. Il killer all’altra donna: “Paga o ti ammazzo”. E la fa arrestare. Poi ritratta. È giallo. L’ha violentata, strangolata e, ancora legata e imbavagliata, chiusa in un frigorifero. È stata uccisa così Claudia Lepore, 59 anni, residente a Santo Domingo ma originaria di Carpi (Modena). A confessare l’omicidio Antonio Lantigua, 46 anni, detto “El Chino”, capomastro che stava costruendo la casa di lei su un terreno acquistato di recente. Alla radice del delitto una questione di soldi, anche se gli investigatori stanno cercando di capire se nella vicenda siano coinvolti altri due italiani, amici della donna. Mentre l’esecutore materiale è in carcere, nell’indagine sono infatti finiti Ilaria Benati (ai domiciliari) e Jacopo Capasso. A tirare in ballo gli amici di Lepore, lo stesso assassino che ha fornito diverse versioni sui fatti e inviato un ambiguo sms all’amica della vittima: “Se non mi paghi ti succederà la stessa cosa, ti ammazzo”. L’omicidio sarebbe avvenuto lunedì sera. Lantigua, dopo aver ucciso l’italiana, ruba in casa tutto quello che può, compresa l’auto con cui scappa. Per tre giorni vaga per i locali dell’isola dove mangia, beve e gioca ai dadi fino a perdere tutto. Venerdì si costituisce dicendo che ha ucciso per 200mila pesos (tremila euro) su commissione. Sul suo cellulare gli investigatori trovano il messaggio mandato il giorno prima a Benati. Ma in carcere l’omicida cambia versione e racconta di aver assassinato la donna al culmine di una lite. La storia che raccontano l’amica e Capasso è diversa. Ilaria e Caudia sono amiche da sempre e insieme sono partite da Modena verso i Caraibi per cambiare vita. Arrivate nel 2010 lavorano assieme al B&b “Villa Corazon”, fino al 2016 quando i rapporti s’incrinano e Claudia apre da sola un bar sulla spiaggia. Di recente, però, le due si erano riappacificate al punto che, quando lo scorso anno Claudia torna in Italia per qualche mese, è l’amica a controllare il cantiere della nuova casa. A gennaio il rientro della vittima e i problemi col capomastro per i lavori forse svolti male. Martedì Ilaria, che abita vicino, nota l’assenza dell’amica. Inizia la ricerca assieme a Capasso e mercoledì sporgono denuncia. Da qui il ritrovamento del corpo e l’arresto di Lantigua. Benati spiega che l’sms era forse una minaccia del muratore che pretendeva di essere pagato da lei. Anna Lepore, sorella di Claudia, qualche dubbio ce l’ha: «L’ho sentita il 10 gennaio, era felice per la nuova casa, ma un’amica comune mi ha detto che discuteva spesso con Ilaria e che aveva paura». Obetta Brunetti, nonna di Ilaria, è convinta invece dell’innocenza della nipote: «Non avevano interessi economici in comune o altre ragioni di contrasto, le aveva trovato lei il terreno per la casa».
· Il Giallo dei napoletani scomparsi in Messico.
Quei tre italiani rapiti dalla polizia e venduti ai narcos. Per soli 41 euro Raffaele Russo, il figlio Antonio e il nipote Vincenzo Cimmino furono fatti sparire da agenti corrotti. Tre sono stati condannati, uno in fuga. Fausto Biloslavo - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Tre italiani sono scomparsi nel nulla in Messico, il 31 gennaio 2018. Raffaele Russo, 60 anni, il figlio Antonio e il nipote Vincenzo Cimmino venivano tutti da Napoli in cerca di un futuro migliore. Non sono stati ancora ritrovati, ma venerdì un tribunale messicano ha condannato a 50 anni di carcere un pugno di agenti di polizia corrotti, che li ha sequestrati e consegnati ai narcos per soli mille pesos a testa, l'equivalente di 41,63 euro. Una storia terribile e dimenticata da tutti. Scomparsi di serie B con tanto di boss fantasma e colpi di scena. All'ultima udienza del processo una poliziotta coinvolta è fuggita dal tribunale come in un film sui gangster di Hollywood. «Sì, sono scomparsi di serie B! In questi tre anni nessun esponente politico, a parte il presidente della Camera, Roberto Fico, ci ha messo la faccia o ne ha parlato in tv. Anzi è come se tutti evitassero il caso. Altri connazionali però sono stati tutelati molto diversamente, a volte pagando riscatti, ma della mia famiglia non ne parla nessuno», sbotta Francesco Russo, figlio di Raffaele. I tre scomparsi erano venditori ambulanti non volontari delle Ong, giornalisti o studenti come Giulio Regeni finiti male in terra straniera. L'Italia si sta preoccupando ben più di Patrick Zaki, in carcere al Cairo come oppositore, che ha studiato a Bologna, ma è cittadino egiziano. Adesso che la famiglia ha raggiunto un primo tassello di giustizia, il Giornale racconta la tragica storia. All'inizio si era parlato, falsamente, di sgarri nel mondo della droga e della malavita organizzata, ma in realtà i napoletani volevano solo vendere merci regolari. E forse per questo hanno dato fastidio a uno dei cartelli criminali più sanguinario del Messico. L'avvocato della famiglia, Claudio Falleti, non ha mai mollato e ha sempre denunciato «uno scandalo internazionale, dove a consegnare tre italiani a un gruppo di criminali è stata la polizia locale sul libro paga dei narcos». Il 31 gennaio 2018, Raffaele Russo usciva di casa alle tre del pomeriggio per sparire nel nulla tra le strade di Tecalitlan nello stato di Jalisco. Una cittadina di 16mila abitanti, a circa 600 chilometri a ovest di Città del Messico. Preoccupati per il silenzio del familiare e per il cellulare staccato, figlio e nipote sono corsi a cercarlo, anche se erano arrivati nel paese appena da cinque giorni. E pure loro vengono inghiottiti nel nulla. Prima di sparire Antonio Russo riesce a mandare un audio messaggio via whatsapp, fatto sentire nell'aula di tribunale. «Stavamo facendo benzina qui sotto al distributore la polizia... la polizia, due moto della polizia - dice lo scomparso - Adesso stiamo andando dietro alla polizia, uno con la moto ci ha detto venite dietro di noi!, una macchina dietro». Si sente anche la voce di Vincenzo Cimmino, che allarmato conferma: «Ci ha preso la polizia». Francesco Russo allora era pure in Messico e in tribunale ha raccontato «della telefonata al comando di polizia per sapere di papà. La centralinista mi rispose che avevano fermato Enzo e Antonio. Pensavo che la polizia volesse aiutarli nelle ricerche. Quando richiamai, la stessa persona ha negato tutto sostenendo che non sapeva niente degli italiani e che non aveva mai detto che erano stati fermati». A lungo si è cercato di insabbiare e depistare, ma l'avvocato Falleti si è rivolto anche all'Onu per ottenere giustizia. «Una battaglia che abbiamo condotto da soli avvertendo il distacco delle istituzioni», sottolinea il legale. Nell'ultimo anno, però, l'ambasciata italiana in Messico è intervenuta arrivando finalmente al processo iniziato il 22 marzo. Quattro poliziotti sono stati arrestati, ma uno è morto in carcere. Alla sbarra sono finiti Salomon Adrian Ramos Silva, Emilio Martines Garcia e la centralinista Lidia Guadalupe Arroyo. In aula Francesco ha chiesto «che sia fatta giustizia. Vogliamo la verità, ma soprattutto chiediamo agli imputati di farci sapere dov'è la nostra famiglia. Se fosse accaduto qualcosa dateci la possibilità di ritrovare i corpi. Da tre anni ci sono madri, mogli e figli nella totale disperazione». I poliziotti corrotti hanno venduto i tre italiani per poche decine di euro al cartello della Jalisco Nueva Generacion. Su una strada di montagna Antonio e Vincenzo venivano consegnati a «Don Angel», un tagliagole tarchiato con un Suv rosso e un dente di platino, che ancora oggi non è stato identificato con certezza. Anche il capofamiglia, Raffaele, scomparso per primo, era finito nelle grinfie di Don Angel. Nel luglio 2018 venivano ritrovate le automobili noleggiate dai connazionali scomparsi e sul cellulare di un sindaco assassinato dei file audio con la voce di Jose Guadalupe Rodriguez Castillo alias, «El Quince», il capo del cartello dei narcos. Il criminale aveva ricevuto la comunicazione che tre italiani di cognome Russo erano stati catturati dalla polizia. «Fatene ciò che ne ritenete più opportuno», è stato il tragico ordine impartito, che ha segnato la scomparsa dei napoletani. «El Quince» è stato arrestato, ma poi, inspiegabilmente rilasciato dalla prigione di Puente Grande. Nell'agosto dello scorso anno è trapelata la notizia che il boss sia stato ucciso da una granata in un regolamento di conti interno al gruppo, «anche se il corpo non è stato ritrovato - spiega l'avvocato -. Potrebbe essere tutta una messa in scena per sfuggire alla giustizia messicana». L'ultimo colpo di scena è la fuga della centralinista il primo aprile, data dell'udienza prima della condanna. Lidia Guadalupe Lopez, ha approfittato di una pausa del processo per allontanarsi dal tribunale facendo perdere le tracce. La donna ora è ricercata, ma il 9 aprile tutti i poliziotti coinvolti nella vicenda sono stati condannati a una pena di 50 anni di carcere e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Un atto di giustizia, non definitivo perché bisogna ancora trovare i corpi dei tre italiani scomparsi e dimenticati.
Fulvio Bufi per corriere.it il 4 aprile 2021. Due agenti della polizia municipale di Tecalitlan, cittadina messicana della regione di Jalisco, sono stati condannati per la scomparsa dei cittadini italiani Raffaele Russo, Antonio Russo e Vincenzo Cimmino, dei quali non si hanno più tracce dalla fine di gennaio del 2018. Nel processo era imputata anche un’altra poliziotta, che però, trovandosi in stato di libertà, si è allontanata dal tribunale prima della fine dell’ultima udienza e si è resa irreperibile. Ora è ricercata ma poiché in Messico la legge non prevede che siano emesse sentenze in contumacia, i giudici hanno dovuto stralciare la sua posizione. Quando verrà catturata, il tribunale si esprimerà anche nei suoi confronti.
Corpi mai trovati. Giunge quindi a una prima verità giudiziaria la vicenda dei tre italiani - tutti di Napoli e imparentati tra loro - che erano andati in Messico per vendere generatori elettrici di fabbricazione cinese e di scarso valore, e non sono più tornati a casa, né si è mai saputo nulla della loro sorte. Mai ritrovati i loro corpi, ma dal lavoro investigativo portato avanti dalla «fiscalia» (l’ufficio giudiziario corrispondente alla nostra Procura) di Jalisco emerge con chiarezza che a decidere la sparizione di Raffaele Russo, 60 anni, suo figlio Antonio (25) e il nipote Vincenzo (29) fu il cartello criminale denominato Jalisco Nueva Generation, attualmente il più potente nel narcotraffico, e che i poliziotti incriminati avrebbero svolto soltanto un compito di manovalanza. Oltre ai due condannati e alla donna latitante, fu arrestato anche un altro agente, che però è morto in carcere prima che iniziasse il processo. Incriminati, ma mai arrestati perché avevano già fatto perdere le proprie tracce, anche tre loro colleghi e il capo della stazione di polizia di Jalisco all’epoca dei fatti.
L’audio inviato alla famiglia. La mattina del 31 gennaio del 2018, Raffaele Russo uscì da solo per incontrare qualcuno, ma non disse al figlio, al nipote e all’altro figlio , Francesco, l’unico riuscito a tornare a Napoli, con chi avesse appuntamento. Dopo alcune ore, non avendo più sue notizie e non riuscendo a rintracciarlo telefonicamente, Antonio e Vincenzo si misero alla sua ricerca. Cominciarono a chiedere in giro, e nei pressi di una stazione di servizio furono fermati da alcuni poliziotti che gli imposero di seguirli. Furono gli stessi ragazzi napoletani a raccontare quello che stava accadendo in un messaggio audio inviato ai loro familiari in Italia. Un messaggio che ha poi consentito agli investigatori messicani d ricostruire le responsabilità della polizia municipale di Tecalitlan e di individuare gli agenti che fermarono Antonio Russo e Vincenzo Cimmino e quelli che li aiutarono, tra i quali l’agente donna, che quel giorno lavorava al centralino della stazione e gestì le comunicazioni in modo da coprire i colleghi.
Il cartello del narcotraffico. Dopo l’arresto i poliziotti hanno confessato di aver ceduto i rapiti al boss del cartello di Jaslisco, Josè Guadalupe Rodriguez Castillo, detto el Quince o don Lupe, che li avrebbe ricompensati pagando per ognuno dei napoletani una cifra pari a 43 euro. Perché il boss volesse la loro sparizione, però, non si sa. Si ipotizza che possa essersi trattato di una punizione per una truffa collegata proprio alla vendita dei generatori, ma non c’è nessuna certezza. E non sarà sicuramente el Quince a rivelare la verità. Ricoverato in ospedale dopo essere stato ferito in una sparatoria, il boss è stato portato via dai suoi uomini che hanno poi diffuso la notizia che fosse morto. Ma gli investigatori nutrono molti dubbi in proposito, e sospettano che il capo dei narcos stia soltanto cercando di far allentare la pressione nei suoi confronti e di cambiare identità per continuare a gestire meglio i suoi affari. Restano quindi solo le responsabilità dei poliziotti, che in tribunale hanno provato a ritrattare le confessioni sostenendo che furono estorte con la forza. Ma i giudici non gli hanno creduto, e tra pochi giorni si conoscerà anche l’entità della condanna, perché in Messico è prassi che sentenza e pena inflitta non vengano comunicate contestualmente. Per il reato di cui gli agenti erano accusati, sparizione forzata, sono previsti tra i quaranta e i sessant’anni di carcere.
Scomparsi da 3 anni, c'è un processo in corso contro la polizia: "Ma Di Maio ha archiviato il caso". Napoletani spariti in Messico, familiari contro Di Maio: “Mai sentito da Ministro. Per lui non ci sono più italiani rapiti”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. “Anche i miei familiari sono italiani perché vengono trattati come cittadini di serie B? Non è possibile che da quando Luigi Di Maio è diventato ministro degli Esteri, nel settembre 2019, non si è mai occupato della vicenda. Non ha mai risposto ai nostri appelli, praticamente non l’abbiamo mai sentito”. E’ lo sfogo di Francesco Russo, figlio, fratello e cugino dei tre napoletani scomparsi in Messico a fine gennaio 2018. Da allora di Raffaele Russo, Antonio Russo e Vincenzo Cimmino, residenti in via Vespucci a Napoli, non si hanno più notizie. Ma la speranza di ritrovarli in vita c’è ancora e, soprattutto, è un dovere dello Stato italiano fare tutto il possibile per ritrovarlo. Luigi Di Maio, invece, ha completamente archiviato la questione tanto che in un video diffuso sui social lo scorso dicembre, in occasione dell’annuncio del rientro in Italia di Chico Forti dagli Stati Uniti, affermava sorridente che “come abbiamo fatto per i pescatori, per Silvia Romano e per tante altre persone che quest’anno abbiamo riportato a casa. Non ci sono più rapiti all’esterno di nazionalità italiana in questo momento”. “La nostra speranza – aggiunge – è che siano ancora in vita, almeno fino a prova contraria. Ci sono diversi casi di persone ritrovate dopo sei-sette anni, c’è ancora un processo in corso con le prime udienze in programma a fine febbraio contro i poliziotti accusati di aver venduto i tre napoletani a un cartello messicano”. Il caso dunque non è stato archiviato, almeno per ora, tranne che per Luigi Di Maio e il dicastero che rappresenta. “Da quando è ministro degli Esteri non abbiamo mai avuto contatti con la Farnesina” spiega amareggiato Russo. I suoi familiari erano lì da poco. “Mio padre da diversi mesi, mio cugino da diversi giorni, mio fratello Antonio da due giorni. Erano venditori ambulanti”. Il primo a sparire è stato Raffaele Russo: “Inizialmente è stato rapito mio padre, poche ore dopo Antonio ed Enzo, grazie ai localizzatori Gps delle auto noleggiate, sono andati a cercarlo. Arrivati nei pressi di una stazione dei benzina sono stati affiancati da alcuni poliziotti in moto che hanno chiesto loro di seguirli”. Da allora non ci sono state più notizie. “Ciò che fa male – continua Francesco – è che tutto quello che abbiamo ottenuto dalla Farnesina in questi anni è stato solo grazie a nostre iniziative: fiaccolate, proteste all’esterno del Ministero con mia padre che si incatenò ai cancelli. Solo facendo così siamo stati ricevuti sia da Alfano che da Moavero Milanesi”, i due predecessori di Di Maio che hanno inviato in Messico due loro rappresentanti (Ammendola e Merlo). Di Maio invece non è prevenuto. L’ex vicepremier, l’ex ministro del Lavoro, l’ex capo politico del Movimento Cinque Stelle, diventato a 33 anni ministro degli Esteri, così come confermato dal videomessaggio pubblicato prima delle festività natalizie, ignora la vicenda. “Gli abbiamo inviato mail, pec, lo abbiamo contattato tramite i nostri avvocati, ma niente. Mai una dichiarazione sui miei familiari spariti in Messico, nulla. Non ci ha fatto mai sentire la sua vicinanza. Siamo italiani come lui, napoletani come lui”.
Poi l’appello finale: “Spero che da parte sua ci sia quanto prima un’apertura: i miei familiari sono brave persone, facevano i venditori ambulanti e non avevano legami con i cartelli messicani come è stato accertato dalle indagini. Vanno cercati fino alla fine, questo dovrebbe essere il compito dell’Italia”.
Silenzio da parte del ministro Di Maio. Napoletani scomparsi in Messico, condannati due dei 3 poliziotti: agente in fuga durante il processo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Aprile 2021. Dopo dieci giorni di processo, il tribunale dello stato messicano di Jalisco ha condannato gli agenti di polizia Salomon Adrian Ramos Silva ed Emilio Martines Garcia, accusati della “sparizione forzata” di Antonio Russo e Vincenzo Cimmino, due dei venditori ambulanti napoletani scomparsi in Messico il 31 gennaio 2018 (il terzo era Raffaele Russo). Non sono mancati colpi di scena nel processo: un terzo poliziotto imputato, Linda Guadalupe Arroyo, approfittando di un pausa si è data alla fuga e per la sua condanna si dovrà quindi attendere l’eventuale cattura. Quanto alle pene per i due agenti condannati, tre sono già attualmente in carcere, si dovranno attendere al massimo 5 giorni perché saranno rese note nel corso di una prossima udienza. L’agente Linda Guadalupe Arroyo era a piede libero insieme ai colleghi Salomon Adrian Ramos Silva ed Emilio Martines Garcia, perché, secondo la ricostruzione della procura messicana, era al al centralino quando Antonio Russo e Vincenzo Cimmino (rispettivamente figlio e nipote di Raffaele Russo) vennero affiancati da alcuni poliziotti in moto nei pressi di una stazione di benzina mentre cercavano il loro congiunto, scomparso da poche ore. Il 31 gennaio 2018 quattro agenti aveva prelevato i due giovani in strada per consegnarli, dietro compenso, al cartello criminale Ca’rtel Jalisco Nueva Generacion (CJNG). Come spiega l’Ansa, nel dibattimento finale sono state ascoltate alcune intercettazioni inedite che hanno messo in relazione la scomparsa di Antonio Russo e Vincenzo Cimmino con quella di Raffaele Russo, di cui si erano perse le tracce già diverse ore prima del figlio e del nipote.
LE PAROLE DELL’AVVOCATO – All’agenzia di stampa l’avvocato Claudio Falleti, legale delle famiglie di Raffaele Russo, Antonio Russo e Vincenzo Cimmino, ha spiegato che “le prove offerte in udienza hanno evidenziato oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità degli imputati, le circostanze della sparizione dei nostri tre connazionali sono state chiarite, la condanna, che giunge a distanza di tre anni dai fatti, rappresenta l’ultimo atto di questo importante processo, ma non siamo riusciti a sapere dove sono stati portati e dove si trovano Raffaele, Antonio e Vincenzo: era anche questo il nostro obiettivo”.
IL SILENZIO DI DI MAIO – Prima della sentenza Il Riformista aveva raggiunto telefonicamente Francesco Russo, figlio, fratello e cugino dei tre napoletani scomparsi 38 mesi fa. Da Russo è emersa in maniera chiara la delusione per la totale assenza della Farnesina, il ministero degli Esteri guidato da Luigi Di Maio. “Ad oggi – dice – ancora nessuna telefonata da parte di Di Maio o di un suo rappresentante. Eppure il processo sta entrando nel vivo, c’è una poliziotta in fuga ma questo forse non interessa né a Di Maio né ai media nazionali”.
· Il Mistero di Federico Tedeschi.
La mamma di Federico Tedeschi scrive al procuratore Prestipino: “Vivo con le prove dell'omicidio in casa”. Le Iene News il 20 luglio 2021. Federico Tedeschi, secondo la ricostruzione ufficiale, sarebbe morto nel 2017 a 19 anni per cause naturali (omicidio). La madre, avvocatessa, crede che sia trattato di un omicidio e per questo ora scrive al procuratore capo di Roma Michele Prestipino. E i dubbi in effetti sono tanti, come vi abbiamo raccontato quest’anno con numerosi servizi di Antonino Monteleone. “Gent.mo dott. Prestipino, mi spiace molto distoglierla dai suoi compiti istituzionali, chiedendole, gentilmente, un po’ del suo tempo... È atroce, mi creda, convivere con le prove dell’omicidio di tuo figlio... Voglio la verità, mi attendo che il colpevole venga finalmente assicurato alla giustizia...”. La madre di Federico Tedeschi, l'avvocatessa Emanuela Novelli, scrive al procuratore di Roma Michele Prestipino, come riporta il Corriere della Sera. Lo fa convinta che suo figlio il 26 novembre 2017 non sia morto, a Roma a 19 anni, per causa naturali (un infarto), come recita la ricostruzione ufficiale, ma per un omicidio. Perché i dubbi sono tanti come vi abbiamo raccontato quest’anno con numerosi servizi di Antonino Monteleone (l’ultimo, di aprile, lo trovate qui sopra). “Mi creda, dott. Prestipino, è estremamente doloroso per me svegliarmi ogni giorno...”, scrive la donna che ha lasciato intatte in casa tutte le possibili prove. “È atroce convivere con macchie, impronte e tracce di un omicidio e tale atrocità non viene attenuata neanche dal sorriso di Federico presente in ogni stanza. Sono perfettamente consapevole del fatto che, si parli di omicidio o di morte naturale, sempre al riquadro 25 del Verano mio figlio Federico Tedeschi giace; con altrettanta chiarezza mi lasci esprimerle, però, il mio stato di inquietudine, perché dove non c’è verità non c’è giustizia, e dove non c’è giustizia non c’è pace, né per me né per mio figlio divenuto angelo per mano assassina”. Critica le prime ricostruzioni, “l’esecrabile superficialità con cui sono state condotte le indagini” che avrebbe portato a “conclusioni errate, verosimili solo ad una mente distratta rispetto ad almeno due elementi chiari sin dall’inizio: grata di sicurezza aperta dall’interno e scalfittura del mobile da sotto a sopra, con l’aggiunta che Federico non era un assuntore di sostanze stupefacenti… Ho trovato incongruenze, imprecisioni e lacune investigative, poi messe bene in luce nella denuncia del 12 giugno, che però giace in Procura al pari di un relitto oramai affondato”. Cita l’ultimo tema di quinto liceo del figlio: “Federico a dimostrazione dei valori che gli avevo trasmesso aveva scritto: "Nonostante i numerosi fatti negativi che potrebbero minare la nostra fiducia nelle istituzioni, dobbiamo sempre pensare che la maggioranza delle persone che ci tutelano esegua i propri doveri con onestà e impegno"”. “È con la massima serenità d’animo che ricorro a lei, dott. Prestipino, affinché quelle parole scritte da Federico nel proprio tema non continuino a significarmi più un’illusione, affinché venga nominato al più presto il Pm che giunga ad assicurare l’assassino di mio figlio alla giustizia, pur nella consapevolezza che Federico continuerà a giacere nel riquadro 25 del Verano, ma con la pace che merita lui e, di conseguenza, io stessa, mio marito e soprattutto Ludovica, perché non cresca con la convinzione che la morte di un Federico Tedeschi non interessa a nessuno...”.
Svolta nel caso Federico Tedeschi: il procuratore Prestipino incontra la madre, caso riaperto. Le Iene News il 21 luglio 2021. Dopo la lettera appello della madre, il procuratore capo di Roma fa riaprire le indagini sulla morte di Federico Tedeschi, nel 2017 a Roma a 19 anni. Michele Prestipino incontra la donna, convinta che il figlio sia stato ucciso. Ecco, come vi abbiamo raccontato con Antonino Monteleone, tutti gli elementi che farebbero pensare a un omicidio. “Vivo con le prove dell’omicidio di mio figlio in casa”, aveva appena scritto la mamma di Federico Tedeschi al procuratore capo di Roma. E Michele Prestipino ha dato una risposta immediata alla madre che non crede che suo figlio sia morto, come recita la ricostruzione ufficiale, per cause naturali (un infarto), il 26 novembre 2017 a Roma a 19 anni. È convinta che sia stato ucciso, per i molti elementi che lasciano in effetti troppe domande senza risposta e che vi abbiamo raccontato quest’anno con i servizi di Antonino Monteleone (qui sopra trovate l’ultimo di aprile). Non sono passate nemmeno 24 ore dalla lettera, Emanuela Novelli, avvocatessa, è stata convocata dal procuratore, l’ha incontrato e, come riporta il Corriere della Sera, le è stato comunicato che le indagini sono state di fatto riaperte. Il fascicolo è stato assegnato al pm Roberto Felici, lo stesso della prima fase investigativa. Alla svolta, accelerata dalla lettera della donna, si è arrivati dopo la denuncia presentata lo scorso 12 giugno da Ernesto Aliberti, legale dei genitori di Federico. “Il dottor Prestipino mi ha letteralmente commossa allorquando mi ha rassicurato del suo personale impegno”, ha detto con le lacrime agli occhi la madre di Federico Tedeschi dopo il colloquio. “Lo ringrazio con tutto il cuore per avermi convinta a confidare ancora nell’istituzione che rappresenta. Da oggi, e lo dico da persona cresciuta sui codici e nella devozione del diritto, torno a sperare nella giustizia. Sono felice, ora mi aspetto che si torni anche a indagare sull’equivoco mondo della Rete, che mio figlio frequentava a nostra insaputa. Un doppio binario che mi ha sconvolta ma che non può giustificare una resa, una rinuncia a cercare i colpevoli. Ho amato e continuo amare Fede per ciò che era e resta nel mio cuore, senza giudizi e pregiudizi. Un ragazzo meraviglioso e sensibile». Il riferimento è al fatto che Federico frequentava da tempo chat di feticisti sado-maso, dediti a pratiche estreme: in quell’ambiente potrebbe essere maturato l’omicidio, come ci racconta Antonino Monteleone nel servizio in alto e nel precedente. Qui potete trovare tutti gli altri elementi che non tornano, a partire dal ritrovamento del corpo e dalla scena della morte di Federico.
Morte di Federico Tedeschi, la madre: “Farò denuncia per omicidio”. Le Iene News il 30 aprile 2021. “Che mio figlio è stato ucciso me lo sussurra ogni poro della pelle”, ha detto la mamma di Federico Tedeschi al nostro Antonino Monteleone. Adesso la donna, che è anche un avvocato, ha annunciato l’intenzione di presentare una denuncia per omicidio. Noi de Le Iene vi stiamo raccontato questa vicenda. “Abbiamo deciso di presentare denuncia per omicidio volontario”. Potrebbe essere arrivata a un punto di svolta la storia della morte di Federico Tedeschi: la mamma Emanuela ha infatti annunciato la presentazione della denuncia con l’obiettivo di far riaprire il caso. “Dagli elementi emersi, purtroppo, non vi sono molti dubbi sul fatto che mio figlio sia stato ucciso in seguito a una feroce aggressione”, ha detto mamma Emanuela al Corriere della sera. Noi de Le Iene vi stiamo raccontando da settimane questa vicenda con il nostro Antonino Monteleone. Federico Tedeschi era un ragazzo di 19 anni che viveva nel quartiere Infernetto di Roma. La mattina del 26 novembre 2017 è stato trovato morto dalla sorella Ludovica nella sua camera da letto. La procura ha stabilito che è deceduto per infarto, mentre la famiglia parla di “omicidio”. Nel primo servizio vi abbiamo raccontato tutte le cose che, secondo la famiglia, non tornerebbero nella ricostruzione delle autorità: “Ho troppi dubbi che la procura non mi ha tolto”, ci ha detto la mamma. Nel secondo servizio invece Antonino Monteleone ci ha parlato dell’alter ego di Federico Tedeschi, Valerio Nettiate, usato per frequentare chat erotiche in cui si parla di schiavi e padroni. Nel terzo servizio invece la Iena ha incontrato la ragazza che avrebbe preso il telefono di Federico e si mette sulle tracce di Luca, la persona che ha cercato un incontro con Federico il giorno dopo la sua morte. La madre di Federico Tedeschi ci ha confessato “che mio figlio è stato ucciso me lo sussurra ogni poro della pelle”. E oggi ha lanciato un appello a tutti i coetanei di suo figlio: “Ragazzi, fate attenzione. Badate a vivere nel mondo reale, con le vostre passioni e i vostri sogni, e il meno possibile in quello virtuale, della Rete. E soprattutto non siate ingenui, non fidatevi di persone che vi contattano, tenetevi alla larga dai profili falsi che possono nascondere pericoli”.
La morte di Federico Tedeschi: i misteri su social e incontri. Le iene News il 20 aprile 2021. Federico Tedeschi è morto a 19 anni a Roma. Per la procura si è trattato di un decesso per cause naturali, mentre la famiglia parla di un possibile omicidio. In questo servizio Antonino Monteleone incontra la ragazza che avrebbe preso il telefono del ragazzo e si mette sulle tracce di Luca, la persona che ha cercato un incontro con Federico il giorno dopo la sua morte. Nelle scorse settimane vi abbiamo raccontato del caso di Federico Tedeschi, il ragazzo morto a 19 anni nel 2017 a Roma: per la procura si è trattato di un decesso per cause naturali, mentre la famiglia crede a un’altra versione. “Che mio figlio è stato ucciso me lo sussurra ogni poro della pelle”, dice la mamma di Federico al nostro Antonino Monteleone. Come vi abbiamo raccontato, sembrano esserci varie cose che non tornano. Tra queste il caso del suo cellulare da cui, secondo quanto racconta la famiglia, un’amica avrebbe cancellato delle telefonate. Durante quella domenica infatti, quando tutti in casa sono sconvolti e c’è un via vai di amici e parenti, qualcuno avrebbe presso il telefono di Federico e avrebbe compiuto delle operazioni. Tra queste: il profilo Facebook sarebbe stato modificato in “commemorativo”. La famiglia scopre anche l’esistenza di Valerio Nettiate, l’alter ego usato da Federico per frequentare chat omosessuali su Facebook. Tutto questo, lo ripetiamo, rientra solo nella sua sfera privata ma qui stiamo cercando di capire com’è morto, se è stato aggredito e - nel caso - da chi. E la vita parallela che aveva potrebbe acquisire una grande importanza. Ma se il giorno delle morte di Federico il ragazzo stesse chattando con qualcuno, non possiamo saperlo. Come detto, secondo quanto racconta la famiglia, le chat nel telefono sarebbero state cancellate da un’amica. E allora il nostro Antonino Monteleone è andato a parlare proprio con questa ragazza. “Federico per me è un pezzo di cuore tutt’ora”, racconta. “Era come un fratello. Purtroppo quella domenica è stato un giorno caotico, era pieno di gente. Io mi ricordo perfettamente che a me il telefono di Federico è stato dato, non ricordo se da Ludovica (la sorella di Federico, ndr) o da Emanuela (la madre, ndr)”. A sentire lo zio di Federico, sarebbe stato lui stesso a dare il telefono a questa ragazza: “Proprio io l’ho staccato dalla carica dentro la camera, era in modalità aereo e bloccato ma io non ho cercato di aprirlo e via dicendo, assolutamente no”. Torniamo alla ragazza. “Ludovica ha messo il codice, perché io il codice di Federico assolutamente non lo sapevo”, racconta. “I primi pensieri che abbiamo avuto tutti quanti, perché non c’ero solo io, era vedere con chi si fosse scambiato gli ultimi messaggi e le ultime chiamate, per capire con chi si fosse visto o chi fosse venuto quella mattina a casa, nel caso fosse venuto qualcuno. Ricordo che il telefono l’ha toccato Ludovica come anche Aurora, l’ex ragazza, ed è stato preso anche dallo zio di Federico”. Insomma sembra che quel telefono sia passato di mano in mano, e oggi è impossibile sapere che cosa sia successo. “Io però ricordo che quando presi in mano quel telefono già non c’era più niente”, racconta ancora la ragazza. E il profilo Facebook cambiato in commemorativo? “Io penso lo faccia Facebook da solo”. Ma come fa a sapere che è morto? “Eh, l’inattività del profilo e tutte le cose che ti scrivono sulla bacheca. È cambiato dopo non mi ricordo quanto”. Lei non lo ricorda, ma l’ex fidanzata di Federico ci dice “Quando sono andata a vedere il suo profilo quella sera del 26 mi risultava che era commemorativo”. Ma qualcun altro si era accorto del cambiamento? “Sì, da quando sono uscita fuori che c’erano gli altri amici stavano parlando di questa cosa”. Torniamo ancora una volta all’amica, a cui è stato attribuito questo cambiamento. “Io non ho fatto niente di tutto ciò, sono tutte cavolate”, sostiene. E noi non abbiamo modo di dubitare delle sue parole. Certo è che qualcuno, quella domenica, a poche ore dalla morte ha cambiato il profilo Facebook in commemorativo bloccando per sempre la possibilità di visionarne i contenuti. Il telefono però continuava a ricevere messaggi: “Ricordo che l’unica persona che continuava a scrivere a Federico era un ragazzo, Luca, che ci siamo chiesti: se tu conosci così bene Federico, ma non lo vedi dalla bacheca di Facebook visto che ce l’hai tra gli amici, che c’è scritto ‘in memoria di’? A noi sembra tanto una presa in giro se tu continui a parlarci come se per te fosse ancora vivo”. Lo zio di Federico aggiunge: “Io ho chiesto quella sera e i giorni successivi a tutti gli amici che stavano dentro casa lì al giardino, se conoscevano questo Luca. Tutti dicevano di no, però fatalità ce l’avevano amico sui profili”. Ma chi è questo misterioso Luca? “È la stessa persona che manda una richiesta di appuntamento sul telefono di Federico il giorno dopo la sua morte”, ci racconta la mamma. Messaggi da cui si intuirebbe che tra i due ci fosse già un’intesa, come se si fossero già incontrati di persone. E dalle chat di Valerio Nettiate sembra siano 3 mesi che i due si conoscono, come potete vedere nel servizio qui sopra. Dalle chat sembra che siano tante le volte in cui Luca chiede a Federico di incontrarsi, “e lui rispondeva no”, dice la madre. “La magistratura deve capire che a me non è morto il pesce rosso, è stato ammazzato un figlio. Qualunque elemento deve essere valutato”. Dentro queste conversazioni ci sono dettagli come un messaggio in cui Luca scrive ‘facciamo un’altra volta che hai casa libera’. “A me questa cosa insospettisce, lui sa che di giorno Federico potrebbe avere casa libera… bisognerebbe quanto meno capire, però se poi si conclude il tutto dicendo che ha avuto un’ischemia fulminate mi sento presa in giro. Soprattutto alla luce di queste cose”. Non ci resta che cercare Luca, e cercandolo ci imbattiamo nel fratello gemello, che il caso vuole abbia anch’egli avuto a che fare con Valerio Nettiate, cioè Federico. Lo incontriamo in un pub: “Io sono il gemello, l’altro è eh… matto”, sostiene il ragazzo. “È agitato. Ora abbiamo un buon rapporto, prima litigavamo sempre”. A proposito di Valerio Nettiate, la conversazione vira sul mondo di master&slave che Federico frequentava. E dalle parole del gemello di Luca, che potete ascoltare qui sopra, sembra che lui ne sia ben informato. “È un gioco da malati”, sostiene. Il ragazzo confermerebbe anche un altro aspetto di quel mondo, cioè lo scambio di soldi per foto e video. Ma adesso si parla di Luca: “Non lo posso sentire, il tribunale lo ha recluso”. Come mai? “Eh, varie cose”. Da quanto? “Da più di due anni, penso”. Da quello che ci dice il gemello, Luca starebbe scontando una pena detentiva per non meglio specificati reati. Era un tipo che poteva fare a botte? “Sì certo, era una testa calda”, racconta ancora il gemello. Ma anche pugni, schiaffi? “Mi sa di sì”. Secondo lui Luca sarebbe un violento che perde facilmente il controllo. Prima di andarcene, il gemello ci racconta un altro aneddoto: “Una volta ruba una macchina e mi dice: "devo andare a casa". Io non lo sapevo e ci salgo, me l’ha detto dopo”. E dove l’ha messa poi sta macchina? “Fuoco, è pazzo”. E aggiunge ancora: “Ha lavorato per due mesi in un ristorante a Fiumicino, lavorava ogni sera ma lo pagavano poco. Una sera si incazza con il suo capo, non va al lavoro, alla sera gli ruba soldi, vini, champagne e dà fuoco al locale. Il giorno dopo va, c’erano in carabinieri, si ferma e dice "oh ma cosa è successo qui"? Capito?”. Hanno saputo che era lui? “No, no. Se gli stai sul cazzo ti dà fuoco, attento”. Noi non possiamo sapere se queste vicende che ci ha raccontato il fratello di Luca siano vere oppure no. E sinceramente non capiamo nemmeno il perché ce le abbia raccontate. Quello che ci preoccupa però è che seguendo le tracce di Luca, tra gli ultimi ad avere a che fare con Federico, ci siamo imbattuti in questi racconti. Facciamo ancora una domanda al gemello di Luca: tuo padre che dice di tutta questa storia? “Zitto, muto”. Ma come va il rapporto con il padre? “Eh, benino”. Benino? “Se volete ve lo regalo”, ci dice il padre. “Crea problemi tremendi”. Il signore sconfortato che potete vedere nel servizio è il padre adottivo di Luca e del suo gemello. “Purtroppo questi ragazzi sono stati una sorpresa, non so come definire, è stata una catastrofe”, racconta l’uomo. Scopriamo che i due gemelli sono stati adottati da piccoli, e che per il padre entrambi sarebbero molto problematici. Noi siamo venuti per parlare di Luca: “Per il momento è recluso perché è un piromane, ha fatto anche i domiciliari”. Ma ha mai manifestato comportamenti violenti? “No, a noi non risulta. Non con le persone, forse con gli oggetti”. Sembra che ci siano diverse cose che l’uomo non conosce del figlio adottivo: “Ha alcuni procedimenti di cui noi abbiamo appreso in seguito. Tra l’altro lui banalizzava, le cose che faceva riteneva fossero delle bravate”, racconta l’uomo. A questo punto parliamo di Federico: “Quello che posso dire è che Luca da solo non sarebbe capace di fare una cosa del genere. Insieme ad altri forse…”. Ma c’è altro che hanno saputo nel tempo i genitori: “Abbiamo saputo di episodi di molestie a compagne, passavano delle foto intime”. Si sarebbe insomma reso responsabile di episodi di molestie sessuali ai danni di compagne di classe. Il più problematico dei gemelli, secondo il padre, non sarebbe Luca ma il fratello. Quello che abbiamo incontrato al pub. “Se riuscite ad agganciare lui, è lui il problema, il gemello!” Anche lui appiccava incendi? “Lui è abile, lo faceva ed è capace di occultare prove. Ci sfrutta e ci ricatta, vuole soldi per andare via, ci fa di tutto. È astuto, ci rompe le cose e se anche gli fai le foto non sono elementi gravi perché sia fermato, capisci?”, racconta ancora il padre. L’adozione dei gemelli ha segnato profondamente la vita di questa famiglia. Infatti i genitori, oggi che i figli adottivi sono più che maggiorenni, ne prendono le distanze. “Qua nessuno mi ascolta, ai carabinieri non so quanti esposti ho fatto”, dice il padre. “Voglio sapere questa giudice, porca vacca, 18 mesi che non ci convoca, voglio essere ascoltato, noi siamo vittime di questi ragazzi”. E nei confronti del gemello di Luca sembra anche nutrire una certa paura: “Lui è uno molto abile nelle foto, c’ha il drone. Sono sicuro che ci intercetta, sa troppe cose”. Ma non solo: “Luca è stato arrestato e il gemello, che aveva un solo indizio, una ricettazione lieve, essendo lieve non fu arrestato. Lui da allora si sente il padrone del mondo”, aggiunge ancora il padre. “Lui fa furti di identità digitale, vi dico solo questo. Copia i dati. Avrà avuto sette SIM, le cambiava. Quando aveva delle grane o per esempio aveva fatto una cosa grossa, cambiava sim così da non lasciare traccia”. Per finire il padre ci racconta: “Il gemello è il più pericoloso dei fratelli, questa è l’idea che mi sono fatto”. Noi non avevamo idea di chi avremmo trovato cercando Luca, e sinceramente non sembrano esserci elementi per sospettare di lui. L’unico indizio è che sia stato una delle persone ad aver chattato di più con Federico prima che morisse. Ma indagando su questa persona è venuta fuori una realtà più complessa di quello che avevamo immaginato, e che coinvolge anche il fratello di Luca. E allora torniamo ad Emanuela, la madre di Federico: “Quello che è da approfondire è proprio questa aspetto in cui Federico ingenuamente è caduto. Secondo me è iniziato come un gioco e poi si è fatto prendere la mano”, sostiene la madre. “È entrato in questo mondo che sono convinta che non gli apparteneva, e proprio per questo magari ne voleva uscire o ha rifiutato determinate cose e ne è rimasto vittima. Perché Federico è una vittima”.
I denti lussati e il profilo: i misteri di Federico, morto "di infarto" o ucciso? Rosa Scognamiglio il 20 Aprile 2021 su Il Giornale. Gridano giustizia i genitori di Federico Tedeschi, il 19enne morto per "infarto". "Il killer va cercato nelle chat erotiche. Lo hanno ucciso", dice la mamma. È un giallo a tinte fosche la morte di Federico Tedeschi, il 19enne capitolino ritrovato senza vita dai genitori nella sua camera da letto, in un villino del quartiere Infernetto, a Roma, il 26 novembre del 2017. Per il medico legale che eseguì l'autopsia sulla salma si sarebbe trattato di "infarto" ma i genitori del ragazzo sostengono, invece, che sia stato ucciso. "Ma non avete visto il volto? E' stato massacrato! Come fate a non vedere quegli indizi?" replica mamma Emanuela alla decisione della Procura che ha deciso di chiudere il caso.
Il giorno della tragedia. I fatti risalgono alla mattina del 26 novembre del 2017, in un appartamento al civico 23 di via Cesti, nel quartiere Infernetto di Roma. A rinvenire il corpo senza vita del 19enne, disteso a pancia in giù e con il capo rivolto verso l'armadio, è la sorella, di rientro a casa dalla messa della domenica. Poi, sopraggiunge la mamma: "L'ho girato e sono rimasta pietrificata: aveva il volto tumefatto, un dente mancante, ematomi sul collo e sangue che usciva dalla bocca", racconta la donna in una intervista al Corriere della Sera. Da lì, l'allerta al 118 e una vana corsa contro il tempo nel tentativo di rianimarlo. Tutto inutile. Quando arriva l'ambulanza, attorno alle ore 13.15, Federico è già morto. Gli operatori sanitari che intervengono in casa della famiglia Tedeschi ritengono sia morto per cause naturali. Ma i genitori del ragazzo, ovunque posino lo sguardo in quella casa, notano delle anomalie.
Quelle ferite sospette. Le circostanze del decesso e i segni al corpo di Federico suggeriscono ai familiari del 19enne ben altra ipotesi da quella di una "morte per cause naturali", come sostiene invece la Procura. Ne è certa mamma Emanuela: "Quando sentii dottori e infermieri del 118 parlare di infarto, rimasi sbigottita: mio figlio andava in palestra, aveva fatto da poco l’Ecg, era in perfetta salute. - racconta ancora -E poi come si spiegavano i traumi sul viso? Mi fu detto che se li era provocati sbattendo con la bocca contro il mobile tv, ma la scalfitura del legno è sotto il bordo, non sopra". Ma non è tutto. C'è ancora dell'altro che in questa drammatica vicenda non torna.
Il giallo degli occhiali da sole "non suoi". All'interno dell'appartamento, i genitori di "Fede" riscontrano alcune anomalie. A partire dalla porta di casa lasciata aperta alle impronte di una mano "insanguinata" presenti su uno specchio in corridoio. "Nella camera abbiamo trovato occhiali da sole non suoi. - spiega mamma Emanuela - Sulla porta dei fori triangolari, come se qualcuno avesse battuto con le nocche, indossando un anello. Su uno specchio in corridoio l’impronta di una mano. Sull’anta dell’armadio bianco della stanza guardaroba, in basso, striature rosse di sangue. Ma allora non aveva avuto un infarto fulminante nella sua stanza! La mazza di baseball, custodita da mio marito vicino al letto matrimoniale, l’abbiamo trovata al suo posto, ma con dei graffi sospetti. Un cuscino del salotto, di velluto beige, era sotto il materasso. E le ciabatte di Fede, marca De Fonseca, color carta da zucchero, sono sparite. Può bastare?".
Le chat erotiche. Nonostante la chiusura delle indagini da parte della Procura, i genitori di Federico non hanno mai smesso di cercare la verità sulla morte prematura del figlio. Da alcune recenti ricerche della mamma è emerso che il 19enne avesse aperto un secondo profilo Facebook "criptato" a nome Valerio Nettiate, tramite il quale chattava con personaggi legati all’equivoco mondo dei master&slaves - padroni e schiavi - dediti a pratiche omosessuali sadomaso, compresi atti di feticismo dei piedi. "Scoprire questo binario parallelo di mio figlio mi ha scombussolata. - spiega ancora la donna al Corriere - Tante volte in passato, avendo intuito qualcosa, avevo parlato con Fede invitandolo a vivere le sue inclinazioni con serenità, dicendogli che io non desideravo altro che la sua felicità, senza giudizi ma mai avrei immaginato che potesse essere finito in un giro tanto pericoloso. La ricostruzione più verosimile è che abbia aperto a qualcuno e poi sia stato aggredito, pestato, soffocato e lasciato a terra".
Cosa è successo a Federico? Mamma Emanuela, che è anche un'avvocatessa, non getterà la spugna fino a quando non sarà fatta luce sulla tragedia. "Il killer va ricercato in quelle chat", dice. Le fa eco l'avvocato Ernesto Aliberti, legale della famiglia Tedeschi. "Il nostro obiettivo è la riapertura dell’inchiesta, - dice - stiamo lavorando alla relativa istanza, che è quasi pronta. Non posso anticipare nulla, se non che siamo in attesa di elementi importanti dal traffico delle chat". Ora, la verità sembrerebbe essere a un passo. "Non molleremo finché non sarà fatta giustizia", concludono i genitori.
Federico, morto a 19 anni: infarto o è stato ucciso? Secondo la procura di Roma, Federico Tedeschi sarebbe morto per infarto ma i genitori ritengono invece che si tratti di omicidio. Rosa Scognamiglio - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. Federico Tedeschi, 19 anni, è stato ritrovato senza vita nella sua camera da letto. Per la procura di Roma, stando a quando rivela un servizio del programma Le Iene, il ragazzo sarebbe stato stroncato da un infarto. Ma i suoi genitori sostengono, invece, che sia stato vittima di omicidio. "Che mio figlio è stato ucciso me lo sussurra ogni poro della pelle", dice mamma Manuela. Per l'Autorità giudiziaria, il caso è già stato archiviato. Ma qualcosa, troppe cose, in questa vicenda non tornano.
Il giorno della tragedia. I fatti risalgono alla mattina del 26 novembre del 2017, in un appartamento del quartiere Infernetto di Roma. A rinvenire il corpo senza vita del 19enne, disteso "a pancia in giù e riverso verso l'armadio" - spiega mamma Manuela all'inviato delle Iene - è sua sorella, pressappoco all'ora di pranzo. Da lì, l'allerta al 118 e una vana corsa contro il tempo nel tentativo di rianimarlo. Tutto inutile. Quando arrivano i sanitari, Federico è già morto. Gli operatori sanitari che intervengono in casa della famiglia Tedeschi ritengono sia morto per cause naturali. "La dottoressa mi dice: per me è un sospetto ictus - racconta ancora la madre del ragazzo - Mi hanno detto che mio figlio era morto di malore". Ma il volto di Federico è tumefatto e sul collo sono presenti escoriazioni. "Alzo la spalla e vedo tutto questo sangue che esce dalla sua bocca. - prosegue Manuela - Ricordo il suo visto imbrattato di sangue solo sul lato destro, le labbra tumefatte, una pagnotta al posto della guancia destra. Sembrava come se avesse avuto un pugno sulla guancia. A me ha dato subito l’idea che avesse preso delle botte". I familiari, insospetti dalle circostanze anomale del decesso, con una dinamica versosimilmente più affine a quella di un'aggressione, denunciano l'accaduto alle autorità. Ma per la procura di Roma non vi sono dubbi alcuna sorta sulle "cause naturali del decesso". Nello specifico, il diciannovenne sarebbe stato stroncato da un infarto "causata da necrosi cardiaca su base ischemica con conseguente infarto acuto". Tuttavia, le perizie chieste dalla famiglia a tre medici legali sono concordi per una “morte asfittica”. Cosa è successo davvero a Federico?
Il "giallo" della porta aperta. Quella mattina, Federico si trova da solo in casa. Il papà è uscito al mattino presto per andare al lavoro mentre la mamma si recata a messa attorno alle ore 11.27. Al rientro, Manuela nota che la porta di casa e e la grata d’ingresso sulla cucina sono spalancate. Lì per lì pensa che Federico "è uscito, sta dalla nonna già a mangiare". Nel frattempo il padre rientra a casa e nota che la porta della camera di Federico “è chiusa”: in quelle ore quindi ci sarebbe stato movimento, visto che la madre la ricordava chiusa. Il dettaglio non sfugge ai coniugi Tedeschi che riferiscono il particolare anche agli operatori del 118. "Si sono fatti raccontare quello che era successo, io ho raccontato della grata aperta", continua Manuela. Ma anche i poliziotti, intervenuti in casa dei coniugi Tedeschi, escludono l'eventualità di un'aggressione.
Tracce sconosciute e anomalie. Ci sono tante, troppe anomalie, che gettano ombre sul decesso prematuro del giovane. I genitori riscontrano alcuni segni sulla porta della camera di Federico che, a loro dire, “non ci sono mai stati”, una maglietta al rovescio per terra e alcune macchie al pavimento. Nella stanza ci sono anche un paio d’occhiali e un orecchino di cui la madre non sa “di chi siano”. Ma non è tutto. Su un mobiletto è presente un’evidente scheggiatura: per la procura è la prova che Federico è caduto e si è rotto i denti sbattendo sul mobile. La scalfitura però si trova rivolta verso il basso: “Quella lesione sul mobile non è compatibile con il contatto della bocca”, afferma l'ex comandante dei Ris di Parma Luciano Garofano. Fuori dalla stanza di Federico sembrano trovarsi altri elementi degni di attenzione: una macchia di quello che sembra essere sangue su un mobile dall’altra parte della casa e delle evidenti impronte su uno specchio. “Perché non hanno rilevato quelle impronte?”, si chiede la madre del ragazzo. "Nel momento in cui una madre ti segnala che ci sono delle cose anomale, perché questi approfondimenti non sono stati fatti?", continua Garofano.
Infarto o omicidio? La salma del giovane viene consegnata a un primo medico affinché accerti le cause del decesso. Nel referto scrive: “Non potendosi escludere una causa violenta nel determinismo del decesso […] il sottoscritto pone la salma a disposizione di Codesta Autorità Giudiziaria”. In estrema sintesi, non si esclude l'ipotesi di una morte violenta. In un secondo momento, la procura incarica un medico legale che certifica il decesso di Federico per infarto. Così, la procura decide di archiviare il caso. Ma i genitori si oppongono all'archiviazione, certi che ci siano troppe ombre sulla vicenda. "Che mio figlio è stato ucciso me lo sussurra ogni poro della pelle", conclude Manuela.
Federico Tedeschi e Valerio Nettiate, c'è un alter ego dietro la sua morte? Le Iene News il 09 aprile 2021. Com’è morto Federico Tedeschi? La mattina del 26 novembre 2017 viene trovato cadavere nelle sua camera: per la procura di Roma è stato un infarto, la famiglia parla invece di un’altra ipotesi. Con Antonino Monteleone vi parliamo di Valerio Nettiate, ossia l’alter ego usato da Federico per frequentare chat erotiche in cui si parla di schiavi e padroni. Nelle scorse settimane vi abbiamo raccontato del caso di Federico Tedeschi, il ragazzo morto a 19 anni nel 2017 a Roma: per la procura si è trattato di un decesso per cause naturali, mentre la famiglia crede a un’altra versione. “Che mio figlio è stato ucciso me lo sussurra ogni poro della pelle”, dice la mamma di Federico al nostro Antonino Monteleone. Sembrano esserci varie cose che non tornano in casa di Federico, come vi abbiamo raccontato. Tra queste il caso del suo cellulare da cui, secondo quanto racconta la famiglia, un’amica avrebbe cancellato delle telefonate. “Che le dici, la lucidità sul discorso ‘è entrato qualcuno’ ancora non c’era”, racconta la madre. Durante quella domenica infatti, quando tutti in casa sono sconvolti e c’è un via vai di amici e parenti, qualcuno avrebbe messo le mani sul telefono di Federico e avrebbe compiuto delle operazioni. Tra queste, il profilo Facebook sarebbe stato modificato in “commemorativo”. “Non sono più potuta entrare, non so come e non so chi ha commutato il profilo”, dice la madre. Come ci spiega un tecnico informatico, si tratta di “una pietra tombale sull’account. I dati scompaiono e non è reversibile”. C’era forse qualcosa da nascondere? “Il telefono lo tenevo sulla mia scrivania”, racconta la madre. “Leggevo le chat, guardando le fotografie”. Nei giorni successivi alla morte di Federico, la mamma scorre le immagini. A un certo punto “ho iniziato a leggere le sue chat che proseguivano, e fui colpita da una serie di messaggini che arrivavano da chat completamente vuote. Non avendo il precedente della chat, non sapevo… ed erano tutti profili maschili” e non salvati sulla rubrica. “A un certo punto arriva un ‘hey’ e decido di dargli spago, fingendomi Federico”, racconta ancora la madre. “Continuando a scrivere vengo a capire che l’interlocutore pensava di parlare con tale Valerio Nettiate”. Chi è Valerio Nettiate? Chi sta scrivendo dall’altra parte della chat? “Da lì mi sono messa in allarme, perché chiedeva un feetjob”. Alla richiesta di spiegazioni, la risposta che arriva è “ah ho capito non puoi parlare perché c’hai la donna tua accanto”. Le chat continuano: “Ma fino a ieri mi mandavi fotografie…”. La madre racconta di aver negato e aver insistito a chiedere chi fosse l’interlocutore: “Dopo un po’ mi manda una serie di fotografie dove si vede la camera di Federico, le gambe, i piedi…”. Come fa questo sconosciuto ad avere le foto di Federico? Perché il figlio avrebbe mandato quelle immagini? Ma soprattutto, chi è Valerio Nettiate? “Nelle foto Federico non c’era, non avevo ancora capito che era un profilo gestito da mio figlio. Entrando nel Messenger trovo le chat, in cui parlava Federico e le fotografie erano di Federico. Era un mondo forse deviato, una cosa che non mi aspettavo”. Erano chat “erotiche, a sfondo omosessuale”, racconta la madre. “Una cosa che mi ha lasciato sbigottita”. A questo punto tutto sembra chiaro: Valerio Nettiate è l’alter ego di Federico Tedeschi, lo pseudonimo che usa per frequentare delle chat omosessuali. Tutto questo ovviamente rientra solo nella sua sfera privata ma qui stiamo cercando di capire com’è morto, se è stato aggredito e - nel caso - da chi. E la vita parallela che aveva potrebbe acquisire una grande importanza. La famiglia Tedeschi ha dato in mano a un consulente informatico il telefono e il computer di Federico. “Il materiale è tanto e molto forte”, dice il consulente. “Nel Messenger parlano di torture, di urine addosso, di cose che non stanno né in cielo né in terra”, dice la madre. “È stata una doccia gelata, non sapevo cosa pensare”, racconta la madre. Scorrendo le chat di Federico si evince l’abitudine a pratiche estreme, come potete vedere nel servizio qui sopra. In molte chat si parla di “schiavo”, in altre di “lotta”. Il mondo che frequentava Federico era quello del sadomaso omosessuale e sembra che le sue ricerche fossero legate al mondo del ‘master&slaves’, padroni e schiavi. “Mi colpì un video di un ragazzo steso a terra e un altro ragazzo che mimava il surf tenendo un piede sul torace e uno sulla guancia”, racconta la madre. “Quando ho visto quel video ho pensato, e poi ditemi se un ragazzo del genere muore d’infarto…”. Fin dove si spingono quei giochi erotici? È possibile che siano stati la causa della sua morte? Ovviamente la famiglia ha messo in mano alla magistratura tutto questo materiale. “Il telefono e il computer mi sono stati restituiti dopo quattro giorni”, dice la madre. Materiale interessante sembra essercene, come un video in cui si simula un combattimento. E non solo: “Sembra che Federico offra una ricompensa per lo "slave" nell’ambito delle sottomissioni”, afferma il consulente informatico. A questo punto mamma Emanuela, che di lavoro fa l’avvocato, si decide “Ho provato a parlare con il pm ma non mi ha voluto ricevere”. Non demorde: “Ho spedito questo documento al pm il 13 o 14 marzo, il 16 aprile il pm chiede l’archiviazione”. “È chiaro che lì bisognava approfondire”, sostiene l’ex comandate dei Ris di Parma e oggi consulente della famiglia Tedeschi, Luciano Garofano. Nel mondo segreto di Valerio Nettiate, sembra che nessuno sia mai stato interrogato: “Nel fascicolo del pm non era contenuta né una verifica dei tabulati né una verifica puntuale dei social del ragazzo”, sostiene l’avvocato della famiglia Tedeschi. Il pm avrebbe sentito solo alcuni amici di Federico: “Le sommarie informazioni contengono domande stereotipate”, sostiene ancora l’avvocato della famiglia Tedeschi. “A domande brevi ci si accontenta di risposte brevi”. “Tutto depone per il fatto che Federico quella mattina potesse aver ricevuto qualcuno in quella casa”, sostiene l’avvocato. Per la procura invece è morto d’infarto. Anche alcune amiche di Federico sembrano non credere alla morte naturale del ragazzo. Raccontano di un carattere timoroso del ragazzo, che però sembra stridere con le chat su dominazioni sessuali che Federico sembra frequentasse da un anno e mezzo. La madre ha visto le chat del ragazzo e Antonino Monteleone le chiede se ce n’è qualcuno con persone che conoscesse: “No, una persona però mi ha colpito. È la stessa persona che manda una richiesta di appuntamento sul telefono di Federico il giorno dopo la sua morte. Tale Luca…”. Torneremo sul caso, l’inchiesta di Antonino Monteleone continua.
· Il Mistero della morte di Trifone e Teresa.
L'odio, l'auto e le chat: così Trifone e Teresa furono uccisi. Francesca Bernasconi il 3 Agosto 2021 su Il Giornale. Nel 2015 due fidanzati vennero uccisi a bordo della loro auto, mentre si trovavano nel parcheggio del palazzetto di Pordenone. Per il loro omicidio è stato giudicato colpevole il commilitone di una delle vittime. Freddati da alcuni colpi di pistola mentre si trovavano nel parcheggio davanti al palazzetto dove si allenavano. Sono morti così Trifone Ragone, caporalmaggiore dell'esercito, e la fidanzata Teresa Costanza, 29 e 30 anni, uccisi a Pordenone nel 2015. E dopo sei anni l'unico indagato per il duplice omicidio, Giosuè Ruotolo, ha ricevuto una condanna definitiva all'ergastolo.
Il duplice omicidio di Pordenone. Era la sera del 17 marzo 2015. Trifone e Teresa erano appena usciti dalla palestra dove erano soliti allenarsi e, dopo aver salutato un amico, si erano diretti in macchina per tornare a casa. Ma la loro auto non lasciò mai il parcheggio di fronte al Palazzetto dello Sport di Pordenone. Venne ritrovata poco dopo, intorno alle 20. Al suo interno i corpi senza vita dei due fidanzati raggiunti, come ricordò una sentenza relativa a un ricorso, "ciascuno da plurimi colpi di arma da fuoco", sparati da una pistola calibro 7.65, usata "da distanza molto ravvicinata attraverso lo sportello anteriore sinistro del veicolo, ancora aperto dopo l'introduzione al suo interno del conducente Ragone". Trifone era sottufficiale dell'Esercito in servizio al 132/o Reggimento Carri di Cordenons, mentre Teresa Costanza aveva un impiego come assicuratrice, avendo studiato marketing alla Bocconi di Milano.
Pordenone, freddati in auto con quattro colpi di pistola un militare e la compagna. Inizialmente gli investigatori pensarono a un omicidio-suicidio, ma l'assenza dell'arma del delitto fece subito scartare questa ipotesi, propendendo per quella del duplice omicidio: Teresa e Trifone erano stati uccisi da un killer. Ma chi poteva volere la morte di quella coppia con una vita senza ombre? E chi poteva essere stato così sicuro da aver agito alle 20 di un martedì sera, nel parcheggio di un luogo frequentato come la palestra? Per mesi gli investigatori lavorarono cercando di dare risposta a queste domande, mentre il giallo di Pordenone assunse caratteri sempre più complessi. Fino a che non emerse la figura di Giosuè Ruotolo, commilitone di Ragone, che catturò i sospetti degli inquirenti.
I sospetti sul commilitone. Per i primi mesi dopo il delitto nessuno riuscì a dare un volto al killer e i sospetti non erano concentrati intorno al commilitone della vittima, che dichiarò di essere rimasto a casa quella sera. Il giorno del funerale Giosuè Ruotolo portò sulle spalle la bara del collega. Una prima svolta arrivò nell'autunno del 2015 quando, dopo essere stato sentito dagli inquirenti per diverse ore, cambiò versione sugli spostamenti della sera del delitto. Inizialmente infatti Ruotolo aveva dichiarato di essersi recato a casa dopo il lavoro, quel tardo pomeriggio del marzo 2015, e di essersi intrattenuto con giochi elettronici. L'attività però era stata interrotta, come si legge in una sentenza, da "una pausa dalle ore 19.07 alle ore 21.24, considerata significativa perché comprensiva dell'orario dell'omicidio e dell'occultamento dell'arma". Secondo il racconto dei coinquilini dell'uomo, egli si era allontanato in auto, senza informare circa la propria uscita inusuale. Successivamente, date le incongruenze, Ruotolo confessò di essere uscito di casa, di essere andato al palazzetto di Pordenone per allenarsi ma, non trovando parcheggio, disse di essersi trasferito al parco di San Valentino per fare jogging. La corsa però sarebbe stata interrotta poco dopo a causa del freddo. Nel marzo del 2016 l'ex commilitone di Trifone Ragone venne arrestato. "Abbiamo un quadro indiziario complesso che porta all'affermazione di responsabilità per Giosuè Ruotolo", aveva confermato ai tempi, come riportato da LaPresse, il procuratore Marco Martani. "Un elemento importante - aveva spiegato il procuratore - è la ricostruzione dei tempi e la presenza delle persone sul luogo dell'omicidio: queste due variabili ci portano a dire che Giosuè Ruotolo era nel parcheggio davanti alla palestra non appena prima il momento dell'omicidio, ma durante". Con ordinanza del 31 marzo 2016, il Tribunale del riesame di Trieste ha confermato l'ordinanza emessa il 7 marzo 2016 dal Gip di Pordenone, che aveva sottoposto Ruotolo alla misura di custodia cautelare in carcere, accusandolo dell'omicidio di Trifone e Teresa.
Testimoni, telecamere e chat: così Ruotolo è stato scoperto. A incastrare il commilitone della vittima furono diversi elementi, raccolti dagli inquirenti nei mesi successivi all'omicidio. In primo luogo, vennero sentiti alcuni testimoni, che frequentavano l'area e che, trovandosi nella zona del parcheggio all'orario del delitto, riferirono, come riporta la sentenza, "di avere avvertito una sequenza di colpi secchi ed avvistato un'automobile marca Audi A3 grigia, ferma in prossimità di una cabina contenente impianti tecnici". Il veicolo era stato ripreso da alcune telecamere comunali, installate per il controllo del traffico: queste mostrarono l'avvicinarsi dell'auto all'area del palazzetto alle 19.19 e poi il suo allontanamento verso il centro città alle 19.50 circa. Subito dopo l'Audi A3 era stata ripresa in sosta nel parcheggio del parco di San Valentino, all'interno del quale c'è un laghetto, in cui venne trovata l'arma del delitto. Poi alle 19.57 le immagini di videosorveglianza mostrano la macchina che torna verso il centro. Successivi accertamenti confermarono che l'Audi A3 ripresa nei video corrispondeva a quella di Ruotolo. Oltre alla marca e al colore, altri due elementi la identificarono: un fanalino rotto e un pupazzetto posto sul cruscotto.
Delitto Trifone e Teresa: il dettaglio sull'Audi A3. In secondo luogo a far sospettare del coinvolgimento di Ruotolo furono alcune chat, inviate da un computer della caserma in cui Ruotolo prestava servizio: nei giorni e negli orari di invio dei messaggi, l'uomo era in servizio. L'indagato, si legge nella sentenza relativa a un ricorso, "aveva aperto un profilo Facebook anonimo, tramite il quale aveva contattato Teresa Costanza a nome di una sedicente amante del Ragone stesso per informarla della loro in realtà inesistente relazione e ciò al fine di indurre la giovane a lasciarlo". Il piano del commilitone, confermato anche dalla sua fidanzata, non era però riuscito e anzi aveva suscitato i sospetti di Ragone, anche per la presenza di alcuni particolari che potevano essere conosciuti solo da una persona vicina. Scopertolo, Ragone aveva minacciato di denunciare Ruotolo e, in un'occasione, tra i due era scoppiata una lite che aveva lasciato l'indagato con alcune ecchimosi e un taglio al labbro. "Parlando con i coinquilini - l'uomo - aveva minacciato che gliel'avrebbe fatta pagare. In tali emergenze era dunque rinvenuto un valido movente per realizzare l'azione omicidiaria per vendetta, dopo il pestaggio subito ad opera del Ragone e per timore che le rivelazioni di questi potessero compromettere la sua carriera e la realizzazione dell'aspirazione di ingresso nella Guardia di Finanza". Questi dettagli vennero confermati al tempo anche dal procuratore di Pordenone, che in conferenza stampa dichiarò: "Parlando con i coinquilini abbiamo saputo che tra Trifone e Giosuè ci fu una volta un forte litigio, dopo il quale Trifone colpì Ruotolo". Così, in qualche mese, il giallo di Pordenone si trasformò in un delitto compiuto per vendetta e paura di una denuncia.
L'ergastolo per Ruotolo. Nel novembre del 2017 la Corte d'Assise di Udine condannò Giosuè Ruotolo all'ergastolo con due anni di isolamento diurno. Nelle motivazioni, depositate nel marzo dell'anno successivo e riportate da ilFriuliveneziagiulia, viene confermata la presenza di Ruotolo nel parcheggio del palazzetto al momento dell'omicidio. "Ogni diversa ricostruzione del tempo in cui Ruotolo si sarebbe mosso dal parcheggio, proposta dalla difesa – si legge – prevede velocità della vettura illogiche di per sé e incoerenti con dati di fatto inequivoci". La presenza sul luogo del delitto dell'unico imputato per il duplice omicidio di Trifone e Teresa è uno degli indizi che "per la loro gravità, univocità e concordanza, consentono di attribuire, al di là di ogni ragionevole dubbio, a Giosuè Ruotolo l’azione omicidiaria". Due anni dopo, la pena al carcere a vita venne confermata anche dalla Corte d'Assise d'Appello di Trieste. I giudici, stando a quanto riportò il Messaggeroveneto, individuarono un movente più complesso rispetto a quello riferito in primo grado, relativo alla paura delle compromissione della propria carriera nella Guardia di Finanza. I due ragazzi erano già amci prima dell'arrivo di Teresa e la sua presenza avrebbe scatenato la gelosia, che si trasformò in "rabbia" e "odio". Nei messaggi delle chat i giudici hanno individuato "una carica di malvagità", che cresceva col passare del tempo: "Montava la rabbia di Ruotolo verso Ragone e si trasmutava in odio e vera e propria sete di vendetta". La morte di Trifone e Teresa, scrissero i giudici, fu "un omicidio premeditato". La sentenza è diventata definitiva lo scorso gennaio, quando la Corte di Cassazione ha confermato la condanna all'ergastolo di Giosuè Ruotolo, per il duplice omicidio dei fidanzati di Pordenone.
Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.
· Il Mistero di Gianmarco Pozzi.
Emilio Orlando per leggo.it il 23 settembre 2021. «Mio fratello prima di morire era inseguito da qualcuno che voleva fargliela pagare». Martina Pozzi è la sorella di Gianmarco, morto il 9 agosto del 2020 sull'isola di Ponza in circostanze misteriose. Anzi, di chiaro in questa vicenda, sembra ci sia molto poco. Al punto che Martina ha deciso di parlare, svelando a Leggo particolari delle indagini svolte dai periti incaricati dalla sua famiglia. Il decesso del giovane pugile romano sembrava riconducibile a una caduta da uno dei terrazzamenti che conducono al mare. Il corpo era stato ritrovato infatti riverso a terra in un'intercapedine vicino a un'abitazione che il ragazzo aveva preso in affitto. «C'è qualcosa che non torna - incalza Martina -. Le ferite trovate sul corpo di mio fratello non sono assolutamente compatibili con una caduta. Lo confermano anche le perizie dei nostri consulenti di parte, che hanno sconfessato quelle dei periti nominati dalla procura di Cassino».
Sono accuse pesanti, che devono essere dimostrate...
«C'è di più. Un testimone ci ha raccontato di aver visto un uomo con la carriola trasportare e gettare dal muretto il corpo di Gianmarco che prima sarebbe stato avvolto in un sacco».
Che sospetti avete?
«La caduta e la posizione del corpo, quasi raggomitolato e coperto di sangue sulla schiena, lasciano pensare che sia morto per un pestaggio. Chi sa parli».
Ha detto che c'è un supertestimone?
«Si, le dichiarazioni sono state raccolte dall'avvocato Fabrizio Gallo, nostro legale di parte civile. Il giovane, originario di Capua, gli ha raccontato che poco prima che Gianmarco morisse era lucido. Insomma, per nulla in preda ad allucinazioni provocate da cocaina, come stabilito nella relazione medico legale stilata dopo l'ispezione sul cadavere e gli esami tossicologici».
Cosa chiedete?
«Di non archiviare il caso come una disgrazia, vogliamo la verità. Anche sul telefono. Per la Procura, lo smartphone non era funzionante a seguito della caduta da un'altezza di circa tre metri, in piena notte. Invece la traccia telefonica lasciata sulle celle radio dell'isola di Ponza si interrompe dopo le 5 del mattino, del giorno del decesso. È stata solo attività autonoma delle componenti dell'apparecchio? E che dire della casa di Ponza dove abitava Gianmarco? È stata ripulita con la varecchina e riordinata dopo che qualcuno l'aveva messa a soqquadro. Cos'altro serve di più per riaprire ufficialmente le indagini?».
Gianmarco Pozzi, la famiglia: “Troppi errori nelle indagini”. Le iene News il 20 aprile 2021. Ecco tutto quello che secondo la famiglia poteva essere fatto e che mancherebbe nelle indagini sulla morte di Gianmarco Pozzi, il 9 agosto scorso a 28 anni a Ponza. La sorella Martina ci parla anche della strana storia di un flirt. Quinto appuntamento con l’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano. Ecco tutto quello che alla famiglia non sembra tornare nella gestione delle indagini sul caso di Gianmarco Pozzi, ritrovato morto la mattina del 9 agosto scorso a 28 anni a Ponza in un’intercapedine tra un muro di contenimento di un campo e un’abitazione. Ce ne parlano Giulio Golia e Francesca Di Stefano nel quinto appuntamento della loro inchiesta. La famiglia non crede alla versione di una caduta accidentale dall’alto combinata a un’intossicazione da cocaina e pensa che il ragazzo, arrivato nell’isola per fare il buttafuori in un locale, sia stato ucciso e sospetta che l’omicidio sia maturato all’interno degli ambienti dello spaccio di cocaina. Perché, si domanda, sul luogo del ritrovamento del corpo non è andato un medico legale né un magistrato e perché all’inizio si è parlato di una disgrazia e della caduta da un balcone di 5-7 metri e non da un muretto in un campo di quasi 3 metri? Perché, chiede l’avvocato della famiglia Fabrizio Gallo, non è stata fatta un’autopsia, limitandosi a un’ispezione cadaverica esterna e perché è stato dato poi il nulla osta alla cremazione? Perché, si chiedono sempre i familiari, l’area dove è avvenuta la morte e la casa dove viveva Gianmarco con alcuni coinquilini non sono state sequestrate (entrambe tra l’altro sono state poi ripulite)? È possibile, aggiunge l’avvocato, che non siano state richieste le immagini delle nove telecamere che si trovano nella zona e del locale dove lavorava il ragazzo? Perché dopo otto mesi, si chiede la sorella Martina, il telefono di Gianmarco non è stato ancora sbloccato? Un tenente dei carabinieri che coordina le indagini tra l’altro, racconta, l’avrebbe incontrata a cena a Roma, con successivi toni da flirt via messaggini per poi partire con un bacio incontrandosi la mattina e facendo un passo indietro qualche tempo dopo. La storia sembrerebbe inopportuna, resta l’imbarazzo ora per lei e la famiglia.
Morte di Gianmarco Pozzi, due racconti esclusivi su debiti e giro di droga. Le Iene News il 13 aprile 2021. Due racconti esclusivi aprono nuovi scenari sul giro di droga tra l’isola e la terraferma e sui presunti debiti che, secondo queste versioni, sarebbero stato accumulati per questo da Vincenzo Pesce, nel cui locale Gianmarco Pozzi lavorava come buttafuori. Quarto appuntamento con l’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano sui misteri che circondano la morte di questo ragazzo, il 9 agosto scorso a 28 anni a Ponza. Quarto appuntamento con l’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano sui misteri che circondano il caso di Gianmarco Pozzi, ritrovato morto il 9 agosto scorso a 28 anni a Ponza in un’intercapedine tra un muro di contenimento di un campo e un’abitazione. Oggi potete vedere due nuovi racconti esclusivi su un presunto giro di droga tra Ponza e la terraferma che vi lasceranno senza parole. Nel primo servizio ci siamo concentrati soprattutto sui motivi per cui la famiglia, che ha fatto indagini in proprio, non crede alla versione di una caduta accidentale dall’alto combinata a un’intossicazione da cocaina e pensa a un omicidio, forse maturato negli ambienti dello spaccio. Nel secondo servizio abbiamo incontrato due personaggi chiave, che ci raccontano due versioni contraddittorie tra loro su molti punti. Si tratta del compagno di stanza e “amico fraterno” Alessio e di Vincenzo Pesce, gestore del locale dove il kickboxer Gianmarco Pozzi lavorava come buttafuori. Nel terzo servizio, siamo tornati a parlare con Alessio, che ci ha dato una sua nuova lunga versione di quanto accaduto. Parliamo anche con un altro coinquilino a Ponza, Alessandro, l’ultimo che avrebbe visto vivo Gianmarco. Anche lui ci dà la sua versione. Oggi partiamo dai debiti che avrebbe contratto Vincenzo dopo aver perso al gioco in Slovenia “una cifra folle”, come racconta. Per ripianarlo avrebbe ricominciato a spacciare dopo i suoi precedenti per questo. Accumulando però un altro debito. Avrebbe restituito man mano i soldi, non tutti però al momento della morte di Gianmarco. Questo non sarebbe però il suo unico debito in ambienti particolari. Ce ne parla una persona che per motivi di sicurezza preferisce restare anonima. Avrebbe lavorato come corriere con la terraferma laziale e fornitori importanti per conto di Vincenzo Pesce, che rifornirebbe i piccoli spacciatori dell’isola. Sostiene che il pagamento sarebbe avvenuto man mano. Si parlerebbe di un totale di debiti di 25mila euro. La sorella di Gianmarco è convinta che il suo omicidio possa essere un avvertimento contro il debitore, Pesce, per cui il ragazzo lavorava. C’è anche qualcuno che vuole parlare proprio con Martina dopo i nostri servizi. È un ragazzo che avrebbe fatto in passato il corriere per Pesce, che però non l’avrebbe pagato. Sarebbe invece stato intimidito da quattro addetti alla sicurezza romeni del locale di pesce. Pensa che una cosa del genere potrebbe essere successa a Gianmarco, dopo magari aver chiesto conto di un mancato pagamento da parte di Pesce. Mentre la famiglia e il padre in lacrime chiedono a tutti un aiuto e altre testimonianze per arrivare più vicini alla verità.
Gianmarco Pozzi, due versioni diverse e in esclusiva del caso di Ponza. Le Iene News il 19 marzo 2021. Secondo appuntamento con l’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano sulla morte di Gianmarco Pozzi a 28 anni il 9 agosto scorso a Ponza. Incontriamo due personaggi chiave di questa storia, che ci danno versioni molto diverse. E ripercorriamo tutti i punti oscuri di questo caso, compresi gli interrogativi sugli ambienti dello spaccio. La famiglia e i pm sospettano un omicidio, dopo la prima ricostruzione di una caduta accidentale combinata a un’intossicazione da cocaina. “Io voglio sapere cosa è successo. E sono sicuro che qualcuno lo sa. In particolare quelli che vivevano con lui sanno la verità”, ci dice papà Paolo. Torniamo a parlarvi con Giulio Golia e Francesca Di Stefano dei tanti misteri che circondano la morte di Gianmarco Pozzi a 28 anni il 9 agosto scorso sull'isola di Ponza. E del perché, come vi abbiamo raccontato nell’ultima puntata, la famiglia non crede alla versione di una caduta accidentale dall’alto combinata a un’intossicazione da cocaina. Mentre anche la procura di Cassino ha aperto un’indagine per omicidio. Alla famiglia, intanto, il giorno dopo il nostro primo servizio è arrivata anche una segnalazione. Gabriele Bianchi, accusato assieme al fratello Marco di aver picchiato a morte Willy Monteiro in settembre a Colleferro, sarebbe stato a Ponza pochi giorni prima della morte di Gianmarco. Una coincidenza forse da verificare. Noi incontriamo il compagno di stanza e “amico fraterno” Alessio. Ha sempre parlato di quattro giorni passati con Gianmarco sempre svegli ad assumere cocaina continuamente. Poi Gianmarco sarebbe “impazzito”, con allucinazioni e deliri che lo avrebbero portato all’incidente mortale. Alessio dice che dopo l’ultima tragica notte, la mattina non ha trovato più Gianmarco in casa. Poi si sarebbe addormentato senza volerlo, al suo nuovo risveglio erano già arrivati i carabinieri. La cocaina? L’avrebbe buttata Gianmarco nel water per la continua paura delle “guardie”. Incontriamo anche Vincenzo, gestore del locale dove il kickboxer Gianmarco Pozzi lavorava come buttafuori. Cercare di far coincidere le due versioni sui rispettivi eventuali ruoli nel presunto giro di spaccio avviato da Alessio e Gianmarco a Ponza sembra impossibile. Guardate nel servizio qui sopra l’intreccio dei due racconti, anche su trasporto, tagli e prezzi degli stupefacenti. Proprio per lo spaccio uno dei due tra Alessio o Gianmarco, secondo Vincenzo, avrebbe rischiato di perdere il posto. Alessio conferma comunque di credere all’incidente mortale. Perché ha lasciato l’isola subito dopo la morte? Non per paura, ma per lo choc. La nostra inchiesta non finisce qui.
Morte di Gianmarco Pozzi e il presunto spaccio, il sindaco di Ponza: “Tessuto sociale è sano”. Le Iene News il 24 marzo 2021. Con Giulio Golia e Francesca Di Stefano vi stiamo raccontando la storia di Gianmarco Pozzi, morto a 28 anni a Ponza. Quella che secondo le prime ricostruzioni sembrava una caduta e un’intossicazione da cocaina, per la famiglia è invece un omicidio: la procura ha un’indagine aperta per omicidio volontario a carico di ignoti. Una vicenda sopra cui aleggiano possibili sospetti intorno ad ambienti dello spaccio. Su questo punto sono intervenuti il sindaco di Ponza e le imprese turistiche locali. “Il tessuto sociale di Ponza è sano”: a parlare alla stampa locale è il sindaco di Ponza, Francesco Ferraiuolo, intervenuto dopo la grande attenzione portata dai nostri servizi sul caso della morte di Gianmarco Pozzi. Il ragazzo è deceduto lo scorso 9 agosto a Ponza: aveva 28 anni. Quella che secondo le prime ricostruzioni sembrava una caduta e un’intossicazione da cocaina, per la famiglia è invece un omicidio: la procura ha un’indagine aperta per omicidio volontario a carico di ignoti. Una vicenda sopra cui aleggiano possibili sospetti intorno ad ambienti dello spaccio, come vi abbiamo raccontato nel servizio in testa a questo articolo. Ed è proprio sulle presunte attività illecite di spaccio che il sindaco Ferraiuolo si è voluto soffermare, sottolineando “senza mezzi termini la ferma condanna per l’operato di chi, chiunque esso sia, ignobilmente, percorre le strade illegali ai fini di illeciti guadagni”. E poi ha aggiunto: “Nutro la massima fiducia nella magistratura che saprà fare luce sull’intera vicenda per perseguire i soggetti a carico dei quali emergeranno le eventuali responsabilità”. "Credo che l’indagine condotta dalla trasmissione televisiva ‘Le Iene’ sulla morte del giovane Gianmarco Pozzi”, prosegue il primo cittadino, “rispetto alla quale ribadisco il mio profondo cordoglio, aprendo uno spaccato non immaginabile in quei termini e con aspetti inquietanti, non sia passata inosservata agli inquirenti anche per la parte relativa al giro di droga”. Il sindaco ha auspicato che l’operato di magistratura e forze dell’ordine “possa garantire alla popolazione e ai turisti, che riempiono l’isola nel periodo estivo, il diritto di vivere e soggiornare in maniera civile e serena”. Proprio sui residenti Francesco Ferraiuolo ha voluto ricordare come “il tessuto sociale di Ponza è sano” e che “la nostra popolazione è adusa al culto dell’accoglienza, della buona educazione e delle buone pratiche del vivere civile”. Sul tema delle presunte attività di spaccio sull’isola sono intervenute anche Confcommercio Lazio Sud e Federalberghi di Ponza che, in una lettera inviata alla nostra redazione, hanno voluto prendere “le distanze da operatori che hanno gestito, in modo non corretto, le loro imprese”. Ribadendo al contempo “la correttezza e la sicurezza dell’operato delle nostre imprese, esercitate da sempre a tutela dei turisti e dei residenti”. Di questo e molto altro noi torneremo presto a parlare con Giulio Golia e Francesca Di Stefano a Le Iene.
Morte di Gianmarco Pozzi a Ponza: caduta accidentale o omicidio? Le Iene News il 16 marzo 2021. Con Giulio Golia e Francesca Di Stefano vi parliamo della morte di Gianmarco Pozzi, il 9 agosto scorso a Ponza a 28 anni. Lo facciamo partendo da una foto e ripercorriamo i molti lati oscuri di questa storia con le indagini della famiglia, che crede si tratti di un omicidio e non di una caduta e di un’intossicazione da cocaina. Ecco perché tra testimonianze, sospetti sugli ambienti di spaccio, un’autopsia mai fatta e una clamorosa perizia. Mentre il pm ora indaga per omicidio volontario. Gianmarco Pozzi è morto a 28 anni il 9 agosto scorso sull'isola di Ponza. Con Giulio Golia e Francesca Di Stefano ci chiediamo, seguendo le indagini fatte in proprio dalla famiglia se sia trattato davvero di una caduta legata a un’intossicazione da cocaina o se possa trattarsi di un omicidio. Partiamo da uno scatto di qualche anno fa a Ponza di Giulio Golia e Gianmarco, che lavorava già come buttafuori in alcuni locali dell’isola. Poi la Iena ci racconta di aver visto la sua foto da morto sui giornali: “Sono qui a parlarvene perché in qualche modo glielo devo”. E perché i punti oscuri di questa brutta storia sembrano davvero tanti. Li ripercorriamo seguendo le indagini dalla famiglia e raccogliamo anche il dolore e il ricordo di padre, madre e sorelle e del suo allenatore di kickboxing. Si parte dalla versione della caduta dall’alto di un muretto collegata con un’intossicazione da cocaina. I familiari non credono a questa versione. Una sorella è andata subito sull’isola. Da allora registrano tutto, chiamano tutte le persone che possono sapere qualcosa. Accompagniamo i familiari ancora una volta a Ponza fino al luogo del ritrovamento del cadavere, dove sottolineano le tante cose che non tornerebbero nella ricostruzione. La madre si commuove, è la prima volta che vede quel posto. “È stato ucciso”, sono convinti. Lo sono anche perché secondo loro le lesioni sul corpo non corrisponderebbero con la tesi della caduta. Ricostruiamo quei giorni di agosto fino all’ultima tragica notte, la vita con i compagni di stanza, le prime indagini, l’autopsia mai fatta, gli effetti personali di Gianmarco, la dinamica dei fatti, le testimonianze. Vi parliamo dei possibili sospetti sugli ambienti dello spaccio. La famiglia ha chiamato come consulente di parte il professor Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale alla Sapienza di Roma, noto per essere stato anche il consulente della famiglia di Stefano Cucchi. Solo pochi giorni fa ha consegnato alla procura un supplemento di 33 pagine alla sua prima relazione. “Chiudere il caso dicendo che è caduto in preda a un delirio da cocaina? Non c’è evidenza scientifica”, dice Fineschi a Giulio Golia. E prosegue: “Le indagini tossicologiche, e faccio anche la chiosa, fatte benissimo, che ci dimostrano il tasso di cocaina, non ci possono indurre a dire che lui si è messo a correre scompostamente in un campo fino ad arrivare al muretto e precipitare di sotto. Dobbiamo ipotizzare che corresse, che è caduto, che si è arrotolato in questo campo, che poi si è rialzato, è andato ad impattare. Voi capite che diventa una cinematica un pochino troppo cinematografica”. Gianmarco dunque, secondo questa perizia, non sarebbe caduto accidentalmente sotto effetto di “un'ingente quantitativo di cocaina”, come stabilito in un primo tempo, ma potrebbe essere stato invece picchiato e ucciso, forse nell’ambito di una spedizione punitiva che potrebbe essere collegata all’attività di gruppi di spacciatori. “Quando ho visto questo corredo fotografico ho detto che molte cose non erano coincidenti. Io ritengo sia giusto rivedere il caso”, dichiara ancora Fineschi. Intanto è stato aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio volontario e sono stati richiesti ulteriori chiarimenti al professor Fineschi. Nel servizio qui sopra potete vedere tutta la lunga e complessa ricostruzione. E tutti i molti i punti oscuri di questa storia che sembrano non tornare.
Vittorio Buongiorno e Rita Cammarone per il Messaggero il 10 gennaio 2021. «Un edema polmonare provocato dalla compressione del torace contro il muretto della sommità dell' intercapedine». Questa una delle conclusioni a cui è giunto il professor Vittorio Fineschi, il responsabile dell' istituto di Medicina legale del Policlinico Umberto I di Roma nominato consulente dalla famiglia di Gianmarco Pozzi, il 28enne di Roma, ex campione di kick boxing, morto a Ponza il 9 agosto scorso. Nella sua perizia, che sarà depositata domani presso la Procura di Cassino, che ha aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti, viene confutata la relazione della dottoressa Daniela Lucidi, incaricata dal sostituto Maria Beatrice Siravo nell' immediatezza del tragico evento, inizialmente attribuito ad una caduta accidentale del pugile in uno spazio angusto tra il muro di contenimento di un terreno e una parete esterna della sottostante abitazione, nella zona di Santa Maria. La dottoressa Lucidi, sulla base del solo esame cadaverico esterno e del test tossicologico, ha concluso sostenendo la compatibilità delle ferite riscontrate sul corpo del giovane con una caduta dall' alto e un' intossicazione acuta da cocaina con dosaggi «compatibili con lo sviluppo di allucinazioni e deliri». Un fungo schiumoso rinvenuto all' interno del cavo orale della vittima è stato attributo alle conseguenze di un' overdose da cocaina.
LA NUOVA PERIZIA. Un' ipotesi questa che il professor Fineschi smentisce attraverso una diversa conclusione. Il consulente della famiglia Pozzi, che sul caso si è dovuto basare soltanto sulle fotografie del cadavere scattate sul tavolo dell' obitorio, poiché dopo l' esame esterno la salma è stata dissequestrata e cremata, ha ritenuto che la formazione schiumosa sia invece attribuibile ad un edema polmonare acuto massivo. Edema provocato dallo schiacciamento del torace contro quel maledetto muretto, durante un pestaggio della vittima colpita da un corpo contundente. Una circostanza che spinge il legale dei familiari del giovane pugile. «A ritenere che il giovane sia precipitato o esanime, e quindi impossibilitato a pararsi con braccia e gambe, o già morto», come spiega l' avvocato Fabrizio Gallo. Altro punto focale della relazione del professor Fineschi riguarda la controperizia dell' esame tossicologico. Secondo l' autorevole docente di Medicina Legale dell' università La Sapienza, il quantitativo di cocaina assunto dal 28enne, per il suo ricorso assiduo alla stessa sostanza stupefacente, non era tale da poter provocare allucinazioni e deliri come descritte nella perizia medico-legale della dottoressa Lucidi.
L' ORARIO DELLA MORTE. Il professor Fineschi, inoltre, avrebbe collocato il decesso di Gianmarco tra le 6.30 e le 9.30 del 9 agosto 2020, sulla base delle macchie ipostatiche presenti sul corpo e riscontrabili dai rilievi fotografici eseguiti. La collocazione della morte a un' ora e mezza prima del rinvenimento del cadavere nell' intercapedine, alle ore 11, è in linea con la testimonianza dell' infermiera del 118 intervenuta sul posto, riascoltata recentemente dai carabinieri su delega della Procura, che ha riferito che il corpo presentava alle 11.05 già una certa rigidità, escludendo quindi che potesse essere morto pochi minuti prima. L' anticipazione dell' orario del decesso, rispetto alle ipotesi iniziali, dà sostanza anche alla testimonianza del barista di Formia, acquisita nei giorni scorsi dai carabinieri, che ha detto di essere stato con Gianmarco fino alle 7 meno un quarto ma che alle 9 non gli rispondeva già più al telefono. Una testimonianza, quest' ultima, che non collima con le versioni fornite dai colleghi buttafuori della discoteca Blue Moon e coinquilini del 28enne nell' alloggio di Ponza. «Martedì mi recherò a Cassino ha affermato ieri l' avvocato Gallo, che coordina le indagini difensive attivate dalla famiglia Pozzi per chiedere al Pm, la dottoressa Siravo, di assumere provvedimenti nei confronti di chi ha fornito false testimonianze, contribuendo sin da subito a nascondere l' omicidio».
Rita Cammarone per "il Messaggero" il 18 marzo 2021. «Quando Gianmarco Pozzi è stato ucciso, sull'isola di Ponza c'erano anche i fratelli Gabriele e Marco Bianchi noti alle cronache per l'omicidio di Willy Monteiro Duarte». Una suggestiva coincidenza o c'è dell'altro? Per l'avvocato Fabrizio Gallo, legale della famiglia Pozzi, è una circostanza da non sottovalutare e da portare all'attenzione degli inquirenti: «Chiederò alla Procura di Cassino afferma - di verificare se tra i due fratelli di Artena, arrestati a settembre 2020 per l'efferato delitto di Colleferro, e Gianmarco, morto il mese precedente massacrato di botte e gettato in fondo a un'intercapedine tra due muri sull'isola pontina, vi fossero stati contatti. Chiederò che si mettano a confronto i tabulati telefonici e si verifichi la posizione dei cellulari nelle ore più vicine alla morte di Gimmy (Gianmarco, ndr)». Ma da dove nasce l'attenzione per questa concomitanza? L'avvocato spiega che, a seguito della puntata de Le Iene andata in onda martedì sul giallo di Ponza, ieri mattina Paolo Pozzi, padre del pugile 28enne di Roma morto il 9 agosto in circostanze da chiarire, ha ricevuto da una conoscente di Ponza una foto di Gabriele Bianchi scattata davanti a Palmarola (altra isola dell'arcipelago pontino) e da lui stesso postata su Facebook il 7 agosto 2020, con un'inquietante didascalia Essere maledetto mi benedice. «L'intenzione della donna dice l'avvocato è stata proprio segnalare la presenza dei Bianchi a Ponza nel tragico week end. Lei i fratelli Bianchi li conosceva già, e ricorda benissimo di averli incontrati sabato 8 agosto al porto e la mattina seguente. Dal servizio televisivo ha proseguito l'avvocato - sono emersi particolari sullo spaccio di cocaina, su quantitativi acquistati a Roma e portati sull'isola. E' ormai acclarato che Gianmarco facesse parte di questo ambiente. Come è noto i fratelli Bianchi risultano indagati anche per spaccio. Infine, sarebbero stati visti nella discoteca Blue Moon dove Gimmy lavorava come buttafuori». Dunque, secondo l'avvocato Gallo - che coordina le indagini difensive messe in campo dai consulenti della famiglia Pozzi la segnalazione deve essere verificata. Per il legale non si tratta di voler gettare nuove ombre sui fratelli di Artena accusati, insieme ad altri due giovani, di aver ucciso a calci e pugni il 21enne di Colleferro, diventato simbolo di coraggio e altruismo, ma della necessità di non tralasciare alcun elemento che possa portare alla verità sulla morte del giovane pugile, per il quale la famiglia chiede giustizia. Il professor Vittorio Fineschi, consulente medico legale della famiglia Pozzi, ha depositato la scorsa settimana un'integrazione di perizia richiesta dal sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo a chiarimento delle sue conclusioni sul coinvolgimento di terzi nella morte del giovane. Il docente di Medicina Legale dell'università La Sapienza ha così evidenziato che le lesioni riscontrate sul corpo del 28enne fanno ipotizzare che nella zona circostante il luogo del rinvenimento del cadavere vi possa essere stata una colluttazione risoltasi, dopo essere stato trattenuto e schiacciato contro il muretto, con la precipitazione del Pozzi nel sottostante corridoio. Anche nel supplemento di perizia, il professor Fineschi ha ribadito, quindi, che le lesioni sul corpo del pugile non possono essere riconducibili alla precipitazione dall'alto, avvenuta al termine di una corsa in preda a delirio da cocaina come sostenuto dal consulente della Procura, ma dall'azione di terze persone. Ma quante persone? Gianmarco, ex campione di kickboxing, si sapeva difendere, ma potrebbe aver incontrato qualcuno abituato a picchiare meglio? «Su questo non mi pronuncio se si vuole alludere ai fratelli Bianchi ha concluso l'avvocato Gallo - La segnalazione ricevuta ieri e che, ribadisco, porterò all'attenzione della Procura di Cassino, non può essere trascurata anche sulla base di alcune testimonianze che riferiscono di presunte responsabilità di persone non di Ponza. Non ultima la dichiarazione del titolare della discoteca che davanti alle telecamere televisive ha detto, rivolgendosi ai famigliari di Gianmarco, di cercare i responsabili a Roma».
Quella strana morte di un buttafuori a Ponza: "Lì c'erano i fratelli Bianchi". L’avvocato dei familiari della vittima chiede agli inquirenti di verificare se ci furono contatti telefonici tra Pozzi e i due ragazzi. Valentina Dardari - Gio, 18/03/2021 - su Il Giornale. Una strana morte fa discutere da giorni. Quella del buttafuori Gianmarco Pozzi, il cui corpo è stato trovato senza vita mentre era sull'isola di Ponza. Caduta o omicidio? Sulla vicenda indagano i pm. Ma ora il legale della famiglia Pozzi punta il dito anche su Gabriele e Marco Bianchi, i due fratelli accusati dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte.
I fratelli Bianchi erano sull'isola. Come riportato da Il Messaggero, Fabrizio Gallo, l’avvocato della famiglia del pugile 28enne, non sembra voler credere alle coincidenze. E proprio per questo motivo chiederà agli inquirenti di controllare se ci siano stati dei contatti telefonici tra Pozzi, ex campione di kickboxing, e i due ragazzi, ben noti per denunce e pestaggi. “Chiederò alla Procura di Cassino di verificare se tra i due fratelli di Artena, arrestati a settembre 2020 per l'efferato delitto di Colleferro, e Gianmarco, morto il mese precedente massacrato di botte e gettato in fondo a un'intercapedine tra due muri sull'isola pontina, vi fossero stati contatti. Chiederò che si mettano a confronto i tabulati telefonici e si verifichi la posizione dei cellulari nelle ore più vicine alla morte di Gimmy” , ha fatto sapere il legale. L’avvocato ha poi spiegato che Paolo Pozzi, il padre della vittima, dopo la puntata de Le Iene andata in onda martedì scorso sull’omicidio avvenuto lo scorso 9 agosto sull’isola di Ponza, ha ricevuto da una conoscente una fotografia scattata davanti all’isola Palmarola, situata nell'arcipelago delle Isole Ponziane, che Gianmarco aveva postato sulla sua pagina Facebook il 7 agosto 2020, accompagnata dalla scritta “Essere maledetto mi benedice”.
Curriculum horror dei Bianchi. Perché nessuno li ha fermati? Secondo il legale, la donna voleva in questo modo segnalare la presenza dei fratelli Bianchi sull’isola proprio nel tragico fine settimana in cui fu ritrovato morto il pugile. La conoscente ricorderebbe perfettamente di aver incontrato i due ragazzi il giorno 8 agosto vicino al porto e anche la mattina del ritrovamento. Dal servizio di Italia1, come ha voluto sottolineare l’avvocato, sarebbero emersi alcuni particolari riguardanti lo spaccio di cocaina, e i quantitativi acquistati nella Capitale e poi portati sull'isola. I fratelli Bianchi sono indagati anche per spaccio di sostenze stupefacenti ed era già emerso che anche il pugile facesse parte dell’ambiente. Gabriele e Marco sarebbero anche stati visti all’interno di una discoteca, Blue Moon, dove la vittima lavorava come buttafuori. Per l’avvocato Gallo questa segnalazione dovrebbe essere verificata dagli inquirenti, non per infangare ulteriormente i fratelli di Artena ma per riuscire a conoscere la verità sulla morte del 28enne.
Il parere del medico legale. Il consulente medico legale della famiglia Pozzi, il professor Vittorio Fineschi, la scorsa settimana ha depositato un'integrazione di perizia, in seguito alla richiesta fatta dal sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo a chiarimento delle sue conclusioni sul coinvolgimento di terze persone nella morte del giovane buttafuori. Secondo il professore, le lesioni riscontrate sul corpo del pugile farebbero ipotizzare che intorno al luogo del ritrovamento del cadavere ci possa essere stata una colluttazione. E che alla fine, il giovane sarebbe stato prima trattenuto e schiacciato contro il muretto, per poi cadere nel corridoio sottostante. Il docente di Medicina Legale dell'università La Sapienza, nel supplemento di perizia, ha ribadito ancora che le lesioni riscontrate sul cadavere non possono essere riconducibili alla caduta dall'alto che, come sostenuto dal consulente della Procura, sarebbe avvenuta in seguito a una corsa in preda a delirio da cocaina. Sarebbe invece stata causata da terzi. Gianmarco potrebbe quindi aver trovato sulla sua strada qualcuno più forte di lui. “Su questo non mi pronuncio se si vuole alludere ai fratelli Bianchi. La segnalazione ricevuta ieri e che, ribadisco, porterò all'attenzione della Procura di Cassino, non può essere trascurata anche sulla base di alcune testimonianze che riferiscono di presunte responsabilità di persone non di Ponza. Non ultima la dichiarazione del titolare della discoteca che davanti alle telecamere televisive ha detto, rivolgendosi ai famigliari di Gianmarco, di cercare i responsabili a Roma” ha spiegato l’avvocato Galli.
Quel tragico giorno di agosto. Il corpo senza vita di Gianmarco Pozzi, 28enne romano ex campione di kickboxing che viveva a Frascati, era stato ritrovato domenica 9 agosto in un giardino di Ponza, sotto un muretto alto diversi metri, in una intercapedine nel quartiere di Santa Maria, a circa 400 metri dal monolocale che aveva preso in affitto con altri tre ragazzi. Il giovane romano era stato trovato scalzo e indossava solo un paio di boxer. Il cadavere mostrava una ferita alla testa e questo particolare aveva fatto subito pensare che il ragazzo fosse precipitato dalla balaustra in via Staglio. Gimmy, questo il nome con cui era conosciuto, si era trasferito per la stagione estiva a Ponza, dove lavorava come addetto alla sicurezza in una discoteca dell’isola. Per cercare di capire le cause della morte, se accidentale o provocata da terzi, il sostituto procuratore della Repubblica di Cassino, Maria Beatrice Siravo, aveva aperto un'inchiesta contro ignoti con l'ipotesi di omicidio. Di certo c’era solo quel volo di tre metri che gli ha spezzato l’osso del collo. Tra le ipotesi seguite fin dall’inizio quella che Gianmarco fosse precipitato nel tentativo di scavalcare una balaustra dell’abitazione terrazzata. O anche che fosse in preda ad allucinazioni causate dall’assunzione di sostanze stupefacenti. Ipotesi che non avevano però convinto i familiari, e soprattutto la sorella Martina. Alcune incongruenze erano state riscontrate tra l’ora della morte, che non era stata definita a causa del mancato rilevamento della temperatura corporea del cadavere, e l’arrivo dei soccorsi. La famiglia del ragazzo aveva sempre ipotizzato che Gimmy stesse scappando da qualcuno al momento della tragedia.
Gli ultimi minuti di vita di Gianmarco Pozzi a Ponza. Le Iene News il 31 marzo 2021. Torniamo con Giulio Golia e Francesca Di Stefano a parlarvi del caso di Gianmarco Pozzi, morto a 28 anni il 9 agosto scorso a Ponza. La famiglia non crede a una caduta accidentale dall’alto combinata a un’intossicazione da cocaina e pensa, dopo aver fatto indagini in proprio, a un omicidio maturato forse negli ambienti dello spaccio. Ecco le contraddizioni tra due personaggi chiave, cosa ci ha detto Alessandro, l’ultimo che lo ha visto vivo, la ricostruzione punto per punto di quella notte e tutto quello che non torna. Terzo appuntamento con l’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano sui tanti misteri che circondano il caso di Gianmarco Pozzi, ritrovato morto il 9 agosto scorso a 28 anni a Ponza in un’intercapedine tra un muro di contenimento di un campo e un’abitazione. Nel primo servizio ci siamo concentrati soprattutto su tutti i motivi per cui la famiglia, che ha fatto indagini in proprio, non crede alla versione di una caduta accidentale dall’alto combinata a un’intossicazione da cocaina e pensa a un omicidio, forse maturato negli ambienti dello spaccio. Mentre anche la procura di Cassino ha aperto un’indagine per omicidio. Nel secondo servizio abbiamo incontrato due personaggi chiave, che ci raccontano due versioni contraddittorie tra loro su molti punti. Si tratta del compagno di stanza e “amico fraterno” Alessio e di Vincenzo, gestore del locale dove il kickboxer Gianmarco Pozzi lavorava come buttafuori. Cercare di far coincidere le due versioni sui rispettivi eventuali ruoli nel presunto giro di spaccio avviato da Alessio e Gianmarco a Ponza sembra impossibile. In questo nuovo servizio torniamo a parlare con Alessio, che ci dà una sua lunga versione di quanto accaduto. E ricostruiamo anche seguendo le indagini dei familiari e in particolare la clamorosa perizia che hanno richiesto al prof. Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale alla Sapienza di Roma, noto anche per essere stato consulente della famiglia di Stefano Cucchi. Questa perizia indicherebbe un decesso non avvenuto a seguito della caduta nel vuoto ma in seguito all’azione di terze persone. Parliamo anche con un altro coinquilino a Ponza, Alessandro, l’ultimo che avrebbe visto vivo Gianmarco. Come potete vedere nel servizio qui sopra ci racconta anche lui la sua versione. Ricostruiamo allora punto per punto tutto quello che non sembra tornare in quella tragica notte. Intanto ci è arrivata un’email che ci parla di un presunto sgarro che avrebbe fatto Gianmarco. Mentre la sorella ha una sua idea sulla sua morte dopo aver indagato a lungo. La nostra inchiesta non finisce qui.
· Le sfide folli: Replika, Jonathan Galindo, Escape room; Blackout challenge; Momo Challenge; Blue Whale, Planking Challenge.
Alessia Marani per "Il Messaggero" il 9 marzo 2021. Sfidare la sorte per farsi un selfie sui binari con il treno in corsa o, meglio, per riprendersi con un video su Tik Tok. L'ultima follia di ragazzini annoiati è stata interrotta venerdì pomeriggio nel parco degli Acquedotti dagli agenti della Polfer lungo la tratta della ferrovia che va dalla stazione Casilina a quella di Capannelle. Un luogo non così impervio da raggiungere e, evidentemente, non protetto abbastanza dalle reti metalliche dal momento che già nei giorni precedenti i macchinisti avevano lanciato l'allarme per la presenza di giovani vicino ai binari intenti a farsi dei selfie e, in qualche caso, a scagliare sassi. E l'altro giorno l'incursione si è ripetuta. Intorno alle cinque un macchinista ha di nuovo lanciato l'sos per la presenza di giovanissimi vicini alla massicciata, tutti minorenni, tra i 12 e i 13 anni, non di più. I poliziotti di pattuglia in auto non erano così lontani. Sono arrivati in pochi istanti, con loro un'auto del commissariato Tuscolano e più tardi gli agenti della Digos: i ragazzi, almeno quattro o cinque, erano sui binari, qualcuno stava sistemando degli oggetti, forse delle grosse pietre sulle traversine. Tutti con i telefonini in bella vista in mano. Gli agenti si sono avvicinati e c'è stato il fuggi fuggi. I ragazzi sono stati lasciati andare: troppo pericoloso continuare a inseguire dei ragazzini sui binari, qualcuno spaventato avrebbe potuto perdere la lucidità o il senso dell'equilibrio, cadendo e finendo travolto da un convoglio. Contemporaneamente i poliziotti hanno provveduto a fermare la circolazione degli altri treni che sopraggiungevano. Il sospetto è che si tratti di ragazzini di zona, che hanno pensato bene di comportarsi come fossero in un videogioco per spezzare la monotonia dei pomeriggi senza più doposcuola o attività sportive. «Erano ben vestiti, sneakers all'ultima moda e tute di grido», racconta un testimone che ha osservato da lontano una scena dell'inseguimento. Il parco, del resto, era comunque affollato. Venerdì era una bella giornata e raggiungere quel punto non è difficile per gli habitué. Quella dei selfie sui binari è una moda pericolosa tra gli under 14. Un anno fa quattro ragazzini vennero sorpresi a stendersi sui binari della Bologna-Milano dalla polizia ferroviaria, uno di loro venne fermato e ammonito. Anche a Carpi (Modena) dei ragazzini furono sorpresi a riprendersi mentre erano sui binari per poi scivolare sul terrapieno e a ridere al passaggio dei treni. Ancora più rischiosa della follia del Daredevil selfie come è stato ribattezzato il fenomeno del passatempo mortale, ossia il fotografarsi in situazioni pericolose, è quella del train surfing, la pazzia dei writers che cavalcavano il treno in corsa tra Bolzano e Merano. Un caso scoperto esattamente un anno fa. Altri writes, invece, sono stati stanati, sempre dalla polizia, sabato alle 13 in azione alla stazione del Nuovo Salario. In tre stavano imbrattando un treno quando sono stati ripresi dai poliziotti che, per tutta risposta, sono stati aggrediti con un lancio di bombolette spray. Un agente ha sparato un colpo in aria a scopo intimidatorio - che ha terrorizzato i residenti di via Chiusi - due dei ragazzi sono stati fermati e denunciati.
Quando il gioco diventa fatale: perché Federico è precipitato? Rimane nel mistero il motivo per il quale Federico Schiraldi è precipitato dal balcone dopo aver preso parte a un gioco alcolico. Un momento di svago che però non va sottovalutato. Ecco il perché secondo l'esperta Maura Manca. Sofia Dinolfo - Sab, 27/02/2021 - su Il Giornale. Si scarica l’app, si partecipa a un quiz e chi sbaglia paga la penitenza bevendo uno “shottino alcolico”. È questo un gioco molto in voga, che intrattiene gruppi di amici a trascorrere qualche momento goliardico. Ma ancora una volta una serata di svago e leggerezza si è trasformata in tragedia. È quanto successo a Firenze la notte del 22 febbraio scorso, quando dalla finestra di un palazzo sito nel cuore del centro storico Federico Schiraldi è precipitato perdendo la vita. Il 21enne, originario di Vedano al Lambro (Monza), si era trasferito nel capoluogo toscano per studiare al Polimoda. Le ultime ore della sua vita le ha trascorse in quella casa assieme ad altri sei ragazzi, in un festino finito oltre ogni aspettativa. Al centro della tragedia ci sarebbe proprio il “gioco dell’alcol”. Non si sa cosa sia accaduto, tuttavia i carabinieri hanno trovato una certa quantità di bottiglie di alcol vuote. Nella notte Federico, raggiungendo la finestra, è precipitato dal quarto piano morendo sul colpo. Cosa può essere successo? Cosa rappresenta questo gioco per le comitive? Ne abbiamo parlato con la psicoterapeuta e presidente dell'Osservatorio nazionale adolescenti Maura Manca.
Perché c’è attrazione e curiosità verso questo tipo di gioco?
"L’attrazione verso tutto ciò che va oltre un certo limite e che provoca stati di alterazione suscita da sempre la curiosità dei ragazzi. Loro in alcuni casi cercano una condizione di alienazione intesa come una ‘condizione altra’ rispetto alla vita che vivono. Per cui, in quel momento di condivisione alcolica, accade che riescono a trovare proprio quella condizione perché si divertono, dicono e fanno sciocchezze legate al tipo di gioco. In questo modo i ragazzi creano un momento che appartiene solo al gruppo che si è creato e che ricorderanno come un piacevole evento. Questo è fondamentalmente il senso dei giochi alcolici. Il problema sorge quando si avverte il bisogno di giocare per divertirsi: quel momento si trasforma in occasione, per come dicono loro, di ‘sfasciarsi’. È proprio lì che non si può parlare più di gioco e divertimento ma di una condizione problematica. Se c’è bisogno di alterare il proprio stato di coscienza per divertirsi, il rischio di farsi male cresce esponenzialmente".
Una volta entrati nella dinamica del gioco, fino a che punto è gestibile la possibilità di fermarsi in tempo?
"Il problema è che noi chiamiamo gioco questo tipo di attività e, di conseguenza, il nostro cervello automaticamente la percepisce come meno a rischio e meno dannosa. Usiamo impropriamente questo termine per deresponsabilizzarci, per non ammettere a noi stessi che stiamo ponendo in essere una condotta che può anche essere deviante. Non porsi dei limiti non è un gioco, ma fonte di possibili problemi. Nel momento in cui si va oltre, non si pongono più freni, non si tratta più di un gioco perché ci si immette in una condizione di rischio. Queste dinamiche non riguardano solo gli adolescenti ma anche i giovani adulti della fascia tra i 20-30 anni. Molte comitive organizzano serate a base di alcol in modo abituale, lo fanno per sentirsi liberi perché pensano che solo raggiungendo un certo grado di disinibizione riusciranno a divertirsi. Invece si mettono in una situazione di alto rischio. Le persone che si fanno male durante queste serate sono tante, proprio perché superano i limiti e alterano lo stato di coscienza. Un conto è l’occasione, un altro conto è l’abitudine a quel gioco che diventa il solo modo per divertirsi".
Perché un momento di leggerezza come questo si è trasformato in tragedia per Federico Schiraldi? Perché possono accadere eventi drammatici anche in un momento di svago?
"Nel caso di Firenze occorre che emergano ancora dei risultati specifici dalle indagini, affinché si possa accertare la correlazione diretta fra i due eventi. Sicuramente sappiamo che c’era un gruppo di amici che si stava divertendo anche con l’uso di alcol, ma in questi casi occorrono delle indagini approfondite, come ad esempio quelle di carattere tossicologico. La possibile presenza di sostanze stupefacenti potrebbe cambiare il quadro generale della situazione. Alle tragedie si arriva perché si supera il limite. Essere tra amici porta a dividere la responsabilità di quello che si fa con i presenti. Per cui, nel momento in cui si è in tanti, è come se ognuno si deresponsabilizzasse di quello che fa andando oltre. Proprio lì subentra la condizione di rischio. Se ci si altera, la percezione dello spazio, del tempo, di se stessi è alterata e, di conseguenza, il rischio di farsi male diventa molto alto, perché la percezione di ciò che sta realmente accadendo e delle conseguenze delle proprie azioni è alterata".
Quali conseguenze psicologiche potrebbero portarsi dietro i ragazzi che hanno preso parte alla festa senza poter impedire il tragico evento?
"Per un ragazzo è una condizione tragica. Nella mia esperienza lavorativa, parlando con le persone che hanno vissuto una situazione simile, in cui un momento ludico si è trasformato in tragedia, è sempre emerso il subentrare di domande assieme ai sensi di colpa del tipo: “potevo fare questo” ,“potevo comportarmi in quel modo”. Nella testa di un ragazzo che gioca e si diverte, non trapela l’idea che possa subentrare la tragedia. Tanti giovani vivono uno stato di choc e hanno bisogno di un aiuto specialistico per elaborare ciò che hanno vissuto affinché non si trasformi in trauma. L’importante è che imparino dalla tragedia il valore della vita che non può essere messo in gioco".
A 12 anni si impicca con la cinta dell'accappatoio: ipotesi challenge su TikTok. Ci sarebbe l'ombra di una sfida mortale su TikTok dietro la morte di una ragazzina di soli 12 anni. Tuttavia, non si esclude l'ipotesi di un suicidio. Rosa Scognamiglio - Lun, 15/03/2021 - su Il Giornale. Una bambina di 12 anni è stata trovata senza vita, impiccata con la corda di un accappatoio legata intorno al collo, nel bagno di casa. La tragedia si è consumata nel pomeriggio di domenica 14 marzo a Borgofranco, in provincia di Ivrea. A lanciare l'allarme è stato il papà della giovanissima vittima. L'ipotesi degli investigatori è che abbia partecipato ad una folle sfida lanciata su TikTok, la "blackout challenge", ma non si esclude l'eventualità di un suicidio.
La tragedia. Ha legato la corda dell'accappatoio intorno al collo, l'altra estremità era sospesa ad un mensola. Pochi secondi e il suo cuore ha smesso di battere. Sarebbe questa la tragica circostanza in cui è morta una ragazzina di soli 12 anni, residente a Borgofranco, in provincia di Ivrea. A dare l'allarme è stato il padre della giovanissima vittima dopo aver rinvenuto il corpo senza vita della figlia nel bagno di casa. Nonostante l'intervento tempestivo del 118, per la dodicenne non vi è stato nulla da fare: ogni tentativo di rianimazione si è rivelato pressoché vano. Sul posto sono intervenuti i carabinieri del Comando locale a cui sono state affidate le indagini del caso.
Ipotesi challenge su TikTok. Stando a quanto si apprende da fonti a vario titolo, la ragazzina avrebbe partecipato alla sfida mortale di TikTok, la "blackout challange". L'indiscrezione, rilanciata da Il Messaggero, troverebbe conferma nelle parole della sorella minore che avrebbe fatto riferimento ad "un gioco" sul social di tendenza tra i giovanissimi. Tuttavia, al momento, non vi è ancora alcuna conferma sull'accaduto. Gli investigatori non escludono l'eventualità di un suicidio sebbene le circostanze del decesso suggeriscano una dinamica simile alla vicenda di Antonella, la bimba palermitana di 10 anni morta verosimilmente per aver aderito all'ennesima challange social. Ad ogni modo, lo smartphone e il computer della dodicenne sono stati sequestrati e sottoposti all'attenzione dell'autorità giudiziaria incaricata del caso.
"Non si è suicidata". Domenico, lo zio della bambina, non ha dubbi di alcuna sorta: "È colpa di quel social network che hanno i ragazzini, TikTok - dichiara a La Repubblica - Non un suicidio? No, non lo avrebbe mai fatto, era una ragazzina senza nessun problema. Solo ieri abbiamo parlato di quello che avrebbe voluto studiare alle superiori". Come tutte le ragazzine della sua età, possedeva uno smartphone "ma non aveva tante cose sul cellulare ma aveva scaricato l'app di TikTok. Però non è detto che ci sia un collegamento tra quello che è successo e il social network", spiega l'uomo. Poi conclude: "Le indagini sono in corso. Per fortuna siamo riusciti a sbloccare il cellulare e lo abbiamo consegnato ai carabinieri che indagano. Ma non riesco a trovare nessuna altra spiegazione. Ieri ci siamo visti tutti insieme, abbiamo parlato. Era tranquilla. Purtroppo questo non è un bel periodo perché un mese fa è mancato anche il nonno e ieri abbiamo celebrato la messa di trigesima".
Le challenge mortali tra i giovanissimi. La bambina morta a Borgofranco sembrerebbe essere solo l'ultima vittima, in ordine cronologico, delle challenge mortali in voga tra i giovanissimi. Nelle scorse settimane, a Rivoli, era stato segnalato il caso di un gruppo di giovani che, su corso Francia, si lanciava contro le auto per gioco. Anche quella sembra essere la riproduzione di una delle sfide folli lanciate sulla piattaforma TikTok ma, al momento, non vi è nulla di confermato. Per cercare di arginare il fenomeno dei giovanissimi sul social network dal 9 febbraio il garante della privacy ha chiesto controlli più stringenti per evitare che gli under 13 possano connettersi alla piattaforma del social cinese.
Andrea Bucci per "La Stampa" il 16 marzo 2021. Dodici anni, tante vite in una. Maria che giocava a pallavolo. Maria che studiava: secondo anno delle medie. Maria che era chiusa. Maria che stava ore al telefono. Maria inseguita dalla voce della mamma che chissà quante volte le ha urlato: «Basta con Tik Tok», vieni a mangiare, studia, fatti la doccia. Sbrigati. Maria s'è uccisa l'altra sera. La cintura dell'accappatoio legata a una mensola. Il corpo senza vita. L'hanno trovata i genitori, era l'ora di cena. E adesso son tutti lì a chiedersi il perché e il percome. Son tutti davanti alla casa di Borgofranco d'Ivrea, dove Maria abitava. Carabinieri, curiosi, amici. La procura. E quel che era partito come tam-tam - «è stato un gioco, una sfida nata su Titk Tok» - nelle ore cambia forma. Diventa qualcosa di più grande, di abnorme. Più sconvolgente ancora. Maria voleva morire. Ne aveva parlato con due amiche. Avevano - sospettano adesso gli investigatori - organizzato una sorta di rito. Uccidersi insieme. Nello stesso istante. Dare un calcio al mondo e fuggire via. Ecco, è qualcosa di più di un sospetto. È la strada maestra di ogni indagine che si farà. Ci sarebbero chat su questo argomento. Un gioco, all'inizio, forse. Una scelta definitiva maturata domenica. Ma poi le amiche avrebbero detto no. Chi ha incontrato le ragazzine parla di loro come di bambine sconvolte, spaventate. Fragili come cristalli. Impossibile capire adesso dove inizia e finisce la verità. Tace sui contorni di questa storia il procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando. «Abbiamo aperto un fascicolo contro ignoti che eventualmente potrebbero averla aiutata, favorita o istigata a questo suo gesto estremo», dice. Niente di più, niente di meno. Tik Tok, c'entra qualcosa? «Al momento non sembra emergere l'elemento della sfida sui social». Ma poi vai sapere se è davvero così. E se non ha ragione lo zio di Maria che vede in quel social l'unica causa di questa tragedia: «Era l'unico che aveva scaricato. Stava tutto il giorno attaccata al telefonino». Piange: «Quanti ragazzi dovranno ancora morire prima che lo blocchino, che lo bandiscano, che lo oscurino? Quanti?». Intanto, si scava nella vita Maria. E saltano fuori storie di affanno, di male di vivere. Di disagio. Si parla di tagli sulle braccia. Di episodi di «autolesionismo» come dicono gli esperti. Se questo, però, sia stato nel corso del tempo al centro di approfondimenti psicologici, nessuno per ora lo sa. Borgofranco per ora guarda sotto choc la casa di Maria. Dove per tutto il giorno vanno e vengono investigatori, parenti, curiosi. I primi cercano computer e telefoni, esplorano le chat, frugano tra i libri e i quaderni di Maria, negli zaini, nei cassetti, in cerca di qualcosa che aiuti a far luce. Che sveli perché, a 12 anni, davanti a te vedi solo il buio. I parenti dribblano tutti, invece. Parlare, in queste ore, è impossibile. La verità lontana. L'ombra di quel che, dicono, doveva essere - un suicidio di massa di ragazzine appena entrate nell'adolescenza - spaventa più di quanto spaventi l'emulazione di un gioco nato sui social. Di Maria resta un'ultima immagine, bella, fin delicata. È di domenica pomeriggio, quando con mamma, papà, e i tre fratelli, sono stati vista entrare nella chiesa per la messa. Sorrideva, ricordano. Sembrava felice.
Lodovico Poletto per “La Stampa” il 17 marzo 2021. Maria con la carne ferita sulle spalle. Lame di taglierino e foto alle amiche: «Mi taglio qui, così nessuno lo vede». Maria che andava male a scuola. Maria che giocava con la morte, col diavolo o con quel che lei credeva essere il male, via di fuga e di speranza, più della messa della domenica, da quella vita che le stava stretta. Alle cinque del pomeriggio fa già freddo in questo posto che si chiama Borgofranco: montagne scure che incombono sul paese. L'autostrada verso Aosta a due passi, sullo sfondo i boschi, quasi spettrali in questa stagione. «Ma domenica c'era il sole e alle tre siamo andare a fare una passeggiata» racconta Natasha. Qui non ci sono i pericoli della città: se i bambini vanno nei boschi da soli nessuno si preoccupa. Il lupo, è lontano. «Facevano foto e video con i cellulari. Siamo amiche da tempo: Emanuela e io siamo in classe insieme, terza media, Maria aveva un anno in meno». Adesso, stretta nella sua felpa azzurra, mentre parla a raffica guardando fisso nel vuoto, Natasha sembra ancora più piccina della sua età. Occhi scuri, mani piccole. I racconti di una domenica come tante. Maria al mattino ara andata a messa con la famiglia. Dicono che sorrideva, ma vai a sapere se è davvero così. Natasha era rimasta a casa. Francesca pure. Poi si erano sentite su WhatsApp. «Io non so dire perché, ma ad un certo punto Francesca e Maria hanno cominciato a dire che volevano ammazzarsi. Che volevano togliersi la vita. Facevano progetti. Dicevano: dai lo facciano insieme». Quando? Stasera, stanotte, domani. E sembrava un gioco all'inizio. Poi è diventato sempre più reale. Più angosciante. Spaventoso. «E io mi sono spaventata. Alle sei sono corsa via, non ne potevo più di quelle robe, sono arrivata casa e mi sono messa a piangere». Era reale? «Non so». Pericoloso? No, Natasha l'ha percepito - dice - come uno scherzo. Un brutto scherzo fatto a lei. Da non raccontare a nessuno. Come, a nessuno, ha detto che Maria si tagliava: «Allora se avessi percepito che era qualcosa di estremo lo avrei raccontato subito in casa: mi aveva mandato dei selfie, li ho cancellati». E adesso vien da pensare che quei racconti erano qualcosa di diverso dallo scherzo. Erano una passeggiata sull'orlo di un burrone: vediamo chi cade. Nastasha è corsa via. Francesca forse ci ha pensato, ma poi ha fatto retromarcia. Maria è andata fino in fondo. Lo ha fatto nella sua cameretta, dove i carabinieri hanno trovato - e sequestrato - alcune croci girate al contrario. Satanismo o negazione della religione, della vita, della speranza. E hanno trovato i poster e la musica di Lil Peep, cantante Emo Trap, morto tre anni fa. Saliva sul palco e urlava «voglio uccidermi» o «lasciatemi sanguinare». Lil Peep, il Kurt Cobain del rap, ragazzo dall'adolescenza complicata, le droghe calate in continuazione. La morte arrivata con un'overdose. C'entra qualcosa tutto questo con Maria? Con Francesca che ha fatto un passo indietro all'ultimo minuto. Con Natasha che adesso mentre parla ha gli occhi velati dalle lacrime. E non crolla soltanto perché «davanti agli estranei queste cose non si devono fare». «Io non so se sia nata quel pomeriggio l'idea di uccidersi. Non me lo aveva mai detto» racconta Natasha. Lo aveva confidato a qualcuno? Sì. Anzi no. Anzi chissà. In questa storia c'è un'altra persona. Una ragazza. Che Maria chiamava «la mia fidanzata». Abita a Torino: 100 chilometri da qui. Si scrivevano, si scambiavano fotografie. Parlavano di vita e di morte. «No, io non l'ho mai vista. Ma Maria ci diceva che la sua fidanzata aveva la sua stessa età. Che si erano conosciute in un gruppo». Quale? Su una chat di WhatsApp, oppure su Instagram. I carabinieri la cercano. Forse lei ha in mano la chiave del mistero di Maria. Che voleva morire. Con Francesca. Che all'ultimo ha fatto un passo indietro.
Blackout Challenge, morte cerebrale per una bambina di 10 anni dopo la folle sfida online di strangolamento. Le Iene News il 21 gennaio 2021. In queste ore leggiamo purtroppo su giornali e siti web che per una bambina di 10 anni è stata dichiarata la morte cerebrale a Palermo dopo che aveva partecipato sul web, attraverso il social network TikTok, al Blackout Challenge, la folle sfida di strangolamento online di cui vi abbiamo parlato nell’aprile 2019 con Matteo Viviani, partendo dalla morte del quattordicenne milanese Igor Maj. In queste ore leggiamo purtroppo su giornali e siti web che per una bambina di 10 anni è stata dichiarata la morte cerebrale a Palermo dopo che aveva partecipato sul web, attraverso il social network TikTok, al Blackout Challenge. Si tratta di una folle sfida online che consiste nel legarsi qualcosa al collo fino a svenire per qualche istante. La bambina si sarebbe stretta alla gola la cintura di un accappatoio. Qui sopra potete vedere il servizio di Matteo Viviani che avevamo dedicato al Blackout Challenge, partendo dalla morte del quattordicenne milanese Igor Maj, andato in onda il 2 aprile 2019.
Romina Marceca per repubblica.it il 21 gennaio 2021. L'ultimo messaggio di TikTok lo stava riprendendo col suo cellulare. In bagno, davanti allo specchio. La prova prevedeva di stringere attorno al collo una cintura. E lei, 10 anni, ha preso quella di un accappatoio. Adesso quella bambina è in coma, ricoverata nel reparto di Rianimazione dell'ospedale "Di Cristina" di Palermo. Le sue condizioni sono gravissime. I medici hanno spiegato che è "in coma irreversibile". In ospedale una piccola folla di parenti e amici disperati e in lacrime. Sotto sequestro, da parte della polizia, il cellulare dove si vedono le ultimi immagini. Quella cintura alla gola l'ha stretta per partecipare su TikTok, uno dei social più seguiti dagli adolescenti, al "Black out challenge", una prova di soffocamento estremo. La procura dei minori ha aperto un fascicolo per "istigazione al suicidio" contro ignoti per poter procedere con le indagini. L'inchiesta è coordinata dal procuratore Massimo Russo e dalla sostituta Paoletta Caltabellotta. La procura vuole verificare se e come la bambina possa avere avuto la possibilità di partecipare alla "sfida" (resistere il più possibile senza respirare) sul social, se abbia registrato un video o ne abbia visionato e abbia tentato di emulare qualcun altro. La bambina è stata portata d'urgenza ieri in ospedale. A trovarla priva di sensi in bagno sono stati i genitori. Il cuore della bambina si è fermato per un'asfissia prolungata, prima di ricominciare a battere grazie alle manovre rianimatorie eseguite dal personale sanitario. Secondo una prima ricostruzione la piccola avrebbe raccolto la sfida che sulla app viene chiamata "hanging challenge" e che prevede una prova di resistenza. La sfida, per quanto si faccia fatica a comprenderla, consiste nello stringersi una cintura attorno al collo e resistere il più possibile. La piccola avrebbe seguito i vari passaggi prima di restare asfissiata, trovandosi poi senza forze e crollando per terra. Quando i genitori della bambina si sono accorti della situazione hanno liberato la figlia dalla cintura e l'hanno portata al pronto soccorso dell'ospedale pediatrico. Il quadro clinico della piccola, che lotta tuttora tra la vita e la morte, è apparso subito gravissimo. I medici hanno eseguito un elettroencefalogramma e altri esami ma i primi risultati non sarebbero incoraggianti. La direzione sanitaria è in contatto con le forze dell'ordine e con la magistratura che dovrà ricostruire la dinamica dell'incidente e chiarire i contorni della vicenda. "Siamo corsi tutti in strada, sentivamo delle urla terribili. La mamma gridava che la sua bambina era morta". È il racconto di uno dei vicini della famiglia della bambina di 10 anni che è in coma, ricoverata all'Ospedale dei Bambini di Palermo, dopo un gioco estremo su TikTok. Intorno alle 21 di ieri in una strada del centro storico è stato il putiferio. La bambina è stata trovata a terra, in bagno, con una cintura di accappatoio stretta attorno al collo. La famiglia ha tagliato quella cintura ma la piccola aveva già perso conoscenza. Nella stessa palazzina della famiglia, abita anche uno zio della bambina. "Chiamavano disperatamente il 118 ma attaccavano la segreteria, il tempo era troppo poco. Abbiamo deciso di portare noi, con i genitori, mia nipote in ospedale", racconta a Repubblica il parente della famiglia palermitana. Le condizioni sono ancora disperate, la piccola paziente è ricoverata in Rianimazione. I genitori sono con lei. L'ospedale Di Cristina ha diffuso un comunicato, a firma del direttore sanitario Salvatore Requirez. "La bambina di 10 anni, sulla cui identità vige il massimo riserbo, è arrivata al pronto soccorso alle 21.04 di ieri, con mezzi propri, in arresto cardiorespiratorio di non precisabile durata temporale in quanto l’inizio è ricostruibile, con anamnesi indiretta, solo approssimativamente attraverso il racconto dei genitori che l’hanno accompagnata. Immediatamente accolta in codice rosso ha usufruito delle manovre di rianimazione cardiopolmonare e il cuore ha ripreso il battito. Ha quindi subito eseguito una TAC encefalo che ha evidenziato una situazione di coma profondo da encefalopatia post anossica prolungata. Alle 23.00 è stata ricoverata in Terapia Intensiva Pediatrica per ulteriori valutazioni, monitoraggio e controlli sulle funzioni vitali e le sue condizioni, in atto, sono da considerare critiche".
“Vado a fare la doccia”, ma tenta blackout challenge: donati organi di ragazzina di 10 anni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. È morta dopo quasi una giornata di agonia, una bambina di 10 anni, soffocata dalla cintura dell’accappatoio. Tutto per una sfida partita dai social: di quelle da riprendere con lo smart-phone e poi postare. Su Tik tok in questo caso – anche se l’iscrizione alla piattaforma molto in voga tra giovani e giovanissimi sarebbe concessa solo a partire dai 16 anni di età. La sfida si chiama Black Out Challenge. È successo a Palermo. Due le indagini aperte sulla tragedia: per istigazione al suicidio contro ignori da parte della Procura dei minori e quella della magistratura ordinaria per consentire gli accertamenti tecnici sul cellulare della ragazzina. La bambina aveva legato un’estremità della cintura dell’accappatoio al termosifone del bagno, l’altra al collo. “Vado a fare la doccia” avrebbe detto ai genitori secondo l’AdnKronos. La sorellina più piccola, quattro anni, l’ha trovata cianotica, il cellulare a pochi centimetri. Erano le 20:45 di mercoledì sera circa, quartiere Kalsa di Palermo. Il padre non ha atteso l’arrivo dell’ambulanza. Ha portato la figlia all’ospedale dei Bambini Di Cristina. La bimba è stata ricoverata in condizioni disperate nel reparto di rianimazione. La madre e il padre, due operai, con un altro figlio di quattro anni e un terzo in arrivo, sono rimasti vicino alla bambina. “La bambina è arrivata in arresto cardiocircolatorio da un tempo indefinito – ha sottolineato il direttore sanitario dell’ospedale dei Bambini Salvatore Requirez – Immediatamente è stata rianimata e il cuore ha ripreso a battere. L’abbiamo poi sottoposta a Tac che ha evidenziato subito una situazione di coma profondo da encefalopatia post anossica prolungata”. Le speranze di sopravvivenza si sono praticamente annullate dopo che i medici hanno detto alla famiglia, stamattina, che la ragazzina era in coma irreversibile, in vita solo grazie ai macchinari di rianimazione. Alle 13:00 la comunicazione più tragica: “Vostra figlia è in una condizione di morte cerebrale”. L’indagine della procura dei minori è coordinata dal procuratore reggente Massimo Russo e dalla sostituta Paola Caltabellotta si sta concentrando sul social network e sulle cosiddette challenge. La procura ordinaria invece vuole accertare come sia stata possibile l’iscrizione a TikTok (l’età minima è 16 anni) e indaga sulla ricostruzione di quanto accaduto ieri sera nel bagno della casa. La famiglia ha fatto sapere che donerà gli organi della bambina. Un portavoce di TikTok ha espresso vicinanza ai cari della bambina per la tragedia: “Siamo davanti ad un evento tragico e rivolgiamo le nostre più sincere condoglianze e pensieri di vicinanza alla famiglia e agli amici di questa bambina. La sicurezza della community TikTok è la nostra priorità assoluta, siamo a disposizione delle autorità competenti per collaborare alle loro indagini – si legge – Nonostante il nostro dipartimento dedicato alla sicurezza non abbia riscontrato alcuna evidenza di contenuti che possano aver incoraggiato un simile accadimento, continuiamo a monitorare attentamente la piattaforma come parte del nostro continuo impegno per mantenere la nostra community al sicuro. Non consentiamo alcun contenuto che incoraggi, promuova o esalti comportamenti che possano risultare dannosi. Utilizziamo diversi strumenti per identificare e rimuovere ogni contenuto che possa violare le nostre policy”. Il 22 dicembre il Garante Privacy ha aperto un procedimento su social network, proprio in merito alla protezione dei minori. La piattaforma ha quindi messo in atto una stretta ai profili degli "under 16".
Morta per la sfida social. La sorellina: “Quel gioco lo aveva già fatto davanti a me". Romina Marceca su La Repubblica il 30/1/2021. La bimba lo ha detto agli inquirenti. Aperto il telefonino di Antonella: del video della challenge non c’è traccia. Quel gioco mortale Antonella Sicomero lo aveva già tentato insieme alla sua sorellina di un anno più piccola di lei. È quanto emerge dalle indagini coordinate dalle due procure di Palermo, ordinaria e minorile, sulla fine della piccola di 10 anni dopo una sfida social che avrebbe dovuto pubblicare su TikTok, l'applicazione con la quale giocava ogni giorno. A riferire agli inquirenti una verità che lascia sgomenti è stata la bambina di 9 anni, ascoltata in questi giorni con il supporto di uno psicologo. Avrebbe riferito che Antonella aveva provato a stringere attorno al collo una cintura proprio davanti a lei ma che poi quel tentativo era svanito nel nulla. E di quel gioco Antonella, poi, non aveva più parlato. La sorellina della povera Antonella, ancora sotto choc per la tragedia che l'ha travolta, ha consegnato agli investigatori un racconto confuso e pieno di non ricordo. Era stata la bambina, la sera del 19 gennaio, a riferire ai genitori ancora increduli per la morte della figlia maggiore, che "Antonella ha fatto il gioco dell'asfissia". Questa rivelazione aveva spinto gli investigatori a indagare sul mondo delle sfide estreme sui social. Su TikTok, come hanno riferito i familiari, Antonella caricava i video delle canzoni che cantava e di balletti che duravano pochi secondi, le sue foto con acconciature particolari. Immagini che non avevano mai messo in allarme i suoi genitori che hanno ribadito più volte: "Non avremmo mai immaginato una atrocità del genere". Intanto, dopo una settimana di tentativi, il cellulare di Antonella è stato sbloccato dalla polizia postale di Roma e ieri è stato rispedito a Palermo. Da un primo esame dei dati estrapolati non emergerebbe nulla di rilevante. Ci sono i messaggi con le amichette in cui le bambine si scambiavano informazioni di routine sulle giornate trascorse senza vedersi, i video dei balletti caricati su TikTok. Ma di quella maledetta sera non sembra essere rimasto nulla. Non c'è un video della prova estrema. A questo punto chi indaga potrebbe avvalorare l'ipotesi che la bambina sia svenuta subito dopo aver stretto la cintura al collo senza essere riuscita a avviare il video o che fosse in diretta con qualcuno. Tra i testimoni sentiti in questi giorni, nelle audizioni alla squadra mobile, nessuno però ha confermato una videochiamata con la bambina. Le indagini comunque non si fermano e i tecnici della polizia postale stanno ancora studiando il lungo report estrapolato dal telefonino e che potrebbe consegnare altre novità. Il papà di Antonella, che insieme alla mamma ha dato l'assenso all'espianto degli organi della figlia subito dopo la morte, ha subito espresso il suo timore su quanto accaduto alla figlia. "E se qualcuno l'ha contattata per proporle quella sfida?", ha detto nei giorni scorsi a Repubblica. È l'ipotesi sulla quale, dal primo giorno, indagano le due procure guidate da Francesco Lo Voi e da Massimo Russo e che hanno aperto due fascicoli per "istigazione al suicidio" contro ignoti. Se dovesse risultare il coinvolgimento di un adulto, spiegano gli inquirenti, si configurerebbe l'accusa di avere spinto la bambina al suicidio. Ma se a contattare Antonella per proporre quella challenge fosse stato un minorenne, non ci sarebbe alcun reato.
Salvo Toscano per "il Corriere della Sera" il 23 gennaio 2021. Angelo Sicomero fuma un'altra sigaretta, divorandola finché ce n'è, davanti all'Ospedale dei Bambini. L'intervento di espianto degli organi della sua Antonella, morta in un modo assurdo a dieci anni, è terminato da poco. Quattro bambini vivranno, grazie a lei. «Abbiamo scelto di dire sì alla donazione perché nostra figlia avrebbe detto "sì, fatelo". Era una bambina generosa. E visto che non potevamo averla più con noi, abbiamo ritenuto giusto aiutare altri bambini». Hanno detto così lui e la moglie, incinta al nono mese, ai medici dell'ospedale. Circondato da amici e parenti che non lo lasciano solo, Angelo non ha più parole. È convinto che sia stato il web l'ispiratore di quel gioco folle che è costato la vita alla sua bambina. Perché? «Perché TikTok era il suo mondo. E YouTube. Sempre lì stava», risponde con la composta dignità di un uomo travolto dal dolore. E a quanti oggi predicano più controlli sui bambini che adoperano uno smartphone, risponde così: «Controllarli? Ma se c'è la fiducia, se c'è il dialogo che avevo con mia figlia, non ti metti a controllare». Il sì alla donazione è stato «un esempio della grande generosità e solidarietà di due splendidi genitori che hanno permesso di salvare altri quattro bambini», commenta Giorgio Battaglia, direttore del Centro regionale trapianti. Intanto alla Kalsa, in quello stretto budello della pancia della vecchia Palermo dove la famiglia Sicomero vive e dove mercoledì sera si è consumata la tragedia, c'è una folla di parenti, vicini e amici. Tanti bambini stazionano davanti alla palazzina, vicino a dei lenzuoli su cui sono state scritte parole d'amore per salutare Antonella, che amava i social network tanto da avere non uno ma una serie di profili. Ci sono bambole e pupazzi e tante foto del sorriso dolce della bambina dai grandi occhi scuri. Tanta gente ma anche un silenzio denso di dolore, quasi irreale. Francesco Sicomero, fratello di Angelo, come lui muratore, è stato il primo che ha cercato di rianimare Antonella. «Le ho fatto la respirazione bocca a bocca, il massaggio cardiaco», racconta. Ma non è servito. Poi le telefonate al 118, «non rispondeva nessuno», dice lo zio. E allora è scattata la corsa disperata in auto all'ospedale «Di Cristina». Gli zii vivono nella stessa palazzina: «Siamo come un'unica famiglia, la bambina tante volte dormiva da noi», racconta la zia Smeralda, moglie di Francesco. Com' era Antonella? «Brava, allegra, educata. Le piaceva truccarsi, faceva la vanitosa come può fare una bambina, guardava i tutorial di trucco, ballava», dice ancora incredula. E invita tutti a tacere di fronte allo strazio di questa famiglia: «Qualcuno si permette di criticare, ma come possono? Rispettate il nostro dolore, siamo distrutti». Avvisaglie della tragedia? Nessuna, dicono i familiari. Ma tutti sono convinti che sia stato il telefonino, da cui Antonella non si staccava mai e che aveva portato in bagno dove è stata trovata strangolata, a ispirarla. «Sì, come potrebbe venire in mente a una bambina di fare quella cosa? E poi a quella bambina impossibile», risponde lo zio. Nella scuola «Perez Madre Teresa di Calcutta» in via Maqueda, dove Antonella frequentava la quinta elementare, è stato un giorno di lutto. «Ciao Antonella, per anni ti abbiamo tenuto per mano, ora ti terremo nel cuore», recitava uno striscione appeso a un balcone dell'istituto. Una bambina tranquilla, solare, non problematica e studiosa, con «una mamma attenta e premurosa», dicono gli insegnanti. «Tutte le classi hanno fatto una riflessione sui pericoli della Rete. I bambini erano attoniti, forse molti non hanno neanche la consapevolezza di cosa significa morire», dice la preside Laura Pollichino. Già, cosa vuoi capire della morte in un'età in cui tutto è gioco? Tutto, anche la follia di una «sfida» letale.
Erasmo Marinazzo per “Il Messaggero” l'1 febbraio 2021. Finita la paura, passato l'allarme, si cerca di recuperare la serenità e valutare con attenzione un fenomeno inquietante. Troppi i casi, troppo ravvicinati, per non fare dei singoli episodi un'unica sequenza dove il gioco si unisce all'emulazione e provoca drammi. L'ultimo episodio in provincia di Lecce, in un paese del nord Salento. Una corda e una sedia nel bagno della scuola e il tentativo di una bambina di ripetere sequenza e movenze che una settimana fa, a Bari, hanno provocato la morte di un bambino di nove anni. Per fortuna in questo caso senza esiti mortali.
IL CAPPIO. La bambina ha colto l'occasione del permesso di andare in bagno accordatole da una delle maestre, attrezzandosi alla meno peggio per realizzare un cappio da stringere attorno al collo, assicurando l'altro capo della corda a un sostegno abbastanza robusto a sostenere il suo peso. Per fortuna alcune compagne hanno visto quello che stava per compiere e hanno subito allertato il personale scolastico e le maestre: il loro tempestivo intervento ha scongiurato il peggio.
BAMBINI A RISCHIO EMULAZIONE. Anche in questo caso potrebbe trattarsi di un hanging challenge, una di quelle sfide impossibili alimentate via social. La prova, in questo caso, è restare sospesi nel vuoto. L'inchiesta avviata dalla Procura per i minorenni di Lecce ha già incamerato, con le cautele del caso, alcune certezze, fornite dalla stessa bambina protagonista dell'episodio: la piccola, infatti, ha chiarito di non aver cercato di fare altro se non quello che non è riuscito al suo coetaneo del quartiere San Girolamo di Bari, e cioè restare sospesa senza perdere i sensi. Con una differenza ancor più inquietante: averlo fatto a scuola. Il racconto delle compagne di classe hanno messo subito in moto servizi sociali e la Procura dei minori. Pur con la cautela del caso, le indagini dovranno chiarire il contesto in cui è maturato il gesto della bambina: se e quali dispositivi elettronici i suoi genitori le consentano di usare; se l'accesso ad app e social sia libero o controllato e quanto tempo la bambina sia solita trascorrere on line. Dubbi e perplessità tra cui muoversi con delicatezza. Le stesse indagini della Procura barese sulla tragedia della scorsa settimana non hanno per il momento trovato un nesso causale tra le sfide sui social e il gioco che ha provocato la morte del bambino. Diversamente da quanto accertato per un altro evento tragico, avvenuto il 21 gennaio a Palermo, dove una bimba di 10 anni ha perso la vita partecipando - e stavolta non ci sono dubbi - a una challenge online.
RAGAZZINI A RISCHIO COI SOCIAL. Il procuratore dei minori di Bari Ferruccio De Salvatore lancia l'allarme sul tema che lega i comportamenti dei più piccoli alle difficoltà relazionali dovute alle misure di contenimento del Covid-19: «Noi dobbiamo tener conto che con riferimento a determinate fasce di età lo spirito di emulazione è molto forte. Il problema c'è ed è stato esasperato dalla pandemia, perché molti giovani, soprattutto adolescenti, si sono rinchiusi e sono diventati aggressivi con sé stessi e gli altri. Sono aumentati i casi di cutting, cioè il taglio degli arti con lamette, e i tentativi di suicidi che coinvolgono fasce d'età sempre più basse».
Giappone, suicidi tra adolescenti aumentano a livelli record. La Repubblica il 16 febbraio 2021. Raggiungono quota 479 nell'anno della pandemia. Raggiungono livelli record i suicidi tra gli adolescenti in Giappone nel 2020, anno segnato dalla pandemia di coronavirus anche se eventuali legami con la pandemia sono da chiarire. In base ai dati del ministero dell'Istruzione e dello Sport, nell'anno appena trascorso si sono verificati 479 suicidi, 140 in più rispetto al 2019, e un numero mai così alto da quando sono iniziate le statistiche, nel 1980. A guidare la triste classifica gli studenti di istruzione superiore con 330 casi, seguiti dalle 136 fatalità segnalate nella scuola media, e 14 tra gli alunni delle scuole elementari. Nel marzo dello scorso anno il governo nipponico ha richiesto la chiusura degli istituti scolastici per contenere l'espansione del Covid, e la successiva introduzione dello stato di emergenza ha protratto l'interruzione delle lezioni in presenza fino al termine di maggio o giugno nel Paese. Gli esperti medici, tuttavia, dicono di non avere elementi per affermare che l'aumento dei suicidi sia correlato alla sospensione dell'attività scolastica. Da parte sua il ministero dell'Istruzione ritiene che le cause siano legate alle tradizionali criticità che riguardano la fascia di età, tra cui scarsi risultati accademici, e l'incertezza sul futuro sulla scelta delle carriere da intraprendere. A questo riguardo le autorità competenti ritengono che la distribuzione dei tablets nell'insieme delle scuole elementari e medie aiuterà a monitorare la salute mentale degli studenti tramite indagini sul loro livello di stress. Il ministero, inoltre, ha reso noto che intende avviare una nuova campagna di informazione sui social media, specifica per i giovani in possesso di uno smartphone, mentre rimarrà in funzione una linea telefonica con accesso gratuito dedicata ai problemi degli adolescenti.
Roma, suicida a 17 anni, indagato il professore: "Lo umiliava e lo maltrattava". La Repubblica il 4 febbraio 2021. I fatti sono del 2019. La procura ipotizza l'istigazione al suicidio. Decisive le testimonianze dei compagni di classe. Il docente verrà interrogato nei prossimi giorni. Un ragazzo di 17 anni che si toglie la vita. E una storia di umiliazioni che potrebbe essere la causa di quella tragedia. E la procura di Roma ora indaga per istigazione al suicidio e maltrattamenti e che accusa uno degli insegnanti del giovanissimo. La storia risale al luglio del 2019 e ha come sfondo un liceo dell’Eur: quando un adolescente, con problemi di apprendimento, ha deciso di farla finita nel garage di casa utilizzando una corda. La svolta arriva però dopo anni perchè solo dopo anni alcuni compagni di scuola hanno deciso di parlare e di raccontare cosa si consumava in classe. Hanno parlato di umiliazioni, maltrattamenti verbali, prese in giro sul suo profitto. Episodi che avrebbero messo a dura prova il ragazzino, ne avrebbero scosso l'equilibrio emotivo, avrebbero sgretolato la fiducia in sè stesso in un'età in cui, soprattutto da chi ci guida, si dovrebbe pretendere il contrario. Analizzando il caso, i poliziotti della squadra mobile hanno trovato sul registro elettronico una nota terribile del professore di matematica. E quando, poi, hanno sentito i compagni di classe questi sono stati tutti concordi nel raccontare delle umiliazioni che l’amico subiva da parte di uno dei loro professori. I ragazzi hanno descritto una personalità fragile sulla quale i problemi di apprendimento pesavano particolarmente. E di come le continue mortificazioni inflitte dal prof davanti a tutti possano avere contribuito a quella scelta estrema. Anche perché, appena tre giorni prima della tragedia, era arrivata quella nota. Il professore è indagato, ma rischia di non essere il solo a finire nei guai. I pm stanno valutando anche eventuali responsabilità dei suoi superiori.
Valentina Errante per “il Messaggero” il 5 febbraio 2021. «Con i suoi fogli inutili alla lavagna si è esibito in una prova nella quale sarebbe rimasto fulminato e schiantato da chiunque avesse almeno cinque anni di età». La lunga nota, scritta dal professore di Matematica e letta ad alta voce mentre Luca scappava dall' aula, disperato, era arrivata alla fine di un' interrogazione non programmata. Era andata male, le domande incalzanti lo avevano confuso. Quell'alunno del quarto anno (17 anni) era un Dsa, cioè un allievo con disturbi specifici dell' apprendimento e, secondo, la disposizioni previste dalla legge, avrebbe dovuto avere un piano di studi personalizzato e interrogazioni programmate. Invece non era la prima volta che accadeva il contrario: Luca veniva chiamato all' improvviso e umiliato. E quell'insegnante che ridicolizzava la sua fragilità era diventato un incubo. Una situazione precipitata in un giorno di luglio di due anni fa, all' indomani degli scrutini, quando, nel garage di casa, il ragazzo ha deciso di farla finita, stringendosi una corda intorno al collo. I tentativi della mamma di trovare un dialogo con la scuola erano stati vani. Adesso il professore è indagato per istigazione al suicidio. La nota è agli atti dell' inchiesta del pm Stefano Pizza, che ha delegato la polizia a sentire come testimoni i ragazzi della classe. Tutti hanno confermato: Luca era stremato. Il docente, che continua a insegnare nello stesso istituto, sarà interrogato nei prossimi giorni. Ma intanto la scuola di via delle Sette Chiese era finita al centro di un' interrogazione parlamentare del deputato di Fratelli d' Italia, Fabio Rampelli. Due mesi dopo i fatti, il parlamentare aveva sollecitato il ministero a intervenire. Non c' erano state risposte, ma da viale Trastevere è partita un' ispezione alla scuola, che non ha contattato la famiglia del ragazzo neppure dopo la tragedia. Dopo l' atto parlamentare, invece, è stato il Quirinale a dare un segnale di sostegno ai genitori. Con una lettera di cordoglio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un documento privato che è stato di grande conforto. «In modo presuntuoso (con i suoi fogli inutili alla lavagna), in maniera arrogante, facendo perdere un tempo da denuncia all' autorità, dopo essersi esibito in una prova disperatamente deficitaria - nella quale sarebbe rimasto fulminato e schiantato da chiunque avesse almeno 5 anni di età- rivendicando una mia presunta ironia nei suoi confronti, si allontana dall' aula sbattendomi violentemente la porta in faccia (mi stavo avvicinando per farlo ragionare) ritenendo di sé qualcosa che, visto l' accaduto, è molto difficile da giustificare con buonsenso e razionalità». La nota il professore l' ha anche scritta sul registro elettronico, perché la famiglia di Luca sapesse cosa stava accadendo. E a poco è servito che i genitori si allarmassero e cercassero di trovare una sponda nella docente o nella direzione. I messaggi sarebbero rimasti senza risposta. A settembre 2019 arriva l' interrogazione parlamentare di Rampelli al ministro dell' Istruzione: «Un programma radiofonico - sottolineava il deputato - ha richiamato l' attenzione sulla tragica morte di un diciassettenne, studente al quarto anno dell' istituto di istruzione superiore di via Delle Sette Chiese, che presentava un Dsa regolarmente certificato. Il ragazzo si sarebbe tolto la vita dopo un' umiliazione subita dall' insegnante». Rampelli accusava: «L' istituto in questione enfatizza di avere ricevuto l' attestato Dislessia amica perché i docenti hanno frequentato i corsi di formazione dell' Aid, ente accreditato dal ministero». Stigmatizzato il fatto che la mamma del ragazzo avesse «più volte richiamato l' attenzione degli organi direttivi dell' istituto sulla gravità dei fatti in questione senza che tuttavia conseguisse alcuna reale attenzione».
Alessia Marani per ilmessaggero.it il 7 febbraio 2021. Rosella Di Giuseppe, la dirigente dell'istituto scolastico Rousseau di Roma, ha gli occhi che si fanno lucidi quando parla di Luca (è un nome di fantasia) il diciassettenne che nel luglio del 2019 si tolse la vita nel garage di casa, istigato, ipotizza la Procura capitolina, dal comportamento persecutorio di un docente di matematica nei suoi confronti. Vicino a lei c'è anche la responsabile dei docenti di sostegno, Daniela Fasolo.
Preside la famiglia accusa la scuola di non avere impedito la tragedia.
«Il 12 luglio, il giorno dopo la morte del ragazzo, i genitori si presentarono qui con un avvocato. Mi parlarono di una nota messa dall'insegnante al figlio, non ne sapevo nulla. Mi chiesero di farla togliere immediatamente e mi intimarono di mantenere il massimo riserbo sulla vicenda. Io ero sotto choc. Tra quella nota redatta l'ultimo giorno di scuola e il suicidio era passato più di un mese e quell'insegnante aveva solo 2 ore alla settimana con la classe del ragazzo».
La famiglia sostiene di averla informata con una email.
«Il 6 o 7 giugno la mamma mi mandò un'email in cui mi parlò di scaramucce tra il figlio e il docente che non comprendeva la problematica del ragazzo. Io allora convocai il professore che mi disse che c'era stato un equivoco, lo pregai di chiamare la famiglia e di chiarirsi. Tre mesi prima dovetti già chiedergli spiegazioni per un altro episodio che mi segnalarono i docenti. Si presentò agli scrutini trasformando il 4 messo all'interrogazione in 6. Non fece menzione ad alcuna nota. Pensai che il chiarimento ci fosse stato».
Pensa ci sia davvero un nesso di responsabilità tra la scuola e il suicidio del ragazzo?
«Luca era uno studente molto seguito, non solo dalla famiglia, ma anche dalla nostra referente per i Dsa, i disturbi dell'apprendimento dal momento che il ragazzo era dislessico (una difficoltà nella lettura per cui non c'è bisogno del sostegno ma di una didattica calibrata, ndr), sapevo che questa insegnante era in continuo contatto con la mamma, tanto che l'anno prima avevo ricevuto dalla signora una email di apprezzamento. Luca andava bene a scuola, era stato sempre promosso senza debiti formativi, risultava ben integrato, non c'erano segnali che lasciassero presagire una tragedia simile. Mi lasci dire che screzi tra insegnanti e alunni, a volte anche tra genitori e docenti, in una scuola sono all'ordine del giorno. Per quanto mi compete sono sempre intervenuta. Ma i ragazzi non vivono solo di scuola, c'è un mondo al di fuori intorno a loro che non conosciamo. Non mi sento di gettare croci addosso a nessuno».
I genitori del ragazzo, però, sono indignati perché il professore, ripresa la scuola, era sempre al suo posto...
«Dopo il suicidio ho inviato il docente all'esame della collegiale medica dell'Inps. Non sono io che posso rimuovere un professore dall'incarico, non ho questo potere, non sono un datore di lavoro».
E cosa stabilì la commissione?
«Mi aspettavo che desse un parere di inidoneità, invece si pronunciò solo per una visita di revisione. Ci fu anche una ispezione ministeriale sulla vicenda di Luca, ma l'ispettore archiviò il caso poiché ritenne che fossero stati adottati tutti i provvedimenti necessari dalla scuola».
Quindi, il professore continuò a insegnare?
«In realtà era ormai a un passo dalla pensione. Nell'ultimo periodo non ci parlai più di tanto, quando l'Ufficio Scolastico Regionale ci chiamò per avere spiegazioni, ci incrociammo e salutammo educatamente per le scale. Ma poi, di fatto, dal 4 marzo con il lockdown la sua attività cessò».
Che vuole dire?
«Che il docente, 68 anni, un insegnante vecchio stampo, non aveva dimestichezza con i telefonini e i computer, ci fece dannare per rintracciarlo e non fu in grado di attivare la Dad, la didattica a distanza. Quando si ritirò non ci fu nemmeno un saluto con i colleghi. Questa è una vicenda umana dolorosa e complessa sotto molti aspetti».
"Gioca con me o mi uccido", polizia salva 13enne di Cuneo da sfida social grazie alla denuncia di una coetanea. La Repubblica il 6 febbraio 2021. Il ragazzo, conosciuto in un gruppo whatsapp, le aveva annunciato il suicidio se non avesse risposto alle sue domande, fornendo anche una scadenza, le 14 del giorno dopo. Un vero e proprio conto alla rovescia interrotto dalla denuncia e dall'intervento della polizia. Il gioco consisteva in alcune domande, le cui risposte avrebbero determinato punizioni corporali per chi le poneva. Fino al suicidio. E' una sorta di "challenge online" al contrario quella scoperta dalla polizia che, grazie alla denuncia di una 13enne di Cuneo, ha salvato un coetaneo della provincia di Varese. Il ragazzo, conosciuto in un gruppo whatsapp, le aveva annunciato il suicidio se non avesse risposto alle sue domande, fornendo anche una scadenza, le 14 del giorno dopo. Un vero e proprio conto alla rovescia interrotto dalla denuncia e dall'intervento della polizia. E' stata la madre della 13enne cuneese a riferire alla polizia le confidenze della figlia, che la notte prima aveva chattato col giovane. Immediati sono scattati gli accertamenti sul suo account degli esperti della postale, che sono risaliti così alla madre del ragazzo. La donna, a Milano per lavoro, ha riferito che il figlio, solo a casa, attraversava un momento di disagio sociale. E' scattato così l'intervento presso l'abitazione della famiglia delle forze dell'ordine che, in attesa dei genitori, hanno preso in custodia il giovane. La polizia ha appurato che il 13enne, già seguito dai servizi sociali, era effettivamente intenzionato a commettere atti di autolesionismo, nei modi e nei tempi confidati alla coetanea cuneese. Il caso è stato segnalato ai servizi sociali e alla procura presso il tribunale dei minori di Milano.
Bari, bimbo di 9 anni trovato impiccato in casa a San Girolamo: si ipotizza suicidio. A dare l’allarme sono stati i genitori, che hanno trovato il figlio privo di sensi con una corda attorno al collo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Gennaio 2021. Un bambino di 9 anni è morto impiccato questo pomeriggio a Bari, nella sua casa, nel quartiere San Girolamo. Stando ai primi accertamenti della Polizia, intervenuta su segnalazione del 118, si tratterebbe di suicidio. Dell’episodio sono stati informati le Procure ordinaria e minorile. A dare l’allarme sono stati i genitori, che hanno trovato il figlio privo di sensi con una corda attorno al collo. Sul posto ci sono gli agenti delle Volanti, della Squadra mobile e della Polizia scientifica. I RILIEVI - La pm di turno di Bari Angela Maria Morea ha disposto il sequestro di tutti i dispositivi elettronici nella casa del quartiere San Girolamo. Dai dispositivi elettroni si cercherà di accertare se vi siano tracce che aiutino a ricostruire i minuti che hanno preceduto il gesto e se vi sia un eventuale collegamento con giochi on line, come avvenuto nei giorni scorsi a Palermo. La Polizia sul posto sta anche cercando di ricostruire la dinamica dei fatti. Se cioè, come si ritiene sulla base delle prime verifiche, si sia trattato di suicidio. GIOCHI ONLINE - «Al momento non abbiamo elementi che colleghino questo episodio a giochi online, ma sicuramente c'è un problema con questi giochi che stanno circolando, da tempo ormai». Lo dichiara il procuratore minorile di Bari Ferruccio De Salvatore, interpellato sul caso del bambino di 9 anni trovato morto impiccato in casa a Bari, su cui procedono entrambe le Procure, quella ordinaria per il decesso e quella per i Minori. Si attendono gli esiti degli accertamenti sui dispositivi elettronici sequestrati in casa. «Fino a questo momento non ci sono evidenze che questo fatto sia legato a un gioco», ribadisce il procuratore il quale, però, riflette sul fatto che «questi giochi, prima il Blue whale, poi Momo e adesso Tik Tok, possono essere molto rischiosi. Noi dobbiamo tener conto che con riferimento a determinate fasce di età lo spirito di emulazione è molto forte». «Il problema c'è ed è stato esasperato dalla pandemia - continua de Salvatore - perché molti giovani, soprattutto adolescenti, si sono rinchiusi in se stessi e sono diventati aggressivi con se stessi e gli altri. Sono aumentati i casi di cutting, cioè il taglio degli arti con lamette, e i tentativi di suicidi che coinvolgono fasce d’età sempre più basse».
RONZULLI: «SE "CHALLENGE", OSCURARE SOCIAL» - «Dopo il caso di Palermo, a Bari un altro bambino, di solo 9 anni, si è suicidato con una corda al collo. La magistratura sta indagando e ha sequestrato tutti i dispositivi informatici a cui il minore aveva accesso per capire se ancora una volta siamo davanti a una tragedia dovuta alle assurde challenge a cui i bambini partecipano sui social. Se così fosse la situazione sarebbe ancor più allarmante di quanto si sospettasse e non ci sarebbe alcuna alternativa alla chiusura, almeno temporanea, delle piattaforme su cui queste sfide hanno luogo e che i gestori hanno il dovere di rimuovere con la massima tempestività tutti i contenuti pericolosi per la sicurezza dei minori».Così, in una nota, la presidente della commissione parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza.
IL SINDACO: «NOTIZIA DEVASTANTE» - «Una notizia devastante per la città, mi immagino i genitori e lo dico più che da sindaco, da genitore di due figlie». Lo ha detto il sindaco di Bari, Antonio Decaro a proposito della morte del bambino di 9 anni trovato impiccato oggi a Bari. «Non è una bella giornata - ha detto il sindaco - . Non si conosce ancora la dinamica, però è venuto a mancare un bambino di 9 anni che è stato trovato in casa dalla mamma a San Girolamo. Nelle prossime ore e nei prossimi giorni forse capiremo che cosa è successo, ma non è un bel momento».
La tragedia a Bari. Bimbo di 9 anni trovato impiccato dalla madre, “se morte per "challenge" oscurare social”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Gennaio 2021. E’ stata la mamma a trovarlo una cordicella avvolta intorno al collo e appesa ad un attaccapanni. La donna, di professione medico, ha tentato di rianimarlo in attesa dell’arrivo del 118. Ma è stato tutto inutile. Il piccolo di 9 anni è arrivato già privo di vita all’ospedale pediatrico Giovanni XXIII di Bari. La tragedia si è consumata in un appartamento nel quartiere San Girolamo del capoluogo pugliese. Adesso saranno le indagini a chiarire se si è trattato di un suicidio o un gioco finito in tragedia così come si è verificato qualche giorno fa a Palermo dove una bambina di 10 anni è morta soffocata dalla cintura dell’accappatoio nel tentativo di replicare una sfida partita dai social. Sul caso indaga la Procura ordinaria (per gli accertamenti tecnici sulla morte e su eventuali responsabilità) e quella minorile. Il pm di turno Angela Maria Morea, oltre a disporre l’autopsia, ha ordinato il sequestro dei dispositivi elettronici presenti in casa (play station e due cellulari) per verificare se la morte del piccolo sia in qualche modo legata a gesti di emulazione o alla partecipazione a giochi pericolosi attraverso i quali sarebbe entrato in contatto sulla rete web. Nella casa dove viveva il piccolo sono stati per ore gli agenti della Squadra Mobile e della Scientifica per effettuare i rilievi.
DISAGIO AMPLIFICATO DALLA PANDEMIA – “Al momento non abbiamo elementi che colleghino questo episodio a giochi online” dice, secondo quanto scrive l’Ansa, il procuratore del Tribunale per i Minorenni di Bari Ferruccio De Salvatore, secondo il quale però “sicuramente c’è un problema con questi giochi che stanno circolando, da tempo ormai. Prima il Blue whale, poi Momo e adesso Tik Tok, possono essere molto rischiosi e noi dobbiamo tener conto che con riferimento a determinate fasce di età lo spirito di emulazione è molto forte”. “Il problema c’è ed è stato esasperato dalla pandemia – continua De Salvatore all’Ansa – , perché molti giovani, soprattutto adolescenti, si sono rinchiusi in se stessi e sono diventati aggressivi con se stessi e gli altri. Sono aumentati i casi di cutting, cioè il taglio degli arti con lamette, e i tentativi di suicidi che coinvolgono fasce d’età sempre più basse”.
LA PAROLE DEL SINDACO – Sulla vicenda è intervenuto anche il sindaco di Bari Antonio Decaro. “Una notizia devastante per la città, mi immagino i genitori e lo dico più che da sindaco, da genitore di due figlie” ha dichiarato all’emittente televisiva locale Telebari. “Non è una bella giornata – ha proseguito il sindaco – . Non si conosce ancora la dinamica, però è venuto a mancare un bambino di 9 anni che è stato trovato in casa dalla mamma a San Girolamo. Nelle prossime ore e nei prossimi giorni forse capiremo che cosa è successo, ma non è un bel momento”.
“SE MORTE PER CHALLENGE OSCURARE SOCIAL” – “Dopo il caso di Palermo, a Bari un altro bambino, di solo 9 anni, si è suicidato con una corda al collo. La magistratura sta indagando e ha sequestrato tutti i dispositivi informatici a cui il minore aveva accesso per capire se ancora una volta siamo davanti a una tragedia dovuta alle assurde challenge a cui i bambini partecipano sui social. Se così fosse – sottolinea in una nota la presidente della Commissione parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza, Licia Ronzulli – la situazione sarebbe ancor più allarmante di quanto si sospettasse e non ci sarebbe alcuna alternativa alla chiusura, almeno temporanea, delle piattaforme su cui queste sfide hanno luogo e che i gestori hanno il dovere di rimuovere con la massima tempestività tutti i contenuti pericolosi per la sicurezza dei minori”.
Bari, bimbo trovato impiccato: prima della tragedia nell'ultimo suo video sorrideva. Sui telefoni sequestrati non ci sono applicazioni giochi online. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Gennaio 2021. Aveva fatto da poco un video su youtube nel quale, sorridente, diceva di essersi tagliato i capelli. Poi la tragedia nella sua cameretta. E’ l’ultima traccia fino ad ora accertata sulle attività online del bambino di 9 anni trovato ieri impiccato in casa. La Procura di Bari, che indaga come atto dovuto per istigazione al suicidio, ha affidato già ieri sera l’incarico per estrapolare i dati da una playstation, dai due telefoni della mamma e della sorella maggiore del bambino e da un computer, i dispositivi elettronici sequestrati in casa dalla Polizia. Il consulente ha lavorato tutta la notte e dai primi accertamenti sui due telefoni non emergono chat o applicazioni di social network o giochi online che potrebbero essere collegati al decesso. In particolare sul telefono della madre, che è quello che il bambino usava e che è stato trovato nella cameretta dove è morto, non c'era l’applicazione Tik Tok né altre tracce che possano collegare la morte del bambino a giochi on line. Le verifiche comunque proseguono per estrapolare eventuali dati cancellati, chat o giochi.
Bari, il bambino morto impiccato a 9 anni: «Un tragico gioco di emulazione». Bepi Castellaneta su Il Corriere della Sera il 26/1/2021. Bari, le indagini: era stato colpito dalla storia della coetanea siciliana e ne aveva parlato in casa. Il bambino era a conoscenza di quanto accaduto a Palermo, sapeva di quella ragazzina di 10 anni morta per soffocamento pochi giorni prima mentre girava un video su TikTok, il social degli adolescenti, e probabilmente era rimasto colpito visto che in casa ne avevano anche parlato.
Litorale nord. È quanto trapela dalla prima fase delle indagini sulla tragedia che si è consumata lunedì pomeriggio in un appartamento del quartiere San Girolamo di Bari, rione affacciato sul litorale nord della città, dove un bimbo di nove anni si è impiccato nella sua cameretta. Secondo quanto emerso fino a questo momento, all’origine del dramma non ci sarebbe una folle sfida sui social né una prova di coraggio annidata nelle pieghe di una oscura chat tra ragazzini: la tragedia potrebbe invece essere la feroce conseguenza di un terribile gioco, innescato forse da un atto di emulazione. Questa l’ipotesi che sembra prendere consistenza tra gli investigatori della Squadra mobile, impegnati nel tentativo di fare luce su quanto celato oltre la porta di quella cameretta rimasta silenziosa fino a quando la madre non è entrata e ha scoperto il corpo del figlio. Secondo la polizia il bambino non ha scelto la morte, ma ha perso conoscenza per la pressione al collo e a quel punto era troppo tardi per rianimarlo.
L’inchiesta. Il procuratore Roberto Rossi e la pm Angela Morea hanno comunque aperto un’inchiesta contro ignoti per istigazione al suicidio. Un atto dovuto per procedere con le consulenze tecniche: l’ipotesi di reato è stata infatti formalizzata per disporre gli accertamenti su due telefoni cellulari, un computer e una playstation sequestrati nell’appartamento. Da una prima verifica andata avanti per tutta la notte non è emerso nulla di sospetto: non ci sarebbe alcun elemento che conduca a un gioco sul web o a una sfida sui social, l’applicazione TikTok così diffusa tra gli adolescenti non risulta scaricata. Ma gli inquirenti si mantengono cauti e attendono l’esito di esami più approfonditi per chiarire se ci siano eventuali video o messaggi cancellati. I magistrati hanno disposto l’autopsia, affidata al medico legale Antonio De Donno. Il bambino sembrava sereno, nessun problema a scuola. I genitori, entrambi medici, sono separati da tre anni. «Ma il quadro familiare era disteso e consolidato», spiegano gli investigatori. Che continuano a scavare nei dispositivi elettronici di casa. Il bimbo non aveva un telefono cellulare, ma usava spesso quello della madre: gli piaceva girare video e metterli su YouTube. L’ultimo lo ha fatto nella sua stanza poco prima di morire: sullo schermo affiora il suo volto sorridente e scorrono le sue parole, racconta di essersi tagliato i capelli. Frammenti quotidiani di una vita spezzata poco dopo da quello che potrebbe rivelarsi un incidente nel corso di un tragico gioco.
La stanza. Erano passate da poco le 16.30, in quel momento in casa c’erano anche la madre e la sorella di 14 anni. Il bambino si è chiuso nella sua stanza, quindi ha preso un laccetto di quelli utilizzati per i pass dei convegni, lo ha stretto al collo e poi legato alla gruccia di un attaccapanni fissato al muro. Poi è svenuto. La madre ha notato la porta chiusa ed è corsa ad aprirla: è entrata, ha trovato il figlio privo di conoscenza, ha cercato di farlo rinvenire e ha chiamato il 118. I sanitari hanno fatto il possibile per rianimarlo, anche durante la disperata corsa verso l’ospedale Giovanni XXIII. Ma ormai era troppo tardi, ogni tentativo di strapparlo alla morte si è rivelato inutile.
Vincenzo Damiani per "il Messaggero" il 27 gennaio 2021. Poco prima della tragedia aveva realizzato con lo smartphone un video e lo aveva pubblicato su Youtube, mostrandosi sorridente e compiaciuto per il nuovo taglio di capelli. Poi il buio, il silenzio improvviso all' interno della sua cameretta che ha allertato la mamma e, quindi, la macabra scoperta. Cosa sia accaduto in quei pochi minuti che separano il video e la morte del bimbo di 9 anni, trovato impiccato nell' appartamento in cui viveva con i genitori e una sorella più grande, è ancora un mistero anche se si fa avanti l' ipotesi di una fatalità.
GLI ACCERTAMENTI. La pm della Procura di Bari, Angela Morea, ieri ha formalmente aperto un fascicolo per istigazione al suicidio contro ignoti, un atto necessario per disporre gli accertamenti tecnici su due cellulari, una Playstation e un pc. Da una prima verifica, ancora non conclusa, sui dispositivi elettronici non emergerebbero elementi che colleghino l'episodio a giochi on line o a social. Il consulente nominato dalla Procura ha lavorato tutta la notte tra lunedì e martedì e dai primi accertamenti sui due telefoni non emergono chat o applicazioni di social network o giochi online che potrebbero essere collegati al decesso. In particolare sul telefono della madre, che è quello che il bambino usava e che è stato trovato nella cameretta dove è morto, non c'era l' applicazione Tik Tok né altri social simili. Le verifiche comunque proseguono per estrapolare eventuali dati cancellati, chat o giochi. Oggi sarà conferito al medico legale Antonio De Donno l' incarico per l' autopsia e si avranno ulteriori elementi: la dinamica fino ad ora accertata è quella di un soffocamento, probabilmente accidentale. Il bambino potrebbe aver stretto attorno al collo per gioco un laccetto agganciato ad una gruccia a sua volta appesa ad un attaccapanni fissato al muro, ad un' altezza tale da poter toccare il pavimento. Per questo l' ipotesi è che la pressione sul collo gli abbia fatto perdere i sensi finendo asfissiato. Una ricostruzione che dovrà essere comunque confermata dal medico legale. Il pubblico ministero e la polizia, però, al momento continuano a non escludere alcuna pista, eccetto quella della responsabilità diretta di altre persone nella morte del bambino. Stando agli accertamenti effettuati dagli agenti, a trovarlo in fin di vita, con la cordicella ancora avvolta attorno al collo, è stata la madre, medico, che ha prestato i primi soccorsi in attesa del 118. Subito la Procura, sospettando che potesse trattarsi di un gioco online, come avvenuto qualche giorno fa a Palermo, ha disposto il sequestro dei dispositivi elettronici. Le testimonianze descrivono un «bambino tranquillo e sereno».
LO CHOC. La morte del piccolo ha lasciato sotto choc una intera comunità: «Una notizia devastante per la città, mi immagino i genitori e lo dico più che da sindaco, da genitore di due figlie», ha detto il sindaco di Bari, Antonio Decaro. «È triste quanto è accaduto in queste ore e in questi giorni. Due tragiche giovanissime vite spezzate improvvisamente - è il commento dell' assessora comunale al Welfare, Francesca Bottalico - In un momento duro come quello che stiamo attraversando non è determinante cercare colpevoli o elaborare filosofie mediatiche. Piuttosto abbiamo l' urgenza di comprendere per prevenire, per prenderci cura».
Valeria d'Autilia per "la Stampa" il 26 gennaio 2021. Nella sua cameretta, con una cordicina attorno al collo. La mamma l' ha trovato così, in quell' appartamento del quartiere San Girolamo, a Bari. Aveva 9 anni e si sarebbe tolto la vita impiccandosi. Da accertare se si tratti di un drammatico caso legato ai social. Forse una sfida, come accaduto a Palermo con la challenge su TikTok e la morte della piccola Antonella. O forse un gesto estremo e la scelta di farla finita. Procura ordinaria e quella minorile procedono con la massima cautela. «Al momento non abbiamo elementi che colleghino questo episodio a giochi online - dice il procuratore per i minori Ferruccio De Salvatore - ma sicuramente c' è un problema. Prima Blue whale, poi Momo e adesso TikTok possono essere molto rischiosi e, in determinate fasce di età, lo spirito di emulazione è molto forte». Intanto, sono stati sequestrati cellulari, computer e playstation alla ricerca di ogni dettaglio. Soprattutto eventuali tracce di un collegamento con il mondo delle sfide sui social. Occorre ricostruire i minuti che hanno preceduto il gesto. Di sicuro il piccolo, in casa, non era da solo. Tutto è successo ieri pomeriggio. La chiamata al 118 arriva alle 16:20. A dare l' allarme è la mamma del bimbo. Probabilmente, insospettita da quel lungo silenzio mentre è in camera da solo. Poi l' agghiacciante scoperta e la telefonata disperata. Suo figlio ha una corda al collo e ha perso i sensi. Lei è un medico, prova a rianimarlo. Ma quando arrivano i soccorritori, il cuore non batte più. Disperata la corsa all' ospedale pediatrico Giovanni XXIII, ma era già deceduto. La pm turno di Bari Angela Maria Morea oltre ai dispositivi elettronici, ha disposto anche il sequestro dell' intero appartamento. Dalle prime verifiche, sembra si sia trattato di un suicidio, ma le indagini di squadra mobile e polizia scientifica sono in corso. «Al momento non sappiamo se quanto accaduto è collegato ai fatti di Palermo. Non escludiamo nulla» dicono gli investigatori. Nelle ultime ore, ascoltati anche i genitori. Si cercano informazioni utili per capire cosa sia accaduto in casa. Altri elementi potranno arrivare dall' autopsia, disposta dalla procura.
Sgomento in città e nel rione dove abita la famiglia. Qualcuno lo ricorda come un bambino solare. Tutti sono increduli. «A 9 anni il cervello non può partorire un pensiero come quello di un suicidio, c' è sicuramente dietro una manipolazione». In molti puntano il dito contro i social e le restrizioni legate al Covid. «I bambini hanno bisogno di tornare alla vita sociale- dice Daniela- non si possono passare le giornate davanti al monitor di un pc». Per Anna «un anno di chiusura ha influito molto sui bambini che, all' improvviso, sono stati privati di tutto». Lo stesso procuratore minorile ricorda che tanti adolescenti si sono rinchiusi in sé stessi, diventando aggressivi. «Sono aumentati i casi di cutting, cioè il taglio degli arti con lamette, e i tentativi di suicidi che coinvolgono fasce d' età sempre più basse». Interviene il sindaco Antonio Decaro: «Una notizia devastante per la città, immagino i genitori e lo dico, più che da sindaco, da padre di due figlie». Se si sia trattato di suicidio o di incidente per un gioco finito in tragedia saranno le indagini a stabilirlo. Sull' ipotesi di una challenge, interviene la presidente della commissione parlamentare per l' Infanzia e l' adolescenza Licia Ronzulli. «Se così fosse, la situazione sarebbe ancor più allarmante e non ci sarebbe alcuna alternativa alla chiusura, almeno temporanea, delle piattaforme su cui queste sfide hanno luogo e che i gestori hanno il dovere di rimuovere con la massima tempestività tutti i contenuti pericolosi per la sicurezza dei minori». Il pensiero corre a qualche giorno fa in Sicilia. Antonella era in bagno, davanti allo specchio. Pronta per quella sfida con una cintura. Lei aveva quella di un accappatoio, al collo, con cui ha salutato i suoi 10 anni.
Il dolore di un padre che ha perso il figlio col "blackout challenge". Nel 2018 il suo Igor è morto come la bimba di Palermo: "La mia storia, monito per tutti". Nino Materi, Domenica 24/01/2021 su Il Giornale. Quando tre giorni fa il signor Ramon Maj ha saputo di Antonella, 10 anni, morta soffocata partecipando su TikTok a una «challenge» dal nome «blackout», avrebbe desiderato fare una sola cosa: abbracciare il padre della bimba palermitana. Genitori distanti tra loro oltre mille chilometri: Ramon abita in Lombardia, Angelo in Sicilia. Eppure Angelo quell'abbraccio lo ha sentito forte. Perché solo Ramon può sapere davvero ciò che prova Angelo. Anche Ramon, infatti, ha perso un figlio con le stesse assurde modalità con cui Angelo si visto spirare tra le braccia la sua Antonella. Il figlio di Ramon si chiamava Igor (anzi, si chiama Igor, visto che per i genitori un figlio non muore mai), aveva 14 anni, ed era il prototipo del giovane che farebbe la felicità di qualsiasi genitori: bello, affettuoso, intelligente, altruista, sportivo. Eppure anche un ragazzo d'oro come Igor un giorno è caduto nella trappola infernale di una «sfida estrema». Com'è potuto accadere? Ramon non ha mai smesso di domandarselo. Da quel maledetto 6 settembre 2018, quando vide il figlio penzolare con una corda al collo, la risposta non l'ha trovata. Eppure seguita a cercarla. Come? Frequentando le scuole, parlando con i giovani (e i loro genitori) il più possibile, informandosi senza tregua su tutti i mostri nascosti sul web. Quegli stessi mostri che gli hanno scippato l'amore di Igor. L'obiettivo di un padre esemplare come Ramon è uno solo: «Evitare che ciò che è capitato a me e Igor, accada ad altri». Da qui il suo impegno encomiabile per una «educazione digitale» che coinvolga il maggior numero di ragazzi, tutti potenziali Igor e Antonella. «Chi cade nel buco nero dei giochi di morte - testimonia Ramon - non è necessariamente un giovane problematico, con alle spalle chissà quale disagio; Igor, ad esempio, era un 14enne sereno, una famiglia felice, io e lui facevamo sport insieme c'era un feeling perfetto. Eppure...». Ramon, appena conosciuta la tragedia di Antonella, ha accolto l'invito di una trasmissione Rai e ha raccontato la sua disgrazia. Una testimonianza utile per gli altri. Che, magari, servirà a salvare qualche vita. A tre anni dalla morte di Igor, Ramon pensava di non emozionarsi più parlando del figlio. E invece ogni volta la commozione lo travolge. Quel groppo in gola, forse, è un groviglio di rimpianti: «Quando con Igor parlavo di possibili rischi, mi venivano in mente solo i pericolo della mia generazione: alcol, droga, incidenti stradali. Non ero al corrente dei pericoli della rete. Di cose tipo Blackout challenge ignoravo l'esistenza. Non mi ero posto il problema di mettermi al passo con i nuovi tempi della tecnologia virtuale». Ecco perché dalla morte di Igor non ha più smesso di fare opera di comunicazione. Negli occhi di tutti i ragazzi che incontra Ramon rivede la luce di suo figlio. Una luce più forte di qualsiasi blackout.
Da "ilmessaggero.it" l'11 febbraio 2021. La star di TikTok Dazhariaa Quint Noyes, nota come Dee, è morta dopo aver pubblicato un video finale sui social. Aveva solo 18 anni. I suoi genitori hanno confermato che la sua morte è avvenuta per suicidio, con sua madre che ha voluto specificare in un post di Facebook che «si è impiccata». Il padre di Noyes, Raheem Alla, ha condiviso un montaggio di foto di sua figlia con TikTok, ringraziando tutti per il loro «amore e sostegno». «Sfortunatamente, lei non è più con noi ed è andata in un posto migliore», ha scritto il padre. In una pagina GoFundMe creata per sua figlia, Alla ha aggiunto che avrebbe voluto che sua figlia gli avesse parlato prima dei suoi gravissimi problemi. «Vorrei solo che mi avesse parlato del suo stress e dei pensieri di suicidio», ha detto. Lunedì, Noyes aveva pubblicato video sulla sua storia di Instagram che ha descritto come il suo ultimo post. I video mostravano la ragazza che cantava e ballava prima di scrivere: «Ok, so che vi sto infastidendo, questo è il mio ultimo post». Il padre ha aggiunto: «Voglio solo stringerti di nuovo, mia piccola. Ora torno a casa e tu non sarai più lì ad aspettarmi. Devo lasciarti volare con gli angeli. Eri la mia piccola migliore amica e non ero preparato in alcun modo a seppellirti. Eri così felice». Evidentemente non era così. Dazhariaa soffriva di depressione. La madre di Noyes, Jennifer Shaffer, le ha reso omaggio scrivendo: «Sono distrutta, non riesco a crederci, vorrei che dicessi che è uno scherzo, ma non lo è». Noyes gestiva una sorta di negozio di bellezza virtuale tramite il suo account Instagram, dove aveva 112.000 fan. Aveva anche una pagina YouTube chiamata bxbygirldee dove tentava sfide virali. I fan hanno reso omaggio a Noyes sul suo account TikTok da 1,5 milioni di follower. «RIP dolce bella ragazza. Grazie per aver condiviso la tua vita con noi», ha detto Leila, utente di TikTok.
Cassazione: "Genitore che assilla figli è uno stalker". Una sentenza della Cassazione ha stabilito che un genitore che assilla i figli può essere denunciato per stalking. Rosa Scognamiglio, Lunedì 08/02/2021 su Il Giornale. Il genitore che assilla i figli "è uno stalker". Lo ho stabilito una sentenza della Cassazione che condanna l'atteggiamento "eccessivamente assillante" di un padre separato nei confronti della figlia obbligandolo, perlatro, a un risarcimento morale di ben 200mila euro.
La vicenda. Si presenteva dalla figlia senza preavviso procurandole imbarazzo di fronte ad amici e compagni di classe. Una condotta che, secondo i magistrati, avrebbe procurato alla ragazzina - all'epoca dei fatti minorenne - stati di ansia e angoscia. Per questo motivo, i giudici della Corte di Cassazione hanno condannato, in via definitiva, un papà per "atti persecutori". L'uomo ha provato a giustificarsi spiegando che le sue intezioni fossero quello di ricucire lo strappo con la figlia dopo il divorzio dalla ex moglie, madre dell'adolescente. Ma gli Ermellini non hanno voluto sentire ragioni: "si tratta di stalking".
La condanna per atti persecutori. L'uomo, condannato in secondo grado per atti persecutori, si era opposto alla sentenza contestando le deposizioni di madre e figlia che lo accusavano pesantemente. A detta della ragazzina, infatti, il padre l'avrebbe seguita "in modo ossessivo" durante la partecipazione ad eventi sportivi e gite scolastiche. Tutto questo le avrebbe procurato uno stato di stess emotivo e stati d'ansia. Per il genitore sarebbero state accuse prive di fondatezza in quanto la giovane avrebbe continuato a mantenere un buon rendimento scolastico e amicizie proficue. Un dato inifluente per i giudici della Cassazione che hanno ritenuto tacciabile di stalking. "Per ritenere integrata la fattispecie di atti persecutori - scrive il Collegio - non occorre che la personalità della vittima venga annullata, al contrario, la stessa pare compatibile con il tentativo di reagire alle condotte persecutorie".
Il risarcimento di 200mila euro. La Corte Suprema ha condannato il papà ad un risarcimento di 200mila euro nei confronti della figlia. La stima è stata calcolata in misura del supposto "danno morale" che lo stesso avrebbe arrecato alla ragazzina nel contesto di una "condotta assillante". I giudici di Appello avevano definito le modalità di approccio del genitore "disturbanti e persecutorie, caratterizzati da una tale ripetitività e assenza di interesse per gli stati d'animo della figlia, tanto da ingenerare un evidente turbamento di quest'ultima".
Umberto Rapetto per infosec.news il 9 febbraio 2021. Sono tantissimi i ragazzini sotto i 13 anni che – a dispetto del limite di età fissato dalla piattaforma social – avevano aperto un account TikTok mettendo una qualunque data di nascita pur di dribblare il controllo (e sai che controllo) predisposto per limitare l’accesso a chi non aveva il requisito anagrafico necessario. La genialità degli esperti di quel contesto ha pensato di bloccare da oggi i “furbetti”. Come? Semplice, chiedendo loro – all’apertura odierna dell’applicazione sullo smartphone o del sito web con il computer – di reinserire il giorno di nascita indicato al momento della loro adesione al tanto discusso contesto telematico idolatrato dai più giovani. Tale sistema è destinato ad eliminare chi ha piazzato giorno, mese ed anno casuali purché idonei a chiudere positivamente la fase di iscrizione. Siccome la maggior parte dei piccoli utenti non rammenterà quella data, saranno parecchi gli account ad essere eliminati con grande gioia di genitori, parenti, insegnanti e istituzioni. Il 9 di febbraio 2021 è quindi destinato ad essere “albo signanda lapillo”, da segnare con il gessetto bianco come dicevano gli antichi Romani. A voler essere più precisi quell’ “è” va impietosamente sostituito con un più sobrio “sarebbe”, perché i tecnici non hanno fatto i conti con “le piccole birbe” che (pur prive di lauree, master ed esperienze di vita) hanno subito immaginato come beffare TikTok e il fatidico “check” che avrebbe (qui il condizionale è d’obbligo) soddisfatto le sacrosante pretese del Garante Privacy. Ne parliamo a cose fatte, perché – è fin troppo ovvio – non si può certo fare il tifo per i piccolissimi che si prendono gioco dei “grandi”. Raccontiamo la storia quando il trucco di Valeria non può più essere ripetuto, ma sentiamo il dovere di richiamare l’attenzione di tutti perché il problema è serio, ben più serio di quanto si possa immaginare. Ieri, vigilia delle virtuali forche caudine, la “studentessa” di prima media ha “confessato” al papà come risolvere la questione del limite di età approfittando dell’ultimo giorno di accesso libero a TikTok: la registrazione di un nuovo account con data “tarocca”, facile da annotare o semplicemente da ricordare fino a domattina quando le verrà chiesta per rendere “immortale” il suo profilo sulla piattaforma. Su YouTube la confessione di Valeria, definita dal vivace babbo “diabolica”, deve dare spunti di riflessione a chi è tenuto a fare del proprio meglio per tutelare i minori alle prese con il futuro la cui porta di accesso forse è troppo piccola per lasciar entrare gli adulti. Invece di creare l’ennesima taskforce di amici degli amici, forse è il caso di farsi regalare un paio di consigli da Valeria o da qualche suo amichetto.
TikTok vietato ai 13enni. Ma in Rete è boom di bimbi "sexy-artisti". Norme più severe, ma a volte sono proprio i genitori a fare da "manager" ai loro figli. Nino Materi, Giovedì 04/02/2021 su Il Giornale. L'ologramma del «signor» TikTok ha scritto al nostro Garante della protezione dei dati personali, promettendo solennemente: «Adotteremo misure per bloccare l'accesso agli utenti minori di 13 anni, valutando l'utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale per la verifica dell'età»; «Inoltre - è l'impegno del social cinese con la nostra Authority sulla privacy - lanceremo una campagna informativa per sensibilizzare figli e genitori». Va bene intervenire sui «figli», ma non meno rilevante è lavorare sui «genitori». Considerato che in alcuni casi - certo minoritari, ma comunque rappresentativi di un fenomeno inquietante - sono addirittura le madri e i padri (cioè chi che dovrebbe tutelare i piccoli dai rischi della rete) ad esporre i bimbi sul palcoscenico virtuale di internet. Motivo? L'illusione (o l'ambizione?) degli adulti di trasformare i propri figli in baby-star. Un fenomeno sconcertante attorno al quale ruotano pure interessi economici, benché i genitori ripetano ipocritamente il ritornello del «Tutto viene fatto gratuitamente e solo per il divertimento del bimbo». Il Giornale, lo scorso 24 gennaio, ha raccontato la storia di una bambina di 10 anni (l'«artista neomelodica» Benny G) con migliaia di follower, «mi piace» e visualizzazioni su varie piattaforme digitali. Bene, in questo caso la «manager» che consente alla bimba di interpretare canzoni in versione osé (decisamente osé per la sua età) è proprio la mamma: è lei che supervisiona le sexy-coreografie e i testi dei brani con riferimenti sessuali imbarazzanti. La vicenda di Benny G, nei giorni successivi alla nostra pubblicazione, è stata ripresa da varie testate giornalistiche riscuotendo un'eco mediatica a cui pare non sia rimasta insensibile neppure la magistratura minorile. Vedremo come andrà a finire, ribadendo che la baby «artista neomelodica» rappresenta solo la punta di un iceberg. Va quindi salutata con favore l'iniziativa del Garante italiano per la privacy, Pasquale Stanzione, che - al di là di risultati concreti difficili da ottenere - ha avuto il merito di sollevare il «caso». Una problematica che torna tristemente d'attualità ogni volta che i social (a torto o a ragione) vengono indicati come i responsabili di tragedie assurde con al centro vittime sempre più giovani. A riaccendere il «dibattito» il dramma della bambina di Palermo morta soffocata a seguito di una «sfida mortale» su TikTok: sciagure che ogni anno causano nel mondo centinaia di decessi tra gli adolescenti. Ora da TikTok arriva un timido (molto timido) segnale in controtendenza. Forse null'altro che un gioco delle parti tra la «stretta sull'età» garantita dalla piattaforma di video-sharing e il provvedimento di blocco imposto nei giorni scorsi dal nostro Garante che «si è riservato di verificare l'effettiva efficacia delle misure annunciate». Risultato: «A partire dal 9 febbraio - sottolinea l'Autorità per la privacy - TikTok bloccherà tutti gli utenti italiani e chiederà di indicare di nuovo la data di nascita prima di continuare ad utilizzare l'app. Una volta identificato un utente al di sotto dei 13 anni, il suo account verrà rimosso. La società TikTok si è impegnata inoltre a valutare ulteriormente l'uso di sistemi di intelligenza artificiale». Fermo restando il ruolo primario dell'intelligenza genitoriale.
La "felicità" di una madre per la figlia di 9 anni aspirante stella di TikTok. Mamma manager e migliaia di follower grazie a video con brani e moine osé da diva. Redazione, Domenica 24/01/2021 su Il Giornale. «Benny G», 9 anni, minigonna, «sensualissima», non è l'unico caso. Le baby cantanti-ballerine (ma ci sono pure i maschietti) che scimmiottano atteggiamenti da «grandi» abbondano sui social. E non da oggi. Purtroppo l'asticella del buon gusto è in continua discesa, tanto da vedere bambine con i denti da latte vestirsi e muoversi in maniera imbarazzante. Eppure i loro video piacciono esageratamente, tanto da raccogliere i consensi di migliaia di follower. Tutti pazzi per dieci, cento, mille bimbe che sculettano, truccate pesantemente e che interpretano canzoni d'amore dove i richiami al sesso sono più che espliciti. Siamo sul crinale della pedofilia o è solo tutto un «grande gioco»? I genitori (soprattutto la mamma) di «Benny G» -la neomelodica più famosa e cliccata d'Italia- non hanno dubbi: la situazione è «sotto controllo», la bambina «si diverte» e tutti sono «felici e contenti». Quali nefaste conseguenze possano avere su «Benny G» (e tutti i piccoli web-fenomeni come lei) i video a getto continuo autoprodotti per TikTok e gli altri profili social non è un problema che assilla i genitori. Anzi, sono proprio loro i principali manager dei bimbi-prodigio: li ispirano, li incoraggiano, li spronano. Tutto meno che proteggerli da un'esposizione digitale che - sul punto concordano tutti gli esperti - produrrà «effetti psicologici devastanti». «Il modello di successo dell'influencer e l'adrenalina di sentirsi potenzialmente gratificati in tempo reale dai mi piace per qualsiasi esibizione social, stanno facendo danni enormi - spiega un report degli psicoterapeuti dell'età infantile -. Un circolo vizioso del quale spesso fanno parte integrante anche i genitori, cioè proprio quei soggetti che dovrebbero proteggere i bambini». Risultato: l'esercito dei «Benny G» cresce e, per ora, si gode gli applausi dei tiktoker. Ma le piccole star diventeranno grandi depressi? E le mamme che oggi, invece di tutelare le figlie dalla platea informe del web, godono dei loro successi virtuali? Fa impressione sapere che molte delle starlette-bonsai che si esibiscono in rete hanno più o meno la stessa età della povera Antonella, morta a 10 anni nel bagno di casa a Palermo risucchiata dal gorgo di una «sfida estrema». Anche Antonella inviava su TikTok video in cui ballava e cantava, ma era roba innocente, priva di «velleità artistiche» e comunque non certo invogliata da una madre e un padre esibizionisti. Al contrario, i genitori di Antonella con la decisioni di donare gli organi della figlia hanno dimostrato tutta la loro umanità. Il seguito di faccine entusiaste che accompagna le performance di «Benny G» è invece la spia di un fenomeno di segno opposto. Quello cioè di una realtà genitoriale che non solo non si accorge dei pericoli di internet, ma addirittura li sfida offrendo immagini «provocatorie» dei propri bambini in pasto allo stesso Moloch che ha divorato l'innocenza di Antonella.
(9Colonne il 27 gennaio 2021) - La Polizia Postale di Firenze, coordinata dalla Procura, ha denunciato una influencer siracusana per istigazione al suicidio dopo che gli agenti hanno individuato sul social network "Tik Tok" un suo video ritraente una "sfida" tra la donna ed un uomo, in cui entrambi si avvolgevano totalmente il volto, compresi narici e bocca, con il nastro adesivo trasparente, in modo tale da non poter respirare. Il video, visibile a tutti senza restrizioni, è stato segnalato e rimosso potendo costituire oggetto di emulazione da parte di minorenni, come accaduto nei recenti fatti di cronaca con sfide analoghe. Gli inquirenti hanno poi accertato che nel tempo la 48enne influencer aveva pubblicato anche altri numerosi video-sfide dello stesso tenore, che le hanno permesso di ottenere popolarità e l'attenzione di ben 731mila followers di diverse età. La visione dei video e la loro condivisione è stata considerata estremamente pericolosa per l'incolumità degli utenti, soprattutto minorenni, che potrebbero accettare "la sfida" emulando l'influencer, come testimoniato da un post in cui si legge: "Ciao ….. se mi saluti giuro mi lancio dalla finestra". Da qui la decisione di emettere un provvedimento urgente di perquisizione, anche informatica, e sequestro degli account social, eseguito dalla Polizia Postale di Catania. (LaPresse) - Il video, estremamente pericoloso in quanto visibile a tutti gli utenti senza restrizioni, potendo costituire oggetto di emulazione da parte di minorenni, come purtroppo già accaduto nei recenti fatti di cronaca con sfide analoghe, è stato immediatamente segnalato dal Cncpo del Servizio polizia postale di Roma e rimosso dalla piattaforma Tik Tok. Nell’ambito della stessa attività di monitoraggio veniva accertato che nel tempo l’influencer aveva pubblicato anche altri numerosi 'video sfide' dello stesso tenore, che le hanno permesso di ottenere popolarità e l’attenzione di ben 731.000 followers di diverse età. La visione dei suddetti video e la loro condivisione è stata considerata estremamente pericolosa per l’incolumità degli utenti, soprattutto minorenni, che potrebbero accettare “la sfida” emulando l’'influencer', come testimoniato da un post in cui un utente scriveva: “Ciao, se mi saluti giuro mi lancio dalla fienstra”. Da qui la decisione dei magistrati titolari delle indagini di emettere a suo carico un provvedimento urgente di perquisizione, anche informatica, e sequestro degli account social, che veniva immediatamente eseguito dalla polizia postale di Catania.
TikTok è solo il grilletto, il dito che lo preme siamo noi. Giampiero Casoni su Notizie.it il 25/01/2021. Se non impariamo a discernere fra la pistola che può sparare in ipotesi e il dito che la fa sparare con certezza, quel dito ce lo ritroveremo sempre macchiato. Un martello pianta chiodi. Non è stato fatto per sfondare crani e uccidere, però può farlo. Così come un’auto: conduce gente a fare cose, non certo verso la morte, ma può farsi bara di lamiera. Con i social questa regola tanto banale e babbiona si è invece fatta un po’ più evanescente, nel senso che nella cultura di massa essi paiono essere strumento diabolico per insita natura, non per aberrazione di utilizzo. Roba manichea, roba a prescindere, roba di comodo, a voler essere un filino cinici. È il banalume che avanza e che per paradosso amarissimo contrafforta se stesso proprio nell’ambito che vorrebbe censurare. Cioè sui social, dove l’intestino crasso del paese si fa modello di didattica avanzata e di etica solenne e cazzia il posto stesso da cui parte il cazziatone. E non bisogna neanche pensarci troppo bene per capire che loro, i social, sono come tutte le altre cose dell’universo: di genesi innocua e di utilizzo a volte letale, come una caramella dolcissima che puo’ strozzarti.
Perché anche essi esistono nella misura in cui dovrebbero esistere regole che ne normino l’uso. Ed è qui che il nervo scoperto affiora come un boa infernale. Perché quelle regole sono si appannaggio diretto di chi i social li crea, ma lo sono anche e sopratutto di chi i social li usa e di chi controlla chi e come li usi. Non ce n’è: il web è zona franca da leggi perché immensa negli ambiti e perché la giurisprudenza tematica non deve mai essere succedaneo del buon senso, al più una sua estensione più rigida. Non giriamoci più intorno e usciamo dalla fanghiglia delle enunciazioni di maniera, questa non è materia da preamboli pelosi: permettere che i nostri figli bazzichino con i sessappigli sornioni del web fin dall’età in cui dovrebbero incerottarsi le ginocchia è da pazzi. E troppo spesso è una follia che non è figlia dell’ignoranza sul tema, ma madre della pigrizia beota che spinge ad ignorare quel tema. Perché siamo diventati genitori stanchi e abulici, abbiamo scoperto le infinite possibilità offerte dal lasciare i nostri figli inebetiti davanti a quegli schermi. Perché i nostri sogni geriatrici di giovinezza perduta ma resuscitabile sono spalmati languidi e scemi sul tempo che ci mettiamo a decidere che “in fondo non c’è nulla di male”. E ci ritroviamo, drogati di un dinamismo sociale estremo che non ci dovrebbe appartenere più, con i nostri bambini gettati in pasto a mondi oscuri. Pargoli inermi davanti alla Bocca Ringhiante mentre noi ci godiamo la partita, o lo shopping on line, o la schiacciatina sindacale con il coniuge. E giusto mentre facciamo della nostra età perduta un Lazzaro sornione diventiamo ciechi. E non vediamo che la nostra carne va in olocausto a posti dove si fa a gara per soffocarsi e dove l’ossessione di apparire è peso troppo grande per le piccole spalle che se lo prendono in carico. Non spetta a noi stabilire se questo sia stato il caso della povera Antonella, non tocca a noi aggiungere dolore grande a dolore immenso. Però il dato resta: e il dato è che se non impariamo subito a discernere fra la pistola che può sparare in ipotesi e il dito che la fa sparare con certezza quel dito ce lo ritroveremo sempre macchiato. Macchiato del sangue di chi abbiamo messo al mondo, di chi poi per quel mondo abbiamo sperso rincorrendo il sogno cretino di una genitorialità comoda. E sarà troppo tardi per capire che in questo, di mondo, essere Peter Pan significa essere uguali a Capitan Uncino.
Niccolò Zancan per “La Stampa” il 25 gennaio 2021. Il primo video è quello di un ragazzo che inquadra un pacco: «Che bello, porco cane, oggi ho comprato finalmente anche io il nuovo iPhone12». Il pacco gli cade dalla scale, lui si affanna inutilmente: «1200 euro andati, fanculo!». A quel punto, si accorge - fa finta di accorgersi - di avere il telefono in mano: lo stava usando per fare il video sul suo telefono nuovo. Cambio pagina: una bellissima ragazza di nome Valentina, di schiena, in costume intero, cammina e si tuffa dentro una piscina a sfioro sul mare. Nel terzo video c'è Fedez che si rivolge a suo figlio chiamandolo «Royal Baby», nel quarto Michelle Hunziker balla «Gerusalema» con un barboncino ritto sulle zampe posteriori. Poi c'è una ragazza che parla con cadenza siciliana: «È come dice Pablo Escobar, con i piccioli non accatti le femmine, accatti buttane». Per lei 113,600 like. Metti un marziano su TikTok. Entri in un minuto. Bastano nome, cognome, un numero di telefono e una data di nascita che nessuno verificherà. La prima impressione è questa: un po' «Corrida», un po' «La sai l'ultima?», un po' debuttanti allo sbaraglio. Un gigantesco frullatore di camerette, facce, corpi, battute, tentativi, scherzi, azzardi, balletti e musiche da tutte le parti del mondo. Quando diventi il più visto, uno dei più visti, incominci a guadagnarci. La bravura consiste proprio in questo. È quantificata accanto al nome di ogni profilo. Ecco il numero di volte che ti hanno guardato, ecco quanto sei piaciuto. Per esempio: Giada Candies, che pubblica sketch comici su tematiche femminili («Che poi nella mia famiglia ce l'hanno tutti le tette, tutti. Mia madre, mia sorella, mio cugina, pure mio zio ce l'ha, solo io sono così»), beh, dicevamo, Giada Candies ha 146.400 seguaci e 4 milioni e mezzo di like. Che sono tanti. Ma pochissimi, se rapportati a una vera star di TikTok: 106,6 milioni di seguaci e 8,5 miliardi di apprezzamenti pubblici. Lei si chiama Charlie D'Amelio, è una ragazza americana di Norwalk, Connecticut, nata il primo maggio 2004, che balla con naturalezza, canta su delle basi, si trucca e si disseta con dei beveroni. Perché proprio lei e non un'altra? Questo nessuno lo sa. Dopo cinque minuti che sei su TikTok, l'algoritmo inizia a tenere conto dei tuoi movimenti. Insomma: cosa stai cercando? Quali sono i tuoi gusti? Cosa vuoi vedere? Una dieta a base di verdure? Oppure un ballerino di nome Chase Hudson, forse fidanzato proprio con Charlie D'Amelio? Stai in Italia o vai in Spagna? Quanto resti collegato? Che parola scrivi nella barra delle ricerche? Salti mortali o vodka? Finisci nei gruppi con tematiche «gay» o in quelli con tematiche «pasta», vai sul lato degli stripper o su quello del fitness. In base ai tuoi movimenti, TikTok ti farà trovare altri video simili a quelli che stai cercando. (Cameriere? «Il solito»). Ma, soprattutto, questa è la grande promessa, si incaricherà di far vedere i tuoi video girati nella stanzetta a quante più persone possibili nel mondo, seguendo la logica imperscrutabile dell'algoritmo. Magari ti seguono 3 compagni di classe e il tuo video finisce in 3 milioni di telefoni. Dentro un simile caleidoscopio ognuno può lanciare una challenge, cioè una sfida. Cimentati anche tu. Canta due strofe di una canzone di Sia senza respirare. Appenditi a un cancello. Scendi con il sedere dalla ringhiera. Mostra quello che mangi durante la giornata. Mostra l'acne. Inventa la tua maschera di bellezza. Balla sulle braccia. La sfida è aperta: chiunque può provare a fare il video di maggior successo. In questo momento la «standupchallange», per fare un esempio, ha raggiunto 606,7 milioni di visualizzazioni. Consiste in questo: una persona è stesa a terra, l'altra gli sale sulla schiena. A tempo di musica, e ballando, quella a terra deve riuscire ad alzarsi in piedi e quella che gli stava sulla schiena dovrà arrivare a stare in verticale, in cima, sulle sue spalle. Roba da acrobati. È partecipando a una sfida di questo genere, forse, che una bambina di 10 anni di Palermo è morta soffocata, dopo essersi legata al collo la cinta dell'accappatoio. Perché il video ti dirà quanto «vali». «Tu faresti usare TikTok a tua figlia?», domanda il marziano a una ragazza che ha compiuto 18 anni. «No», risponde la ragazza. «Non liberamente, non a qualsiasi età». Ma perché? «Perché ti muovi, da piccolo, in un contesto pieno di grandi. Ti possono bullizzare. Ti possono demolire. Puoi finire a leggere frasi fasciste senza nemmeno capire che lo sono. Ti possono convincere a fare una dieta assurda, che ti farà diventare anoressica». Su TikTok ci sono giornalisti che cercano di parlare ai giovani, ci sono politici che inseguono gli elettori di domani, ci sono cantanti. C'è solitudine e c'è amicizia. Genio e volgarità. 130 mila like per questi versi cantati a filastrocca: «Ci sono 2 gradi e vai in giro in reggiseno/ Lì sotto credo che ci passi pure un treno/ Una Ferrari forse ciuccia pure meno/ Da bambina eri felice se arrivava l'uomo nero». Come è TikTok? Come il mondo.
“Deve accertare l’età degli utenti”. TikTok bloccato dal Garante della Privacy dopo il caso della bambina di Palermo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 23 Gennaio 2021. Il Garante per la protezione dei dati personali ha disposto nei confronti di Tik Tok il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica. Lo annuncia una nota dell’autorità, che ha deciso di intervenire in via d’urgenza a seguito della terribile vicenda della bambina di 10 anni di Palermo. Il Garante già a dicembre aveva contestato a Tik Tok una serie di violazioni: scarsa attenzione alla tutela dei minori; facilità con la quale è aggirabile il divieto, previsto dalla stessa piattaforma, di iscriversi per i minori sotto i 13 anni; poca trasparenza e chiarezza nelle informazioni rese agli utenti; uso di impostazioni predefinite non rispettose della privacy. In attesa di ricevere il riscontro richiesto con l’atto di contestazione, l’Autorità ha deciso comunque l’ulteriore intervento odierno al fine di assicurare immediata tutela ai minori iscritti al social network presenti in Italia. L’Autorità ha dunque vietato a Tik Tok l’ulteriore trattamento dei dati degli utenti “per i quali non vi sia assoluta certezza dell’età e, conseguentemente, del rispetto delle disposizioni collegate al requisito anagrafico”. Il divieto durerà per il momento fino al 15 febbraio, data entro la quale il Garante si è riservato ulteriori valutazioni. Il provvedimento di blocco verrà portato all’attenzione dell’Autorità irlandese, considerato che recentemente Tik Tok ha comunicato di avere fissato il proprio stabilimento principale in Irlanda.
TikTok, scatta il blocco immediato «Il social accerti l'età degli utenti». Martina Pennisi per il "Corriere della Sera" il 23 gennaio 2021. Tiktok deve, di fatto, fermarsi in Italia fino al 15 febbraio. Lo ha deciso il Garante per la privacy, anticipando gli esiti delle due inchieste della Procura di Palermo sulla morte di una bambina di 10 anni. È l'età la leva del divieto senza precedenti nel nostro Paese: per la legge italiana i minori di quattordici anni non possono avere un profilo su piattaforme come TikTok, YouTube o Facebook senza il consenso dei genitori. Secondo le regole dell'app della cinese Bytedance, è vietata l'iscrizione agli under 13. Sembra, invece, che la bambina di Palermo avesse più profili su diversi social e che su TikTok, che in Italia ha circa 8 milioni di iscritti, possa essersi imbattuta in una sfida che l'ha portata a legarsi una cintura intorno al collo. Il suo cellulare è stato sequestrato e aiuterà a fare chiarezza, ma intanto il Garante ha accelerato ripartendo da una contestazione avanzata in dicembre: TikTok non tutela i minori, anche perché è troppo facile aggirare il limite dell'età (basta mentire quando si compila il form). L'accusa non è nuova, due anni fa è valsa a TikTok 5,7 milioni di dollari di multa negli Stati Uniti e coinvolge l'intera Rete, perché controlli sulla veridicità di quanto dichiarato in fase di iscrizione non ce ne sono. In considerazione della gravità di quello che sembra essere successo a Palermo, il Garante ha deciso di vietare il trattamento dei «dati degli utenti che si trovano sul territorio italiano per i quali non vi sia assoluta certezza dell'età e del rispetto delle disposizioni collegate al requisito anagrafico» fino al 15 febbraio. TikTok rischia una multa fino al 4% del fatturato. «Per noi corrisponde tecnicamente a un blocco selettivo degli under 13: la verità è che l'app non è presumibilmente in grado di verificare l'età degli altri e dovranno bloccare tutto» spiega Guido Scorza, componente del Collegio del Garante e relatore del provvedimento. «Abbiamo ricevuto e stiamo analizzando l'informativa del Garante» ha commentato un portavoce di TikTok. La soluzione non è di facile individuazione. «Una via praticabile, con altre ripercussioni, è la richiesta del documento di identità o della carta di credito, nel caso in cui i dati e le tecnologie a disposizione delle piattaforme non siano sufficienti per verificare l'età o la necessità di ulteriori controlli: YouTube agisce già così per limitare la visione di determinati contenuti ai maggiorenni» spiega l'avvocato Ernesto Belisario. Poco prima dell'annuncio del provvedimento, su TikTok non si riusciva ad accedere ai video contrassegnati con l'hashtag #blackoutchallenge. Poi la pagina è tornata disponibile e il contatore recita 24 milioni di visualizzazioni. Le prime ricostruzioni, ancora da verificare, dicono che la bambina potrebbe aver trovato in queste o simili sfide l'ispirazione per il suo gesto. Scorrendo i post per qualche minuto non ci si imbatte in niente di allarmante: si tratta di brevi video in cui i protagonisti compiono due azioni diverse inframmezzate da una schermata nera. L'unicità di TikTok sta però «nella moltiplicazione dei contenuti, sia da parte di chi li crea ispirandosi a quelli già postati dagli altri inventando remix, meme o duetti, sia per chi li consulta, senza dover per forza aprire un profilo e godendo comunque dei suggerimenti dell'algoritmo, e può andare avanti all'infinito» come spiega Alessandro Bogliari, a.d. dell'americana The Influencer Marketing Factory. Dunque: balletti, sketch, tormentoni, riferimenti a linguaggi e temi cari alla generazione Z, ma anche prove fisiche, se non pericolose, in alcuni casi impegnative. Su quello che supera il limite, compresa l'istigazione al suicidio, dovrebbe intervenire con la rimozione il binomio strumenti tecnologici-moderatori (TikTok ne ha 10mila e dichiara di aver rimosso 104 milioni di video nella prima metà del 2020) che sappiamo essere tutt' altro che infallibile. Bogliari sottolinea anche che «un contenuto bloccato pubblicamente può poi tornare su WhatsApp o nei gruppi di Telegram». Lato utenti, e genitori degli utenti, la prima e più utile risposta resta informarsi, capire, parlarne.
Michela Allegri per “Il Messaggero” il 24 gennaio 2021. Il giorno dopo l'annuncio delle restrizioni, nulla è cambiato: l'accesso a TikTok è rimasto invariato, non sono scattate verifiche serrate per controllare l'effettiva età anagrafica degli utenti. C'è una spiegazione: il provvedimento del Garante della Privacy è immediatamente esecutivo, ma non verrà applicato prima di qualche giorno, perché la società deve avere il tempo di studiare la situazione e adeguarsi. Non è nemmeno detto che le direttive dell'Authority vengano recepite: i gestori della piattaforma social potrebbero anche decidere di fare ricorso contro la decisione dell'autorità di controllo, e in quel caso a decidere sulla controversia sarebbe il Tribunale ordinario. E nel frattempo? TikTok, nel ricorso, potrebbe chiedere la sospensiva del provvedimento del Garante nell'attesa della sentenza, e anche in questo caso la decisione spetterebbe al giudice. Se la richiesta di sospensiva venisse accolta, non cambierebbe nulla fino alla conclusione del giudizio. Tutto questo, comunque, non dovrebbe succedere: il social preferito dai più giovani ha infatti comunicato di avere ricevuto l'informativa del Garante e di essere al lavoro: «La privacy e la sicurezza sono una priorità assoluta per TikTok e lavoriamo costantemente per rafforzare le nostre policy, i nostri processi e le nostre tecnologie per proteggere tutta la nostra community e i nostri utenti più giovani in particolare», ha detto in una nota un portavoce dell'azienda. In caso di mancato ricorso e di inosservanza delle prescrizioni, d'altronde, per il social cinese potrebbero esserci conseguenze pesanti: non solamente un'inchiesta penale, ma anche sanzioni milionarie.
LE DENUNCE. Intanto, dopo il caso della bambina di Palermo morta a 10 anni probabilmente mentre stava partecipando a una sfida sul social network - sul punto sono però in corso indagini della procura di Palermo -, quella delle challenge estreme via web si conferma un'emergenza globale. Ieri un diciassettenne, in Pakistan, è morto travolto da un treno mentre stava realizzando un video da postare proprio su TikTok. E potrebbe essere legata all'utilizzo della piattaforma cinese anche la scomparsa, dal 14 gennaio, di una 16enne di Regello (Firenze). I genitori sostengono sia fuggita con una coetanea, a sua volta sparita dalla provincia di Pisa, conosciuta proprio sul social network e che in passato sarebbe stata accusata di aver bullizzato un giovane disabile costringendolo a spogliarsi su Instagram. Sul caso TikTok sono intervenuti anche il mondo politico e diverse associazioni: l'obiettivo comune è studiare interventi per tutelare i più piccoli. La ministra per l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione, Paola Pisano, in un post su Facebook ha ricordato che «lo strumento tecnologico per verificare l'età dei giovani sulle piattaforme esiste e tra tecnici si chiama age verification. Il mondo di internet e è e deve essere uno spazio di libertà. Ma non della libertà di permettere che siano danneggiati soggetti deboli, come i minori». In molti, inoltre, chiedono misure più stringenti, come ad esempio l'utilizzo dello Spid per la verifica dell'identità degli iscritti. Consumerismo No Profit, associazione dei consumatori specializzata in tecnologia, tramite i propri esperti, per esempio, ha redatto una proposta di legge che introduce l'obbligo di condizionare sia l'iscrizione che l'interazione sui social network da parte dei minori di anni 14 all'autorizzazione dei genitori, identificati a mezzo identità digitale: per iscriversi, chattare e pubblicare contenuti sulle piattaforme sarà indispensabile ricorrere, appunto, allo Spid. Ma questa soluzione viene considerata difficilmente applicabile dagli esperti.
Il fenomeno che spopola tra i ragazzini. Cos’è Blackout Challenge, il folle gioco di moda sui TikTok tra i ragazzini. Redazione su Il Riformista il 21 Gennaio 2021. La Blackout Challenge è la sfida estrema che spopola su molti social amati dai ragazzini tra cui TickTok. È una prova di resistenza che consiste nel mostrare la propria capacità di resistere maggior tempo possibile con una cintura stretta attorno al proprio collo. Su TikTok ci sono tantissimi video che rispondono a questa sfida. Tra coloro che hanno deciso di rispondere alla sfida potrebbe esserci anche la piccola bimba palermitana di 10 anni che si è stretta una cintura al collo provocandosi un arresto cardiocircolatorio. La sfida consiste nel provocarsi uno svenimento togliendosi ossigeno con corde, sciarpe o cinture da soli o con l’aiuto di qualcuno. Il tutto è ripreso, fotografato e postato sui social con l’hashtag #BlackoutChallenge. È difficile capire cosa possa attrarre i giovani in questa sorta di sfide. Cero è che sempre più spesso sono giovanissime le vittime. Qualcuno soprattutto tra i più giovani è attirato dal provare a farlo perché intorno a queste sfide si articolano spesso vere e proprie mitologie, fake news che saltano di post in post come ad esempio quella che la Blackout Challenge crei euforia in chi la pratica. Non è chiaro da dove prendano origini le sfide e chi sia a lanciarle. Della blackout Challenge si parlò già alla fine del 2018 in relazione alla morte di Igor Maj, un ragazzo di 14 anni di Milano appassionato di montagna, che fu trovato morto soffocato con una corda al collo: inizialmente classificato come suicidio, per i genitori si trattò però di un caso di blackout challenge, perché nella cronologia del computer madre e padre del giovane trovarono ricerche proprio sull’argomento.
Federico Taddia per “la Stampa” il 22 gennaio 2021. «Dobbiamo avere il coraggio di dire che quello non è un posto per loro». Essere capaci di alzare barriere verso il virtuale e saper offrire alternative nel reale: è quello che chiede Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell' età evolutiva, ricercatore alla Statale di Milano, e autore di "Tutto troppo presto", un manuale sull' educazione sessuale dei figli nell' era di internet.
Pellai, perché si può morire a 10 anni per una sfida raccolta in rete?
«Queste "Challenge" vengono proposte a bambini e ragazzini che non sono il grado di gestire il senso del limite, la consapevolezza del confine: sono piccoli, non hanno ancora interiorizzato nulla. La sopravvivenza è un concetto che non maneggiano, perché fino a quel momento è stata gestita dagli adulti. E' un campo in cui non hanno competenze: non conoscono il loro corpo, le conseguenze di certi gesti, non hanno percezione della linea del pericolo. La sfida richiesta è superiore alle capacità che il bambino può mettere in gioco».
Tutta colpa del web?
«I questi mesi i nostri figli hanno subito un'accelerazione al digitale, dovuta all'iperconnessione. Spesso senza la possibilità di un sostegno, di un accompagnamento educativo. L'online è diventato il loro parco giochi, dove fare scuola, intrattenersi, passare il tempo. E tutto è amplificato da questo periodo di cui sono in totale passivizzazione e decorporeizzazione: sono senza corpo, senza relazioni, senza socializzazione. Fuori c'è il deserto e così trovano più risposte possibili nella virtualizzazione. Il corpo dei bambini però non è solo un contenitore, è anche un contenuto della loro crescita. Hanno bisogno di esercitarlo, di movimentarlo, di renderlo protagonista, di sentirlo reagire, di capire le sensazioni che produce. Aspetti complicatissimi da tenere sotto controllo a 10 anni, un' età spaventosamente maldestra, in cui è iperattivata la ricerca di emozioni, eccitazioni, tentazioni, emulazioni degli adulti. Il cervello spesso va per conto suo, manca la capacità autoregolativa. Quella, infatti, è consegnata e delegata agli adulti. E' un loro compito».
Gli adulti controllano troppo poco?
«Bisogna lavorare sulle competenze, dare strumenti ai bambini per comprendere. E definire che si sono limiti che non possono essere valicati. Quali siano queste regole i bambini hanno bisogno di sentirselo dire, raccontare. Così come hanno necessità di vedere che l' adulto sa supervisionare e presidiare quel confine. Perché se mamma o papà fanno da sentinella, i bambini stanno più tranquilli, perché sanno di poter osare la trasgressione proprio perché c' è qualcuno pronto ad intercettarli. Questo nella vita reale succede continuamente, quotidianamente. Nel web, nella vita virtuale, quasi mai.
I bambini vanno tenuti fuori dai social?
«Decisamente sì. E' come dire a tuo figlio di dieci anni: "Esci di casa, prendi il treno per Milano o Roma, passa una bella giornata e torna alla sera". I bambini non hanno abilità per fare questo, e se non le hanno non possono inventarsele. Devono essere allenati, preparati, istruiti. Le neuroscienze ce lo dimostrano in tutti i modi: quello dei social - ma la rete in generale - è un territorio iperstimolante, ipereccitante. Ed entrare in quei territori senza le difese specifiche è rischioso, perché ci si può fare davvero molto male».
TikTok è frequentatissimo da bambini, anche con il consenso delle famiglie: non è un social per i più piccoli?
«TikTok è una fiera dell' esibizione, della sessualizzazione precoce, della seduzione, della competizione: per quale motivo devo far entrare mio figlio dentro a quella dimensione? Io non riesco a pensare che ci sia un TikTok a misura di decenne, così come non c' è un sito pornografico adatto a un dodicenne: però migliaia di decenni sono su "TikTok" e migliaia di dodicenni accedono alla pornografia. La responsabilità è di un sistema che continua a pompare nei figli l' idea che là dentro trovano il paese dei balocchi, un luogo che contiene tutto ciò che non trovano fuori. Certo, il fuori deve diventare più strutturato, accogliente e stimolante. Ma è arrivato il momento di gridare che il dentro non è l' alternativa. Non è un posto per loro».
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 12 febbraio 2021. Ha aperto la finestra, è andata sul balcone, poi ha scavalcato il parapetto e si è lanciata nel vuoto. Si è buttata dal terzo piano una studentessa di 17 anni a Roma. Un volo di nove metri. Poi l' impatto. Il 31 gennaio si sperava potesse salvarsi, ma non c' è stato niente da fare. Dopo 10 giorni di agonia, Sara, il nome è di fantasia, è spirata tra le braccia dei medici dell' ospedale Tor Vergata che hanno cercato in tutti i modi di strapparla alla morte. Adesso la polizia del commissariato Casilino, a cui è affidato il caso, sta passando al setaccio i profili social della minorenne. La studentessa era iscritta ad Instagram e a Tik Tok. Che avesse partecipato a una challenge? Per ora si tratta di supposizioni, gli investigatori hanno acquisito il tablet e il cellulare della ragazza a caccia di prove. Sara, infatti, non ha lasciato un biglietto di addio. Ne si era confidata con la sorella o con un' amica. Un gesto che ha lasciato sgomenta la direttrice del Ciofs, l' istituto di formazione professionale frequentato dalla giovane: «Non abbiamo rilevato - ha detto agli agenti - nessun segno di disagio, siamo basiti».
GLI INQUIRENTI. La soluzione del caso è affidata al magistrato Eleonora Fini, pubblico ministero esperto in inchieste relative a vicende di violenze, maltrattamenti e istigazioni al suicidio. Per adesso il fascicolo dell' indagine è a modello 45, senza un' ipotesi di reato specifica.
Il sostituto procuratore attende gli esiti sull' analisi dei dati dai dispositivi elettronici della vittima, l' autopsia e una nuova audizione dei genitori. Nella prima, affranti dal dolore, non hanno delineato un quadro completo. Alla sorella era invece stato chiesto se Sara utilizzasse i social. Così aveva risposto «Instagram e Tik Tok». Alla domanda dell' impiego che la 17enne faceva di questi strumenti la ragazza non ha saputo dare informazioni utili. Oltre alla famiglia i poliziotti hanno ascoltato anche i compagni di scuola e la dirigente del Ciofs dove Sara era iscritta. La direttrice ha spiegato alla polizia, come le hanno riferito gli stessi insegnanti, che la studentessa non aveva manifestato alcun comportamento anomalo che potesse suggerire un simile epilogo.
LA VICENDA. È il 31 gennaio Sara decide di togliersi la vita. Non lo comunica a nessuno. Perlomeno questo è emerso fino ad oggi dall' inchiesta. Apre la porta finestra del balcone. Vive con la sorella e i genitori in un palazzo alla periferia est della Capitale, oltre il Gra. Ha già deciso cosa vuole fare. In meno di un secondo mette in pratica un progetto forse meditato da qualche tempo oppure la prova finale di un gioco assurdo. Se il mostro che l' ha spinta a compiere la più estrema delle azioni era una depressione adolescenziale mai emersa o un folle che l' ha spinta in una sfida sui social è ancora presto per dirlo. Nove metri la inghiottono. Un abisso che la porta via. Quando i genitori vedono in quel corpo, nel cortile del palazzo, la loro figlia, fanno fatica a credere che sia vero. Ma è davvero Sara, 17 anni, studentessa con una vita davanti. Dallo stupore padre e madre passano alla disperazione. Poi la speranza. La studentessa non è morta. La loro figlia è in gravi condizioni. Per dieci lunghissimi giorni la famiglia spera in un miracolo. «Sara risvegliati» è il loro auspicio. Le ferite riportate da un volo infinito dal terzo piano di un palazzo sono però insanabili. La studentessa non ce la fa. Muore mercoledì 10 febbraio tra le grida di dolore di chi ha sperato sino all' ultimo che potesse risvegliarsi.
Aumento dei suicidi e Blackout Challenge, lo psichiatra Ravera: “Ecco i segnali da tenere d'occhio nei giovani”. Matteo Gamba su Le Iene News il 22 gennaio 2021. Furio Ravera ci spiega quanto rischiano i ragazzi con l’aumento di suicidi e autolesionismo nell’anno della pandemia. Lo psichiatra ci racconta anche quali sono i segnali di minorenni e maggiorenni da controllare. Comprese le drammatiche sfide web, “da fermare subito”, che hanno appena portato alla morte di una bambina di 10 anni a Palermo. “I suicidi stanno aumentando tra i nostri ragazzi con pandemia e lockdown. È un tema drammatico, delicato e urgente: bisogna parlarne, ma parlarne bene e con le parole giuste”, esordisce lo psichiatra e psicoterapeuta Furio Ravera che ha pubblicato la settimana scorsa il libro “Anime adolescenti”, un manuale per genitori per capire i problemi dei figli. In questi giorni su Iene.it ci stiamo concentrando sugli effetti psicologici dell’era Covid, parlando con gli esperti del dopo pandemia e della crescita, soprattutto tra i giovani, di ansia e solitudine e consumo di droga e alcol (qui trovate i link, in basso gli articoli). Affrontiamo un altro fenomeno drammatico con il prof. Ravera, direttore del reparto Diagnosi e cura dei disturbi di personalità e delle patologie giovanili correlate della Casa di Cura " Le Betulle" di Appiano Gentile (Como).
Perché c’è questa crescita di suicidi tra i ragazzi, minorenni e maggiorenni?
“Questo anno ha colpito duramente la loro vita. Hanno perso socialità e divertimento assieme a scuola, sport, relazioni, che sono fondamentali alla loro età, in particolare quelle fuori dalla famiglia. Si trovano a vivere tutto il giorno con i genitori, come dentro a una casa di campagna di un altro secolo. Unica differenza: passare il tempo davanti uno schermo a seguire per 5-6 ore le lezioni, a giocare o a navigare su internet. Insoddisfazioni, solitudine e frustrazioni che ne derivano hanno alimentato tratti depressivi come anche pericolose tendenze suicidarie”.
Ci aiuta a capirle?
“I suicidi sono la reazione drammatica a una situazione emotiva sentita soggettivamente come intollerabile. Vengono percepiti come un’assurda salvezza mentre la morte non viene rappresentata con chiarezza. Gli atti estremi arrivano in uno stato crepuscolare della coscienza, chi ne esce miracolosamente vivo la recupera in pieno magari al pronto soccorso. Morire diventa più importante che vivere. ‘Erano giorni che avevo un sete terribile come in mezzo al deserto, una sete di suicidarmi, non riesco a spiegarmi meglio’, mi ha detto una paziente che è sopravvissuta davvero per miracolo dopo essersi buttata giù da un palazzo”.
Stiamo parlando della seconda causa di morte tra i 15 e i 24 anni dopo gli incidenti stradali.
“Sì, con una prevalenza nei maschi rispetto alle femmine. L’isolamento sociale ‘modello hikikomori’, il fenomeno giapponese dei ragazzi che si confinano in casa, questa volta è di massa per contrastare i coronavirus. Il suicidio si nutre di solitudine e colpisce in particolare in contesti sociali ed economici difficili, che ora possono restare ancora più indietro e ai margini. Spesso ha ragioni complesse tra ambiente familiare, violenze domestiche, abusi subìti o disturbi psichici: la pandemia ha agito come amplificatore di tutte queste vulnerabilità”.
Il discorso vale anche per l’autolesionismo che coinvolgerebbe secondo alcune stime il 20% dei ragazzi italiani?
“Il dato non mi sorprenderebbe perché i numeri sono alti e in aumento. In questo caso riguarda più le femmine che i maschi. Ci si taglia sulle braccia per interrompere sempre uno stato emotivo intollerabile della mente o che non consente altro. ‘Io mi taglio, perché così riesco almeno ad avere dei momenti di sollievo’, ci raccontano. Il dolore fisico non viene quasi sentito, la coscienza non è chiara. ‘Mi taglio perché dopo sono più lucida, dopo riesco a studiare meglio’ sono le frasi che sentiamo. L’autolesionismo viene usato come interruttore per prendere una pausa da una sofferenza interiore più forte. Se ne può diventare dipendenti e può essere il segnale di rischio suicidio”.
Che cosa deve fare un genitore?
“Rivolgersi a uno specialista. Non solo se scopre dei tagli sulle braccia ma anche già se vede un figlio diventare molto più silenzioso, molto più triste, che fa fatica a studiare, si isola e si allontana dalle relazioni. Sono segnali preoccupanti, bisogna indagare anche se non ‘fa casino’. È meglio abbondare nei controlli su qualsiasi cambiamento improvviso del comportamento, del corpo, dell’alimentazione. Anche perché di solito emerge poco di quello che c’è davvero dietro: i ragazzi nascondono il più possibile tutto per vergogna. Non bisogna tirarsi indietro per non sentirsi falliti come genitori. Bisogna ricordarsi che la vigilanza è un dovere per legge, almeno per i minorenni, e che i figli vanno sempre accompagnanti e affiancati con ascolto e dialogo, senza abdicare all’autorevolezza”.
Abbiamo appena assistito alla tragedia della bambina di 10 anni morta a Palermo dopo il Blackout Challenge. C’è Blue Whale, c’è Jonathan Galindo: dietro queste folli sfide web c’è sempre il rischio di togliersi la vita. Quanto sono pericolose?
“Molto. I suicidi risentono di imitazione e suggestione. Queste sfide mortali su internet sono fenomeni terribili: danno ai ragazzini in difficoltà rituali che sembrano collettivi, da imitare e seguire e che sembrano poter governare stati emotivi interni incomprensibili a quell’età. Senza queste suggestioni virtuali, certi suicidi non sarebbero avvenuti. Capisco che il problema della censura online è ampio, ma queste ‘sfide’ sono azioni rivolte a un crimine: vanno fermate subito”.
Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 29 gennaio 2021. «Se sono degna di vivere non mi butto, altrimenti per rinascere devo farlo. Me lo ha detto l' apostolo di Dio». La madre sgrana gli occhi mentre la figlia, 15 anni, sul terrazzo condominiale di un palazzo nella periferia della Capitale attende le disposizioni di uno sconosciuto via social network. Il genitore prende la figlia, l' abbraccia. La stringe forte su di sé: «Ma che dici?» Dopo poco sono al pronto soccorso del Bambino Gesù. L' epilogo non è tragico. La piccola viene presa in custodia dagli specialisti dell' ospedale pediatrico. Il racconto fornito agli psicologi rimanda però alla Blue Whale e a Jonathan Galindo. Le peggiori trappole in cui possono cadere gli adolescenti che attraversano un momento di vulnerabilità.
LA STORIA. Erica, il nome è di fantasia, ne è purtroppo un esempio. I genitori sono in lite da tempo. Bisticciano anche di fronte a lei. Con i compagni di scuola non riesce a legare. Internet diventa un rifugio, ma quella che pensa essere un' amicizia virtuale si rivela un rapporto tossico. Pericoloso. Cerca conforto in uno sconosciuto che la spinge verso il baratro. I passi sono lenti. Ogni remora della 15enne è vinta attraverso piccole sfide che la vittima decide di accettare.
Tutto inizia con Instagram. L' esca è rappresentata da un post sul social. La ricerca non è stata casuale. Nella giungla di internet l' adolescente ha cercato qualcuno che potesse confortarla. Erica nella sua esplorazione del web incappa nel profilo di una persona e inizia la sua conversazione con l' apostolo di Dio. Almeno così si fa chiamare. Eccezion fatta per il nome, non vi è alcun riferimento religioso, non si tratta di una setta.
Lo sconosciuto si presenta come una persona sensibile. Coglie lo stato d' animo che vive Erica. L' ascolta, lei si confida. I problemi con il fidanzato, quelli con gli amici, i compagni di classe. La tensione che si respira in famiglia. Conquistarsi la fiducia è solo il primo il step.
La seconda fase prevede un obbligo di fedeltà. Erica costantemente è sottoposta a delle prove. Si tratta di alcuni esami che deve superare. «Oggi non andare a scuola», le dice. In realtà è un ordine. Se Erica non ubbidisce scatta la sanzione.
«Interrompo ogni rapporto con te, non ci sentiamo più». Questo è il ricatto. La 15enne in quel momento non può fare a meno dell' apostolo di Dio. Il legame diventa così un laccio, una dipendenza. Perciò decide di marinare la scuola. La parola di Erica non è però sufficiente. L' apostolo di Dio pretende una foto che dimostri ciò che la ragazza afferma. Ecco allora l' istantanea di lei in giro per Roma. Passa il tempo e il tutor che conduce la 15enne in questo folle gioco alza costantemente l' asticella. «Ruba i soldi ai tuoi genitori». Si tratta di pochi euro. Erica lo fa, un' altra foto ne è la testimonianza.
LA PROVA FINALE. La 15enne, senza neanche accorgersene, è sempre più soggiogata al folle agganciato via social. E così si arriva ad una sera di ottobre del 2020, quando la ragazza accetta la più dissennata richiesta. L' ipotesi di suicidarsi. «Morire - le comunica lo sconosciuto - per rinascere. O forse no, ti faccio sapere dopo». Erica sale le scale che la conducono verso la terrazza condominiale del palazzo. L' ordine è perentorio. L' apostolo di Dio le comunicherà a breve la sua decisione. La madre capisce che qualche cosa non va. Già da tempo la figlia ha degli atteggiamenti inconsueti. La segue, l' osserva senza farsi notare mentre stringe tra le mani il cellulare in attesa di una chiamata o di un messaggio. Ecco che allora si accosta ad Erica, la ferma e le chiede cosa ha intenzione di fare. La figlia è titubante, poi racconta tutto. La donna è esterrefatta. La figlia forse avrebbe compiuto il gesto estremo se non fosse intervenuta. Il genitore è desolato. Un pugno allo stomaco. Non ci pensa due volte, l' abbraccia e capisce che da sola non può gestire questa situazione. L' unica via d' uscita è portare la piccola all' ospedale pediatrico Bambino Gesù. Adesso Erica è salva. Ma l'insidia per altri adolescenti è a portata di smartphone.
Il fenomeno social. Chi è Jonathan Galindo, la maschera social che incita a gesti estremi. Redazione su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Jonathan Galindo sembra essere l’erede della Blue Whale e della Momo Challenge. Un personaggio misterioso, presente su tutti i principali social, che adesca soprattutto adolescenti e giovanissimi e li invita a intraprendere delle sfide via via più pericolose fino a esortare alla messa in atto di gesti autolesionistici. Questo secondo quanto denunciato dagli allarmi di genitori e famiglie in diversi Paesi in tutto il mondo. I profili sono decine se non centinaia. Jonathan Galindo ha un aspetto allo stesso tempo bizzarro e grottesco: il volto richiama quello di Pippo, il personaggio della Walt Disney. Ma i suoi comportamenti e le sue richieste sono tutt’altro che amichevoli. “Vuoi giocare con me?”, è il messaggio che arriva da questi profili. E così l’account trascinerebbe le vittime in una serie di sfide di volta in volta più pericolose fino, a quanto pare, anche al suicidio. L’allarme di genitori e famiglie è stato ripreso lo scorso luglio da diverse testate. Jonathan Galindo è presente su tutti i social ma è particolarmente attivo su Facebook, Instagram e Tik tok.
LE ORIGINI – A inventare il personaggio di Jonathan Galindo è stato, tra il 2012 e il 2013, Samuel Catnipnik, un produttore di effetti speciali cinematografici e di protesi iper-realistiche. Catnipnik, che si fa chiamare anche Dusky Dam o Samuel Canini, ha cominciato a postare foto e video mentre indossa questa sorta di maschera. Venuto a conoscenza del fenomeno ha preso immediatamente le distanze dalla challenge in un lungo post su Twitter. “Ciao a tutti. Questa follia di Jonathan Galindo sembra stia terrorizzando tantissimi ragazzi facilmente impressionabili – ha scritto Catnipnik – Le foto e i video sono miei, del 2012-2013. Erano per il mio bizzarro piacere personale, non per qualche cacciatore di brivido dei giorni nostri che cerca di spaventare e bullizzare la gente. Se ricevete un messaggio da qualcuno che vuole iniziare qualche gioco, non interagiteci. Non lasciate che entri nelle vostre vite. Questo mondo ha già abbastanza problemi reali, e soffrire o morire per il piacere a buon mercato di qualcun altro non dovrebbe essere uno di quelli”.
IL FENOMENO – Quella che era una maschera principalmente utilizzata per confezionare contenuti creepypasta si sarebbe quindi trasformata nel volto di un gioco pericoloso. I profili di Jonathan Galindo sarebbero anche capaci in alcuni casi di impossessarsi dei dati personali e dell’indirizzo IP degli utenti. Del fenomeno si parla in America Latina, negli Stati Uniti, in Spagna e ora anche in Italia. Il profilo più seguito conta circa 250mila follower. La storia è stata anche rilanciata da un influencer messicano, Carlos Name, da quasi due milioni di follower.
Da "ilmessaggero.it" il 24 gennaio 2021. «Ho provato questa sfida, avvicinarmi alla morte. Ero molto triste. Ho attraversato un momento particolare e allora ho iniziato a tagliarmi. Era il primo step». Paolo (il nome è di fantasia), romano di 18 anni, ne parla liberamente. Il ricordo è nitido anche se oggi non si capacita di quello che stava per fare appena un anno fa: «Tanti miei coetanei compiono gesti di autolesionismo, sono molti di più di quello che si possa pensare. Il web in questo ti aiuta». È un mix micidiale, un momento di depressione adolescenziale, la ricerca compulsiva su internet su come farsi del male oppure togliersi la vita ed infine trovare tutte le risposte. Anche i trucchi da adoperare per non farsi scoprire dai genitori, quando si decide di iniziare il gioco ferendosi con una lametta. Il tutto magari sotto forma di una sfida, proprio come è accaduto a Paolo. Il ragazzo, all'epoca 17enne, è stato acciuffato per i capelli. A scuola hanno capito che qualche cosa non andava. Prima la professoressa, poi la psicologa dell'istituto sono intervenute giusto in tempo. A loro, alla fine, ha raccontato il gioco perverso in cui era entrato, l'aveva affascinato e lo stava spingendo giù verso il baratro. Il percorso per uscire fuori dal tunnel è stato lento e doloroso, indispensabile si è rivelato il sostegno del Centro Nazionale Contro il Bullismo Bulli Stop. Un'associazione che da anni è al fianco dei ragazzi nelle scuole. Il fatto però è che gli adolescenti che cadono in queste challenge stanno aumentando vertiginosamente. Non si tratta di casi isolati ma iniziano a diventare sempre più frequenti. «Episodi simili a quello di Paolo sono in forte ascesa», spiega Giovanna Pini che del Centro Nazionale Contro il Bullismo Bulli Stop è la presidente. Perché hai tentato questa sfida con la Blue Whale? «Attraversavo un periodo di grande confusione. La vicenda è di un anno fa. Quando ci penso mi pare che sia passata un'eternità». Qualcuno ti ha consigliato? «Tra ragazzi, compagni di scuola, si parla molto di queste cose, sono argomenti di cui si discute senza particolari problemi. Esistono perfino delle chat dove si forniscono consigli utili su come ferirsi».
“Le challenge pericolose sono difficili da trovare”, l’esperto svela quali sono i pericoli sul web per i bambini. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Sui giornali si parla tanto di Blackout Challenge, la sfida di resistenza al soffocamento che starebbe mietendo vittime soprattutto tra i giovani. Ma quanto è facile trovarla sui social? È davvero così accessibile per un bambino? Insieme a Livio Varriale, giornalista esperto di web e autore di libri come “Cultura digitale – Manuale di sopravvivenza per genitori” e “La prigione dell’uminità – dal Deep Web al 4.0” abbiamo provato a cercare la blackout challenge. Abbiamo scandagliato diverse tipologie di siti, tra cui anche quelli per adulti, visto che il soffocamento spesso è collegato a pratiche erotiche, e non abbiamo trovato nulla. Poi abbiamo passato in rassegna tutti i social e l’unica traccia di blackout challenge e sfide affini che abbiamo trovato consiste nell’enorme volume di articoli scritti sulla triste vicenda della bambina di 10 anni trovata soffocata da una cintura al collo a Palermo. Abbiamo cercato attentamente anche nel dark web e non abbiamo trovato nulla. “Per anni ci hanno detto che lì si trovava qualsiasi tipo di nefandezza ma alla fine il dark web serve solo per far girare soldi con affari sporchi”, spiega Varriale.
La bambina di Palermo, dunque, come ha fatto a trovare quelle challenge?
“Potrebbe aver ricevuto qualche messaggio privato che la invitava a partecipare alla sfida – dice Varriale – La sfida è difficile da trovare ed è probabile che sia stata la stessa narrazione dell’episodio ad aumentare la portata del fenomeno. Lo dimostra il numero delle ricerche effettuate per ‘Black Out challenge’ che sono sempre relative all’episodio di cronaca”. Ed è qui che è fondamentale la partecipazione degli adulti, non solo come controllo ma anche per la diffusione della cultura digitale. “Per i bambini i social sono una porta di condivisione di uno spazio virtuale tra l’adulto e il bambino. Quest’ultimo è troppo piccolo per saper discernere tra giusto e sbagliato e osserva delle tendenze che sono assolutamente improduttive per la sua psiche. YouTube è un social più passivo: si sta lì e si guarda“. Invece Facebook e Instagram prevedono un’interazione. “Qui molte persone mostrano il proprio corpo per avere più like alle foto. TikTok nasce come il social delle sfide. È obbligatoria una partecipazione attiva. Per avere maggiore visibilità in meno tempo bisogna partecipare a quante più sfide è possibile e così i bambini sono finiti per scimmiottare quelli che sono i comportamenti dei grandi. Questo non vuol dire demonizzare un social perché ci sono anche persone che mettono in luce le loro peculiarità”. Per l’esperto di web un ruolo importante in questa narrazione ce l’hanno i genitori dei bambini, a partire dal fatto che l’iscrizione ai social per legge è consentita dai 13 anni in su. Trasmettere l’idea che si può eludere una simile legge è sbagliato e trasmette un messaggio sbagliato. “Un genitore deve sapere cosa guarda il figlio – conclude Varriale – essere a conoscenza di quali sono i luoghi virtuali che il figlio frequenta, deve applicare dei filtri alla navigazione, soprattutto se il bambino sta solo molte ore e in possesso di dispositivi. Spesso i genitori cadono nell’errore di affidare i dispositivi digitali ai bambini per avere meno stress. È importante anche diffondere la cultura della legalità per cui se c’è un divieto per i minori di 13 anni a essere iscritto ai social quella legge va rispettata“. Il caso della bambina di Palermo ha acceso un campanello d’allarme tanto da spingere anche il Garante della Privacy a prendere provvedimenti con immediatezza. “Già a dicembre il Garante aveva aperto un’istruttoria nei confronti di TikTok – ha spiegato Ginevra Cerrina Feroni, Vicepresidente dell’Aurotorità Garante per la privacy – contestando la semplicità di iscrizione per i minori, il fatto che non c’è verifica dell’età anagrafica, la scarsa chiarezza su come venissero trattati i dati, l’automatismo con cui una persona si iscrive e il profilo è pubblico. Dopo il caso di Palermo abbiamo inibito il social a tutti i minori: se l’età non è verificata può solo essere uno spettatore passivo. Ma sappiamo che questo è un filtro insufficiente”.
Il garante adesso sta lavorando con tutti i social per trovare una soluzione alla tutela dei minori. Al tavolo non c’è solo TikTok ma anche Facebook, Instagram e altri. “Sarebbe bene che questi social utilizzassero la grande quantità di dati che conservano a scopo commerciale per trovare un modo per controllare. E poi è fondamentale il coinvolgimento delle famiglie: sono loro a dover parlare con i figli e a spiegare i pericoli del web”.
"Vi dico cosa c'è dietro il "ciukinismo". Ma attenti a non gratificare il bullo". Il ciukinismo è una forma di cyberbullismo oggetto di un’inchiesta in corso. Ma i fenomeni social possono fare paura: “I giovani vendono il corpo in cam per 10 euro”. Elisabetta Esposito, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Un nuovo fenomeno del Web o la variante di una deriva già esistente? La procura dei minori di Lecce è al momento al lavoro su un’inchiesta che coinvolge adolescenti minorenni e altri appena maggiorenni. I media parlano di ciukinismo, ma non esiste un reato con questo nome: in una chat di Telegram denominata “Le Troiette di Instagram” sono apparse delle foto di giovanissime adolescenti ignare, con i loro dati sensibili e corredate di minacce e insulti. Il “capo” di questa chat aveva il nickname di Ciukino, da cui ciukinismo. “Gli adolescenti creano un mondo alternativo, ma non possiamo permettere una deriva violenta”, dice a IlGiornale.it Luigi De Gregorio, counselor, riabilitatore nelle dipendenze e conduttore di progetti contro bullismo e violenza di genere nelle scuole medie e medie superiori.
È corretto parlare di ciukinismo o si tratta di una forma di cyberbullismo?
"Quello cui i media hanno dato il nome di ciukinismo si iscrive nella cornice del cyberbullismo. Capisco la necessità mediatica di dare un nome alle cose, ma chiamarlo ciukinismo potrebbe risultare addirittura deleterio, perché il Ciukino potrebbe sentirsi gratificato da questo. Se parliamo di una personalità problematica è una considerazione da fare. All’origine di questi fenomeni ci sono molto spesso dei disturbi del comportamento, tuttavia ci potrebbe essere anche emulazione verso modelli di riferimento che vengono proposti dai media, non solo Internet ma anche ciò che passa in tv. E non dobbiamo sottovalutare la mancanza di comunicazione tra giovani e adulti".
Cosa scatta nella mente di un adolescente che commette questo tipo di atti?
"L’adolescente, che per definizione è oppositivo, vuole provare i propri limiti. Dal punto di vista psicologico, più si va in un mondo sommerso, meno ostacoli si trovano: in altre parole, nel mondo sommerso l'adolescente trova molta più coerenza con fantasie e manie, si trovano persone simili anche nei comportamenti devianti. In una società organizzata invece ci si deve contenere, ci si deve attenere alle regole. Inoltre una delle necessità dell’adolescente è quella di essere riconosciuto in quanto individuo, in quanto diverso. Noi adulti tendiamo a non considerare i giovani come individui: questo processo deve partire anche e soprattutto dai genitori".
Cos’è il mondo sommerso?
"È quello che non appartiene a noi adulti ma appartiene ai giovani. Noi ci muoviamo in un mondo riconoscibile, regolato da una serie di paradigmi e norme. Gli adolescenti hanno bisogno di spazio, creano un mondo alternativo e dobbiamo farcene una ragione: il mondo non è nostro, ma sarà uguale a quello che loro ritengono giusto. Per questo non possiamo permettere una deriva violenta, ma al tempo stesso non possiamo costringerli in un modo di vivere che è nostro e non loro. È una vecchia solfa, trita e ritrita: non significa che dobbiamo lasciare campo libero ai ragazzi, ma cercare di capirli, parlare il loro linguaggio. Per me il punto di partenza è sempre nella comunicazione".
Che distanza c'è oggi tra le generazioni?
"Si deve partire dall’idea che il mondo che conoscevamo è completamente cambiato con Internet, quello strumento al quale io adulto mi sono abituato, ma con il quale loro sono nati. Internet, i social network, le chat di incontri mi interessano da diversi punti di vista: ho analizzato, per esempio, le chat di incontri e ho notato che le persone non sanno più comunicare, corteggiare, sedurre. È come sfogliare dei cataloghi, l’intera umanità è diventata un catalogo: si cerca la pagina con più appeal e ci si butta dentro. C’è una distanza enorme tra giovani e adulti oggi, una distanza che possiamo colmare solo andando noi nel loro mondo, aprendoci alle proposte dei giovani, trovando una lingua comune. Inoltre gli adolescenti sono più forti, conoscono cose che noi non conosciamo. Noi adulti siamo cristallizzati in una forma che ci siamo dati, ma quando eravamo adolescenti ci sentivamo ugualmente lontani dai nostri genitori. Prima forse era più un discorso politico, come nel ’68-‘77, ora è maggiormente esistenziale. Possiamo provare ad arginare il danno nei ragazzi rinunciando alle nostre sicurezze, trovando un punto di incontro in modo che non vadano altrove a cercare delle proposte appetibili. Siamo noi che abbiamo la necessità di decostruirci. Ricordiamo sempre: i genitori non possono essere amici dei figli, perché altrimenti questi ultimi non li riconosceranno come guida. Si può essere però amicali, cioè comunicativi: c’è una grossa differenza. Smettiamo di guardare i giovani come vengono guardati da tutti, dimentichiamo il problema, altrimenti il rischio è di creare un’identità tra il giovane e la sua devianza".
Può capitare che dei maggiorenni sfruttino la situazione per ingrossare le fila della pornografia minorile?
"Assolutamente sì. Io credo che come in tutti gli ambienti ci siano i lupi. Il ragazzino potrebbe non sapere cosa può succedere in seguito a tali comportamenti, è affascinato da determinati atteggiamenti. Le spacconerie in chat, ad esempio, sono tutte parole del cyberbullo che, non avendo un mondo adulto sano di riferimento, trova sponda in qualcuno che alimenta il fenomeno gratificandolo. Una delle altre derive di questa gratificazione porta alcuni giovani a vendere il proprio corpo in cam per 10 euro: è lì che si può insinuarsi il pedofilo o il pornografo minorile".
Cosa si può fare per tutelare i minori vicini a ognuno, come figli, nipoti?
"È l’argomento più complicato. Dobbiamo ascoltarli, accompagnarli e avere un atteggiamento pedagogico. Purtroppo oggi la pedagogia è diventata in molti casi un modo per indicare, ma invece si deve accompagnare la persona verso se stessa. Smettiamo di pensare che gli adolescenti debbano diventare ciò che noi ci aspettiamo che diventino. Devono sentirsi liberi: possiamo lasciare una traccia, ma il sentiero di nostro figlio sarà il suo. E dobbiamo anche smettere di piazzarli di fronte alle piattaforme digitali fin da bambini. Inoltre la mia idea è che non si debba evitare la conflittualità. Ma la conflittualità deve essere sana, per costruire insieme confrontandosi. La conflittualità non deve essere mirata allo scontro fine a sé, alla prevaricazione. È necessario recuperare il rapporto con i bambini ripescando dentro noi stessi il bambino che siamo stati, utilizzandolo come interprete".
In alcuni Paesi, dopo questi reati, è prevista una riabilitazione tramite volontariato.
"Indirizzare i giovani al volontariato può funzionare sicuramente meglio di una punizione. Ma si deve portare il giovane a fare un percorso in cui vengono annullate le distanze: l’ideale sarebbe portare il cyberbullo a toccare con mano le conseguenze dei suoi gesti. Perché alcune vittime del cyberbullismo hanno sviluppato problematiche psichiatriche. Si può inoltre lavorare sulle emozioni: il dolore è dolore per tutti, non importa da dove arrivi, così come la gioia, l’amore, la paura. Sul piano razionale possiamo non incontrarci nell’immediato, ma un percorso correttivo in cui si va a toccare con mano il dolore costato agli altri può funzionare. Occorrono sanzioni educative, non punitive, oltretutto Basaglia si rivolterebbe nella tomba".
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
· Il Mistero della strage di Bologna.
41 anni fa l'attentato più sanguinoso. Strage di Bologna, i dieci misteri che i magistrati non hanno mai voluto chiarire. David Romoli su Il Riformista il 3 Agosto 2021.
1- Subito dopo la strage, al termine di una riunione con svariati ministri e i vertici delle forze dell’ordine a Bologna, l’allora presidente del Consiglio Cossiga affermò che la matrice della strage era fascista. Cossiga, confermato dal verbale informale del vertice notturno, ha poi ammesso che non c’erano elementi a sostegno della sua affermazione e che anzi la maggior parte dei presenti riteneva che la matrice fosse internazionale. Quanto ha inciso quella denuncia aprioristica sulle indagini successive che non hanno mai seguito altre piste se non quella neofascista?
2-Il testimone chiave dell’accusa, Massimo Sparti, è stato smentito dall’intera famiglia. Fu scarcerato sulla base di una falsa diagnosi che lo indicava come malato terminale. Il medico che contestava quella diagnosi, più tardi presidente dell’Associazione dei medici penitenziari, fu allontanato dopo quelle proteste. Non sarebbe stato necessario un maggior approfondimento su quella scarcerazione anomala e sulla falsa diagnosi?
3- Uno degli elementi indiziari principali che hanno portato alla condanna dei Nar è l’omicidio Mangiameli, avvenuto a Roma poche settimane dopo la strage. Secondo i magistrati di Bologna quell’omicidio era collegato alla strage perché i Nar volevano mettere a tacere un testimone pericoloso. Nel processo per l’omicidio Mangiameli, svoltosi a Roma, quel delitto viene però spiegato con motivazioni tutte diverse. È normale che un tribunale adoperi come elemento a sostegno del proprio impianto accusatorio un movente opposto a quello indicato dal diverso tribunale che ha indagato sul delitto in questione?
4- Licio Gelli, Francesco Pazienza e gli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte sono stati condannati in via definitiva per il depistaggio operato con la valigetta fatta ritrovare sul treno espresso Taranto-Milano nel gennaio 1981. In quel momento non c’erano indagini a carico dei Nar e il depistaggio servì anzi a indicare per la prima volta quella direzione. Si trattò di un depistaggio o di un “impistaggio”?
5- L’analisi del dna attuato sulla vittima della strage indicata sinora come Maria Fresu ha provato che quei resti non sono della Fresu. È dunque plausibile che appartengano a una vittima non identificata che doveva trovarsi molto vicina all’ordigno, tanto da autorizzare il sospetto che lo stesse trasportando. Per essere certi che quei resti non appartengano a nessuna delle altre vittime sarebbe sufficiente disporre un numero molto limitato, sotto la decina, di analisi del dna. Perché la Procura di Bologna ha rifiutato di disporre quelle analisi?
6- Al termine del processo contro Gilberto Cavallini la procura di Bologna ha chiesto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza di quasi tutti i testimoni della difesa. In molti casi la richiesta è stata respinta ma è stata invece accolta per Stefano Sparti, figlio di Massimo, rinviato a giudizio per essersi confuso su una data a distanza di 38 anni, quando era un bambino. Una richiesta del genere non rischia di costituire una minaccia per i testimoni della difesa?
7- Nel processo in corso contro Paolo Bellini, accusato di essere l’esecutore materiale della strage, sono imputati come mandanti Licio Gelli, Umberto Ortolani e Federico Umberto d’Amato e, con diverse accuse, Mario Tedeschi e Quintino Spella. Sono tutti morti. Non si rischia così da un lato di ledere il diritto alla difesa, dall’altro di fissare una verità storica incerta, dalla l’incertezza degli indizi e l’impossibilità per gli imputati defunti di spiegarli come non inerenti alla strage?
8- Il processo contro i mandanti si basa su elementi già noti. La procura di Bologna aveva pertanto chiesto l’archiviazione. La procura generale ha avocato a sé l’inchiesta e deciso di procedere. Come si spiega lo scontro tra Procura di Bologna e Procura generale?
9- La principale pista alternativa a quella della matrice neofascista rinvia al famoso “lodo Moro”, cioè a un patto segreto stretto tra Stato italiano e organizzazioni palestinesi. All’interno di questa cornice dal profilo però sfumato e sostanzialmente ancora ignoto andrebbero anche inquadrati il rapimento avvenuto a Beirut poco dopo la strage e la scomparsa dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni. Del lodo hanno parlato in più volte sia esponenti delle istituzioni italiane che dell’Olp. Tuttavia nessuno ha mai chiarito fino in fondo di cosa si sia trattato. È possibile indagare a fondo sulla strage di Bologna senza aver prima fatto luce sul contesto?
10- Negli ultimi anni sono emersi numerosi elementi che potrebbero indicare una “pista palestinese”, ultimo le informative del capoposto del Sismi in Medio Oriente colonnello Giovannone della primavera-estate 1980. Da quanto trapelato, nonostante le informative siano state secretate, risulta che Giovannone avesse a più riprese avvertito Roma di un imminente grosso attentato in Italia, deciso da una frangia del Fplp e materialmente affidato al terrorista internazionale ed ex militante dell’Fplp Carlos. La Procura di Bologna non ritiene necessario approfondire questa indagine dal momento che per quanto riguarda gli organizzatori della strage esistono già sentenze definitive a carico di Luigi Ciavardini, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Non sarebbe quindi il caso che a indagare su tutto il contesto anche internazionale in cui è maturata la strage e sull’esecuzione della stessa fosse la politica, cioè una commissione parlamentare d’inchiesta? David Romoli
41 anni fa l'attentato più sanguinoso. Maria Fresu e il mistero della strage di Bologna: l’86esima vittima ignorata dalle indagini. Redazione su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Ieri era il quarantunesimo anniversario della strage di Bologna. 2 agosto 1980. Esplose in una sala d’aspetto della stazione una bomba potentissima. Distrusse la stazione e uccise 85 persone. E’ l’azione più sanguinosa di tutta la strategia della tensione, che in Italia andava avanti da più di dieci anni, dal 1969, dicembre, con la strage di piazza Fontana, e che era iniziata in modo abbastanza chiaro come reazione ai grandi movimenti studenteschi e operai del 1968 e del 1969. La strage di Bologna viene immediatamente catalogata come tutte le stragi precedenti come strage fascista. Il segno della strategia della tensione è quello: azioni organizzate probabilmente da settori eversivi dei servizi segreti ed eseguite in gran parte con manovalanza dei gruppi della destra estrema. Però stavolta c’è qualcosa che non va. Troppi particolari non tornano. Compreso il movente. Non si vede un movente reazionario di politica interna. La fase dell’avanzata della sinistra è finita. Il Pci è stato sconfitto alle elezioni del 79, il Psi, con Craxi, è uscito definitivamente dalla subalternità al Pci, la solidarietà nazionale è conclusa e sepolta e la Dc ha ripreso saldamente in mano il boccino, prima con gli ultimi governi Andreotti poi con Cossiga. Il governo in carica è un governo di centrosinistra guidato da Francesco Cossiga e con dentro Dc, Psi e il Pri di Spadolini. Per cercare di accertare gli autori della strage si svolgono molti processi, ma nessuno riesce a stabilire la verità. Si batte solo la pista neofascista, ma non si trovano prove e anche pochi indizi. Alla fine si addossa la colpa ai Nar (il gruppo che fa da contraltare di destra alle brigate rosse) e vengono condanni Valerio Fioravanti a Francesca Mambro. I quali hanno confessato molti altri loro delitti, ma questo lo hanno sempre negato. Contro di loro non c’è niente di niente, tranne le accuse di un pentito, che otterrà in cambio la scarcerazione e che verrà poi smentito da tutti i suoi familiari. La verità è ancora lontanissima. I dubbi sulla versione ufficiale sono giganteschi. La magistratura tiene il punto, appoggiata in genere dai governi e dalla associazione delle vittime, ma di concreto non c’è nulla. Recentemente si scopre addirittura che i resti di una vittima, che erano sempre stati attribuiti ad una ragazza di nome Maria Fresu, non sono i suoi, e che dunque c’è una ottantaseiesima vittima della quale non è stato mai trovato nessun resto forse perché il suo corpo è stato completamente disintegrato. Nessuno mai l’ha più cercata. Parenti, amici, conoscenti. Curioso, no? Era questa ottantaseiesima vittima la persona che ha collocato la bomba e poi l’ha fatta saltare per errore? E’ possibile. La magistratura però non si è mostrata interessata a questa indagine, forse perché teme che possa portare lontano. Ora è incorso un nuovo processo. Che la Procura di Bologna aveva in realtà archiviato, per inconsistenza della materia. La Procura generale ha voluto invece che si facesse. E’ una processo ai mandanti. Una decina. Tutti morti. Sarà molto interessante questo processo senza imputati. Ieri a Bologna si è svolta la cerimonia ufficiale di commemorazione. Ha parlato anche la ministra Cartabia. Un bel discorso, molto retorico. Di appoggio alla magistratura e basta. Parole vuote. La verità vera, probabilmente, non la vuole più nessuno.
Morto in esilio. È morto Gianadelio Maletti, il colonnello che (forse) sapeva tutto sulle stragi. David Romoli su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Ancora pochi mesi e avrebbe toccato il secolo. Invece Gianadelio Maletti è spirato a 99 anni il 9 giugno scorso anche se, coerentemente con quella che era stata la sua vita, la notizia è rimasta segreta sino a due giorni fa. Era una delle spie più chiacchierate e sospettate d’Italia. E’ morto senza realizzare il sogno, che probabilmente alla fine aveva capito essere solo una chimera, di tornare da uomo libero in Italia dopo aver passato in Sudafrica oltre 4 decenni, dalla fuga nel 1980 per evitare la galera sino al giugno scorso. In Italia c’era tornato una volta sola, con tutte le garanzie del caso, nel 2001, per testimoniare ai processi per le stragi del 12 dicembre 1969 a Milano e del 1974 a Brescia. Disse poco e niente che lo potesse coinvolgere, nonostante la condanna per aver fatto fuggire Guido Giannettini, informatore del Sid (sigla dei servizi segreti dell’epoca) condannato e poi assolto in appello per la strage, e il testimone Marco Pozzan. Affermò solo di “aver saputo de relato” che l’esplosivo usato a Milano era arrivato dalla Germania, destinato ai gruppi di estrema destra italiana. Con Maletti sono stati sepolti certamente molti segreti. Non potrebbe essere diversamente con il lavoro che faceva e data l’epoca in cui lo faceva, gli anni delle stragi, dei conati di golpe, dei depistaggi in scala industriale. Segreti però non significa misteri, cioè altarini tali da modificare, se scoperchiati, la storia italiana recente. Forse avrebbe spiegato più a fondo quella storia, l’ex capo del “reparto D” addetto al controspionaggio e numero 2 del Sid, se avesse raccontato nei dettagli la sua “storia ufficiale” o semiufficiale: la carriera, i rapporti col potere politico, la guerra per bande tra spezzoni dei servizi segreti che facevano riferimento a diverse e spesso segretamente conflittuali potenze alleate. Non che Maletti non ne abbia mai parlato. Rispondeva via mail a tutti i giornalisti che lo cercavano e lo interrogavano. Mai però addentrandosi davvero negli angoli più ombrosi di quelle vicende. Mai restituendo, come avrebbe potuto fare, uno spaccato reale, non fantasioso e farcito di trame immaginifiche, di cosa è stato il potere reale nell’Italia della Prima Repubblica. Stava anche scrivendo la propria autobiografia ma chi l’ha letta, come il giornalista e storico Paolo Morando, sostiene che sia essenzialmente un testo nostalgico sugli anni della giovinezza e della prima carriera militare. A quella carriera Maletti era in un certo senso destinato dalla nascita. Torinese, figlio di un generale con una sfilza di nastrini e medaglie sul petto, Pietro Maletti, caduto in Libia nel 1940. Era stato compagno di scuola di un altro dei protagonisti degli anni ‘60 e ‘70 italiani, Eugenio Cefis, anche lui sospettato di essere stato a suo tempo una spia. I due amichetti si erano persi di vista e ritrovati poi già adulti e ben avviati sulla via del potere. Maletti però considerava l’ “uomo nero” dell’Eni un tipo troppo emotivo per il mestiere della spia. A lui quella critica nessuno avrebbe mai potuto muoverla. Era freddo, sempre controllato, asciutto. La celebre risposta data a chi notava la sua memoria prodigiosa, “Sì è vero. Ma solo quando mi fa comodo”, è più di una semplice battuta. Quasi una carta d’identità. Militare di carriera, nel 1967 fu spedito nella Grecia dei colonnelli golpisti. Fece amicizia con gli uomini di quel regime e non solo con loro. Aveva conoscenze internazionali, spaziava oltre il cortile dell’Italietta. Si immaginava e voleva essere un modernizzatore dell’angusto mondo dei servizi italiani, con modelli di riferimento ben precisi: i tedeschi e soprattutto gli israeliani. Il ruolo di addetto militare che aveva ricoperto ad Atene già sconfinava nell’universo delle spie. Nel 1971 diventò un dirigente dei servizi segreti a tutti gli effetti. Galloni da colonnello, incarico come numero due del Sid. La guerra tra il direttore del Sid Vito Miceli e il suo ambizioso e insofferente numero 2 fu durissima, segnò tutti gli anni 70. I due non avrebbero potuto essere più diversi. Irruento e facilone il primo, gelido e tecnocratico il secondo. Miceli giocava nella squadra che insisteva per una politica filoaraba. Maletti in quella legata agli israeliani e alla fazione più amica di Israele della Cia. Erano legati a settori diversi e in conflitto permanente tra loro della Dc. Non c’era dirigente dei servizi che non avesse la sua targa e rinviavano tutte a qualche capo della Dc. Il generale De Lorenzo era stato l’uomo di Segni, Henke era il protetto del potente Taviani, Miceli l’uomo della destra dorotea. Ma ciascuno faceva poi i propri giochi e sapeva se del caso cambiare casacca. Miceli si spostò verso Moro soprattutto in cerca di uno scudo contro le inchieste sul suo conto. Maletti, già vicinissimo al socialista Mancini, si trasformò in andreottiano di ferro nel 1974. Il primo conflitto tra i due (Miceli e Maletti) fu sulla nomina alla guida del Nucleo Operativo Diretto del Sid, di un uomo di Maletti, il capitano Labruna, convolto poi in tutte le inchieste a carico del suo capo. Non smisero più di duellare: una sfida tra le macerie perché su entrambi pesavano inchieste legate alle stragi e alle trame golpiste. Maletti fu arrestato e inquisito nel 1976 per aver fatto fuggire Giannettini e Pozzan. Fu accusato di aver depurato di alcuni nomi pesanti, tra cui quello di Licio Gelli, i documenti che consegnò ad Andreotti sul golpe Borghese del 1970. Fu anche condannato e poi assolto in appello e Cassazione per favoreggiamento nei confronti di Gianfranco Bertoli, autore della strage alla Questura di Milano del 1973. La condanna più pesante, però, gli arrivò in uno dei processi più complessi e confusi della storia, con dentro un po’ di tutto, dal petrolio alla finanza allo spionaggio, l’affare Mi.Fo.Biali: condanna definitiva a 9 anni. Di rivelazioni importanti Maletti, in quarant’anni di esilio, ne ha fatta una sola: sulla morte di Pino Pinelli. Però anche quella de relato, e chissà se vera. L’anarchico milanese sarebbe stato costretto a sedersi sul cornicione della finestra, giusto per indurlo a collaborare con la minaccia di un salto nel vuoto. A ogni risposta lo spingevano un po’ più in là. Involontariamente una delle spintarelle si rivelò fatale. Di quella fase sanguinosa il colonnello degradato a soldato semplice Maletti avrebbe potuto certamente dire molte altre cose. Quanto importanti non lo sapremo mai. David Romoli
Strage di Bologna, archiviazione per il giornalista del Secolo indagato per un’intervista a un magistrato. Paolo Lami sabato 3 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. La Procura di Ancona ha chiesto e ottenuto dal gip del Tribunale dorico l’archiviazione del procedimento nel quale la pm Irene Bilotta aveva indagato il cronista del Secolo, Silvio Leoni ipotizzando gravissimi reati in relazione ad un’intervista telefonica che il giornalista aveva tentato di fare, il 18 ottobre del 2019, al presidente della Corte d’Assise Michele Leoni. “Non abbiamo ancora le motivazioni ma tutto è stato archiviato: evidentemente, come era prevedibile, non è emerso alcun elemento idoneo dell’accusa su possibili intrusioni del mio assistito sul cellulare del presidente della Corte d’Assise di Bologna Michele Leoni“, dice all’Adnkronos l’avvocato Paolo Palleschi, difensore del giornalista del Secolo d’Italia. Silvio Leoni era stato indagato dalla Procura di Ancona per minacce aggravate e accesso abusivo ad un sistema informatico – il 18 novembre 2019, su delega della pm Irene Bilotta, i carabinieri di Bologna ne avevano perquisito l’abitazione e posto sotto sequestro il cellulare – dopo aver telefonato al presidente della Corte d’Assise di Bologna Michele Leoni chiedendogli un’intervista sul processo riguardante la strage di Bologna. Un mese dopo, gli era stato notificato un avviso di garanzia. Il giornalista era stato ascoltato dalla pm e, nell’occasione, era stato chiesto al cronista di svelare le sue fonti, in particolare come e da chi aveva ottenuto il numero di telefono del giudice. Successivamente l’avvocato Palleschi aveva chiesto e ottenuto dai giudici del Tribunale del Riesame l’immediato dissequestro del cellulare del giornalista. Ma la pm Bilotta non si era data per vinta e, nuovamente, a distanza di un’ora dal dissequestro aveva una seconda volta sequestrato l’apparecchio telefonico del cronista, modificando e aggravando le ipotesi di reato e disponendo poi una perizia tecnico-informatica sugli oltre 2.000 contatti telefonici per accertare se vi fossero relazioni con l’eversione di destra. E, in questa maniera, la Procura di Ancona violava le fonti del cronista nonostante una sentenza della Cassazione lo vietasse. “Mi auguro che questa archiviazione – sottolinea l’avvocato Palleschi – abbia il giusto peso sugli organi di informazione, che ci si possa focalizzare sulla vicenda…”. ”Un giornalista è finito sotto inchiesta per aver provato ad avere un’intervista su un tema cui ha lavorato per decenni, accusato di hackeraggio per avere acquisito furtivamente il numero di telefono del giudice Leoni – ricorda il noto penalista romano – E poi l’accusa gravissima di aver minacciato lo stesso giudice turbando l’esercizio delle sue funzioni. Per fortuna il gip ha accolto la nostra richiesta di archiviazione. Evidentemente non c’era trippa per gatti”. Palleschi aveva opposto alla pm, fra l’altro, il fatto che non fosse competente territorialmente la Procura di Ancona ma, anche, la mancanza di una querela di parte. “Ora che tutto è stato archiviato, pretendo le scuse pubbliche dal pm che ha preso una cantonata. E si è ostinata a continuare su quella strada, cercando di dimostrare, a tutti i costi, contatti sul mio cellulare con la destra eversiva, quando il mio primo numero in rubrica è di Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Br. Credo che a volte uno dovrebbe evitare di lavorare con il pregiudizio“, dice all’Adnkronos il giornalista del Secolo d’Italia. ”È dal 1987 che mi occupo di inchieste sul terrorismo, l’intelligence e le stragi, in particolare quelle di Ustica e Bologna – ricorda Leoni. – Ho seguito, come giornalista, tutte le relative Commissioni Parlamentari d’inchiesta, dalla “Moro”, alla “Stragi” fino alla “Mitrokhin” dove sono stato chiamato anche come consulente per le mie competenze in materia”. ”Ho sempre e solo cercato la verità senza pregiudizi. E di pregiudizi, anche infantili, sulla vicenda della strage di Bologna, ne ho trovati parecchi. – conclude Leoni – Basta vedere gli attacchi scomposti riservati alla pista palestinese e al caso della 86esima vittima. Non è in quella maniera che si serve la Verità”. Sulla vicenda interviene, di nuovo, il presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, Carlo Verna. “Abbiamo seguito con attenzione la vicenda Leoni, con rispetto nei confronti della magistratura. E, alla fine, per fortuna, si è concluso tutto con un’archiviazione. Alla soddisfazione per la conclusione e alla fiducia nella giustizia, viene accompagnata la perplessità – dice Verna parlando con l’Adnkronos – perché certe vicende non dovrebbero proprio cominciare”. ”Ci sono voluti due anni in questo caso – aggiunge il presidente dell’Ordine di categoria – con la macchina che ha messo sotto pressione il collega. Ci devono essere le querele, certamente, se ledono veramente una persona. E se non si rispecchia la verità. Ma che non siano temerarie. In questi casi non viene colpito solo il giornalista, ma il diritto di sapere. Chi ripaga delle sofferenze subite un cronista ingiustamente accusato?”, si chiede Verna. “A mio avviso l’archiviazione dell’indagine era scontata, nonostante fosse stato disposto per ben due volte il sequestro del telefono cellulare del giornalista – dice all’Adnkronos l’avvocato Valerio Cutonilli, difensore del giornalista del Secolo d’Italia insieme a Paolo Palleschi – Silvio Leoni si era limitato a compiere il suo dovere di giornalista“. “Purtroppo – aggiunge Cutonilli – quella della strage di Bologna si conferma materia molto delicata. Caso vuole infatti che Silvio Leoni è il cronista che negli ultimi anni ha condotto inchieste sulla possibile ottantaseiesima vittima della strage…”. “Grande soddisfazione per l’archiviazione di Leoni. La nostra completa solidarietà al Secolo d’Italia, che ha visto un proprio giornalista accusato ingiustamente semplicemente per aver cercato di intervistare un magistrato. Finalmente è stato reintegrato il diritto di cronaca. Bene ha fatto il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Verna a chiedere la tutela del diritto di "sapere", cruciale in una democrazia”, commenta il fondatore dell’Intergruppo “La verità oltre il segreto”, deputato Federico Mollicone. “Lanciamo un appello al ministro Cartabia – aggiunge – affinché sia tutelato il diritto di cronaca e il magistrato ne risponda. Esiste un risvolto inquietante: Leoni stava indagando sulla ottantaseiesima vittima, pista ignorata e derisa dai magistrati con la sentenza Cavallini che, di fatto, in realtà, certifica l’esistenza di ‘Ignota 86’. Presenteremo un question time sulla vicenda e chiederemo l’invio di ispettori del Ministero della Giustizia a Bologna“. L’Associazione Stampa Romana “esprime soddisfazione per l’esito della vicenda processuale che ha riguardato il cronista del Secolo d’Italia Silvio Leoni.”. ”Secondo la procura di Ancona Leoni che aveva chiesto una intervista al magistrato omonimo di Bologna, titolare della nuova inchiesta sulla strage della stazione avvenuta nel 1980, avrebbe usato artifici informatici per ottenere numero e intervista del magistrato che si sarebbe sentito minacciato – ricorda Stampa Romana. – Per provare questa tesi la procura aveva sequestrato il cellulare, strumento di lavoro di Leoni, per esaminarne la rubrica. Una vicenda paradossale e strumentale chiusa nell’unico modo possibile e cioè con l’archiviazione del gip. Questa decisione ricorda anche alla magistratura il rispetto per il ruolo garantito ai giornalisti dalla Costituzione e dalle leggi dello stato, incluso l’uso del segreto professionale”.
Esclusivo - Strage di Bologna, chi è stato. Cinque milioni di dollari dal capo della P2 Licio Gelli per finanziare i terroristi neri e comprare la complicità degli apparati di sicurezza. Ecco le carte mai apparse prima che svelano il volto dei mandanti della strage più grave della storia repubblicana. Paolo Biondani su L'Espresso il 23 luglio 2021. I soldi sporchi di Licio Gelli: cinque milioni di dollari rubati al Banco Ambrosiano e distribuiti nei giorni cruciali della strage. I conti esteri segreti della super-spia Federico Umberto D’Amato. Le manovre per far sparire i documenti che collegano il capo della P2 all’eccidio di Bologna. I legami inconfessabili tra i terroristi dei Nar e il killer fascio-mafioso Paolo Bellini. E i ricatti allo Stato. Documentati da appunti “riservatissimi” del capo della polizia, tenuti nascosti in un deposito clandestino, insieme a pezzi di ordigni esplosivi sottratti alle indagini sulle prime bombe nere. Sono gli ultimi tasselli del mosaico criminale della strage di Bologna, il più grave attentato nella storia della democrazia italiana. Quarant’anni dopo la bomba neofascista che il 2 agosto 1980 ha ucciso 85 innocenti nella stazione dei treni, le nuove indagini della procura generale hanno identificato, per la prima volta, i presunti mandanti. A differenza di troppe altre stragi nere, lo spaventoso attentato di Bologna non è rimasto impunito. Come esecutori sono stati condannati da tempo, con diverse sentenze definitive, tre terroristi dei Nar: i capi, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e il loro complice allora 17enne Luigi Ciavardini. L’ultimo processo, chiuso in primo grado nel gennaio scorso, è costato l’ergastolo a un quarto killer neofascista, Gilberto Cavallini. Anche le responsabilità di Licio Gelli, morto nel 2015, sono già state accertate per i depistaggi successivi alla strage: il capo della loggia P2 è stato condannato in via definitiva come stratega di una lunga serie di trame per inquinare le indagini, accreditare false piste estere e coprire i terroristi di destra con base a Roma. Manovre gestite dallo stesso Gelli, a partire dal settembre 1980, e culminate in un depistaggio di stampo terroristico, organizzato dai capi del servizio segreto militare: nel gennaio 1981 una cordata di dirigenti del Sismi, guidata dal generale Giuseppe Santovito e dal colonnello Piero Musumeci, fa ritrovare sul treno Taranto-Bologna un carico di armi e di esplosivi identici alla bomba del 2 agosto, accanto a falsi documenti di due fantomatici terroristi stranieri. Nel marzo 1981, quando i giudici milanesi riescono a sequestrare la lista segreta degli oltre 900 affiliati alla loggia di Gelli, che comprende ministri, parlamentari, editori, banchieri, militari e magistrati, si scopre che entrambi i depistatori sono iscritti alla P2, con tanto di tessera: numero 1630 per Santovito, allora capo del Sismi, 487 per il suo braccio destro Musumeci. Tutti piduisti, come gli altri due militari dei servizi (l’ex Sid) condannati in via definitiva per aver inquinato le indagini sulla bomba di piazza Fontana a Milano, la prima strage nera, sempre per proteggere terroristi neofascisti. Ora la procura generale aggrava le accuse contro i vertici della P2: Licio Gelli e il suo tesoriere Umberto Ortolani sono considerati «mandanti» e «finanziatori» della strage. Le nuove indagini, che devono ancora superare l’esame dei processi, disegnano una svolta storica, che ha una logica: Gelli ha depistato le indagini perché lui stesso ha pianificato la strage. D’intesa con Ortolani, il cervello finanziario della P2, accusato di aver procurato tra 5 e 10 milioni di dollari usati per finanziare i terroristi neri e comprare complicità di apparati dello Stato, politici di estrema destra e servizi segreti, militari e civili. Una tesi che si fonda sull’incrocio tra le indagini sul terrorismo nero e i processi sul più grave misfatto economico dell’era P2: la bancarotta dell’Ambrosiano, la banca milanese portata al fallimento da Roberto Calvi, il banchiere piduista ucciso nel 1982 a Londra (inscenando un finto suicidio).
“ANTICIPO” E “SALDO”. La pista dei soldi parte da un “appunto” sequestrato a Gelli il 17 marzo 1981, nel suo ufficio-covo di Castiglion Fibocchi, con la stessa perquisizione che fece scoprire la lista della P2. Insieme a molte carte ricattatorie su tangenti a politici, scalate finanziarie e altri affari criminali gestiti dalla loggia. In questo appunto, scritto a mano, Gelli riassume un’operazione da 5 milioni di dollari, gestita attraverso M. C.: il suo fiduciario italo-svizzero Mario Ceruti. Nella parte alta del foglio, il capo della P2 annota di aver «consegnato contanti», per «un milione di dollari», «dal 20 al 30 luglio 1980». Denaro uscito dalla Svizzera e distribuito in Italia, come mostrano altre carte, proprio alla vigilia della strage di Bologna. Negli stessi giorni in cui i terroristi dei Nar si spostano in Veneto, ospiti di Cavallini, per gestire l’esecuzione dell’eccidio. Il 30 luglio 1980, mentre arriva l’ultima parte dei contanti di Gelli, a Milano esplode un’autobomba all’ingresso del Comune, subito dopo il varo della giunta rossa: un attentato che provoca solo feriti per il guasto di uno dei due inneschi. Le indagini sugli esplosivi e sull’auto (rubata) attribuiscono anche quella “strage sfiorata” a terroristi dei Nar, ma gli esecutori restano ignoti. Un altro attacco terroristico contro una città simbolo della sinistra, dunque, programmato due giorni prima della strage di Bologna. Nella stessa data di consegna dell’ultima quota del misterioso “anticipo” versato da Gelli: il «20 per cento» dello stanziamento totale. Gli altri quattro milioni vengono accreditati in banca a Ginevra poco dopo la strage, il primo settembre 1980. Vengono gestiti dal solito Ceruti e da un’impiegata della banca svizzera Ubs. Quei bonifici chiudono l’operazione da cinque milioni avviata dal capo della P2 nei dieci giorni che precedono l’autobomba di Milano e la strage di Bologna. Ai primi di settembre, in coincidenza con i bonifici, Gelli si espone di persona per orchestrare i primi depistaggi: ordina a un dirigente piduista del servizio segreto civile (Sisde) di smettere di indagare sui terroristi dei Nar, per privilegiare una falsa pista estera. La Guardia di Finanza di Bologna, nella relazione finale del novembre scorso, osserva che l’appunto sui 5 milioni è diviso da una linea orizzontale, che separa i contanti di luglio dai bonifici di settembre, «quasi a significare un evento» che fa spartiacque tra “anticipi” e “saldo”.
CINQUE MILIONI. L’origine e la destinazione di quei cinque milioni vengono chiarite da un altro manoscritto di Gelli, chiamato “documento Bologna”, tenuto nascosto per anni. È un prospetto contabile, sequestrato al capo della P2 nel giorno del suo arresto in Svizzera. Il 13 settembre 1982 Gelli si presenta nella sede dell’Ubs di Ginevra, dove ha accumulato 280 milioni di franchi elvetici sottratti al Banco Ambrosiano. Chiede di spostare i soldi, per evitarne il sequestro, ma la banca avverte la polizia. In una tasca, il burattinaio della P2 nasconde carte ricattatorie: documenti e conteggi di affari fuorilegge. Il prospetto incriminato ha un frontespizio scritto a macchina: un numero di conto, «525779 – X.S.», preceduto da un’indicazione: «Bologna». Nel foglio successivo, Gelli ha incolonnato cifre, conti bancari, nomi abbreviati e sigle in codice dei beneficiari. In totale, fanno 9 milioni e 600 mila dollari, versati nei mesi della strage e dei depistaggi, fino al 12 febbraio 1981. Per finanziare un’operazione che lo stesso Gelli collega a Bologna. Il numero del frontespizio corrisponde a uno dei conti svizzeri dove Gelli ha nascosto il bottino dell’Ambrosiano. Gli inquirenti segnalano che una parte del “documento Bologna” coincide con il precedente “appunto” sui cinque milioni. Il “saldo” di quattro milioni, in particolare, risulta affidato al fiduciario Ceruti su due conti svizzeri aperti proprio il primo settembre 1980. Lo stesso Gelli annota altri bonifici collegati, isolando una cifra: un milione di dollari. Che corrisponde ai contanti «anticipati» prima della strage. La ricostruzione è confermata da un altro documento sequestrato a Gelli nel giorno dell’arresto, intitolato proprio “anticipi”. Conclusione: Gelli ha versato un milione in contanti per Bologna e poi se l’è ripreso a spese della banca di Calvi, che era diventata la tesoreria occulta della P2. L’analisi dei tre conti svizzeri al centro del caso, infatti, mostra che tutti i soldi erano usciti dalle casse del Banco Ambrosiano Andino, a partire dal febbraio 1979, per finire a Ortolani, che nei mesi successivi se li è divisi con Gelli. Questa scoperta, unita ad altri indizi, permette di retrodatare di un anno la genesi dell’operazione Bologna: nel nuovo atto d’accusa, i magistrati scrivono che l’attività «preparatoria» nella strage è iniziata proprio nel febbraio 1979. Negli stessi mesi i Nar e altri gruppi collegati del terrorismo nero romano, come Terza Posizione, cominciano a beneficiare di una pioggia di finanziamenti misteriosi, per comprare «armi ed esplosivi senza limiti di prezzo». E nello stesso periodo inizia la deriva stragista dei Nar: dopo decine di omicidi mirati, i terroristi neri passano agli attentati di massa, come un attacco con bombe a mano contro un’affollata sede romana del Pci (giugno 1979, oltre 20 feriti gravi) o i 55 candelotti di dinamite collocati in pieno giorno nella piazza del Consiglio superiore della magistratura. A indagare, in una capitale dominata dalla P2, c’è solo il pm Mario Amato, che nella sua ultima audizione al Csm, poco prima di morire, ricorda che quella progettata strage di giudici e passanti è fallita «soltanto perché non ha funzionato il timer». Amato è stato assassinato il 23 giugno 1980 dagli stessi terroristi dei Nar che cinque settimane dopo hanno perpetrato la strage di Bologna.
IL DOCUMENTO ARTIGLI. Le carte svizzere di Gelli arrivano in Italia solo nel 1986. Il documento Bologna, però, viene insabbiato. Ai giudici milanesi, che lo interrogano per la bancarotta dell’Ambrosiano, viene trasmesso solo il prospetto con le cifre, senza il frontespizio. Ai magistrati viene così nascosto il collegamento tra quei soldi e Bologna. Quindi al capo della P2 non viene fatta nessuna domanda sulla bomba del 2 agosto 1980, anche se è già indagato per i depistaggi. Ora la procura generale ha identificato un maresciallo, sospettato di aver inserito nel fascicolo una fotocopia senza il frontespizio, ma il reato di favoreggiamento è ormai prescritto. La gravità del caso è oggi confermata anche da un suo superiore, sentito come testimone. Il maggiore Francesco Carluccio, un incorruttibile protagonista delle indagini contro la P2, intercettato dopo la deposizione a Bologna, si sfoga così con l’ex collega: «Io non so se qualcuno ha messo la manina... Ma con le prove che hanno loro, hanno ragione... Le carte che hanno sono giuste, al posto loro avrei fatto le stesse cose». Un errore involontario di fotocopiatura è possibile, ma molto improbabile, sia per l’importanza di quei manoscritti (pieni di segreti della P2), sia per un’altra scoperta recente: l’insabbiamento del documento Bologna coincide con una precisa richiesta di Gelli. Comprovata da un altro documento fatto sparire: un appunto «riservatissimo» del capo della polizia. Mai protocollato. Né segnalato ai giudici. E ora ritrovato dai magistrati di Bologna tra le carte del cosiddetto deposito della via Appia: un archivio segreto dell’Ufficio Affari riservati, scoperto solo nel 1996, dopo la morte del suo storico capo, Federico Umberto D’Amato. Questa nota del Viminale, ribattezzata “documento artigli”, è datata 15 ottobre 1987 (tra l’arrivo delle carte di Gelli e la sparizione del frontespizio Bologna), è firmata dall’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde, ed è indirizzata al ministro dell’Interno, Amintore Fanfani, che è morto vent’anni fa e non si sa se l’abbia mai ricevuta. Parisi descrive un incontro della sera prima tra l’allora direttore della polizia di prevenzione, Umberto Pierantoni, e l’avvocato Fabio Dean, difensore di Gelli. Il legale, ricevuto alle 20.15 nell’ufficio del poliziotto (che riferisce tutto a Parisi), è venuto a protestare contro l’accusa di depistaggio della strage di Bologna. L’avvocato dice che la polizia «può fare molto» per «ridimensionare il tutto». Sostiene che il capo della P2 ha già «contattato» altri politici «del Psi e della Dc» e invita «il ministro» a «prendere in mano la situazione». In caso contrario, Gelli «tirerà fuori tutti gli artigli che ha». Una minaccia precisata solo «al termine dell’incontro»: l’avvocato fa sapere che «tra i documenti sequestrati a Gelli nel 1982, vi sono degli appunti con notizie riservate, che spetterà allo stesso Gelli avallare o meno, sulla base di come gli verranno poste le domande». Un ricatto allo Stato, insomma, fondato proprio sul “documento Bologna”. Ricatto doppiamente riuscito: il frontespizio della contabilità segreta di Gelli sparisce dagli atti giudiziari; e lo stesso “documento artigli” viene imboscato tra le carte dell’archivio non ufficiale di D’Amato. Dove nel 1996 era spuntato perfino un ordigno esplosivo, mai consegnato alla magistratura: una delle bombe sui treni dell’agosto 1969, che sono costate una condanna definitiva a Franco Freda e Giovanni Ventura, i padri ignobili del terrorismo nero.
SPIA CON PRESTANOME. A Federico Umberto D’Amato viene attribuito anche lo pseudonimo, “Zafferano”, usato da Gelli per occultare il beneficiario di 850 mila dollari del documento Bologna. I familiari delle vittime della strage, con gli avvocati di parte civile, sono i primi a intuire che quel nome in codice può coprire il big dell’Ufficio affari riservati, anche lui iscritto alla P2 (tessera 1620), per anni custode dei rapporti con la Cia e Gladio. Lo stesso D’Amato, “poliziotto e gourmet”, aveva anche di una rubrica di gastronomia sull’Espresso, ha lasciato qualche indizio nei suoi libri di cucina, dove celebra quella «spezia che ha mutato il corso della mia vita». Le prime conferme arrivano dalle carte svizzere: gli 850 mila dollari dell’operazione Bologna risultano divisi in cinque bonifici, versati da Gelli e Ortolani tra il 16 febbraio 1979 e il 30 luglio 1980. E gli ultimi quattro versamenti, per un totale di 506 mila dollari, corrispondono esattamente alla cifra bonificata su un conto svizzero chiamato “Federico”, all’Ubs di Ginevra. Per chiudere il cerchio su Zafferano, resta una domanda: la super-spia piduista aveva davvero conti in Svizzera fin dal 1979, quando era reato portare soldi all’estero? A confessarlo è lo stesso D’Amato, in una testimonianza finora rimasta segreta: una deposizione in Svizzera, nel 1991, per difendere il suo fiduciario, Michel De Gorsky, arrestato a Ginevra. Il fiduciario giura di non essere un evasore, ma di aver gestito soldi di clienti stranieri, come il poliziotto italiano. E D’Amato conferma di averlo usato come prestanome: «Gli ho consegnato soldi spesi interamente nel mio interesse, avevo fiducia totale in lui, non volevo risultare titolare di un conto a nome mio in una banca svizzera». Quel conto in effetti è intestato una società anonima svizzera, denominata Oggicane, creata nel 1979 e amministrata dal fiduciario. D’Amato conferma che era sua e ammette di averla usata, tra l’altro, per comprare un appartamento in centro a Parigi, nel 1979, per l’equivalente di 294 mila dollari: una cifra che corrisponde al primo bonifico a favore di “Zaf”, annotato da Gelli nel “documento Bologna” e in un altro appunto, chiamato “memoria”, che portava con sé nel giorno dell’arresto.
L’EX MOGLIE DI BELLINI: È LUI. Finora s’ignorava che un dirigente della polizia e dei servizi del calibro di D’Amato avesse un tesoro nascosto in Svizzera e Francia, non giustificabile dai suoi stipendi italiani. L’unico a saperlo, già prima della testimonianza segreta di Ginevra, era proprio Gelli. Infatti nel fascicolo intestato a D’Amato, custodito nell’archivio segretissimo del capo della P2 in Uruguay, si legge questa frase ricattatoria: «La posizione di D’A. in Svizzera e presso la banca Morin di Parigi (versamenti americani) è rilevantissima». Se Gelli, Ortolani e D’Amato hanno portato nella tomba i loro segreti, dell’accusa di strage, oggi, risponde Paolo Bellini, il quinto presunto esecutore materiale, insieme ai quattro terroristi dei Nar: una serie di intercettazioni e testimonianze lo indicano come l’uomo che ha portato l’esplosivo a Bologna. E un’agenda di Cavallini dimostra che aveva rapporti inconfessabili con i Nar. Di certo Bellini è stato un criminale al servizio di molti padroni, con fortissime protezioni. Da neofascista di Avanguardia nazionale, nel 1975 ha ammazzato uno studente di sinistra a Reggio Emilia. Poi è passato alla criminalità comune con tentati omicidi e furti di opere d’arte. E negli anni ’90 è diventato un killer della ’ndrangheta emiliana, come lui stesso ha confessato dopo l’ultimo arresto. All’epoca della strage, era latitante e faceva il pilota d’aereo in Italia spacciandosi per brasiliano con passaporto di copertura del regime militare. Inquisito già allora per la bomba di Bologna, in base all’identikit di un «uomo visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione», fu prosciolto grazie a un alibi fornito dalla famiglia, che lo collocava a Rimini. La nuova indagine ha però recuperato un video girato da un turista tedesco: poco prima dell’eccidio, in stazione c’è davvero un uomo identico a Bellini. Ora riconosciuto anche dalla sua ex moglie, che ha confermato ai magistrati le confidenze (intercettate) che aveva fatto nel 2019 al loro figlio: «La persona ritratta nel fermo immagine è il mio ex marito Paolo Bellini. Prima il mio cuore rifiutava questa possibilità. Il particolare della fossetta, una piccola cicatrice, mi ha consentito di riconoscerlo». La signora parla anche dei rapporti di Bellini con «un magistrato massone» e «un carabiniere» che «lo faceva lavorare per lo Stato». E giura di essere rimasta «particolarmente colpita» da «un telegramma che mio marito mandò a Francesco Cossiga quando cessò l’incarico di presidente della Repubblica». L’ex moglie di Bellini ricorda ancora il testo del messaggio: «Sarai sempre il mio presidente».
Strage di Bologna, ecco il quinto uomo. I fotogrammi di un filmato in cui appare il terrorista nero Paolo Bellini. L’appunto di Licio Gelli. Un verbale compromettente. I documenti nascosti per anni chiariscono nel processo la natura della strage più grave nella storia della Repubblica, con il coinvolgimento di fascisti e piduisti. Paolo Biondani su L'Espresso il 30 luglio 2021. Nell’ultimo mistero doloroso della destra italiana si contempla, nella sacralità di una Corte d’assise, il crollo dell’alibi del quinto accusato per la strage di Bologna. Un neofascista. Come i quattro terroristi già condannati per la bomba del 2 agosto 1980, il più grave attentato della nostra storia. La matrice politica dell’eccidio, da sempre contestata dalla destra anche in Parlamento, è scolpita nella lapide, collocata in stazione sul muro squarciato dall’esplosione, che ricorda i nomi delle 85 vittime (e oltre 200 feriti) di quella «strage fascista». Il nuovo processo, dove l’ex killer nero Paolo Bellini ora si ritrova incastrato dalle testimonianze dei suoi stessi familiari, aggiunge un aggettivo cruciale: piduista. Come in molte altre trame della P2, la ricerca della verità parte dai pezzi mancanti. In questo caso, un video. Un filmato girato da un ignaro turista tedesco, che riprende il primo binario della stazione tra le 10.13 e le 10.25, quando scoppia la bomba. Nelle immagini finali si vedono i feriti, le macerie, i morti, il disastro: la strage in diretta. Il video è stato recuperato dall’avvocato dei familiari delle vittime, Andrea Speranzoni, che nell’udienza del 21 luglio scorso ha ricostruito così la scoperta: «Come legali di parte civile nel processo al terrorista dei Nar Gilberto Cavallini, tra il 2018 e il 2019, ci eravamo messi a cercare, semplicemente, le prove visive dei danni, della devastazione prodotta dalla bomba. Gli atti sono stati digitalizzati, per cui tra montagne di faldoni abbiamo potuto ritrovare questo video, regolarmente repertato, con un’anomalia: la polizia aveva estratto 25 fotogrammi, ma gli ultimi sette mancavano. Nei processi sulle stragi abbiamo imparato, purtroppo, che le notizie più importanti si trovano negli atti nascosti, cancellati, distrutti. Quindi ci siamo concentrati sulle parti del video dove erano sparite le fotografie». E qui, dietro una colonna, è spuntato un uomo con i baffi, calmissimo, ora identificato in Bellini. Il camerata emiliano era stato indagato per la strage di Bologna già nei primi anni ’80. Fin da allora la polizia aveva diffuso l’identikit di «un uomo visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione», avvertendo che somigliava moltissimo «al noto neofascista Paolo Bellini». La nuova indagine ha recuperato anche le testimonianze di due detenuti, che riferivano le confidenze fatte all’epoca da suo fratello Guido, in carcere, poco prima di morire: «La bomba a Bologna l’ha portata Paolo Bellini, che ha incassato 100 milioni di lire». Il 9 marzo 1983, però, l’indagato ha opposto un alibi, confermato il giorno stesso dalla moglie, Maurizia Bonini: non poteva essere a Bologna alle 10.25, perché alle 9.30 era ancora a Rimini, in partenza per una vacanza con la famiglia al Tonale. Quell’alibi, che gli era valso l’archiviazione, ha resistito per quasi quarant’anni. Solo nel 2019, quando la procura generale le ha mostrato il video, la signora Maurizia ha ammesso che aveva dichiarato il falso. E in questi giorni lo ha giurato davanti alla Corte d’assise: «Allora avevo 25 anni, non potevo immaginare che Paolo avesse una vita parallela di criminale: ho detto una bugia, pensavo volessero incastrarlo, ho saputo solo dopo la separazione che era un assassino». La mattina della strage, in verità, Bellini arrivò a Rimini «molto tardi», conferma oggi la madre dei suoi due figli: «Infatti la parente che mi aveva accompagnato è tornata a pranzo in ritardo, facendo arrabbiare suo marito». Un dato confermato, sotto giuramento, anche dal fratello Michele. Sull’uomo del video, la signora non ha dubbi: «È sicuramente il mio ex marito, lo riconosco da quella fossetta sulla guancia...». La testimone conferma pure un altro indizio: «Quando era latitante in Brasile, si è fatto togliere un neo e accorciare il naso». Bellini è stato per almeno trent’anni un criminale professionista collegato al terrorismo nero, alla mafia e ad apparati dello Stato. Già nel 1975, quando era un neofascista di Avanguardia Nazionale, ha commesso il suo primo «omicidio politico»: ha ucciso uno studente emiliano di sinistra, Alceste Campanile, come ha confessato lui stesso troppi anni dopo, quando la prescrizione lo ha salvato. Nel 1976, inseguito da un mandato di cattura per un altro tentato omicidio, Bellini scappa in Brasile, dove ottiene un passaporto di copertura, come quelli dei servizi: un documento autentico con generalità fittizie. Con quella falsa identità brasiliana rientra in Italia, aiutato da politici e avvocati di destra, ottiene il brevetto di pilota a Foligno e fa volare gratis personaggi legati ai servizi come l’allora procuratore di Bologna, Ugo Sisti, che è amico di suo padre, ma non denuncia il latitante. Dopo un altro decennio di carriera criminale tra furti d’arte e altri omicidi impuniti, nel 1991 Bellini ricompare in Sicilia, come infiltrato dei carabinieri del generale Mario Mori (che al processo di Bologna si è avvalso della facoltà di non rispondere), e diventa protagonista della prima trattativa tra Stato e mafia, l’unica ammessa da tutti: il pentito Giovanni Brusca giura che fu lui a suggerire a Cosa nostra la strategia terroristica di attacco ai monumenti, attuata con le stragi del 1993. Dopo di che, per non farsi mancare niente, l’ex neofascista diventa un killer della ‘ndrangheta in Emilia. Ora i suoi avvocati, nel processo di primo grado, rivendicano che per la strage di Bologna va considerato innocente: «Ha fatto cose orribili, ma non delinque dal 1999. Oggi è un altro uomo: un collaboratore di giustizia riconosciuto attendibile da molti tribunali. Smettiamo di trattarlo come il Bellini di 22 anni fa». La difesa, però, continua a puntare sull’alibi ora franato. Per accertare se sia davvero colpevole, bisognerà aspettare la fine dei tre gradi di giudizio. Ma sulla bomba di Bologna, a differenza di troppe altre stragi nere, la verità storica e giudiziaria è già stata scritta, almeno per gli esecutori e depistatori. Primo fatto incontestabile: la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, terroristi e killer dei Nar. Decisa fin dal 1995 dai più autorevoli magistrati italiani: la Cassazione a sezioni unite. Quindi, in un altro processo con giudici diversi, viene condannato il terzo complice: Luigi Ciavardini, neofascista di Terza Posizione entrato nella banda di Fioravanti a 17 anni, poco prima della strage di Bologna, partecipando all’omicidio del magistrato Mario Amato. Tre condannati all’ergastolo, ma all’italiana: senza mai pentirsi né risarcire le vittime, sono liberi da anni. Le indagini più recenti, aperte dalla procura generale su impulso dei familiari delle vittime, hanno portato nel 2020 alla quarta condanna, in primo grado, per Gilberto Cavallini, armiere, tesoriere e grande vecchio dei Nar. Il processo a Bellini completa il quadro. E chiama in causa anche il capo della P2, morto nel 2015, come presunto «mandante e finanziatore». Licio Gelli era già stato condannato in via definitiva, insieme ai vertici piduisti del Sismi, come stratega dei più gravi depistaggi: una lunga serie di false «piste internazionali», inventate per salvare i neofascisti italiani, arrivando a nascondere armi ed esplosivi, nel 1981, su un treno per Bologna. La nuova accusa nasce dal ritrovamento di carte sparite: i documenti pubblicati dall’Espresso un anno fa, nel quarantesimo anniversario della strage. Sono manoscritti sequestrati tra Castiglion Fibocchi e la Svizzera, dove Gelli stesso annota di aver distribuito un milione di dollari in contanti, attraverso il suo tesoriere-prestanome Marco Ceruti, tra il 20 e il 30 luglio 1980, alla vigilia dell’attentato, come «anticipo». E altri quattro milioni, come «saldo», tra agosto e il primo settembre: bonifici smistati da faccendieri romani legati alla destra eversiva e ai servizi piduisti. Questi 5 milioni, rubati al Banco Ambrosiano, erano collegati dallo stesso Gelli a Bologna, ma il documento con il nome della città è stato nascosto ai magistrati milanesi, probabilmente da un militare corrotto. Un milione di dollari risulta incassato da una super-spia piduista, Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati, che ha ricevuto l’ultimo bonifico di Gelli, su conti esteri mai dichiarati, due giorni prima della strage di Bologna, mentre a Milano esplodeva un’autobomba ora collegata ai Nar. Tra gli atti occultati c’è anche il verbale «riservatissimo» di un incontro del 1987 al Viminale, dove l’avvocato di Gelli chiedeva di insabbiare le indagini su Bologna, avvertendo che altrimenti «tirerà fuori gli artigli». Un ricatto allo Stato che ha funzionato: anche il «documento artigli» era scomparso. Mai protocollato, è stato ritrovato dai magistrati nell’«archivio parallelo» di D’Amato, scoperto dopo la sua morte sulla via Appia. Nonostante le condanne definitive, schiere di negazionisti di destra, fiancheggiati da qualche fantasista di sinistra, continuano da 41 anni a difendere i terroristi neofascisti rilanciando le fantomatiche «piste estere» tanto care alla P2. Pista libanese. Libica. Palestinese. Francese. Tedesca. Le nuove indagini hanno demolito anche l’ultima variante: la pista del super-terrorista Carlos fu «pre-fabbricata da ufficiali piduisti del Sismi», addirittura prima della strage, «pagando giornalisti di destra». Il processo in corso riguarda fatti in apparenza lontani, ma ripropone problemi ancora attuali. Il capo della P2 è morto, ma il piduismo vive e continua a fare danni. E sulla memoria delle stragi l’Italia resta un paese spaccato. Da una parte c’è chi rifiuta di accettare le sentenze della Cassazione. Dall’altra ci sono persone come Silvia, la figlia di Paolo Bellini, che in corte d’assise ha commosso avvocati e magistrati: «Nel 1980 avevo 9 anni, del mio padre biologico ho pochi ricordi: ho cambiato cognome per non riconoscermi in una persona che ha fatto tanto male. Il mio vero papà è stato il nonno materno, Tullio. Come familiare, avrei potuto comunque rifiutarmi di deporre, ma ho deciso di testimoniare, perché penso che sia giusto per i familiari delle vittime, anche se per la mia famiglia questo processo è una grande sofferenza. Spero veramente che possa far luce su una strage così grave, per dare giustizia a tutte le vittime».
Licio Gelli e le carte che lo legano alla strage di Bologna. Il video: «Quel documento non è mio». In un’intervista inedita il capo della P2 vide la sua nota con cui finanziava i terroristi neri e comprava la complicità degli apparati di sicurezza. Lo racconta un’inchiesta televisiva di “Spotlight” su Rainews24. Valerio Cataldi e Andrea Palladino su L'Espresso il 30 luglio 2021. Per un attimo il sorriso svanisce dal volto di Licio Gelli. Guarda un foglio che un giornalista inglese gli mostra. Sembra quasi che un fantasma si sia materializzato. «No, no, io… questo non lo abbiamo veduto e non lo hanno voluto vedere nemmeno i miei avvocati», risponde mentre allontana da sé quelle note, scritte anni prima di suo pugno. È il “documento Bologna”, conto 525779 XS. Una contabilità minuziosa di una partita di milioni di dollari, che oggi è al centro del nuovo processo sui mandanti della strage del 2 agosto 1980. È questa la scena centrale dell’intervista inedita al capo della loggia P2, girata nel 2010 dal giornalista inglese Philip Willan, che il programma di inchiesta di Rainews24 Spotlight presenta per la prima volta all’interno del servizio “Prima della strage” (in onda domenica primo agosto, alle 9.30 e alle 21.30). Nessuno aveva mai chiesto a Licio Gelli conto di quel documento che la polizia elvetica gli sequestrò al momento del suo arresto a Ginevra nel 1982. È un documento, per il poco venerabile maestro, che lo riporta alla peggiore accusa nei suoi confronti: essere stato l’ispiratore, il finanziatore della della bomba che causò 85 morti. C’è un secondo passaggio chiave nel video mostrato per la prima volta da Spotlight. Un nome, Marco Ceruti: «Era un amico mio, più che altro era il segretario del vice presidente del Consiglio della magistratura, Zilletti, che era iscritto alla P2, come pure Marco Ceruti era iscritto alla P2». Ceruti, per la Procura generale di Bologna che ha avviato l’indagine sui mandanti della strage tre anni fa, è stato l’uomo di fiducia di Gelli nella gestione dei soldi del conto Bologna. Lui avrebbe ricevuto i 5 milioni di dollari serviti - secondo l’accusa - a finanziare i Nar di Fioravanti e Mambro e a pagare i depistaggi dopo la strage. In alcuni appunti di Gelli, Ceruti è indicato con la sigla “M.C.”; a lui arriva, poco prima della strage, un milione di dollari in contanti. E sempre Ceruti, insieme a Gelli, era a Roma quando Valerio Fioravanti e Francesca Mambro sono di passaggio, due giorni prima dell’attentato alla stazione di Bologna. Non c’è al momento la prova di un incontro, ma su quella giornata passata nella capitale i due esponenti dei Nar hanno nel tempo fornito versioni contrastanti e inverosimili. Morto Gelli, rimane Marco Ceruti, l’unico custode in vita di quei segreti. Nel 2018 la Procura generale lo ha interrogato per due volte, indagandolo alla fine per falsa testimonianza (la posizione è stata poi archiviata). La sua versione sulla gestione di quei soldi ricevuti da Gelli non convinceva i magistrati e, soprattutto, era in contrasto palese con altre testimonianze e riscontri. Anche per Ceruti quel foglio con le cifre del conto Bologna era un fantasma da allontanare. Il processo sui mandanti è iniziato da alcuni mesi e la sua testimonianza è ritenuta chiave. Il 12 maggio era atteso in aula. Non si è presentato, inviando un certificato medico brasiliano. La Procura generale ha spiegato che secondo gli accertamenti della Digos Ceruti si trovava negli Stati Uniti, a un indirizzo sconosciuto. In altre parole, il testimone era sparito. Poco più di un mese fa ai magistrati bolognesi arriva la comunicazione che il cassiere di Gelli era in Ohio. Poi una seconda fonte ha indicato il Brasile, paese dove Ceruti gestisce una holding attiva nei trasporti cargo aerei. Vengono avviate le rogatorie, ma al momento per la giustizia italiana è irreperibile.
In realtà il testimone chiave vive in un lussuoso condominio della Florida, con splendida vista sul mare di Miami Beach. Questo è, secondo i database pubblici statunitensi consultati, il suo ultimo indirizzo noto. Spotlight lo ha individuato ed intervistato telefonicamente a lungo. Non ha nessuna intenzione di venire a testimoniare a Bologna: «Ho ottantatré anni (in realtà ottanta, ndr), sto bene, ma è un viaggio lungo». Di P2 non ne vuole neanche sentire parlare e quando gli viene ricordato che è lo stesso Gelli a confermare la sua iscrizione alla loggia riservata, ironizza: «Perché Gelli è ancora vivo? Non so… è morto, è vivo…». Sui soldi del conto Bologna continua a sostenere che erano parte di un pagamento per alcuni pezzi di antiquariato. Mentre Licio Gelli agiva attraverso il conto Bologna, nella Roma del 1980 il gruppo criminale dei Nar cresceva. È una escalation terrificante. Alla fine di febbraio Valerio Verbano, appena diciottenne, viene ucciso nella sua abitazione, dopo che i suoi geitori erano stati legati e imbavagliati. L’unica rivendicazione ritenuta attendibile è quella dei Nuclei armati rivoluzionari, con un riferimento a un’arma non nota alla stampa. Non è uno dei tanti agguati contro i compagni. Verbano da almeno un anno raccoglieva con meticolosità informazioni sui terroristi di destra. Spotlight, nell’inchiesta “Prima della strage”, mostra per la prima volta il suo dossier, sparito nel nulla per anni. E proprio al gruppo di Fioravanti e Mambro Verbano aveva dedicato una lunga scheda, che evidenziava la pericolosità del gruppo. In quei mesi un giovane magistrato, Mario Amato, stava ricostruendo quel mondo criminale, arrivando ad una “visione d’assieme”. Per due volte davanti al Csm ha lanciato l’allarme sui gruppi eversivi neofascisti, inascoltato. Il 23 giugno un commando composto da Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini lo uccise sotto casa, mentre aspettava l’autobus per andare in Procura. Ad organizzare l’agguato furono quegli stessi Nar che stavano preparando l’attentato del 2 agosto, come hanno ricostruito le indagini successive. La chiave della bomba alla stazione di Bologna è in quei mesi che la precedono. Due storie parallele, solo apparentemente distanti. Mentre da Ginevra il gruppo di potere - strettamente legato ai servizi segreti militari dell’epoca - muoveva i soldi per le operazioni di copertura, a Roma dietro la ferocia di un gruppo solo apparentemente “spontaneista” si muovevano alleanze stragiste. Oggi, dopo quarant’anni, nell’aula della Corte d’assise di Bologna, quei due fili si incrociano.
Strage di Bologna, l’ex moglie di Bellini smonta in aula l’alibi del killer. E chi l’ha sempre difeso deve solo vergognarsi. Negli anni fior di attivisti si sono battuti per alimentare piste alternative. Tutto pur di occultare quel che era chiaro da subito (che l’Espresso ha scritto da tempo): quella del 2 agosto fu una mattanza di Stato eseguita da manovalanza fascista. Luca Bottura su L'Espresso il 22 luglio 2021. Il capello corvino, il baffo spiovente, la t-shirt col girocollo largo per meglio mostrare il pelo. Sembra un centrocampista dell’Avellino di Sibilia. O il cantante di un gruppo melodico da Sanremo Anni Settanta, tipo i Milk and Coffee. O un caratterista in un film di Michele Massimo Tarantini con qualche dottoressa del distretto militare che a brevissimo, e senza apparenti esigenze narrative, sentirà il bisogno inderogabile di fare una doccia. Invece si tratta verosimilmente del tizio che il 2 agosto 1980 ha piazzato la bomba nella sala d’attesa di seconda classe della “mia” stazione. Che ha ammazzato 85 persone e polverizzato una bambina, Angela Fresu, in omaggio a chissà quali raffinatissime strategie della tensione che magari passano da Ustica, certamente da Villa Wanda ad Arezzo, facendo un bel giro largo per Washington e Roma, zona Sismi. A leggere il curriculum di Paolo Bellini, l’aviere, il tizio che aveva sempre negato di essere in città quel giorno, c’è da spaventarsi: aviere, appunto. Con un piccolo mezzo volante su cui scarrozzava il Procuratore di Bologna, a. D. 1980. Collaboratore dei carabinieri e infiltrato in Cosa Nostra. Killer ‘ndranghetista. Un mazzo di omicidi regolarmente confessati tranne appunto la strage della stazione. Non c’era, diceva. Quel giorno era quasi sempre via. Nello specifico al mare, a Rimini, con la famiglia, con la moglie. Che aveva a suo tempo confermato e che ieri in aula ha invece spiegato che no, che non solo Bellini non era con lei, non solo si era inventata l’alibi perché credeva fosse innocente, non solo era stata convinta a farlo dal padre, pure lui fascistone e amico del Pm che volava con Bellini, ma soprattutto che… “eccolo”, ha detto. Eccolo lì, nelle immagini girate poco prima del botto da un turista svizzero. Eccolo: poco prima, verosimilmente, di scannare innocenti a casaccio. Ma con un obiettivo preciso. Il processo è ancora in corso, a quarant’anni e rotti dal momentaneo apogeo dello Stato omicida, dai cani neri usati per mordere alle caviglie la democrazia. Ma lentissimamente, col solo impegno dei familiari delle vittime, che hanno trovato quel Super 8 sottraendolo alla deliberata pigrizia investigativa, tutto si ricompone: gli esecutori che dicevano di non esserlo, i dollari americani nelle tasche di Gelli, i depistaggi che depistavano per motivi finalmente chiarissimi. Che ci erano poi chiari fin da subito. Abbiamo sempre saputo che a Bologna erano stati i fascisti, così come a Ustica è stato un missile francese. Ma, come tanti Pasolini privati della voce, non avevamo le prove. Ora che lentamente emergono, ora che conquistano anche un volto, quel volto, la saldatura tra terrorismo rosso e nero è completa, sulla base di un duplice collante morale: ignavia, opportunismo. Così come i Brigatisti Rossi hanno sempre taciuto le millanta zone grigie del loro agire, i loro contatti con le fazioni più oscure dello Stato che dicevano di voler abbattere, ottenendo in cambio la mitezza della legge e la libertà, i terroristi neri ci hanno raccontato per quattro decenni la favoletta del “ma Bologna no”. A cominciare da Mambro e Fioravanti, liberi da tempo, anche di professare la loro innocenza sulla base di un nitore etico inventato a mo’ di cortina fumogena. Loro, ma anche l’aviere, inventori di una morale selettiva che serviva principalmente a onorare il patto oscuro coi committenti. Anche se. Anche se è vero che negli anni fior di attivisti dei partiti post-fascisti (in prima fila alcuni avvocaticchi bolognesi, ma anche diversi esponenti nazionali di primo piano) si sono molto battuti, spalleggiatissimi dalle zone opache, per alimentare piste alternative: colombiani, palestinesi, solo non si vedevano i due liocorni. Tutto pur di occultare quel che era chiaro da subito: una strage di Stato eseguita da manovalanza fascista. A loro, soprattutto a loro, è dedicato quel video: il tizio coi baffoni che avanza nella folla di morituri è uno di quelli che hanno difeso per quarant’anni. Si specchino. E, se ne sono capaci, si vergognino un po’.
La decisione del Gup. Strage di Bologna, a processo l’ex terrorista Bellini: la “Primula nera” ritenuta tra gli autori del massacro. Redazione su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Rinvio a giudizio per Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale considerato il quinto uomo della strage del due agosto 1980 alla stazione di Bologna. A prendere la decisione questa mattina il giudice dell’udienza preliminare Alberto Gamberini, che ha preso lo stesso provvedimento anche per l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, per depistaggio, e Domenico Catracchia, amministratore di condominio di immobili in via Gradoli a Roma per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini. Il processo inizierà il 16 aprile. A richiedere il rinvio a giudizio era stata la Procura generale di Bologna, rappresentata dall’avvocato generale Alberto Candi e dai sostituti pg Nicola Proto e Umberto Palma, che aveva avocato a sé l’inchiesta sui mandanti. A spiegare la decisione è Andrea Speranzoni, avvocato dell’Associazione familiari delle vittime del due agosto: “Al rinvio a giudizio si è arrivati dopo due anni di indagini della Procura generale di Bologna che aveva avocato a sé le indagini a seguito dell’opposizione della richiesta di archiviazione che le parti civili avevano fatto nel 2017″. “L’avocazione – prosegue Speranzoni appena uscito dal tribunale – ha fatto ripartire le indagini e dopo due anni e mezzo è arrivato il rinvio a giudizio. Oggi un giudice ha ritenuto tutte le prove raccolte idonee e solide a sostenere l’accusa in giudizio”. Quanto agli altri imputati, Catracchia è accusato di aver fornito false informazioni al pubblico ministero durante un’indagine per fatti di Strage e terrorismo, con particolare riferimento ai covi di via Gradoli 96 nella stessa palazzina dove, nel 1978, fu ospitata la direzione strategica delle Brigate Rosse durante il sequestro Moro. “In via Gradoli, nell’ottobre del 1981, ci fu anche un covo dei Nar di Cavallini”, ha sottolineato infatti Speranzoni. Quanto alla difesa di Bellini, la “Primula nera” si è vista respingere dal Gup la disposizione di una nuova perizia sul filmato amatoriale girato la mattina della Strage: il legale Manfredo Fiormonti sosteneva invece che in quel filmato non appariva l’imputato, come testimonierebbe anche una foto agli atti, dove si evidenziava una cicatrice sul volto di Bellini che non appariva invece nel girato. “La perizia è stata comunque reputata decisiva allo stato degli atti e nel dibattimento ne riparleremo. Vediamo, tra le varie richieste certamente la riproporremo”, ha spiegato l’avvocato. Secondo l’accusa dunque Bellini avrebbe concorso alla strage del 2 agosto 1980, costata la vita a 85 persone: per i fatti di Bologna sono stati condannati in via definitiva gli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, mentre per Gilberto Cavallini è arrivato l’ergastolo in primo grado.
Strage di Bologna, l'ex moglie smonta l'alibi di Paolo Bellini (Avanguardia Nazionale) riconoscendolo in un filmato girato in stazione. Giuseppe Baldessarro su La Repubblica il 21 luglio 2021. La testimonianza di Maurizia Boni protetta da un paravento. In primo piano, il filmato del 2 agosto 80. Maurizia Bonini al processo sul 2 Agosto: "E' lui. E' vero che quel giorno andammo in ferie, ma partimmo dopo pranzo perché Paolo era in ritardo". "E’ Paolo, è certamente Paolo, perché ha una fossetta qua (accanto al mento, ndr), ha i capelli più indietro, ma è comunque lui, nella foto del telegiornale lo riconosco ancora meglio. E’ Paolo, ed è riconoscibile da parte mia nella parte inferiore del video”. Maurizia Bonini, ex moglie di Paolo Bellini, non ha dubbi. E ha riconosciuto l’ex marito, accusato di aver preso parte alla strage del 2 agosto 1980, in un video girato alla stazione di Bologna da un turista straniero pochi istanti dopo il massacro costato la vita a 85 persone e il ferimento di altre 200. E' un passaggio decisivo del processo che vede alla sbarra l’ex esponente di Avanguardia Nazionale. Bonini ha detto anche molto altro. Bellini nei primi anni ’80 si era difeso dalle accuse dicendo che quel giorno lui non poteva essere a Bologna perché era in vacanza con la famiglia in un albergo al Passo del Tonale. Un alibi che aveva portato i magistrati a chiudere il “caso” con un proscioglimento. Ora, con la nuova testimonianza di Bonini, l'alibi di Bellini - che già all'epoca destò “sospetti di falsità” secondo la Procura generale - viene completamente demolito, perché la donna racconta che è vero che andarono in ferie quel giorno, ma che partirono da Rimini in ritardo, dopo pranzo, perché “Paolo arrivò tardi”. Quindi Bellini, ed è la tesi della Procura generale, avrebbe avuto la possibilità di rientrare da Bologna. La donna, a cui è stato chiesto perché all’epoca dei fatti mentì per difendere l’allora marito, ha detto che “mai lo avrebbe immaginato capace di una strage del genere”. Aggiungendo poi che, “negli anni successivi ha confessato omicidi e altri reati, e ho capito che al tempo aveva una vita parallela”. Oggi in aula Bonini ha chiesto di poter deporre protetta da un paravento, in modo che l'ex marito non possa vederla. Richiesta appoggiata dalla procura generale e dai legali di parte civile, e accolta dalla corte. Quando il presidente Francesco Caruso ha comunicato la propria decisione, Bellini si è alzato e ha detto: "Allora esco dall'aula mentre testimoniano i miei parenti, ma i miei legali hanno il diritto di vedere la testimone". Nonostante l'invito di Caruso a restare in aula, alla fine l'imputato è uscito, ma il paravento non è stato rimosso, anche perché, ha osservato il sostituto pg Umberto Palma, "Bellini potrebbe rientrare in qualsiasi momento".
La testimone conferma: "All'epoca ho dichiarato il falso". Sentita anche la figlia che aveva 9 anni. Strage di Bologna, l’alibi di Bellini smontato 40 anni dopo dalla ex moglie: “È lui nei video”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 21 Luglio 2021. “Sembra mio marito, è Paolo, è Paolo, perchè ha una fossetta qua, ha i capelli più indietro, ma è comunque lui, nella foto del telegiornale lo riconosco ancora meglio. È Paolo, ed è riconoscibile da parte mia nella parte inferiore del video, qui però ha i capelli più indietro”. Con queste parole, quasi 41 anni dopo, Maurizia Bonini, ex moglie di Paolo Bellini, imputato nel nuovo processo sulla Strage del 2 agosto 1980, ha smontato l’alibi dell’ex marito che ha sempre detto di trovarsi in ferie con la famiglia in quelle drammatiche ore. L’ex moglie ha confermato alla Corte di assise dopo aver rivisto in aula il video del turista straniero girato in stazione a Bologna la mattina della bomba di aver riconosciuto il volto dell’ex marito. L’imputato era uscito dall’aula poco prima della testimone. Paolo Bellini, ex esponente di Avanguardia Nazionale è ritenuto dalla Procura generale di Bologna il "quinto uomo" della strage del 2 agosto 1980 che avrebbe agito in concorso con gli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini (condannati in via definitiva) e con Gilberto Cavallini (condannato in primo grado). Oggi 68enne, Bellini è imputato nel nuovo processo sulla strage di Bologna a quasi 41 anni dall’attentato più sanguinario della storia della Repubblica che fece 85 morti e oltre 200 feriti. Maurizia Bonini ha testimoniato coperta da un paravento, su sua richiesta e dopo che la Corte d’Assise ha deciso in tal senso. “Noi diamo parere favorevole alla testimonianza con il paravento – ha detto il Pg – perchè è una situazione delicatissima, conosciamo la storia di Bellini e si tratta di cose che riguardano legami familiari, emergono preoccupazioni e la Corte deve assicurare la genuinità della testimonianza”. Bellini, dopo la decisione della corte si è alzato e ha detto: “Io esco dall’aula durante l’audizione dei miei familiari, cosi’ non si creano problemi, ma i miei legali hanno diritto di vedere la testimone”. Ma la testimonianza è proseguita dietro il paravento. “Ha detto una bugia, ha ingannato tutti, non potevo immaginare che fosse lì in quella situazione, e Daniela”, cioè la nipote di Paolo Bellini, che era in auto con lui nel tragitto verso Rimini, “c’era, dovete chiedere a lui dove ha messo la bambina, e anche se è arrivato in ritardo, era il 2 agosto”, ha continuato Maurizia Bonini. Rispondendo alle domande del sostituto pg Umberto Palma, Bonini precisa di aver detto “purtroppo è lui” quando riconobbe per la prima volta l’ex marito – durante l’interrogatorio del 12 novembre 2019 – nel video registrato da un turista il giorno dell’attentato perchè, appunto, “non potevo immaginare che fosse lì in quella situazione”. “Ho detto una bugia, chiedo scusa a tutti”. E ancora: “Sì, a questo punto, posso dire che all’epoca ho dichiarato il falso”. Quando Bellini fu indagato per la Strage, lei confermò il suo alibi dicendo che era arrivato a prenderla a Rimini intorno alle 9-9.30 del mattino, per poi partire insieme a lei, ai due figli piccoli e alla nipote per il Passo del Tonale, dunque orari non compatibili con la sua presenza in stazione al momento dell’esplosione della bomba, alle 10.25. Quasi 41 anni dopo invece, Bonini ha detto: “Non ricordo a che ora arrivò mio marito a prendermi a Rimini, mi ricordo però che mia madre tornò tardi in albergo”. La madre di Maurizia (Eglia Rinaldi, deceduta), infatti, come è emerso durante gli interrogatori, rientrò a Torre Pedrera, localita’ vicino a Rimini, in ritardo per l’orario di pranzo, tanto che ci fu una discussione con il marito. Questa versione è stata confermata anche dal fratello della Bonini, l’ex cognato di Bellini. “L’orario delle 9.15 – ha spiegato poi Maurizia rispondendo alle domande dei legali di Bellini – me lo disse mio suocero (Aldo Bellini, ndr)”. “Visto che mi trovo in questo processo, mi sento di voler dire a tutti che è stata una mia decisione testimoniare, perchè questa vicenda ha scombussolato la mia vita, credo sia giusto dare testimonianza per una cosa così grave, ma soprattutto perchè penso alle vittime, al di là di quello che sarà l’esito di questa cosa, nonostante io sono figlia di Paolo Bellini, vado a testa alta perchè ho avuto una vita completamente diversa”. Sono parole di Silvia Bonini, figlia di Paolo Bellini, l’ex Avanguardia Nazionale imputato per concorso nella Strage del 2 agosto 1980. Quel giorno, Silvia Bonini, che spiega di aver cambiato cognome una ventina di anni fa prendendo quello della madre e di aver interrotto completamente i rapporti con il padre, aveva solo 9 anni. Davanti ai Pg ha spiegato di non ricordare nulla del giorno dell’attentato, tantomeno del viaggio fatto in auto con i genitori, il fratello Guido e la cugina Daniela, da Rimini al Passo del Tonale. Tuttavia ha dichiarato, con la voce rotta dall’emozione, di sperare che “tutte le testimonianze possano fare luce per le vittime. Per la mia famiglia è stata una grande sofferenza, mi sono sentita davvero di venire oggi, era piu’ facile non rispondere, ma io ho una coscienza, perche’ siamo tutti toccati da questa cosa”. La cugina Daniela Bellini (figlia del fratello di Paolo Bellini, Guido, deceduto) invece, che aveva la stessa età all’epoca, si è avvalsa della facoltà di non rispondere, ma durante gli interrogatori con i Pg, anche lei aveva detto di non ricordare nulla di quel giorno. Tra gli altri familiari di Bellini che hanno testimoniato oggi, c’e’ l’ex cognato Michele Bonini, che ha confermato che il 2 agosto 1980, mentre la famiglia era riunita a pranzo a Torre Pedrera (Rimini), sua madre, Eglia Rinaldi, arrivò molto tardi, verso le 13.30, perchè aveva accompagnato Maurizia Bonini (ex moglie di Paolo Bellini) a Rimini, da dove poi i due partirono con i figli per la montagna. Questo confermerebbe la falsità dell’alibi di Bellini, che collocò la partenza dalla cittadina romagnola attorno alle 9 di mattina. Più complicata la deposizione di Marina Bonini, vedova di Guido Bellini (fratello di Paolo), che dopo aver detto, in fase di indagine, di non ricordare come e con chi sua figlia Daniela raggiunse il Passo del Tonale per le vacanze nell’agosto del 1980, oggi ha detto di aver accompagnato la figlia, la mattina del 2 agosto, a Scandiano o a Pratissolo, nel Reggiano, e di averla lasciata a Paolo Bellini. Alle contestazioni dei Pg, che hanno più volte sottolineato questa incongruenza, Bonini ha spiegato di essere andata in confusione al momento dell’interrogatorio perchè si è sentita “inquisita”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Secondo la Procura Generale di Bologna Licio Gelli avrebbe pagato un milione di dollari ai Nar poco prima della strage alla stazione. Lunedì in seconda serata su Rai3 Report Cult con l'inchiesta "Il virus nero" di Giorgio Mottola: elementi inediti, documenti e interviste esclusive sull'organizzazione dell'attentato. Report Rai 23 luglio 2020 ore 17:23. A fine luglio 1980 Licio Gelli e un suo factotum avrebbero incontrato alcuni degli esecutori della strage che il 2 agosto dello stesso anno fece 85 vittime alla stazione di Bologna, consegnando un loro un milione di dollari americani come "anticipo" per le spese sostenute. La circostanza emerge dall'inchiesta della Procura Generale bolognese sui mandanti della strage, per il quale sono già stati condannati in via definitiva gli ex militanti della formazione neofascista Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) Francesca Mambro, Giuseppe Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini. Secondo gli inquirenti per la strage e i successivi depistaggi furono pagati complessivamente cinque milioni di dollari, fino al marzo 1981, quando lo scandalo P2 fece interrompere il flusso di denaro. Altri 850.000 dollari circa sarebbero finiti a Federico Umberto D'Amato, ex capo dell'Ufficio Affari riservati del ministero dell'Interno, ritenuto mandante-organizzatore dell'attentato, che avrebbbe tenuto i contatti con la destra eversiva tramite Stefano Delle Chiaie, capo di Avanguardia nazionale, un'altra organizzazione di estrema destra in cui militava anche Paolo Bellini, riconsciuto recentemente in un filmato amatoriale girato poco dopo l'esplosione: per lui a maggio la Procura Generale ha chiesto il rinvio a giudizio. Sempre da quei cinque milioni proverrebbe anche il denaro pagato a Mario Tedeschi. piduista, ex senatore del Msi e direttore del settimanale 'Il Borghese', perché portasse avanti una campagna depistatoria sulla sua testata, sostenendo l'ipotesi della 'pista internazionale' per l'attentato. Lunedì prossimo in seconda serata su Rai3, a 40 anni dalla strage, a Report Cult l'inchiesta di Giorgio Mottola "Il virus nero", con particolari inediti sull'organizzazione dell'attentato, documenti e interviste esclusive, acquisite dalla Procura Generale subito dopo la messa in onda.
Roberto Faben per "la Verità" il 3 marzo 2021. Agli italiani che ricordano il periodo storico, tra il 1969 e il 1980, quando l'atto di sostare in una stazione ferroviaria o di salire su un treno paventava immagini di ordigni esplosi e carni dilaniate, e che ancora si pongono domande sui mandanti ed esecutori delle stragi perpetrate nel Paese nel corso dei truci anni della «strategia della tensione», il nome di Federico Umberto D'Amato risulta poco noto. Eppure con questa figura schiva che, attraverso una progressione di carriera, iniziata il 1° agosto 1943, quando entrò in polizia e fu assegnato al commissariato di Trastevere a Roma, divenne il più potente e ascoltato dirigente di quell'Ufficio affari riservati (Uar) del ministero dell'Interno, cellula istituzionale con ruolo di polizia politica e di intelligence al più alto livello, di fatto un super-servizio segreto, s' intrecciano gli enigmi tuttora scarsamente chiariti della Prima Repubblica durante la Guerra Fredda. Come quelli che ancora sussistono sull'eccidio alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, che ebbe un bilancio di 85 morti e centinaia di feriti. L'11 febbraio 2020, la Procura generale di Bologna ha formalizzato avvisi di conclusione delle indagini con ipotesi di reato quale presunto mandante e finanziatore della strage nei confronti di D'Amato, in concorso con l'ex-capo della loggia massonica segreta P2, Licio Gelli, con il banchiere Umberto Ortolani e con l'ex-direttore della rivista Il Borghese, Mario Tedeschi. Gli indiziati sono tutti deceduti. Le imputazioni della Procura petroniana si basano su un appunto manoscritto in possesso di Gelli al momento del suo arresto a Ginevra il 13 settembre 1982, nel quale, sotto l'indicazione del numero di conto corrente del «Venerabile» all'Unione Banche Svizzere (525779-.Xs) e la dizione «Bologna», sono riassunte varie operazioni finanziarie avvenute tra il 1979 e il 1980 a favore di riceventi con nome in codice. Una di esse, è destinata a un fantomatico «Relaz. Zaff.», personaggio oppure organizzazione che, nell'ottobre 1980, avrebbe ricevuto 850.000 dollari attraverso 5 bonifici. Non è la prima volta che questo documento finisce al centro di un'inchiesta giudiziaria, ma stavolta, la Procura di Bologna suppone che lo «Zaff» del manoscritto sia il criptonimo di D'Amato, dominus dell'Uar. La tesi è che egli, appassionato di gastronomia - tanto da essere stato incaricato, nel 1977, dal settimanale di sinistra L'Espresso, di curare una rubrica di cucina, firmata con pseudonimi, e di dirigere la Guida dei ristoranti italiani - sia stato il destinatario degli emolumenti. L'identificazione di «Zaff.» in D'Amato si legherebbe al fatto che colui che amava essere soprannominato «lo Sbirro», avesse esaltato le proprietà dello zafferano in due righe di un suo libro del 1984, Menu e dossier. Un altro indizio da decifrare è il versamento di 506.000 dollari, somma che corrisponde a quella del quarto bonifico a favore di «Zaff.», su un conto Ubs di Ginevra chiamato «Federico», forse provenienti dalla filiale peruviana del Banco Ambrosiano, eseguito da tale avvocato Michel De Gorsky, amministratore della società «Oggicane», che sarebbe riconducibile a D'Amato. Questi fondi furono utilizzati nel novembre 1979 per l'acquisto di un appartamento a Parigi che fu in effetti, prima di essere venduto, di proprietà dello stesso ex capo dell'Uar. In attesa di conoscere maggiori dettagli sull'inchiesta dei pm bolognesi, lo storico Giacomo Pacini, che nel libro uscito per Einaudi La spia intoccabile. Federico Umberto D'Amato e l'Ufficio affari riservati, parte da questi elementi per ricostruire cupi retroscena degli anni degli opposti estremismi. Tuttavia sostiene che la tesi accusatoria che vorrebbe D'Amato - nel 1980 direttore della polizia di frontiera - complice di Gelli nel finanziamento di cellule eversive neofasciste mediante fonti distratti dal Banco Ambrosiano e confluiti nelle banche di Ortolani, appare «estrema», «fino ai limiti della credibilità». D'altra parte, un altro nodo, archiviato dalla Procura di Bologna, resta insoluto. È quello riconducibile alla «pista palestinese», in base al quale l'attentato del 2 agosto sarebbe stato un atto di rappresaglia del Fronte nazionale di liberazione della Palestina (Fnlp), per violazione da parte delle autorità italiane del «lodo Moro», accordo di non belligeranza con i palestinesi accettato dallo statista Dc, venuto meno con l'arresto novembre 1979 a Ortona (Chieti) di alcuni militanti di Autonomia operaia che trasportavano missili terra-aria Strela sovietici destinati ai palestinesi e, a Bologna, di Abu Anzeh Saleh, garante del Fnlp. Ma, riguardo l'incriminazione di D'Amato, che rapporti intratteneva con Gelli? E qual era la sua storia? Pacini, paziente esploratore d'archivi, ne ricostruisce, con dovizia di riferimenti documentali, biografia e attività. Quando, nel luglio 1981, il ministro dell'Interno Virginio Rognoni chiese all'alto funzionario spiegazioni sul perché il suo nome apparisse tra gli iscritti alla P2, egli rispose di non aver avuto nulla a che fare con le attività della loggia. E «che era entrato a farne parte solo per svolgere quei compiti di tipo informativo da sempre chiestigli dal ministero», gli stessi rapporti «di quelli che aveva avuto con militanti dell'estrema sinistra, dell'estrema destra, del Pci, del Msi, del terrorismo palestinese o con agenti dei servizi sovietici». In un'intervista, definì Gelli «un cretino» che diceva «tremende banalità», pur sapendo essere «persuasivo, rassicurante», tanto che potenti, si trattasse di «un presidente del Consiglio pericolante () o un direttore di giornale» che temevano di essere sostituiti, si rivolgevano a lui nella suite all'hotel Excelsior di Roma, ma il suo scopo «non era politico, ma economico. Perché mai avrebbe dovuto sovvertire le istituzioni? Ideare un golpe? () Lui stava benissimo così, intrallazzando, facendo soldi a palate». Federico Umberto D'Amato nacque solo per una coincidenza a Marsiglia il 4 giugno 1919. Era figlio di un commissario di polizia napoletano di origini aristocratiche e di un'operaia piemontese, attivista nel sindacalismo cattolico. Si laureò in giurisprudenza a Roma nel 1942 e i suoi primi legami con l'intelligence si ebbero dopo l'8 settembre 1943 quando, schieratosi con gli alleati, dopo essere stato iscritto al Partito fascista, l'agente segreto statunitense James Jesus Angleton lo reclutò per recuperare per l'«Offices of secret services», antesignano della Cia, nel territorio della Repubblica di Salò, gli archivi dell'Ovra, la polizia politica di Mussolini. Agli Affari riservati entrò nel 1960 e qui rimase, pur con qualche ostacolo, negli anni successivi, sempre in stretta collaborazione con la Cia, fino a diventarne direttore dal 1971 all'anno in cui esso fu sciolto, il 1974. In quel periodo l'Uar era una struttura piramidale che raccoglieva, attraverso infiltrati e collaboratori, informazioni si uomini politici (tra i quali Andreotti, Fanfani, Donat Cattin, Cossiga), sindacalisti, giornalisti (come Biagi e Bocca) e movimenti extra-parlamentari. Alla base della piramide operavano squadre periferiche di ufficiali di pubblica sicurezza svincolati dalle questure e attivi in anonimi uffici privati. A discrezione di D'Amato era la «valutazione politica» dei rapporti pervenuti e la decisione di quali elementi trasferire alla magistratura e al ministro e quali no. Per questo egli, almeno fino al 1984, quando andò in pensione, «detenne un potere così vasto», si sottolinea nel saggio di Pacini, «da condizionare perfino le scelte dei vari ministri dell'Interno in carica». Anche Tina Anselmi, implacabile accusatrice della P2, in una puntata del dicembre 1989 di La notte della Repubblica di Zavoli, lo elogiò, sostenendo che «negli apparati di sicurezza ci sarebbero voluti più uomini della sua capacità e intelligenza». D'altra parte, l'ex-capitano del Sid Antonio La Bruna, dichiarò ai giudici Mastelloni e Salvini che l'organizzazione di estrema destra Avanguardia nazionale, «era pilotata dall'Uar retto dal D'Amato» e altri verbali riferiscono che il suo leader, Stefano Delle Chiaie, implicato nelle indagini su piazza Fontana (1969), frequentava con familiarità gli ambienti dell'Uar e l'ufficio di D'Amato. Tra rififi nei servizi segreti e catene di figure messe a tacere per sempre, in una sciarada di specchi e rimbalzi di responsabilità, di Federico Umberto D'Amato resta una sibillina intervista nella quale, mentre esibiva i manichini meccanici che collezionava e di cui amava definirsi il jongleur, il manovratore, sosteneva che «una strage, il più vile attentato che si possa fare, è anche il più facile, non lascia tracce» e, con tono tenebroso, «che le stragi possono essere fatte un po' da tutti». Parti del suo archivio segreto ancora non si sa dove siano. Nel suo testamento, «somme di denaro di scarsa entità», rivela l'autore del libro, «compaiono, insieme alla titolarità di due appartamenti a Roma, come lascito ad Antonella Gallo, deceduta, compagna di D'Amato dopo la morte della prima moglie Ida Melani (il funzionario non aveva figli, ndr)». Negli anni Sessanta fondò il club di Berna, reunion dei servizi di sicurezza europei, talvolta con partecipazione della Cia, ancor oggi esistente. In vita non fu mai processato. Dopo la sua morte, nel quartier generale Nato a Bruxelles, gli fu intitolata una delle sale più prestigiose, riconoscimento mai ottenuto da alcun agente dell'intelligence italiana.
Esclusivo: le carte inedite sulla Strage di Bologna. Gli agenti di influenza americani e l'alleanza tra Gelli, neofascisti e Sismi. "Il virus nero": elementi inediti, documenti e interviste esclusive sull'organizzazione dell'attentato. Report Rai 26 luglio 2020 ore 11:36 DI Giorgio Mottola e Andrea Palladino. La destra neofascista finanziata e telecomandata dalla loggia P2. Le nuove carte sull’attentato alla stazione di Bologna potrebbero chiarire definitivamente la storia delle stragi italiane. Dopo anni di bugie, errori e depistaggi, per la prima volta la Procura generale di Bologna è riuscita a ricostruire il flusso di soldi in nero partito da Licio Gelli e servito a finanziare, secondo le accuse, omicidi, attentati e bombe dei terroristi neofascisti tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80. La traccia dei finanziamenti è stata ricostruita grazie a un documento, trovato addosso a Licio Gelli al momento del suo arresto a Ginevra nel 1981. Il foglio riporta sul frontespizio la scritta “Bologna 525779 –X.S.” ed elenca nomi, date e importi di una lunga serie di transazioni. Per anni, chi ha condotto le indagini ha omesso particolari fondamentali del documento sequestrato a Gelli, fino a quando, nel 2018, Procura generale e Guardia di finanza di Bologna sono ripartiti da zero. Hanno seguito le tracce di quei soldi, decrittando i nomi cifrati e ricostruendo il giro di quasi 15 milioni di dollari che Gelli ha iniziato a movimentare su conti offshore e a distribuire in contanti pochi giorni prima della strage di Bologna. La figura chiave è quella di Marco Ceruti: imprenditore fiorentino, proprietario di ristoranti lusso, usato da Gelli per le sue operazioni finanziarie opache in Svizzera. È a lui che il Venerabile versa 5 milioni di dollari. Di cui 4 sui conti “Bukada” e “Tortuga” e 1 milione, scrive Gelli in un appunto, “consegnato in contanti dal 20-7-80 al 30-7-80”. Stando a quanto rivelato lo scorso aprile in esclusiva a Report da Carlo Calvi, figlio dell’ex presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, una parte dei soldi sarebbe poi passata dalle mani di Ceruti a una serie di antiquari italiani attivi a Londra. “Il ruolo degli antiquari italiani a Londra era fondamentale per Gelli – spiega Carlo Calvi –, i soldi che gli antiquari ricevevano dalla P2 sono serviti a finanziare e sostenere la latitanza dei neofascisti fuggiti a Londra subito dopo la strage di Bologna”. Gli stessi latitanti che godranno per oltre trent’anni della protezione del governo britannico. È invece al governo italiano che si rivolge direttamente Licio Gelli quando sta per essere interrogato nel 1987 dalla Procura di Milano. Tra i temi d’interesse dei magistrati doveva esserci anche il suo ruolo nella strage di Bologna. Qualche giorno prima dell’interrogatorio, il suo avvocato, Fabio Dean, va a incontrare il capo della polizia Vincenzo Parisi, che in una nota scritta sintetizza i contenuti della conversazione. Nel documento, indirizzato al ministro dell’Interno Amintore Fanfani, Parisi racconta che il legale di Gelli “ha riferito di aver contattato il ministro di Grazia e giustizia (Giuliano Vassalli, ndr), il vicesegretario del Psi Martelli ed esponenti della Dc e di altri partiti”. Durante la conversazione, Dean fa delle precise minacce: “Se la vicenda viene esasperata – scrive Parisi, riportando le parole dell’avvocato – e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha li tirerà fuori tutti”. Qualche settimana dopo, quando Licio Gelli verrà interrogato, non dovrà rispondere a nemmeno una domanda su Bologna. Solo quarant’anni dopo, grazie all’analisi dei flussi finanziari, sono dunque emersi i rapporti tra Gelli e i membri dei Nar, condannati per l’attentato alla stazione. Si tratterebbe di un’alleanza, quella tra massoneria deviata e neofascisti, che vede un terzo elemento, il Sismi del piduista Giuseppe Santovito. Su questo crocevia c’è una nuova testimonianza di un generale dei servizi militari, da tempo in pensione. A lui i magistrati della Procura generale di Bologna hanno posto la domanda chiave, che riporta ai depistaggi iniziati immediatamente dopo la strage: “Perché il servizio copriva i giovani attentatori dei Nar?”. La risposta è una porta aperta sul possibile movente: “L’interesse della P2 era quello di favorire la stabilizzazione del sistema democratico italiano attraverso le operazioni di destabilizzazione del sistema stesso che provenivano dagli attentati terroristici della destra e della sinistra”. I magistrati vanno oltre, chiedendo notizie sul “documento Westmoreland”, un “field manual” delle forze statunitensi elaborato all’inizio degli anni 60 sulla possibile reazione alleata di fronte alla possibilità dell’arrivo al governo di una forza comunista in un Paese del blocco occidentale. L’ufficiale del Sismi conferma ai magistrati bolognesi l’esistenza e l’autenticità del documento, già studiato nei processi sull’organizzazione Gladio, ricordando il sequestro di una copia del manuale alla figlia di Gelli. I rapporti tra l’intelligence vicina a Gelli e gli Usa passavano anche attraverso gli “agenti di influenza”, colonne portanti della guerra psicologica e di informazione. Uno di questi, secondo la testimonianza dell’ex Sismi, era Michael Ledeen, storico statunitense a lungo consulente dei servizi militari italiani: “In occasione dell’operazione ‘terrore sui treni’ (l’attività di depistaggio sulla strage di Bologna, ndr) vidi scendere dall’aereo dei servizi Francesco Pazienza, Santovito (ufficiale piduista ai vertici del Sismi fino al 1981, ndr) e Michael Ledeen (…) erano stati negli Usa”. Secondo la testimonianza in mano avevano “le stesse riviste trovate all’interno della famosa valigia del treno Taranto-Milano del 13 gennaio 1981, su cui fu compiuto il depistaggio”. L’episodio portò alla condanna di Gelli, Pazienza e Belmonte.
Lo storico statunitense non era l’unico collegamento con il mondo Usa in contatto con il Sismi nei primi anni 80, quando il servizio militare era controllato dalla P2: “Ho visto spesso ai servizi un altro ‘agente di influenza’ – racconta l’ex ufficiale – che era Edward Luttwach”. Secondo la testimonianza l’economista Usa (esponente dell’ala repubblicana più oltranzista) avrebbe diretto, su invito di Santovito, una “esercitazione informativa, che durò una mattinata e fu una ‘banalità’”, ricevendo un compenso di 150 milioni di lire. Erano i primissimi anni 80, l’epoca dei servizi piduisti.
Due Agosto, la Corte d'Assise: fu strage di Stato. Il contributo di Cavallini era chiaro anche 38 anni fa. La Repubblica il 9/1/2021. Le motivazioni della sentenza che ha condannato all'ergastolo l'ex Nar: "Pienamente consapevole dei disegni eversivi". "Il dilemma" se la strage di Bologna sia una strage “comune” o “politica” "non esiste", in radice, "perché si è trattato di una strage politica, o, più esattamente di una strage di Stato" e "Gilberto Cavallini è colpevole anche nella sola ipotesi “minimale” del contributo logistico e agevolatore dato dall'ospitalità da lui concessa al duo Mambro-Fioravanti". Lo scrive la Corte di assise di Bologna motivando la sentenza che un anno fa ha condannato all'ergastolo il quarto Nar per concorso nella Strage di Bologna. Chiedendosi come mai si sia arrivati al rinvio a giudizio di Cavallini per strage solo nel 2017, i giudici sottolineano: che "il contributo agevolatore fosse integrato anche dalla semplice ospitalità concessa all'attentatore" era "di immediata percezione anche per il profano. Ben 38 anni fa".
Che a 37 anni di distanza l'imputazione "sia di nuovo “implosa” in un'ottica minimalista e “spontaneista” che riconduce tutto alla dimensione autarchica di 4 amici al bar che volevano cambiare il mondo (con le bombe, ma anche con il solito corteo di coperture e depistaggi) lascia perplessi, anche perché non si sa attraverso quale percorso istruttorio e/o processuale si sia approdati a ciò", insiste la Corte. Gilberto Cavallini "era tutt'altro che uno “spontaneista” confinato in una cellula terroristica autonoma. Nonostante la sua maniacale riservatezza il suo nome è comparso in molti scenari, direttamente e/o incidentalmente", scrive la Corte. "Risulta chiaro che Cavallini, con i suoi 'collegamenti', era pienamente consapevole dei disegni eversivi che coinvolgevano il terrorismo e le istituzioni deviate", sottolinea ancora la Corte.
La Corte denuncia Fioravanti, Ciavardini, Mori. In conclusione di sentenza la Corte indica una serie di denunce per reati commessi nel corso del dibattimento, dalla falsa testimonianza finalizzata a depistare un processo in materia di strage, alla calunnia. Tra le persone per cui la Procura dovrà fare indagini c'è l'altro ex Nar Valerio Fioravanti, per falsa testimonianza e calunnia nei confronti dell'ex pm Claudio Nunziata, dell'allora capitano Giampaolo Ganzer che ha accusato di tentato omicidio ai suoi danni, e dell'allora direttore del Dap Nicolò Amato, peraltro padre dell'attuale procuratore capo di Bologna. Di falsa testimonianza risponderanno anche Luigi Ciavardini e l'ex compagna di Cavallini Flavia Sbrojavacca. Ma anche Elena Venditti, Giovanna Cogolli, Stefano Sparti, Roberto Romano, Pierluigi Scarano, Fabrizio Zani. Il generale Mario Mori di falsa testimonianza e reticenza, così come per Valerio Vinciguerra gli atti erano già stati trasmessi in Procura per valutarne la reticenza.
Il mistero dei resti di Maria Fresu. La Corte fa luce anche sul giallo dei resti di Maria Fresu, una delle 85 vittime alla stazione. "Non era possibile la dematerializzazione del corpo di Maria Fresu", ma un "dato incontestabile c'è: Maria Fresu era lì. Di lei sono stati trovati una borsa, una valigia, una giacchetta, i documenti". E quanto scrive la Corte d'Assise di Bologna, a proposito dei resti attribuiti per quattro decenni alla 24enne di Montespertoli (Firenze), deceduta nello scoppio insieme alla figlia Angela, la vittima più piccola della strage, e che invece una nuova perizia ha stabilito non appartenere a lei, riscontrando tre profili di Dna diversi. "L'unica spiegazione razionalmente formulabile è che la Fresu, per la sua particolare posizione rispetto all'onda di sovrappressione" rilasciata dalla bomba, "ne sia stata travolta in pieno - sostiene la Corte - e che si stata altresì investita da massicci crolli di strutture, con l'effetto che il suo corpo sia stato smembrato e frammentato in maniera tale da non rendere più assimilabili i suoi resti, che possono essere andati a finire in contenitori residuali, poi dispersi". Resti umani sono stati infatti ritrovati nell'ex deposito militare dei Prati di Caprara dall'ingegner Danilo Coppe, incaricato della perizia esplosivistica, a 38 anni di distanza, ricordano i giudici.
Due agosto, i giudici: "strage di Stato". Bolognesi: "Avevamo ragione noi". La Repubblica l'8 gennaio 2021. "Quello che abbiamo sostenuto per anni, ora per la prima volta è scritto nero su bianco anche in una sentenza". Il presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980, Paolo Bolognesi, non ha ancora letto l'intero provvedimento. Ma quello che già affiora dalle 2.118 pagine dalle motivazioni della sentenza del presidente della Corte d'Assise, Michele Leoni, per la condanna all'ergastolo di Gilberto Cavallini dimostra che l'Associazione aveva colto nel segno.
Bolognesi, ha già visto le motivazioni della condanna all'ergastolo di Gilberto Cavallini?
"Solo qualche stralcio, ma mi pare di capire che nei fatti accoglie la nostra tesi. Tra l'altro è la stessa che abbiamo scritto nel manifesto per il 40ennale del Due agosto: "Una strage fascista, finanziata dalla P2 e coperta dai servizi segreti". Mi pare che anche i giudici vadano in quella direzione".
La Corte d'Assise sostiene che si sia trattato di una strage di Stato.
"Di certo c'erano di mezzo i servizi segreti e non parlo di figure di secondo piano, ma dei vertici degli apparati dello Stato, legati a doppio filo con Licio Gelli e la P2. Gente che ha fatto carriera grazie alla politica che li ha nominati nei gangli vitali del nostro Paese".
Bisognerebbe indagare anche sul ruolo della politica?
"Non lo so, di certo però per i politici servirebbe un processo che li chiamasse ad assumersi le loro responsabilità. Purtroppo nel nostro Paese quasi mai chi ha responsabilità politiche viene chiamato a risponderne. Certo è che la politica, o almeno una parte di essa, è moralmente responsabile".
L'altro elemento è che i Nar non vengono più definiti spontaneisti.
"Questa è un'altra barzelletta che viene smontata. Lo dico dai tempi di Cossiga che quella dello spontaneismo è una tesi ridicola. I Nar erano killer prezzolati di un sistema ben più ampio".
Cosa si aspetta ora?
"Mi aspetto un secondo grado contro Cavallini che confermi il primo. E spero che presto si possa iniziare a entrare nel cuore del processo sui mandanti. Infine mi aspetto che i furbetti che sistematicamente parlano di piste alternative la smettano di sostenere tesi strumentali".
Quei dubbi legittimi. Strage di Bologna, altro che pista fascista: quella palestinese fu indicata anche dal giudice Priore. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Ho letto l’articolo di David Romoli sulla condanna di Gilberto Cavallini per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Bologna è la mia città. In quel giorno e nei giorni seguenti io ero presente e attivo poiché svolgevo il ruolo di segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna. La mia esperienza sindacale venne scandita da tanti episodi della strategia del terrore. Negli undici anni trascorsi nella mia regione ne capitarono di tutti i colori: la strage del treno Italicus nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974; le sommosse del 1977 dopo l’uccisione dello studente Francesco Lorusso (nel settembre Bologna fu persino teatro di una manifestazione internazionale contro la repressione); la strage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 e, per finire con le bombe, l’attentato al Rapido 904, la c.d. strage di Natale del 23 dicembre 1984. Non vorrei dimenticare il Fokker dell’Itavia esploso sul cielo di Ustica sempre in quel maledetto 1980. Ma in quel caso – doloroso – funzionò il depistaggio e la strage venne imputata ad un “cedimento strutturale” del velivolo. Ovviamente ero in servizio, con altri incarichi, anche il 12 dicembre del 1969 quando vi fu l’attentato di Piazza Fontana e il 28 maggio del 1974 quando l’esplosivo colpì una manifestazione sindacale in Piazza della Loggia, a Brescia. Non mi sono perso le stragi di Capaci e di via D’Amelio a Palermo, nel 1992, né, anche se ormai ero in uscita, il “bombardamento” attribuito a Cosa Nostra nel 1993. Torniamo, però, alla strage di Bologna di cui in un’ala della stazione – quella esplosa – sono evidenti i segni della ricostruzione, mentre un orologio di altri tempi segna le 10.25, l’ora della deflagrazione; il medesimo orario che è rimasto al centro delle giornate annuali della memoria. Anni or sono, trovai singolare che la Procura di Bologna, il giorno precedente la ricorrenza della strage del 2 agosto 1980 avesse chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla pista palestinese suggerita nelle conclusioni della commissione Mitrokhin. Per quella strage erano già stati condannati, in via definitiva, tre militanti dei Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini, i quali, benché autori di delitti e reati di sangue, per quell’attentato (85 morti e più di 200 feriti) si sono sempre dichiarati innocenti. La cosa che non sono mai riuscito a spiegarmi è la seguente: è provato che la notte tra l’1 e il 2 agosto pernottò in un albergo bolognese un terrorista bombarolo tedesco, Thomas Kram, che insieme a Margot Christa Froelic, anch’essa indagata, faceva parte delle Cellule rivoluzionarie, un gruppo armato responsabile di decine di attentati tra il 1973 e il 1995. La presenza a Bologna di Kram, nella sera precedente l’attentato, fu definita nell’ordinanza degli inquirenti “incomprensibile” e “ingiustificata” tale da alimentare “un grumo di sospetto”. Eppure secondo la Procura non era provato il suo coinvolgimento nella strage. Forse significava che non l’avevano visto mettere la valigia con la bomba nella sala d’aspetto di seconda classe? Al contrario, furono per caso visti Giusva Fioravanti e la Mambro aggirarsi quella mattina in piazza Medaglie d’oro? Fu forse provato che i due e il loro complice fossero a Bologna la notte del 1° agosto? Eppure alla magistratura, di solito, i teoremi piacciono. Quello della pista palestinese sarebbe stato un teorema perfetto. Si partiva dal c.d. lodo Moro, in base al quale l’Italia diventò una zona franca per i terroristi palestinesi a patto che evitassero di commettere attentati da noi. Ma qualche cosa andò storto. Venne arrestato uno dei loro caporioni sull’autostrada con un missile in auto. La frittata era fatta: il terrorista fu condannato e fu respinta la richiesta di messa in libertà presentata dai suoi legali alla fine di maggio del 1980. Di qui la rappresaglia. Gli ingredienti ci sarebbero stati tutti: la trattativa segreta, il depistaggio dei servizi (potevano forse svelare un patto scellerato?), i mandanti. Ma tutto ciò non fu ritenuto sufficiente, neppure per proseguire le indagini. Si affermò persino che dell’esistenza di un lodo Moro – di cui si è parlato anche in tutti i bar Sport della Penisola – non esistevano le prove, come se un accordo siffatto potesse essere depositato in copia dal notaio. Così maturò la richiesta di archiviazione. Poi avvenne ciò che per me rappresentò un colpo di scena: la pubblicazione del saggio I segreti di Bologna. La verità sull’atto terroristico più grave della storia italiana, scritto da Rosario Priore con Valerio Cutonilli ed edito da Chiarelettere (2018). Rosario Priore è stato uno dei magistrati più impegnati nelle inchieste sui più gravi episodi di terrorismo: da Ustica, al caso Moro, all’attentato a Papa Giovanni Paolo II. Priore, nel saggio, ha ricostruito gli antefatti e lo scenario della strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna, attribuendone – apertis verbis – la responsabilità all’estremismo palestinese, e accreditando la versione dei fatti (quella pista) che era stata archiviata. Rosario Priore ricordava pure (svelando un altro possibile movente) che nella stessa mattina del 2 agosto 1980, mentre saltava in aria un’intera ala della Stazione di Bologna, il sottosegretario agli Esteri del Governo Cossiga, Giuseppe Zamberletti, sottoscriveva a Malta un trattato ritenuto ostile dalla Libia di Gheddafi. Per chi scrive, dopo quella lettura, i dubbi divennero ancor più giustificati e legittimi: un ex magistrato della competenza, dell’esperienza e della serietà di Priore (il quale, allo scopo di accertare i fatti, ottenne persino il recupero – da fondali profondi – della carcassa dell’aereo esploso/caduto/abbattuto in mare ad Ustica) non avrebbe messo la faccia sulla denuncia dettagliata e documentata di un probabile depistaggio in direzione opposta a quella delle indagini ufficiali. Come se i c.d. servizi deviati – dei quali si è tanto parlato – avessero voluto orientare le indagini il più lontano possibile da quella pista che non ha mai convinto gli inquirenti. In fondo una “strage fascista” era “politicamente corretta” e non dava adito a conseguenze di carattere internazionale in un nido di vipere come il Medio Oriente.
Le motivazioni della condanna di Cavallini. Strage di Bologna, capolinea di logica e diritto: zero prove ma è colpa di Cavallini. David Romoli su Il Riformista il 12 Gennaio 2021. Oltre 2mila pagine: come tutto quel che riguarda la strage di Bologna e in particolare le acrobazie volte a giustificare una condanna improbabile, per studiare le motivazioni della sentenza di condanna per la strage a carico di Gilberto Cavallini ci vorranno tempo, pazienza e stomaco forte. La coerenza e la logica non hanno mai rappresentato il pezzo forte di quelle sentenze e stavolta, almeno a una prima ricognizione, sembra che le cose siano anche più scombiccherate del solito. Valga per tutti l’esempio più rilevante. Nel processo un fatto nuovo si era prodotto, a scapito delle intenzioni della Corte. L’analisi del dna dei resti attribuiti alla vittima Maria Fresu, chiesto inutilmente invano per decenni, era stato disposto non per chiarire se quel “lembo facciale” rispondesse davvero al codice genetico della Fresu ma per definire meglio il tipo di esplosivo adoperato. Era invece risultato che il “lembo” non poteva essere ricondotto alla giovane sarda, aprendo così due interrogativi: che fine ha fatto la ragazza in viaggio con due amiche (una delle quali sopravvissuta) e la figlia, o almeno la sua salma, e a chi appartengono i resti sbrigativamente attribuiti per quarant’anni proprio alla Fresu. Domanda particolarmente rilevante dal momento che nello stesso processo è stata accertato il soggiorno in un hotel di fronte alla stazione, nella notte del 2 agosto, di due donne fornite di documenti falsi e riconducibili al gruppo del terrorista Carlos. Per gli estensori della sentenza non c’è nessun problema. La Fresu è stata polverizzata dall’esplosione, anche se si trovava con le amiche e la figlia distante dal punto della deflagrazione, tanto che le amiche e la figlia sono state uccise o ferite dal crollo del tetto della sala d’aspetto di seconda classe e non dall’esplosione: «L’unica spiegazione razionalmente formulabile è che la Fresu, per la sua particolare posizione rispetto all’onda di sovrappressione ne sia stata travolta in pieno e che sia stata altresì investita da massicci crolli di strutture, con l’effetto che il suo corpo sia stato smembrato e frammentato in maniera tale da non rendere più assimilabili i suoi resti, che possono essere andati a finire in contenitori residuali, poi dispersi». Ma anche volendo accettare l’inspiegabile effetto opposto dello scoppio su persone che si trovavano vicine nello stesso posto: una polverizzata, le altre neppur ferite dall’esplosivo, resterebbe comunque il punto interrogativo su quei resti che di Maria Fresu, almeno questo è certo e ammesso anche dalla Corte, non sono. Il particolare non è ritenuto rilevante e in punta di diritto il disinteresse è anche spiegabile: il processo doveva solo verificare le eventuali responsabilità di Cavallini, non riaprire le indagini sulla strage dal momento che una verità processuale già esiste. Dunque, una volta messa da parte la necessità di scoprire la verità, perché perdere tempo con una salma sconosciuta e che in tutta evidenza si trovava vicinissima alla bomba? Lo stesso processo contro Cavallini, peraltro, stando alle motivazioni è una pura formalità. Il milanese dei Nar infatti va considerato colpevole comunque, sulla base di quel che era già accertato, e cioè l’aver offerto ospitalità a Valerio Fioravanti e Francesca Mambro e questo “era di immediata percezione anche per il profano. Ben 28 anni fa”. Insomma più che un vero processo basta correggere l’errore commesso allora. La colpevolezza era provata a priori. Anche le motivazioni della mattanza e dunque l’identità dei mandanti che la commissionarono non sembra essere un punto interrogativo, almeno sul piano storico se non su quello della responsabilità individuale. È stato il Deep State, cioè «un insieme di organismi militari, economici, politici, associativi, più o meno legali, dalla contiguità più o meno sommersa, e trasversali, che condizionano in modo occulto le strategie di potere, servendosi degli organi rappresentativi come schermo». L’enormità di un’affermazione del genere non dovrebbe sfuggire: dà per scontata, senza bisogno di provarla, l’esistenza di una Spectre che esercitava il potere reale in una lunga e cruciale fase della storia della Repubblica. Del resto l’opinione in libertà pare imperare ovunque. La spiegazione della data scelta per la strage, ad esempio, solo su questo si fonda: dal momento che Cavallini “aveva sviluppato una vera idolatria per Hitler” avrebbe scelto il giorno della morte del presidente Hindenburg, dopo la quale Hitler sommò il titolo di Cancelliere del Reich e quello di presidente della Repubblica. Sin qui però la sentenza del processo Cavallini non si discosta da quelle che avevano portato alle condanne di Fioravanti, Mambro e Ciavardini, nel modo di vagliare fatti, circostanze, prove e testimonianze. Un elemento nuovo però stavolta c’è e di estrema gravità. Dodici testimoni sono stati denunciati con diverse imputazione: falsa testimonianza, calunnia, reticenza. Solo Valerio Fioravanti ha collezionato tre denunce, per un totale di 22 denunce a carico dei 12 testimoni. Non è la prima volta che qualcuno viene denunciato per un presunto crimine commesso dal banco degli imputati. Non era mai capitato che praticamente tutti i principali testimoni della difesa e gli stessi imputati fossero denunciati. Con punte di assurdità per cui persino ribadire la propria versione dei fatti può diventare oggetto di denuncia. Fioravanti, poi, è accusato anche di aver calunniato l’ex direttore dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato, padre dell’attuale procuratore di Bologna, e il capitano Gianpaolo Ganzer, per aver affermato che dopo l’arresto dell’esponente dei Nar ferito gravemente, avrebbe cercato di impedire che fosse curato (particolare del resto facilmente verificabile: basta convocare il medico che curò e salvò Fioravanti nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1981). Il problema però non è questa o quello specifico caso. È che una simile ondata di denunce si configura come palese intimidazione dei testimoni, e quando si intimidiscono i testimoni della difesa o si denuncia un imputato per aver ribadito la sua versione dei fatti dello Stato di diritto rimane ben poco. O forse non ne rimane nulla.
Mirella Serri per “la Stampa” l'1 febbraio 2021. Il suo nome in codice era Zaff: evocava lo zafferano, ingrediente molto apprezzato in cucina da Federico Umberto D' Amato, gastronomo per diletto, brillantissimo dirigente e poi, dal 1971 al 1974, responsabile dell' Uar, l' Ufficio Affari Riservati del ministero dell' Interno. D' Amato, nato a Marsiglia nel 1919 e morto a Roma nel '96, sosteneva che la sua competenza culinaria era nata insieme alla sua attività nell' intelligence: quale posto più sicuro di un'appartata saletta di un ristorante per far sbottonare i taciturni funzionari sovietici, per arruolare delatori o per trattare con gli agenti mediorientali? È stato fino a oggi assai poco noto il profilo di uno dei personaggi più influenti d'Italia, a capo del servizio segreto civile, il cinico, mellifluo e duro come la pietra D'Amato. Proprio sui traffici del dirigente-spia, a novembre dello scorso anno, sono state riaperte le indagini in quanto finanziatore e organizzatore della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Un documento ritrovato di Licio Gelli testimonia di versamenti milionari avvenuti a favore di Zaff che fin dal 1979 si sarebbe incaricato di dare il via all' operazione in cui furono uccise 85 persone e 200 rimasero ferite. Ma chi fu veramente D'Amato? A rivelarci le sue oscure trame è il documentatissimo volume dello studioso Giacomo Pacini La spia intoccabile. Federico Umberto D' Amato e l' Ufficio Affari Riservati (in uscita per Einaudi, pp. 268, 28). La vita dell' agente segreto è come un filo che si dipana senza mai esaurirsi: fu sicuramente un genio del male, ma le sue spericolate operazioni spionistiche furono connotate da una persistente doppiezza che gli fecero conquistare una grande stima a destra, a sinistra e anche a livello internazionale: nel quartier generale di Bruxelles della Nato gli è stata intitolata una delle sale più prestigiose. Lo 007 contribuì a rendere l'Uar un «organismo responsabile di una delle più spregiudicate e capillari opere di infiltrazione all' interno di partiti politici, sindacati e movimenti extraparlamentari», spiega Pacini. «Si trattò di una sorta di polizia parallela che agiva in modo del tutto autonomo dalle normali forze di pubblica sicurezza. Era un vero e proprio servizio segreto, anche se non era giuridicamente riconosciuto come tale, e passava alla magistratura solo quello che voleva». D'Amato, insomma, per anni si mosse al di fuori di ogni legge e di ogni regola e fu in grado «di condizionare perfino le scelte politiche dei vari ministri dell' Interno in carica». Era lui che decideva cosa rendere noto e cosa, eventualmente, tenere nascosto. Se il funzionario, per esempio, avesse girato tempestivamente alla magistratura tutte le informazioni a sua disposizione avrebbe consentito di fare chiarezza su alcune delle più tragiche vicende della storia della repubblica (da piazza Fontana alla strage di piazza della Loggia). Vicecommissario di pubblica sicurezza dopo l' 8 settembre 1943, D' Amato iniziò la sua prestigiosa carriera collaborando con James Angleton, capo dell' Oss (Office of Strategic Services), il servizio padre della Cia. «Mi feci paracadutare nei pressi di Salò e presi contatto con Guido Leto (ex capo dell' Ovra)», ricordò D' Amato, «e con altri elementi della polizia nella Rsi. Proposi loro un'intesa ed essi accettarono». I rapporti con gli esponenti della polizia politica fascista, che poi transitarono nei ranghi della pubblica sicurezza dell' Italia democratica, furono la sua palestra poiché tramite gli ex repubblichini ebbe tra le mani scottanti dossier che gli sarebbero stati successivamente utili come arma di ricatto. Fece imprigionare un numero consistente di nazisti e divenne l' uomo degli americani in Italia, membro del Club di Berna che riuniva le intelligence europee e Nato. A metà degli anni 60 l' uomo dell' intelligence, collaborando con il neofascista Stefano Delle Chiaie, fece affiggere sui muri di Roma e di altre città italiane un gran numero di manifesti inneggianti alla rivoluzione e a Mao Zedong per spaventare l' opinione pubblica moderata allontanandola dalla sinistra. D'Amato coltivò molti legami con il mondo della politica italiana: era amico del missino Giulio Caradonna ma anche del leader del Pci Giancarlo Pajetta. La penetrazione all' interno dei partiti di sinistra avvenne con il supporto di Margherita Ingargiola, che dal 1951 gli illustrò gli arcani del Pci e del Psi, e con l' ausilio dell' ex partigiana Marisa Musu del Comitato Centrale del Pci. Quest' ultima negò sempre il suo ruolo ma risulta dall' archivio dell' Uar che per decenni venne retribuita per gli spifferi con 150 mila lire mensili. Un insuccesso fu invece l' approccio con Adriano Sofri con cui D'Amato si vantava di aver consumato «paurose e notturne bottiglie di cognac». Sofri, invece, ha rivelato che, a metà anni Settanta, D'Amato gli propose un patto scellerato per cui, con la copertura del ministero dell' Interno, il gruppo di Lotta continua avrebbe dovuto eliminare i principali componenti dei Nuclei armati proletari (Nap). Il funzionario-spione faceva controllare molti politici, da Giulio Andreotti a Amintore Fanfani a Francesco Cossiga a Enrico Berlinguer e Achille Occhetto, ma anche molti giornalisti, da Eugenio Scalfari a Giorgio Bocca a Enzo Biagi. Nel mirino della sua sorveglianza finì pure l'editore Giangiacomo Feltrinelli, morto mentre cercava di sabotare un traliccio elettrico. Dopo la bomba esplosa a Milano in piazza Fontana, il 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell' Agricoltura, fu l'Uar che si occupò di seminare indizi per screditare e attribuire al ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli alcuni degli attentati avvenuti nei mesi precedenti sui treni: «Ancora oggi è oscuro il ruolo che l'Uar ebbe in quelle vicende di depistaggio», osserva Pacini. D'Amato tirava i fili della strategia della tensione? Dopo che un altro ordigno esplose a Brescia, in piazza della Loggia nel 1974, venne avviata l' epurazione nei servizi segreti considerati collusi con i criminali. Il dirigente, non a caso, fu destinato a un altro incarico. Si dedicò poi all' hobby della gastronomia: con lo pseudonimo di «Gault et Millau» nel 1977 divenne curatore della seguitissima rubrica di cucina dell' Espresso e gli venne affidata anche la direzione della Guida ai ristoranti italiani che rappresentò un punto di riferimento per la gastronomia italiana. Ma anche dopo l' uscita dall' Uar le manovre segrete di D' Amato non finirono, come dimostra il sospetto coinvolgimento nella strage di Bologna. C' è un nesso tra quel sangue versato e la montagna di quattrini ricevuta da Zaff/D' Amato da parte del faccendiere Gelli? La risposta forse arriverà dal processo che è in corso in questi giorni.